Coolclub.it n.39 (Luglio 2007)

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anno IV numero 39 luglio 2007

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Siamo del fronte di liberazione dal luogo comune, siamo gente del Sud est indipendente. Un sud slegato, ma che entra in circolo, gira e si fa sentire. Sei… come un invito a essere se stessi. S.e.i. come sud est indipendente, la nostra dichiarazione di esistenza in questo territorio. S.e.i è il nome che abbiamo deciso di dare al festival estivo che da due anni organizziamo. Un festival obliquo, complementare alle proposte che troverete in giro in questi mesi. Skatalites l’8 agosto per capire dove tutto ebbe inizio e Verdena il 9 per vedere dove stiamo andando. Sud est indipendente è anche il titolo di questo numero del giornale. Numero dedicato al salento creativo, che mai come in questo momento (frase che uso spesso… buon segno) sembra prolifico. Un sacco di amici a partire dagli Insintesi, a cui abbiamo dedicato la copertina, escono in questi giorni con album, su compilation, addirittura all’estero (la bellissima voce di Agnese Manganaro di cui abbiamo già parlato nei numeri precedenti, arriva in Giappone. Il brano E vai via viene inserito in una compilation licenziata dalla Aperitivo records). Maurizio Vierucci, in arte Creme, vecchio e grande amico di Coolclub, arriva finalmente al suo debutto discografico. Affiancato da Cristina Donà, che gli fa visita tra le tracce, esce in questi giorni con un singolo che precede l’album pronto a settembre per A&R Faier Entertainment. E poi Anima Mundi, etichetta che cattura e imprime i suoni di questa terra e del mondo, il reggae scelto dai Sud sound system, quello raccolto da Treble, i suoni mediterranei della Banda Adriatica, quelli elettronici di Black zone Ensemble e la pizzica senza tempo di Nidi d’Arac e tanto altro. Il racconto di quello che vi siete persi, le segnalazioni di quello che accadrà e poi musiche, visioni, suggestioni. Un altro numero, un’altra estate. Il prossimo, come ormai è nostra consuetudine, sarà dedicato ai racconti, i vostri. Se volete partecipare potete contattarci a redazione@coolclub.it. Buona lettura. Osvaldo Piliego

CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno IV Numero 39 luglio 2007 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Hanno collaborato a questo numero: Dino Amenduni, Gennaro Azzolini, Federico Baglivi, Dario Lolli, Camillo Fasulo, Luana Giacovelli, Ilario Galati, Livio Polini, Nicola Pace, Pierfrancesco Pacoda, Emanuele Flandoli, Giancarlo Susanna, Elvis Ceglie, Gianpaolo Chiriacò, Stefania Ricchiuto, Rossano Asremo, Valentina Cataldo, Ludovico Fontana, Mauro Marino, Anna Puricella, Villy De Giorgi, Roberto Cesano In copertina gli Insintesi (foto Alice Pedroletti) Ringraziamo le redazioni di Musicaround.net, Blackmailmag.com, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, QuiSalento, Pugliadinotte.net, Rete Otto e SuperTele. Progetto grafico dario Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione con un giorno di ritardo: per un incidente... L’abbonamento al giornale varia dai 10 ai 100 euro. Per informazioni 3394313397.

4 Insintesi 7 Anima Mundi 9 BandAdriatica

13 Keep Cool 27 Coolibrì 35 Be Cool 39 Appuntamenti

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S U D EST INDIPENDENTE

Non è la prima volta che un gruppo salentino campeggia in copertina e in apertura del nostro giornale (Bludinvidia, Studiodavoli, Negramaro, Amerigo Verardi). Tributo a una terra che sempre più spesso ci stupisce piacevolmente, un panorama musicale e culturale che in questo ultimo periodo sta definendo i suoi contorni. Quelle realtà che solo poco tempo fa sembravano acerbe e abbozzate oggi sbocciano, altre crescono e diventano mature e pronte per farsi vedere ai più. Ci si sdogana dall’amatoriale e il locale e si entra nel “circuito”. Debuttanti o marinai navigati si tuffano anche questa estate nel calderone delle proposte editoriali, musicali e non. Tra i vari prodotti locali anche la cultura sembra attraversare una buona annata, merito di un’oculata e paziente fermentazione. Vecchio e nuovo sembrano conciliarsi, a volte si incontrano a metà strada. Un occhio alla tradizione ma anche ai nuovi suoni, perché il Salento (non ci stancheremo mai di dirlo) è tante cose. Quasi provocatoria la scelta di dedicare la copertina al progetto Insintesi, da anni nell’underground, oggi in uscita con Subterranea il loro primo album firmato dall’etichetta Altipiani. Drum’n’bass, reggae, noise, elettronica, acustica, dialetto salentino, inglese, greco, Italiano, gli Insintesi sono il Salento oggi. Abbiamo parlato con Francesco Andriani. Insintesi, un gruppo tanto longevo quanto cangiante. Da anni rappresentate una colonna della musica indipendente salentina. Come siete cambiati e cosa è cambiato intorno a voi? Intanto grazie per definirci una colonna della musica indipendente salentina, quest’affermazione da una parte mi fa piacere e dall’altra mi fa sentire vecchio! In effetti in quasi 10 anni di attività ne sono successe di cose, il nostro modo di suonare è un po’ cambiato, siamo passati dal cantare in italiano ad arricchire le nostre liriche con altre lingue mediterranee e ad utilizzare anche l’inglese, il suono è diventato più meticcio, ma alla base della nostra musica è rimasta in primo piano la nostra propensione verso il dub. Utilizzare riverberi e delay per dilatare i suoni e le

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voci, anche quando proponiamo dj set drum’n’bass e jungle, sono rimaste le nostre principali caratteristiche. Intorno a noi sono ruotate tante persone ed esperienze diverse che ci hanno influenzato ed hanno portato la loro esperienza all’interno della nostra “famiglia”, noi non siamo solo dei musicisti ma anche dei dj, organizzatori e dei fruitori di musica. Mi piace pensare che molte delle cose che hanno influenzato il nostro suono non provengano solo dalla musica, ma anche dal teatro e soprattutto dalle nostre esperienze al di fuori del gruppo, ognuno porta quello che gli altri non potrebbero portare. Da sempre perfezionisti, finalmente uscite con un album licenziato da Altipiani. Come avete lavorato a queste canzoni? Abbiamo lavorato da perfezionisti appunto, tornando mille e mille volte sui brani fino a quando non abbiamo ritenuto di non potere più andare oltre, fino a quando i brani non sono arrivati ad essere come li avevamo pensati. Abbiamo avuto l’opportunità di stampare questo disco per Altipiani appunto, una discografica molto attiva nel circuito romano, il disco verrà distribuito a settembre da Edel e quest’estate da Anima Mundi. Siamo un gruppo che ama l’indipendenza e per questo ci siamo presi tutto il tempo che volevamo per lavorare sulle tracce senza alcuna limitazione e facendo allo stesso tempo mille altre esperienze. Un approccio nuovo alla salentinità che comunque traspare in alcune liriche, qual è il vostro rapporto con questa terra e quale con il mondo? Diciamo che il discorso è salentino e non, ad un certo punto, dopo aver lavorato molto sui suoni, ci siamo chiesti quale fosse la strada più “vera” per noi da seguire e ci siamo guardati intorno. Il Salento è una terra che può dare parecchi spunti, c’è una fortissima scena etnica ed un’altrettanto forte scena reggae, abbiamo cercato di portare la nostra propensione di sperimentatori all’interno di questi mondi. Il disco però non è solo salentino, ma più in generale mediterraneo grazie al contributo dei tanti artisti che ci hanno dato una mano nella realizzazione.

Nel disco si sente il Mediterraneo, l’Oriente, ma anche Londra, Bristol, la Giamaica… Trovi? Direi di si, credo siano stati questi i nostri riferimenti appunto, più o meno consapevoli. Abbiamo anche cercato di ampliare il discorso alle immagini, infatti all’interno del disco c’è una traccia video su un nostro brano, realizzata interamente in 3D da Shockvideo, un talentuoso videomaker leccese con il quale collaboriamo anche nei dj set. Molte le vostre collaborazioni…Ce ne parli? Qui la lista è veramente lunga, perché in 10 anni di cose ne abbiamo fatte veramente tante. Io, Francesco “Pastic” Marra e Alessandro Lorusso rappresentiamo il nucleo storico. Nel disco, oltre la collaborazione del video, abbiamo utilizzato 5 voci ognuna con una sua timbrica ben precisa e differente dalle altre. In primis la voce di Michela Giannini che è la nostra cantante storica, la voce che più di ogni altro ci ha accompagnati in questi anni e che grazie alle sue caratteristiche ci ha permesso di sperimentare sonorità e soluzioni molto differenti. Lei riesce con disinvoltura a cantare in inglese, ad interpretare in maniera originale il reggae salentino ed avendo un’origine per metà greca anche ad adattare questa lingua alla nostra musica.


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Spesso nel disco la sua voce si alterna con quella di BMC dei Bleizone, crew reggae leccese, la sua è sicuramente una delle voci più interessanti del nuovo panorama reggae, sia per la sua profondità che per le sue metriche. Abbiamo lavorato poi con Vera Di Lecce dei Nidi d’Arac (gruppo con il quale in questi anni abbiamo spesso collaborato e dal quale abbiamo anche appreso tanto) adattando la nostra musica ad alcune sue metriche in spagnolo, tanto per far capire l’estrema libertà e la voglia di sperimentare che ha contraddistinto questo disco. Valentina Grande è la voce dell’unica canzone in italiano del cd mentre Sandra Caiulo è la cantante del brano che apre il disco stesso. C’è poi Vito De Lorenzi che suona le percussioni sul nostro singolo, Iman. Oltre a essere una band siete anche animatori della scena elettronica e drum’n’bass salentina. Ci parli un po’ del fermento di questa scena? La scena, se così vogliamo definirla, è in crescente evoluzione credo che negli ultimi anni si sia fatto tanto per dare continuità e organizzazione al lavoro. Noi insieme a Dj Maik, uno dei dj più talentuosi che conosca non solo a livello locale, e a tanti altri amici con cui abbiamo formato Turntable Crew abbiamo cercato di unire le forze per tracciare un percorso comune che ad esempio quest’estate ci sta portando, per il

terzo anno consecutivo, all’organizzazione e produzione di Summerbass il nostro festival legato alla musica jungle e d’n’b che ogni martedì di luglio e agosto proponiamo al Mediterraneo (sulla litoranea San Cataldo/ San Foca). Nel Salento esiste, da qualche anno, una scena rave, come vi ponete rispetto a questo movimento? Diciamo anche che la scena dei rave esiste da più di qualche anno, ed è un movimento adiacente ma anche diverso dal nostro che è forse un po’ più legato al club... ma qui ognuno potrebbe dare la sua personale risposta. Vantaggi e svantaggi di fare musica nel Salento. Nel Salento si sta bene c’è un grande fermento, ma purtroppo mancano le strutture dove poter aggregarsi e produrre, questo è veramente un gravissimo problema che va affrontato seriamente perché bisogna capire che la musica non è una disgrazia, come ad esempio pensano gli abitanti del centro storico della mia città, ma un valore. Penso poi che questa regione bisogna rispettarla ed amarla, come facciamo un po’ tutti noi salentini, ma non dobbiamo pensare che il mondo sia solo il Salento, c’è tanto da esplorare e Insintesi ha ancora voglia di confrontarsi e conoscere. Osvaldo Piliego

Sud est indipendente

Tutti pazzi per loro, un fenomeno musicale e mediatico incredibile: sono i salentini veraci Negramaro. Solo due anni fa gli dedicammo una copertina parlando di Puglia da esportazione. Amici di vecchia data, ormai lanciati verso galassie che possiamo solo immaginare, dove i numeri fanno girare la testa. Difficile giudicare chi ha raggiunto il successo, molti rischiano di lasciarsi prendere dall’invidia, altri dall’entusiasmo. Molto più difficile sarà stato per loro rimettersi al lavoro a un nuovo disco, con responsabilità pesanti come macigni e tanta, tanta attesa. Simbolo del Salento rock-pop che ce la fa, un Salento che portano nel cuore e non si stancano mai di menzionare e ringraziare. Non si può parlare di uscite discografiche senza parlare di un disco dal dna salentino che scala le classifiche con la stessa facilità con cui Giuliano si inerpica nei suoi inconfondibili falsetti. Consacrazione e celebrazione di uno stile solo loro, sferzate rock a chi pensava a un secondo episodio melenso, amore a profusione, una scrittura che cita la canzone d’autore degli anni ‘60. Chi ha paura della melodia “scagli la prima pietra” perché ragionare sul pop è controverso, pericoloso. Essere primi in classifica è croce e delizia. Il tuo nome campeggia accanto a pupazzi impagliati con un microfono in mano. Può succedere allora di dimenticare che i Negramaro scrivono e suonano come pochi sanno fare in Italia (non parliamo di indie sia bene inteso) ed è incoraggiante che a spartisi il successo non siano un produttore di 50 anni e un labtop. I gusti poi, quelli sono un’altra cosa. Noi di Coolclub.it non possiamo che essere orgogliosi. La finestra è un disco italiano, molto, ma non solo. I Negramaro sanno leggere ciò che li circonda e tradurlo in canzoni che funzionano. Un’ascesa, quella di questi sei ragazzi raccontata anche da Lucio Palazzo in Negramaro - Storia di 6 Ragazzi edito da Aliberti Editore.


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CoolClub.it Produzione, distribuzione, vendita, sito internet: Anima Mundi è tutto questo e molto altro ancora. Da Otranto, Giuseppe Conoci si muove alla ricerca di nuovi gruppi, nuove sonorità che facciano rivivere la musica tradizionale del Salento ma non solo. “L’idea è nata nel 2002 dal mio incontro, casuale e magico, con il gruppo di gitani Troublamours”, racconta Giuseppe. “Un colpo di testa, uno al cuore, un tocco di sana follia e nel 2003 arriva la prima pubblicazione di Anima Mundi. Il nostro è un invito ad abbandonare per un attimo la sovranità della ragione per abbandonarsi ad un luogo interiore di sospensione dalla vita orizzontale governato dall’anima e dal cuore. Anima Mundi è una filosofia di vita che si esprime con le note, la musica”. Dopo le prime produzioni degli scorsi anni, questa estate Anima Mundi decide di ampliare il proprio catalogo con ben sei uscite. Le prime sono già in distribuzione. Si tratta di Tis Klei di Ninfa Giannuzzi, Nuzzelu e Pparolu (Semi e Parole) e di Mandatari di Dario Muci e Valerio Daniele. E forse non è un caso che il percorso di Anima Mundi riprenda con tre lavori diversi ma ugualmente interessanti. Il cantastorie e poeta popolare di Ostuni Tonino Zurlo è osannato da artisti del calibro di Moni Ovadia e Giovanna Marini. Fra la tradizione letteraria dialettale pugliese, la musica popolare orale, e le sue originali intuizioni sull’essenza della natura umana e sull’assurdità del nostro tempo presente, le composizioni di Tonino Zurlo sono uno squarcio di umanità rivolto all’uomo contemporaneo che abbia voglia di interrogarsi in profondità, e porsi in cerca di una verità essenziale, in cammino

Dal 1998 i Nidi D’Arac miscelano la tradizione con le sonorità elettroniche, la piccola città di provincia con la metropoli, Lecce e il Salento con la capitale. Dopo San Rocco’s Rave (con il titolo che era già un programma di intenti) il gruppo capitanato da Alessandro Coppola torna con Salento Senza Tempo. Il gruppo sorprende tutti con un cd acustico nel quale con chitarre, violino, pianoforte, tamburelli paga tributo alla musica popolare salentina attraverso la composizione di musiche ispirate a questa terra e alla sua magia. “La modernità vive dentro di noi, nel nostro modo di pensare, di creare”,

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verso una Nuova Coscienza, verso un mondo migliore che “in realtà esiste già e attende soltanto di essere riconosciuto e svelato…”. Dalla Grecìa arriva invece una delle voci più importanti della nuova scena musicale salentina. Ninfa Giannuzzi ha sperimentato in lungo e in largo nei generi musicali, ritagliandosi un ruolo di primo piano in una ipotetica storia della musica della nostra terra. Questo suo primo lavoro solista (che la vede accompagnata da validi musicisti) parte dal Salento con la riproposta di brani della tradizione e di inediti esclusivamente in lingua grika, riarrangiati in una nuova veste contemporanea, ma affronta un cammino che tocca e rivede i canti tradizionali di Albania, Grecia, MedioOriente, Nord Africa, Spagna, Portogallo, Cile, Perù e Messico. Si dipana, in tal modo, un ipotetico viaggio sonoro nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, e passando attraverso lo Stretto di Gibilterra, supera l’Oceano Atlantico e si ferma nell’Oceano Pacifico. Le acque di questi mari abbracciano, nutrono e fanno coesistere culture che stabiliscono, tra loro, contatti e legami talvolta evidenti, talvolta remoti. Ciò che non poteva esser detto direttamente alla donna amata, lo si cantava usando il tramite della serenata. Non vi era innamorato nel Salento, che non recasse serenate dietro le porte della donna amata. A volte l’esecutore di questo tipo di canto non era l’innamorato ma un altro personaggio: il “mandatario”, specie di messaggero d’amore chiamato apposta per cantare una serenata sotto le finestre di una bella fanciulla. Da qui, il titolo di questo nuovo progetto musicale di Dario Muci e Valerio Daniele, Mandatari appunto. Il progetto si propone come un viaggio acustico nei territori al confine tra musica popolare e jazz, attraverso composizioni originali ed inediti arrangiamenti di alcuni canti della tradizione popolare salentina. Nelle prossime settimane usciranno inoltre Ofidea degli Avleddha, Frunte de Luna di Enza Pagliara e Ama L’Acqua dei Les Troubl’amours.

sottolinea Alessandro Coppola. “Salento senza tempo non è un nuovo album dei Nidi d’Arac ma un tributo alla tradizione musicale salentina, esso vuole raccontare, con semplicità acustica, l’essenza di una terra con la sua storia millenaria. Gente del sud che da padre a figlio, da generazione in generazione deve difendere, con memoria, creatività e rispetto, la propria identità nel grande mondo delle differenti culture”. I brani originali, scritti da Coppola, si intersecano con quelli del repertorio della musica tradizionale salentina e grika. Tra gli ospiti del cd i tamburellisti di Torrepaduli - quelli protagonisti della Notte di San Rocco - il precussionista Andrea

Piccioni, il pianista (ex Tiromancino) Andrea Pesce, l’organettista Claudio Prima e il violoncellista Redi Hasa. I Nidi D’Arac sono Alessandro Coppola (voce, chitarre e tamburello), Vera Di Lecce (voce), Rodrigo D’Erasmo (violino e chitarra), Maurizio Catania (batteria) e Caterina Quaranta (cori).


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Ci sono suoni che spesso arrivano dal mare, come il vento, e finiscono per fermarsi tra le pieghe della terra per poi sedimentare e crescere. Ecco allora che tutto questo diventa musica nuova che ha il sapore di altri lidi, di altre coste mai tanto lontane da non essere ascoltate. Tutti questi echi, reminiscenze, presenze, diventano progetti interessanti e apolidi. Così è in fondo la BandAdriatica, allegra brigata capitanata da Claudio Prima che abbiamo intervistato in occasione dell’uscita di Contagio, album pubblicato da FinisTerre e distribuito da Felmay. Da dove viene l’idea di una banda? Noi siamo figli delle bande. Abbiamo ricevuto la musica a domicilio. Questa è la nostra fortuna. La banda arriva a stanarci da piccoli fin dentro ogni casa e a ricordarci che c’è qualcosa per cui bisogna scendere in strada e prestare orecchio. Aspettare con pazienza di essere travolti. La musica delle bande fa parte di noi e ci rende unici. Le melodie che sedimentano nelle nostre mani ritornano nelle nostre composizioni e ci identificano. Le storie che abbiamo sentito raccontare, di avventure calabresi, di notti insonni, di vera musica da giro ci hanno affascinato a tal punto che ci siamo trovati a scegliere quella strada anche per i nostri strumenti. Una banda classica ma allo stesso tempo sui generis… Nella nostra musica non siamo mai riusciti ad essere canonici. È un nostro difetto, a cui teniamo molto. La scommessa in questo caso è stata l’accostamento di strumenti di tradizioni diverse (in particolare organetto e violoncello) alla formazione bandistica classica e da qui l’infezione è stato un processo spontaneo. Sono gli strumenti stessi che dettano le deviazioni dallo standard, che suggeriscono con il loro modo naturale di esprimersi le linee con cui ci discostiamo dal repertorio tradizionale. Siamo stati da sempre seguaci dello spostamento, musicale o geografico che sia. Perché Adriatica? Le bande e le fanfare hanno un mare in comune. Il mare che li ha abbracciati e divisi per anni. Il mare su cui si sono mosse per accompagnare le madonne in processione o le spose in corteo. Il mare che in una notte ti fa cambiare musica. L’Adriatico è un mare che a dispetto della prossimità dei Paesi che bagna, negli anni ha creato perlopiù allontanamenti. I porti che vi si affacciano sono spesso portavoci di tradizioni e culture profondamente differenti, lingue incomprensibili fra loro. Questo mare di differenze ci ha stimolato a cercare un percorso comune possibile, di cui abbiamo intravisto l’approdo quando ci siamo conosciuti. Noi musicisti provenienti da sponde diverse che si ritrovano a suonare la stessa musica. Diverse esperienze musicali e umane si uniscono in questo progetto, come si è formata questa famiglia? Ho incontrato Redi Hasa 5 anni fa a Lecce e in una cantina-

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laboratorio abbiamo cominciato a scambiarci musica prima ancora che parole. Era arrivato qui da Tirana. Due anni fa abbiamo incontrato Emanuele Coluccia, reduce da una lunga traversata Occidentale da New York al Messico alla Spagna. Era già nato, e noi non lo sapevamo, il progetto adriatico; ce ne saremmo accorti più tardi, scoprendo ad ogni passo un’anima comune, sottesa dalla passione per le nostre reciproche culture e dalla necessità di metterle in gioco. Negli ultimi due anni abbiamo incontrato gli altri musicisti della banda e la fortuna ha voluto che oltre all’esperienza diretta nelle bande di giro avessero l’intenzione di condividere con noi un percorso complesso e impervio come quello adriatico, il coraggio di mettere il proprio modo di suonare al servizio di una scommessa comune. Nel cd suona un altro grande viaggiatore, Naat Veliov che ci ha portato con la Kocani Orkestar una testimonianza straordinaria della sua capacità di comunicazione oltre ogni confine linguistico e stilistico. Per la nostra ricerca è stata una grande lezione. Qual è il tuo rapporto con la tradizione, come vivi questo fenomeno, a tratti modaiolo, di riscoperta? Io non mi sento un musicista tradizionale, non credo di esserlo mai stato fino in fondo. La musica tradizionale ha rappresentato per me la svolta emotiva al momento più rilevante di cui ho memoria e mi ha fatto comprendere quanto la musica fosse importante per la mia vita. Da lì è stata una continua ricerca di una via personale di interpretazione del repertorio e dello strumento, figlia della mia modernità, del mio sentire al presente. Il mio modo di suonare l’organetto e di comporrre da il senso di come io intenda la tradizione. Il profondo rispetto che nutro per la musica tradizionale mi costringe a stare lontano in questo periodo da un certo circuito di riscoperta, che considero approssimativo e dannoso. Per evitare che il fenomeno si tramuti in moda, a mio avviso, un profondo bisogno di approfondimento e di ricerca. L’avvicinamento al repertorio tradizionale ha bisogno della stessa umiltà con cui è riuscito a vincere l’usura del tempo. Parlaci un po’ di questo ultimo lavoro, perché Contagio? Le musiche che non conosciamo ci hanno contagiato e non ce ne siamo accorti. Ce le portiamo dentro, in incubazione, fino a quando non le riconosciamo nelle mani di chi ce le riporta. Le musiche nei porti dell’adriatico si sono contagiate per contatto diretto o per via del vento. Noi cerchiamo in questo disco una chiave di lettura possibile di un contagio ormai diffuso e inconsapevole. Il nostro è un periplo che da Brindisi porta fino a Creta, passando per Venezia, Dubrovnik, Durazzo andando di porto in porto a scoprire quanto e se siamo diversi, per esorcizzare il timore di un’infezione, quella culturale, di cui siamo fieri sostenitori. Conoscere per non aver paura di conoscere. Ce n’è sempre più bisogno. Osvaldo Piliego


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CoolClub.it Tredici anni dopo il primo episodio e a circa sette dalla seconda uscita i Sud Sound System lanciano la terza puntata del Salento Show Case. Una raccolta del meglio del reggae salentino. Diciannove brani che mescolano vecchie e nuove generazioni, la storia del reggae con le nuove crew che si affacciano nel panorama musicale nazionale. “Siamo molto soddisfatti di questa nuova avventura”, sottolinea Papa Gianni, voce storica dei Sud Sound System. “L’importante è promuovere nuove voci, dare la possibilità a un po’ di ragazzi e ragazze di emergere nell’ambito del reggae. Segnaliamo come una cosa positiva anche la presenza di due minorenni, Alessia e Mulino”. Alessia è diventata famosa per la sua partecipazione alle recenti edizioni della Notte della Taranta e per la intro della fortunata Le radici ca tieni dei Sud (che ha ottenuto anche un premio al Meeting delle etichette indipendenti e il Premio Tenco come miglior album dialettale). Qui la giovane cantante apre il disco con Uardame. “Il meccanismo interessante di questo tipo di produzioni è la reale collaborazione tra noi, che componiamo una serie di basi, e i ragazzi che scrivono il proprio pezzo. Dopo una prima selezione siamo arrivati alla scelta dei brani da inserire nel cd”. Salento Showcase 2007 - in uscita per V2 - accoglie dunque quattro nuovi ritmi prodotti dai Sud (Friseddhre, Hard Drum, Dancehall Rock e Te Reggettu) sui quali si esprimono nuovi talenti come Sandrino e Strunizzu, Afro Bamba, Lu Dottore, Kaya Killa, Hot Fire, RankinLele, PapaLeu e Marina, Italo, Terequeia e Ghetto Eden (nella foto). Nuovi volti che segnano una evoluzione del reagge nel Salento. “In questi tredici anni c’è stata una vera e propria rivoluzione”, conclude Papa Gianni. “La spinta del reggae sotto l’aspetto della denuncia sociale non si è esaurita ma ha virato più sul ballo, Complessivamente i ritmi sono notevolmente cambiati, sono meno soft. La nuova generazione va verso una visione più moderna del reggae che richiama da vicino quella dei ghetti americani e jamaicani”. La compilation infine è arricchita da due “combination” di Terron Fabio nei brani La Coscienza Chiama e Uarda e da tre brani inediti dei Sud Sound System: Me Recordu cantata da Nandu Popu, Meiu Cu Dici No di Don Rico, Tuttu l’Amore di Don Rico e Papa Gianni.

Esplorare la musica nera, farsi strada in un sound composito e ricco in cui le derive e i punti di fuga possono essere sorprendentemente vicini. Questo sembra l’intento dichiarato di Black Zone Ensemble. Basta usare collante sintetico e tutto funziona a perfezione. Potere dell’elettronica, biglietto da visita della 11/8 quasi sempre in bilico tra jazz e sperimentazione. Ed è sotto la grande bandiera del Nu jazz che trova riparo questo progetto firmato da Daniele Miglietta, anche se ad ascoltare bene c’è molto, molto di più. Lui ai comandi sommerso di sinth dal sapore vintage e intorno a lui tanti amici talentuosi (Mauro Tre, Davide Arena, Nathalie Claude, Stefania Dipierro, Violet

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SUD EST INDIPENDENTE

TREBLE STUDIO PIU’ AMORE Dopo la lunga esperienza nei Sud Sound System, Antonio “Treble” Petrachi meglio consciuto come Lu Professore è tornato con nuovi progetti. Se l’accoppiata con il gruppo di musica tradizionale Kumenei ha dato buoni frutti (e un mini cd dal titolo Salento, distruibuito anche in edicola) sicuramente interessante è Treble Studio più amore un “resoconto” dell’attività dello studio di registrazione. Il cd ospita una serie di realtà del panorama reggae salentino e pugliese che si confrontano con i brani scritti dallo stesso autore e arrangiate e risuonate insieme a Roots Family band, un‘emergente reggae band salentina. Nel cd si contaminano inglese, spagnolo, barese, tarantino, calabrese, salentino e italiano. Tra gli ospiti Fido Guido, Mama Marjas, Dany Silk, B.i.g., Bob Jahman, Paolino, Apache, Ventre Ianca, Mykela e molti altri. Domenica 15 luglio al Soul Food di Torre dell’Orso si terrà la presentazione ufficiale del disco. Il locale del litorale adriatico ospiterà ogni mercoledì i dj set “Soul Reggae” .

Sol, Valentina Grande, Michele Minerva, Giancarlo Dell’Anna). Il risultato è un lavoro vellutato dove la bossa di incunea con beat più acidi, dove riminescenze anni 70 fanno capolino dando un vago sapore da spystory. Il lavoro è estremamente vario quasi vedesse l’esplorazione della “zona nera” come una missione. Ancora una sfaccettatura musicale di un Salento ricco di sorprese e generoso di produzioni. Prodotto che non sfigura accanto a produzioni internazionali e che di estero profuma. O.P.



Keep Cool

Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge Italiana, Indie

la musica secondo coolcub

White stripes

Icky Thump XL Rock, blues / **** È con un certo sollievo che presentiamo l’album dei White Stripes. Non so se la “famiglia” White benedica quella sera di Bruges, in cui i tifosi della Roma fecero nascere il “popopoppopòpo” poi diventato nazional-popolare. Sicuramente abbiamo assistito ad agghiaccianti manovre di marketing, in cui l’album Elephant, che conteneva la (comunque bellissima) Seven Nation Army, origine e causa del tormentone, veniva spacciato per nuovo album pur essendo del 2003. E tuttora, se ascoltate il promo in radio, tutto parte dal popopò. Ridurre Icky Thump a questo è un errore tutto italiano. Jack White sembra quasi fiutare questo pericolo di spettacolarizzazione della sua

musica e tira fuori riff di chitarra anacronistici, poco ruffiani e molto rispettosi dei suoi maestri. Un album rock vecchia maniera, venato di blues e sonorità decisamente più affini al repertorio statunitense che a quello europeo. La forma del duo è ai massimi livelli: Jack si diverte con la sua chitarra, non si priva mai del gusto dell’assolo che spesso orienta l’andamento dell’intera canzone; Meg, considerata una dei più scarsi interpreti della batteria di tutti i tempi, continua a suonare in modo impulsivo se non compulsivo, fregandosene della tecnica e tirando fuori un suono che lo riconosceresti in mezzo a un milione. Icky Thump sposta ancora più in alto l’asticella qualitativa delle “strisce bianche” pur

offrendo pochi spunti per favorirne un buon successo commerciale (fatta salva la divertente Conquest; magari la casa discografica ci rimette lo zampino e la lancia come singolo) offre un ottimo spettacolo per tutti gli amanti del rock. Gli ascoltatori più anziani potranno dire che, in fondo, è un album degli anni ‘70 uscito con una trentina di anni di ritardo, che gli White non hanno inventato nulla, che è un collage di citazioni. Quasi come fosse un film di Tarantino. I vantaggi di essere giovani: sei ignorante, e ti godi tutto come se fosse tutto nuovo. Viva Tarantino, viva i White Stripes. Dino Amenduni


KeepCool

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September Collective

All the birds were anarchists Mosz elettronica / ****½

Gogol Bordello

Super Taranta ! Sideonedummy records gipsy rock ****

La baraonda dei Gogol Bordello è pronta a investire il mondo con un nuovo album. Super taranta il titolo, più salentino che mai scelto con riferimento diretto al potere della nostra musica, quello curativo, liberatorio. E certo che già in passato questa band ci aveva abituato a concerti che sfociavano in veri e proprio riti collettivi. Il segreto? La loro natura musicale anarcoide capace di attingere a destra e manca vagabondando tra i generi con un’attitudine decisamente punk. Questo disco è, se possibile, più adrenalitico dello scorso, un delirio di fiati, corde, perussioni ritmi del mondo, bande sbilenche, cavalcate ubriache e gioco, tanto gioco. La direzione dichiarata dallo stesso leader Eugene Hutz è “la conquista della musica mondiale”. Super taranta è un biglietto andata e ritorno per ovunque, tutto viene preso e frullato in un melting pot sonoro travolgente. A chi si chiede se ci sono tracce di pizzica all’interno dell’album, la risposta è si. Ce n’è l’essenza, quella che forse, ogni tanto, si perde. E allora mettete da parte ogni confine musicale e lasciatevi prendere da questa nuova frontiera delle musiche possibili…dai Clash alla musica dei Balcani. O.P.

Chemical Brothers

We are the night Virgin Dance, elettronica / **½

A due anni dall’acclamato Push the button, tornano i due “fratelli” mancuniani con l’album probabilmente più controverso della loro carriera. Non perché abbiano cambiato genere di colpo (anzi), ma perché è come se non avessero mai fatto carriera, mai sfornato gemme pop e allo stesso tempo grandi hit ballabili. Come se il loro tempo si fosse fermato a 10 anni fa. Ed è questo il lato davvero controverso: loro volevano questo, volevano essere la notte e niente più, volevano sfornare un album spiccatamente frivolo, senza azzardi, senza collaborazioni folli. I Klaxons sono il massimo del divertimento per la mediocre All rights reversed, il singolo Do it Again, buono ma non eccezionale, è cantato

Dietro questo moniker si nascondono tre vecchie conoscenze della scena elettronica europea: i tedeschi Stefan Schneider (To Rococo Rot, Mapstation) e Barbara Morgenstern e il polacco Paul Wirkus. I tre hanno iniziato a collaborare insieme durante un tour in Polonia nel 2002: ogni sera, alla fine dei loro singoli shows, iniziarono a improvvisare qualcosa insieme. Vedendo che la cosa funzionava decisero di mettersi in studio e da lì nacque il primo disco dei September Collective, su Geographic rec., uscito nel 2004. Già allora i risultati (tra l’altro prevedibili) furono sorprendenti. Questo nuovo “All the birds…”, uscito su Mosz, label fondata da Stefan Nemeth dei Radian e dalla filmaker Michaela Schwentner, conferma la ottima riuscita di questa fortunata (per noi ascoltatori) fusione. L’elettronica così come dovrebbe sempre essere: essenziale ma non piatta, colta ma non presuntuosa, raffinata ma non snob. Sonorità e attitudine che sembravano scomparse nel passaggio a questo nuovo millennio, e sarebbe stato un gran peccato. E invece eccole sempre qui, solo un tantino meno visibili nel vortice modaiolo delle attenzioni medianiche. Più di qualcuno aveva creduto che questo genere, questa “scena”, aveva esaurito le sue potenzialità, che non aveva più niente da comunicare. Ed ecco invece ancora gradiose melodie e fluttazioni che sanno trasportarti fuori dal tuo mondo quotidiano e farti esplodere lentamente dal di dentro. 12 eccezionali tracce che speri non finiscano mai. Da non perdere assolutamente. Gennaro Azzolini

Patrizia Laquidara

Funambola Ponderosa/Edel jazz, cantautorato / ****½

da Ali Love (?) ma il featuring poteva essere di chiunque altro. Non è che siano diventati improvvisamente dei brocchi: ci sono alcuni spunti interessanti (No Path to follow, Saturate), ma diluiti in un cd inspiegabilmente senza nerbo. Vedremo come reagirà il pubblico, ma il sospetto è che questo album sarebbe stato ignorato, se non fosse stato dei Chemical. Fratelli, che vi siano finite le soluzioni? Dino Amenduni

Viene da Catania, terra più che fiorente per la musica italiana contemporanea (Consoli, Venuti, Biondi). È cresciuta con Mogol e lavorando con il repertorio tradizionale della musica brasiliana. È affascinante. È emozionale (si sprecano le leggende sulle sue esibizioni dal vivo, e la copertina dell’album contribuisce a colorare l’immaginario). E, soprattutto, ha ti-


KeepCool rato fuori l’album italiano dell’anno. Un lavoro delicato e contemporaneamente intensissimo, in cui Patrizia si destreggia tra testi impegnati ed altri più leggeri: così è la vita, e lei non fa altro che ricordarcelo. Parla dell’amore ma sembra più esperta di quel sentimento di “mezzo”, tra il prendersi e il lasciarsi, tra l’esplodere e l’implodere. L’equilibrio è un miracolo, in questi casi, e lei sembra saperlo fin troppo bene. Ma sono i momenti in cui è la samba a guidare i flussi di coscienza della Laquidara a rendere l’album straordinario. Ziza ma soprattutto la perla Personaggio vi faranno alzare di scatto.. Voi vi chiederete: e allora perché non hai messo il massimo dei voti? Perché si cerca di essere obiettivi, questa musica non piace a tutti. Per quanto mi riguarda, quel mezzo voto “mancante” ci sta tutto. Dino Amenduni

Bishop Allen & The Broken String

Bishop Allen & The Broken String Dead records indie / ****

I Belle & Sebastian indubbiamente hanno fatto scuola e questi Bishop Allen & The broken String sono sicuramente tra i loro allievi più bravi. Vengono da oltreoceano, e senza essere dei cloni hanno saputo fare propria la lezione imparata; strizzando l’occhio di tanto in tanto agli Architecture in Helsinki, si muovono in bilico tra allegria e malinconia per tutta la durata delle dodici tracce di questo lavoro omonimo. Nell’eterogeneicità dei loro brani sanno essere dolcemente spensierati (Rain e Click, Click, Click, Click) ma anche aggressivi, quasi ai confini del punk rock, vedi Middle Management. Degna di nota anche The Chinatown Bus, sullo stile dolce e melanconico dei migliori Belle&Sebastian. Da collezione primavera-estate con un pensiero all’ autunno. Semplicemente belli. Federico Baglivi

Roy Paci e Aretuska Suonoglobal V2 patchanka / **** ½

Già strombazzato come “disco dell’estate” (chissà come la pensa Roy…), ecco a voi l’album più salentino (registrato a Castrignano del Capo) e allo stesso tempo più apolide nella carriera dell’eccelso strumentista siracusano, il quale aveva chiesto agli Aretuska una prova di maturità per continuare a lavorare insieme. Così è stato: Suonoglobal è un’ottima occasione per viaggiare nel caleidoscopio sonoro tutto ritmo e contenuti e per gustarci il cameo, quasi istituzionale, di Manu Chao, che colora il singolo Toda Joia Toda Beleza e che testimonia la volontà “politica” racchiusa nel lavoro. Anche gli ospiti italiani sono tutto sommato prevedibili: Cor Veleno, Pau, Enrique (Bandabardò),

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Morgan

Da a… ad a Sony Bmg canzone d’autore / *****

Questo disco di Morgan è più di quello che ci si aspettava. Dopo Canzoni dall’appartamento e il tributo a De Andrè, riesce in questo nuovo episodio a superarsi e superare l’idea di canzone d’autore che ci eravamo fatti. Basta ascoltare le prime note per assaporare echi dei grandi maestri italiani, citazioni colte dalla musica classica, crescendo beatlesiani, accostamenti strumentali ricchi, riferimenti letterari, David Bowie. Tutto in un uomo, tutto per raccontare l’eterno ritorno a lei e all’amore. Da a ad a potrebbe essere la sua eterna musa Asia Argento, ma anche riferirsi al detto latino “Per aspera ad astra” (attraverso le avversità fino alle stelle). Un disco che nasconde sicuramente più messaggi di quelli che ci è dato cogliere, un disco che merita tempo, quasi un riparo, una confessione a metà, una dedica al necessario, alla famiglia (in una canzone canta anche la figlia), ma anche una finestra sulle inquietitudini. Come si può ascoltare una canzone come Una storia d’amore e vanità senza pensare al miglior Tenco o a Bindi. Sensuali gli arrangiamenti d’archi di La verità. Anche quando i tuni si irrobustiscono la poesia non perde intensità. La lunga coda finale di Contro me stesso è un viaggio psichedelico raccomandato a tutti. O.P. dagli sporchi sotterranei dei sobborghi di Chicago. In definitiva, se questo era il loro scopo, l’impatto straniante è assicurato. Federico Baglivi

Rush

Snakes and Arrows Anthem/Atlantic rock / ****

Caparezza, Sud Sound System, Raiz. Contaminazioni dall’inizio alla fine, nelle lingue, nei generi e nei repertori per un album che ha incontrato il favore anche dei massimi sistemi (è infatti distribuito in edicola da La Repubblica). I protagonisti però restano Roy e la sua tromba, e non c’è traccia che veda offuscata la sua personalità. Consigliato perché piace sia per la superficie, fresca ed estiva, che per ciò che c’è all’interno, ottimo cibo per la mente. Il disco dell’estate che difficilmente metterete via d’autunno. Dino Amenduni

Zelienople

His/Hers Type records psico-folk / ***

His/Hers esce per la Type records ed arriva da Chicago, è la nuova uscita del trio Zelienople, band attiva dal 1998. In parole semplici His/Hers è molto difficile da digerire. Cinque tracce di folk psichedelico/ psicotico; delirante più di tutte è la traccia Forceed March: rumorosa, insana, ma anche jazz e post-rock. Indefinibili e inqualificabili, riesce difficile, più di altri gruppi, etichettare, spiegare, scrivere in parole. Sfuggenti a qualsiasi catalogazione, spiazzanti anche all’ascolto. Sembrano affondare le loro radici in un post rock cupo e quasi industriale, suoni provenienti

Ben più di trent’anni di onorata carriera, diciannove album in studio senza contare gli innumerevoli live e le raccolte, premi di critica e dischi di platino… e i Rush sono ancora qui, con un rock che suona ancora così carico e fresco da far impallidire le nuove generazioni. Dagli anni ‘70 ad oggi mai un disco uguale al precedente, eppure sempre così “loro” da essere riconoscibili tra mille. Questa volta il trio Lee Lifeson Peart si spinge ancora oltre, ancora una volta piacevolmente ci spiazza e sterza lievemente rispetto all’ultimo Vapor Trails. Non da lì Snakes and Arrows prende le mosse, ma dal lunghissimo tour mondiale per l’anniversario dei trent’anni della band, secondo me vera chiave di lettura del disco. Prendiamo ad esempio il singolo Far Cry che apre le danze: ti aspetti la potenza e i suoni del disco precedente, e invece ti ritrovi le morbide atmosfere di Presto. L’inedito blues con cui parte The Way The Wind Blows e i ben tre brani strumentali sono convinto, non possano che essere figli di un’improvvisata tra un live e un altro; i riff di Spindrift e Good New First ci rimandano ai tempi di Test for Echo; mentre il feeling di The Larger Bowl è quello delle cover sessantiane rilasciate col disco Feedback. I richiami a Vapor Trails non sono assenti del tutto (particolarmente in Faithless), ma


KeepCool

16 in complesso il disco è meno aggressivo e cela un’anima decisamente più intimista, con Lifeson che torna a dilettarsi con qualche breve solo e le magiche geometrie della batteria di Peart che suonano più discrete rispetto al passato. Quello che non cambia – e fortunatamente non è cambiato mai dagli anni ’70 ad oggi – sono i testi brillanti di un poeta della semplicità come Neil Peart, e, soprattutto, il gusto melodico che sa puntare dritto al cuore, strale di Cupido la voce irripetibile di un sempreverde Geddy Lee. Il risultato è un altro disco fantastico, meno coraggioso forse, ma bilanciato perfettamente tra reminescenze del passato e un’inesauribile voglia di guardare ancora avanti: un’altra piccola gemma preziosa che contiene in se e riecheggia la lucentezza di quelle che l’hanno preceduta. Dario Lolli (mariorollo)

Queens of the stone age Era vulgaris Umg stoner / ****

Machine Head

The Blackening Roadrunner/Universal metal / ***

C’era parecchia attesa attorno a questo nuovo capitolo della band di Oakland dopo il precedente e pur ottimo Through The Ashes Of Empires, ma non aspettatevi un nuovo Burn My Eyes, il micidiale album con cui i Machine Head esordirono nell’ormai lontano 1994. Troppo tempo ci separa ormai da quell’incandescente reliquia ma quest’album rappresenta, comunque, una sintesi perfetta di ciò che sono diventati i Machine Head negli ultimi anni: una metal band completa e matura, capace di alternare momenti di rara e toccante bellezza ad altri di devastante ferocia. Solo otto pezzi per un totale di poco più di un’ora di musica su questo disco, ma ben quattro di essi viaggiano oltre i nove minuti! Il pensiero vola alla purtroppo breve epopea del techno-thrash a cavallo tra gli ’80 e i ’90, tendenza già ampiamente rivalutata (per fortuna!) da altri eccellenti campioni di recente saliti agli onori della ribalta, un nome su tutti: Mastodon! La violenza la fa da padrona, insomma, su The Blackening, viaggio vertiginoso ed esaltante, martoriato da ritmiche assassine e da chitarre incendiarie, ma, vi assicuro, con passaggi d’assoluto spessore tecnico e artistico!. Il loro suono è ormai un inconfondibile marchio di fabbrica. Meno diretti rispetto al passato forse, mai scontati, ma sempre pronti a lanciare nuove sfide e a chi li segue da anni. Questo sono i Machine Head oggi … Buy or die! Camillo “RADI@zioni” Fasulo

Quinto disco per i Queens Of The Stone Age, band nata nel 1997 dalle ceneri dei defunti Kyuss, creatori dello stoner rock. Era Vulgaris riparte dalle sonorità dettate dall’ultimo disco in studio (Lullabies To Paralyze, buon disco anche se meno stoner del resto della discografia) e ne allarga le vedute, ritornando alle origini (stile heavy e ripetitivo definito da Homme come robot rock) ed evolvendosi sotto certi aspetti. Durante l’ascolto delle tracce che compongono il disco (l’edizione giapponese e inglese conterranno anche una collaborazione con Trent Reznor dei Nine Inch Nails) avremo modo di ascoltare hard rock, stoner e tracce di psichedelia. La traccia di apertura si intitola Turning On The Screw. Un’intro che sintetizza le sonorità di Era Vulgaris, un pezzo lento, contrassegnato dai classici riff stoner ripetuti fino ad un piacevole martellamento. Subito dopo si parte velocemente, malatamente e semplicemente con il primo estratto dell’album: Sick, Sick, Sick. Brano di una efficacia e immediatezza che non si sentiva da un bel po’ di tempo a questa parte. Come singolo per attirare l’ascoltatore medio è perfetto. I’m Designer è un altro potenziale singolo, riff sporchi si mischiano a giri di basso semplici, così come le parti di batteria, il ritornello è molto orecchiabile ed entra in testa in un paio di ascolti al massimo. Con Into The Hollow si inizia a sentire la psichedelia citata in apertura, per poi arrivare a Misfit Love, uno dei brani più stoner e più belli dell’album, accarezzare il lento ritmo di Desert Sessions 9 & 10 e giungere al rush finale con brani che vanno dallo stoner più classico ai duri suoni dell’hard rock con Run Pig Run, brano di chiusura. Insomma, un disco davvero emozionante, esaltante, tanto vario da soddisfare anche i gusti più diversi. Homme si conferma sempre più ispirato e in forma. Direi che la vetta del monte rock diventa sempre più vicina agli occhi di questa rock band statunitense che continua a stupirci e confermarsi anche dopo dieci anni di lavoro. Luana Giacovelli

Giorgio Canali & Rossofuoco Tutti Contro Tutti La tempesta rock / ****

Rabbia. Basta una sola parola per definire Tutti Contro Tutti, il quarto album di Giorgio Canali e Rossofuoco. Coerentemente e cocciutamente, quello che per molti resta l’unico vero rocker italiano intesse un nuovo disco attraverso dieci episodi caustici e polemici, ruvidi e aguzzi come la faccia di chi li ha scritti. La dedica a Federico Aldrovandi, diciassettenne ucciso in circostanze ancora non chiarite da quattro poliziotti a Ferrara, è quasi una dichiarazione d’intenti per un lavoro che trasuda, appunto, rabbia. Genuina, necessaria: “Si lo so di avere

dentro una rabbia di cui non mi pento… da uno a cento è centomila la rabbia che ho dentro” canta Giorgio, e la sua incessante sicumera incontra la forza centrifuga ed elettrica dei Rossofuoco, qui davvero in stato di grazia. Alealè è la versione italiana di un pezzo presente sul suo esordio solista datato ‘98, che contiene forse la strofa più efficace con la mirabile perifrasi gaberiana “E così accade che / la libertà futura / è un pompino in tv / senza censura […] Accade che la libertà / è partecipazione… agli utili”, Falso Bolero è una ballad ruvida che omaggia Gun Club, Lou Reed e qualche altro zombie del rock’n’roll, Settembre Aspettando è una cover dei Noir Desir, Comequandofuoripiove l’ennesima invettiva punk di quelle che quando le canta Giorgio sembra che si scrivano da sole. Forse un gradino sotto il precedente disco – a tuttora il suo capolavoro - ma sempre e comunque grande musica. Lunga vita, Giorgio. Ilario Galati


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Enzo Favata Tentetto The New Villane Il manifesto etno-jazz / ***½

Appena pubblicato dalle edizioni musicali del manifesto, come del resto i suoi tre dischi precedenti, il nuovo lavoro del sassofonista sardo Enzo Favata, prende le mosse da un solido impianto jazz che si fonde alla tradizione sarda in generale e del canto a tenores in particolare. I Tenores De Bitti si affiancano infatti al sestetto originario dando vita ad un tentetto dalle notevoli potenzialità. Lunghe composizioni che omaggiano tanto il folk quanto la musica degli anni ’70, tra new thing e black-music. Chiarificatrici in tal senso le dediche al grande compositore e ricercatore sardo Marcello Melis e al leader degli Art Enseble Of Chicago Lester Bowie. Il risultato è un lavoro godibile dove tradizione e pulsioni sperimentali proseguono di pari passo, e composizioni come l’open-track Comare Mia mischiano aperture free ad un gusto in un certo qual modo rurale. Lo sradicamento da una parte, le radici dall’altra. In mezzo Favata e il suo corredo etno-jazz a tracciare un omaggio alla propria terra sempre in bilico tra innovazione e conservazione. Ilario Galati

Tied & Tickled Trio

Aelita Morr Music / Wide electronica, post rock / ***½

Bruce Springsteen Live In Dublin Columbia rock / *****

Che dire che non sia già stato detto? Il celebratissimo tour con la Seeger Session band, per la gioia degli aficionados, è una un doppio live con i fiocchi. Doppio cd o dvd che sia, quella notte a Dublino Bruce era in stato di grazia dunque siamo di fronte all’ennesimo documento dal vivo imprescindibile. La band di Bruce non fa certo rimpiangere la E Street Band quanto a potenza ed affiatamento, e oltre ai pezzi presenti sul disco tributo a Seeger, qui fanno capolino alcuni classici springsteeniani che immagino abbiano creato non pochi scompensi cardiaci ai suoi sostenitori. Highway Patrolman, Atlantic City, Growin’ Up, una irrefrenabile Open All Night, sono cose che ti stendono al tappeto. Il corredo sonoro è più che mai sovrabbondante, il dixieland a volte prende il sopravvento, i musicisti sono scatenati e lui… beh, lui c’ha un cuore enorme. La mestizia di Eye Of The Prize, il parossismo di Mary Don’t You Weep, la sarabanda di Pay Me My Money Down… Insomma, ancora una volta la musica conta fino ad un certo punto. È di lui che ci fidiamo. Ilario Galati brani all’interno dell’album, tracce legate da un filo sottile. I riferimenti alla letteratura russa degli anni 20, che ritroviamo nella scelta dei titoli, costituiscono la chiave per comprendere meglio l’idea. Un buon disco. Livio Polini

Shapes And Sizes

Split Lips, Winning Hips, A Shiner (Asthmatic Kitty / Audioglobe) indierock / ***½

Nel 1994, Markus e Micha Acher, già conosciuti al pubblico come componenti dei Notwist, fondarono i Tied & Tickled Trio. L’intento, probabilmente, era quello di creare un nuovo progetto musicale che coniugasse la tradizione kraut degli anni ’70 al più recente post-rock di area Chicago. Con l’aiuto di altri musicisti importanti e con la voglia di sperimentare (potremmo parlare di avanguardia) nei loro dischi hanno abbracciato spesso lo stile classico, rivelando una certa natura jazz. L’ultimo loro album, Aelita, ci trasporta inesorabilmente in paesaggi immaginari, la delicatezza e la calma accompagnano le suggestioni e i sogni più remoti, suoni di strumenti classici e un consapevole uso dell’elettronica per ambienti decadenti e strade avvolte nell’ombra, nuove dimensioni. Aelita è anche il nome di tre

Dalla sconfinata e fruttuosa indie terra del Canada, ecco spuntare fuori un altro nome interessante. Gli Shapes And Sizes giungono al loro secondo disco a circa un anno di distanza dal debutto omonimo, ci propongono quattordici tracce di coinvolgente e mirabile indierock. Il quartetto è capitanato da Caila ThompsonHannant, la sua splendida voce (agitata in certi momenti, più delicata in altri) si sposa con la musica in maniera del tutto naturale. Oltre a Caila (tastiera e voce), ci sono Rory Seydel (anche lui voce, chitarra), John Crellin (batteria) e Nathan Gage (basso). All’interno di questo disco ritroviamo brani come Alone/Alive, la track d’apertura, dove Caila mostra in modo esplicito lo sdoppiamento di personalità. In The Taste in My Mouth si può scorgere la calma, anche se apparente, in The Long Indifference ed in Piggy, invece, spazio dedicato alla distorsione. Un album completo, ricco di sfumature e contaminazioni, dagli aspetti spesso imprevedibili, una prova di qualità. Livio Polini

Montag

Going Places Carpark / Audioglobe indietronica / ***½

Nuovo disco per il canadese Antoine Bédard, nato e cresciuto in Quebec, ma attualmente a Vancouver, conosciuto al pubblico con il nome di Montag. Con questa nuova prova, come in passato, rimaniamo nell’ambito dell’indietronica e del synthpop, la novità risiede nell’importante numero di ospiti coinvolti nel progetto, personaggi abbastanza noti della scena musicale alternativa. Ospite è Owen Pallet (in arte Final Fantasy), così come Anthony Gonzales (degli M83), Amy Millan (Stars), Victoria Legrand (Beach House), Au Revoir Simone, ecc.. Il disco sembra ben riuscito, d’altronde lo sappiamo, Antoine Bédard è un professionista, e poi, con un gruppo così ben composto, sarebbe stato davvero un peccato preparare un lavoro non all’altezza. Unica critica, suona quasi come una compilation di artisti vari (appunto), è assente un fil rouge, un leitmotiv, un continuum, quasi come provocazione. Possiamo allo stesso tempo dire che è un disco ben costruito, curato ed indubbiamente piacevole. Livio Polini


KeepCool

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Dark Tranquillity

Fiction Century Media/EMI death-thrasch-melodico / ***½

In diciotto anni di carriera il combo svedese ha dato alle stampe un lavoro inedito ogni due anni, senza mai degenerare o imitare soluzioni personali dal s u c c e s s o collaudato, anzi i nostri hanno avuto il merito di innovare costantemente il proprio stile. Negli anni, notevoli sono stati i colpi di coda e le emancipazioni, dal genere originale (death-metal), attitudine che li ha portati allo sviluppo del Gothenburg sound. Fiction non è un clone del predecessore Character, ma i fan noteranno come le coordinate stilistiche di questo ultimo siano fondamentali e ci sono tutte. La componente thrash, di matrice americana, svetta su tutti gli elementi, anche se coadiuvata dagli inserti melodici di synth ed electronics, i quali fusi insieme sfociano in un intricato post-metal. Fiction è un ulteriore passo avanti a conferma del loro magnifico percorso artistico, ma la sensazione che se ne ricava è un leggero assestarsi delle strutture composite, a favore di una ricerca più concentrata sui suoni. Nicola Pace

Paradise Lost

In Requiem Century Media/EMI goth-metal / ****

I Paradise Lost hanno delineato il gothmetal dei primi anni’90, lasciando che molti artistici a loro coevi o posteriori, cogliessero i frutti del loro lungimirante lavoro. Dopo il planetario successo di Draconian Times, i nostri intrapresero una strada più affine ad un elettro-dark-rock, spiazzando così milioni di fan. Le motivazioni vere della svolta non le sapremo mai, ma una cosa è certa, dopo una serie di album di indubbio valore come Symbol of Life e

Stylophonic, Alex Neri, Who Made Who, Goose Passo 4 Nike+

È intensa, vitale, la connessione tra il movimento, la performance ed il suono. Come se il ritmo battesse il tempo del nostro attraversare gli scenari urbani, come se fosse il commento sonoro di un viaggio che é, al tempo stesso, espressione di una tensione atletica, ma anche una “tecnica” per riconciliarsi con uno spazio interiore, uno spazio creativo. Con Passo 4 il beat per la corsa non è solo un commento sonoro, ma diventa quello che il musicologo inglese David Toop ha definito un Oceano di Suoni, uno spazio infinito, dove gli stili, le musiche confluiscono, dialogano, si incontrano e definiscono un territorio dell’immaginario. Lì, in questo spazio che invade la nostra mente vivono le musiche di Passo 4. Un progetto che restituisce alla musica quel valore di luogo dell’incontro e della condivisione, dello scambio e della relazione. E offre al fare musica tutto la forza di un atto creativo collettivo che ribalta definitivamente l’idea che il suono contemporaneo sia semplicemente l’espressione di personali meditazioni elettroniche. Con Passo 4, ritorna al centro della scena contemporanea la jam session la tecnica privilegiata di composizione, come era stato nel jazz ‘libero’ degli anni ‘60 e poi con l’hip hop dei block parties. L’intreccio delle esperienze, non solo come valore essenziale della cultura elettronica contemporanea, ma anche come pratica di scrittura. Nike ha chiesto a 4 artisti, tra i più rappresentativi, di quel complesso sovrapporsi di emozioni e di citazioni che l’antropologo inglese Ted Polhemus definisce “Il Supermarket dello Stile” di lavorare insieme, sorta di workshop planetario che azzera ogni frontiera, geografica ed emozionale, per creare una suite che possa accompagnare i moderni runner quando ritornano sulla “strada” alla ricerca di quella esperienza, fisica e dello spirito, che è oggi la corsa. Al lavoro Stylophonic, Alex Neri, gli Who Made Who ed i Goose. Quattro stili diversi, quattro diversi tensioni artistiche. Il “Supermarket dello Stile”, appunto, una suite che scandisce, come in una opera pop, passaggi temporali, ma anche (soprattutto) veloci attraversamenti dello spazio. Disponibile in download su itunes. Pierfrancesco Pacoda

Paradise Lost, ma sinceramente sottotono rispetto il lustre passato, In Requiem ci restituisce una band alle prese con un gothmetal ispirato, fresco e coerente in tutte le sue undici tracce. Da almeno dieci anni non si sentiva un cantato così comunicativo, dei solos emozionanti e degni del loro nome, una batteria artisticamente incisiva nella costruzione dei brani. Inoltre, dopo due decadi di storia, oltre due milioni di dischi venduti, c’è chi ha deciso di giustificare la loro eccellente carriera in un documentario dal titolo Over the Madness, presentato quest’anno a Cannes; e poi si dice tanto è solo metal, … poveretti loro. Nicola Pace

Sadist

Sadist Beyond Prod./Masterpiece techno-death-thrash / ****

Fino a qualche tempo fa parlare dei dissolti Sadist, era in qualche maniera rimpiangere uno dei tanti gruppi italiani, che avrebbe senz’altro meritato di più in termini artistici ed economici.


KeepCool Il 16 luglio 2006 sono risorti in sede live, e qualche mese più tardi rieccoli di nuovo sul mercato con un LP omonimo, Sadist. Messi da parte gli errori concettuali dell’egocentrico Lego, la band genovese ha dato vita ad una gemma musicale, recuperando la coinvolgente espressività di Crust, amalgamandola con i criteri cervellotici e fusion-progressivi dei primi due capolavori, Above the Light e Tribe. Oltre a ciò non dimentichiamo la massiccia presenza di atmosfere orrorifiche, di Gobliniana memoria, le quali da sempre hanno dato un apporto fondamentale all’acutissima scrittura, di questa piccola ma, artisticamente, grande band tutta italiana. Nicola Pace

Dr Blues & Soul Brothers

My favourite soul... will never die Pieronero Rythm’ blues / ****

In un numero dedicato alle nuove uscite salentine non potevamo omettere la recente pubblicazione di questo cd live. Registrato nell’agosto del 1998 (dieci anni e non sentirli...) al Mamma li Turchi di Tricase, arriva My favourite soul... will never die dei salentini Dr Blues e Soul Brothers. I dodici brani inseriti nel cd sono tutti grandi classici della black music come Sweet Home Chicago, I feel good, The dock of the bay, Everybody needs somebody to love e molti altri. Un disco ben suonato - d’altronde nei Soul brothers militano alcuni dei migliori musicisti di questo territorio - e caratterizzato dalla presenza del vocalist Maurizio Petrelli, personaggio storico della musica salentina. Una produzione che anticipa l’uscita del prossimo lavoro di inediti.

Dj Shocca e Frank Siciliano Struggle Music Monkey Island Hip hop / **1/2

A due anni di distanza da 60 Hz, Dj Shocca ripete l’operazione (ospitare sulle proprie basi una schiera di MC da tutta Italia), questa volta con la collaborazione di Frank Siciliano, già ospite in 60 Hz. Il progetto in sostanza mantiene i pregi e i difetti evidenziati nell’uscita precedente. Infatti, se da un lato è molto interessante la possibilità di avere una visione d’insieme

19 della scena rap nazionale in un contesto reso o m o g e n e o dalla produzione comune, dall’altro si ha l’impressione non tutti gli ospiti siano all’altezza del progetto. E d’altro canto gli Mc più blasonati sembrano non investire molto in un progetto altrui (vedi Inoki, Amir e Club Dogo, tutti al di sotto del proprio standard), tanto che i pezzi migliori sono quelli rappati proprio da Frank Siciliano (in coppia con Mistaman). Con l’eccezione dell’ottima Suona sempre (con Ghemon e Tony Fine), azzeccata sia stilisticamente che liricamente, che chiude in bellezza un disco altalenante e in certa misura deludente. Emanuele Flandoli

Smashing Pumpkins Zeitegeist Wb rock / ***

Mondo Marcio Generazione X EMI Hiphop *

Metà del disco la passa a non dire niente di nuovo o peggio niente del tutto. L’altra metà si divide fra autodifese contro chi lo ha attaccato e ritornelli che quando non sono semplicemente banali sono peggio. Ogni tanto imbrocca una rima giusta, a volte riesce a mettere insieme una strofa coerente, poi torna ad abbaiare con quell’accento da americano a Roma di cui ha fatto un marchio di fabbrica. Purtroppo anche i beat, punto di forza dell’album precedente, sono peggiorati drasticamente, sacrificando il funk per scimmiottare quel dirty south che è diventato tendenza dominante nell’ultimo anno. In fondo non è neanche del tutto colpa sua, Mondo Marcio non è che la punta dell’iceberg di una generazione di MC che hanno iniziato ad ascoltare rap quando l’hip-hop aveva già iniziato a sprofondare in una mera esibizione di ricchezza, potere, sessismo, perdendo per strada tutto ciò che di buono questa cultura aveva da offrire. Quando lo buttate via almeno fate la raccolta differenziata. Emanuele Flandoli

Abbiamo dovuto aspettare molto prima del loro ritorno, circa sette anni. Molto è cambiato nel frattempo, Billy Corgan si è anche cimentato nell’esperienza solista. Ma qualcosa di quel suono, di quello stile, sembrava rimasta indissolubilmente rimasta impigliata nella maglie della band. Della mitica formazione originale, foriera di album fondamentali degli anni 90, sono rimasti solo il buon Billy Corgan voce, chitarra e mente del progetto e la macchina ritmica Jimmy Chamberlin. Ma il sound Smashing Pumpkins c’è tutto: tagliente, deflgrante, malato. Strano che quello che un tempo sembrava futurista oggi è merce comune nel panorama musicale. Segno del peso che una band come questa ha avuto nella storia della musica. Questo Zeitgeist è un disco in cui tutte le asperità e le geometrie della band tornano insieme alle ballate, un disco tirato, duro…quasi uno sfogo. Ma a chi sostiene che il loro Mellon Collie and the infinite sadness (1995) resta insuperabile bisogna ancora una volta dare ragione. O.P.


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La beatlemania Mi è capitato tempo fa, in occasione di un concerto di Mark Owen di avere un assaggio di takethatmania e posso assicurarvi che è stata un’esperienza veramente incredibile. Ferme restando la calma, la cortesia e la disponibilità di Mark, le ragazze che cercavano di catturare anche per un solo istante la sua attenzione erano come ipnotizzate e si muovevano senza tener conto di nient’altro che non fosse legato al loro idolo. Bersagliato senza volerlo dai flash e dalle domande, mi sono sentito come dovevano essersi sentiti Mal Evans e Neil Aspinall quando scortavano i Beatles e dovevano escogitare mille trucchi per evitare i fans. Non sempre succede, per le definizioni che restano nel tempo e in qualche modo fanno epoca, ma nel caso della beatlemania si può risalire al giornale che sparò questo neologismo in un titolo. Il 13 ottobre del 1963 i Beatles parteciparono alla Sunday Night At The London Palladium e il giorno dopo il Daily Mirror coniò l’espressione che avrebbe contraddistinto tutta la prima parte della folgorante carriera del quartetto. A un certo punto sembrava che tutto quello che i Beatles toccavano si trasformasse in oro. Durante i concerti il loro pubblico, formato in buona parte da ragazzine scatenate, urlava così forte da coprire completamente la musica. I Beatles erano bersagliati da caramelle gommose, dopo che in un’intervista George aveva detto di gradirle più di altre. In un primo momento sembrava che il gruppo riuscisse a cavalcare il ciclone, ma alla fine la beatlemania finì con l’assumere aspetti sempre più inquietanti – ci fu l’incidente provocato dalla famosa frase di John sui Beatles più popolari di Gesù Cristo e anche l’incidente diplomatico con Imelda Marcos, first lady delle Filippine – e i Beatles

decisero di smetterla con le esibizioni dal vivo. La beatlemania però era fatta anche di oggetti. Parrucche (ovviamente), stivaletti, cappelli, sciarpe, tazze, spillette, pupazzi… tutto il bric-a-brac che può far incassare denaro – non ai Beatles, badate, ma qui la storia si farebbe troppo complicata – intorno ai Beatles c’era. E fra tanto ciarpame c’erano (e ci sono ancora: visitate il sito ufficiale thebeatles.com) cose come il modellino del Sottomarino Giallo della Corgi Toys messo in vendita nel 1968 in occasione dell’uscita nelle sale dello splendido lungometraggio a cartoni animati Yellow Submarine. Io avevo 17 anni e non riuscii a trovarlo, nonostante fossi anche un collezionista Corgi Toys (England uber alles, mi verrebbe da dire, visto che i corgi sono i cani preferiti dalla Regina Elisabetta). Immaginate quindi la mia gioia quando, molti anni dopo (era il ’97), ne vidi un esemplare nella vetrina di un negozio. Non passò neppure un minuto tra il vederlo e comprarlo. Scoprii poi che la Corgi lo aveva “ristampato” con tanto di certificato, affiancandogli il bus di Magical Mystery Tour e il newspaper taxi di Lucy In The Sky With Diamonds. Da allora il mio Yellow Submarine fa bella mostra di sé su uno scaffale della mia libreria. Mi ricorda prima di tutto che i Biechi Blu alla fine non vinceranno e poi che bisogna sempre e comunque dare spazio ai sogni, alla musica e all’Utopia. Bios & Books Mettere insieme una bibliografia dei Beatles è un’impresa pressoché impossibile. Sembra che la loro storia sia una miniera inesauribile di fatti, appunti e riflessioni. Fino a qualche tempo fa il nostro paese era un po’ avaro di saggi originali e traduzioni, ora le cose vanno un po’ meglio… anzi, direi che c’è da sbizzarrirsi.

Vi segnalo qualche titolo tra i più recenti – mi vengano perdonate eventuali dimenticanze. La Sublime Records & Books ha mandato in libreria nel 2005 un saggio di Steve Matteo su Let It Be., mentre la Azimut ha pubblicato, sempre nel 2005, un delizioso The Beatles In Rome 1965 con le foto di Marcello Geppetti. Inquietante e maniacale Il caso del doppio Beatle di Glauco Cartocci (Robin Edizioni, Roma, 2005), tutto centrato sulla vicenda della presunta morte di Paul McCartney. Nel 2006 Coniglio Editore (Roma) ha tradotto in italiano John, un libro della prima signora Lennon illuminante soprattutto per gli anni di Liverpool. Sempre nel 2006 è la volta di John Lennon, Tutto il potere al popolo, un’intervista edita da Datanews di Roma. Fondamentale The Beatles, La vera storia di Bob Spitz (Sperling & Kupfer Editori, Milano, 2006), in assoluto una delle migliori biografie dei Beatles in circolazione, anche se il traduttore si è un po’ incartato nelle pagine che descrivono le tecniche di registrazione di George Martin e Geoff Emerick. Molto interessante) Sgt. Pepper. La vera storia di Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti (Giunti, Firenze, 2007). Delizioso I Beatles in India di Lewis Lapham (Edizioni e/o, Roma, 2007), ma… lo sapevate che Furio Colombo, senatore della Repubblica ed ex direttore de L’Unità è stato l’unico a poter filmare i Beatles in quel di Rishikesh? Last but not least, Revolution di David Quantick (Il Saggiatore, Milano, 2007), un’analisi approfondita dell’Album Bianco. La musica Nessun cd rimasterizzato extra lusso limited di Sgt. Pepper – il compito è stato affidato al prestigioso mensile britannico Mojo, che ha realizzato un vero e proprio remake affidando le canzoni più famose


del mondo a una schiera di giovani band. Ma Paul si è tolto la soddisfazione di far uscire il suo nuovo disco da solo, Memory Almost Full, proprio in coincidenza con il quarantesimo anniversario di Sgt. Pepper. Opera pregevole e molto beatlesiana, la sua, anche se le preferiamo il bellissimo Chaos And Creation In The Backyard, forse l’apice di tutta la sua carriera post-Beatles. E anche se non raccoglie tutte le cover di John che sono state realizzate per sostenere Amnesty International – le altre le trovate in rete – non possiamo dimenticare Make Some Noise, Save Darfur. Riprendere canzoni come Imagine o Jealous Guy sarebbe fonte di preoccupazione per qualsiasi artista, ma bisogna ammettere, ignorando quel grido al sacro profanato tipico di alcuni critici, che questo doppio cd contiene parecchi momenti emozionanti. Segnaliamo almeno le versioni degli U2 (Instant Karma), dei R.E.M. (#9 Dream), di Jakob Dylan e Dhani Harrison (Gimme Some Truth), di Jackson Browne (Oh, My Love) e perfino – chi lo avrebbe mai detto - dei Duran Duran (Instant Karma). In fondo, dopo aver considerato alcuni oggetti legati ai Beatles (non vi ho detto della spillina smaltata di Yellow Submarine, ma io sono un po’ Peter Pan e non faccio testo), e alcuni libri, librini e libroni, non possiamo che prendere atto dell’importanza della loro musica. Quella di ieri. E quella di oggi. p.s. Sapevate che i francobolli dedicati ai Beatles emessi al principio del 2007 sono i più venduti nella lunga storia della Royal Mail? In Italia si possono ancora (forse) trovare da Bolaffi. Inutile dire che per un vero beatlesiano sono un acquisto obbligato. Giancarlo Susanna

Dopo due anni da Parola D’Onore, Roy Paci e i suoi Aretuska tornano con un disco nel quale “riportano tutto a casa”. Tanti gli ospiti, tanti i linguaggi, per un sound caldo e meticcio, debitore sin dalla copertina alla esplosiva miscela che fu dei Mano Negra. Trainato dal singolo Toda Joia Toda Beleza, che vede il trombettista siciliano accanto a Manu Chao, Suonoglobal utilizza un canale alternativo di distribuzione, essendo in vendita nelle edicole con Xl di Repubblica. Sei in giro a promuovere questo Suonoglobal che, già a partire dal titolo, definisce bene il suo contenuto. Anzitutto, come va pronunciato? All’inglese o alla spagnola? Decisamente alla latina… sarebbe Suonoglobàl. Beh, ti confesso che il titolo del disco è l’ultima cosa che decidiamo. Mi piace molto pensare che il fruitore di questo disco abbia una personale interpretazione del titolo. Poi è un titolo che si presta ad una serie di letture trasversali e dunque mi piaceva per questo. La copertina del nuovo disco rimanda tanto alle celebri copertine dei Mano Negra… mi vengono in mente Puta’s Fever o Casa Babylon. È un omaggio diretto, visto che nel disco c’è come ospite Manu Chao? Il lavoro è stato realizzato da un grandissimo grafico di origine coreana ma che vive ormai a New York da tempo e che aveva già lavorato nell’ambito della musica. Ovviamente mi piaceva riuscire a riprendere l’immaginario dei Mano Negra per proiettarlo nel futuro. Io sono un tipo preciso e dunque cerco di curare tutti i dettagli, compresa la grafica. Suonoglobal è stato distribuito con Xl di Repubblica. Come mai questa scelta? È stata una formula che ha dato i suoi frutti perché il disco ha venduto davvero bene in questi primi giorni. La proposta ci è arrivata dal giornale e noi

l’abbiamo accettata perché ci sembrava interessante promuovere il disco attraverso canali diversi dai soliti. Se non va bene così la prossima volta lo distribuiremo con il porta a porta (ride). Poi non possiamo nasconderci, viviamo in un periodo difficile per l’industria discografica e questo ci ha permesso di arrivare a più gente sempre fermo restando un prezzo al pubblico accessibile che abbiamo imposto. Hai chiamato a te un sacco di amici. Erriquez, Sud Sound System, Cor Veleno, Caparezza, Raiz, Pau e naturalmente il già citato Manu Chao. Che tipo di apporto ti hanno assicurato? Era la volta buona questa per coinvolgere più gente possibile? Dopo 27 anni di carriera ho sentito la necessità di raccogliere un po’ dopo aver seminato. I musicisti che hai citato sono soprattutto amici che frequento ben volentieri anche fuori dalla mio lavoro. Con molti di loro c’è un impegno etico e civile, vedi con Pau la storia dei pozzi d’acqua in Kenia o con Erriquez il lavoro al fianco del movimento zapatista. Io non sono certo un accentratore nel mio lavoro. Avrò altri difetti ma non questo e dunque ho creduto che fosse il momento migliore per coinvolgere quanta più gente possibile. È stata come una mega reunion. Tieni conto che stavolta alla produzione artistica c’è Fabrizio Barbacci (Ligabue, Negrita, Nannini, ndr) il cui apporto mi ha assicurato un livello molto alto. Quindi mi sono sentito pronto per invitare uno come Manu, con cui del resto lavoro da sette anni. Suonoglobal è linguisticamente una torre di Babele… Dici bene. Credo che in Suonoglobal ci sia una vastità di linguaggi e di idiomi che ci ha dato la possibilità di utilizzare una sorta di esperanto musicale molto latino ma risultante dall’incontro di tante culture. Ilario Galati


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Quiet è il primo lavoro solista di Lucariello, rapper napoletano noto ai più come voce degli Almamegretta post-Raiz. I più attenti ricorderanno nel ‘98 l’uscita di un autoprodotto dal nome Spaccanapoli, dei Clan Vesuvio. Luca c’era. Ed era 9 anni fa. Nel frattempo Lucariello, all’anagrafe Luca Caiazzo, si è costruito la fama di “rapper dei vicoli”, dando vita ad una figura che in un certo senso si pone al polo opposto rispetto ai fanzinati e tiratissimi rapper della Milano che conta, quella delle tv musicali, quella delle major. Adottato dalla famiglia Alma a pieno titolo (assieme a Patrizia Di Fiore) nel 2003, il legame si è rinnovato in occasione del suo primo lavoro solista, nei negozi per Sanacore Records dai primi di aprile, presentandoci un gioiellino in confezione fumosa, dalle tinte cupe, e dalla title track che può essere pronunciata indistintamente in inglese o napoletano. Ed è subito rivelazione. Critica e pubblico, dalle riviste più titolate agli squinternati blog della rete, girano ottime recensioni, pareri entusiasti, è nata una stella. Eppure Luca ha quasi trent’anni, ed il cofanetto tra le nostre mani più che l’esplosione di una SuperNova va considerato il frutto del lento accumulo di tensione artistica durato sette anni, passati tra i vicoli di una Napoli che mai come nelle sue canzoni viene descritta dal di dentro, con la rabbia di un ragazzo che non è voluto fuggire “lontano”. Rap da strada, rap violento (Pistole puttane e cocac**a è un chiaro biglietto da visita), ma che alla base delle ritmiche sincopate pone un lavoro esemplare di critica sociale che si riflette nella scrittura dei testi quanto nell’interpretazione vibrante di Lucariello. Luca Caiazzo, ha deciso di parlare, di denunciare, e lo fa con la retorica a lui più familiare, il rap. Molti al sud sono cresciuti sognando con la musica degli Almamegretta. Tu, forse, hai esagerato: talmente hai sognato che alla fine sei stato “inglobato” dalla famiglia. Adesso, Quiet, ci propone un Lucariello in versione solista. È un episodio o hai intenzione di proseguire per questa strada? Sai, è vero ciò che dici. Il mio rapporto con gli Alma si è evoluto proprio lungo la direttiva che ogni fan vorrebbe seguire. Ma ciò non toglie nulla alla mia carriera solista, è il fatto vero, a 30 anni ho deciso di fare questo. Dopo sette anni di silenzio come Lucariello sto pensando ad una produzione parecchio fitta. Ci voglio lavorare… La critica più frequente che viene mossa al rap italiano è la mancanza di quel background sociale tipico dei ghetti e delle strade americane, come se per fare rap di un certo livello fosse necessario aver sperimentato disagio e ghettizzazione… Non sono mai stato molto d’accordo con quest’interpretazione. È inevitabile che l’arte si nutra della sofferenza in generale, da un certo tipo di vissuti provanti. Questo tipo d’ispirazione non è legata però al ghetto o a chissà cosa. Anche l’uomo più medio sulla faccia della terra può sperimentare sensazioni che ti stimolino alla creazione, il problema è la resa. Il vero problema del rap italiano è proprio il non riuscire a guardare a sé stesso privandosi del modello a noi estraneo. Abbiamo la nostra sofferenza anche noi, da essa

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possiamo trarre ispirazione. Guardiamo a Fabri Fibra, un esempio facile, lui riesce a parlare del suo mondo, della sofferenza di un adolescente, pur’si ten’trentann’, ma quella è un’altra storia. Che magari il discorso formale possa essere legato al modello americano, è un discorso generalizzabile a buona parte della musica italiana, non solo al rap, a partire dagli esordi di Adriano Celentano… Anche un po’ con una certa pressione da parte dei discografici, si è sempre cercato un parallelo vincente cui rifarsi, ora Springsteen, ora Eminem, poi chissà chi… E Lucariello a chi guarda? Lucariello non guarda a nessuno, ti dirò la verità, cerco di tirarmi fuori da questa dinamica. Volgarmente definirei questa differenza come la sega versus la scopata. Guardarsi dentro, tirar fuori qualcosa di tuo senza un riferimento limitante, quello sì è un rapporto completo. Il resto è solo un raspone… Nel cd ci sono una serie di personaggi e di storie, Totore, Queen of the street, Mariarca ed altri. A quale di questi ti senti più legato, chi di loro hai incrociato più volte per le strade della tua vita? In realtà il legame ci sta con tutti, non credo di poter fare una distinzione tra chi più e chi meno. Ma se dovessi scegliere un personaggio cardine, che fa vibrare di più il cuore delle altre persone, sceglierei proprio Totore. Totore vive dentro ognuno di noi. Lui si lamenta del fatto che la gente ti guarda solo fuori e non riesce a capire, anzi, non s’interessa proprio a ciò che anche un ragazzo nella sua condizione può provare dentro. E sente le parole della gente, quel pover’uaglione che lo accompagna ovunque lui vada, lui lo sente come una coltellata, l’eco di una finta compassione che si ferma solo in superficie. Lucariello, nato a Napoli, canta in napoletano, ispirandosi alle strade della sua città. Eppure nel booklet del tuo cd tutte le canzoni sono “tradotte” in italiano. Me lo spieghi? Tutti i napoletani non incontrano difficoltà con quella che si potrebbe dire “una lingua a sé”, come il napoletano. Ciò nonostante Napoli, pur avendo questo idioma tutto suo, è inserito dal 1860 in uno stato chiamato Italia, pace all’anima di Garibaldi. Ho voluto semplificare l’understanding di tutto il resto della nazione. Nel cd, come dal vivo, molti dei pezzi sono interpretati, quasi recitati…Ti sposti dal ruolo del cantante e diventi tutti loro. È una


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scelta stilistica o ti viene spontaneo? È una scelta. In un certo momento il mio modo di scrivere è cambiato, ed in parte lo devo all’influenza della lettura di Karl Jaspers (psicopatologo di inizio novecento, ndr). Lui teneva in gran conto l’importanza dell’empatia, il sintonizzarsi sulla persona di cui vuoi capire il funzionamento. Non dico l’artista, ma chiunque desideri utilizzare la comunicazione in un modo creativo deve porsi in quella stessa ottica. Si dice: “L’artista è bugiardo”. Trovo che sia una questione di risonanze, far vibrare il tuo cuore sulla frequenza di un altro, attraverso la musica amplifichi questo meccanismo e fai sì che avvenga ancora su scala più vasta. In Lovesong dici “Montagne d’immondizia, gettate per la strada e nella televisione” (“quei versi li ho scritti cinque anni fa”, mi dice Luca, “la monnezza già c’era”), quanto può essere pregiudicante il clima negativo di crescita sui giovani napoletani, ma anche baresi, palermitani, di ovunque essi siano, cresciuti in una situazione sociale drammatica come quella dei quartieri poveri? L’ambiente ci forma, è chiaro. Sarebbe compito delle istituzioni recuperare certe falle del sistema, eppure… Ricordo che anni fa, io andavo all’istituto d’arte dietro Piazza Plebiscito, era il periodo in cui si parlava di speranza “Bassolino”, di cassa del Mezzogiorno. Ricordo il nuovo fasto di quel quartiere, ed i palazzi ristrutturati solo sul lato che si affacciava su Piazza Plebiscito. Cortile, interno, tutto fatiscente. Lavorare sull’educazione ha dei tempi lunghissimi, ed a volte risultati relativi. È un discorso, questo, che con i tempi della politica non funziona. Chiunque sia eletto, in quattro anni s’impegna in opere a più rapida risonanza, invece che attendere che un’intera generazione tra vent’anni possa dirti grazie. Se si facesse un lavoro di dieci anni, di quindici anni, sull’educazione civica e sociale, di sensibilizzazione… Il problema a Napoli è proprio che la gente è scostumata, inculante, la cultura del fregare qualcuno con la furbizia. Certo è un discorso globale, ma lì si comincia dalle cose spicciole e si finisce alle vite intere passate sotto l’ombra di quello o questo, infilato e mai meritevole. Questa è la tragedia… Elvis Ceglie

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Il Mavù, locale di Locorotondo sempre più attento a offrire al suo pubblico un carnet differenziato, fatto di dj set ma anche di eventi dal vivo, ha inaugurato il 23 giugno la sua stagione estiva con il primo dei cinque set della rassegna Making senses. L’apertura della stagione estiva è affidata ad Amalia Grè, ormai padrona di casa; prossimi ospiti, Dee Dee Bridgewater, Gotan Project, Antonio Marquez e Ray Gelato. Abbiamo fatto due chiacchiere con la sorprendente artista pugliese. Stai lavorando al nuovo album? (Il precedente lavoro, Per te, è stato pubblicato il 10 febbraio 2006, ndr) Si si, qualcosina l’ho gia fatta… Cosa dobbiamo aspettarci? Lavori sempre con le stesse persone o hai cambiato? Mah, il solito fritto misto! Sarà sempre pubblicato dalla Emi. Per quanto riguarda il produttore, non so ancora. Nel precedente album avevo lavorato con Davide Bertolini (produttore dei Kings of Convenience, ndr), ma in verità non so se nemmeno se voglio un produttore, qualcuno che mi stia dietro. Voglio essere libera di creare! Ma se è questo il tuo istinto, non posso non farti una domanda su Sanremo. A bocce ferme, come valuti quell’esperienza? Cosa ti è piaciuto e cosa no? Sanremo era un passo da fare, perciò sono contenta di averlo fatto, anche perché mi ha permesso di uscire da un pubblico prettamente di nicchia. Allo stesso tempo, il punto debole dell’esperienza è che non sarò mai una cantante pop (ride, ndr) Ti piacerebbe regalare un tuo testo a qualche cantante italiano o internazionale? Se sì, a chi? Tra gli italiani a Mina, perché mi piace molto. Internazionali? Bjork… Accidenti! Hai ascoltato il nuovo album? Non ancora. Me lo consigli? (e così parte una lunga digressione sul nuovo album di Bjork, ndr) Che emozione provi nel sentire tante persone immedesimarsi nei tuoi testi, che sono assolutamente personali? Pensi che loro possano capirli veramente? Questa cosa mi rimanda solo a pensieri positivi. È una cosa simbiotica, osmotica, non è facile da spiegare ma è molto affascinante. È una roba magica. E riguardo la comprensione dei testi, è solo un fatto di tempo... piano piano, mi capiscono. Un’ultima domanda: leggendo la tua biografia è facile notare come tu abbia lasciato quasi subito la Puglia per formarti come persona e come artista. Cosa suggerisci ai giovani che stanno per iniziare l’Università o stanno cercando lavoro? Andare via a provare a restare? Non so che lavoro voglia fare tu, ma andate via. Che restate a fare? Partite, conoscete gente nuova, potete solo guadagnarne, vi aprite la mente. Andate, andate! Ma magari poi torniamo, come lei, felicissima di suonare nella sua Puglia. Dino Amenduni


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Primi di Giugno. Al Circolo degli Artisti di Roma ne avvengono delle belle. Shellac e Sondre Lerche e le reazioni possibili credo siano due: corrucciare la fronte ed esclamare “ma che cazzo” oppure vederla come un’eccezionale trovata che unisce in un solo nodo spazio-temporale dinamiche e fan di due scene musicali così distanti. Gli Shellac sono il gruppo math-rock di Steve Albini (nella foto in basso), vengono dall’Illinois ed hanno appena dato alle stampe Tipical Italian Greyhound, dopo cinque anni di silenzio; Sondre invece è un biondino di Norvegia, pop cantautorale e sonorità rock dal calore inconsueto per quelle latitudini. Shellac = Steve Albini. Questa la prima nota su un gruppo che in Italia non riempie le piazze, ma che non nasconde le sue origini tipicamente italiane. Si ma poi? Shellac è anche Vintage Rock, e per comprenderne il significato basterebbe parlare della strumentazione utilizzata dal trio, gli amplificatori gracchianti ed arruginiti, l’assenza di effettistica alla moda. la scelta mirata di Albini di far uscire sul mercato i vecchi vinili di una volta, solo successivamente trasposti sui moderni supporti digitali (da leggere: CD). E forse non saremmo qui a parlarne se alla base di un progetto così controtendenza non ci fosse un personaggio che di tendenze rock ne ha lanciata qualcuna, produttore di Nirvana, Gogol Bordello, Flogging Molly, Pj Harvey e Pixies. Eppure il clima che si respira non è propriamente quello di un concerto serio ed impegnato dove una boriosa leggenda del rock mostra a tutti i plebei le sue falliche attitudini chitarristiche. Tuttaltro, Albini è un pazzo scatenato, i suoi soci (entrambi con alle spalle nient’altro che un pugno di mosche, prima degli Shellac), completano il quadro. Assieme paiono la realizzazione del sogno di qualunque band di provincia, magari formata da quattro studenti di fisica, per giunta fuori corso. O meglio, professori di fisica, studenti di musica, volontariamente fuori corso. Ecco spiegato tutto, Albini pronuncia stonati sermoni su ritmiche asfissianti, lo spettro dei Pil è

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puro associazionismo ma rende l’idea, e quando il pubblico (mai visto un audience più diviso tra adoranti e schifati) vocia, Bob Weston interviene pronunciano un Be quiet! col dito sulle labbra. Si, decisamente professori. Albini indifferente continua la lezione, fa boccacce e gestacci, suona per sé stesso, completamente a proprio agio nel ruolo dell’artista a sé stante. Per completare il quadro, a due pezzi dalla fine, dal palco parte il colpo di grazia… “Have you got any question?” E poi che accade? Esplosione di luce e colori, arrivano i norvegesi. Ed è vero, gli scandinavi sono proprio come nelle pubblicità delle chewin-gum. Biondi, alti e simpaticoni. Loro dopo gli Shellac, tradotto fa Ok, Prof, abbiamo portato gli strumenti, possiamo fare qualche pezzo, con Albini che avrà scosso le spalle trangugiando succo di mirtillo. E così sul palco sale la scolaresca, capeggiata da Sondre Lerche, che ormai s’è fatto un nome in tutta Europa, raccogliendo larghi consensi con il pop d’autore sospeso tra Paul McCartney ed Elvis Costello, la sua faccia da schiaffi, ed il ciuffo alla Beck. E pop me l’aspettavo anche dal vivo, dove il norvegese lascia invece che la bilancia penda ora verso il punk, ora verso il funky, alle volte attestandosi su posizioni intimiste ma mai patetiche. Il tono dell’esibizione lo si capisce sin dall’esordio, Airport Taxi Reception e The Tape in rapida successione (leggasi: Ciao, sono proprio io, quello allegro anche nei giorni di pioggia!). Ed è qui che cominciano i miei dubbi. Sondre Lerche è, o no, un paraculo? Boh. Di fatto si presenta come la faccia pulita della musica, ascoltare Phantom Punch per credere, ed anche lui sembra avere un legame particolare con Roma ed il Bel Paese, poiché più o meno ad ogni intervallo ringrazia, fa lodi, si dice emozionato di essere finalmente tornato nella nostra nazione e ricomincia a cantare. Che sia parte delle tradizioni norvegesi? Mah. Il concerto prosegue è godibile, il pubblico apprezza, e quando sul palco viene chiamata un’amica italiana, tale Maria (la prima Maria bionda alta e con gli occhi azzurri che io abbia incontrato, cose che solo al concerto di Sondre Lerche) a cantare ineditamente in duetto Don’t be shallow il Circolo è in delirio. Troppo simpatico, troppo amabile questo biondino, per essere vero. Ma quasi quasi me ne frego, mi paraculi pure, purchè ci riesca bene come adesso… Elvis Ceglie


Meredith Monk è una delle compositrici e delle vocalist più apprezzate al mondo. Impegnata sin dagli anni Sessanta nella ricerca di un una nuova vocalità, è presto arrivata all’utilizzo di un personale vocabolario di suoni e fonemi, nonché alla creazione – insieme al suo vocal ensemble – di spettacoli dalla bellezza ammaliante. L’abbiamo incontrata in occasione di due performance tenute nel Teatro Comunale di Ferrara. Perché hai scelto di lavorare quasi esclusivamente con la voce e non con altri strumenti? Io appartengo alla quarta generazione di una famiglia di cantanti. Mia madre lavorava come cantante nelle radio, mio nonno era un basso-baritono, mentre il mio bisnonno era un cantore. Quindi, il canto è stato la mia prima lingua. Cantavo prima ancora di parlare, cosicché il canto è diventato lo strumento del mio cuore, ed è il centro di qualsiasi cosa io faccia. Talvolta si percepisce un senso narrativo nella tua musica. Provi mai a raccontare storie con la tua musica? Io non penso che la mia musica sia tanto narrativa quanto piuttosto poetica. Non seguo una linerarità nelle cose che compongo, nel senso di dire: “è successo questo, e poi quest’altro e poi quest’altro ancora”. Io sono molto più interessata alla poesia della musica, sono interessata a creare immagini, a dare la possibilità che chi ascolta possa elaborare la propria personale immagine. Le canzoni di solito parlano di un preciso argomento, o si riferiscono a qualche specifica situazione, ma la mia musica è più astratta perché io lavoro senza le parole. Tu hai iniziato a comporre e a esibirti negli anni Sessanta. Cosa è cambiato in questi anni nella tua musica? Quando ho iniziato mi esibivo sempre da solista, accompagnandomi con la tastiera. Intorno alla metà degli anni Sessanta studiavo musica classica e cantavo in una band di rock & roll, ma sapevo che volevo trovare il mio modo personale di usare la voce. Ho avuto una specie di rivelazione che la voce poteva essere uno strumento senza l’utilizzo di parole, che potevo allargare le possibilità della mia voce senza badare alle distinzioni di registri o alle differenze tra voce maschile e voce femminile, che ci potevano essere diverse modalità nel produrre suoni, che la voce è uno strumento molto molto antico, e che tutto questo mi

riportava alle mie origini famigliari. Ero sola in questo, ma ovunque c’era uno spirito di sperimentazione, si pensava che tutto era possibile. In tutti i campi artistici. Ci si incoraggiava l’un l’altro, e tutti erano pronti a supportare il rischio e i tentativi degli altri. L’idea era: “sbaglia pure, ma continua a provarci”. Adesso non sento più questo spirito. Una volta tu hai detto che Janis Joplin ti ha dato la forza di andare avanti con la tua ricerca. Dopo che ho iniziato a seguire la mia strada, ho avuto un anno molto duro, mi sembra che fosse il 1968: mi sentivo così depressa. Ascoltare Janis Joplin mi ha dato la forza per uscire fuori dalla mia depressione e continuare con il mio lavoro. Lei era una grandissima musicista, per il fraseggio e tutto il resto: veramente incredibile. E poi dava quell’idea di bellezza. A quel tempo, quello che facevo era ancora così grezzo: lei mi ha fatto capire che la bellezza include tutto e che potevo operare sul suono pensando alla bellezza. Ascoltando i tuoi lavori si percepisce sempre un’atmosfera che è fuori dal tempo o che è inserita in un tempo differente da quello comune. Quanto è importante elaborare un’idea di tempo differente? Io sono molto interessata alla condizione di assenza di tempo, alle ricorrenze che attraversano la storia e il tempo e che rappresentano le situazioni fondamentali degli esseri umani. La voce è lo strumento che collega tutto questo: è il più semplice, ed è stato il primo strumento della storia. Quindi lavorando con le voci mi piace cercare l’assenza di tempo, con la quale io posso essere nell’antichità o nel futuro, o nel mondo in cui viviamo adesso. Ti interessa qualche vocalist contemporaneo? So che Björk, ad esempio, ha cantato un tuo pezzo. Björk, per me, è come una figlia. Lei porta avanti in qualche modo il mio lavoro, con lo spirito del porsi domande, del correre rischi. Mi viene in mente Rebecca Moore, ma non riesco ad ascoltare quanto vorrei, sono sempre in giro per tour, quindi conosco poco di quello che sta succedendo adesso. Gianpaolo Chiriacò


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Ancora una bandierina da aggiungere alla nostra mappa delle etichette indipendenti italiane. Questo mese è il turno della Tafuzzy Records. Ne abbiamo parlato con Davide Brace. Perché Tafuzzy? Era un mio ridicolo soprannome che avevano coniato due mie care amiche storpiando ripetutamente “Davide”: alla tedesca “Taffite”, vezzeggiandolo “Taffituzzi” ed infine “Tafuzzi”. Noi abbiamo aggiunto la y alla fine che fa più international. E comunque no! Non ha niente a che fare col personaggio che si percuote gli zebedei. Si pronuncia tafuzzi e non tafazzi come molti amano fare…ma alla fine è lo stesso. Un po’ di storia, come nasce e come cresce, come si muove nell’intricato sottobosco indipendente la Tafuzzy? In principio, circa 2002, furono i Cosmetic la prima band del circondario (Romagna) per la quale ho provato veramente qualcosa. Il loro cantante Bart era un mio caro amico dei tempi del liceo. Lompa, Alice ed io avevamo appena dato vita al primo abbozzo di quello che ora sono i Mr.Brace. Bart doveva realizzare per un esame universitario di informatica un sito a piacere e si inventò quello della “Tafuzzy Inc.” associazione che si proponeva di organizzare a domicilio in tutta Italia eventi che unissero il sound delle band rivierascheromagnole alla somministrazione dei prodotti tipici della nostra gastronomia (la pìda se’l parsòt al pìs un po’ ma tòt). A quel punto il sito era on line e le band esistevano veramente, di conseguenza siamo partiti un po’ per gioco e un po’ no con questa follia dell’etichetta indipendente. Quanta passione e quanta incoscienza ci vogliono per intraprendere questa crociata in difesa dell’altra musica? Con la passione ci si nasce e ne si è succubi, non è che si possa fare molto altro. Della beata incoscienza inizialmente ne eravamo incoscienti per cui è difficile quantificarla. Risulta però effettivamente molto più difficile andare avanti a mano a mano che cresce la coscienza: quasi nessuno compra più dischi, il paradiso discografico non esiste neanche altrove ma sicuramente l’essere in Italia non aiuta ancora molto. C’è da rimboccarsi le maniche, scegliersi buoni maestri che

comunque a guardar bene non mancano e continuare a fare la propria cosa meglio che si può affinché il fare dischi e concerti possa diventare prima o poi un’attività sostenibile, economicamente parlando in primis, che di guadagnarci qualcosa ancora non si è neanche nelle condizioni di ipotizzarlo. Un catalogo che non si fa fatica a definire “strano” ce ne parli? Come direbbe il nostro caro amico Marino Josè Malagnino di Produzioni Pezzente: “A me sembra tutto così Pop! Com’è che non si vende niente?”. Non definirei perciò strano il nostro catalogo, esistono realtà ben più “strane” tra gli artisti italiani e (per fortuna)! Semmai ci piace un certo approccio alla materia: quel che di casalingo che avvicina chi suona a chi ascolta e una certa cura e attenzione nello scrivere in italiano cose che non risultino imbarazzanti. Per il resto nel nostro catalogo si spazia dal teatrino folk’n’roll all’elettronica casalinga, dall’amore per certa tecnologia scrausa al cantautorato più sghembo, dal noise artigianale all’electro pop, il tutto con un certo amore per la forma canzone e senza nessun problema se a qualcuno piace quel che facciamo. Che rapporto avete con gli artisti pubblicati, cosa fate per loro? Gira che ti rigira tutti i nostri progetti, se non sbaglio attualmente sono sette ma si prevede di espandersi presto, sono in un qualche modo concatenati e coinvolgono un giro di più o meno quindici persone con cui condividiamo risorse quali studi di registrazione e persone capaci di metterci le mani, un valente entourage di grafici e fotografi per copertine, merchandise e quant’altro, un responsabile del sito, addetti alla comunicazione e alla promozione, chi continua ad ascoltare e selezionare i demo che ci arrivano, chi mantiene buoni i rapporti con gli enti statali e altre associazioni per l’organizzazione degli eventi, un grande amico (Giacomo Spazio) editore che si occupa dei diritti e dell’eventuale distribuzione (anche se per lo più continuiamo ad essere un cd-r label che si autodistribuisce). Non si fraintenda, tutto questo veramente ancora molto fatto in casa e a gratis ma sembra che applicandosi stiamo diventando bravini. Domanda retorica, è possibile vivere di

musica in Italia? Come sopravvive la Tafuzzy? Forse è possibile, dipende però ovviamente da cosa intendi per “vivere”. Qualcuno che merita tutta la nostra stima ce la fa anche senza scendere a quei temuti e denigrati “compromessi” ma si devono fare scelte di vita coerenti e conseguenti. Diciamo che noi attualmente ci impegnamo per non rimetterci con le spese e se ci impegnamo vuol dire che ancora il rischio c’è. Sopravviveremo? Speriamo! Ogni anno in un certo qual modo vi festeggiate, ci parli del Tafuzzy day? Il Tafuzzy Day è il festival che organizziamo ogni anno a fine agosto a Riccione (quest’anno sarà venerdì 24 e sabato 25 Agosto presso il Castello degli Agolanti). L’evento viene inteso per l’appunto come una festa per il lavoro che abbiamo svolto durante l’anno ed un occasione per rendere partecipe chi vuole festeggiare con noi. Durante le serate perciò suonano alcuni gruppi della Tafuzzy insieme ad altri artisti che stimiamo. In occasione del festival presentiamo una compilation che raccoglie brani inediti dei gruppi Tafuzzy. Dove si possono trovare i vostri dischi? Vengono venduti ovviamente ai concerti ed è possibile anche ascoltarne degli estratti ed eventualmente acquistarli on line sul nostro sito www.tafuzzy.com. Un disco per l’estate, uno per il cuscino, uno per la vita. Ci consigli tre album? Non sono affatto bravo in queste cose, né rappresentativo dei gusti degli altri tafuzzers ma visto che debbo risponderne personalmente, poichè amo troppi dischi diversi e di diverse epoche, decido di cavarmela consigliando le ultime cose che sto ascoltando orora: per l’estate va bene qualsiasi cosa troviate di Jonathan Richman and the Modern Lovers, per il cuscino il disco di Nathan Fake Drowning in a sea of love e sogni d’oro, per la vita (uhuuu!) trovo immensamente affascinante da un po’ di tempo a questa parte l’opera di Arthur Russel, in particolare consiglierei Another Thought. Ora sono nei casini perché ho il cervello sovraffollato di decine di altri dischi che si spingono e mi insultano sdegnati per l’ingratitudine dimostratagli ma dirò a tutti loro che è colpa tua e comunque si è fatta l’ora dei ringraziamenti e dei saluti. Osvaldo Piliego


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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale

la letteratura secondo coolcub

La banda delle casse da morto Nick Laird Minimum Fax

Nick Laird è nato 32 anni fa nell’Irlanda del Nord. Ha studiato in Inghilterra, dove ha intrapreso la carriera promettente di avvocato, ma dopo il matrimonio con Zadie Smith, autrice-fenomeno di Denti bianchi e Della bellezza, ha avvertito l’urgenza misteriosa di rivolgere il proprio talento verso altre risorse, pur mantenendo come punto fermo l’interesse verso tutto ciò che è legge. Indagando il rapporto sibillino tra l’uomo e la giustizia, e analizzando la relazione stravagante che viene a stabilirsi tra la colpa effettiva, presunta, o falsa e la conseguenza della pena, ha scoperto così la sua tensione verso il narrare, e nello specifico il narrare di giurisprudenza. Trasferitosi a Roma per scelta - perché città capace di tradurre l’intenzione di scrittura in mestiere - ha dato corpo al sentimento dello scrivere con questo suo esordio in narrativa, pluripremiato in patria e rintracciato e sostenuto dall’attenta casa editrice capitolina. Il protagonista di questa opera prima è a perfetta immagine e somiglianza dello stesso autore. Danny ,

infatti, è un giovane avvocato specializzato in arbitrati internazionali,e lavora presso un prestigioso studio legale londinese che gli garantisce una rassicurante esistenza stereotipata, con casa elegante, stipendio notevole, vita sociale raffinata. Arrivato nella Londra delle sicurezze esistenziali direttamente dall’Ulster delle incertezze croniche, Danny intrattiene con la sua terra d’origine un rapporto indifferente, fatto di memorie fastidiose e turbolenze mal gestite, buttate – così crede - ormai alle spalle. Evitare l’inevitabile, però, non fa altro che annullare le distanze, e proprio dalla rifiutata provincia nordirlandese giunge d’improvviso l’amico d’infanzia Geordie, piccolo spacciatore dedito anche alla truffa, che stavolta ha ingannato gente difficile e molto pericolosa, legata al terrorismo unionista. Cinque giorni di frenesia totale attendono i due compagni ritrovati, tra dossier ingarbugliati sulle vicende passate dell’Ira e studi improbabili sullo stato di salute di un’azienda da rilevare, e intanto la birra

scorre a fiumi, e così le donne, e così l’ironia. L’indagine rivolta verso cose e situazioni – per quanto briosa e d’azione - diventa subito un esame dell’anima, e al processo delle intenzioni si incontrano e si scontrano le due facce di una medaglia comune: Danny ha scelto di andar via dall’Irlanda, di studiare nell’Inghilterra “amica-nemica”, di diventare ricco e importante nella Londra che troppo facilmente spiana la strada ai figli dei Celti; Geordie invece l’Irlanda ha voluto non tradirla, rifiutando scelte facili e opportuniste, e orientandosi verso quegli imbrogli che soli consentono ad una terra maltrattata ed al suo popolo di esistere e resistere. Romanzo sul senso della fedeltà a dei valori, La banda delle casse da morto riporta alla ribalta un immane problema politico da tempo messo da parte, ma non certo risolto. Lo fa con la struttura del noir divertente, e con una scrittura spiazzante e veloce. Rendendo magistralmente l’indissolubile legame tra l’intimità di una vita e le grandi questioni sociali. Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello


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La mania per l’alfabeto Marco Candida Sironi

Al centro del romanzo d’esordio di Marco Candida, “La mania per l’alfabeto”, edito da Sironi, c’è un fantasma, che tutto ordina e muove, che determina le azioni e scandisce le relazioni tra i personaggi, s’insinua nello spazio e nel tempo della storia, invade ogni singola pagina, macina l’immaginario, lo polverizza, nel suo essere onnipresente. Il fantasma altro non è che il libro che Michele, protagonista del romanzo, sta scrivendo: “Il problema di Michele è che deve scrivere il libro e contro il libro Savemi sa che può fare ben poco”. Savemi è la ragazza di Michele, è la prima vittima dell’atteggiamento di Michele, del suo essere schiavo del demone della scrittura, del suo pensare continuamente alle idee da inserire nel suo libro, a come renderle linguaggio, a come farne scrittura, a come disporlo per creare un mondo possibile quanto più coerente e coeso: “Del libro vedo soltanto tutti i possibili libri che potrebbe essere, vedo i capitoli, i paragrafi, le preposizioni, persino le singole parole da utilizzare… ma ancora non riesco a vederlo tutto intero davanti a me… l’acqua non ha ancora smesso di bollire”. Michele altro non è che un prolungamento della sua stessa tastiera, la parte di un tutto dominato da post-it, appunti, racconti abbozzati, racconti finiti, esercizi necessari per affinare il suo rapporto con la parola scritta. Michele è un personaggio senza corpo. È fatto solo da una mente che produce idee, da idee che si trasformano in linguaggio, da un linguaggio che diviene scrittura. Michele non ha gambe, non ha mani, non ha naso, non ha bocca. O almeno la sua anatomia non interessa ai fini della storia. Perché ciò che interessa è la lotta malata del suo demone (la scrittura) contro il fantasma (il libro): “Adesso che ci pensa, seduta al tavolino 14, osservando la copertina blu del quaderno di Michele, Savemi non può che rappresentarsi Michele attraverso i suoi racconti e i suoi post-it, perché sono questi gli oggetti che riempiono tutto il suo spazio mentale, ma anche fisico”. Questo atteggiamento di Michele, questo suo muoversi come mutilato nel mondo reale, questo sua avere i piedi sospesi, questo suo galleggiare nel mare del linguaggio, avrà ripercussioni nella sua quotidianità. È inevitabile. E non solo Savemi andrà via, ma perderà il suo lavoro e avrà grossi problemi con la sua famiglia. “La mania per l’alfabeto”, però, non racconta la storia dell’autodistruzione di un uomo malato di scrittura, ma la sua guarigione. Rimasto solo, circondato dai suoi post-it, dal rumore vorticoso della colonnina del suo pc e dalle montagne di libri, Michele prende coscienza del suo stato: “Michele non può stare chiuso in stanza e non uscire più. Deve uscire. Non può essere che il suo universo sia solo una stanza o, al limite, una serie di stanze”. O ancora: “La scrittura non ha allargato, ma amputato il suo mondo, il mondo del fantasma. Come Savemi lo chiama, e il fantasma esce da tutti i cassetti, si allunga per tutta la casa, si è insidiato anche nell’ultimo cassetto della scrivania del suo ufficio: è il fantasma che gli ha fatto perdere il lavoro”. La salvezza di Michele avviene nel momento in cui capisce che il fantasma va combattuto, non ucciso, ma ammaestrato, fatto rientrare nei suo cassetti, tra i file del suo pc. In questo modo riuscirà a riappropriarsi della sua vita, dei suoi affetti, del suo lavoro e, persino, riuscirà a scrivere con continuità il suo libro. Un esordio atteso, originale e maturo che ci consegna un autore da seguire con attenzione. Rossano Astremo

La prigione John King Guanda

La prigione delle Sette Torri è il luogo del raccapriccio e del ribrezzo. Contenitore orrido di uomini brutali e violenti, tutto al suo interno si consuma per bestemmia e per infamia. La abitano anche i fantasmi della coscienza disumana, che quando risvegliano le pene e i delitti per farne paranoia ipnotica, sanno essere inquisitori ben più temibili dei giudici in carne e sermoni. Qui vengono escluse senza possibilità le aspettative di una qualunque lontana realtà, accogliendo impietosamente solo l’ansia di un terrore quotidiano. Qui vengono reclusi anche i sogni, le chimere, le vie di fuga, perché pensiero non può fluire nelle menti di colpevoli. Qui vengono inclusi anche Jimmy e la sua colpa enigmatica, dopo aver vagato senza sosta - e senza un perché - per l’America, l’India e l’Europa del Sud. Iniziano così altri viaggi non voluti,

che hanno per mappe le identità distorte di personaggi dai capricci volgari e dalle voglie irriguardose. Tra le sbarre della mostruosità più squallida, non manca proprio nessuno: Gesù, Elvis, il Macellaio, il Venditore di Gelati, i Secondini Anonimi, e lo stesso Jimmy, ridotto a tremante aguzzino di se stesso e delle sue colpe inconoscibili. Ne nasce una storia in forma di allucinazione permanente, dal linguaggio energico e mai gentile, che pure diventa in più di un’occasione poesia da strada e lirica del degrado. John King, londinese di nascita e viaggiatore instancabile, specializzato in storie balorde ad alta tensione sociale, denuncia senza limiti la nefandezza di una delle tante costruzioni civili ispirate dalla nostro viver comune: il carcere è così raccontato in tutta la sua incomprensibilità di luogo contenitore ed aggregatore di vissuti perversi, da cui fa fatica a venir fuori una labile ipotesi di riscatto, figuriamoci una parvenza di sopravvivenza dignitosa che possa sfociare in una libertà migliore. Resta

l’isolamento senza senso dei crimini e degli squallori, e l’emarginazione imponente di una fetta di umanità sbagliata, fastidio e prurito per la fetta restante di umanità corretta. “Un uomo gli insulti li regge solo fino a un certo punto e alla fine riapro gli occhi, il maniaco dei gelati mi manda un bacio bavoso e si sfrega le palle, spingendo i fianchi avanti e indietro mentre geme t’inculo per bene. Appoggiandomi alla parete scivolo fino a terra e resto seduto in silenzio, come gli altri sei detenuti, tutti a capo chino, il corpo rannicchiato, sepolti vivi sotto la custodia della polizia.” Come uscire rinnovati da un’esclusione così organizzata e più criminale del crimine che raccoglie? John King non ci fornisce risposte, ma solo la resa lucida e puntuale della degradazione di un luogo, deputato a contenere il male, e paradossalmente a guarirlo. Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello

Días aún más extraños Ray Loriga El Aleph

Ray Loriga è nato a Madrid alla fine degli anni sessanta e vive a New York con moglie e figli. Ama la letteratura, soprattutto Carver, Salinger, Beckett e la musica, soprattutto Bowie, Dylan, Jagger. Il suo primo libro Lo peor de todo era scritto in prima persona e una profonda solitudine era ciò che caratterizzava il personaggio principale. Solitudine, ricerca e speranza di un mondo migliore, hanno continuato a caratterizzare i personaggi di Loriga, che oltre a essere scrittore è diventato sceneggiatore collaborando a copioni di pellicole come Carne tremula (Pedro Almodovar) e El séptimo día (Carlos Saura) ispirato al massacro di Puerto Hurraco. Loriga scrittore, giornalista, regista e sceneggiatore, pubblica adesso Días aún más extraños, che prende il titolo dal precedente Días extraños ed è una raccolta di articoli pubblicati sul quotidiano El País a cui si aggiungono due lunghi racconti. Ancora società, ancora riflessioni, ancora introspezione in un lavoro dal linguaggio cinematografico e dalla sensibilità poetica di chi con lucidità osserva il mondo che ha di fronte ma non smette di guardare le stelle e sognare. Valentina Cataldo


Coolibrì Cosmofobia

Lucia Etxebarría Destino

Lavapiés è un quartiere multietnico e multicolore. È un quartiere dove incontri persone venute da lontano, incrociando origini e vite, ricordi e dolori. I graffiti colorati sui muri di Lavapiés ci parlano di sofferenza e ingiustizia. Lucia Etxebarría ha deciso di ambientare in questo barrio della sua bella Madrid il nuovo romanzo, Cosmofobia, rubando dalla gente per strada volti, racconti, linguaggi. Ritratti che danno voce all’immigrazione e alla difficoltà, alla clandestinità, al lavoro, alla fuga. Nelle sue opere la Etxebarría ha parlato di storie di vita, di lavoro, di donne in bilico, di maternità, di droga, di amicizie, ha scelto sentimenti forti, ha ironizzato e riso sulle sofferenze dell’amore, ha descritto la realtà a sua maniera, lucida, disincantata, diretta. Ha vinto numerosi premi letterari, è capitato sia stata chiamata in tribunale (l’ultima volta per il suo Ya no sufro por amor, accusata di plagio da uno psicologo spagnolo), ha un blog seguitissimo, curatissimo, attentissimo all’attualità, nonché scritto allo stesso modo dei suoi romanzi, è fortemente ammirata e fortemente criticata dal pubblico. Leggerla vale sempre la pena. Valentina Cataldo

Barry Miles Il Beat Hotel Guanda

Il Beat Hotel non esiste più. Ora al numero 9 di rue Git-le-Coeur di Parigi è situato lo sciccoso RelaisHotel du Vieux Paris. Il Beat Hotel di chic aveva ben poco. Era gestito da un’anziana signora, Madame Rachou, ed era famoso per la presenza di topi che sgattaiolavano da un corridoio all’altro. Il piccolo albergo parigino assunse questo nome dopo l’arrivo, nel 1957, di Gregory Corso, Allen Ginsber

2329 e Peter Orlovsky. In quel periodo Ginsberg aveva da poco dato alle stampe Urlo, con il seguente ritiro del libro dal mercato, accusato di oscenità, e il processo, che lo vide vincente, seguito dallo stesso autore da Parigi. Kerouac, che fu l’unico grande esponente della Beat Generation, a non mettere piede in rue Git-le-Coeur, viveva, dopo anni di rifiuti editoriali, gli effetti del successo di critica e pubblico di Sulla strada, uscito il 5 settembre dello stesso anno. Barry Miles, in Il Beat Hotel, libro da poco pubblicato da Guanda, ricostruisce gli anni parigini della Beat Generation, e lo fa attraverso un libro che, più che soffermarsi sulla forza letteraria di quel pugno di scrittori che diede un forte scossone alla cultura del Novecento, evidenzia curiosità e aneddoti. Burroughs arrivò al Beat Hotel nel 1958, poco dopo Ginsberg abbandonò l’albergo e il suo posto di “confidente” dell’uomo invisibile venne preso dall’artista Brion Gysin. Burroughs e Gysin furono gli ultimi ad abbandonare l’albergo, quando questo chiuse agli inizi del 1963. Parlavo di aneddoti, in precedenza. I beat, nei loro anni parigini, vollero incontrare grandi esponenti della cultura francese e molti li incontrarono, da Michaux a Céline, da Breton a Duchamp. E fu proprio durante una di queste feste a base di alcol e droga che Corso, pensando di compiere un atto estremamente dadaista, tagliò la cravatta di un esterrefatto Duchamp. Gli anni parigini, però, furono importanti soprattutto dal punto di vista creativo. Al Beat Hotel Allen Ginsberg scrisse le sue poesie più famose, escluso Urlo, Corso compose Bomb e The Happy Birthday of Death, Brion Gysin inventò la teoria del cut-up, ovvero la letteratura nata dal taglio di altra letteratura, William Burroughs terminò Pasto nudo e la trilogia La morbida macchina, Il biglietto che è esploso e Nova Express, lì furono ideati e organizzati, grazie anche alla perizia tecnica di Ian Sommerville, i primi spettacoli di luci e proiezioni corporee multimediali, gli antesignani degli spettacoli rock con luci psichedeliche, lì fu costruita la Dreamachine, la macchina dei sogni che creava allucinazioni visive, lì venne girato, regia di Antony Balch, il film sperimentale inglese The Cut-Ups. Tutto ciò contaminato con un uso assiduo di droghe, le più varie, tutte volte a far emergere zone nascoste della coscienza. Si può dire, senza ombra di dubbio, che gran parte della controcultura americana, che avrebbe dato vita da lì a poco al movimento hippy, prese forma all’interno del losco hotel gestito da un’ignara Madam Rachou. Rossano Astremo

Design del popolo Vladimir Archipov Isbn

La povertà aguzza l’ingegno. Si può sintetizzare con questa frase il contenuto di Design del popolo, bizzarro libro pubblicato da Isbn, frutto di un lavoro di ricerca atipico effettuato dall’artista Vladimir Archipov. Archipov ha girato per anni le città e le campagne russe alla ricerca di oggetti fai da te da inserire nella sua collezione. Ne è uscito fuori questo libro, che contiene 220 oggetti nati dalla necessità quotidiana, dal bisogno che stimola l’inventiva. Gli oggetti,

inoltre, forniscono un lucido ritratto dell’Urss e degli anni della Perestrojka, prima della venuta al potere di Putin. Ad ogni immagine dell’oggetto schedato si accompagna una sorta di testimonianza dell’autore o dei familiari dell’autore, i quali raccontano le ragioni e i contesti che hanno determinato la nascita di simili oggetti. Si va dalla mazza da hockey, costruita con legno di ciliegio e nastro isolante, al castello giocattolo, fatto di scatole, colla e tempera, dallo zerbino di tappi di birra alla vasca d’uccelli ottenuta dalla ruota di un trattore, dalla borsa termica, piena di polistirolo e gommapiuma, allo sturalavandini, creato con il piede di uno sgabello e un pallone tagliato. E l’elenco è davvero sterminato. Ha perfettamente ragione il critico d’arte Diogot quando definisce questi oggetti “frammenti della civiltà sommersa del socialismo sovietico, esclusa dalle logiche di mercato”. La Russia di oggi, invece, è immersa nel mondo del consumismo globale, della replicablità delle merci d’acquistare. Chissà se cì sono ancora netturbini che creano il proprio badile unendo un vecchio cartello stradale con un manico di scopa. Le frange di irriducibili, non dimentichiamolo, sono dure a morire. Rossano Astremo

Ancora un anno Salvatore Toma Capone Editore

Sono passati vent’anni dalla morte di Salvatore Toma, poeta magliese scomparso tragicamente all’età di 36 anni, nel 1987. Toma ha ottenuta una discreta celebrità postuma, grazie all’interessamento di Maria Corti, che curò il “Canzoniere della morte”, una sorta di best of, pubblicato da Einaudi nel 1999. Molti dei testi più validi presenti nella raccolta curata dalla Corti appartengono ad un volume, “Ancora un anno”, uscito una prima volta nel 1981, edito da Capone, ed ora ripubblicato dallo stesso editore, in occasione del ventennale della morte del poeta. Presenti in questo volume gli elementi topici della poetica di Toma, l’esaltazione della natura, contro le immani catastrofi dell’umanità, la continua lotta tra reale e sogno e il dialogo ossessivo tra vita e morte, dove quest’ultima non rappresenta la naturale conclusione della vita, ma la sua esaltazione, “una sorta di energia reattiva che fa coagulare e filtrare la vita nell’alambicco dell’esistenza”, come scritto da Donato Valli nell’introduzione al testo: “a creare progettare ed approvare / la propria morte ci vuol coraggio! / ci vuole


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30 il tempo / che a voi fa paura. / Farsi fuori è un modo di vivere / finalmente a modo proprio / a modo vero”. Toma, in vita, non ebbe rapporti semplici con l’editoria che contava. Tutte le sue raccolte, infatti, sono state pubblicate da piccoli editori. Scrive Maurizio Nocera, nella pagina di presentazione di questa nuova edizione di “Ancora un anno”: “La silloge “Ancora un anno” fu per Toma uno dei suoi libri dal percorso più difficile. Non si trovava modo di farlo pubblicare. Venne rifiutato praticamente da tutti gli editori ai quali Totò lo inviò. Per di più ci fu qualcuno, come ad esempio Maurizio Cucchi, all’epoca responsabile della collana poetica della Mondatori che non solo lo osteggiò ma trovò modo di rispondere al poeta in modo alquanto sgarbato”. Toma è stato un poeta discontinuo. Alternava poesie di grande valore immaginifico, pure perle liriche, a testi poco efficaci. Siamo certi che il rifiuto di Cucchi sia legato a logiche estetiche e non “territoriali”. Ciò che è vero è che Maria Corti dovette far passare per

suicida per riuscire a pubblicarlo postumo da Einaudi. Venne, invece, stroncato da una cirrosi epatica. Rossano Astremo

La Lunga

Roberto Perrone Garzanti

La lunga è, per i giornalisti, il turno notturno di lavoro in redazione. Ed è anche il titolo del secondo romanzo di Roberto Perrone, da 25 anni cronista sportivo del Corriere della sera. Il libro è (forse) una sorta di autobiografia, dato che il protagonista lavora da decenni nella redazione sportiva di un quotidiano nazionale di Milano e proviene dalla Liguria, proprio come l’autore. Giacinto Mortola, questo il suo nome, è un uomo mite e felice, sposato e con due figli grandi, che evita il conflitto perché non vuole essere afflitto dai sensi di colpa. Nel suo giornale non ha fatto carriera, è da sempre un redattore ordinario. Ma a lui è sempre andato bene così. E per

Le Orme: Il mito, la storia, la leggenda Oronzo Balzano Bastogi Editore

Grave pecca quella della saggistica musicale italiana, cioè non aver dedicato una coerente e scientifica retrospettiva ad uno dei gruppi più rappresentativi del rock made in Italy. Finalmente il vuoto è stato colmato da Oronzo Balzano, insegnate, giornalista musicale ed ex direttore della fanzine ufficiale delle Orme. Il libro in questione rivela motivi, arcani e storici, lungo quaranta anni di eventi. Passando dal primo Ad Gloriam, manifesto beat-psichedelico del nostro paese, a Collage monumento del progressive nostrano. Felona e Sorona, primo concept album italiano. La svolta di Florian, opera emancipata dagli archetipi del rock, in cui le Orme si proposero come quartetto da camera, imbracciando strumenti classici. Fino ai tentativi sanremesi, la parentesi semplicistica di Venerdì e la fase degli screzi artistici; quindi, al ritorno progressivo della trilogia Il Fiume, Elementi e L’Infinito. Insomma una retrospettiva completa in tutti gli aspetti, e che rileva su tutto la partecipazione emotiva dell’autore nei confronti della band. Nicola Pace

questo motivo è odiato dal capo, il responsabile dello sport, un arrivista che non sopporta chi non ha ambizioni. Abbiamo quindi i due antagonisti: l’eroe mite e lo stronzo. E poi c’è Simone Perasso, amico di Mortola, un ex calciatore di serie C, morto in un incidente stradale proprio la notte in cui l’eroe è di lunga. Da quella notte parte il racconto di trent’anni di vita e di giornalismo. Da sempre pieno di stronzi, gente per bene, colpi di culo e storie da raccontare. Ludovico Fontana

Il rimedio perfetto Lucrezia Lerro Bompiani

Con Il rimedio perfetto, Lucrezia Lerro poetessa trentenne alla sua seconda prova narrativa - ci porta in una storia dove disagio ed inquietudine esistenziale coincidono con un tessuto sociale degradato, quasi primitivo e a tratti surreale. Se non fosse per il nome delle cose, intorno: il camioncino con la scritta Algida, la felpa della Parmalat, la Singer della madre, cadremmo in un tempo straniato, fiabesco. Tuttavia le conseguenze significanti che fanno la fiaba permangono e si addensano nel racconto. È come Cenerentola, la protagonista, messa al lato dalla vita! “Un’Alice, senza nessuna meraviglia intorno” se non lo squallore di una Campania, densa di pioggia e d’umido, di pidocchi e di cimici, ritratta dopo il terremoto del 1980. Solo i dolci la consolano. Se li procura, con astuzia e determinazione rubando e ingannando i commercianti, nascondendosi in pertugi improbabili, costruendosi un mondo (quasi) parallelo di incanti impossibili che l’aiutano a resistere. “Dovevo raggiungere presto il


Coolibrì mio nascondiglio. Solo lì mi sentivo al sicuro, solo lì, sotto le scale. …Rubavo e andavo a nascondermi, poi mi torturavo i capelli per ore senza sapere perché.” Ma bisognerà pur fuggire, un giorno, per cercar fortuna e riscatto, crescere per essere capaci di trovare rimedio. Per fare la vita, Vita! Alleva gli occhi al bene Alice in un ordinario anaffettivo, crudo e privo di pietas lei trova l’amore. L’amore, “il rimedio di tutto”. La costruzione della sua ‘fuga’ è un percorso di accoglimento e di comprensione del disagio degli altri. C’è la nonna-Strega, che violenta ed autoritaria porta avanti la famiglia. La madre, la Rossa la chiamavano, che cuce e tesse amori: tanti, segreti, tutti unici, raccontati dentro corsivi-lettere che attraversano il libro. Il padre considerato lo scemo del paese che “non sapeva cosa farsene del tempo” dice di sé: “Io non sono pazzo, sono soltanto malinconico”. Le sorelle che la ignorano, la escludono con cattiveria dalla loro vita e la maestra che la umilia in ogni modo. Una vita di resistenze, una vita di perdite nella perenne mancanza d’una quiete certa. Una vita che intreccia solitudini dove la “felicità è non pensare” e la vita si fa nella fuga. Staccarsi, andare, slegare i destini. Farsi forti è nella pena del crescere, trattenere il dolore “nel groviglio dei ricordi” per quel germoglio che prima o poi muterà destino e vita. Un libro crudo e crudele e insieme positivo, che incoraggia! Mauro Marino

Pierluigi Panza

Il digiuno dell’anima Bompiani

Lei è la “prima” anoressica di Milano, n e s s u n o riuscirà a dare un nome al suo male. Era la ragazza che non si era mai sentita amata come avrebbe voluto. Una madre ed una figlia abitano le pagine de “Il digiuno dell’anima”, nell’immobilità di un interno borghese. Un ‘decoro’ che sgomenta: tutto è in ordine, immutabile, puro, ‘santo’. La famiglia recinto, la famiglia che scorda l’essenziale emozionale rifugiandosi nelle regole, nelle consuetudini, nel vuoto che solo la malattia altera, trasgredendo ogni decenza, ogni possibile difesa. Una storia tragica ma anche per molti versi paradossale quando saggiamo l’ostinazione e la determinazione di chi sceglie di ‘affamarsi’. Abbiamo letto molte storie di anoressia. Racconti di donne che scrivono il loro calvario, questa volta è un uomo ad accompagnarci in quel labirinto di ossessioni. Pierluigi Panza ci racconta la storia di una adolescente - lo fa in prima persona, come in un diario - lasciandola per scelta senza nome. “Anche se naturalmente si tratta di

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L’ABISSO DI GIANLUCA MOROZZI Sabato 14 luglio la Notte Bianca di Melpignano ospita anche Gianluca Morozzi. Bolognese classe 1971, è uno dei più interessanti e apprezzati scrittori italiani. Negli ultimi anni la sua produzione è frenetica e coinvolge due case editrici Fernandel e Guanda. Con la prima Ha pubblicato il romanzo d’esordio Despero (2001), le raccolte Luglio, agosto, settembre nero (2002), Dieci cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte (2003) e Accecati dalla luce (2004). Nel 2006, insieme a Paolo Alberti ha scritto il romanzo calcistico Le avventure di zio Savoldi e, in collaborazione con il disegnatore Squaz, il suo primo fumetto, Pandemonio. Per l’editore Guanda ha pubblicato nel 2004 il romanzo Blackout, nel 2005 L’era del porco e nel 2006 L’Emilia o la dura legge della musica. Recentemente ha partecipato con un racconto a Mordi&Fuggi. Sedici racconti per evadere dalla Taranta della salentina Manni e ha dato alle stampe, sempre per Fernandel, L’abisso. Il protagonista dell’Abisso, nel suo tentativo di costruirsi una vita parallela a quella reale, sembra non voler mai “diventare grande”. Tutta la sua storia è un tentativo di rimandare le responsabilità e le scelte della vita adulta. È una scelta voluta? Gabriele è cresciuto convinto di essere un genio, uno destinato a cose grandi, a un destino meraviglioso. Per quello si tiene tutte le strade aperte: quando la cosa grande verrà a cercarlo, qualunque essa sia, dovrà trovarlo libero, svincolato da lavori, mogli, figli...C’è anche da dire che Gabriele, dopo l’incidente, ha una testa che viaggia su binari tutti suoi... Fino a che punto ti riconosci in Gabriele, il protagonista de L’abisso? Come con altri miei personaggi, tipo Kabra o Lajos, ci sono cose in cui mi riconosco e altre che mi sono estranee. La situazione familiare di Gabriele, il rapporto con la madre, le sue origini in un paesino di montagna, sono elementi a me estranei. La vicenda universitaria invece mi è un po’ più familiare. Sono stato iscritto per undici anni a giurisprudenza e non mi sono laureato... Anch’io come Gabriele, ai tempi delle medie, ho avuto una crescita improvvisa che mi ha trasformato in uno spilungone goffo e dinoccolato che i compagni di classe chiamavano Zombie. E anch’io una volta sono stato investito da un’auto durante una gita scolastica, a Mantova, in terza media. Qualche tempo fa ho presentato un libro nel terrazzo di un caffè all’aperto che si affacciava proprio sul punto in cui sono stato investito. Poi, be’, mi sa che anch’io sono cresciuto convinto di essere un genio destinato a qualcosa di speciale. Ho cominciato un po’ a dubitarne solo quando sono arrivato a ventinove anni, con ancora due esami alla laurea, senza un soldo e con tre miseri racconti pubblicati in dieci anni di tentativi... poi ci ho creduto di nuovo subito dopo. Sullo sfondo del tuo romanzo c’è ancora una volta Bologna. Questa scelta dipende solo dalla tua confidenza con la città oppure Bologna racchiude in sé delle caratteristiche che la rendono una perfetta “protagonista”? Bologna è una città estremamente duttile, e uno sfondo perfetto per le mie storie. Serve uno sfondo per una storia di band che provano ad emergere dalle cantine? Bologna è piena di band e di cantine! Una storia di movimenti studenteschi, di manifestazioni di piazza dopo il G8 o l’11 settembre? Non lo devo neanche dire. Una storia che si svolge nell’ascensore di un palazzo di periferia in una città deserta per l’estate? Basta andare in periferia, a Borgo Panigale... Questa storia in particolare, poi, ha come fulcro l’università ... e non poteva svolgersi che qui. Il finale è aperto. Prelude forse a un seguito? La vicenda di Gabriele, per quanto mi riguarda, termina qui. Questo romanzo è un po’ la chiusura di un ciclo, per me, l’esorcismo finale agli undici anni assurdi che ho passato a studiare codici e leggi senza motivo e senza voglia, e a tutte le storie che ho architettato in quegli anni passati a trascinarmi carico di libri tra le biblioteche e le sale studio notturne... una delle quali, appunto, era la vicenda de L’abisso. In compenso, oltre all’apparizione di un certo surreale personaggio che già era comparso e di nuovo comparirà (un edicolante pazzo sosia di Nicholas Cage, convinto di essere un supereroe) c’è una vicenda che a un certo punto si intreccia con quella di Gabriele in modo quasi incongruo... quella della ragazza intenzionata a dare la caccia al Corvo che ha ucciso la sua amica. Ecco, quella storia continuerà altrove. Decisamente. La scrittura ancora una volta è divertente, e in più di un’occasione riesce a strappare un sorriso anche davanti a situazioni critiche. È un tuo tentativo per sdrammatizzare o è di nuovo la testimonianza dell’incapacità del protagonista di prendere coscienza della propria situazione? Un po’ ho cercato di sdrammatizzare, non volevo che questo fosse un romanzo alla Blackout... anche se alcune scene, tipo quella con Scaglia, quella di notte in casa della madre o la corsa finale contro il tempo sono abbastanza ansiogene. Però c’è anche il fatto che Gabriele ha una testa stranissima, un cervello borderline, capace di intuizioni geniali ma anche di scivolate clamorose... sembra quasi che si renda conto solo a intermittenza della situazione in cui si è cacciato, e solo quando è realmente con le spalle al muro. (per l’intervista si ringrazia l’ufficio stampa Fernandel)


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una ricostruzione, ho conosciuto questa ragazza, l’ho frequentata per molti anni e ho avuto modo di accedere ai suoi diari, su questo ho costruito il romanzo” spiega Panza. L’autore non vuole rivelare se la ragazza cui si ispira la storia è ancora viva, la protagonista del romanzo muore dopo trent’anni di dolore nei pressi di Siena, la città di quella Santa Caterina per cui la ragazza ha una vera ossessione. Milano rimane il centro della vicenda, una Milano ai tempi completamente colta alla sprovvista dalla malattia: “La popolazione comune nemmeno sapeva esistesse l’anoressia. I giornali non ne parlavano. Casi conclamati non emergevano. Non esistevano ospedali specializzati. Era il dopoguerra e per i primi borghesi alfabetizzati su larga scala che uscivano dall’universo della povertà, era davvero difficile pensare che il ‘non mangiare’ fosse una malattia”. Ora, a quarant’anni di distanza dall’inizio della storia narrata ne “Il digiuno dell’anima”, le psicopatologie legate ai disturbi alimentari sono così diffuse ed estese che è facile riconoscerle. Ma non altrettanto facile curarle e avvicinarle, almeno secondo Panza: “Sono contrario ai messaggi incoraggianti dei sopravvissuti. Negli elementi giovanili e più deboli ha l’effetto contrario a quello che si vuole ottenere: induce a pensare che si possa passare attraverso l’inferno, uscirne vivi

e diventare protagonisti del mondo dei media. Inoltre i centri specializzati continuano ad essere pochissimi, privati e molto costosi anche se quelli di Milano sono tra i più avanzati. Inoltre sono gli stessi anoressici a non voler essere classificati: continuano, oggi come allora, a passare da gastroenterologia a psichiatria a neurologia. Il loro gioco fantastico, che è parte della malattia, consiste proprio nello sfuggire ad ogni classificazione”. Le dichiarazioni di Pierluigi Panza sono tratte da un’articolo di Stefania Vitelli apparso su “Il Giornale” (11.06.2007). Mauro Marino

100 dischi ideali per capire il rock Ezio Guaitamacchi Editori riuniti

Il rock migliora la vita. Con questa affermazione si apre 100 dischi ideali per capire il rock di Ezio Guaitamacchi pubblicato da editori riuniti. Cinque decenni in cento album raccontati minuziosamente. Quelli che ti aspetti ci sono tutti, i classici senza tempo di Dylan, Beatles, Rolling Stones. Ma poi c’è anche l’altro lato del rock, quello meno appariscente ma ugualmente e a volte addirittura più influente. Ci sono i The flying burrito bros country rock ancor prima dei più famosi

Eagles, gli impronunciabili Lynyrd skynyrd (nella foto) inventori della celeberrima Sweet home Alabama ma anche dischi che sono entrati nella rosa degli scelti per il loro impatto commerciale. Il libro si legge piacevolmente, approfondisce a dovere e può essere letto a balzi e mozzichi. Formato ad albo rinnovato e arricchito rispetto alla precedente edizione. Forse alla editori riuniti hanno capito che ai feticisti di dischi e copertine piacciono anche i bei libri. O.P.


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Da anni ormai i festival letterari si sono trasformati in vetrine tanto fastose quanto uniformi, che monopolizzano per giorni la vita della cittadina ospite, e fondano sul libro un ipermercato a cielo aperto, spalmato a volte lungo le vie caratteristiche, le piazze più o meno centrali, i palazzi di storica importanza, altre sedimentato in spazi appositi e a dir fantascientifici. Il ritorno commerciale di questo esibizionismo culturale è cosa risaputa, e detiene il suo gradevole potere sulle attività ricettive e non del luogo, ma anche e soprattutto sui colossi, spesso bancari, che finanziano e sostengono il progetto alla sua origine. Con il risultato che si viene a smarrire il proposito “di facciata” dell’evento, che fa emergere la sua apparente intenzione progettuale alla prima - e al massimo seconda - edizione, per poi piegare la diffusione della lettura, la divulgazione dei testi e la conoscenza degli autori alle regole asentimentali del mercato-spettacolo. Esiste però una resistenza - che si manifesta soprattutto con l’arrivo dell’estate che passa attraverso associazioni culturali e gruppi di animazione sociale, e pensa e realizza residenze bibliofile a onesta misura di lettore. Risponde così allo sconcio osceno del libro in fiera, e riporta chi scrive, chi legge e chi pubblica ad un rapporto più autentico e prezioso, a distanza interminabile dalle identità fabbricate dell’autore-personaggio, del lettore-consumatore, dell’editore- attore economico. Doveroso, dopo tale premessa, il suggerimento di incontro con alcune di queste realtà di contrasto, poche in verità, ma fermamente e dignitosamente differenti. Due, davvero di qualità, a pubblicazione avvenuta risultano già svolte, ma meritano lo stesso di essere menzionate. Dall’8 al 10 giugno, infatti, il collettivo cagliaritano Chourmo ha organizzato il Festival di Letterature Applicate Marina Cafè Noir, gioco letterario alla sua terza edizione, accolto dalla geografia popolare di un quartiere, che qui realizza e promuove reti di relazioni, animazioni, rielaborazioni, attorno alla creatività che consegue all’atto del leggere. In un intreccio festoso di talenti, suggestioni e contaminazioni, si riscopre e celebra la lettura condivisa, e il libro e la sua storia confessano il loro essere pieno strumento sociale. Quest’anno la manifestazione sarda è stata dedicata agli eroi, ai migranti, ai pirati, figure di intensa e pericolosa insinuazione, aprendo il confronto sul patrimonio comune di storie nere e di coraggio, che possono riportare la coscienza ad una fierezza antica, ad una necessaria militanza. Dal 9 giugno al 1 luglio, continuando, l’associazione culturale Lupus in fabula di Palestrina ( Roma) ha curato il Premio Albatros per la Letteratura da Viaggio, “kermesse di incontri, spettacoli e convegni sui temi e i luoghi del viaggiare”, accolti, vissuti ed osservati dalla prospettiva particolare del lettore in movimento. Grande attenzione all’opera del reporter-scrittore recentemente scomparso Kapuscinski, con incontri curati da giovani e studenti sui modi del viaggio di denuncia, che richiede e conduce ad una convivenza stretta con la questione sociale del momento. Evento centrale del Premio la presentazione di Manituana di Wu Ming, seguita dalla lettura scenica 54 a cura dello stesso collettivo bolognese con Yo Yo Mundi e l’attore teatrale Fabrizio Pagella. All’interno della manifestazione musicale toscana Italia Wave Love Festival (ex Arezzo Wave) in programma dal 17 al 22 luglio a Sesto Fiorentino, segnalo il Word Stage, una dimensione letteraria di quattro giorni che potrebbe costituire senza imbarazzo una realtà a sé, indipendente dal contesto che la ospita come taglio parallelo. Anche in questo caso, attesissima il 18 la presentazione di Manituana, seguita però da un’anteprima assoluta: Pontiac, lettura-concerto curato da Wu Ming 2 (Giovanni Cattabriga), che racconta la sollevazione indiana del 1763 contro la Corona Britannica. Il 19, altro reading in musica: Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro, di Enrico Brizzi e Numero6, che nell’incontro tra il giovane autore e la band fenomeno dell’indie rock di casa nostra narra il suggestivo pellegrinaggio lungo la via Francigena,

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percorsa dai viandanti medievali, e attraversata di recente dallo stesso Brizzi. Non solo nuove forme letterarie al Word Stage, ma anche tanta tradizione: un’intera giornata, quella del 19 luglio, sarà infatti dedicata alla rivalutazione ed alla valorizzazione dell’ottava rima, con un laboratorio di lettura e studio delle forme originarie, e di recupero dalle tecniche di improvvisazione lirica, che evolveranno in un passaggio affascinante tra l’atto del leggere e la manifestazione vocale cantata, aperto a chiunque voglia cimentarsi con la poesia in ottava e i suoi incantevoli contrasti. Tutti i giorni , inoltre, presso lo Speak Corner qualsiasi autore italiano potrà presentare al pubblico la sua opera, rigorosamente in soli 20 minuti, curando in modo autonomo lo spazio di promozione. Nella giornata conclusiva del Festival, infine, dal mattino fino al tardo pomeriggio lettura collettiva de Il giovane Holden: chi lo desidera potrà leggere per cinque minuti un brano del celebre romanzo di Salinger, passandosi il testimone con gli altri presenti, in una ideale staffetta a voce alta. Dal 31 agosto al 2 settembre ad Anghiari in provincia di Arezzo si svolge invece la seconda edizione di Città e Paesi in Racconto – Narratori per Diletto, a cura della Libera Università dell’Autobiografia. Da tempo, e grazie all’instancabile rianimatore del ricordo Duccio Demetrio, il piccolo centro toscano investe sulla memoria dei territori, ricercando e rintracciando luoghi e uomini in permanente esercizio rievocativo, che traducano in scrittura la testimonianza della propria realtà locale, e in libro la tensione verso la necessità della divulgazione. “La manifestazione sarà dunque caratterizzata e centrata su testi autobiografici pubblicati dalla piccola e piccolissima editoria, spesso supportata dalle istituzioni locali, con lo scopo di valorizzare e coinvolgere i territori e i paesi che emergono dai testi e dagli autori presentati.” Teatro antico di tutti gli incontri, lo splendore del borgo medievale. Per concludere, il Collettivo Libertario di Firenze riporta l’attenzione sul canale dell’editoria, definendolo però nella specificità degli studi anarchici. Dal 7 al 9 settembre il capoluogo toscano sarà infatti spazio d’adozione per la Vetrina dell’Editoria Anarchica e Libertaria, che consentirà al pubblico già legato a questi temi - ma anche e soprattutto a quello più curioso e smaliziato - di stabilire un contatto con l’enorme produzione in ambito di ricerca e narrativa sociale, maltrattata dalla distribuzione ordinaria, ma custodita con cura speciale da chi ne sostiene le idee ardite eppure rigorose, e i gravami economici non indifferenti. Termina qui questo vagabondaggio breve tra le possibilità “oltre Mantova” e il suo Festival Letteratura settembrino. Occasioni – quelle qui raccolte - di relazione profonda e di valore con la lettura intesa come atto politico, nonché contesti ed insieme pretesti per vigilare sul proprio essere- e sul poter continuare ad essere- lettore autonomo e consapevole. Stefania Ricchiuto- Il Passo del Cammello


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Cart’armata edizioni è un nome militante, che richiama una scrittura sempre all’erta ed agguerrita. Nasce a Milano nel 1994 dalla passione – e dalla cocciutaggine - di una combriccola di giornalisti impegnati nel sociale, che prima ha dato vita ad un giornale, e poi ha incominciato a pubblicare libri coraggiosi e spesso impopolari. La vostra storia nasce con Terre di mezzo, il giornale di strada dedicato ai temi del disagio sociale, venduto da persone in difficoltà. Proporre per marciapiedi, angoli e stazioni un prodotto editoriale dai contenuti importanti non deve essere stato facile. Qual è stata l’accoglienza iniziale della città di Milano verso la vostra idea? In realtà Terre di mezzo era stato presentato in conferenza stampa in contemporanea a Roma e a Milano, e la vendita aveva avuto inizio non solo in queste due città, ma anche a Trieste, Genova ed altri centri importanti. L’accoglienza dovunque è stata fin da subito molto buona, e per anni la vendita per strada ha potuto contare anche su migliaia di copie vendute. Il risultato è stato ed è spesso legato alle condizioni del tempo: se piove o fa freddo si vende di meno. Ma l’attenzione della strada verso le nostre proposte rimane anche oggi piuttosto alta. Affidare la vendita per strada esclusivamente a persone immigrate può portare a volte allo sgradevole connubio “migrante-lavoro umile”. Avete mai avuto dei dubbi su questa scelta? Mai, anche perché non è stata una scelta premeditata. Devo premettere che Terre di mezzo è nato ispirandosi ad altre esperienze, come quella del The big issue, distribuito in Inghilterra e Scozia attraverso una rete di venditori di strada. Quando abbiamo realizzato il giornale, ci siamo posti il problema di come rintracciare possibili venditori per la creazione di una rete simile. Abbiamo inserito un annuncio di offerta lavoro, e per caso hanno risposto quasi esclusivamente persone immigrate, che non sono state “cercate”, quindi, ma “trovate”. Dopo, non ci siamo orientati verso la ricerca di venditori italiani solo per non sottrarre lavoratori all’altro giornale di strada in vendita a Milano, “Scarp de’ tenis”, voce dei senza fissa dimora. Devo aggiungere, in ultimo, che in paesi come il Senegal la vendita dei giornali per la strada è considerato un lavoro ordinario, assolutamente dignitoso, e non saltuario o “di emergenza” come qui da noi. Oggi potete contare su uno spazio discreto ma concreto nelle librerie. Eppure il vostro tratto distintivo rimane la vendita per la strada, non solo del giornale ma anche dei libri. Perché? Per il settore libri ci siamo avvalsi fin dall’inizio della distribuzione tradizionale. Ma dato che siamo nati per la strada, non aveva senso rinunciare a quel canale, anche perché avrebbe significato abbandonare i nostri distributori, che spesso vendono più libri che copie del giornale. Abbiamo voluto custodire un’opportunità di lavoro, insomma, ed anche conservare la visibilità verso quel pubblico che non entra nelle librerie. La vostra realtà è una delle poche, tra quelle che si definiscono piccole ed autonome, a non ricevere per scelta alcun sovvenzionamento istituzionale. In più, Cart’armata è una srl di proprietà degli stessi giornalisti-editori. È questa la ricetta per essere realmente indipendenti? Non so se sia una ricetta valida per tutti, certo lo è stata per noi. L’editoria piccola ed autonoma è un settore delicato, che spesso vede nascere realtà costruite ad hoc proprio per poter

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attingere dai finanziamenti pubblici. Di sicuro, avremmo potuto costituire una società cooperativa, con tutti i vantaggi del caso. Ma non l’abbiamo voluto fare. Come selezionate le opere che compaiono nella vostra collana di narrativa? È sufficiente che lo sviluppo della storia testimoni l’emarginazione, il disagio, la cultura “di periferia”, o c’è attenzione da parte vostra anche verso i modi del narrare? C’è sicuramente attenzione verso certi temi, con uno sguardo notevole alla scrittura. Cerchiamo prima di tutto delle storie - questo è vero - che richiamino i problemi dell’integrazione o della lotta alla povertà, ma mai a discapito della qualità letteraria. Un nostro autore, Daniel Alarcòn, di origine peruviana ma trasferitosi negli Stati Uniti, ha recentemente vinto il Whitng Writer’s Award, un premio prestigiosissimo, ed è risultato finalista all’Hemingway

Foundation/PEN Award. Un’intera collana, Percorsi, è dedicata ai cammini spirituali e non, alla ricerca in forma di pellegrinaggio, alla pratica del viandante. Com’è nata? Una delle nostre attenzioni è sempre stata rappresentata dal turismo responsabile e non invadente. I viaggi a piedi consentono di attraversare i luoghi vivendoli, senza modificare i territori, e mantenendo intatto il legame con la storia del percorso. Da qui la nostra scelta di proporre delle guide di qualità, non solo sulle esperienze più note e di richiamo spirituale come Santiago de Compostela o la Via Francigena, ma anche sui cammini della storia, degli uomini e delle idee. Ad esempio, una nostra pubblicazione presenta i sentieri partigiani d’Italia, con sei itinerari che ripercorrono i monti e le valli della Resistenza. Tutte le vostre proposte hanno come comune denominatore ”l’orientare verso la pratica”. Poca teoria - giusto il necessario e poi tanti strumenti in forma di libro, per realizzare in concreto uno stile di vita partecipativo, rispettoso dell’ambiente, basato sulla giustizia sociale. Allergici alle appartenenze puramente ideologiche? Siamo sicuramente distanti dall’ideologia fine a se stessa. Non ci piace proporre ricette teoriche, ma gesti quotidiani alla portata di tutti. Una nostra collana si intitola proprio “Stili di vita”, e mira a comunicare possibilità di risparmio energetico, alternative all’uso dell’automobile, consigli di consumo critico, ed altre dinamiche di facile approccio che permettano di attuare dei piccoli ma significativi cambiamenti. Per noi è importante. Un consiglio di lettura…. Posso darne tre? Abbiamo recentemente pubblicato La Cartografia della Via Francigena, unica opera che raccoglie le mappe dettagliate del percorso da Canterbury a Roma. Poi, la Guida alle vacanze alternative, che consiglia come recuperare del tempo per sé, affiancando proposte di viaggio a corsi creativi, alcuni anche molto stravaganti. Infine, un noir: Non si uccidono così anche i cavalli? di Horace McCoy, un classico dimenticato in Italia, e da cui è stato tratto l’omonimo film di Sidney Pollack, vincitore di un Oscar. Stefania Ricchiuto Il Passo del Cammello


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il cinema secondo coolcub

U.s.a. contro John Lennon David Leaf, John Scheinfeld Mikado

La storia come è noto viene scritta dai vincitori, ma cosa accade quando a vincere nonostante tutto non è proprio nessuno? Questo devono aver pensato Leaf e Scheinfeld, nel confezionare un pregevole documentario che partendo dalla seconda metà degli anni ‘60 tenta di analizzare la conversione dell’ex-beatle John Lennon a paladino dell’antimilitarismo fino a diventare un nemico riconosciuto e combattuto dell’intera amministrazione americana. Erano gli anni delle contestazioni, del Vietnam, dei grandi ideali e di quel Richard Nixon che prima del Watergate aveva dato anima e corpo per riuscire a cacciare dal suolo americano un comunicatore avverso del calibro di Lennon. Girata grazie alla collaborazione dell’ex-compagna Yoko

Ono che ha fornito documenti inediti e interessanti, questa pellicola si snoda attraverso immagini di repertorio e interviste ad importanti personaggi di quegli anni come Noam Chomsky e il capo delle Black Panters Bobby Seale che danno una mano ad inquadrare politicamente e temporalmente il periodo. Lo stile è quello di un documentario classico, senza molti fronzoli e con immagini a volte di scarsa qualità quasi a rimarcare la volontà di andare oltre l’apparenza e di concentrarsi sul messaggio, quello di pace tanto caro a Lennon e divenuto inno con pezzi come Give peace a chance e Imagine. Cosa ha spinto Lennon e Yoko Ono (che molti considerano la causa dell’allontanamento dal gruppo del cantante) a imbarcarsi in un’avventura tanto difficile e pericolosa? E’

una delle domande a cui il documentario unitamente ad elementi come la misteriosa morte del cantante, cerca di trovare una risposta mettendo sul piatto anche la sua infanzia non facile. In conclusione un prodotto ben fatto e diretto, capace di emozionare e di lanciare molte conferme (come quella dell’immortalità dei sognatori) e un interrogativo: come è possibile che certe cose siano accadute e continuino a farlo anche in paesi che consideriamo, come gli Usa, avamposti di libertà? Certo, questo è un problema, ma forse non importa. Perché è tutto nelle nostre mani e il mondo, tutto sommato, merita un’altra chance. C. Michele Pierri


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Follia

David MacKenzie NoShame Films

Non è mai facile tradurre un romanzo in fotogrammi. Specie se si tratta di un’opera che ha appassionato i lettori. È il caso di Follia, film di David MacKenzie tratto dal libro del 1998 di Patrick MacGrath. Storia di un amore tormentato e di una passione inarrestabile, sorti tra le mura di un ospedale psichiatrico nell’Inghilterra degli anni ‘50. Follia che non solo abita i corridoi del manicomio e coinvolge pazienti e medici, ma sfida il vincolo matrimoniale e le convenzioni sociali. Edgar Stark è infatti un artista maledetto e uxoricida (interpretato da Marton Csokas), Stella Raphael (Natasha Richardson) la moglie del vicedirettore della struttura psichiatrica, vittima della noia e della continua sfida con le mogli dei colleghi del marito. Le fila del loro rapporto amoroso sono tenute insieme dallo psichiatra che ha in cura Edgar (Ian MacKellen), che forse ama Edgar, forse ama Stella, forse ama troppo il suo lavoro. La tragedia ovviamente non si farà attendere, prenderà la forma della progressiva distruzione della personalità di Stella e dell’apparenza di normalità in cui si sforza di vivere. Anna Puricella

Le regole del gioco Curtis Hanson

Curtis Hanson si accoda a diverse decine di registi e realizza un film sul poker. È una pellicola molto realistica in cui recitano veri giocatori professionisti, e nella quale le voci degli speaker delle finali sono quelle di Fabio Caressa e Stefano De Grandis (i veri commentatori poker per la tv). Da ciò si può capire come il gioco sia l’essenza stessa del film che risulta avvincente soprattutto per chi è “malato” per il poker. Ma c’è un problema: l’amore. Non è facile capire, infatti, dove inserire la malandata e melensa storia sentimentale tra la cantante Billie Offer (Drew Barrymore) e il protagonista del film, il giocatore Huck. Costui, interpretato dal monoespressivo Eric Bana, è figlio d’arte e nutre rancore per il padre (un grandissimo Robert Duvall): tutto si risolverà, naturalmente sul panno verde e con le fiches in mano, non senza colpi di scena. I personaggi del film fanno venire in mente i loro omologhi di Rounders o L’uomo dal braccio d’oro, e sono persone divorate dal gioco, e i loro meccanismi mentali mettono in luce che quanto più una persona è brava con le carte tanto più ha grossi problemi a relazionarsi con gli altri fuori dalla sala da gioco. Vangelo. Villy De Giorgi

Da Galatone a Specchia. Il Cinema del reale cambia città ma non muta la sostanza. Dal 18 al 21 luglio torna infatti l’appuntamento, ideato e organizzato da Big Sur, immagini e visioni, con la direzione artistica del filmaker Paolo Pisanelli, che rientra nel festival Salento Negroamaro della Provincia di Lecce. La Festa di Cinema del reale è un evento dedicato agli autori e alle opere, cinematografiche e video, che offrono descrizioni e interpretazioni personali e singolari delle realtà del mondo, passate e presenti. Generi documentari differenti, confluiscono in questa “festa” in cui si proiettano film sperimentali, film-saggio, diari personali, film di famiglia, grandi reportage, inchieste storiche, narrazioni classiche, racconti frammentari… Questa quarta edizione è realizzata in collaborazione con il Consiglio Internazionale del Cinema e della Comunicazione dell’UNESCO e ha come tema le fughe nel reale di migranti, partigiane, artisti e matti. Le serate, come ogni anno, saranno dedicate ai documentari italiani come Lettere dal Sahara del maestro Vittorio De Seta, L’Orchestra di Piazza Vittorio di Agostino Ferrente; Grido di Pippo Del Bono, che racconta la straordinaria esperienza di vita e teatro vissuta dall’autore con l’attore Bobò e molti altri ancora. In due serate differenti sarà dedicato uno spazio al cinema egiziano e algerino. I film in programma sono Il pane nudo del regista algerino Rachid Benhadj (nella foto) e Yacoubian Palace del regista egiziano Marwan Hamed che offriranno

un’interessante panoramica sulla nuova generazione di cineasti che hanno contribuito a cambiare volto e direzione all’industria cinematografica dei Paesi dell’area del Mediterraneo. Quest’anno La Festa di Cinema del Reale rende omaggio a due cineasti eccezionali: Lino Del Fra e Alberto Grifi, i cui film Fata Morgana e Verifica incerta (realizzato con Gianfranco Barucchello) saranno rispettivamente presentati dalla sceneggiatrice Cecilia Mangini e dall’attrice Alessandra Vanzi. In anteprima italiana sarà, poi, presentato il libro di Mirko Grasso Scoprire l’Italia. Inchieste e documentari degli anni ’50 (editore Kurumuny) che in allegato contiene il dvd dei film Fata Morgana e Li mali mistieri di Gianfranco Mingozzi, film che sarà proiettato durante La Festa di Cinema del reale alla presenza dell’autore. Anche questa edizione di Cinema del reale, come la precedente, aderisce al DOCUDAY 2007, giornata per la promozione del cinema documentario nelle piazza italiane promossa dall’Associazione Documè Circuito Indipendente del Documentario. Nel corso della manifestazione avranno luogo un seminario sulla conoscenza del cinema, un incontro di riflessioni e proposte sul ruolo degli archivi audiovisivi e incontri a tema su poetiche e pratiche cinematografiche degli autori invitati, ai quali verrà conferito il Premio Cinema del reale. Il gruppo 100Autori “Filmmakers” proporrà una riflessione sulla nuova legge del cinema e sulla condizione attuale del cinema italiano. Info: www.cinemadelreale.it


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CoolClub.it Dal tramonto di sabato 14 all’alba di domenica 15 luglio torna per il secondo anno consecutivo Passeggiando sulla luna. La Notte bianca di Melpignano. Dall’ex convento degli Agostiniani sino in Piazza San Giorgio tutto il centro storico del piccolo comune salentino sarà costellato di incontri letterari e mostre d’arte, concerti e performance teatrali fino a spingersi verso gli arditi ritmi dell’elettronica e alle sonorità più rilassanti del reggae. La lunga notte parte alle 18.30 con lo spazio riservato ai più piccoli, a cura della Ludoteca Il Dado, e con la possibilità di volare sulla Mongolfiera allestita nella spianata del Convento degli Agostiniani. Alle 21.00 nel chiostro dell’ex Convento degli Agostinani, dove sarà allestito un planetario, il professor Mario Bochicchio presenterà il progetto Astronet, un telescopio web collaborativo. Subito dopo nel piazzale del Convento il cantore e musicista salentino Antonio Castrignanò, già autore della collana sonora del film Nuovomondo di Emanuele Crialese, presenterà in anteprima assoluta il suo nuovo spettacolo Canti, cunti e migrazioni, dove parole e musica incontrano le immagini. A seguire la “musica ribelle” di Eugenio Finardi che presenterà alcuni dei suoi brani più famosi. Dalle 22.00 su via Roma la parata della Baracca dei Buffoni dà il via alle “attrazioni artistiche”. Nelle corti dei palazzi del centro storico sarà concentrata la sezione dedicata al teatro con la presenza di Piero Rapanà (Teatro Blitz), Somnia Theatri (che presenterà lo spettacolo Salomè), Ippolito Chiarello (Nasca. Teatri di terra), Alessandro Langiu, Marzia Quartini, le danzatrici e coreografe Cecilia Maffei e Stefania Mariano. La sezione letteratura, coordinata da Mauro Marino (Fondo Verri) e Rossano Astremo, vedrà la partecipazione di molte case editrici come Manni, Besa, Kurumuny, Lupo, Icaro, Pequod, Fernandel, Isbn. Tra gli ospiti Giancarlo Liviano, Luciano Pagano, Tony Sozzo. La casa editrice Manni presenterà in anteprima nel Salento la raccolta Mordi e Fuggi con la partecipazione di Elisabetta Liguori, Omar Di Monopoli, Livio Romano e dello scrittore emiliano Gianluca Morozzi, autore di numerosi romanzi per Fernandel e Guanda. In Piazza San Giorgio spazio alla musica salentina e pugliese con The Yeld, Maquillabbeba, P40, LeitMotiv, 70123, Spread Your Legs. Dalla Spagna arriva il flamenco dei Chalachi. Nel corso della serata si esibiranno anche Irene Scardia, Sudivoce, Briganti di Terra d’Otranto, T’Astaracia e molti altri gruppi. Nello spazio riservato all’arte saranno in mostra alcune opere di Giulio Acquaviva, Simona Comi, Francesca Vantaggiato, Francesco Gaetani. Sino all’alba al Convento degli Agostiniani dance hall dei Villa Ada e selezioni di elettronica e jungle a cura degli Insintesi. Info www.comune.melpignano.le.it – 0832303707

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SUD EST INDIPENDENTE L’8 e il 9 agosto al Campo sportivo di Gallipoli il Salento dichiara la sua indipendenza con Sei, il festival organizzato da Coolclub e Getup concerti. Due giorni per due direzioni diverse della musica. Si parte l’8 con il concerto di Skatalites, i padri dello ska, inventori di quei ritmi e quei suoni che poi diventeranno il reggae, il rock steady, lo ska di oggi. Il nucleo di questa band tuttora attivissima con tour mondiali e uscite discografiche, è composto dagli stessi uomini che mezzo secolo fa si trovarono al centro di un rinnovamento musicale che dalla Giamaica avrebbe conquistato il mondo. Il nuovo suono della gioventù giamaicana all’inizio degli anni ‘60 si chiamò ska, e successivamente diventò rocksteady per poi mutare ancora in reggae. I veri artefici di queste creazioni furono una abbastanza ristretta cerchia di geniali musicisti, alcuni dei quali cominciarono a chiamarsi Ska-talites

nel 1964, guidati dal grande produttore Coxone Dodd (recentemente scomparso) a Studio One. Insieme a loro sul palco Vallanzaska, Villa Ada, Fido Guido, Makako Jump . Si prosegue poi il 9 con il gruppo rivelazione del rock Italiano: i Verdena con che il loro ultimo album Requiem stanno scalando le classifiche e collezionando sold out ad ogni concerto. Ospiti della serata rock del Sud est indipendente anche i Tre allegri ragazzi morti, band capitanata dal fumettista Davide Toffolo da sempre in bilico tra punk rock e un immaginario onirico e adolescenziale e ancora Leitmotiv, Spread your legs, Logo. Ingresso singola serata 12 euro. Entrambe le serate saranno aperte da una serie di gruppi emergenti che saranno selezionati tramite un contest che si svolgerà il 6 e 7 agosto al Cotriero di Gallipoli. Per conoscere le modalità di iscrizione: contest.sei@libero.it oppure 380 6846283 - www.sudestindipendente.com


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…in punta di piedi? La prima idea di Torcito Parco Danza parte dal corpo come medium, ricettacolo d’informazione, conoscenza e sapienza antica, per danzare ed essere danzati dalla nuova “techne”, per dare una dimora allo spirito del luogo con cui si stabilisce un contatto ed edificare bene un progetto di evoluzione umana del territorio, giocando a trovare un colore, un suono o un anagramma fantasioso al nome di un ragno sempre più esagitato, provocando un innesto partecipativo con la Notte della Taranta, per la costruzione di un parco danza a tema naturale al centro del mondo contemporaneo. L’ospite internazionale di questa rassegna è il giapponese Ko Murobushi maestro di danza post_atomica, manifesto d’argento vivo dell’ultima biennale danza di Venezia, affiancato dalla presenza nei laboratori da Michele Abbondanza e dalla coreografa Annamaria De Filippi in residenza con Barbara Toma ed Elektra la compagnia delle arti del corpo mediterraneo formata per l’occasione da Mariliana Bergamo, Enrica Di Donfrancesco, Francesca Nuzzo, Francesca Pili espressione di un organico di ballerine che presentano un progetto speciale per torcito parco danza in collaborazione con un ensemble di note sulla taranta, Raffaella Aprile, Ninfa Giannuzzi e Gianluca Milanese come contrappunto a piè di pentagramma alle nuove letture della musica coreutica. Nella

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masseria in questi giorni saranno impegnati insieme anche esponenti della performing art raccolti sotto l’etichetta metalogo.it per dare una forma armonica a suoni e gesti della tradizione passata messa a confronto con le innovazioni del presente, per offrire una documento pubblico, un koan, un indovinello orientale su cui meditare per lo spettacolo del futuro.

dal 2 al 5 agosto Masseria Torcito di Cannole Residenza artistica a cura di Elektra con Anna Maria De Filippi, Barbara Toma, Mariliana Bergamo Enrica Di Don Francesco, Francesca Nuzzo, Francesca Pili, Pieroandrea Pati, Fabio Siciliani, Luigi Valiani, Matteo Greco, Divina Della Giorgia, Antonio Napoletano, Michele Manca

laboratori

2-3 agosto Master class danza - Ko Murobushi pom 17.00-19.00 4-5 agosto Master class danza - Michele Abbondanza pom 16.00-19.00 (sabato 4 agosto) 11.0014.00 doenica 5 agosto)

A ppuntamenti

La direzione artistica è di Pieroandrea Pati. La manifestazione è organizzata grazie al contibuto della Provincia di Lecce e dell’Unione della Grecìa Salentina. Mediapartner www.lecceprima.it Info e iscrizioni ai laboratori 0832.246292 3470579992 info@torcitoparcodanza.it

Eventi 3 agosto - ore 21.00 Sette elektra - compagnia delle arti del corpo mediterraneo 4 agosto - ore 21.00 Quick Silver ( ko murobushi) 5 agosto - ore 21.00 performance Atnarat la danza rivolta (appendice evento collaterale Notte della taranta - 8 agosto a Corigliano d’Otranto) con Elektra, Ko Murobusci, Ensemble di note sulla taranta, Barbara Toma, Metalogo set formance a seguire Turned dance Progetto di composizione musicale del parco in divenire Dj live set + Vj


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CoolClub.it MUSICA martedì 10 / Turntable Crew feat Dj Rumba al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo/ San Foca) mercoledì 11 / Baba Zula a Cisternino (Br) mercoledì 11 / Clivis al Praja/Jack ‘n Jill di Gallipoli (Le) giovedì 12 / Leitmotiv al Praja/Jack ‘n Jill di Gallipoli (Le) giovedì 12 / A Toys Orchestra a Monopoli (Ba) giovedì 12 / Sergio Caputo a Bisceglie (Ba) giovedì 12 / Groovesquared a Putignano (Ba) venerdì 13 a domenica 15 / Respect Salento Reggae Festival a San Donato (Le) venerdì 13 a lunedì 16 / Festa della birra a Copertino (le) venerdì 13 / Inaugurazione con I Mostri al Rendez Vous di Porto Cesareo (le) venerdì 13 / Paolo Martini e Ivano Coppola al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo venerdì 13 / Elio e le Storie Tese a Barletta venerdì 13 / New York Ska-Jazz Ensemble a Bari venerdì 13 / Sergio Caputo a Monopoli sabato 14 / Notte bianca a Melpignano (Le) sabato 14 / Joji Hirota & Taiko Drummers al Castello di Gioia Del Colle sabato 14 / Kumenei a Campi Salentina (Le) domenica 15 / Earth Wheel Sky Band + Cesare Dell’Anna a Ostuni domenica 15 / Superpartner a Squinzano (Le) lunedì 16 / Paolo Fresu Quintet a Locorotondo (Ba) Il Locus Festival ospita il quintetto di Paolo Fresu. Nato nel 1984 per volontà di Paolo Fresu e Roberto Cipelli. Dopo varie forme diviene gruppo odierno nel 1985 con la registrazione di ‘Ostinato’ per la Splasc(h) Records, e si consacra come uno dei gruppi di punta del jazz italiano. martedì 17 / Daniele Silvestri a Bari martedì 17 / Turntable Crew feat Whickaman al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo/ San Foca) martedì 17 / Skarlat e SteelA al Babilonia di Torre Sant’Andrea (Le) mercoledì 18 / Andrea Sabatino Trio al Praja/Jack ‘n Jill di Gallipoli (Le) mercoledì 18 / Reggie Workman - Andrew Cyrille - Roberto Ottaviano a Molfetta giovedì 19 / Chalachi al Praja/Jack ‘n Jill di Gallipoli (Le) giovedì 19 / Coco Oco Trio a Putignano (Ba) giovedì 19 / Montecarlo Night con Tobia Lamare al Rendez Vous di Porto Cesareo (le) venerdì 20 / Anja Schneider e Dj Santorini al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo sabato 21 / Beltuner a Oria (Br) sabato 21 / Orchestra Di Nazareth - omaggio ad Oum Koultum a Casarano (Le) L’Orchestra di Nazareth è attiva da circa un decennio nell’opera di rivisitazione ed esecuzione della grande musica araba,dalla leggendaria cantante egiziana Oum Koultum alla libanese Feyrouz. Costituitasi originariamente ad Haifa,

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martedì 17 / Natacha Atlas al Castello di Acaya Salento Negroamaro, rassegna delle culture migranti della Provincia di Lecce, ospita Natacha Atlas. Un’apolide della musica che ha fatto propria la bandiera dell’arcobaleno sonoro, ben prima che l’etno-pop divenisse un business inseguito e sollecitato dalle mode: Natacha Atlas è un bell’esempio di anticipazione di usanze e costumi in voga nel mondo discografico, per un percorso decisamente variopinto a cominciare dalle sue molteplici derivazioni geografiche. Nata a Bruxelles (1964) nel quartiere marocchino, da padre ebreo egiziano e madre inglese, Natacha cresce nella cittadina di Northampton per poi trasferirsi ancora adolescente tra Grecia e Turchia, dove impara a destreggiarsi con la danza del ventre, specialità che le dà per qualche tempo, da vivere. I primi passi come musicista rinviano invece al 1991, quando entra a far parte del collettivo senza confini dei Transglobal Underground, una specie di multinazionale del suono, di cui diviene la voce, il volto, la presenza più significativa durante gli spettacoli, che ovunque raccolgono successo, guadagnandole dal cui Conservatorio provengono tutti i componenti in egual misura palestinesi ed israeliani,si è poi definitivamente trasferita nella città di Nazareth. Rappresenta quindi un esempio ideale di convivenza artistica e religiosa, in quanto al suo interno sono rappresentate le tre grandi religioni monoteiste del nostro tempo. Al suo interno infatti convivono musicisti cattolici, ebrei e musulmani. L’Ensemble interamente acustico (8 musicisti) si avvale degli strumenti arabi classici (archi, qanun, oud, percussioni) e delle voci della palestinese Hiba Bathish. ed ha effettuato numerose tournee in tutto il mondo e in Francia è divenuta l’orchestra stabile della grande vocalist araba, ma di radici ebraiche, Sapho. L’appuntamento rientra nel Festival Salento Negroamaro della Provincia di Lecce. Ingresso gratuito domenica 22 / Mercan Dede E Ludovico Einaudi a Copertino (Le) Prima italiana per questo particolare progetto: Ludovico Einaudi e Mercan Dede, due musicisti cosmopoliti, pur provenendo da due scene diverse (l’ambiente della musica contemporanea

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stima e notorietà. Del 1995 l’esordio come solista, “Diaspora”, cui seguono altri dischi, “Halim”, “Gelida”, “Ayeshteni”, dove Natacha miscela sapientemente le lingue, i suoni, le influenze, pescando nel suo retroterra di esperienze, viaggi, continue metamorfosi. L’appuntamento è ad Acaya. Ingresso gratuito. nel caso di Einaudi, la musica sufi con suoni propri del clubbing e dell’elettronica nel caso di Mercan Dede), hanno deciso di incontrarsi in un progetto speciale. Da una parte, dunque, le atmosfere rarefatte di Ludovico Einaudi, il pianista e compositore di Torino che continua a muoversi in una perenne ricercare tra musica per il cinema, composizioni per pianoforte e interessanti aperture verso le sonorità d’altre culture. Dall’altra, le mistiche sonorità sufi di Mercan Dede artista dalle molteplici sfaccettature che presenta una fusione unica di tradizione mediorientale e elettronica. Ad unirli la costante ricerca, il tentativo di andare oltre i generi, contaminandosi con elementi diversi alla ricerca di una indagine sul sacro odierno. Sul palco assieme a loro 3 ballerine sufi e alcuni musicisti turchi. L’appuntamento rientra nel Festival Salento Negroamaro della Provincia di Lecce. domenica 22 / Lura a Locorotondo (Ba) Con 70 concerti nel 2005 ed oltre 100 nel 2006, Lura è esplosa sui palchi internazionali come la unica vera erede della grande Cesaria Evora. Nella musica di Lura il pop d’autore ed il jazz si fondono con i ritmi di Capoverde. M’bem di Fora è il nuovo album di Lura, un disco provocante e sensuale, capace di fare sognare. L’appuntamento rientra nel Locus Festival. domenica 22 / Radici nel Cemento a Carmiano (Le) lunedì 23 / Zion Train Sound System e Trojan Sound System alla Masseria Torcito di Cannole (Le)


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Con un nuovo album in arrivo, i maestri dello UK dub Zion Train arrivano nell’estate salentina in versione sound system, con il produttore Neil Perch ai controlli ed il cantante Dubdadda al microfono. Sound system ufficiale della leggendaria etichetta inglese, presenta una formazione all’altezza del prestigioso marchio Trojan: due selecta e due MC abilissimi, per uno spettacolo che spazia attraverso il reggae di tutte le epoche e stili. Speciale per i 40 anni di Trojan Records (1967-2007). martedì 24 / Turntable Crew feat Luca Ferrari al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo/ San Foca) mercoledì 25 / Nikos Veliotis- Yannis Aggelakas a Cellino San Marco (Br) mercoledì 25 / Alma de tango al Praja/Jack ‘n Jill di Gallipoli (Le) giovedì 26 / Blood Sugar al Praja/Jack ‘n Jill di Gallipoli (Le) giovedì 26 / The Banshee a Putignano (Ba) giovedì 26 / Montecarlo Night con Tobia Lamare al Rendez Vous di Porto Cesareo (le) da giovedì 26 a sabato 28 / Streamfest al Quartiere Fieristico di Galatina (Le) Lo StreamFest è il primo festival internazionale dei nuovi media a sud-est: un evento che intende presentare le applicazioni creative delle tecnologie più avanzate nel Salento, territorio elettivo dell’estate culturale europea. Per tre giorni il Quartiere Fieristico di Galatina ospiterà in-stallazioni interattive, sperimentazioni audiovisive con alcuni dei protagonisti di una ricerca che tende a coniugare immagini e musica, reinventando nei set di vj le mo-dalità di fruizione che vanno oltre il format dei concerti e del video. Tra i protagonisti internazionali dello StreamFest si rilevano l’ormai storica HASCII CAM di Jaromil, l’esperienza di free radio war di Cecile Landman con StreamTi-me, l’installazione ambientale di Scenocosme, e il duo italo-austriaco di origini sa-lentine Casaluce-Geiger, la musica del nord europa con Lacklaster dalla Finlan-dia e Felix Randomiz insieme a Carsten Schulz dalla Germania. La scena vjing italiana è rappresentata tra gli altri dai progetti Flxer, Kinotek e Claudio Sinatti. Lo StreamFest propone tra le varie installazioni il progetto del Master in Digital En-vironment della NABA di Milano. Gli ospiti della scena locale salentina sono Pierpalo Leo, Urkuma, Giorgio

Viva, la net labal MuertePop e la community Agroelettronica. Per Informazioni: www.streamfest.it - info@streamfest.it venerdì 27 / Claudio di Rocco al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo sabato 28 / Storie Cantate con Moni Ovadia e Tonino Zurlo a Mola Di Bari da sabato 28 a lunedì 30 / Giovinazzo Rock Festival a Giovinazzo (Ba) Tra gli ospiti Amari, Disco Drive, Apres La Classe, Tre Allegri Ragazzi Morti, A toys orchestra e molti altri. Info www. giovinazzorock.it. Ingresso gratuito sabato 28 / Foly Du Burkina Faso (Africa subsahariana) e Nidi D’arac (Salento) a Diso sabato 28 / Terra pi ciceri al Rendez Vous di Porto Cesareo (le) domenica 29 / Kumenei (Salento) e Raffaello Simeoni (Lazio) a Diso lunedì 30 / Franco Battiato alla Cantina sociale di Locorotondo (Ba) Molti brani de Il Vuoto, nuovo album felicemente riuscito, saranno parte integrante del programma nel tour di Battiato per l’estate 2007. Un live che comunque spazierà dagli esordi ad oggi, con quel senso antologico che da sempre anima i tour di Battiato. L’appuntamento rientra nel Locus Festival. lunedì 30 / Danzare col Ragno all’Area archeologica San Pietro in Crepacore di Torre Santa Susanna (Br) lunedì 30 / 24 grana al Parco Villa Cavaliere di Mesagne(Br) martedì 31 / Africa Unite a Supersano (Le) martedì 31 / Turntable Crew feat Uk apache al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo/ San Foca) venerdì 3 / Stefano Noferini al Mediterraneo (Litoranea San Cataldo da venerdì 3 a domenica 5 / Salento Sounds Good con Neffa, Giuliano Palma e Rezophonic a Carpignano Salentino (Le) sabato 4 / Avion Travel a Ruvo di Puglia sabato 4 / Olli &The Bollywood Orchestra Ad Altamura lunedì 6 / Gianluca Petrella Indigo 4 (Locus Festival) a Locorotondo (Ba)


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dal 30 luglio al 14 agosto / Popoli a Corsano e altri comuni del Salento Dal 30 luglio al 14 agosto torna Popoli, un articolato progetto presentato dall’Unione di Comuni “Terra di Leuca”, in collaborazione con Regione Puglia, Provincia di Lecce, Istituto delle culture mediterranee, Azienda di promozione Turistica di Lecce, Associazione Dilinò di Muro Leccese, Scuola Taranta Power di Bologna, Radiovenere e Radio Peter Pan la cui organizzazione è demandata all’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Corsano, promotore del progetto. Le manifestazioni, che coinvolgeranno oltre a Corsano anche i Comuni di Alessano, Cursi, Gagliano del Capo, Morciano, Otranto, Patù, Poggiardo, Salve e Tiggiano, prevedono officine di danze popolari, arte scenica, musica, mosaico dalla Tunisia, lavorazione del cuoio

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dal Marocco, incisione del legno d’ulivo con madreperla e lavorazione del’olio d0oliva per fare saponi e cosmetici dalla Palestina, contest di writing internazionale, incontri, mostre fotografiche. Popoli include, inoltre, una serie di concerti itineranti che ospiteranno il gruppo di musica salentina Mascarimirì, le spagnole Las Migas, la francese Big David’s Band, il tunisino Mounir Troudi, maestro internazionale di musica Kanwa e gruppi di percussioni tribali africane. Lunedì 6 agosto, nell’anfiteatro comunale a Corsano, si svolgerà “Popoli Ensemble” un grande festival di contaminazione culturale e artistica che vedrà sullo stesso palco tutti i gruppi internazionali e la scuola Taranta Power – Boloogna di Maristella Martella con le sue 20 danzatrici italiane e francesi di pizzica e tarantelle.

La redazione di CoolClub.it non è responsabile di eventuali variazioni o annullamenti. Gli altri appuntamenti su www.coolclub.it Per segnalazioni: redazione@coolclub.it


FUMETTO

CoolClub.it “Ho pensato molto, ultimamente, a te e a me. A quello che ci accadrà alla fine. Finiremo con l’ucciderci, vero? Forse tu ucciderai me… O forse io ucciderò te. Forse prima o forse poi”. Ci sono due uomini in un’umida, squallida, cella nel luogo più malsano che la città abbia generato. Si conoscono da tempo, ma non sanno nulla l’uno dell’altro; eppure sono “anime gemelle”, le due facce della stessa contorta medaglia. Sono Batman e Joker, il “santo” protettore, mascherato da diavolo, di Gotham City, groviglio metropolitano di acciaio e cemento scaturito dai sogni (o gli incubi) in bianco e nero espressionista di Fritz Lang, ed il suo arcinemico che seppellisce le proprie vittime, letteralmente, con una risata. L’eroe di Gotham è l’incarnazione dell’ordine e del (auto) controllo; da bambino ha assistito, impotente, all’uccisione dei genitori per mano d’un volgare delinquentello, giurando di vendicarsi di tutti i criminali. Come Bruce Wayne (l’uomo dietro la maschera), possiede immense ricchezze, le attenzioni di procaci donnine, la stima dell’intera comunità cittadina e soprattutto l’affetto di Alfred, padre putativo travestito da fedele servitore. Tuttavia ciò non guarisce la bruciante ferita che gli strazia l’anima, soltanto l’ossessione di una sete di giustizia ai limiti del morboso placa le sue turbe. I lettori di Batman conoscono quasi tutto del personaggio, ma chi è Joker, la nemesi più riuscita ed “amata” dell’eroe, qual è la sua storia e com’è divenuto un agghiacciante malvagio? Alan Moore (testi) e Brian Bolland (disegni), nel 1988, hanno risposto a questi interrogativi con l’ennesima pietra miliare che impreziosì la feconda produzione fumettistica del Cavaliere Oscuro negli anni ’80, Killing Joke (in Italia edizioni Play Press). Se i precedenti Batman: The Dark Knight Returns (1985) e Batman: Year One (1986) di Frank Miller ne avevano presentato il futuro ed il passato prossimo, in Killing Joke i due autori britannici affrontano un altro aspetto del mito di Batman: la sua follia, insita nelle viscere della sua personalità, che lo lega, indissolubilmente, allo schizoide Joker. Se il fato di Bruce Wayne/Batman è stato plasmato dalla violenta dipartita degli amati genitori, quello di Joker è stato determinato dalle

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condizioni di miseria che costrinsero un brillante, ma squattrinato, cabarettista a tentare un furto in un’industria chimica, poche ore dopo l’insensata morte della moglie incinta, tentativo sfociato nella rovinosa caduta in acque dense di agenti chimici velenosi a causa dell’intervento d’un giovane Batman. Dalle fetide acque di scolo di quell’industria emerse una creatura disumana, una cerulea maschera costretta in un permanente ghigno di pazzia, il Joker. È dunque la tragedia delle loro esistenze ad aver determinato la natura dei rispettivi caratteri, quello che li distingue è il percorso intrapreso. L’agiato Wayne scelse di imbrigliare i propri demoni interiori nelle maglie d’un eroismo privo di macchie, censurandoli nell’impassibile espressione che lo contraddistingue. Joker, il fu uomo medio, ha rovinato nelle spire della follia, convinto che l’esistenza umana è una burla crudele di un Creatore o di un Destino, matti quanto lui. Sono nati per incontrarsi e scontrarsi nell’imperituro samsara che è la reciproca attrazione/ repulsione. Sono entrambi ossessionati dall’altro poiché rappresentano ciò che avrebbero potuto divenire e che eventualmente potrebbero ancora diventare. Moore ha scritto una storia epocale cruda e struggente, affrescata dalle splendide illustrazioni di Brian Bolland, oggi apprezzato copertinista di molte testate D.C., che con tratto dettagliato e realistico delinea quest’attrazione fatale in tutto il suo sublime orrore (come appura, drammaticamente, il commissario Gordon, l’uomo medio per antonomasia della serie del Pipistrello). Bolland immortala un Batman granitico e monoespressivo, eccessivamente intento a non liberare la sua psicosi, ed uno smilzo Joker che con volto carico d’un’intensa umanità dice al suo nemico: «È tutto una barzelletta! Tutto ciò che chiunque abbia mai avuto a cuore […] È tutto una colossale, demenziale, battuta! Perché non vedi il lato comico? Perché non ridi?». Ma Batman riderà a squarciagola soltanto quando accetterà d’essere un povero schizzato quanto Joker, perso in un manicomio senza confini. Roberto Cesano

A MAGGIO INAUGURAZIONE TERRAZZE




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