Coolclub.it n.55/56 (Luglio/Agosto 2009)

Page 1

anno VI numero 55/56 luglio/agosto 2009

MY FRIEND THE BIRD



Bizzarro come persone simili finiscano per incontrarsi, specie in luoghi come questi dove le distanze sono sussurri che veloci arrivano alle orecchie di chi ha voglia di ascoltare. Attratti da qualcosa che spiegare non sai ci si ritrova asserragliati intorno a un libro o a un disco. Chi ama i libri è un feticista, un voyeur, un bugiardo. Non può fare a meno della carta, è affamato, cannibale di altre vite, di personaggi, vorrebbe essere lui stesso libro, penna, colore … vorrebbe possedere la scrittura. Comincia così l’introduzione al primo libro della collana editoriale a cura di Coolclub.it: Coolibrì. Per chi ci conosce Coolibrì è il nostro numero estivo dedicato ai racconti. Storie piccole come il colibrì, l’uccello più piccolo del mondo, storie colorate come il suo piumaggio, veloci, agili, leggere che possano arrivare lontano. Fu proprio da un gioco di parole e di significati che anni fa ormai il colibrì incontrò coolclub e nacque coolibrì. Come tutto anche lui è cresciuto e si è fatto libro. È in giro Sono un ragazzo fortunato di Marco Montanaro edito da Lupo editore e realizzato con la collaborazione di Farm.

L’idea è di amplificare il suono delle parole, di dare volume e corpo agli appunti presi in questi anni di lavoro che già facevamo con il giornale. Crediamo che alcune persone meritano un libro è alcune storie meritano di diventarlo. Questo è solo l’inizio di una nuova avventura editoriale, una nuova propaggine della nostra pianta che si aggiunge al sito (è on line il nuovissimo www.coolclub.it), al giornale e all’annuario che speriamo continui a lungo. Per questo nel frattempo non ci fermiamo e ancora cerchiamo e pubblichiamo su queste pagine nuovi autori, nuove storie che forse diventeranno libri o resteranno semplicemente un racconto regalato. In questo numero speciale non troverete le rubriche di sempre, abbiamo messo da parte le recensioni, ridotto le interviste, tralasciato il cinema per dare spazio ai racconti. Vecchi amici, ma anche nuove firme, 17 racconti in tutto da leggere in questa lunga e calda estate. Non manca la nostra sezione dedicata agli appuntamenti mai così ricca come questo mese. A tutti buona lettura e buone vacanze. Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 6 Numero 55/56 luglio/agosto 2009 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo e Pierpaolo Lala Hanno collaborato a questo numero: Ennio Kitterlegnosky, Francesco Cortonesi, Don Pasta, Luca Romano, Nino G. D’Attis, Marco Chiffi, Margherita Macrì, Luisa Ruggio, Valentina Giusti, Roberto Conturso, Ilaria Preverin, Marco Montanaro, Elda Grazioso, Vito Lubelli, Alessio Viola, Rossano Astremo, Tony Rucola, José Luis Molteni Copertina di erik chilly Ringraziamo Manifatture Knos, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag.com, Radio Popolare Salento di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Musicaround. net. Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario Stampa Martano editrice - Lecce Chiuso in redazione aspettando ancora i condizionatori... Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: redazione@coolclub.it 0832303707

COOLIBRì

Io mio zio Geremia e Gesù Bambino 6 Senza le mandorle 8 Barcellona e paella 10 Il raccolto 12 Grande uomo con un buco in testa 14 Amsterdam 16 Quando mia madre decise di farsi guida e istruzioni per l’uso 18 Il bar degli appuntamenti mancati 20 Una pistola sul cuore 25 Time out! 26 Urlo di Infinito 30 Josephine 33 Numero 74 36 L’uomo che visse due volte 38 L’assessore 42 Scrivere versi guardando i gatti che dormono nell’anfiteatro romano di Lecce 45 Tunine 47

Eventi

Calendario 51 sommario 5


IO, MIO ZIO GEREMIA E GESÙ BAMBINO Ennio Kitterlegnosky

Stiamo correndo come due disperati. Sto per rigurgitare il cuore. Mio zio Geremia tiene stretto a sé Gesù Bambino e urla che non devo voltarmi. Ho i piedi che vanno a fuoco. La stradina che congiunge Corso dei Mille alla Statale è una ripida discesa di breccia bianca. Mio zio Geremia è convinto che sia una scorciatoia. Ad attenderci col motore acceso di una Fiat Palio diesel c’è Ghino Sbrenna. Secondo Ghino avremmo rosicchiato minuti preziosi passando per la scarpata di Vicolo San Barnaba. Ma lui è un povero ritardato. Una volta lo beccarono mentre si fotteva una capra. Lo rinchiusero in carcere, poi in un manicomio, poi ancora in carcere. Ora è di nuovo un libero cittadino. Ha ripreso a badare al gregge, tutto il giorno sulle pendici delle montagne. È tornato dalle sue amanti. Il fatto è che a noi serviva un palo. A me è venuto in mente solo Ghino. Lui in realtà si chiama Luigino, ma tutti lo chiamano Ghino a causa della sua difettosa pronuncia della lettera g. — Farete prima andando ghiù per la scarpata, — aveva consigliato due giorni fa, durante la riunione notturna nel mio garage per definire il piano nei minimi dettagli. Mio zio Geremia ha una falcata niente male. Da giovane è stato ala destra della Virtus Don Bosco. — Te la senti di prenderlo? — gli ho chiesto. Lui ha fatto sì con la testa. Poi mi fa: — Come è vestito Melchiorre? — E io che cazzo ne so, — gli ho detto. — Voglio qualcosa di comodo, sia chiaro. — Avrai una tunica, come tutti quelli che vengono dal deserto, — ho risposto. — Vorrà dire che per correre meglio te la tirerai su fino alle ginocchia. 6

Mio zio Geremia ha fatto cenno di sì. Definire il piano nei minimi dettagli. Mi viene da ridere. Le cose non vanno mai secondo i piani. Sbrenna due giorni fa mi ha chiesto come avrei fatto io, San Giuseppe, ad uscire dalla capanna col bimbo in braccio. — Semplice, — ho risposto. — Aspetterò che la banda finisca di suonare Tu scendi dalle stelle. A quel punto il sindaco prenderà la parola. Il pubblico si girerà verso il palco e non farà caso a me. Allora Ghino Sbrenna mi ha lanciato un’occhiata scettica. Tutto questo due giorni fa. Ora siamo qui, ad alzare polvere. A sfiancarci come dannati su questa mulattiera di sassi, con mezzo paese infuriato alle calcagna. San Giuseppe e Melchiorre che scappano. Io e mio zio Geremia. Melchiorre con in braccio il piccolo Cristo che vale oro. Mio zio Geremia che stringe forte il figlio dell’imprenditore edile De Angelis della De Angelis & Co. Ho sbagliato io, lo ammetto. Ho agito di fretta, preso dal panico. La banda aveva appena concluso, quando tra gli applausi della folla ho strappato il piccolo De Angelis dalla mangiatoia e sono corso verso i Re Magi. Melchiorre mi è venuto incontro gridandomi: — Non ora, non ora perdio! Un signore anziano mi ha additato dicendo: — Ma San Giuseppe che cazzo fa? Peccato. L’idea di prendere parte al presepe vivente di quest’anno non era male. Rapire il pargolo di un miliardario. Scappare. Chiedere il riscatto. Cambiare vita. È così che si fa. Semplice e pulito. È così che fanno nei film. Vaffanculo. Ora ho paura. Dove cazzo andiamo. Siamo ridicoli.


Sto per vomitare i polmoni. Sento le caviglie che cedono. Ma forse ce l’abbiamo fatta. Riesco a scorgere la fine del dirupo. Il sentiero bianco si snoda lungo la parete di roccia e si affaccia sull’asfalto scuro della Statale. Mio zio Geremia è più avanti di qualche metro, nonostante abbia il bambino a fare da zavorra. All’improvviso si volta e dice che non c’è nessuna macchina. Nessuna Fiat Palio diesel. — Non c’è nessuna cazzo di macchina, — urla. Mi guardo intorno. In effetti, la statale è deserta. — Quello è un ritardato, te lo dicevo io, — urla. Il piccolo Cristo è incastrato sotto il suo braccio e piange. — Vedrai che arriverà, stai tranquillo, faccio io. Non può mollarci qui. Sotto l’alluce mi si sono formate delle vesciche. Ho i piedi che bruciano. — Stai zitto, — dice zio Geremia. Mi sono maciullato i piedi. — Shhh, — fa mio zio Geremia con l’indice sulle labbra. — Zitto. Ascolta. Un ronzio di motore che si avvicina. Sempre più forte. Sempre più nitido. Fino a diventare un rombo assordante, indiavolato, di pistoni e cilindri, di pneumatici, di marmitte. Di sirene. A sinistra, da dietro il dosso spunta una flotta di auto della Polizia. Mi volto dall’altra parte e nel senso opposto di marcia vedo altre cinque volanti con tre motociclette a fare da scorta. Rimaniamo immobili. Siamo due scheletri. Il piccolo De Angelis ha smesso di piangere e rimane a fissare le luci blu sui tetti delle macchine. L’esercito si schiera a ventaglio, posizionando le

vetture di traverso sulla carreggiata. Si aprono gli sportelli e uomini in divisa ci puntano contro delle mitragliette lucide e nere. Qualcuno ci dice di gettare le armi. Ma noi non abbiamo armi. Lasciate andare il bambino, dice una voce. Sdraiatevi a terra con le mani dietro la nuca e state fermi, grida. Cosa credono? Che ora mi infilo una tuta e inizio a sparare ragnatele? Ma andate a fare in culo. Zio Geremia mi guarda. Fa un sorriso sbilenco. — Andrà tutto bene, — mi dice. Ci stendiamo a pancia in giù, con il naso a toccare terra. Le narici a contatto con il catrame. Un uomo in divisa parla nella ricetrasmittente. Dice: — Sì, San Giuseppe e il Re Magio. Sì, il bimbo sta bene. No, non erano armati. Poi mio zio Geremia impreca. — Guarda chi c’è, — sussurra. Alzo gli occhi e vedo Ghino Sbrenna conversare con un agente. Pacche sulle spalle, sorrisi e congratulazioni. Maledetto ritardato. Un poliziotto scende dalla moto e si fa avanti. Zio Geremia continua ad imprecare sottovoce. Mi rendo conto solo ora di cosa cazzo abbiamo combinato. Mio zio Geremia si gira verso di me. — Qualsiasi cosa succeda, — mi dice, — ti volevo augurare un buon Natale. Il poliziotto si piega su di noi. Ci torce le braccia. Ci blocca i polsi con le manette. — Buon Natale anche a te, — rispondo. Questo è un racconto tratto dal nuovo libro di Ennio Kitterlegnosky, Christmas Pulp in uscita a luglio (Meridiano Zero) 7


SENZA LE MANDORLE Francesco Cortonesi

A Valentina Stella coraggiosa che non si farà mai più oscurare

Appena entrata in casa i bambini erano corsi a salutarla. Anna li aveva baciati entrambi sulla fronte e poi aveva chiesto a Jenny, che nel frattempo stava cercando le chiavi della macchina nelle tasche del cappotto, come si erano comportati. Benissimo, aveva detto la baby sitter, hanno fat8

to i compiti, e poi abbiamo guardato la tv. Le due donne avevano parlato un po’, mentre i piccoli erano tornati subito al piano di sopra a giocare. Anna aveva convinto Jenny ad accettare un caffè e così la conversazione si era protratta ancora per una manciata di minuti, poi si erano salutate e si erano date appuntamento per il giorno seguente alla stessa ora.


Anna era rimasta sulla soglia della porta fino a quando Jenny non era uscita dal vialetto del giardino, poi era andata in cucina a preparare i biscotti. Le mandorle. Quando poco dopo aveva tirato fuori la teglia dal forno, non aveva resistito alla tentazione di assaggiare i biscotti per sapere come le erano venuti. Solo allora si era accorta che mancavano le mandorle. Come aveva potuto dimenticare le mandorle nei biscotti? ùEppure si era scordata di metterci le mandorle. Accidenti, aveva persino cresciuto i suoi due figli con quei biscotti e ogni tanto non le dispiaceva immaginarseli fra vent’anni, in un pomeriggio di mezzo inverno, mentre, con le mani bianche di farina e un sacchetto di mandorle sul tavolo, fischiettavano un motivetto natalizio aspettando che il forno fosse caldo e che la mogliettina, magari in dolce attesa, tornasse a casa dal lavoro. Sorrise. Certo i maschi più difficilmente si lasciano affascinare dalla cucina quando sono piccoli e i suoi due cuccioli per il momento non ne volevano sapere, ma con il passare del tempo magari le cose sarebbero cambiate. Non era forse vero del resto che i più grandi cuochi del mondo erano uomini? Stava divagando. Tornando al punto, invece, come aveva fatto a dimenticarsi le mandorle? Eppure era sicura di averle comprate; si ricordava benissimo di essere andata al supermercato e di averle prese prima dei pomodori e delle arance. Si ricordava benissimo di essere tornata a casa, di aver parlato con la baby sitter, di aver acceso il forno e di aver preparato l’impasto. Ma poi? Comunque era sicura: le mandorle c’erano. Invece, nei biscotti che aveva tirato fuori dal forno, di mandorle neppure l’ombra. In effetti, in cucina, si era messa a pensare a tutte le cose che doveva ancora fare prima che fosse ora di cena e che Marco tornasse dall’ufficio. Quindi forse le era sembrato di averci messo le mandorle.

Le era sembrato soltanto. Più ci pensava e più l’ultima mezz’ora le appariva come avvolta in una grigia coperta di trina dalle maglie fittissime, che non le permetteva bene di ripercorrere tutto quello che aveva fatto per filo e per segno. Accidenti, aveva solo quarant’anni, non era possibile soffrire già di quegli improvvisi buchi di memoria. Forse si era un po’ troppo stressata al lavoro negli ultimi giorni e, per quel che ne sapeva, lo stress aveva anche queste conseguenze. Doveva prendersi un po’ di riposo. Se lo meritava. Dopotutto erano passati quasi tre anni dalla sua ultima vacanza ed era giunto il momento di fare una pausa. Ne avrebbe parlato con Marco quella sera stessa, a tavola, e questa volta non avrebbe sentito ragioni di sorta, era giunta l’ora di farsi un bel viaggio. Riguardo ai biscotti invece, pazienza, i ragazzi li avrebbero mangiati senza le mandorle. Non era la morte di nessuno in fondo. Ci mise una pietra sopra, uscì dalla cucina e chiamò i suoi due diavoletti. Ma dal piano di sopra non rispose nessuno. Erano in camera a giocare e forse non l’avevano sentita, perciò li chiamò nuovamente, aspettandosi di vederli scendere di corsa come facevano ogni volta che scattava l’ora della merenda. Ma i bambini non scesero. Eppure dovevano averla sentita per forza. Li chiamò ancora. Ma la casa rimase silenziosa. Preoccupata, decise allora di salire e andare a vedere, senza ancora sapere perché si era scordata le mandorle. Una volta in cima alle scale, non le restò altro che mettersi ad urlare. 9


10 ARIA DI FESTIVAL


BARCELLONA E PAELLA Don Pasta

Barcellona si sveglia tardi. Noi anche. Perché mai opporsi? Perchè andare contro regole non scritte? Ci adeguiamo. A dire il vero senza troppa fatica. Il reggae di Dennis Brown dilata il momento dell’alzarci. Troppo caldo. I nostri spostamenti si limitano alle piazze che compongono il barrio, nella nostra Gracia che ogni volta ci accoglie, con bimbi scuri scuri che corrono con palloni pieni di acqua. Difficile affrettarci ma comunque la partenza ci chiama. Abbiamo un appuntamento importante ma perdiamo i primi due treni regionali che ci portano al nord. I ristoranti in Spagna sono sempre aperti e mangiare in pieno pomeriggio non è poi abitudine così lontana dalle estati salentine. Dobbiamo andare a fiuto per ricordarci il posto che scovammo anni fa. Ci capitammo per un caso che a volte è così prossimo al destino. Nell’estate afosa di allora si cercava fresco in una acqua di mare. Ma sono schizzinoso abituato al cristallo salentino. La Spagna viola troppo facilmente la costa. Le piramidi di case a schiera direttamente nell’acqua mi fanno immaginare ciò che il Salento potrebbe essere e mi viene l’angoscia. Allora il bagno perde di rilevanza, ma siamo falchi o condor quando si tratta di scovare perle di cucina. Ne avevamo il sospetto. Dove c’è una spiaggia in Spagna c’è una osteria on the beach. Visto il malessere dato dai palazzacci affogo la tristezza nell’arroz de pescado. Non paella. In Catalogna del nord, non c’è da confodersi. Altro modo di concepire la spiaggia. Ma arriviamo alle 4 e mezza. Anche in Spagna i cuochi dormono. Tanto sforzo per niente. Ci guardiamo ridendo. In fondo che fretta c’è. Il servizio ricomincia alle sette e mezzo. Abbiamo tre ore di nullafacenza davanti al mare. Poi si inizia. Pa’ amb tomaquet, prima di qualunque cosa. Rito da rispettare il pane e pomodoro. La religiosità del pasto perfetto. Ma siamo qui per andare a fondo nella nostra personale lotta ecologica. Niente bagno nel vostro mare, solo riso. Aspettiamo con impazienza l’arroz. Poi arriva e le papille fremono di gioia nell’esplosione di sa-

pori. Il calamaro, poi il gamberetto, la cozza, la vongola. Fanno unione armoniosa ma conservano l’essenza delle loro diversità. Il riso accorda. Il brodo di pesce armonizza. Da bere, un bianco, un Priorat. Dedicato alle perdite del tempo. Dennis Brown Elogio alle estati d’amore. Dennis Brown è stato uno degli artisti di punta della scena lover giamaicana. Corrente romantica del roots reggae, avrebbe il suo equivalente afroamericano nel soul, cui peraltro i vari Horace Andy, Jonny Osbourne e Dennis Brown si ispiravano. E così sembra proprio di ascoltare Marvin Gaye sulla spiaggia e Otis Redding alle prese con un Mojito. Era da un po’ che non parlavo di reggae, ma appena il caldo invade gli spazi mi ritrasformo in un salentino indolente con il reggae come luddista del tempo da fermare. Arroz de pescado Ho cercato di capire il metodo di preparazione degli arroz spagnoli osservando un mio amico, figlio di esuli, Manu. Ingredienti: cozze, vongole, gamberi, calamari, passata di pomodoro, riso bomba (o arborio), olio, aglio, pepe Preparazione: Pulite perfettamente le cozze. Tagliate i calamari in piccolissimi pezzi. Togliete la testa ad i gamberi che userete per un brodo che farete a parte. In una paella (padella apposita per preparare i risi spagnoli), soffriggete l’aglio nell’olio. Poi unite il pesce. Aggiungete un po’ di passata di pomodoro e a fiamma basa fate in modo che il tutto si insaporisca. Unite il riso, disponendolo a croce con due strisce. Versate il brodo con una altezza che ricopra esattamente le due montagnette. A quel punto stendete il riso sull’intera superfice della paella e lasciate cuocere a fiamma bassa senza più girare sino a che il tutto non è stato assorbito. Date una spolverata di pepe e sale e servite caldo. 11


IL RACCOLTO Luca Romano

Il calore della terra tra le mani. Il rosso del sole illuminava ogni cosa. Avrei vissuto l’intera vita nei colori del tramonto, la vivrei ancora ora e invece ogni sera attendo il momento in cui i miei occhi possano riempirsi del dolce fuoco. Lasciai cadere quel terreno e come fosse acqua mi scorse tra le dita e facendosi accompagnare dal vento volò via da me. Era quasi arrivata l’ora di cena. Ero per la seconda sera in una grande villa di campagna per aiutare i miei nonni nella raccolta dei pomodori, era un’attività che non ebbi mai l’onore di svolgere, quell’anno data l’età, mi chiesero di aiutarli. Avrei passato forse anche dodici ore al giorno nel campo con la schiena piegata e sotto il sole. Ma vedere il rosso del sole illumina12

re ogni sera quelle mura, avrebbe ricompensato ogni mio sforzo. Guardando le formiche correre verso un buco profondo forse fino al centro della terra, decisi di ritornare all’interno della casa, a breve sarebbe stato pronto per la cena. Giunsi nel soggiorno e mi sedetti. I sei posti erano già segnati con piatti bianchi e lisci bicchieri in vetro. Sedetti al mio posto e sentii sotto le dita il legno duro del tavolo. Il rumore dei mestoli sui tegami di acciaio avrebbero potuto cullare i miei pensieri per tutta la sera. Di li a poco fu pronta una zuppa di cipolle, raccolte la sera prima dalle mie stesse mani, per gioco con Franco, mio nonno, il padrone di questa infinita casa. Sua moglie Antonia mi guardò e disse: “tu ne vuoi? C’è solo


questo, con il pane” pensai al pane della sera precedente. Antonia ogni mattina si svegliava presto e mentre suo marito andava in campagna, lei preparava il pane per la giornata, seccava i pomodori e svolgeva le faccende domestiche. I pensieri distratti nella mia testa non mi fecero rispondere, quando lei guardandomi ancora fece: “Beh”. Io sorrisi e le dissi: “Certo nonna, scusami, ero distratto, non vado matto per le cipolle, ma sarà sicuramente buonissimo”. La tavola era imbandita come di rado mi capita di vedere in città, qui in campagna è tutto diverso. Mio padre e mia madre seduti al mio lato sinistro, mi guardavano quasi come se fossi diventato un alieno, la prima sera gli chiesi se fosse stato possibile

avere una forchetta diversa per il primo e il secondo, mia nonna scoppiò a ridere senza parole capii la risposta. Portai il cucchiaio alla bocca e assaporai la zuppa. Un sapore mai sentito prima. Era buona. Dissi: “in città non mi capita mai di mangiare cose così, a dire il vero non capita nemmeno di mangiare in tanti, intorno ad una tavola così imbandita” presi la brocca versai il vino nel bicchiere e lo bevvi, tutto d’un fiato. La nonna mi disse: “quel vino l’ho fatto io” risposi: “è buono, davvero molto buono” e lei sorridendo mi disse: “in città le trovi cose così? Lo trovi un vino così buono?” caddi nella provocazione e risposi: “ No, nonna, in città non ci sono vini così buoni, ma ce ne sono molti di più e ci sono anche tante altre cose, dovresti provare a venirci, dovresti provare a passeggiare per le vie della città in cui vivo, forse troveresti anche utensili adatti alla tua vita di campagna, sicuramente ne troveresti, con il progresso che c’è stato negli ultimi vent’anni in cui non sei voluta venire, avranno inventato chissà quante cose che non conosci”. Lei non tolse il sorriso dagli occhi nemmeno per un secondo e rispose alle mie parole senza pensarci su: “tu, mio nipote, che vieni qui, nella mia terra e parli di progresso e ne parli come se fosse un oggetto. Il progresso è nella testa delle persone. Tuo nonno, il progresso l’ha creato quando ha combattuto per i suoi diritti di libero cittadino, sotto la dittatura. Questo è il progresso. Ora a voi hanno fatto credere che sia un oggetto più bello, vi hanno convinti che tutto sia da usare e consumare. Noi qui la terra non la coltiviamo, la mangiamo, vieni con me Luca, vieni”. Mi prese per mano e lasciò tutti nella sala da pranzo esterrefatti. Uscimmo dalla casa. Il cielo era scuro, niente più rosso sulle pareti, niente più colori, lei accese la luce sull’esterno e mi condusse nel terreno più vicino e ne prese un pugno, aprì la mano e guardandomi mi disse: “Questa terra io non la possiedo e non la uso. Io e questa terra ci scambiamo la vita. Lei nutre me e io nutro lei. È un cerchio. È chiuso. Voi nelle città usate e lasciate cerchi aperti da ogni parte. Luca, nipote mio, il progresso nelle città è iniziato e finito”. La guardai negli occhi, mi venne da piangere. Il silenzio di quella terra, il colore delle pareti della casa, quel tutto che mi circondava, era veramente pieno. Fu in quel giorno che decisi di tornare a vivere in campagna, come quando ero bambino, lasciai tutto. Era lì che avrei voluto chiudere il cerchio della mia vita. 13


GRANDE UOMO CON UN BUCO IN TESTA Nino G. D’Attis 14


Ti svegli alle quattro del mattino, assediata da una lista interminabile di cose da fare. Lui è nella vasca da bagno: grande uomo al culmine di una brillante carriera, l’occhio onniveggente tatuato sull’avambraccio sinistro, migliaia di chilometri lontano dal suo ufficio antiquato, ingombro di carte e schedari. Ti svegli e non riesci a fare a meno di domandarti quando, nel corso delle ultime settimane, uno dei microscopici e complicati ingranaggi che fanno girare la tua vita schifa, abbia cominciato a perdere colpi. Non è stato venerdì 17, mentre uscivi dalla doccia abbronzante e un burino rifatto dalla testa ai piedi ha provato a strofinarsi il pacco sul tuo fondoschiena. Non è stato lunedì 20, quando hai scoperto che la tua carta di credito era stata clonata. Non è stato sabato 25, quando lui ti ha augurato buon compleanno mettendoti su un aereo per Key West, Florida. Ora sei qui. Una ragazza come te non avrebbe mai voluto essere da nessun’altra parte, almeno fino a ieri sera. Ogni volta che il cuore comincia a battere più forte, in armonia con quel curioso formicolìo al pancino, le ragazze come te pensano e agiscono in fretta. È successo quando gli hai detto di amarlo. La parola “Amore”, così poco innocente a dispetto delle apparenze, può mettere in serie difficoltà perfino una persona dotata di un carisma non comune. «Non capisco», ha detto. La verità è che il grande uomo non era per niente disposto a capire. Il fraintendimento è tra i presupposti essenziali del suo lavoro: con la giusta concatenazione di equivoci, con le menzogne dette al momento giusto, esercitando una sorridente e garbata stregoneria da latrina, è possibile modificare il destino di un’intera nazione. Si chiama macchina del consenso. Si chiama capacità innata di distribuire gesti, parole, discorsi; di innestare tormenti e fobie, di strumentalizzare la speranza, se necessario. Nel suo ambiente, il grande uomo è conosciuto come Il Suggeritore, ma sarebbe più corretto definirlo uno sceneggiatore di trame spettacolari. Lui, ex militare, figlio di povera gente del Po: madre mondina, padre alcolista strozzato dai debiti di gioco. Lui, cresciuto con baionetta e pistola, pronto ad imbarcarsi per la prossima missione di alta chirurgia strategica nelle zone più calde del pianeta. Lui, cinquantanove anni, depositario di un ingombrante bagaglio di segreti di stato simile a una discarica di scorie nucleari. «Mi vuoi?», ha chiesto. «Posso offrirti ancora due giorni insieme in questo paradiso, poi chissà…» Gli occhi grigi, accesi da un breve lampo d’ilarità amplificata dal vino e dal sesso appena consumato. «Ho già un’amante» ha detto mentre giocava distrattamente con una ciocca dei tuoi capelli. «Posso farti sparire quando voglio, piccola mia.» La sua mano tra le tue gambe divaricate: sempre più in alto, scivolando con misurata delicatezza sulla pelle ricoperta da un sottile velo di sudore. È stato allora che, fra le lacrime che cominciavano a scorrere, hai pensato alla sua pistola. «Dormici sopra e non rovinare tutto proprio sul più bello, puttanella.», ha mormorato con finta amarezza. Il grande uomo si è alzato dal letto, ha infilato i piedi nelle ciabatte ed è andato in bagno lasciando la porta socchiusa. Hai sentito l’acqua scorrere nella vasca. Ti sei tirata su, hai cercato la pistola nella sua valigia: Walther PP calibro 7,65 mm, otto colpi, tipologia arma corta. Un cuscino per attutire il rumore dello sparo: se l’hai visto al cinema, funziona anche nella realtà. Hai fatto un bel respiro, hai contato fino a dieci. Le ragazze come te pensano e agiscono in fretta, poi ci dormono su. Sono le quattro e venti del mattino a Key West: risate di gabbiani dalla finestra aperta, mentre il grande uomo al culmine di una brillante carriera giace nella vasca con un bel buco proprio al centro della sua testa di cazzo. 15


AMSTERDAM Marco Chiffi

Alle volte mi chiama con un altro nome, mentre sorseggiamo gin preso al night shop sotto casa. Alle volte, crede di essere con qualcun altro mentre da sotto le lenzuola una mano le accarezza la coscia bianca. Non ho idea di che ora sia, forse le due del mattino. Lei è assonnata, sarà l’ora tarda e il fatto che beviamo da tanto ormai. Chiude gli occhi e abbandona la testa sul cuscino. Riesco a vedere ogni suo muscolo che si rilassa e penso a quanto sia vulnerabile la gente mentre dorme. È settembre ma c’è un’afa estiva. Sono nudo sul letto, col mio bicchiere in mano e la bottiglia sul comodino. Vedo che apre gli occhi e inizia a fissarmi. Poi li richiude e si rigira su un fianco mostrandomi la schiena affusolata. “Che ore sono Al?”, mi fa. “Neal”, rispondo. “Cosa?” “Mi chiamo Neal” “Dimmi solo che ore sono” Resto in silenzio, frugo con la mano sul comodino, pesco il mio orologio da taschino e guardo l’ora. Quell’orologio lo rubai ad un olandese commerciante di tabacco, se lo scordò sul tavolo del bar e con un breve e veloce gesto me lo misi in tasca. Questo lo rivendo per comprare il tuo tabacco, pensai. Poi non lo feci. 16

“Le due e quaranta” Lei dice una parolaccia e si tira su. Resta seduta per un attimo sul letto, si strofina gli occhi con i pugni e si alza. Vedo il suo corpo nudo attraversare la luce che viene dalla finestra. Ha venticinque anni. Porta lunghi capelli neri e occhi d’un azzurro incantevole. Non è molto alta e non ha certo un fisico da modella ma ha qualcosa che mi affascina e mi attrae. Sarà quella sua pelle che odora di spezie, che quasi la puoi assaggiare. O il modo che ha di muoversi, di essere provocante e di farti salire l’adrenalina fino al limite. O forse sarà semplicemente perché è brava sotto le lenzuola. La prima volta che la vidi non riuscii a staccarle gli occhi di dosso, sapevo solo che doveva essere mia. Mi sentii come una gazza attratta da un cristallo. E anche lei mi guardava. Non fu mai amore. Fu qualcos’altro di più pratico. Magari semplicemente il destino, anche se non ho mai dato retta a quelle stronzate magiche o astrologiche. Jerome, il mio collega di lavoro e di bevute giù al porto si ostina a volermi fare i tarocchi ogni primo del mese. Ancora non capisco il perché. Fa sempre discorsi lunghi e pieni di nomi di pianeti e tenta di spiegarmi le sue teorie fantasiose. Certo è un tipo strano ma da quando sono arrivato a Marsiglia sei mesi fa è l’unico che mi da retta e che non fa molte domande sulla mia vita in America.


Lei entra in bagno e mentre è via la bottiglia di gin finisce. Inizio a sudare. Dovrò decidermi a comprare un ventilatore un giorno o l’altro. Ne ho visto uno a buon prezzo al negozio di arabi in fondo alla strada. All’improvviso dal piano di sopra arrivano le note di Suzanne di Leonard Cohen. Conosco questa canzone perché la ascoltava sempre mia sorella quando vivevo ancora con lei. Per i suoi diciotto anni, pochi mesi prima che se ne andasse a vivere in Spagna col suo ragazzo, le regalai anche un disco in vinile di Leonard Cohen. Anche se lei non aveva un giradischi sul quale sentirlo sembrò gradire davvero. Al piano di sopra vive un professore di francese. È insonne e così ogni tanto mette dei dischi in piena notte. Ed io ascolto in silenzio fissando la macchia di umido sul soffitto che mese dopo mese si allarga. O forse è questa stanza sudicia che si sta restringendo, non so. Dopo qualche minuto lei torna e inizia a rivestirsi in silenzio. “Guarda che puoi restare ancora un po’”. Non mi risponde. Si volta a guardarmi e per la prima volta dopo tante ore riesco a guardarla negli occhi. Ha uno sguardo nervoso e assonnato. Mi viene voglia di baciarla.

“Hai visto il mio reggicalze?” Alzo le spalle. “Deve essere caduto da qualche parte. Se lo ritrovi riportamelo”. Indossa un vestito nero molto provocante, sexy ma non volgare. E credo che di più bello che vedere una donna che si sveste ci sia solo vedere una donna che si riveste. Mi accendo un’altra sigaretta e continuo a guardarla. Dalla strada si sentono voci di ragazzi ubriachi, a tratti urlano o tirano calci alle serrande abbassate dei negozi giusto per svegliare chi dorme. Si infila le scarpe, agguanta la borsetta, poi si ferma davanti al comodino. Prende il mio portafoglio e lo apre. “Faccio da sola” mi dice. Prende qualche banconota e se la mette nella borsetta. Adesso sorride. Avvicina le labbra alla mia bocca. “Ci vediamo la settimana prossima”. Resto in silenzio e riesco a sentire il suo profumo che mi entra nel naso. Mi bacia con passione. Credo che a parte tutto si sia un po’ affezionata a me. La porta si richiude. Di solito riesco a vederla il venerdì perché mi pagano due giorni prima. Questa settimana però non lavoro. 17


QUANDO MIA MADRE DECISE DI FARSI GUIDA E ISTRUZIONI PER L’USO Margherita Macrì

18


Erano passati almeno due anni di forte distanza tra noi due. Io avevo deciso così. Silenziosa e compiacente. Le sorridevo. Patetica, le sorridevo con le labbra slargate, gli occhi allungati semichiusi. Sì. Sì, lei accendeva una sigaretta? Io sorridevo. Lei decideva di bere il diciottesimo caffè? Sorridevo ancora. Accettava di seguire ancora una volta mio padre nella sua caccia alle adolescenti? La aiutavo ad infilare l’impermeabile, mentre mi giurava che quella sarebbe stata davvero l’ultima volta. Non mi raccomandavo che tornasse presto. Né che evitasse di ridursi male con l’alcool o che la smettesse di fasciarsi nella seta blu che non andava più d’accordo con le sue carni molli e abbondanti. Ma una sera, vedendola rientrare, mentre tentavo di stamparmi sulla faccia un sorriso, mi accorsi per la prima volta che non era più bella. Era smunta, malandata, quasi gialla. Un’escrescenza, ecco cos’era. Un’escrescenza gialla sulla soglia di casa e nella vita di mio padre. Ma non era solo questo lucore a farmela guardare come per la prima volta sotto un neon. Ansimava, la sua faccia chiedeva aiuto, la bocca un po’ in avanti, indurita. Non parlava. Schiumava invece, sul lato. Non avevo troppa voglia di capire. “Mamma?”. Una tachicardia senza controllo, tutto rimbombava in quel corpo, persino le narici erano intasate da questo battito colico e senza punto d’arrivo. Continuavo a chiamarla, ma non riuscivo ad avvicinarmi troppo. Quel corpo, sempre un po’ malconcio e livido mi faceva impressione. E poi il suo odore provocava un ributto nel mio stomaco e nel mio cervello, sigarette, alcool e sudore di giorni. La pelle ormai era tutta grassa, a tratti macchiata, come un vecchio tavolo nella sala da pranzo. Era chiaro il fatto che non scopasse da anni con mio padre. Era chiaro, evidente direi, e quasi logico il motivo per il quale lui la rifiutasse. Probabilmente subito dopo averla ingravidata aveva iniziato a rifiutarla. Come un territorio di conquista che nessuno tenta più di espugnare. Come un cane che riempie dei suoi escrementi gli angoli delle strade e per quegli stessi angoli perde qualunque interesse, tanto da poterci camminare vicino senza restituire ad una sola di quelle strade né sguardo né memoria. E subito dopo la gravidanza aveva iniziato a schifarsi anche lei di sé stessa. Che aveva fatto mai? Accoppiarsi e figliare. Accoppiarsi e figliare. E per di più figliare femmine. Lei che già da femmine veniva, gettarne nuovamente altre sulla terra, gettarne altre destinate ad essere nuovamente ingravidate con altre femmine. Un’epopea ferina, questo mi aveva insegnato lei delle donne. Come, tenendosi salde ad un angolo della sedia, con le gambe tese, una più in alto dell’altra, bloccare il sangue che viene dalle pancia. Come invidiare in silenzio le donne più snelle, più alte, più forti, e demolirle con l’astuzia. Come farsi forte davanti agli uomini, ai mariti, ai padri e ai figli maschi prescindendo dal dolore e dal pianto. E poi ad urlare. Mi aveva insegnato a urlare, a sbraitare, a demolire, ma non in modo dozzinale, come invece farebbe un uomo, bensì scegliendo accuratamente il cosa e il come, per aizzare la controparte nei modi più violenti e sragionati e poi dolersene. Continuavo a guardarla mentre strabuzzava gli occhi, non mi sembrava chiedesse aiuto. Non poteva farlo. Un infarto le stava pervadendo ogni più piccola piega. Non lo avrebbe fatto ugualmente: “le donne tra loro non chiedono mai aiuto, soprattutto alle femmine della loro famiglia. È una dichiarazione di debolezza che non fa bene”. Mi sembrava che lo stesse recitando in quell’istante, quel mantra, anche se la sua bocca era ferma in una stortura che la teneva larga come se vi dovesse uscire un intero campionario di intuizioni e bestemmie. Aveva deciso di tenersi dentro il sangue più volte nella sua vita. Aveva già lasciato andare via mio padre. Aveva già lasciato scivolare via me. Il sangue era l’unica cosa che le apparteneva e che le sarebbe appartenuta fino alla fine. E quella era la fine di chi non tira fuori mai tutto per intero. Aveva scelto da sé, restare sorgente. Restare radice attracco e farsi insegna. Farsi guida e istruzioni per l’uso. Si era ripiegata come un lenzuolo in una madia, per poi consegnarsi in tutti i suoi ricami e le sue macchie di umido a chiunque ne avesse voluto usufruire. A chiunque l’avesse sgualcita, a chiunque fosse stato capace di scavare, di estrarre, di guarirla o di ammalarla di più. E poi a me, e a sua madre. E poi a me, e a mia figlia. Matrilineare. 19


IL BAR DEGLI APPUNTAMENTI MANCATI Luisa Ruggio

Quelli della città si erano abituati allo strano accadimento. Me lo annunciarono sovrappensiero, quando andai a svoltare la notte lì dentro. Dopo aver superato la lunga scia al neon dei motel. Fermi, come uccelli eterni, sulle rive dell’Oceano. Quella marcia lenta di luci lungo la frontiera, le lettere minime che salivano in gola appena si abbassavano i sipari dei tramonti, un milione di tramonti tutti insieme su quella baia confusa. Lineare, superba. L’orologio segnava l’inizio di un mondo dove tutto viveva nella fissità della mezzanotte e le strade, piene di palazzi dai lumi color miele, erano un grande organismo umano. Che aspettava di essere toccato, nei suoi punti vitali. Laggiù, il rumore delle onde si estingue in un’ora quasi leggendaria, un tempo pazzo all’angolo dei viali. Lucidi come sottomarini appena emersi da acque conflittuali. Mi frugai le tasche, alla ricerca di monetine per pagare il taxi. Produssero un suono di rame bagnato, in quel posto dove si attende un’alba strana. 20

Passavano uomini, accompagnati da signorine vestite come fiori di ibiscus, con collane di polline giallo intorno ai colli ambrati. Le vele delle barche, come code di pesci variopinti. Nel mantice dell’oscurità. Ricca di riverberi amaranto. Greve di vapori. Cullavano la febbre di un’umanità vagabonda. Mi dissero che era quello il posto, che dovevo aspettare un altro poco l’estinguersi delle fisarmoniche lungo la costa. E, poi, sarebbe apparso nella nebbia, come ogni notte a una certa ora, il bar degli appuntamenti mancati. Dove si incrocia tutta la musica. E i viaggiatori vanno a scrivere le lettere che andranno smarrite. Le sole che contino qualcosa, quelle in cui non si mente neppure una volta. Non era legittimo che quel posto sbucasse dal nulla con la sua insegna intagliata nel legno, i suoi tavolini e i suoi clienti eleganti che guadagnavano l’entrata scivolando nell’aria calda del Tropico.


Dunque è qui, pensai, che sale il sangue degli uomini, dove hanno fine tutte le risse, e le donne hanno sguardi da animale fantastico, denso e stupefatto. Ho imparato che tutto ciò cui siamo abituati può finire in un attimo. Capricciosa variazione privata, la sua elasticità ci avvia nella porzione di sogno che avvolge tutte le storie quando la mente tenta di farne un bilancio e si imbatte in un nonsenso meraviglioso. E mentre me ne stavo lì, come una figura ritagliata da un almanacco, si sentì una forma saturare la nebbia che saliva in colonne di banchi orizzontali. Tra gli altri palazzi assorti, i telefoni smisero di squillare, qualcuno lasciò in sospeso il gesto di infilare un bottone nell’asola, passare la mano nei capelli di un’amante, bere da un calice di vetro azzurro cupo. Visto dall’elevata statura degli arcangeli ubriachi, poteva essere un avvenimento come un altro. Ma a me parve una rivelazione, piena di occulta bontà.

In quell’odore di lontananze annullate, che a un tratto aleggiava su tutto, il bar produsse un rumore lieve, di attracco. Come di nave discesa o galeone venuto a posarsi nel porto di una strada qualunque, tra altri due caseggiati, manco fosse del tutto normale. Adesso che lo racconto, mi accorgo di quanto nulla di falso ci fosse in quella beatitudine che non sarebbe mai più stata creduta, persino io che l’ho sentita pensai che in avanti avrei potuto chiamarla sogno, immaginazione. Per non dover rispondere alle domande inutili di chi non ha mai avuto bisogno di entrare in quel bar. Dove si scrivono lettere che andranno smarrite, le sole che contino qualcosa. Il bar apparve, dunque. Con tutta la sua musica. Proveniente da non so quale ignoto secolo di passioni. Al guardaroba, mi lasciarono indossare un kimono azzurro, che era proprio il mio kimono, dono di una dolcezza senza più necessità verbale che mi accompagna col suo odore. Come il sole tra i rami abbaglia - di tanto in tan21


22


to - il viandante. Non mi chiesi ragione del fatto, a quel punto non aveva importanza. Mi indicarono il mio tavolo e mi portarono una busta e un foglio di carta. Intanto, il mosaico del bar si compose, i lumi apparirono sui banconi accanto alle bottiglie di liquore, le scapole delle donne, gli strumenti dei musicisti, i tappeti sulle scalinate. E la lettera si compose. Sotto le mie mani. Appena impugnai la penna. Il luogo dal quale ti scrivo non ha alcun fondamento. Somiglia a qualcosa che abbiamo conosciuto insieme: terribile, mostruoso, pieno di cadute, sassi, mare. Dai cori di risate, sale l’assenza della tua. Risata crudele, suono di pellicola del cinematografo, obbedienza monosillabica e profumo. Naturalmente, sarebbe meraviglioso se tu ricevessi questa lettera per davvero. Avremmo davanti la possibilità sproporzionata di stare tutta la notte, ancora una volta, avvolti in un abbraccio. Nel rango di un’aritmia gloriosa. Che ci ha condannati all’esilio. Vai a capire perché. Nei mesi del mio grembo sorge l’ovale dei tuoi figli mancati, e poi scompare. Si eclissa, nel mio sangue frammentato. Aorta e tuono. Ma rido, rido molto, per come i giorni ci punirono, dentro quelle cose che non avremmo potuto sopportare, separati, che pure abbiamo vissuto fino alle ossa, aperti con la forza, pieni di carezze rimaste a bruciare, acido, il palmo della mano. La gelida canna di pistola del tuo sguardo, il canale sanguigno dei nostri addii. Se avessi almeno un minimo di buon senso, non dovrei scrivere alcun nome su questa busta. Dovrei aver capito la misura e l’autentica originalità del caso, che il destino potrebbe far sì che tu - persino in queste condizioni eccezionali risponda. Allora, un dio indigeno, silenzioso e truffatore, si ritirerà da tutte le pagine e noi passeggeri avremo l’impressione che i treni del mondo siano stati fermati in tempo e il sonno degli amanti custodito e la miseria di vivere invertita e la paura di amare infranta insieme al dolore di come poteva essere. Il fuoco si e’ fatto conto salato, di tenerezza sovrumana. E ho saputo chi eravamo nella foto in cui manchiamo. Mi vedi? Nell’inutile fondale delle nostre voci mute, nella

sordità delle distanze, nella pagina che mi macina, nelle nostre solitudini affollate che ascoltano i versi passare. Tutta qui la poesia. Vertigine che svuota la schiena dritta di chi è stato accoltellato appena sceso da un treno. Il mio petto e’ il fodero di quel coltello, tra noi e il passato c’è la pausa del sangue prima di scorrere e sporcarmi la camicia, i fogli da imbrattare che mi restano, coi giorni sbagliati, quelli giusti. A chi mi chiede un consulto sull’amore, offro da bere due volte, non resta da fare altro che ubriacarsi come si deve, ho notato che le strade sono piene di persone che stanno in piedi nonostante il petto lacerato. E resta sempre meno tempo, come a tutti del resto, la vita e’ breve in ogni caso. Perciò bisogna scrivere prima che sia domani. Così almeno, nel raggrumo del non dormirti accanto, mando fianchi di carta a protezione del tuo corpo, come la prima volta che ti afferrai una mano. Vedi, nonostante una certezza di smarrimento, ho versato vino in un bicchiere lontano. Sarà questa la speranza? Che ne sanno i vicari indifferenti? Che gli frega se il mio canto ha radici nell’uomo? Nelle sue alluvioni, nel cuore bruciato. Abbondantemente fraintesa, vedi, da tutti quelli che mi parlano e mi cercano compagnia senza accorgersi che sono un fantasma. Non una donna, ma milioni. Non una lettera, ma tutte le lettere. Non un amore, ma tutti gli infarti. Tu mi hai aiutato a cadere, mi hai aiutato a perdere il paradiso. Siamo diventati moltitudini di sogni agitati, metallo e farina dissanguata. Grazie di aver condiviso con me la semplice tavola dei poveri innamorati, la sommità degli uomini comuni che l’amore innalza fino al freddo panico di essere perduti dentro un altro. A poco a poco, mi trasformerò in polvere. Sarò una polvere piena del tuo odore. Sigillai la lettera nella busta, la lasciai sul tavolo. Consegnai il kimono al guardaroba, la notte diluiva nell’alba. Non mi voltai. Per la nausea di vedere le rive del niente, limpido corpo di sabbia e fogli di carta, nel vento. Come le stazioni senza i treni a vapore. A volte qualcuno ritrova le lettere scritte in quel bar, i rigattieri le comprano quando è ormai troppo tardi per quegli strani sembianti del cuore umano. Che finiscono al banco dei pegni. 23


24


UNA PISTOLA SUL CUORE Valentina Giusti Maya scivolava verso il porto osservando la sua isola. Sotto la luce pallida della luna le sembrava una coperta sotto cui si era dormito in due, lasciata li, accartocciata sull’ angolo di un letto sgualcito, sopra lenzuola increspate dal mare. Con un gesto automatico della mano, a pochi metri dalla strettoia, accese la luce della sua piccola barca, che le fece socchiudere gli occhi mettendo a fuoco un punto preciso sugli scogli, oltre il bagliore. Quello era il porto più piccolo del mondo, non era possibile accedervi con mezzi più grandi di un gommone, e anche con un’ imbarcazione piccola la manovra di ingresso poteva risultare complicata. Maya però sarebbe potuta entrarvi ad occhi chiusi, immaginandone millimetricamente ogni piccola insenatura o sporgenza. Così si insinuò tra gli scogli senza mai distogliere lo sguardo da quella sagoma che se ne stava poco più in là, accartocciata tra gli scogli come l’ isola sul suo mare. Le mani candide risplendevano nell’ oscurità mentre accarezzavano una scatola che ricordava un piccolo forziere. Maya ormeggiò la sua barca fermandosi, senza nemmeno gettarci un’ occhiata, nel punto preciso dove era appesa la corda; poi sollevò con una mano il secchio pieno di totani agonizzanti, con l’altra impugnò la torcia facendosi strada su per la pettata. Accese una sigaretta una volta sulla piazzetta, la luce rossa, come un tramonto, le lampeggiò sul viso, rapito dalla donna sugli scogli. Gli occhi di Maya accarezzarono quella figura e le mani si chiusero in pugni serrati, come per trattenere emozioni troppo impetuose per lasciarsi imprigionare da unghie che solcano il palmo. I pensieri si fecero languidi, la mente golosa di sapori proibiti, tanto proibiti da averli creduti dimenticati, o mai assaggiati. La donna, da laggiù, non poteva vedere il suo spettatore, con disinvoltura aprì la scatola come un bambino scarta i regali la mattina di natale. Con movimenti di elegante onnipotenza sembrava volersi convincere di avere la forza di sopportare la pistola che tirò fuori. Si alzò in piedi lentamente, impugnando l’ arma con entrambe le mani strisciò sulla scogliera con le spalle incollate ai massi, muovendosi come un ladro striscia lungo il muro cercando di schivare la scia della torcia dello sbirro. Raggiunse il punto più alto, ora sembrava sospesa tra cielo e mare. Alzò lo sguardo come se davanti a sé ci fosse uno specchio, con la mano sinistra si accarezzò la guancia, poi il collo, fino al fianco, dove lasciò coricato il braccio; con la mano destra impugnava la pistola, appoggiata sul cuore. Il riflesso della luna la scolpiva su quello scoglio come una statua d’argento. Maya sentì uno spruzzo di mare sulla gamba: un totano richiamava l’attenzione alla sua lenta agonia. Quando rialzò lo sguardo dal secchio, c’ era solo uno scoglio, severo sul mare, e la luna che sembrava tuffarsi. 25


Percorrevo via del Sommergibile lasciandomi alle spalle il desolante scenario del parco di via Baffigo. Un terreno incolto, cosparso di cocci e vetri rotti, in cui gli unici resti visibili erano lo scheletro di una panchina in ferro battuto ed una vecchia altalena arrugginita, un tempo il passatempo preferito di Giada. Il cielo si tingeva di sfumature cremisi ed i lampioni avevano ripreso a battere le strade dopo giorni di silenzio. L’insegna “Boxing Club M. Serafini” illuminava il marciapiede lasciando sull’asfalto venature bluastre, ed all’interno risuonava un groviglio di musica ed urla che si schiantava contro le vetrate smerigliate. I muscoli si contraevano sugli schienali delle panche e delle pectoral machine, mentre corpi su26

dati boccheggiavano sui tapis roulants. Sembrava che la testa dovesse esplodermi da un momento all’altro, avevo bevuto troppo nel pomeriggio e la birra mi bruciava lo stomaco. Sudavo. Imboccai il sentiero tracciato da un logoro tappeto di spugna che si snodava lungo la parete di sinistra, costellata da armadietti di ferro. Nelle scalanature di uno degli sportelli, c’era infilata una mia foto con in braccio Giada, scattata durante le finali del campionato nazionale dilettanti del 2000. All’epoca, aveva appena un anno. - Stefano, ben arrivato. – Una voce rauca, simile al crepitio di un camino, gracchiò vicino all’orecchio. – Ti presento Walid. Ti allenerai con lui questa sera. - La figura bassa e tarchiata di Serafini si scontrava con il fisico imponente ed asciutto del giovane. Aveva la pelle color ebano, gli occhi


TIME OUT! Roberto Conturso

sgranati arroccati su zigomi sporgenti e la testa, imperlata di sudore, incastonata fra due spalle ampie e muscolose. – Piacere Walid. - Sentii la sua mano tozza e nodosa stringersi attorno alla mia e la pelle ruvida dei polpastrelli grattarmi le nocche. Tentai di contraccambiare, ricevendo in tutta risposta una stretta ancor più energica e prolungata. Abbozzai un sorriso e mi andai a cambiare. Lo stomaco non mi dava tregua, non potevo allenarmi in queste condizioni. Sentivo i succhi gastrici grattarmi la gola e vomitai. Aprì il rubinetto e misi la testa sotto l’acqua gelida. La parte dove si allenavano i pugili era volutamente trascurata, in modo da conferirgli un aspetto più rude e minimalista. L’intonaco si staccava a pezzi dalle pareti, ricoprendo il parquet di una pallida fuliggine. I sacchi, appesi a

pesanti catene, correvano lungo i due quarti del perimetro della sala, mentre il ring era incastonato nell’angolo sinistro. Le corde, ricavate da tre tubi di gomma, erano legate a pali di ferro che delimitavano i quattro angoli, e tre specchi fissati sul muro, fiancheggiavano il ring. Serafini diceva sempre che ad un vero pugile bastava solo un sacco ed una corda, per questo riteneva che la cura della palestra fosse marginale alla formazione pugilistica, con buona pace dei soldi delle iscrizioni, che rimanevano al sicuro in fondo alle sue tasche. Un gruppo di ragazzi lavorava al centro del parquet, ripetendo una combinazione di colpi: gancio diretto e gancio, schivata e montante, diretto e gancio. I guantoni impattavano contro l’aria acre ed immobile della sala. Fasciai velocemente le 27


28


mani ed iniziai a scaldare i muscoli davanti allo specchio, mentre Serafini raccoglieva dal cesto di vimini i guanti da passata. Mi si parò davanti in posizione di guardia, ed iniziammo l’allenamento. Le braccia erano indolenzite e le gambe intorpidite, i miei pugni schioccavano nervosamente contro i suoi provocando un rumore sordo. Tentavo di rimanere concentrato, ma la testa martellava ed era come se al posto dei guantoni avessi due pesanti appendici di cemento che mi trascinavano a terra. Continuavo a picchiare, seguendo con la coda dell’occhio i movimenti di Walid sul ring. Saltellava rapidamente, come una mosca attorno ad una lampadina, fendendo l’aria con diretti potenti e precisi mentre il sudore impregnava la maglietta, che come argilla, si modellava sotto la spinta dei muscoli. Serafini si fermò di colpo. – A Stefanì che succede? Hai un aspetto di merda e la testa da un’altra parte. Sei sicuro di voler salire sul ring contro Walid? – Sorrisi per tranquillizzarlo. Da quando lo conoscevo le sue uniche preoccupazioni riguardavano la dieta e gli allenamenti, un monito che mi aveva spinto a non spingermi mai oltre questi argomenti. In fondo a lui interessava solo la boxe e questo per me era sufficiente. Feci scivolare le dita sulla pelle, lasciando un sottile strato di vaselina sugli zigomi e sul naso. Il viso del mio sfidante, incorniciato dal casco e deformato dal paradenti, assumeva un’espressione rabbiosa. Avanzammo verso il centro, giusto il tempo di toccarci i guantoni. Il ragazzo era agile, mi colpiva con innocui diretti e poi scompariva dal mio campo visivo. Rispondevo di tanto in tanto con qualche diretto sinistro e gancio al corpo, senza mai affondare i colpi e lasciando che fosse lui a condurre il match. Era leggermente più alto di me perciò ero costretto ad andargli incontro, cercando di anticiparlo. Continuava a giocare, girandomi intorno e colpendomi con fastidiosi diretti. Il casco mi stritolava la testa e gli occhi mi bruciavano per il dolore. Continuai ad incassare, finché all’ennesimo sinistro, non spostai il peso del corpo a destra ed esplosi un diretto in pieno volto che lo colse di sorpresa. Vidi la sua gamba posteriore irrigidirsi e la faccia contrarsi in una smorfia di dolore. Una sottile riga di sangue gli colava dallo zigomo sinistro. Avevo ristabilito la gerarchia: io ero il campione e lui il mio sparring partner. Eppure il colpo ricevuto non l’aveva minimamente intimorito, mi venne sotto come un cane rabbioso scaricando un sinistro, destro e gancio sinistro al corpo che a stento riuscii a contenere, poi Serafini ci richiamò all’angolo. Appoggiai la schiena alle corde. Respiravo affan-

nosamente, le spalle erano completamente intirizzite e le braccia ciondolavano lungo i fianchi come corpi estranei. Il negro, invece, sembrava aver retto bene ai colpi. Se ne stava in piedi, all’angolo destro, a scambiare consigli con il mio allenatore, mentre la luce dei lampioni filtrava dalla finestra proiettando un cono giallognolo al centro del ring. All’inizio della seconda ripresa, lo stronzo partì in quarta. Doppiava il diretto sinistro e affondava con il destro, scaraventandomi la testa all’indietro. Tentavo invano di alzare la guardia, ma i suoi colpi si conficcavano come lame incandescenti in un panetto di burro. Il naso e le labbra mi bruciavano ed un sapore metallico mi sciacquava la bocca. I suoi guantoni mi colpivano insistentemente agli occhi, ostruendomi la visuale. Sentivo una rabbia esplodermi in petto ma non riuscivo a reagire, il mio corpo non rispondeva alle sollecitazioni. Mi domandavo cosa cazzo gli passasse per la testa a quel negro, forse voleva farmi il posto, mettermi in ridicolo davanti a Serafini sperando così di diventare il pugile numero uno della palestra. Un altro pezzo di merda pronto a fottermi. Ultimamente tutti volevano fregarmi a partire da quel rabbino del padrone di casa, sino a quella puttana della mia ex moglie, decisa a strapparmi la custodia di Giada. Feci leva sulle ultime forze e mi avvicinai di nuovo al bersaglio. Lasciai sfogare il mio avversario con un’ennesima combinazione di pugni, aspettando solo che aprisse la guardia e poi scaricai un diretto e gancio che lo spedirono alle corde. Mi abbassai e gli rifilai un doppio gancio al fegato. Vidi quella montagna scura grugnire e piegarsi su un fianco. Continuavo a colpirlo senza sosta, scandendo il ritmo con quel poco fiato che ancora mi rimaneva nei polmoni. Serafini sbraitava qualcosa di incomprensibile dall’angolo opposto. Picchiavo con forza, senza lasciargli il tempo di respirare. Ogni mio pensiero, preoccupazione, si infrangeva sul suo viso e le mie urla riempivano la sala. Guardavo il mio nemico chiuso all’angolo, inerme, mentre la base dei miei piedi si tingeva di efelidi rossastre. Improvvisamente una stretta vigorosa mi agguantò alle spalle scaraventandomi al tappeto. Quando mi rialzai, era tutto finito. Serafini ed altri due ragazzi aiutavano Walid che si contorceva sul ring, ansimando e sputando sangue. Ero sconvolto ed incredulo, avrei voluto dire qualcosa, scusarmi, ma le parole si strozzavano in gola. Un capannello di curiosi mi squadrava con sguardi interrogatori. Gettai casco e paradenti sul tappeto e fuggii nello spogliatoio. Ammucchiai alla rinfusa i vestiti nella borsa, corsi verso l’armadietto, sfilai la foto e scappai. 29


30


URLO DI INFINITO Ilaria Preverin

Quella donna si chiama Urlo di Infinito. Perché l’urlo è l’unica via di scampo che ha e nell’infinito l’eco non perde mai il proprio valore di rimprovero. Perché l’abbandono , Urlo di Infinito? Forse perché il cieco non ti ha osservato troppo bene… o perché le persone che ti circondano hanno paura di ciò che pensi prima di urlare. E, in fondo, tu urli solo per dire ce sei viva, che sei ancora lì, anche se gli altri non ti vedono, ti ignorano. Tu , però, sei viva, Urlo di Infinito. E danzi con i movimenti aggraziati dei felini. Ma la tua danza rasenta la perfezione, Urlo di Infinito, rasenta l’infinito. E l’infinito fa paura. Urlo di Infinito non cammina mai per raggiungere una meta. Per le strade grigie della città lei si muove come se tutto fosse banale. Ma per gli altri lei urla infinito anche quando cammina, anche quando muove le mani, lei urla tenerezza, lei urla purezza, lei urla amore… e dell’amore tutte le imponderabili conseguenze. E lo fa sussurrando, o almeno così sembra alle sue orecchie. Ma per gli altri lei urla dolore, lei urla il loro dolore. Il dolore del loro egoismo, della loro paura di amare. Urlo di Infinito cammina sempre da sola, anche quando è con altri, questi sono un po’ distanti, alquanto distaccati, perché per loro lei parla

troppo forte. E, anche se non parla, lei urla la loro infelicità. Urlo di Infinito non ha paura di esser sola, ormai da tempo lei è sola in quel suono, prodotto dalla sua bocca ormai diventata distorta, suono al quale si è sopita, che le rimbomba nella mente come un monito. Teme solo che quel suono un giorno la inghiottisca, che quell’urlo le stordisca l’udito. Eppure per quanto lei urli, nessuno la ascolta. Neanche quando urla amore , che è dorato miele donato al vento. E il suono cresce sperando di superare i confini, i monti, gli oceani, sperando di trovare qualcuno che ascolti il suo canto disarmonico. Questo raggiunge l’infinito e torna indietro senza eco. Anche l’urlo torna stanco da lei. Eppure Urlo di Infinito, di cielo, di stelle, di lune passate, una volta non era che canto di cielo e nel suo carme, un tempo dolce ed armonico, non chiedeva che un grembo, nel quale sopirsi stanca, due occhi, nei quali confondere le proprie paure, ed una bocca nella quale far confluire l’alito vitale del proprio amore. Quel soffio non c’è più. E’ ormai disperso nell’urlo, nel suo urlo, quel soffio che prima era Urlo di Infinito stessa. Questa è la storia di Urlo di Infinito. 31


32


JOSEPHINE Marco Montanaro

33


34


Come quei pensieri che non si fanno mai fiato perché la voce si stringe e si fa piccola in gola, o perché in quella parola che manca è racchiusa l’incertezza di una vita intera: si era addormentata in riva al mare, proprio sul bagnasciuga. Non le capitava da anni. Di fare discorsi di luglio con uno sconosciuto spingendosi fin dove la sabbia ha troppo pudore per non indurirsi e poi sciogliersi e farsi acqua a seconda del momento. Solo che questa volta lo sconosciuto se n’era andato, rimanendo un punto interrogativo che galleggiava sul blu proprio come il sole, mostrando adesso la parte più curva e dunque più tenera, sicura, audace, di sé. Era mezzogiorno. Non ricordava nulla. Si era fatta infinocchiare dalle parole, era una vita che andava così. Lei infinocchiava tutti col suo nome fasullo che nella versione originale italiana era un susseguirsi di sillabe come vicoli ciechi, un diminutivo che trae origine dall’assenza del femminile, una forbice che rimane aperta senza il minimo richiamo: Giuseppina. Così lei si spacciava per il modello francese di se stessa, un nome d’arte, perché il francese è arte quando non c’è di meglio in giro. Come tutti i nomi d’arte, s’era preso la realtà e di lei non rimaneva che lo stupore di chi le stringeva la mano. Se n’era andato in giro spacciandosi – lui, il nome – per l’originale, per l’inimitabile che pure qualcuno – lei, l’oggetto del nome – si era preso la briga di imitare, fallendo. Sempre meglio l’originale, del resto. Non ricordava nulla. Tranne quell’altra, ultima volta in cui si era bruciata sotto il sole. Le erano uscite le piaghe, come adesso, come a un qualsiasi marinaio in giro per il mondo a cercare il proprio doppio, senza mai trovarsi se non nello specchio dell’acqua. Adesso era in piedi. Nessuno chiedeva spiegazioni dagli ombrelloni: tanto meglio. Le girava la testa. Non aveva bevuto. Non era colpa del sole, a cui aveva sempre offerto una buona resistenza, come il suo nome in italiano nei richiami dei parenti. Era per qualcosa che le era stato detto. [Le parole non sono importanti. Le parole non sono meravigliose. Sono essenziali? Se proprio va bene, può capitare che siano efficaci. Ma se ti accorgi che le cose non vanno per il verso il giusto, shhh, sta’ zitta, allora. Altrimenti si ingrossano e diventano macigni, le parole. Diventano impronunciabili, una malattia dal nome lunghissimo, hai paura a nominarla perché potresti finire col beccartela.] Era stato lo sconosciuto. Per lei le parole di quell’uomo – già, proprio le parole – erano state come le stelle di quella notte di luglio: messe lì perché dovevano esserci. Non si potevano certo spegnere le stelle, così come non si poteva impedire a quell’uomo di parlare. Tanto valeva godersi l’aria gonfia di sale. Poi però si era addormentata, e adesso se ne stava sulla spiaggia a ciondolare tra il bagnasciuga e le rocce, come se volesse andar via senza riuscirci. Sentiva di aver tenuto quell’andatura per tutta la vita. Per tutta la vita aveva oscillato tra questo e quello, tra una cosa e l’altra, tra il suo nome vero e quello pronunciato da altre labbra. Ed eccola, non c’era altro, qualcosa l’aveva ottenuta. Sì, non stringeva nient’altro che sabbia, ma ne aveva quanta ne voleva. Sabbia per metri, sabbia per anni, sabbia a volontà, sabbia come parole bagnate di sale che aspettano ad asciugarsi. C’era forse altro che non fosse né volontà né audacia mal riposta? Qualsiasi cosa fosse, era troppo difficile da affrontare con tutte quelle piaghe sulla spalla. Si accarezzò la pelle bruciata. Si accarezzò le palpebre chiuse per intendere se qualcosa fosse cambiato. Oscillare ancora, oscillare ogni giorno: è più facile sulla sabbia, che sa accompagnare i passi a vuoto, e le orme, già segnate da altri come in una lezione di ballo. [L’uomo aveva detto, infine: Oppure le parole sono come la polvere e il fruscio di un vecchio vinile; sono sullo sfondo. Le parole sono lo sfondo, la rete su cui muoversi, il vuoto stesso racchiuso tra le maglie di questa rete; le parole sono i solchi tra i brani; giungerai ad ascoltare il vuoto. Preferisco rimanere qui, senza sapere nulla, è più giusto e non se ne accorgerà nessuno, aveva risposto lei.] 35


36


NUMERO 74 Elda Grazioso

Partiamo da un concetto banale: la vita è fatta di scelte. Ma alla fine è proprio per questo, che la vita non può essere banale. Piccole difficoltà in cui inciampi ogni giorno per passare al quadro successivo, o per finire in un inevitabile GAME OVER. Pensa alla storia tra un 20enne e una donna sposata. Lui si chiama Fabio, è piccolo. È piccolo perché te ne accorgi dai suoi movimenti, si trascina dietro ancora un po’ di quell’adolescenza, che comunque per un uomo è difficile scollarsi di dosso, ma un 20nne ce l’ha ancora incastrata tra i pori. Lei è Anna, un nome semplice è disinvolto, normale, come una donna di 35 anni tendenzialmente cerca di essere. Un marito normale, una casa normale, un lavoro normale. Quella normalità, che dopo un po’ ti annoia, perché hai quello che volevi, perché fino a ieri desideravi, poi hai avuto e adesso provi noia. Questo è il meccanismo che fa scattare quella serie di cazzate che poi un giorno ti pentirai di aver fatto. Il quadro a questo punto penso che sia abbastanza facile e per l’appunto banale. Tutti abbiamo ben capito come questa storia andrà a concludersi. Ma saranno le scelte a renderla dinamica. Anna è avvocato di un importante studio legale, Luca fa le fotocopie, studia informatica. Pausa caffè, di una giornata in cui lei è un po’giù, è sola, nella stanza semibuia, pensa, o forse semplicemente aspetta. Lui entra, si siede, sorseggia il caffè, vaga con lo sguardo di chi si sente di troppo, sorride. In quel sorriso lei percepisce la necessità di farne parte. Una parola, poi due, seguono frasi. Quel sublime raccontarsi a chi non sa di te, da un lato. Quell’inspiegabile necessità di dissetarsi di una voce nuova e di tutti i contenuti che trasporta, dall’altro lato. Dopo un po’ le parole non sono più abbastanza. C’è voglia di partecipazione, contatto. Due mani, toccandosi possono comunicare più di due bocche che emettono suoni. Sono passati giorni, settimane.”che sapore ha la tua pelle?”. È crollata ogni barriera. I sorrisi, le frasi, i racconti, non esistono più. Ora, c’è la pelle, il sudore. Lei inarca la schiena,

respira veloce, ha i capelli sul viso, sulle spalle nude e umide. Lei, sa, è passionale, aggressiva, ha quello di cui aveva bisogno. Lui è dolce, non sapeva, si fa trasportare, usa i sensi come un bambino si improvvisa nella scoperta del mondo che lo circonda. Si parla sempre meno, la novità, l’avventura, perde il suo fascino nel tempo, torna noia. GAME OVER. Luca non capisce, ma si sa, continuerà a studiare, avrà un’altra ragazza e tutte le conoscenze per soddisfarla al meglio. Anna, tornerà alla sua vita da avvocato, moglie, donna normale. Luca, si laureerà, troverà lavoro e si sposerà. Anna assumerà un nuovo ragazzo delle fotocopie. O forse no. Luca sarà distrutto dall’abbandono, si sentirà usato. Anna cercherà di tenerlo a bada, inizierà ad assumere psicofarmaci. Luca incontrerà il marito di Anna, cercando di allontanarlo da lei, non ci riuscirà, cercherà la soluzione in un bagno caldo in compagnia del phon. Anna verrà lasciata dal marito e passerà la sua vita tra la bottiglia di Vodka e lo Zoloft. O beh, forse, no. Scapperanno insieme, in qualche angolo di mondo. Anna scoprirà che la sua voglia di novità era una semplice necessità di amore. Saranno felici, avranno bambini. O forse ancora no. Forse, semplicemente, dovrei iniziare a far pagare a qualcun altro le mie bollette. Ora siamo al numero 72, sono il 74. l’ipotetico Luca torna a recuperare la sua bici e si allontana. La fantomatica Anna, urla al telefono mentre un altro le squilla nella borsa di Gucci. Sono in fila da ore. E quando mi annoio, invece di scoparmi il ragazzo delle fotocopie, preferisco inventarmi storie sulla gente che mi circonda. Non si sono degnati di uno sguardo, sono quasi delusa. Sullo schermino lampeggia il numero 74. dopo mi tocca andare in banca. Magari incontro Laura e Paolo! 37


L’UOMO CHE VISSE Vito Lubelli

38


DUE VOLTE

39


MANHATTAN, 1 marzo, ore 12.32. Benché spesso Therese lo mandasse in sollucchero, e per fortuna avveniva il più delle volte, in quel caso il Puma si era profondamente irritato. E l’irritazione, per il Puma, era l’anticamera della bestia. Nella circostanza, suite cinquestelle, vista sullo skyline di Manhattan, vasca idromassaggio matrimoniale, accappatoio di seta con le iniziali in oro ricamate sulla tasca come omaggio al miglior cliente dal direttore dell’albergo, secchiello con ghiaccio e Kristal millesimato del 1986, solo per citare alcuni tra i comfort annessi, nella circostanza dunque la presenza di Therese e delle sue moine si era rivelata quanto mai inopportuna per il semplice fatto che nella suite con loro si trovava, almeno fino a due minuti prima, anche il principale socio d’affari del Puma. Ovvero l’amministratore unico di una importante compagnia di export… Il Puma scolò a canna le ultime gocce di Kristal e lanciò la bottiglia in direzione della vetrata, molto vicino a colpire la donna all’altezza della chioma color miele. Una pioggia di vetri si sparse sul pavimento di marmo e sul balcone. Intanto una nube nerastra strozzava il cielo acre della metropoli. - Cazzosantissimo! – inveì il Puma tra un gorgoglio e un balbettamento. Therese, per nulla intimorita, si fece avanti sinuosa e cercò di blandirlo ancora. - Ma micetto, lo sai che quando mi sale il desiderio non riesco a controllarmi, no? – disse fasciata in un abitino rosa da cui prorompeva una massa di curve. Le mani unghiate scorrevano già sulla seta addosso al Puma, verso direzioni prevedibili eppure mai scontate. Il Puma, imporporato in volto, la guardò traboccante di collera. La sfacciataggine di lei, solitamente un’arma irresistibile, lo irritò ancora di più. - Era l’affare della mia vita – ringhiò sbavando e scacciando malamente Therese, che ricadde indietro, dolorante al fondoschiena. Un altro oggetto, un posacenere di maiolica fatto arrivare direttamente dall’Italia, andò a infrangersi contro una parete, accompagnato da un: Merda! Bussarono alla porta. - Chi cazzo spacca? – gridò rauco il Puma, ignaro di aver elaborato una figura retorica. La porta si aprì. Un cameriere in camicia bianca, biondo, massiccio e assai abbronzato, fece ingresso nella suite senza curarsi di rispondere. - Signore, perdoni l’intromissione – disse con un sorriso sospettosamente smagliante e una voce fin troppo limpida – ma ho udito dei rumori e ho temuto che fosse accaduto qualcosa. - Non è accaduto proprio un cazzo, bellimbusto 40

– rispose violento e strozzato il Puma. – E ora smamma. - Ma signore, la signora è in terra e ci sono cocci dappertutto. Mi permetta di aiutarla. – La sua voce era orrendamente vellutata e cortese, e ciò contribuiva a far imbestialire il Puma. Che, infatti, intuendo che neanche un misero cameriere lo stava a sentire, iniziò ad avvertire i sintomi dell’annebbiamento da ira. Il sangue gli affluiva al cervello offuscandogli la vista. - Grgrhnhrgh! – latrò. I peli del petto che fuoriuscivano dall’accappatoio si drizzarono quando il cameriere sorridente sollevò Therese con fin troppa premura. Il Puma, ormai più un canide che un felino, sgranò gli occhi mentre l’indesiderato bastardo scrollava con le sue grosse mani l’immaginaria polvere dal vestitino della squinzia. Altro furore. Nessuno lo stava a sentire. Il marcantonio palpeggiava la squinzia, che gli aveva fatto scappare l’amministratore disgustato (o non lo era?), e che adesso non sembrava affatto contrariata dal farsi mettere le mani addosso da quel belloccio. Ora il Puma, totalmente fuori controllo, tremava. Si lasciò cadere sulla poltrona in totale deliquio. - Signore – disse ancora il pupazzo – non si agiti, la prego. Le ripulisco la stanza e tolgo il disturbo. I denti sguainati del cameriere brillavano di luce propria. Al Puma, tra vortici neri di follia, balzarono in mente immagini di Therese supina sul marmo della suite, mentre il bamboccio, nudo, dava una ripassata, ignorando peraltro i cocci. In un attimo di lucidità, il Puma si tirò faticosamente su. Nella realtà, Therese lo guardava con apprensione; egli vedeva invece una diavolessa intenta a pratiche contro natura con il cameriere, che nel frattempo era diventato un negro con un pene mostruoso e la faccia dell’amministratore ghignante. Nel cassetto non c’era nulla. Forse sotto i cuscini? O in tasca, nella giacca appesa. Dov’era il cazzo di revolver? Il sudore gli colava lungo le tempie intanto che si arrabattava a cercare; nel cranio rimbombavano ritmi africani ipnotici. La stanza prese a girargli intorno. - La pistola! – urlò per riprendersi. – Dove sta la mia pistola perdio! Arrivò fino all’altro capo della suite con Therese che cercava di stargli dietro per reggerlo, casomai cadesse, e che ogni tanto portava le mani alla bocca, sconvolta da quel precipitare della ragione. Il cameriere raccoglieva a mano i frammenti di vetro e sorrideva con il suo sorriso stampato. - Tesoro, calmati per favore – sussurrò la donna al Puma. Lui si voltò di scatto. Anche le pupille si erano


fatte rosse per i capillari rotti, e dal naso colava un rivolo minuscolo di sangue. I denti digrignati, le mani paurosamente scosse. Vide Therese sempre più lasciva e sensuale, che lo lambiva e gli suggeriva: - Lasciati andare, unisciti a noi, dai gattino – e il cameriere tornato biondo che annuiva, sempre con quella coda disumana tra le gambe. - Noo!!! – urlò con tutto il fiato che aveva in gola, prima di spingere via con foga Therese, inciampare in un gradino e cadere egli stesso svenuto. Le ultime cose che vide prima di perdere i sensi furono, nell’ordine: quella checca del direttore che lo rimbrottava per avergli rotto la vetrata della suite (ma poi lo perdonava, birichino); la madre che lo rimproverava, pure lei, in dialetto pugliese, perché si era sporcato l’accappatoio di sugo; infine il cameriere teutonico che lo rintronava a botte di membro. Poi buio. MANHATTAN, ore 23.51. Quando il Puma aprì gli occhi, non senza sforzo, la prima cosa che vide fu che s’era fatta notte, e cioè non vide un cazzo. Tuttavia percepì benissimo il cerchio che gli massacrava le meningi, e che s’era addormentato sul divano. Nella suite non c’era nessuno. Oltre l’ampia vetrata, le luci di Manhattan brillavano dalle cime dei grattacieli fino alle strade ipertrafficate. La vetrata? Il Puma si drizzò a sedere, massaggiandosi la nuca e i capelli radi. Qualcosa cominciava ad affiorare. La bottiglia, i frantumi. Quella stronza di Therese che lo aveva fatto impazzire. Pian piano risalì qualche pensiero confuso, ma soprattutto la sensazione di vertigine. Si alzò ancora barcollante in cerca di acqua, dell’interruttore e della ragione smarrita. Notò che il pavimento era pulito, nessun segno di degenerazione. Accese una piantana, meglio non esagerare con la luce, bevve un lungo sorso da una brocca e il tappeto che era la lingua trovò pace. Indubbiamente aveva alzato troppo il gomito. Ricordò alcune immagini più oniriche che reali, ma non sapeva come e quando s’era ubriacato e aveva perso i sensi. Nessuna bottiglia in giro. Silenzio, niente tracce. Immerso nel silenzio ebbe un lampo. Guardò l’orologio da parete e tirò un sospiro di sollievo. Sabato 29 febbraio, tracciava il contatore a scatti sulla destra del quadrante. 29 febbraio. L’incontro con l’amministratore era per domani 1 marzo, di questo il Puma ne era certo. Sospirò una seconda volta e si rassicurò. Il primo di marzo era domani, era stato solo preda del delirio alcolico. Tornò il silenzio per alcuni secondi. - Ouhah! – urlò il Puma a se stesso, di soprassalto. Avevano solo bussato alla porta, ma lui s’era schiantato. Benedetta ipertensione.

- Chi è? – domandò poi, stizzito. La porta si aprì senza risposta. Il cameriere che entrò era l’esatta copia del germanico che, non si sa come, lo aveva sconvolto in qualche recesso della mente. - Signore, mi perdoni, la signora Therese ha chiamato per informarsi sulla sua salute, dal momento che lei non risponde al cellulare. - Per un attimo il Puma si guardò attorno in cerca di un telefono introvabile. Poi tornò a fissare il suo incubo misterioso. - La signora Therese – e qui il vichingo accennò impercettibilmente un sorriso disgustoso – ha chiesto di sapere se per caso non le fosse accaduto qualcosa di spiacevole. Al Puma venne freddo. Che diavolo stava succedendo? Chi era questo, da quale antro dell’inferno era stato sputato, con quel sorriso ebete e diabolico? Stava per smarrire di nuovo la ragione, poi s’impose di tenersi calmo, sangue freddo. Si accasciò nuovamente sull’unica certezza rimasta, sebbene anche quella, la poltrona, pareva volerselo inghiottire in un vortice nero di terrore e oblio. Il colosso teutonico gli si appropinquò. Il Puma fissava un punto indefinito nello spazio di fronte. - Si sente bene, signore? – chiese quello a 32 denti. Dovevano averlo educato così. - Dimmi solo…che è successo oggi? - Oh nulla, signore. Credo che lei abbia solo bevuto troppo champagne a pranzo. La signora Therese ed io – e qui il risolino divenne più accentuato – l’abbiamo raccattato da terra, dove si era addormentato, e messo a dormire sul sofà, signore. Il Puma si sentì lievemente rincuorato. Scacciò via il molesto infilando il bagno per un meritato idromassaggio, dicendo che aveva un appuntamento importante all’indomani, primo di marzo, mentre il biondo era ancora sulla porta. Il cameriere non capì, ma ritenne più opportuno tacere. Cionondimeno – il Puma era già chiuso nella lussuosa toilette – tirò giù l’orologio da parete della suite e spostò la data di un giorno in avanti, borbottando tra sé: Questi ricchi sono talmente stupidi da non accorgersi neanche quando un orologio è indietro. Sistemò la nuova data, 2 marzo: la mezzanotte era passata da poco. Diede una scorsa all’uscio del bagno. Cavò dalla tasca dei pantaloni un cellulare spento, lo riaccese e lo nascose sotto un cuscino. Infine uscì, badando di non fare rumore. In mano, stringeva un bigliettino con un numero di telefono che, del resto, conosceva bene. 41


L’ASSESSORE Alessio Viola

Improvvisamente gli tornò alla memoria un passo dei Promessi Sposi, uno dei pochi che ricordava delle sue letture scolastiche. Quando Don Rodrigo rientra a casa, una sera, dopo una notte di bagordi dei suoi. Testa pesante, bocca secca, nausea, sudore freddo. Tutta colpa della cena, pensava, del vino cattivo. Ora vado a letto, una buona dormita scaccia tutto. Domani mattina starò bene, come nuovo. Aveva la peste. L’assessore si rigirava nel letto, fradicio di sudore. Temeva quello che sarebbe successo l’indomani. Giravano voci di purghe, il presidente sembrava deciso a cambiare tutto, politica, alleanze, uomini. Pure, lui si sarebbe dovuto sentire sicuro, era amico di vecchia data del capo, era stato scelto nonostante il parere di tanti, ostinatamente. Perché allora quella paura, quel blocco alla bocca dello stomaco, il respiro corto, il panico? Si alzò, strascicò le ciabatte fino in cucina, la luce del frigo illuminò bottiglie di prosecco smezzate, succhi di frutta, formaggi vari. Mandò giù un sorso di latte freddo, che si piazzò sullo stomaco come un capitone fritto mangiato la mattina di S.Stefano. Pessima idea. Accese la tv, cercando vecchi film 42

sui canali a pagamento. Di solito funzionano come sonnifero. Un film americano, c’era il governatore che usciva con la macchina di servizio, una di quelle macchinone che non finiscono mai. Una fitta lo assalì all’addome, credette di svenire. Pensò alla sua Alfa argentata, al fido Nicolino che lo aspettava paziente tutti i giorni, alla sua guida sicura e veloce, affidabile. L’avrebbe perso, ne era certo. Che altro potevano significare i silenzi del capo, il suo non rispondere al telefono, il negarsi del suo segretario? Proprio ora che stava risolvendo il caso di quel project financing, un affare da qualche milione di euro, che avrebbe trasformato il volto delle principali città. Facendole risplendere grazie ai supermercati costruiti nelle chiese sconsacrate. Certo, il fatto che sua moglie sarebbe stata la project leader aiutava, ma non era tutto. È che voleva lasciare una traccia del suo passaggio, ecco, essere ricordato come un titano dell’amministrazione. A proposito: doveva ricordarsi, assolutamente, che cosa si era detto con Ciccio al telefono, quella volta che lo aveva chiamato da Cortina. Gli aveva accennato alla scelta della moglie come capo del progetto? C’era


un rompipalle di magistrato che si era messo ad intercettare questo e quello. Lui era prudente di suo, ci mancherebbe. Era pur sempre un ex rivoluzionario, se è per questo. È che a volte non sai, ti scappa una parola di troppo, e il rompicoglioni di turno ti fa sbattere in prima pagina da qualche amico giornalista. Tornò a letto, proviamo con un libro. Uno di Mòntalban, era intelligente quasi quanto lui. Parlava di ricette immorali. Gli si gonfiarono gli occhi di lacrime, si era ricordato che sarebbe stato l’ospite d’onore al festival del tartufo di Alba, gemellato con il cardoncello pugliese. Tre giorni di cene da gourmet, Baroli e Barbareschi come se piovesse, alberghi nei castelli piemontesi, e lui solo, sua moglie trattenuta qui. Doveva ricordarsi di chiamare Pierpaolo, gli avevano detto che da quelle parti fa molto freddo, la notte, anche se si è a settembre, provvedesse lui. Già, chiamare. Lo avrebbe fatto ora, ma sua moglie russava, impossibile parlare senza alzare la voce. Si alzò di nuovo, doveva bere. Acqua questa volta. Fredda, da provocargli una sudata violenta, uscì di corsa sul balcone. Quando si affacciava, di giorno, sembrava di as-

sistere ad una ginnastica collettiva. Gente che si sbracciava, saluti, anche baci. Lui rispondeva solenne, compreso nel ruolo. Poi scendeva, era una gara a chi gli offriva il caffè. O gli strappava una decina di metri sottobraccio, segno di amicizia e promessa di favori. Aveva visto, quando era entrato lui in giunta, la fine che fanno gli ex. Abitava vicino all’assessore al buco nell’ozono della precedente Amministrazione. Di colpo, solo. Attraversava la piazza senza che nessuno lo salutasse. Si avviava con la vecchia Escort verso il suo vecchio istituto, dove insegnava diritto, lui, un quasi principe del foro. I fine settimana erano strazianti. Quando era in carica, sempre fuori. Convegni in Argentina, seminari a Colonia, quando andava male una fiera a Milano. Natale e le feste, poi. La fila dietro l’uscio di casa. Regali, omaggi e prebende di ogni natura, soprattutto di quelle inconfessabili. Proprio come accadeva a lui, ora. No, maledizione, non doveva succedere a lui. Non si rese conto che erano le cinque del mattino, albeggiava. Prese il cellulare, il Blackberry di cui era così orgoglioso. Fece il numero del presidente. Niente. Era staccato. La cosa lo sconvolse, aveva perso il senso del tempo, oltre che del decoro. Bene. Voleva la guerra? Sarebbe andato in consiglio a rivendicare i sui meriti, avrebbe chiesto spiegazioni. A costo di ricorrere al tar, ma non si sarebbe arreso senza combattere. Le sette passate, era già vestito, pronto per andare in ufficio. Sotto casa l’autista aspettava. Gli sembrò che il saluto fosse meno cordiale del solito. Maledetti italiani, sempre pronti a tradire, maramaldi per genetica, altro che politica. La radio era accesa. Il gr delle sette e mezza. I nomi del rimpasto. Ascoltò trattenendo il fiato. Questi gli assessori destituiti. Cinque nomi, scanditi con lentezza sadica dall’annunciatrice. Poi, il silenzio. L’autista inchiodò quasi, accostando con manovra audace. Motore spento, silenzio. Uscirono contemporaneamente dall’auto, si guardarono, solo un vento leggero e caldo a testimoniare del momento. Un urlo, e un abbraccio, e vai! Lui non c’era fra i trombati, era nell’elenco dei buoni, di quelli che si erano salvati. Un ballo selvaggio, un trenino con l’autista, una festa che l’estate dell’82 era niente al confronto. Si ricomposero presto, gli sguardi dalle poche auto che passavano dicevano dello stupore che provocava la scena. In auto, accanto all’autista perché lui era democratico, cosa credete, il primo gesto fu il numero del presidente. Questa volta squillava. A disposizione! Fu l’unica frase che riuscì a pronunciare, prima che la commozione lo sopraffacesse. 43



SCRIVERE VERSI GUARDANDO I GATTI CHE DORMONO NELL’ANFITEATRO ROMANO DI LECCE Rossano Astremo

È un dato acclarato: i poeti subiscono enormemente il fascino dei gatti dai quali traggono spunto e ispirazione. Quali le possibili ragioni? Di certo questa corrispondenza d’amorosi sensi è d’attribuirsi all’incanto delle movenze eleganti dei felini, al loro carattere indipendente e all’affetto che riescono ad esprimere. Aldous Huxley disse ai suoi allievi che gli avevano chiesto il segreto per avere successo in letteratura: “Se volete scrivere, tenete con voi dei gatti”. Pensate ai versi di Charles Baudelaire contenuti nei Fiori del male (Vieni bel gatto, vieni sul mio cuore amoroso; / trattieni i tuoi artigli / ch’io mi sprofondi dentro i tuoi begli occhi d’agata e metallo), o all’Ode al gatto di Pablo Neruda (Il gatto, / soltanto il gatto / apparve completo / e orgoglioso: nacque completamente rifinito, / cammina solo e sa quello che vuole), o ancora a John Keats (Gatto, che la tua età matura hai superato, / quanti sorcetti e ratti hai sterminato nei tuoi bei giorni?), Umberto Saba (Ai miei occhi è perfetta / come te questa tua selvaggia gatta, / ma come te ragazza / e innamorata, che sempre cercavi, / che senza pace qua e là t’aggiravi, / che tutti dicevano : “È pazza”. / È come te ragazza), Borges (Penso che questi armoniosi gatti / Quello di vetro e quello a sangue caldo / Sono fantasmi che regala al tempo / Un archetipo eterno), e l’elenco sarebbe davvero infinito. Un luogo che unisce

poeti e gatti è certo l’anfiteatro romano di Lecce, che si trova in Piazza Sant’Oronzo. Rispetto alla costruzione originale, risalente al II secolo dopo Cristo, oggi ne restano l’arena, le gradinate inferiori e parte delle mura sterne. Era luogo di divertimento e spettacolo delle guarnigioni romani stanziati nei pressi della città, allora chiamata Lupiae. Nei secoli successivi a quelli del dominio romano, l’anfiteatro fu sotterrato e sovrastato da altri edifici. Questo sino al 1901, quando durante gli scavi per la costruzione della sede della Banca d’Italia, fu portato alla luce. L’edificio, costruito in pietra leccese, era in gran parte rivestito da marmi e arricchito di decorazioni, ora conservate presso il Museo Castromediano di Lecce. L’anfiteatro è una delle grandi attrattive turistiche di Lecce. Da qualche anno, però, non è solo invasa da turisti, ma anche dai gatti randagi della zona, i quali vedono nell’antico monumento romano il luogo privilegiato del loro oziare. Se amate la poesia e se di tanto in tanto scrivete anche voi qualche verso sostare nei pressi dell’anfiteatro e osservare questa nutrita schiera gentile di felini affamati ed affettuosi sarà miele per la vostra ispirazione. Questo è un capitolo tratto dal nuovo libro di Rossano Astremo, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita (Newton Compton Editori) 45


46


TUNINE Tony Rucola

Alle u e le i, le mie preferite

Tunine puzzone ne sa una più del diavolo - noto puzzone anche esso. Se vi potessi parlare di Tunine, lo farei. Infatti lo sto facendo. Innanzitutto, un poco di sano razzismo, paisani. Perché esiste “Un sud del sud del sud dei santi”, sì: quelle terre e quella gente dal sentimento meridiano tragico e mistico, ma esiste anche “un sud del sud del sud dimmerda”, quel sud che ci si porta dietro come una macchia di sugo sulla camicia di lino. Come una peperonata che si ripropone, e noi di questo suo riproporsi non ne abbiamo la minima voglia. Una macroregione senza alcun rispetto per le vocali. Esse sono percepite come segno di debolezza, di mollezza muliebre. Allora l’uomo (e la donna pure essa, che poi è un uomo che non può grattarsi le palle, la donna, e per questo fatto tiene l’invidia: ma è inutile che si

fa crescere i baffi, essa non sarà mai un uomo) dicevamo l’omme, di fronte alla vocale, scappa. O tergiversa. Esso l’uomo ricorre alla parlata in codice fiscale (es.: f’ngul a m’mm’t) oppure traccheggia usando un fonema polivalente e indefinito (es.: fängule a mämmete). Una macroregione dove tutti nelle discussioni hanno raggione (una g sola è da froci: la ragione nun tiene raggione). Tunine uomm e sostanz alla Utogrill tutti lo rispettano, forse per l’antica sagacia con cui ordina il menu ‘fatti furbo’ A Tunine non far saper quant’è bbuone il panine con la Dreer* Tunine furbette ha cresciuto in quelle terre dove ogni filo d’erba è a portata di pecora. Nella tranz-umanze verso la città grande e gruosse Tunine non ha perso il suo sapore di 47


48


robusta verità agricola. Perché l’uomm e sostanz tiene raggione, e per affermarla la propria raggione ci vuol ostinazione: la cape tuoste. Tunine fetente, penza il mondo in termini di acri ed ettari da gonquisctare Tunine onnipotente, in canotta sul trattore: il mondo lo deve ammirare: quant’è gruosse e quant’è fine, Tunine. Sbagliano, i metropolìti (sì, parossitona è la morte sua) a sottovalutare uommini comme esse. Loro praticano il dubbio e il sesso incerto. In quella confusione c’è bisogno di Tunine così come la mozzarella necessita di forchetta. La società metropolìta è una mozzarella che, se ci affondi la forchetta, invece di uscire il latte escono i guai. Questi guai uno li risolve, se si chiama Tunine ed è quell’uomo là, che abbiamo detto e mai troppo abbastanza dicemmo. Ogni uomo comunque, ha la sua pasta. E la pasta di Tunine non c’è bisogno di dirlo qual è: una pasta tosta, incazzosa, pronta alla percossa. Esso Tunine, dopo essersi amareggiato nel sangue – per esempio quando legge gli editoriali della Gazzetta dello Sport, cosa che lo incita alla rivolta – esso deve solo trovare l’avversario, il nemico da sopraffare e avvolgere nelle mazzate che esso come uomo di pasta tosta e vindice esso dà. Quella volta (quale volta? Quella, quella) esso Tunine ebbe visto in Vincenze detto V’ng’z il suo uomo nemico antagonista del suo essere – esso Tunine – Tunine. Quella volta Tunine forse qualcosa era andata storta e questo faceva di Tunine un uomo storto, pronto al nervosismo reale, all’espressione manesca del malessere. Esso Tunine era fermo al bar – il che non faceva di lui nessuna rarità, non solo nel suo paese, ma nella regione intera – mentre quello Vincenze accorreva verso il bar. Ecco non so cosa andò storto nello sguardo di Vincenze verso Tunine, ma va già premesso, come premessi (io), che Tunine era precedentemente stortificato. Insomma lo sguardo di Vincenze non era quello giusto e tranquille e siccome Tunine è uomm ‘e conseguenz, insomma pura meccanica di causa ed effetto Tunine nuoste, ecco si fece sentire con le ossa delle mani sulle ossa della faccia - tra l’altro spigolosa - di Vincenze. Così agì Tunine che questa spigolosità fu in Vincenze molto meno spigolosa dopo questa esperienza per lui di mazzate subite prese da Tunine tutto storto per chi sa quali insondabili motivi che forse solo a Venafro e Vinchiaturo possono capire. Noi fedeli cronisti di Tunine incazzato all’opera possiamo dire che esso è uno spettacolo anche divertente

soprattutto se non sei tu ad accogliere sugli zigomi le nocche di Tunine uomo d’azione. Abbiamo detto di Marte ma adesso dobbiamo parlare anche di Venere perché bisogna ammettere che Tunine non è affatto uomo indifferente all’ingroppare la donna soprattutto se pecora. Esso infatti viene da una terra eletta mistica molto religiosa e tradizionale, dove si inculano le pecore e si tosano le donne. Però Maria era diversa dalle altre pecore, seppur donna. Essa Maria era donna ma stranamente non provava con i baffi a rimontare le distanze che dividevano essa come donna dagli uomini come uomini. Maria aveva quel guardare imperscrutabile che hanno spesso le pecore quando aspettano di essere condotte, non importa dove. Maria si era arresa di fronte al tanto essere di Tunine. Esso Tunine già a vederlo dall’esterno sembrava molta cosa come bipede mascolino. Ma era ancora di più forte la verità di Tunine quando esso si calava i pantaloni mostrando i suoi possedimenti per la riproduzione. Quella cruda verità, quella cornucopia era per Maria quasi una cosa da sognare la notte – infatti la sognava – una promessa di felicità tutta da afferrare e tenersi stretta per sé, Maria. Si conobbero per bene senza buttare sul piatto troppe parole. Dopo averla spremuta della femmina che era in lei Maria andava ripetutamente percossa. E questo Tunine, che era un galantuomme, lo sapeva bene. La mazzolava potente di ragioni arcaiche, torti subiti all’origine: storie di costole fottute e mai più restituite, se non in forma di pertuso con la femmina intorno. Maria, sanguinante al labbro o al naso, o in tutti e due, conosceva nella mano piombata di Tunine la giustizia che lei da tempo aspettava, in quanto donna che uomo non sarebbe mai stata, sbagliando così dal feto alla bara. Dopo aver ricevuto la giustizia, tumefatta nei connotati, Maria le piaceva proprio di sfamare il forte Tunine - il giusto Tunine - che tanto si era stancato a darle giustizia. E allora Maria la tumefatta cucinava mari e monti – e i campi coltivati a verdura che ci sono in mezzo – per il nostro Tunine dall’appetito millenario e prepolitico. E allora Tunine si sentiva che le voleva bene e la randellava fiero lì nella stanza del mangiare, per il sommo piacere di entrambi. Questo era in sintesi l’amore di Maria e Tunine, che quest’ultimo è quell’uomo là che abbiamo detto e mai troppo abbastanza dicemmo. 49


EVENTI

NEGRITA

12 agosto - Parco Gondar - Gallipoli (Le) In occasione del loro concerto in Salento che si terrà al parco Gondar di Gallipoli il 12 agosto abbiamo parlato con Pau, voce dei Negrita. Da 15 anni sulla cresta dell’onda del rock italiano i Negrita, sono cresciuti, hanno viaggiato, sono cambiati ma restano la rock and roll band di sempre. Negli ultimi due album (L’uomo sogna di volare, Helldorado) c’è un amore verso i sud del mondo (Brasile, Argentina) cosa è successo? In realtà non ho mai saputo rispondere veramente a questa domanda, ci sono dei posti capaci toccarti l’anima, di aprire un “mondo” che non ti aspettavi esistesse. Sarà anche che noi toscani siamo in mezzo divisi tra nord e sud, come se non fossimo né carne, né pesce e che naturalmente siamo più attratti dal sud, dove la musica ci porta. Al sud non ci sono filtri, le emozioni arrivano dirette. Al sud perché da sempre siamo dalla parte dei più deboli, con il nord manteniamo più che altro rapporti che riguardano l’industria della musica. Sempre restando al sud. Da anni sembra che i Negrita abbiano scelto il salento. Il vi50 EVENTI

deo di Gioia infinita, l’amicizia con un altro salentino d’adozione (Roy Paci) la masseria Ospitale. Ce ne parli? È un caso, credo che tutto ruoti un po’ intorno al Barbacci che per primo ci ha parlato di questa masseria dove ragazzi giovani (Valeria e Oronzo) portavano avanti questo posto e questo progetto. Con Roy c’è da tempo un amicizia che mi piace definire rotonda perché non ha spigoli a cui attaccarsi. La masseria non è altro che un piccolo paradiso, molto importante perché è una specie di triangolino delle bermuda dal quale si è attratti e che invece di far sparire le cose come un buco nero è invece un buco di luce. In questi posti speciali resi tali dalle persone che li abitano è naturale che si crei scambio e che si produca come nel caso del video di Roy di cui sono ospite e del nostro in cui compare Roy. Nel nuovo disco sembra ci sia una sensibilità nei confronti del mondo diversa, uno sguardo sociale, più un generale una maturità nei testi… cosa ne pensi? Probabilmente si. Io ho sempre pensato ai Negrita come a una rock and roll band. questo per me significa avere la possibilità di spaziare di


poter e parlare e raccontare di tutto. Puoi passare dal sociale al ludico, parlare di sesso, di sbornie raccontare tutto quello che vedi, che vivi, che ti interessa. Evidentemente a quarant’anni sentiamo la necessità di porre l’accento su cose diverse, e magari di porre l’accento su problemi nazionali e internazionali. Siete esplosi con Cambio nel 94, cosa è cambiato da allora? Nel 94 c’era un grande fermento intorno all’Ira (nostra etichetta dell’epoca) e nel panorama musicale italiano. Ricordo che fu proprio in quegli anni che cominciò la nostra amicizia con il salento, ricordo gli Nn e Ninfa che ci ospitò nella sua casa di san foca durante le nostre tappe in puglia. In quegli anni c’era a consapevolezza che esisteva una cultura altra, si faceva avanti l’idea di un rock nazionale, c’era un humus diffuso, molte scuole regionali… frutto del lavoro di gruppi Litfiba, Cccp, anche di Ligabue per alcuni versi. In quel momento alcune major si interessarono a questi gruppi mettendo in un unico calderone gruppi molto diversi riuniti sotto la denominazione rock anche se di rock in alcuni casi non si trattava. Anche la stampa si interesso molto alla cosa e anche giornali insospettabili (Max ad esempio) dedicavano copertine ai gruppi indipendenti. Tutto questo ha avuto due tre anni di vita importanti, poi è morto mangiato dal mercato, lasciando la musica buona muoversi nell’underground, mentre le radio sono invase dai vincitori dei format televisivi. Noi in questo siamo stati sempre un po’ puttane e credo che per fare rock and roll bisogna esserlo, vedi i rolling stones …ehehe. Credo che questo ci ha permesso di rimanere sulla cresta dell’onda. Come sarà il vostro live nel salento, come va il tour? Insieme ad altre persone che insieme con noi hanno organizzato tutto il tour di questo inverno siamo partiti alla grande, la prima parte del tour ha registrato ottimi risultati, molti sold out. Questa seconda tranche somiglia per alcuni versi alla fase invernale ma presenta anche delle novità in scaletta. La maggior parte del live è dedicata al nostro nuovo album Helldorado. Ovviamente non mancano i nostri classici. Il live sprigiona moltissima energia, si balla e si canta per due ore. Chi pensa di venire per assistere a un concerto come spettatore passivo si sbaglia, il nostro è un live fatto per creare un unione tra la gente il palco in cui il pubblico deve partecipare. Dario Goffredo

15 agosto Salento Summer Festival al Parco Gondar di Gallipoli

Roy Paci, Papa Chango, Crifiu, Brusco sono gli ospiti principali del Salento Summer Festival. Sabato 15 agosto torna infatti uno degli appuntamenti più longevi dell’estate salentina. Organizzato da Alta Fedeltà Produzioni il Festival giunge alla sua nona edizione e si sposta al Parco Gondar di Gallipoli. Nel suo peregrinare geografico e artistico, nelle passate edizioni accanto ai maggiori interpeti del reggae come Sud Sound System, Luciano, Africa Unite, Junior Kelly, Bushman, Roy Paci e Aretuska, Caparezza, Marcia Griffiths, Anthony B, Lee Scratch Perry, Capleton, Raiz, Zion Train, Beenie Man, Richie Spice il Salento Summer Festival ha ospitato anche i ritmi più duri di Sepultura, Marlene Kuntz, After Hours, Meganoidi, Soulfly, Extrema e molti altri ancora. L’uscita del nuovo lavoro di Roy Pace & Aretuska è prevista per dopo l’estate, intanto il trombettista siciliano è impegnato nel Global Warming Tour 09, un contributo al surriscaldamento globale… delle piazze che non manca di ricordare, con la consueta ironia e con la travolgente solarità e natureza della musica, quanto la salvaguardia del nostro pianeta sia invece importante. Papa Chango, sette musicisti, tra i più apprezzati del Salento, con altrettante inclinazioni e attitudini musicali si esibiscono insieme per questo omaggio d’autore dedicato a Manu Chao, il “papà” della Patchanka. Rock, ska, reggae, un mix di generi musicali e lingue che difficilmente faranno tenere “i piedi per terra”. Ingresso 15 euro. 51


BOOSTA 14 agosto - Cube Festival - Parco Gondar - Gallipoli Personaggio poliedrico e cangiante Boosta passa con agilità dalle tastiere e i sinth dei Subsonica, alla consolle, riesce a reincarnarsi nei Caesar Palace e a muoversi con agio tra le pagine di un romanzo e quelle delle riviste. Sarà nel Salento ad agosto per il Cube Festival che, alla sua seconda edizione, offre una line-up d’eccezione. A salire sul palco il 13 agosto saranno i Marlene Kuntz, di cui a gennaio è uscito il primo Best Of, i Motel Connection, progetto elettronico trasversale di dj Pisti e due dei componenti dei Subsonica, i Serpenti, giovane band milanese di genere electro-rock e Amerigo Verardi & Marco Ancona, due degli artisti più influenti della scena underground salentina. Dopo i concerti si ballerà con i dj set di Carlo Chicco, di Dj Hugo e della mitica Skin. Il 14 agosto sarà la volta degli Afterhours e di Morgan & Le Sagome. Apriranno la serata La Fame di Camilla, band pugliese emergente, The River, una delle più brillanti realtà della scena indipendente italiana, i Nena, quintetto lombardo e gli Hype, indie rock band barese. A chiudere il festival i dj set di Play Paul dei Daft Punk e Boosta dei Subsonica. con quest’ultimo Coolclub. it ha fatto una chiacchierata. Al di là dei miti… che immagine ha un torinese del panorama musicale salentino? Vivace certamente. È stato un porto franco che, nonostante le difficoltà, ha bypassato la stanchezza della musica italiana reagendo sempre con grinta. C’è una forma di assonanza: sono i territori dove manca l’industria, musicale si in52 EVENTI

tende, a generare lo sforzo creativo migliore. Dalle parte di casasonica abbiamo di casa gli Steela, e posso dirvi che se avessi qualche anno di meno... Tu arrivi da una città che ha creato l’unico festival internazionale gratuito in Italia. A quarant’anni da Woodstock… credi che i festival mantengano ancora accesa una scintilla di quel fuoco primordiale? Con certezza. Lo dico a ragion veduta. Da spettatore e da musicista. Sono momenti ormai unici di aggregazione. In un Paese come questo nel quale uscire la sera e stare insieme è reato il festival, perdonatemi l’iperbole, diventa un momento di resistenza civile. L’affluenza e la passione di tutte le persone che scelgono di passare una serata godendo un buon concerto è dimostrazione tangibile che esistono altre vie per diffondere pensiero e parole che non sia quello della televisione o dei giornaletti. Subiamo un imbarbarimento che merita di essere combattuto con le armi che abbiamo a disposizione, perché questa lotta silenziosa ed intelligente non dovrebbe passare attraverso il concetto di festival. A proposito del tuo prossimo djset al Cube Festival di Gallipoli: non pensi che i dj abbiano raggiunto lo status di rock star? A volte sì. La medaglia ha naturalmente la doppia faccia. Il sogno di fare il musicista o il dj, viene inevitabilmente snaturato dal desiderio di ce-


lebrità fine a se stesso. Non dovrebbe essere così. La musica, elettronica e non, merita un rispetto infinito, come un rispetto infinito meritano le persone che scelgono di lasciarsi la propria quotidianità alle spalle per qualche ora ballando e vivendo gomito a gomito con i propri simili. Non è un aspetto secondario. In Caesar Palace cristallizzano diverse esperienze degli ultimi dieci anni: l’alter ego animato dei Gorillaz, il sound di gusto post-elettronico degli ultimi Depeche Mode. Ne sei consapevole? I Gorillaz non sono stati i primi ad usare alter ego bidimensionali come i Depeche non sono stati i primi ad utilizzare i sintetizzatori. È inevitabile che ci siano dei tratti in comune. Il mio punto di partenza rimane, e rimarrà, quello di fare musica così come la sento fino a quando avrò qualcosa da raccontare. Tutto qui, è meno complicato di quanto si possa pensare. Dopo L’Eclisse senti che ci siano differenze al momento di concepire una canzone con testo in inglese? Immaginario, processo creativo, riferimenti, ispirazione… I Subsonica usano un inglese maccheronico per

formare la melodia delle canzoni che poi avranno il proprio testo in italiano. Amo entrambe le lingue ed ho imparato a scrivere ed amarle tutte e due. Ma sono italiano e non nascondo l’orgoglio quando una grande canzone ha un grande testo nella mia lingua. Tu sei uno scrittore e songwriter. Entrano in relazione queste esperienze creative o rimangono ciascuna per la sua strada? Sono tutti aspetti complementari dell’espressione. La musica , la scrittura, il cinema. Tutti condividono il comune denominatore dell’avere qualcosa da raccontare. Ed è altresì l’unica chance che hanno per guadagnare quell’immortalità cui, in linea di principio, ambiscono. Questo vorrei fosse il fil rouge. Avere sempre qualche cosa da raccontare. Un detto in spagnolo dice… “No hay dos sin tres”. A quando il terzo romanzo? Arriverà presto, credo già l’anno prossimo. E sarà, mi auguro con tutto il cuore, un bel passo avanti nella mia scrittura e nella genesi di una nuova storia. Josè Luis Molteni

53


54


PAOLO FRESU 4-5 agosto - Locomotive Jazz Festival - Sogliano Cavour Ci sono persone che ascolteresti stando in silenzio per lunghissimo tempo deliziandoti con il solo suono che produce la loro voce. Paolo Fresu appartiene a questo genere. Lo chiamo in un infuocato pomeriggio di luglio, tra mille sigarette e un inutile ventilatore; un paio di frasi smozzicate, si schiarisce la voce e dopo pochi minuti attacca a parlare veloce con quella sua voce fluida, quasi liquida. Se conosci la sua musica non ti stupisce che il suo modo di interloquire sia altrettanto evocativo, e non puoi fare a meno di pensare che abbia una sorta di potere “immaginifico” che lo connette con il mondo. Ad agosto sarà in Salento per il Locomotive Jazz Festival di Sogliano Cavour (4 e 5 agosto) con il suo Devil 4tet, il concerto per Frasi, Frise, Frese, Fresu e il progetto di musica itinerante “From Station to Station” nelle stazioni della linea ferroviaria Sud-Est. Non posso fare a meno di chiedergli come ha conosciuto il sassofonista Raffaele Casarano, direttore artistico del festival, che ha da poco esordito in casa Universal con “Replay” lavoro che vede lo zampino di Fresu in ben cinque brani. “Ora che mi ci fai pensare, è proprio in una stazione ferroviaria che ci siamo conosciuti. A Parigi, qualche anno fa, Raffaele mi fermò e mi diede senza alcuna pretesa un suo CD. Lo ascoltai come faccio sempre, ma devo dire che poche volte sono rimasto colpito al primo ascolto come quella volta. L’ho richiamato e mi sono ritrovato proiettato in una storia che un po’ mi apparteneva”. Il piccolo centro lontano da tutto, la formazione nella banda del paese, gli studi al conservatorio, gli chiedo se, per alcuni versi, non ritrova le sue stesse origini nella storia di Raffaele Casarano, “Sì, assolutamente, anche se devo dire che Raffaele non è più un talento emergente, è ormai una realtà, di lui e dei musicisti del Locomotive apprezzo la serietà e la concretezza, l’attitudine a perseguire un obiettivo con semplicità aprendosi al proprio territorio”. Lo speciale concerto itinerante “From Station to Station” partirà da San Cesario il 4 agosto e farà tappa in diverse stazioni del Salento; un viaggio musicale che vedrà come protagonisti lo stesso Fresu, Raffaele Casarano & Locomotive, Cesare dell’Anna con il suo Girodibanda. “Ho trascorso buona parte della mia vita in tre-

no, per me ha un fascino intrinseco, per certi versi mi rappresenta... penso a quando ci salivo su per andare fuori a studiare, a tutti gli incontri e le scoperte, a tutta la musica che ho scritto, perché scrivo prevalentemente in viaggio. È questo nesso strettissimo tra lo spazio geografico e il tempo, questo attraversamento in un tempo dato che per me è suggestivo di per sé”. Gli faccio notare che in Salento ci hanno provato in molti a far viaggiare a ritmo di musica i vagoni delle ferrovie Sud Est, e che trovo fantastico che si sia riusciti a farlo in jazz e che questa musica stia finalmente uscendo fuori dal localino fighetto. “Il jazz si è chiuso nei club a partire dagli anni ’70, fino a diventare musica per pochi intimi, solo ultimamente, si sta riappropriando di una dimensione popolare, che poi è quella da cui parte questa musica. Molto sta accadendo proprio grazie ai festival, qui come altrove, nel Salento per esempio il Locomotive è sicuramente un’esperienza pilota, come lo è stato il festival di Berchidda, credo che i festival in generale debbano interagire con il territorio, captarne le necessità facendo delle peculiarità di un luogo un fattore importante di diversità e di creatività”. Il festival che lui dirige, Il Time in jazz di Berchidda (dal 9 al 18 agosto), giunge alla sua XXII edizione e avrà come protagonisti, tra gli altri, musicisti del calibro di Jan Garbarek, Gianluca Petrella, Eivind Aarset, Richard Galliano, Morgan, Angelique Kidjo. Quest’anno il festival è dedicato al tema dell’acqua “Molti sono i significati attribuiti all’acqua nella simbologia, nella cultura, nella religione e nelle rappresentazioni artistiche dell’uomo” sottolinea Fresu “Acqua significa anche coscienza dell’uomo stesso e della casa che ci ospita. Ancora il mondo si divide in popoli che sprecano l’acqua e in popoli che muoiono di sete”. Time in jazz è un festival all’insegna della creatività che trova le sue radici nell’identità del territorio che lo accoglie. Questo stretto rapporto con la natura si è intensificato particolarmente in questi ultimi anni, portando a un maggiore impegno in senso “ecologico” del festival di Berchidda che ora, inaugurando questo ciclo dedicato ai quattro elementi – acqua, aria, terra e fuoco – mira a rafforzare la sua vocazione alla biosostenibilità. Antonietta Rosato EVENTI

55


DA SABATO 1 A VENERDÌ 21 AGOSTO Streamfest nel Salento

Da sabato 1 a venerdì 21 agosto Streamfest, giunto quest’anno alla terza edizione, è un’inedita kermesse di immagini, suoni, performance e installazioni, luogo ideale di incontro tra differenti culture e stili di vita. Una manifestazione che superando le distanze si propone di abbracciare la tematica della salvaguardia del pianeta e del rispetto per l’ambiente muovendosi tra alcune affascinanti e suggestive località della penisola Salentina. Musica, installazioni, teatrodanza, workshop, mostre, convegni, rivolta ad un pubblico vasto e multiforme, con l’obiettivo di individuare nelle nuove culture digitali forme ancora inesplorate di spettacolarità. Cassius, Cassy, Leroy Thornhill dei Prodigy, Matthias Tanzmann, Congo Rock, Reboot, Limo, Populous, Metuo sono solo alcuni degli artisti che animeranno in suoni e visioni lo Streamfest. Il festival prende il via Sabato 1 agosto alle ore 20.00 al Maestrale presso il Molo S.S.Martiri di Otranto con il workshop “Politiche energetiche: contesti globali ed azioni locali. Dalle ore 22.00 si terrà la Rassegna Cinemaambiente con la proiezione di corti selezionati sul tema dell’ecosostenibilità curata dalla rassegna internazionale di cinema sull’ambiente di Torino. Multimedia interaction design: The Fake Factory, Virgilio Villoresi, Werk Design, Jokoplastico, Switch Project. Dalle 23.00 infine Live e dj set con Narrow, Nudo al cubo, Metùo e Populous con visual di Werk design e Iroki. SABATO 1 Le ardiche al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Nitin Sahwney a Locorotondo (Ba) Caparezza a Supersano (Le) Luca Carboni a Ceglie Messapica (BR) Cristiano De Andrè in “De Andrè canta De Andrè” a Lecce El Sabatone de Tobia Lamare al Buena Ventura di Torre Specchia (Le) DOMENICA 2 Go Down Festival a La Serra, S.S.101 Lecce56 EVENTI

Gallipoli (Le) Domenica 2 agosto approda nel Salento per la seconda volta la macchina da guerra Go Down Festival, manifestazione itinerante dell’etichetta emiliana Go Down records che da anni ormai fa il giro d’Italia e d’Europa per promuovere attraverso concerti le varie band della sua scuderia, ma anche “prodotti” affini ad una certa filosofia musicale. In questa edizione le band che si esibiranno sono: il power trio Poison Deluxe (Treviso) side project “visionario” di Max Ear, drummer degli OJM dedito alla psichedelia funk degli anni ’60 imbastito da melodie acid/blues; Re-Dinamite (Treviso) rock’n’roll stoner energico e accattivante, ballabile e pogabile, che odora di grappa; Muffx (Lecce) post-stoner dedito alla ricerca di una nuova strada attraverso miscele esplosive a base di rock e cultura etnica, due album all’attivo, in promozione col loro ultimo lavoro Small Obsessions; Ed infine con la speciale partecipazione dei To.Pi.Ma. (Palermo) che pur essendo un autoproduzione rappresenta una delle migliori sintesi della filosofia “rock del deserto” provenienti dalla Sicilia. Streamfest al Palazzo della Cultura di Galatina (Le) Streamfest presenta Wet and Dry: relazione tra arte e natura nel contemporaneo tecnologico. La mostra ospiterà un ciclo di artisti locali, nazionali ed internazionali le cui operazioni artistiche aprono uno sguardo critico sulle condizioni attuali d’interazione tra natura e nuove tecnologie. Info 349.3515363 - 329 0613422. La noche Pampero Rum al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Radiodervish a Tricase (Le) La band nata a Bari nel 1997 dal sodalizio artistico tra Nabil Salameh e Michele Lobaccaro, in cui la melodia si incontra con testi cantati in italiano, arabo, inglese e francese che affondano le radici sia nella tradizione araba che nella musica d’autore italiana. Il concerto rientra nella manifestazione Il volontariato al centro. Info: 0832/392640 Fabrizio Bosso Quartet & Filippo Timi a Locorotondo (Ba) Kamafei alla Festa te lu purpu di Melendugno (Le) Ministri a Bitritto Caparezza a Grottaglie LUNEDÌ 3 Rossella Brescia e Josè Perez in “Carmen” all’Anfiteatro Romano di Lecce Arriva a Lecce il balletto in due atti per la coreografia e regia di Luciano Cannito, protagonista assoluta è la ballerina e showgirl televisiva Ros-


sella Brescia che per l’occasione sbarca a teatro indossando i panni della Carmen di Georges Bizet. Accanto a lei il collega cubano José Perez, ballerino della fortunata trasmissione mediaset “Amici”. “La potenza della musica di Bizet è riuscita a far diventare il nome Carmen un archetipo universale della cultura dell’Occidente. Dire Carmen è un po’ come dire passione estrema, voluttà, forza e istinto. Carmen è il sole dei Sud, la felice disperazione di possedere solo se stessi e la propria libertà”. Immaginata nell’isola di Lampedusa, isola del Sud per la ricca e annoiata Europa, mitico Nord per centinaia di disperati e profughi in fuga chissà da dove e chissà per quanto tempo. Storie, del resto, sotto i nostri occhi dalla mattina alla sera” dice il regista, “Carmen può essere oggi una sudanese, una kurda, un’afghana, una kosovara, una pakistana, e non ha paura di rischiare tutto per la propria libertà. E’ una giovane donna che, come una leonessa, sa di possedere forza, bellezza, potenza e libertà. Carmen sa di essere ricca di quella ricchezza che non si può comprare”. L’appuntamento rintra nella rassegna Mediterranea del Comune di Lecce. Biglietti a partire da 20 euro. Caparezza a Carosino MARTEDÌ 4 Locomotive jazz festival a Sogliano Cavour (Le) Andy J Forest a Li Matonni di Erchie (Br) Nuovo appuntamento con l’America & Folk Festival di Erchie con Andy J Forest, poliedrico artista, armonicista, cantante, chitarrista, ma anche attore, testimonial pubblicitario, songwriter, scrittore e anche pittore. Inizia a suonare a New Orleans nei primi anni ‘70, esibendosi con James Booker, Earl King, John Mooney, Antonie Domino, Billy Gregory e altri musicisti locali con i quali da vita ai “Radiators and the Subdudes”. Inizia quindi la sua carriera professionale all’età di 22 anni dimostrando un stile unico fin dagli inizi. Le sue esibizioni dal vivo, molte delle quali in importanti festival, gli hanno dato l’oppurtinità di aprire i concerti per B.B. King, Stevie Ray Vaughan, Buddy Guy & Jr. Wells, Clarence “Gatemouth” Brown. Nel 1989, al Montreaux Jazz Festival, B.B. King chiede la sua presenza durante una jam session con Bobby “Blue” Bland,

Joan Baez e Luther Allison. Reggae Summer Magazine Party al Parco Gondar di Gallipoli (Le) MERCOLEDÌ 5 Locomotive jazz festival a Sogliano Cavour (Le) Marta sui Tubi all’Arci di Novoli (Le) Torna Sud Est Indipendente, la rassegna estiva organizzata dalla Cooperativa CoolClub. Quest’anno ospiti del festival saranno i Marta sui Tubi. Il trio Siciliano, dopo il fulminante successo di “C’è Gente che Deve Dormire” e del recente tour a supporto del DVD “Nudi e Crudi”, è ora riconosciuto come una delle live band migliori e più seguite in Italia. Amati da media, critici e migliaia di fans, i Marta sui Tubipresenteranno l’ultimo album intitolato “Sushi & Coca”, prodotto da Taketo Gohara e dagli stessi Marta. Il disco è stato anticipato lo scorso maggio dai singoli “L’Unica Cosa”. e “Non Lo Sanno” di cui è stato realizzato un video da Stefano Poletti. Shaggy al Parco Gondar di Gallipoli (Le) 25mila granelli di sabbia con Alessandro Langiu a Sannicola (Le) GIOVEDÌ 6 Soul Bossa al SoulFood di Torre dell’Orso (Le) La band guidata da Valentina Grande (voce) propone un repertorio raffinato ed eclettico che spazia dai classici standards del jazz, della bossa nova e del funk, ai contemporanei dello stesso genere. Streamfest al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Due piste con Cassius, fra i condottieri della nuova dance music fabriquée en France, Boombass, Leeroy Thornhill (Prodigy dj set), Congo Rock, We Love, Shirt vs T-shirt (Partyzan Produzioni) e i Visual di Werk Design. L’altra pista ospiterà Rumba (Playhouse goes to Kindergarten), Fabio Giannelli (District Raw, Supplement Facts), Gianni Sabato (Plus Beat), Danilo Marzano (Plus Beat), Mee’nim e Teo Naddi (Deependence rec.) e il VJ Omar Eox. Installazioni a cura di Dipartimento di Media Design e Arti Multimediali e Master D3D (NABA), Teatrino Elettrico, Art e Ars Gallery, Swicht Project, Piero Fragola, punto G, The Fake Factory e Virgilio Villoresi. Info 328.6369401 - 320.8173008 - 349.4260482 Nidi d’Arac all’Anfiteatro Romano di Lecce Fiorella Mannoia a San Pancrazio Salentino Casino Royale a Ceglie Messapica DAL 7 AL 9 AGOSTO EVENTI

57


Ottocento - Opera Popolare nei fossati del Castello aragonese di Otranto

L’opera è la trascrizione scenica del libro di Maria Corti “L’ora di tutti” dove Otranto è fonte di ispirazione e palcoscenico ideale per il suo debutto. Lo spettacolo procede con un soggetto recitato e con parti cantate da solisti e coro. La supervisione artistica è di Franco Battiato, le musiche di Francesco Libetta, gli arrangiamenti di Angelo Privitera, collaboratore più stretto di Battiato per la composizione dei suoi brani. Le musiche verranno eseguite dal vivo da un ensamble formato da alcuni tra i più apprezzati musicisti pugliesi, il coro è interprete del popolo otrantino,

58

dei turchi saraceni, dei soldati spagnoli, dei frati del Convento di Casole. La regia di Fredy Franzutti, le coreografie del Balletto del Sud sono una sintesi di tradizione popolare, accademismo leformale, elementi di danze orientali. Gli attori sono tutti giovani sotto i 30 anni selezionati in una apposita audizione. Le scene sono realizzate con speciali videoproiettori che riproducono sulle grandi mura del castello una scenografia virtuale ispirata alle opere pittoriche di Nino Della Notte, uno dei più grandi pittori-poeti salentini che ha saputo raccontare un Salento nuovo carico di suggestioni. VENERDÌ 7 Festival della Notte della Taranta in piazza Vittoria a Corigliano D’Otranto La dodicesima edizione del Festival della Notte della Taranta prende il via da Corigliano D’Otranto con Stella Grande e le Anime Bianche, Taranta Social Club e Compagnia di scherma salentina, Zimbaria e si conclude sabato 22 agosto a Melpignano. Un lungo itinerario in quattordici tappe che ospita i gruppi più rappresentativi della scena della pizzica salentina e della musica popolare italiana, presentazioni di libri e una mostra su Vittorio Bodini.


PFM canta De Andrè al Parco Gondar di Gallipoli (Le) La Premiata Forneria Marconi torna nel Salento con un imperdibile concerto-tributo a Fabrizio de Andrè. PFM canta de Andrè è il titolo dell’albumtributo dedicato all’indimenticato cantautore genovese e pubblicato nel 2008, i brani contenuti sono stati riproposti nella versione riarrangiata come in “Fabrizio De André in concerto - Arrangiamenti PFM (1979)” e “Fabrizio De André in concerto - Arrangiamenti PFM Vol. 2° (1980)”. Ecco cosa dice Franz Di Cioccio, anima della PFM, sul tour del 1979: “L’idea del tour venne a me. Mi ispirai ad alcuni ricordi e riflessioni della nostra ultima tourneé americana: la voglia di sperimentare la nostra capacità espressiva a servizio di canzoni e poesie, così le chiamo io, per dare ai colori della musica tutto il suo splendore. In Usa erano frequenti le collaborazioni, Dylan con The band, Jackson Brown con gli Eagles, insomma un modo di sublimare forme di espressioni musicali in un unico affresco. Noi, artigiani della musica, (il nostro nome trae lo spunto dalla manualità, come in una bottega artigiana), ed il poeta cantante. Mi sembrava la più bella cosa per chiudere il decennio di utopia. Versi poetici, ma taglienti come lame, in uno scorrere di musica dolce e robusta, dove ogni colore incide direttamente sulle parole, facendole diventare, con la voce di Fabrizio, uno splendido affresco musicale. Non fu facile, ma il tempo ha saputo ricompensare la nostra e la spregiudicatezza di Faber”. Biglietti a partire da 18 euro, disponibili nel circuito bookingshow.com Streamfest al Torre Regina Giovanna di Apani (Br) Streamfest incontra Transition. In consolle Minimono (Bosconi, Oslo), Limo (Undercut, Recycle), Jako (Undercut, Resopal) e il Vj Omar Eox SABATO 8 El Sabatone de Tobia Lamare al Buena Ventura di Torre Specchia (Le) David Rodigan al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Taran, Rione Junno, Antonio Amato, Transalento e Dj Bellezza per la Notte della Taranta a

Soleto DAL 9 ALL’11 AGOSTO Day Off Festival alla Tenuta Solicara di Torre Chianca (Le) DOMENICA 9 Briganti di terra d’Otranto, Uccio Aloisi Gruppu, Claudio Miggiano, Cinzia Villani e Massimiliano Morabito per la Notte della Taranta a Zollino Heineken Green Festival con Bandabardò al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Joe Barbieri a Locorotondo (Ba) LUNEDÌ 10 Tantra Night al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Arsura, Sam Karpienia e Mascarimirì per la Notte della Taranta a Martano The Hormonauts a Tricase MARTEDÌ 11 Devils & Angels Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Su’d’Est, Menamenamò e Ensemble “Notte della Taranta” per la Notte della Taranta a Martignano Vinicio Capossela a Trani Remo Anzovino a Martina Franca MERCOLEDÌ 12 Negrita al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Vinicio Capossela a Ostuni (Br) Casino Royale a Polignano a Mare Streamfest al Guendalina di Santa Cesarea Terme (Le) Sciacuddhuzzi, SalentOrkestra e Alla Bua per la Notte della Taranta a Calimera Gusto Dopa al Sole alla Masseria Torcito di Cannole (Le) “Se potessi mangiare un’idea” Gioele Dix racconta e canta Giorgio Gaber all’Anfiteatro Romano di Lecce In questo recital l’attore ripercorre le tappe più significative dell’opera gaberiana, attraverso l’esecuzione di brani musicali, accompagnati da un’articolata e approfondita elaborazione teorica sull’attualità di questo grande artista. Se potessi mangiare un’idea racconta l’opera gaberiana, spaziando dagli anni 60 fino agli anni 90, affrontando le tappe più salienti della sua evoluzione musicale e teatrale: da garbato chansonnier al Teatro Canzone, fino all’impronta cantautorale degli ultimi anni. La scelta dei brani ripercorre la carriera artistica del Signor G, da Goganga a Il Conformista, da Il corpo stupido a L’amico, facendo rivivere la storia di tutto il Teatro Canzone. Gioele Dix propone la sua visione personale dell’ avventura artistica di Gaber, toccando temi politici, sociali, personali, rendendo evidente l’attualità del suo messaggio. L’appuntamento rientra nella rassegna del Comune di Lecce Mediterranea. EVENTI

59


GIOVEDÌ 13 Malicanti, A Paranza r’ o Lione e Daniele Durante per la Notte della Taranta a Castrignano dei Greci Cube Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Dente al Buco Bum Festival di Noci (Ba) Modena City Ramblers a Ostuni Gusto Dopa al Sole alla Masseria Torcito di Cannole (Le) VENERDÌ 14 Manekà, Ghetonia e Antonio Castrignanò per la Notte della Taranta a Sternatia Gusto Dopa al Sole alla Masseria Torcito di Cannole (Le) Cube Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le)

SABATO 15 El Sabatone de Tobia Lamare al Buena Ventura di Torre Specchia (Le) Salento Summer Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Gusto Dopa al Sole alla Masseria Torcito di Cannole (Le) Festa di San Rocco a TorrePaduli DOMENICA 16 Il Grido Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Mario Salvi, Giandomenico Caramia e i Cantori di Villa Castelli, i Tamburellisti di Torrepaduli e Arakne Mediterranea per la Notte della Taranta a Cursi Francesca Romana Perrotta al Teatro Romano di Lecce La rassegna Mediterranea del Comune di Lecce ospita il concerto della cantautrice salentina fresca vincitrice del Premio De Andrè. LUNEDÌ 17 Streamfest al Casablanca di Porto Selvaggio/ Nardò (Le) Streamfest e Plug’n’Play presentano una serata dedicata all’elettronica con Matthias Tanzmann (Circo Loco, Moon Harbour), Italo Boyz (Get Physical, Mothership), Luciano Esse (Safari Electronique, Material Series), Ennio Live set (Bosconi) e il VJ Werk Design. Installazioni a cura di Dipartimento di Media Design e Arti Multimediali 60 EVENTI

e Master D3D (NABA), Teatrino Elettrico, Art e Ars Gallery, Swicht Project, Piero Fragola, punto G, The Fake Factory, Virgilio Villoresi. Info 328.6369401 - 320.8173008 - 349.4260482 Mario Incudine, Kalascima e Mimmo Epifani per la Notte della Taranta a Carpignano Salentino Puglia Reggae Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) La seconda edizione del Puglia Reggae Festival vedrà sul palco Collie Buddz & The New Kingston, Africa Unite, Ms Triniti, Daddy Freddy, General Levy, Villa Ada Crew, Working Vibes, Dj Afghan, Ask. Ingresso 10 euro. MARTEDÌ 18 Washboard Chaz Blues Trio a Li Matonni di Erchie (Br) Washboard Chaz è la Vera star di New Orleans, artista simbolo della città. Il suo genio musicale, espresso nelle varie forme dell’intero patrimonio musicale americano, si esprime in un country blues acustico, innovativo e moderno, contaminato dalle sue origini newyorkesi e dal jazz della città adottiva. Durante la sua carriera ha suonato con band leggendarie di New Orleans, come Ophelia Swing Band, Prosperity Jazz Band ed una schiera impressionante di stars come Muddy Waters. Balletto del Sud in “Carmen” all’Anfiteatro romano di Lecce Ariacorte ospiti Totore Chessa e Luigi Lai e Kamafei ospiti Alessia Tondo, Cesko, Puccia, Edoardo Zimba, Uccio Aloisi per la Notte della Taranta a Galatina Ivano Fossati a Gallipoli MERCOLEDÌ 19 La Banda Wagliò, i Radicanto e la Bandadriatica con ospite Raiz per la Notte della Taranta a Cutrofiano Muffx a Tuglie I Muffx presentano il loro secondo album, Small Obsession, uscito per la label Go Down Records. I Muffx sono una delle migliori rock band attive sul territorio. Il genere è lo stoner, una sorta di evoluzione dell’hard rock in senso più blues e con attitudine più punk. I Muffx ricalcano bene i maestri del genere (Kyuss, Queens of the Stone Age) personalizzando il suono, che risente in maniera sorprendente delle suggestioni, dei suoni del territorio. Qualcuno ha detto di questo album “Le sonorità sono fermamente aspre, rauche, ruvide. Hanno sapore di vino, fumo, cantina, terra rossa, pietra spaccata, aria salsa di mare e odorosa di scirocchi matidi e favoni avvolgenti”. Una ibridazione che potrebbe dare vita a una nuova via di fuga del genere.


GIOVEDÌ 20 RadioDervish e Carlo Lucarelli a Soleto (Le)

Carlo Lucarelli ci racconta l’avventura italiana in Eritrea con le pagine del suo romanzo L’ottava vibrazione, e le sue parole si rivestiranno con la forza, l’atmosfera, la suggestione, il ritmo della musica dei Radio Dervish Enza Pagliara ospiti Contadine e trattoristi di Torchiarolo, Canzoniere Grecanico salentino e Officina Zoè per la Notte della Taranta in Piazza Don Tonino Bello ad Alessano VENERDÌ 21 Streamfest allo Zen di Gallipoli (Le) Heineken Green Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) SABATO 22 Concertone della Notte della Taranta nel Piazzale dell’Ex Convento degli Agostiniani a Melpignano

La dodicesima edizione della Notte della Taranta si conclude con il Concertone di Melpignano che sarà aperto dalle parole di Pierluigi Mele, poeta, autore e regista teatrale. A seguire spazio a Iubal Collettivo Musicale, gruppo vincitore del concorso Note per la Notte, dedicato a giovani band che rielaborano la musica popolare. Subito dopo la serata proseguirà con l’anziano cantore Uccio Aloisi, il grande mattatore della pizzica e della melodia popolare salentina, e con il gruppo Alla Bua. La serata sarà chiusa dall’Orchestra Popolare “La Notte della Taranta”, diretta per la terza edizione consecutiva da Mauro Pagani, che proporrà i brani classici della musica popolare salentina tra atmosfere world, venature jazz, suggestioni arabe, musica d’autore italiana e sonorità africane. Il palco di Melpignano accoglierà infatti Cristiano De Andrè, Eugenio Finardi, la cantante africana Angelique Kidjo, la cantautrice israeliana Noa e l’attrice/cantante palestinese Mira Awad, il cantautore romano Simone Cri-

sticchi e il coro dei Minatori di Santa Fiora, la nuova stella del nu-jazz anglosassone Z-Star e la salentina Alessandra Amoroso. Ingresso gratuito. El Sabatone de Tobia Lamare al Buena Ventura di Torre Specchia (Le) GIOVEDÌ 27 Studio Davoli al SoulFood di Torre dell’Orso (Le) DAL 27 AGOSTO AL 6 SETTEMBRE Festival Castel dei Mondi Andria (Ba) Bonus Track è la XIII edizione del Festival Castel dei Mondi. Una sorta di edizione straordinaria più intensa e più ricca in cui si affiancano i grandi maestri della scena contemporanea alle compagnie un po’ più giovani che il festival sostiene e coproduce. VENERDÌ 28 Beatrice Antolini ad Andria SABATO 29 El Sabatone de Tobia Lamare al Buena Ventura di Torre Specchia (Le) Mondomarcio/Ghetto Eden al Parco Gondar di Gallipoli (Le) DOMENICA 30 Balletto del Sud in “L’uccello di fuoco” all’Anfiteatro romano di Lecce MARTEDÌ 1 SETTEMBRE Jennifer Gentle ad Andria Irene Scardia al Teatro Romano di Lecce La rassegna Mediterranea del Comune di Lecce ospita lo spettacolo della pianista salentina Irene Scardia dal titolo Quel che so del cielo. MERCOLEDÌ 2 Giardini di Mirò ad Andria VENERDÌ 4 Grazia Negro al Teatro Romano di Lecce SABATO 5 W.i.n.d. a Li Matonni di Erchie (Br) L’America Folk Festival chiude in bellezza con gli italiani W.i.n.d., reincarnazione delle storiche bands dei fine anni Sessanta, quando la magica formula del trio evocava ipnotiche atmosfere blues nelle quali la creatività della band si esprimeva nelle grandi jam strumentali. Un mix di rock, psichedelia ed improvvisazione, accenti “jazzy” tipici dei power trio di un tempo. Info 0832/303707 DOMENICA 6 Dario Congedo & Nadan al Teatro Romano di Lecce MERCOLEDÌ 9 Bandadriatica a Collepasso Salento California in Piazza Palio a Lecce L’associazione Area Cosmica organizza, nell’ambito di Mediterranea, questa rassegna dedicata ai gruppi rock salentini. EVENTI


Sino al 27 settembre – Castello Aragonese di Otranto Miró - Opera grafica

Il Castello Aragonese di Otranto ospita sino al 27 settembre l’opera grafica di Joan Miró, uno dei grandi maestri spagnoli del ‘900 e uno dei maggiori esponenti del surrealismo. La mostra inaugura la nuova stagione artistica del Castello, da pochi mesi importante contenitore culturale che, grazie alla nuova gestione dell’A.T.I., costituita dalla Società cooperativa Sistema Museo di Perugia e dall’Agenzia di Comunicazione Orione di Maglie, sarà un punto di riferimento per l’arte e la cultura a livello nazionale e internazionale. La mostra, dedicata all’opera grafica del geniale artista, consente di scoprire il meraviglioso mondo di Miró attraverso una selezione di litografie in cui le forme, i colori, lo straordinario alfabeto di segni creato dal maestro sono il risultato della sua incredibile

capacità di rinnovarsi alla luce di una visione globale dell’arte, vissuta con curiosità e versatilità. Miró, come Goya, Toulouse-Lautrec, Daumier, Redon, si rivolge alla litografia affascinato dalle molteplici potenzialità di questa tecnica a cui egli stesso attribuisce un enorme significato in termini di espressione artistica. Sperimentatore di tecniche e materiali, Miró esplora a stretto contatto con la parola l’estrema poeticità della sua arte, sospesa tra innocenza e mistero, dialogando con l’opera di alcuni dei principali esponenti del mondo letterario del dopoguerra. Fra questi incontra il poeta rumeno Tristan Tzara, uno dei fondatori del movimento dadaista e grande ispiratore e animatore del movimento surrealista. Egli ebbe un ruolo molto importante per Miró che illustrò per lui diverse opere nella serie di litografie Parler seul, l’omonimo poema scritto tra il 1948 e il 1950 da Tzara durante la degenza nell’ospedale psichiatrico di Saint-Alban. In mostra anche la serie Ubu roi, una raccolta composta da coloratissime e corpose litografie. Ubu è un personaggio grottesco le cui funzioni viscerali dominano su quelle intellettuali e rappresenta la caricatura di ogni abiezione umana. Una serie ispirata dall’opera teatrale omonima di Alfred Jarry del 1896. Apertura tutti i giorni ore 10/13-16/24. Ingresso: intero € 5 ridotto € 4 (6-14 anni, +65 anni, scolaresche, disabili e relativi accompagnatori). Infoline: 199.151123 - info@castelloaragoneseotranto.it

DOVE TROVO COOLCLUB.IT? Coolclub.it si trova in molti locali, librerie, negozi di dischi, biblioteche, mediateche, internet point. Se volete diventare un punto di distribuzione di Coolclub.it (crescete e moltiplicatevi) mandate una mail a redazione@coolclub.it o chiamate al 3394313397 Lecce (Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Caffè Letterario, Magnolia, Svolta, Cagliostro, Circoletto Arcimondi, Arci Zei, Libreria Palmieri, Liberrima, Libreria Apuliae, Ergot, Youm, Pick Up, Libreria Icaro, Fondo Verri, Negra Tomasa, Road 66, Mamma Perdono Tattoo, Shui bar, Cantieri Teatrali Koreja, Santa Cruz, Molly Malone, La Movida, Biblioteca Provinciale N. Bernardini, Museo Provinciale Sigismondo Castromediano, Edicola Bla bla, Urp Lecce, Castello Carlo V, Torre di Merlino, Trumpet, Orient Express, Euro bar, Cts, Ateneo - Palazzo Codacci Pisanelli, Sperimentale Tabacchi, Palazzo Parlangeli, Buon Pastore, Ecotekne, La

Stecca, Bar Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio, Associazione Tha Piaza Don Chisciotte), Calimera (Cinema Elio), Cutrofiano (Jack’n Jill), Gallipoli (Libreria Cube), Maglie (Libreria Europa, Music Empire, Suite 66), Melpignano (Mediateca, Kalì), Corigliano D’Otranto (Kalos Irtate), Otranto (Anima Mundi), Alessano (Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo della Cultura), Nardò (Libreria i volatori), Leverano (Enos), Novoli (Saletta della Cultura Gregorio Vetrugno), Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento (Sinatra Hole), Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini), Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee), Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli, Kismet teatro, New Demodè, TimeZones), Taranto (Associazione Start, Trax vinyl shop, Gabba Gabba, Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì Phone’s Center, Artesia, Radiopopolaresalento), Manduria (Libreria Caforio) e molti altri ancora...




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.