anno IV numero 37 maggio 2007
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La favola del sud che hanno cercato di venderti è finita, quella favola è una mezza verità. Da un po’ di anni a questa parte, occupati a recuperare una tradizione che io ammetto di aver scoperto con il resto dell’Italia e a vendere il sogno in crinoline di un Salento miraggio, l’agiografia di una terra, abbiamo perso il senso della normalità inventandoci la salentinità. Ci siamo dimenticati che questa è anche e purtroppo una terra di mafia, di morti ammazzati, di traffici, di nulla riempito da paradisi artificiali con biglietti di sola andata. La vita non è una sagra, una notte e via, la vita è ogni giorno, la vita è cronaca e non solo costume e società. Ci apprestiamo felici e scontenti alla transumanza estiva sulle coste, molti pronti con la pantomima della terra incredibile, con la qualità della vita alle stelle, con la gente accogliente, con i sapori, con la musica, con le feste sulla spiaggia. Altri no. C’è chi ha deciso di raccontare un altro Salento che non deve essere dimenticato. Una strana coincidenza che non può essere solo un caso, ma probabilmente l’urgenza di parlare di un altro sud. Il collettivo Fluid video Crew e Edoardo Winspeare ci hanno fatto vedere (in passato) un sud, quello che volevamo e volevano vedere. I primi quello delle piccole stazioni ferroviarie, delle cartoline, dei personaggi, della storia. Il secondo quello della pizzica, delle credenze popolari. Ma oggi entrambi scelgono di raccontare quello che ironicamente abbiamo chiamato The dark side of the... sud. Fine pena mai dei Fluid Video Crew narra la drammatica vita di Antonio Perrone, la sua affiliazione alla sacra corona unità, uno spaccato drammatico della nostra terra. Edoardo Winspeare sta invece per iniziare le riprese de I Galantuomini, storia d’amore tra un giudice antimafia e la moglie di un picciotto della mala. Lo stesso sud raccontato da Omar di Monopoli nel suo bellissimo romanzo Uomini e Cani. È arrivato il momento di fare ammenda, confessione. Noi di Coolclub.it ci prepariamo così all’estate, con questo numero sull’altro lato del Salento. Un lato oscuro che oltre ai peccati nasconde le cose belle che non sono sotto i riflettori. Anche di questo parliamo in queste pagine con le nostre recensioni, le interviste, le segnalazioni. Buona lettura Osvaldo Piliego
CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno IV Numero 37 maggio 2007 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato
4 Fine Pena Mai
In copertina: Ugo Lops sul set di Fine Pena Mai dei Fluid Video Crew (foto Maurizio Buttazzo)
7 Edoardo Winspeare
Hanno collaborato a questo numero: Franco Farina, Mauro Marino, Dino Amenduni, Bob Sinisi, Gennaro Azzollini, Livio Polini, Anna Puricella, Valentina Cataldo, Enrico Martello, Nicola Pace, Giancarlo Bruno, Gianpaolo Chiriacò, Ilario Galati, Vincenzo Schirosi, Rossano Astremo, Silvestro Ferrara, Maria Grazia Piemontese, Stefania Ricchiuto, Stefano Donno, Willy De Giorgi, Francesca Vantaggiato, Sabrina Manna Ringraziamo Maurizio Buttazzo, le redazioni di Musicaround. net, Blackmailmag.com, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, QuiSalento, Pugliadinotte.net, Rete Otto e SuperTele. Progetto grafico dario Impaginazione Danilo Scalera Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione.... ei fu siccome immobile.... L’abbonamento al giornale varia dai 10 ai 100 euro. Per informazioni 3394313397.
9 Keep Cool 19 Simone Cristicchi 21 Kama
22 Salto nell’indie 23 Coolibrì 26 Omar Di Monopoli
29 Be Cool
35 Appuntamenti
31 Valeria Golino
38 Fumetto
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Non è che andare per set sia proprio divertente. La cosa migliore che ti può capitare è di fare il palo nel punto più remoto della situazione. Quello, per capirci, da dove non si vede niente se non un andirivieni di tecnici che imprecano, quasi sempre perché con la tua presenza stai ostruendo una percorribilità invisibile ad occhio non allenato. Ore e ore di attesa in questo stato d’imbarazzante intromissione: e sì, perché sul set non è come al cinema che le scene si susseguono con un senso ed una regolarità tali da motivare la tua permanenza sulla poltrona. Sul set, le scene hanno un ordine tutto loro, quasi mai cronologico. E comunque sono talmente spezzettate in dettagli apparentemente insignificanti nell’economia della visione d’insieme, che l’unica sensazione che ti può confortare è di stare perdendo il tuo tempo. La prima volta che sono stato sul set di Fine pena mai, il film di Davide Barletti e Lorenzo Conte dei Fluid Video Crew ispirato al libro di Antonio Perrone Vista d’interni (Manni), era una notte buia e tempestosa. Le riprese del film erano iniziate da meno di una settimana e, alla faccia dell’inverno mite e delle stagioni che non ci sono più, quelli erano giorni in cui non faceva altro che piovere. Si girava in una masseria nella campagna tra Galatina e Copertino. Il che, tradotto in termini di memoria sintetizzabile in due parole le cui iniziali coincidono cabalisticamente con quelle del mio nome, significava Freddo e Fango. La scena era un interno notturno che riproduceva il rifugio di un evaso. Lo spazio al chiuso talmente ingombro che era impensabile sostare all’interno già affollato dalla troupe. Non fosse stato per Biagino Bleve e Maurizio Buttazzo, probabilmente quella notte sarei tornato a casa solo con un inizio d’influenza. Ma devo invece a loro il conforto di un’accoglienza tutt’altro che formale, nonché alcune dritte per riuscire ad entrare nello spirito del film da un ingresso meno complicato. Della storia sapevo abbastanza. Avevo già letto diversi anni prima il libro e ne ero rimasto lacerato, nella dualità di un racconto di un detenuto in regime speciale che rivive le circostanze che hanno determinato la sua reclusione con cinica
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lucidità. Sapevo che Davide voleva farne un film per riflettere sugli anni psichedelici del Salento. Quelli, cioè, in cui tutta una generazione di giovani borghesi ci andava giù pesante con le droghe, molto spesso non disdegnando di lasciarsi coinvolgere in situazioni di criminalità, non sempre e non solo per procurarsela. Gli anni, insomma, che erano stati spazzati via dai maxi processi e sostituiti con scaltrezza dagli slogan Salentu-mare-jentu che anticipavano il paradiso-inferno del turismo di massa su cui, probabilmente, ci ritroveremo a riflettere tra qualche tempo. Ma torniamo al set. Dicevo dell’accesso nascosto. Che prese forma nella visita guidata di Sabrina Balestra, scenografa del film. Sabrina mi portò in un androne della masseria, dove tutto il film (o quasi) era raccontato dai mobili che sarebbero serviti ad arredare questa storia d’amore e malavita. Mobili ordinari, quelli della prima parte, e sempre più ricercati, mano a mano che il racconto procedeva nella spirale del delirio di onnipotenza dei protagonisti. Mi colpì una poltrona, di quelle tipicamente anni Ottanta, con la base in acciaio lucido che rifletteva come uno specchio tutto l’ambiente circostante: su quel trono, Claudio Santamaria (nella parte di Antonio) avrebbe regnato nell’effimero impero allucinogeno destinato ad infrangersi di lì a poco. Ecco, io credo che questo specchio distorto, questo riflesso alterato di una realtà su cui nessuno si era mai soffermato abbastanza prima d’ora, costituisca il primo punto di forza di questo film. E la mia presenza sul set, quella notte, me ne persuase senz’altro. Insieme alla sensazione che, sebbene fossi entrato da una porta secondaria, ero stato testimone consapevole di una scommessa tutta giocata su un modo diverso di fare cinema su questo territorio, troppo spesso favorito solo dalla logica estetica di location assolate sulle quali incombe, però, l’ombra necessaria di una coscienza con cui tutti, prima o poi, dovremo fare i conti. Francesco Farina
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CoolClub.it È difficile parlare dei film senza aver visto immagini o letto la sceneggiatura. Ci si fida delle parole dei protagonisti, del regista, degli autori. E anche per loro è difficile raccontare ciò che ancora non è stato girato ma è stato solo pensato e immaginato. La parola scritta è una cosa, il rendere tutto l’inchiostro in immagini e suoni, fotografia e sensazioni è opera complessa. In questi ultimi anni il Salento si è trasformato in una ambita meta di turismo: mare, sole, vento, muretti a secco, notte della taranta, pizzica, caldo e afa. Ma questa terra deve fare i conti con il suo passato, con i difficili anni dei morti ammazzati per strada, delle sparatorie in pieno centro, dei comuni commissariati per la collusione con la malavita, dei maxiprocessi, della droga, degli sbarchi dei clandestini. E non è un caso che i due registi più rappresentativi di questa terra, Davide Barletti dei Fluid Video Crew ed Edoardo Winspeare, abbiamo deciso di raccontare storie d’amore che abbiamo come sfondo questi anni. A settembre tra il Salento e l’altra sponda dell’Adriatico prenderanno il via le riprese de I Galantuomini scritto da Winspeare con Andrea Piva (fratello del regista Alessandro e coautore delle sue pellicole) e con il salentino Alessandro Valenti (già interprete di Sangue Vivo e regista di numerosi cortometraggi). Dopo l’ambientazione tarantina de Il Miracolo, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Winspeare torna a girare nella provincia di Lecce, come per Sangue Vivo e Pizzicata. “Raccontiamo una storia d’amore fra un magistrato, figlio di un’ottima famiglia leccese, di quelle con il palazzo sul corso, e una ragazza figlia di contadini che erano cresciuti insieme. Si ritrovano dopo molti anni. Lui è un uomo di legge, lei nel frattempo è diventata una criminale e ha sposato un affiliato della Sacra Corona Unita”. La storia si dipana tra i primi anni ’70, quando i due protagonisti sono dei ragazzi, e gli anni ’90 quando si reincontrano. “Abbiamo volutamente saltato gli anni ’80. In questo salto tra i decenni abbiamo cercato di raccontare la perdita dell’innocenza di questa terra; non che tutto fosse idilliaco, ma
la nascita della sacra corona unita è un po’ la metafora della perdita dell’innocenza. È un film sulla legge morale: è lecito innamorarsi di una donna che ha deciso di stare dalla parte del male?”. Il racconto è ancorato alla realtà ma è di pura finzione. “La realtà a volte è molto più incredibile della nostra creatività. Ci siamo documentati molto, ci siamo confortati con giornalisti e forze dell’ordine con i magistrati Cataldo Motta, Leonardo Leone De Castris e Alberto Maritati”. Da questa ricostruzione esce fuori una Sacra Corona Unita molto diversa dalla Mafia. “La Scu poggia su un terreno poco fertile. Da queste parti non c’è una mentalità mafiosa. Nonostante quanto è accaduto le nostre comunità sono ancora integre, ci sono solidarietà, rispetto. È una criminalità organizzata che si è macchiata di reati efferati ma dove, ad esempio, non c’erano le grandi famiglie che volevano gestire il potere in maniera piramidale”. Da una parte la malavita e una ragazza, moglie di un picciotto ammazzato, che nonostante provenga da una famiglia di lavoratori si lascia corrompere dal crimine, e dall’altra invece la borghesia leccese, quella Lecce bene dei notabili e dell’avvocatura. Il protagonista Ignazio De Rao, figlio di Oronzo e Irene (e anche qui è tutto un programma), sarà intepretrato da Fabrizio Gifuni, una delle realtà più interessanti del cinema italiano. “Nel Salento sono davvero a mio agio anche perché per metà la mia famiglia è pugliese, precisamente di Lucera in provincia di Foggia. Credo che questa terra, al di là del boom degli ultimi anni sia una terra straordinaria, variegata e ricca di storia, cosa che mi rende molto più facile stabilire un contatto con un salentino piuttosto che ad esempio con un siciliano. Purtroppo per il mestiere che faccio mi riesce sempre difficile venire qui al di fuori del periodo vacanziero perchè il teatro, spesso e volentieri e per ragioni che io ignoro stenta a varcare la soglia di Napoli. In ogni caso ho avuto modo di venire a Lecce e recitare ai Cantieri Koreja che ritengo una delle realtà più interessanti e dinamiche del panorama italiano”. E adesso questo film con Winspeare. “Era parecchio che non leggevo un copione così coinvolgente e non ho esitato ad accettare la proposta. Inoltre c’è un’aria che mi pone in sintonia col personaggio, forse perché oltre alle mie origini pugliesi anche nella mia famiglia c’è una lunga tradizione di giuristi”. La protagonista femminile sarà invece Donatella Finocchiaro, già interprete di Perduto Amor di Franco Battiato, Il regista di Matrimoni di Marco Bellocchio e Angela di Roberta Torre. Nel cast, conferma il regista, ci saranno anche numerosi attori salentini. (pila e picimi)
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
Arctic Monkeys
Favourite worst nightmare Domino rock / **** Le scimmie sono tornate. E questa, se vogliamo, è già la notizia. Hanno fatto in fretta, non sono passati neanche 16 mesi dal loro (già) classico Whatever people say i’m, that’s what i’m not (e dire che nel frattempo hanno anche pubblicato un EP). Copertine, premi, statistiche entusiasmanti (360000 copie nella prima settimana di vendita, record assoluto nel Regno Unito), senza soluzione di continuità. Ma era il primo album e tutti noi (i cinici critici in testa) attendevamo questo quartetto di Sheffield, età media 20 anni, al varco. Ma provateci voi a fare un album così solido con tutte queste pressioni. Provatelo a farlo rapidamente, mantenendo la freschezza, migliorando anche il sound complessivo (i concerti non possono che far bene); provate a farlo con un bassista (Andy Nicholson) già tutto esaurito (sostituito da Nick O’Malley); provate a mantenere quello standard di “realismo sociale” e di ironia nei testi, merito di Alex Turner, il cantante,
al momento il vero fattore aggiunto della band. Provate a farlo in questo periodo in cui la copertina di Nme vale sempre meno in senso assoluto, sempre di più in termini di promozione. Quella stessa rivista che ha puntato tutto su di te, dopo aver puntato tutto sui Franz Ferdinand, dando a entrambi i gruppi una buona mano a esplodere (anche se tutto sommato, forse sarebbero esplosi comunque). Loro ci hanno provato, senza star lì a pianificare più di tanto: difficile stabilire se questo album è più frutto di questo “peggior incubo preferito”, quello di essere una rockstar che deve dimostrare subito qualcosa e voleva confrontarsi con sé stessa e con il suo pubblico, o semplicemente della voglia di suonare, cosa che l’età giustificherebbe pienamente. Da qualsiasi movente sia originata, è la velocità l’arma in più delle Scimmie. La consapevolezza di ciò spinge a un nuovo artwork futuribile ma soprattutto alla scelta del primo singolo,
che non a caso è anche la traccia di apertura dell’album: Brianstorm. La ascolti e pensi subito che sono in formissima. Una bomba energetica, che tutti saremo costretti a ballare. L’album si porta avanti gradevolmente, con buone tracce (Teddy Picker), riff da 10 in pagella (If you were there, beware, davvero ottima), qualche tentativo di rallentare il ritmo (Only ones you know), per 37 minuti di rock che lascia poco spazio a dubbi: i ragazzi sono bravi. Se il vostro fattore ordinatore della realtà è il caos, e avete bisogno di novità sconvolgenti, potete anche ignorare questo album, per tutti gli altri, salite sul carro dei vincitori. Le Scimmie vincono, il mio augurio è che si prendano un po’ più tempo per sfornare il terzo album. Tanto Favourite Worst Nightmare metterà a tacere tutti. Ora la possono anche cambiare questa storia del rock contemporaneo, no? Dino Amenduni
KeepCool
10
Modest Mouse
We were dead before the ship even sank Sony indie / *****
Blonde Redhead 23 4 AD indie pop / *****
Cosa ci fa Johnny Marr (mitico chitarrista degli Smiths) con i Modest Mouse? Un disco bellissimo. Un piccolo miracolo discografico. Un gruppo sicuramente poco incline a mode e tendenze sforna un disco che scala le classifiche americane. Qual è il segreto? Le canzoni (anche il passaggio alla major fa il suo). I Modest Mouse non sbagliano un colpo, senza concedere niente, fedeli alla loro stile sbilenco, alla teatralità, all’intimismo, alla sperimentazione. In March in to the sea ci sono echi di un Waits o un Cave in ottima forma ma è solo un attimo, We’ve got Everything è un funky alla Talkin heads irresistibile. La chitarra di Marr è un collante a presa rapida e si incastona tra rumore e melodia. Come non lasciarsi trascinare da Dashboard brano disco 80 che sembra omaggiare Bowie. Ed è solo un assaggio, piccoli indizi di un disco da avere. La corale Missed the boat è il nuovo inno indie. (O.P.) Quante storie ci sono dietro il numero 23, quanti significati, e quanto si è accumulato alle spalle dei Blonde Redhead in questi anni. Anni di cambiamenti, di incidenti, ma sono ancora qui rifioriti, in continua crescita, mutazione, verso una forma canzone assoluta. L’estetica del pop, tutta la grammatica del rock, l’essenzialità, la complessità è tutta in loro, in questo nuovo album. Il passato delle atmosfere vintage, afflato di una passione sempre forte per l’Europa e le colonne sonore. Il futuro che respirano ogni giorno e che dosano con parsimonia in pillole di elettronica. È tutto nelle tracce di 23 nuova evoluzione del loro sound cangiante. Rock, indie, post, dreampop, shoegaze poco importa. Di fronte ai Blonde Redhead poco gioca la sequela dei generi, le gabbie della classificazione. Perché alla fine è tutto così semplice e ricco che può essere solo bello. (O.P.)
Travis
The boy with no name independiente pop / ***
Nonostante la lunga carriera i più li hanno conosciuti nel 2001 con il singolo tormentone Sing. Dopo qualche anno di silenzio i Travis tornano con un disco che ben si muove nel solco già tracciato dalla band. Il pop di matrice inglese domina le tracce di questo The boy with no name. Closer, primo singolo estratto ha il potenziale delle loro precedenti hit. Ma c’è una leggerezza, una rilassatezza ritrovata che rende l’intero disco placido, raffinato grazie anche alla presenza di sua maestà Godrich e Brian Eno ai controlli. Falsetti alla Coldplay (qualche trovata vagamente Sondre Lerche) si adagiano su chitarre raggianti e cristalline. Le ballad come 3 time and you loose sono l’asse portante
di un disco che alza il tiro in episodi come Selfish jean e Eyes wide open senza perdere la gentilezza tipica della band scozzese. Sembrano trovarsi proprio a loro agio nei vestiti che si sono cuciti addosso in questi anni, vestiti caldi, un po’ trasandati, buoni per l’autunno. (O.P.)
Wilco
Sky blue sky Nonesuch indie country / ****
Jeff Tweedy sta meglio, dopo le vicissitudini personali, la lotta contro le dipendenze di cui il precedente A Ghost is born era impregnato, il leader dei Wilco ritrova colore e limpidezza nelle composizioni. I Wilco sembrano aver messo da parte le divagazioni di alcuni precedenti episodi, per acquisire un approccio più classico. L’alternative country con quelle sue venature rock, il piglio indie, il folk, le sonorità southern sono tutti lì, tra le tracce articolate con maestria, nelle trovate sempre in discesa che fanno scivolare i brani in atmosfere sempre diverse, intense. Tra le collaborazioni quella di Jim O’Rourke, ormai uno di famiglia, e quella del chitarrista Nels Cline capace di dare carattere all’intero album. Per gli amanti della tradizione con un orecchio sempre proiettato verso il futuro. (O.P)
KeepCool Nine inch Nails
Year zero Nothing/Interscope rock / ***
Come si fa a non trepidare ogni volta che il signor Reznor mette alle stampe un nuovo album. Ancora fa male il calcio nei denti che fu, anni e anni or sono, il suo rivoluzionario The Downward Spiral. Niente dopo di allora è stato uguale, neanche Trent Reznor e la sua creatura Nine inch Nails. Fortunatamente verrebbe da dire. Ascoltate, the Good soldier e godete: il beat sincopato, la voce in gabbia, la chitarra abrasiva...tutto distorce a perfezione, satura fino al limite e diventa magma sonoro in cui i sinth sono contrappunti melodici. Bentornati nel futuro gente, i Nine inch Nails sono qui per raccontarci il presente e l’america con spietatezza chirurgica. Questo è l’anno zero, benvenuti. (O.P.)
11
Mauro Ermanno Giovanardi
Dinosaur Jr
Il percorso artistico di Mauro Giovanardi sembra andare a ritroso. Dopo aver spinto, con i La Crus, il cantautorato italiano verso futuribili forme canzone, Mauro ha cominciato a guardarsi indietro a riscoprire, anzi a svelare le sue passioni. Si è messo a nudo, lo ha fatto con l’intensità dei suoi sentimenti, cantando e recitando di cuore. Cuore a nudo, è vero, toccante cronaca di un viaggio, quello di uno spettacolo portato in giro in tutta Italia, e racconto di una vita attraverso le canzoni ma non solo. C’è poesia, teatro una
Girovagando su youtube m’imbatto in un nuovo video dei Dinosaur jr, e realizzo che J Mascis ha riportato alla luce i suoi dinosauri per un nuovo disco. Non ho mai visto di buon occhio le reunion, e fa sempre un po’ strano vedere gli eroi della propria gioventù, capelli bianchi e chitarra al collo, che provano a ricordare i bei tempi che furono. Ma poi vedo che la formazione è quella dei bellissimi tempi che furono (Lou Barlow e Murph), ascolto il disco e cambio un po’ idea. Torna quindi chi, negli anni ’80, ha gettato le basi del sound degli anni ’90. Tornano i rumorosi chitarroni multistrato spalmati su quelle giocose melodie pop. Tornano i deliranti assolo, debordanti come secchi dell’immondizia vuotati nei giardinetti del virtuosismo. Torna quella voce indolente e un po’ stonata, inconfondibile, anche se J Mascis sembra ormai più un hippie sopravvissuto che un giovane slacker. Tornano i miei idoli dell’adolescenza e lo fanno con 11 ispiratissime canzoni, ed io non gli resisto. Quattro stellette per il valore, mezza per la nostalgia. Giovanni Ottini
Cuore a Nudo Radio Fandango canzoni / ***
cornice musicale scarna ed essenziale e un faro puntato su un uomo e la sua voce. Voce che ha i segni del tempo, la bellezza delle cose profonde e misteriose. Più che cover vere e proprie dichiarazioni d’amore alla canzone italiana e alla letteratura. C’è Tenco, Tondelli, De Andrè, Pasolini. C’è un grande interprete ed emozioni che fa bene riascoltare. (O.P.)
Pop Levi
The return to form black magick party Counter old-fi / ****
“I’m like Prince making out with Dylan in Syd Barrett’s bedroom” Questa è la storia di un viaggiatore del tempo, il suo nome è Jonathan. Nasce a Londra, in giovane età è già un provetto pianista, ascolta i dischi di Scott Joplin e George Gershwin, raggiunge un coro gospel e a nove anni scrive la sua prima canzone. Intanto scopre nuove emozioni sonore, grazie ai Carpenters, ai Beatles, ai Pink Floyd. Si sposta successivamente a Liverpool, dove fonda i Super Numeri, collettivo modern progressive rock dalla resa ottimale soprattutto nelle espressioni live, che realizza per la label Ninja Tune un manciata di album. Poi il nostro, nome in codice Pop Levi, nel 2004 inizia a suonare il basso per il gruppo electro pop Ladytron, prima di trasferirsi a Los Angeles. Dove inizia a partorire il progetto che si concretizza ora in The Return To Form Black Magick Party. Jonathan diventa misteriosamente (quali sostanze avrà mai assunto?) un riassunto umano delle attitudini musicali di Prince, Beck, Bob Dylan, Syd Barrett, Jimi Hendrix, Robert Plant, Jim Morrison, Marc Bolan e Marvin Gaye. Ascoltare per credere il giocoso cocktail old-fi composto di glam, cosmic folk, soul, garage e pop che il nostro snocciola nelle 11 tracce del lavoro,
Beyond Fat Possum indie-rock / ****½
licenziato per la Counter, nuova sub label della già citata Ninja Tune, dedicata alle sonorità rock. Sin dalla prima, Sugar Assault Me Now, si è introdotti in un suggestivo universo psichedelico, in un party hippy tardi anni ‘60. La solita, inutile revisione storica? Assolutamente no, Pop Levi rielabora e rimescola efficacemente quarant’anni di musica senza risultare mai noioso, né tanto meno clone provvisto esclusivamente di carta carbone. È di fatto un artista desideroso di fare rivivere sensazioni ed emozioni del passato traghettandole nel nuovo millennio. Dietro le quinte, peraltro, si muove l’attivissimo Thom Monahan (Pernice Brothers), già collaboratore di un menestrello folk catapultato dalla macchina del tempo ai giorni nostri, Devendra Banhart. La gestazione del disco ha coinvolto Jonathan per un lunghissimo periodo: quando l’ispirazione lo coglieva, lui si metteva a registrare. Medio Oriente, Grecia, States, nei contesti più incredibili: il bagno di un aereo, una chiesa, una nave... Mister Levi ha già lasciato intendere di avere pronto il suo prossimo album (titolo compreso, Never Never Love), verrà inciso a giugno e sarà completamente diverso da The Return To Form Black Magick Party. Chissà chi diavolo avrà intenzione di reincarnare nella prossima occasione, anche perché il britannico ha affermato di non amare praticamente nulla della musica attuale... Bob Sinisi
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Alex Delivery
Star destroyer Jagjaguwar/Wide space-rock / ***½
Kings of Leon
Lush Rimbaud
Riunione di famiglia. I tre fratelli Followill convocano il primo cugino Matthew e tornano in studio per il terzo album, dopo il meraviglioso debutto di Youth and Young Manhood (2003) e Aha Shake Heartbreak (2005). Meno timidi e più sicuri rispetto al passato: considerando la open track, Knocked Up (ben 7 minuti di musica), sembra abbiano accantonato la rabbia di sempre. Ma poi arriva la scheggia di Charmer, che rimbalza su My Party e sulla potente Black Thumbnail, e ti accorgi che sono proprio loro. Perfettamente in grado di sconvolgerti e poi cullarti con le melodie di The Runner, con i cori di Trunk e con il forte accento del Sud del vocalist Caleb. Due anni fa il magazine Harp li ha definiti a pieno titolo “una ventata di freschezza nel panorama della musica moderna, dopo la rivoluzione del punk rock”. Because of the Times prende il nome dalla conferenza annuale dei pastori della Chiesa americana, che i ragazzi frequentavano assiduamente da piccoli, essendo figli di un ministro pentecostale. I riferimenti alla religione e a Gesù non mancano neppure in questo album. Perché la famiglia, si sa, non si dimentica mai. Anna Puricella
Questo collettivo di 5 ragazzi di Brooklyn (Alex non è, come potrebbe pensare qualcuno, il nome del titolare del progetto) di certo ne hanno ascoltata di roba vecchia. Chissà quanti vinili raccattati ai mercatini, vinti di notte su ebay, o magari rubati dalle librerie dei genitori (magari); di certo non arriva dal nulla questa esplosione di rumorismi retrofuturistici, queste atmosfere di angoscia, di rabbia, di furore, di confusione, e di spaesamento, di trans-porto. Di certo ne hanno consumati di krauti, ma anche porzioni abbondanti di prog, industrial, elettro ’80, e poi lo-fi anni novanta, postrock, e digital-pop di fine millennio. In questo disco, fatto di sei pezzi di cui tre di circa 10 minuti, c’è tutto questo: per qualcuno potrà sembrare una ruffianata, ma a me è piaciuto. Molto spaziali… Gennaro Azzollini
Action From The Basement Bloody sound/fromScratch/Sweet Teddy noise, garage / ***½
Album ufficiale e d’esordio per la band marchigiana Lush Rimbaud, oltre trentaquattro minuti di violenta agitazione elettrica. Dopo alcuni cdr autoprodotti ed un 7”, arriva (con la coproduzione di ben tre etichette) Action From The Basement, disco composto da otto tracce, vere e proprie scariche elettriche. Tommaso Pela (voce e chitarra), insieme a David Cavalloro e Marco Giaccani (rispettivamente chitarra e basso, oltre che voci) e a Michele Alessandrini (batteria), pare abbiano le idee molto chiare di cosa voglia dire suonare della buona musica. La band, formatasi a Falconara nel 1998, sembra muoversi nella giusta direzione. Brani altamente coinvolgenti come Action/Basement o Are You Sure That Totally Insured Means Totally Insured? solo per fare alcuni nomi o la magnifica track di chiusura, più tranquilla ma non per questo meno malata, Flashing Elevetor. Sono questi tutti indizi che fanno capire quanto il disco in questione sia valido, indubbiamente un buon esordio. Livio Polini
Ceephax
Volume One Rephlex electronica, experimental / ***
Da un artista proveniente dall’etichetta di AFX Aphex Twin voi cosa vi sareste
Because of the Times RCA Records rock / ***
aspettati? Ti fermi a guardare quella foto in cui Ceephax è seduto su una sedia in una piccola stanza, circondato da tastiere synth e tastierine, mixer e fili ingarbugliati e vari aggeggi un po’ vintage ed un po’ artigianali, e pensi subito che ti trovi di fronte ad un malato di febbre elettronica, un feticista del suono sintetico. La foto, molto curiosa, rende subito il personaggio simpatico. C’è da dire che Andy Jenkinson, fratello del noto Squarepusher, non ha avuto originalità nello scegliere il titolo per il suo album. Stessa cosa si può dire delle sue composizioni, carine, ma non particolarmente impressionanti, ed oltretutto un po’ ripetitive. Alle battute elettroniche (spesso veloci) si accompagnano e si fondono rumorini, interferenze, distorsioni, irregolarità a volte esplicite e a volte quasi impercettibili. Il problema, allora, è forse aspettarsi qualcosa in più? Tutto sommato un lavoro discreto. Livio Polini
Kech
Good Night For A Fight Black Candy/Audioglobe indiepop / ***½
Nuovo album per la band indiepop lombarda Kech. Dopo importanti esperienze in tour (in Italia, ma anche all’estero) e dopo due buone prove con i precedenti album, il nuovo e terzo disco Good Night For A Fight (il secondo targato Black Candy) sembra proporci un’ulteriore indicazione riguardo le buone qualità del quintetto monzese. Dieci brani pop cantati in lingua inglese, dove la voce, molto gradevole, è quella di Giovanna Garlati, a cui si aggiunge (novità) quella del chitarrista Nicola Perego. Melodie fresche, vivaci, immediate, ritmi allegri in brani spesso contagiosi, dal sapore british, oltre che stelle e strisce. Non mancano, poi, momenti riflessivi e di maggiore ricercatezza, ed è proprio per questo che il disco sembra ben riuscito. Irresistibili sono canzoni come l’allegra e coinvolgente Tidoung e la stessa Good Night For A Fight che dà il nome all’album, l’emozionante The Coup, la sensibile quanto elegante track di chiusura Things. Una sola parola: irresistibili. Livio Polini
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Faithless
To the all new arrivals Umg trip-pop / ***½
A volte (ri)tornano. Erano stati dati per finiti. Voci del 2005 li davano per sciolti, e la quasi contemporanea dipartita dei Moloko, gemelli portabandiera di un’Inghilterra elettronica d’esportazione, ha reso verosimile ogni speculazione. Esce anche il Greatest Hits a confonderti (per 8 mesi nelle classifiche inglesi). Poi, la bolla esplode. Nessuno sconvolgimento, nessun cambio di formazione. Anzi, si (ri)lanciano in pista. Tornano i Faithless, quelli del cantante spoken-poet (Maxi Jazz), del DJ dai grandi numeri (Rollo) e della tastierista trance (Sister Bliss). Rollo (ri)porta la sorella Dido, ed è show: Last This Day è canzone perfetta per ogni compilation. Fiammate insospettabili da Robert Smith che rifà Lullaby trasformandola in Spiders, Crocodiles & Kyrptonite. (Ri)scopriamo Cat Power, in forma eccellente in A kind of peace. Per il resto, la formula è quella consolidata, un po’ meno dance, un po’ più pop. Un album per tutti coloro i quali non li conoscevano. Noialtri, possiamo (ri)tornare ad amarli. Dino Amenduni
The sea and cake Everybody Thrill Jockey Records post-pop / ****
Feist
The reminder Interscope Pop ****½
Si dice che esistano album che ti cambiano la vita. E io da questo The reminder, sicuramente, ho imparato tante cose. Ho imparato quanto sia gratificante mettersi comodi, il piacere della calma, di ascoltare le cose dall’inizio alla fine non concentrandosi su altro. Ascoltando questo cd di fretta, a intermittenza, tra una telefonata e l’altra, vi sembrerà una petulante accozzaglia. Il 90% degli album attuali (2 tracce buone e tanta fuffa) li puoi ascoltare così, distrattamente. Questo no: mi sono fermato. E si è schiuso un piccolo paradiso. Leslie Feist, dal Canada, aiutata dai due connazionali Gonzales e Mocky, e da Jamie Lidell, è una diva pop (ma la cosa rimarrà fra noi, temo). Voce sensazionale, appeal assoluto, sensibilità sopra la media. Un album suonato benissimo, dove però nulla è più importante della grazia di questa cantante eccezionale. Basterebbero la coppia traccia 5, The Water, laddove sperimenta un viaggio fra numerose ottave di estensione vocale, più traccia 6, una cover di Sea Lion Woman di Nina Simone. Dove la grazia non basta, serve coraggio. Ma il meglio è dietro l’angolo: numero 8, The limit to your love. Inciso a Parigi in fretta e furia (due settimane), fa scomparire sia la fretta, sia la furia. Imperdibile. Dino Amenduni
Kim Novak
Shitdisco
Hanno preso in prestito il nome da una splendida attrice degli anni 50, ma hanno un suono che sembra innamorato degli anni ‘80. Sono francesi questi cugini degli Interpol al loro esordio discografico. A la page si dice dalle loro parti, in sintonia con quella che ormai sembra il suono di questi anni, questa onda nuova spogliata di tragedie esistenziali e un po’ più “cool”. I Kim Novak sembrano guardare con interesse e sensibilità tanto all’America (ascoltate la bellissima In the mirror e il suo retrogusto così The National) quanto all’Inghilterra (Cure, Echo and the Bunnymen, qualche chitarrina molto The Smiths). Certamente più valevoli di band molto più pompate e blasonate dalla stampa, i Kim Novak hanno dei picchi di stile e piccole cadute nel ritrito. Aspettiamo fiduciosi la maturità, intanto ce li godiamo così. (O.P.)
Rullanti, battiti di mani e una voce grave a pronunciare termini incomprensibili, poi urla isteriche e una confusione technodance ipnotizzante. Per non parlare del titolo, Kung fu. Questa la first track un po’ pazzerella di un lavoro che a quanto a pazzia non è da meno (chi ben inizia è a metà dell’opera…). Loro sono gli Shitdisco e già il nome è tutto un programma. C’è chi a questo proposito asserisce che l’intento dei quattro ragazzi di Glasgow sarebbe proprio quello di apparire più pazzi e fuori dagli schemi di quanto non siano, ma a sentirli suonare il dubbio ci resta. Anche Reactor paty, seconda traccia delle dieci dell’album appare degna di un rave party allucinogeno e psichedelico. E questo vale per gran parte delle tracce, tanto che la stampa specializzata inglese li ha etichettati come nuovo simbolo di quel New Rave tutto anglosassone capitanato da tali
Luck & Accident Talitres records brit/french pop / ***
Sopravvissuti al calderone post-rock e cresciuti bene in una città come Chicago The sea and cake sono una di quelle band controverse. Una voce fuori dal coro, tra loro una delle menti pensanti dei Tortoise, un sound che lontano dalle fughe intellettualoidi o minimal degli anni 90 ha sempre seguito una melodia dimessa e ricca di piccole divagazioni che sfiorano il jazz, indie, il pop stereolabico ma sempre con discrezione, con un delicatezza che naturalizza il tutto, lo rende fluido e scorrevole. Ed è questa l’impressione che si ha ascoltando questo Everybody, che tutti “appunto” possano lasciarselo scorrere addosso. Sensibili ma significative le percettibili variazioni che vestono i brani e li rendono sinuosi, con richiami sparsi e un touch così delicato da sembrare french. Lasciatevi accarezzare da Everybody, tutti. (O.P.)
Kingdom of fear Fierce Panda new rave / ****
KeepCool
14 osannati Xlaxons (avete presente Myths of The Near Future?? Ecco…). Kingdom Of Fear è stato prodotto dall’etichetta inglese Fierce Panda, è un album divertente se hai voglia di saltare schizzato per casa. Non ci resta che vedere cosa faranno in seguito questi quattro scozzesi scalmanati. Per ora sono impegnati in un lungo e intenso tour promozionale. Valentina Cataldo
Van Der Graaf Generator Real Time Fie Records/Self dark-progressive / *****
I Van Der Graaf Generator sono stati sin dai primi anni settanta una delle poche formazioni fedeli al verbo progressivo, stile musicale che in loro è depurato ed oserei dire emancipato dagli stereotipi tipici del rock. Certamente i Generator sono non poco debitori nei confronti dell’estrosa personalità di P.Hammil, figura artisticamente eccelsa anche da solista. La musica dei V.D.G.G. è sempre stata una miscela sonora essenzialmente cupa e decadente, ricca di atmosfere gotiche e stranianti. Protagonisti assoluti dei trip allucinati, sviscerati dalla band, sono synth, piano elettrico, flauto e sax, i quali alternano melodie dall’umore sepolcrale a sincopi e controtempi, realizzando architetture anthemiche e solenni. Dopo Present, album della storica reunion, avvenuta nel 2005, il gruppo ha intrapreso un fortunato ed appagante tour mondiale. Real Time, di fatto, rappresenta integralmente la notte londinese che a visto la rinascita, in sede live, dei V.D.G.G, nello storico teatro Royal Albert Hall. È inutile, quindi, illustrare e chiarire la materia di questo doppio live, realeses che vede nel suo intimo alcuni fra vecchi e nuovi successi riproposti in maniera onesta, senza nessun ritocco da studio. Nicola Pace
Hic Niger Est
Primo Parallelo EW Records rock, noise / ****
Secondo album per la band Salentina, Primo Parallelo è un ottimo riassunto di esperienze noise e acid-rock. Grazie alla collaborazione di Giorgio Canali si rispecchiano le influenze di gruppi storici quali i CSI e PGR, specie nella voce graffiante e accattivante del singer Gianni Garofalo, in un mix di grinta ed enfasi. Il set sonoro è lo schema classico presente nel noise, ovvero un turbine di chitarre distorte accompagnate da uno scroscio di vibrazioni travolgenti. La scaletta si svolge in modo scorrevole e sostenuto ma con il giusto contrappunto creato in
connubio a brevi parentesi riflessive, utili all’accrescimento di uno stato ansiogeno. Componente portante di questo lavoro è il caos, dettato da una struttura sonora suggestiva, dissonate, uno scroscio di note partorite di getto. Il viaggio prosegue imperterrito tra sprazzi di incubo e delirio. In definitiva un album concepito con la dovuta accuratezza e con il bisogno di esternare il disagio di un’incomunicabilità che facilmente sfocia in ira. Enrico Martello
Amethista
Realitale Chaos Path/Mastrepiece melodic-black-metal / ***
Debutto discografico per i torinesi Amethista, band con musicisti non proprio agli esordi; segnaliamo, infatti, la presenza di Aeretica, ex Dismael, Alexandros, ex Higlord e Carlos, ex Skylark. La band esegue un ferocissimo melodic-black-metal dalle penetranti venature gotiche, ingredienti che non possono non riportarci alla mente i Cradle Of Filth del fastoso e fondamentale periodo di Crulty and the Best. La brama della band, però, è di dare origine ad uno stile autentico e personale, legando classic-heavy, black e goth, nel miraggio di concretizzare un nuovo e rigenerato black-metal. In Realitale, evidentemente, lo scopo prefissosi è stato appena sfiorato, ma le premesse per un futuro più roseo ci sono tutte. Nicola Pace
A.C.T.
Silence Inside Out/Audioglobe hard-rock progressivo / ***½
L’hard-rock degli anni ottanta non è morto, lo testimonia la formazione svedese degli A.C.T. Giunti al quarto capitolo discografico il gruppo è riuscito a dare prova tangibile della propria preparazione tecnica, riuscendo a realizzare venti composizione dall’indiscutibile valore. Silence sfiora a dir poco la perfezione produttiva, compositiva, espressiva e tecnica. Molto coinvolgenti sono le parti cantate, soprattutto nella ricerca di chorus appetibili e coinvolgenti. Chi ascolterà il disco mi darà ragione, gli A.C.T. sono dei grandi musicisti, ma soprattutto magnifici arrangiatori, capaci di elaborare e plasmare, come fosse materia concreta, eccellenti e complesse idee circoscritte in pochi minuti, senza inseguire, per forza di cose, la strada della lunga durata. L’unica composizione di ampia estensione è Consequenses (the long one), episodio diviso in nove piccole cellule musicali, le quali mettono in luce l’attitudine progressiva della band, alla prese, in questo frangente, con fraseggi intricati e trascinanti. Tuttavia, non posso parlare di Silence come di un master, cioè, di un lavoro che passerà alla storia, poiché in se ha rimandi, inconsci e forse indiretti, ad altre realtà dalla gloriosa carriera. Nicola Pace
Von Spar Von Spar Tomlab ??? / ****
Davvero uno strano disco questo. Roba tedesca, e si sente: due soli lunghissimi brani per lo più strumentali, avventurosi e psicanalitici. Una intro claustrofobica da 2001 odissea nello spazio, poi un crescendo tribale angosciante, delle urla lancinanti, lame taglienti, bisbigli da horror-movie anni ‘70, elettronica da primissima warp, rumorismi da sperimentazione di metà ‘900 (Bartok, Ligeti), chitarre lancinanti che provengono dallo spazio profondo. Poi una evoluzione verso una ossessiva new wave dei primi ‘80. Il tutto prolungato fino alla pazzia. Un primo pezzo questo, intitolato Xaxapoya, che ti mette alla prova psicofisicamente. ma allo stesso tempo è splendido. Il secondo brano, Dead voices in the temple of error, seppur si sviluppi ancora magnificamente nei territori misteriosi dell’inconscio, pecca per un evitabilissimo siparietto dark ghotic brutale(ma questo è un giudizio personale: dopo tutto anche questo genere ha come caratteristica quello di risvegliare sensazioni profonde e nascoste della psiche). A parte questo il lavoro è davvero interessante. Gennaro Azzollini
KeepCool At swim two birds
Returnuing to the scene of the crime... Green Ufos indie / ***
Se dovessi pensare a una reazione, sarebbe il silenzio. Non mi è mai piaciuto urlare, neanche la disperazione, mi piace assaporarla e raccontartela, solo a te, a bassa voce. Potrebbero essere queste le parole di Roger Quigley per spiegare la sua musica. Uno di quei perdenti ed eterni maledetti, padroni di una voce e di una poetica rare. Una sorta di moderno Morrisey, rauco per le troppe sigarette, fedele a una chitarra e a quel poco che basta per scrivere canzoni. Dopo l’esperienza con i Mongolfier brothers e una carriera solista sceglie il nome di At Swim two birds per nascondersi e sempre e solo la musica per svelarsi a noi. Questo Returning to the scene of the crime è intriso di uno spleen che è sincero. Non è un disco facile ma è qui a dimostrare che nulla, alla fine, lo è. (O.P.)
Hiromi Uehara
Time Control Telarc free-jazz-fusion / ***
Ventiquattro anni e classe da vendere, al quarto album e due mani al plutonio Hiromi si presenta con un album duro alle orecchie pigre; tanta tecnica, forse troppa, la pianista si avventura in percorsi molto contorti nella composizione ma anche nell’esecuzione dei brani che vedono un ruolo di primo piano anche per la chitarra (per la prima volta strumento stabile) di David “Fuze” Fiuczynski che imprime un approccio più marcatamente fusion. Naturalmente non mancano gustosi guizzi elettronici con synth di stampo techno, ma in complesso si può dire che lo spessore artistico della sua discografia non si è alzato di molto, forse Hiromi ha solo aggiunto un buonissimo lavoro zeppo di esercizi e rompicapo per musicisti professionisti e aspiranti tali. Giancarlo Zanca Bruno
Ivan Vicari
Colpo di coda Club Records jazz / ***
Colpo di coda è piacevole, ben congegnato, quantunque non sia un lavoro eccellente. Il suono di Ivan Vicari all’hammond è imponente, e difatti risulta più efficace nella creazione di tappeti sonori - ricordando un po’ il Gregg Rolie dei primi dischi dei Santana -; gli intrecci ritmici delle congas di Karl Potter (un autentico ve-
15 terano, e non solo della scena italiana) contribuiscono a un sano groove; e peccato per un sassofono troppo spesso privo di smalto. L’auto-definizione di afro jazz trio è un po’ artefatta ma rende l’idea di un disco che pittura un’atmosfera rovente e sudata. Anche se mancano grossi picchi, Colpo di coda, nel complesso, svolge la sua funzione di rilettura, offrendo una contaminazione di alcuni classici (tra cui Billies’s Bounce di Charlie Parker, Mimosa di George Benson) e una manciata di temi originali (da ascoltare la maliziosa Starter) con sonorità moderne, etnicamente ispirate, e un piglio tipicamente soul jazz. Gianpaolo Chiriacò
Raffaele Vasquez
Giuliano Autoproduzione contemporanea / ****
Una breve rassegna di quello che Raffaele Vasquez sa fare; e un assaggio di quello che farà. Pianista, compositore e ironico interprete di se stesso, Vasquez attinge al vasto campionario delle colonne sonore contemporanee (a quelle di Michael Nyman in primis), con un lirismo mai circoscritto, né autoreferenziale, bensì aperto, suggestivo e arioso. I brani si sviluppano attraverso piccole variazioni delle
melodie, parsimoniose e acute, lasciando alle note il compito di colorare spazi emotivi e di imprimersi nella memoria. Il nostro si muove in maniera leggera, ma senza tralasciare la lezione di Steve Reich giacché è in grado di spostare di continuo (e forse anche inconsapevolmente) il senso ritmico delle sue frasi. Il violoncello di Redi Hasa, poi, sostiene e approfondisce senza mai invadere lo spazio del protagonista principale. Raffaele, dal canto suo, non è ancora un professionista completo: dovrà lavorare ancora per rischiarare lo stile, per arricchire la varietà delle sue creazioni, per rendere più sicura l’esecuzione; ma l’incoscienza, il coraggio, l’understatement, il talento - e una buona dose di humour, messa in mostra dal vivo - lo accompagneranno in un percorso che pare già avvincente. Gianpaolo Chiriacò
Ratafiamm
Pausa Promo Music cantautorale Italiana / ****
Si accoglie con grande piacere il nuovo passo compiuto dai Ratafiamm. Una voce più lacerata, arrangiamenti più accurati, le squisite interpolazioni del violino, e una volontà rafforzata dalla vittoria al concorso nazionale dedicato alla memoria di Piero Ciampi sono le nuove armi della band. La loro crescita è sotto gli occhi di tutti: vengono meno le impurità, le insicurezze ed emerge una delicata attenzione per i volumi - quel sapiente ondeggiare tra forte e piano, in sintonia con il testo e (soprattutto) con l’interpretazione del vocalist che troppo spesso in Italia viene trascurato. Qui, invece, i Ratafiamm non solo ne fanno un tratto stilistico fondativo, ma ne approfittano per dilatare il significato delle preziose parole e della grana vocale
Jonny Greenwood The controller Trojan reggae / ***½
Il reggae e i Radiohead: due mondi paralleli? Niente di più sbagliato. A mescolare le carte ci aveva già pensato il progetto Radiodread degli Easy Star All Stars, che avevano riarrangiato Ok Computer. Ora le linee parallele si incrociano in modo ineludibile con questa compilation celebrativa per i 40 anni della Trojan, l’etichetta-simbolo del genere. Jonny, chitarrista (e molto, molto di più) dei Radiohead, fan accanito della musica dub, ha pescato 17 tracce dall’infinito archivio della label e ha costruito una tracklist che farà felici molti dj in previsione dell’estate, stagione “eletta” per le dance hall. Su tutte, due tracce meritano menzione: I’m still in love di Marcia Aitken, perché se vi è piaciuta la versione di Sean Paul, qui impazzirete, e Fever di Junior Byles, che non teme confronti con l’oramai classico pop di Peggy Lee. Poi, bastano i nomi: Gregory Isaacs, Lee Scratch Perry, Marcia Griffiths. Esplorate tutte le dimensioni (standard, roots, dub) di un genere che ha fatto la storia della musica e continua a farla. Un po’ come i Radiohead. Magari Thom Yorke non si farà crescere dreadlocks, ma forse qualche sigaretta corretta in più se la fumerà. Indispensabile per gli appassionati, fortemente consigliato anche ai novizi. (e date un’occhiata alla copertina!). Dino Amenduni
KeepCool
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Neil Young
Live At Massey Hall 1971 Reprise/Wea Folk / *****
di Enrico Cibelli. Lo stile continua a essere imperniato su un continuo rollio (tempi composti, per gli addetti ai lavori), che restituisce un’immagine circolare di ciascuna canzone e favorisce l’oscillazione di cui sopra. Dopo il demo uscito nel 2005, un promo di quattro canzoni nel 2007, speriamo di non dover attendere altri due anni per il primo ellepì ufficiale. Gianpaolo Chiriacò
Jimi Tenor & Kabu Kabu Joystone Sahko funky-jazz-lounge / ****
Dopo aver collaborato al disco soul più bello di questi ultimi anni (Keep’reachin’up di Nicole Willis) Jimi Tenor, uno dei compositori più eclettici attualmente sulla piazza, mirabolante miscelatore di generi, torna con un disco che dichiara amore spudorato agli anni 70 e alle colonne sonore. Per farlo, non rinunciando in questo modo alla sua propensione verso la sperimentazione, fa incontrare alcuni trai migliori jazzisti finlandesi e Kabu kabu, trio di percussionisti africano. Mai matrimonio così assortito e ben riuscito. L’effetto è sorprendente: il disco si muove tra funky, orgasmiche e sinuose atmosfere da b movies, l’africa di Fela Kuti, il jazz, ritmi più latin. Un tuffo nel passato fatto di suoni supersonici, progressioni sincopate e ritmo, tanto ritmo. Ironico, avvincente anche per le orecchie più esigenti Joystone è energia, tutta quella che
Dopo essere partito direttamente dal secondo volume tralasciando di sana pianta il primo, Neil Young continua coerentemente (si fa per dire) a scavare nei suoi archivi con la pubblicazione di un terzo volume che raccoglie una celebre esibizione datata 19 gennaio 1971 che vede il canadese in solitaria sul palco del Massey Hall di Toronto, supportato unicamente dalla chitarra acustica o dal pianoforte. Oltre a pezzi che all’inizio del ’71 sono già piccoli classici (Down By The River, Cowgirl In The Sand, Ohio, I am a Child) Neil presenta canzoni fino a quel momento inedite, che dopo qualche mese vedranno la luce su uno degli lp più celebrati e discussi della storia del rock. Quell’Harvest di cui questo concerto porta i prodromi perché, per dirla con Bertoncelli, “Neil in quel momento pensava solo a quel disco”. Certo che si rischia di rimanere stecchiti durante l’interpretazione al piano del medley A Man Needs a Maid/Heart Of Gold (la seconda sarà la canzone più rappresentativa del cavallo pazzo per almeno un ventennio, la prima sarà nel disco in studio drammaticamente affogata dagli archi di quel pazzo fottuto di Jack Nietsche). Certo che, quando Neil intona la prima strofa di Heart Of Gold bisogna essere proprio dei cuori di pietra per non sciogliersi. Succede pure con The Needle and The Damage Done, la più celebre autodenuncia mai fatta da un junkie, che oggi molti di noi considerano quasi un clichè ma al Massey Hall, quel 19 gennaio di 36 anni fa, era come un bimbo che muoveva i primi passi e scandiva con fatica le prime parole. Insomma, un live essenziale, con passaggi magnifici e una resa sonora non eccelsa ma accettabile. Non solo per fan dunque, perché a conti fatti questo dischetto rappresenta un piccolo pezzo di storia di uno di quei musicisti che - caso raro - ha influenzato quasi tre generazioni di rockers. Ilario Galati un decennio ( i 70) ha saputo esprimere. Tutto in 12 tracce da non perdere. (O.P.)
David Vandervelde
The Moonstation House band Secretly Canadian glam / ***
E se Marc Bolan mettesse un banjo a sostegno di un riff tagliente e deciso? Se tutto questo a distanza di anni suonasse ammaliante come un tempo affogato in un andamento trascinato e trascinante? Beh, saremmo a casa di David Vandervelde, distesi tra i vinili del miglior Bowie. Questo suo The moonstation house band è un salotto di memorabilia vintage veramente confortevole. Come la bellissima ballad Feet of a Liar lontana come i 70 che annega tra archi, echi e tintinnii. Da qualche parte fanno capolino
anche le asprezze di un Lennon romantico. Ascoltate il funambolico giro di basso di Can’t see your face no more per capire che il rock and roll è motore immobile da cui tutto parte e si trasforma. In questo caso il risultato è un disco godibilissimo per nostalgici o hippy dell’ultima ora. (O.P.)
The Second Grace The Second Grace OTR Music folk–pop / ****
The Second Grace è un fiore sbocciato tra le pietre, quattro palermitani con un animo folk, un approccio nordico e sangue mediterraneo. I nomi citati per descrivere il gruppo sono molti e altisonanti, Nick Drake, Bob Dylan, etc. ma il loro è un piccolo carillon che funziona perfettamente da solo senza bisogno di paragoni. The Second
KeepCool
Grace è il primo album ufficiale del gruppo, e tutti i brani sono stati composti dal bel cantante e chitarrista acustico Fabrizio Cammarata che in queste quattordici bomboniere trasmette tanta dolcezza e benessere senza concessioni a facili banalità; la scelta della lingua inglese, poi, si rivela assolutamente appropriata per l’armoniosità del cantato. La formazione (due chitarre, basso e batteria) standard e compatta esprime lo stesso calore del disco anche dal vivo e accompagna attraverso storie dipinte con caldi colori ad acquarelli dai contorni dolcemente sfocati; brani come Antamanarine (il singolo che accompagna anche uno spot televisivo di tortellini), Rainbow as my Hat, Like a Juliet o Little Boy Sayin sono fresche perle che brillano di luce propria. Consigliatissimo. Giancarlo Zanca Bruno
Naked Musicians
A sicilian way of cooking mind Improvvisatore Involontario avanguardia / ***
Non sono mai stato un grande amante dell’improvvisazione, né del jazz in generale, pertanto non sarei proprio il tipo adatto per recensire questo disco, ma il progetto in sé è interessante, e il prodotto finale neanche tanto malvagio, tanto più se si pensa che si tratta di soli musicisti siciliani più un sardo (ma questo è un pregiudizio, la Sicilia ha da sempre sfornato musicisti buono-ottimi, e inoltre, se gli italiani con il rock stanno proprio frecati, in ambito jazz e avant hanno più di una carta da giocarsi). Insomma c’è questo Francesco Cusa che, come ci spiega nelle note introduttive del disco, ha raccattato tutta una serie di compagni e colleghi sparsi nell’isolotto e li
17 ha convinti a eseguire in due giorni questa cosa che lui definisce ‘conduction’, cioè un sistema non convenzionale di direzione: in pratica, non pura improvvisazione, ma una esecuzione libera fondata non su una successione di note bensì di simboli inventati ex-novo. Il risultato è simpatico e per fortuna manca di quella spocchia che di solito caratterizza i musicisti intellettualoidi. C’è poi questa citazione di Reich (quella di Zorn è abbastanza evidente) in In morte al sistema mal temperato (ma anche nel sottotitolo: music for 24 musicians), che me lo ha reso simpatico subito. Gennaro Azzollini
Libera Velo
Riffa Octopus Records pop, folk, elettronica / ***
Dopo la collaborazione con i 24 Grana, la singer Libera Velo si dedica al progetto solista Riffa. Resta vivo il rapporto esecutivo e stilistico della vecchia band (grazie comunque alla produzione artistica del batterista Renato Minale). Il disco mostra una moltitudine di sfaccettature grazie ad un efficace intreccio di momenti analogici ed elettronici: tappeti psichedelici e batterie campionate aderenti a chitarre elettriche, spesso rockeggianti, utili ad intorpidire l’ambiente sonoro.La voce regna enfatica ed eclettica spaziando tra influssi di jazz Sottile piacere ed etnica – partenopea Mura antiche, in un mix che rimarca nomi illustri quali Meg ed Erika Badu. Ma la costante dell’album è il suo aspetto prettamente mediterraneo, tra onde di sperimentazione elettronica We dance in a baton charge accostata armoniosamente a set acustici e folleggianti Ballata Felix.L’atmosfera si riscalda nel progressivo ascolto dell’opera. Come un sentiero che parte dalle periferie di Napoli, passa tra le mura dell’Officina 99 e si dirama nei meandri di un labirinto composto da compartimenti di musica d’autore ed accuratezze atmosferiche. Molto gradevole all’ascolto. Enrico Martello
Museo Kabikoff
Brilliant Cagnara Videoradio/Erazero rock / ***
Citano Primus, Tom Waits, Tool, Vinicio Capossela e Alfred Jarry come influenze, cantano in italiano pur essendo anni luce lontani da “costruzioni cantautoriali”, fanno un discreto rumore e scrivono testi essenziali ma significativi su architetture sbilenche e progressive. Brilliant Cagnara dei milanesi Museo Kabikoff non è un disco che lascia certo indifferenti. Potranno non piacere, potranno essere faticosi da seguire nei loro sali-scendi vorticosi, ma hanno innegabilmente più di qualche freccia al loro arco. E la consapevolezza di queste innegabili qualità è già bene evidente a partire dall’incipit di Specchi Rotti. In altri casi le melodie non sono proprio di prim’ordine e la voce della brava Chiara Oakland Castello rischia di farci arrivare alla traccia conclusiva piuttosto esausti, ma di sicuro i loro pezzi stimolano, provocano e seguono la strada meno facile pur di uscire dagli schemi stantii del rock italico. Ilario Galati
May I Refuse
Weather Reports Black Candy Records emorock, indie / *****
La Black Candy è una delle maggiori colonne portanti nel panorama italiano dell’indie rock (Tra le sue produzioni: Milaus, Fine BeforeYou Came, Kech). Una delle ultime novità partorite da questo magico grembo è quella dei May I Refuse, un perfetto esempio di musica scaturita dall’animo, dove ogni nota segue la scia delle emozioni e si dilegua nella dimensione del sogno. Il punto fermo di questo lavoro è un’atmosfera soffusa, sospirata ma dal forte impatto emotivo grazie a degli arrangiamenti che non hanno nulla da dimostrare, completamente convenzionali, ma con un set di strumenti che si suddividono le parti come i fili di un ricamo. è la musica che prende il sopravvento grazie a delle melodie intense che sfiorano la pelle fino a sfociare in un brivido lungo la schiena. è un viaggio lungo diste-
KeepCool
18 se sconfinate che picchiano un orizzonte lentamente abbracciato dal sole mentre tramonta. Cercare di etichettare con uno stile questa band è un lavoro del tutto funzionale, utile per un qualunque archivio X, in modo da poterli catalogare accanto ai nomi dei grandi giganti del pop-rock alternative targato UK. Ma va dato atto ai quattro giovani fiorentini che, aldilà del genere, la loro musica è dettata dal cuore e dalla ricercatezza delle loro chiavi espressive. Un progetto dagli ottimi propositi che, con la dovuta maturazione, potrà aspirare a raggiungere il prestigio di artisti come Radiohead o Jeff Buckley. Enrico Martello
Joyfull Family Pop corn Re>>vox house /***
Si intitola Pop Corn il singolo per l’estate 2007 del gruppo leccese di dj e producer Joyfull Family. Il progetto, completato dal remix di S t e r e o v o x (Andrea Bertolini e Ivano Coppola), si ispira al leggendario e omonimo brano strumentale pubblicato nel 1972 da La Strana Società (cinque milioni di copie vendute, quattordici settimane di permanenza
al primo posto in Hit-Parade e sigla ufficiale della Domenica Sportiva per 2 anni di fila). Il lavoro del team salentino, anche se concettualmente si ispira all’omonima traccia degli anni 70, risulta un adattamento in chiave house, con palesi riferimenti al filone trance, di un complesso tema melodico costruito ex novo e incastrato in una stesura ritmica semplice e dritta che lascia intendere chiaramente forti influenze derivate dal genere deep statunitense. Anche questa volta l’etichetta che ha pubblicato l’ultima fatica di Cristian Carpentieri, Guido Nemola e Chico Perulli sarà la milanese Re>>vox, la label italiana più importante del settore. Matteo Micelli (Time Music Milano)
Calvin Johnson & The Sons Of The Soil Calvin Johnson & The Sons Of The Soil K-Records indie / ***1/2
Con questo disco Calvin scava nelle radici della musica americana, quelle radici che è possibile trovare solo dopo una lunga escursione tra le polverose città di quel west magico-mitico, sempre grande fonte di ispirazione. L’apripista del disco è Lies Goodbye un Rockabilly anestetizzato che sembra essere una danza indiana propiziatoria per il richiamo degli spiriti. In Love Travel Faster la voce atonale, cavernosa di Calvin marchia
indelebilmente un percorso introspettivo a ritroso che approda all’America degli anni ’50, sotto la cui facciata erano già in azione, quasi segretamente, quegli insetti decompositori che priveranno pian piano le generazioni future dei propri valori. È un’operazione nostalgica quella di Calvin, è il desiderio di ritrovare quel fuoco di bivacco, quelle atmosfere rurali, di un tempo spensierato ormai lontano. Banana Meltdown è un R&B indiavolato e bruciato da una chitarra che sembra quasi un sax in bassa definizione, Cattle Call Pt1 & 2 sono discussioni sul folklore americano e What Was Me è l’ultima traccia dove Calvin si allontana in quel sotterraneo che è la cultura indipendente americana, che sembra essere oggi, un serpente che si morde la coda. Vincenzo Schirosi
KeepCool
Stato di grazia per Simone Cristicchi. L’affermazione al Festival di Sanremo (meritata e condivisa da pubblico e critica, come non succedeva da molti anni) ha scaturito un effetto domino grazie al quale il cantante romano può ora sperimentare diverse soluzioni artistiche. Ne è la prova il suo Centro di Igiene Mentale, spettacolo a metà strada tra il teatro e la musica. Il tour ha fatto tappa anche in Puglia (Bari, Teatro Piccinni, 29 aprile). Ciao Simone, come stai vivendo il rapporto con il successo? Cominci a sentire la pressione o riesci ancora a divertirti? Non parlerei di pressione, perché il successo ha tante sfumature. C’è il successo di pubblico, ma anche le gratificazioni quotidiane, le possibilità che ti si aprono, che ti permettono di amare il tuo lavoro e divertirsi. Come pensi che il tuo pubblico “nuovo”, quello del Festival di Sanremo, più adulto, percepirà il tuo lato più ironico, che è parte del tuo modo di far musica allo stesso modo di quello impegnato? In realtà il pubblico è cambiato del tutto. Soprattutto per quanto riguarda Centro di
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Igiene Mentale, in cui oltre alla musica ci sono dei monologhi in cui interpreto lettere e discorsi di malati mentali: è capitato il bambino che ha aspettato fino all’ultimo la canzone spensierata, che non c’è stata. Quale la traccia del tuo nuovo album Dall’altra parte del cancello a cui sei più legato? Legato a te. È dedicata a Piergiorgio Welby, alla sua vicenda personale. Infatti nel testo della canzone ho immaginato un dialogo tra Welby e la macchina che lo teneva in vita anche contro la sua volontà. Una macchina che per molti anni è stato l’unico legame con la vita stessa. Pensi che il tuo impegno in problematiche a forte rilevanza sociale si focalizzerà ulteriormente sul tema della malattia mentale o pensi di poterti o volerti occupare di altre tematiche? È difficile dirlo da adesso. Di sicuro il mio presente è completamente focalizzato sul tema della malattia mentale, lo dimostrano la canzone di Sanremo, il documentario, lo spettacolo teatrale. Mi piace analizzare molto bene le cose di cui mi occupo, e farei così anche in futuro se dovessi
concentrarmi su altre tematiche. Però non lo escludo, l’esperienza e le opportunità potrebbero aiutarmi in questo senso. Sei un profondo conoscitore ed amante della Bossanova: la ascolti correntemente? Ti influenza nel tuo essere cantante e musicista? Si, sono un grandissimo amante di Caetano Veloso. E anche le nuove leve, Marisa Monte e Adriana Calcanhotto, mi piacciono molto. Un richiamo alle sonorità brasiliane è presente anche in Manet (canzone dell’ultimo album) e anche nel mio primo album c’era una canzone samba. Ma soprattutto, sto studiando chitarra cercando di acquisire la grazia e la dolcezza della bossa. Come o dove ti immagini fra 10 anni? Non saprei! Come ti dicevo prima, molto dipenderà dalle possibilità e dalle opportunità che mi si apriranno. Comunque sia, a parte la carriera da cantautore, mi vedo bene a gestire un agriturismo! (ride, n.d.r.) Dino Amenduni
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Fiorentini, nati alla fine degli anni 90, i May I Refuse giungono con Weather Reports al secondo lavoro in studio. Perchè May I Refuse? Perchè ci siamo ritrovati a ricostituire la band e non avevamo un nome. Al tempo ero particolarmente affascinato dallo spazio e, per l’appunto, c’era la stazione orbitante MIR. Di lì a poi May I Refuse, nome molto adatto all’hard core-punk che suonavamo allora, genere a cui siamo ancora affezionati. Quindi le vostre radici non riguardano tanto l’indie o la scena alternative britannica... No, non molto. Non sono influenze che sentiamo particolarmente. Certo, suonando siamo portati a non avere influenze dirette, ma magari a livello “inconscio” queste ci sono. Io mi limito ad ascoltare gli Smiths ed i Clash. Allora parlatemi dei vostri inizi... Beh è la solita storia di un gruppo di ragazzini di 16-17 anni che hanno un sacco di tempo da perdere e tanta voglia di divertirsi. Il Punk rock fu una scelta obbligata, era la musica più presente nell’aria in quel momento. Personalmente mi ci sento ancora legato, gli altri decisamente no. A cosa è dovuta quindi questa vostra dipartita dal punk? Innanzi tutto il cambiamento di stile è dettato da una forma di maturazione, ha contribuito anche l’inserimento nel line-up di Davide, il nostro nuovo chitarrista, che ha portato nuove influenze. Ho notato che non amate particolarmente essere etichettati come genere, come vi definireste? Non saprei? Sexy rock? Il fatto è che spesso e volentieri veniamo etichettati come gruppo Emo, che forse è una peculiarità del nostro primo disco. Ma non amiamo porre dei paletti alle nostre composizioni, preferiamo definirci quattro ragazzi che semplicemente fanno musica. E parlando di musica, come nascono i vostri brani? In sala prove, ognuno di noi propone dei frames o dei giri e sviluppiamo man mano le parti. Bisogna comunque dare atto a Poldo, il nostro singer, di essere il punto di riferimento maggiore in ambito compositivo. Parliamo un pò di Weather Reports, com’è strutturato?
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Diciamo che si tratta di un mezzo concept, ovvero un filo conduttore legato al clima e al tempo, solo che non raccontiamo un’unica storia. Le canzoni si susseguono concettualmente ma possono essere anche slegate dal contesto. Ciò è dovuto al fatto che i pezzi sono stati scritti in momenti diversi, ed ogni composizione ha risentito dei propri tempi di scrittura Quali sono le novità rispetto al lavoro precedente? Sono lavori profondamente diversi. Nel primo disco c’era una certa irruenza, era un disco di “stomaco”. Quest’ultimo è più cerebrale, più studiato. Sicuramente presenta una cura maggiore per l’arrangiamento, un attenzione a certi dettagli che prima, un po’ per ingenuità ed un po’ per scelta, non avevamo. E decisamente un maggiore apporto melodico. Come vedete il panorama musicale italiano in rapporto alle band emergenti? Trovo che ci siano gruppi con un grande potenziale come ad esempio i Velvet Score e A Toys Orchestra. Il tutto sta nel vedere come vengono accolti dal pubblico e quali possibilità avranno per essere ben visibili. Questo è il grande problema del mercato musicale indipendente italiano. Puoi anche essere un musicista in gamba, ma se hai poche possibilità di suonare, difficilmente il mondo si accorgerà di te Com’è il vostro rapporto con la promozione telematica (myspace, you tube...)? Molto buono, sono dei mezzi particolarmente efficaci per dare ad un artista emergente visibilità ed un notevole feedback da parte degli ascoltatori. Non siamo una band attivissima su internet, ma siamo somunque ben presenti. Chiudo con una domanda di rito: progetti futuri? Suonare, divertirci e conquistare l’Italia. Stiamo per altro iniziando a scrivere i pezzi del nuovo lavoro, ma ma sembra prematuro parlarne. Speriamo inoltre che alcune delle nostre date tocchino il Salento anche perchè ci mancano da morire i vostri rustici, mi hanno rovinato la vita, da queste parti non si trovano. Lasciami un’ultima perla Rustico is the reason! Enrico Martello
Ho detto a tua mamma che fumi è il titolo del primo cd di Kama, nomignolo dietro al quale si nasconde Alessandro Camattini che, dopo una lunga carriera come batterista in giro per l’Italia, è approdato a questo lavoro solista, uscito per la Eclectic Circus. Undici canzoni che denotano ironia e intelligenza nei testi e poliedricità nelle musiche. Perché questo titolo per il tuo cd? Il titolo è venuto alla luce un po’ per caso. Alebasso se ne è arrivato in studio con questo Ho detto a tua mamma che fumi e ha colpito un po’ tutti. Ci pensai qualche giorno e poi lo aggiudicai. Ancora adesso mi piace, mescola tutti gli ingredienti del disco: ironia, semplicità, criticismo, bastardaggine… in più mi ricollega al periodo delle medie, alle sigarette fumate di nascosto a spasso per la mia città, alle dozzine di caramelle alla menta ingurgitate, alle annusate di mia madre… Questo è un disco che parla di cose semplici analizzate restando il più possibile fuori dal coro, lontano dai luoghi comuni… Imprevedibile come uno stronzo che dice a tua mamma che fumi! Raccontaci un po’ di te. Come inizia la carriera di Kama, come proseguirà… Ho suonato la batteria per tanti anni, dapprima con alcune band poi come turnista. Poi stanco decisi di smettere e di dedicarmi ad altre priorità della mia vita che avevo trascurato (l’amore, l’università, il lavoro). Ma la musica è come una di quelle gomme da masticare del discount, che si attaccano al lavoro del tuo dentista, alle dita, ai vestiti e che non riesci a scrollarti di dosso… Così Alebasso e Iki (attualmente bassista e chitarrista del tour) dopo aver sentito le mie canzoni mi spinsero a registrarle. Da lì ad un anno ho firmato il contratto con Eclectic Circus… il
primo singolo e video (Ostello Comunale)… MTV… il disco… il tour… etc etc… Qualche giorno fa è uscito il terzo singolo/video, Sapore sapido (lo potete trovare sul mio sito www.alekama.it) che presto verrà programmato in radio e in tv. Poi tour e intanto si pensa al secondo disco. Nel tuo disco ci sono numerose influenze (almeno quelle che ho percepito io) dagli anni ‘60 alle nuove e vecchie generazioni della musica d’autore (Rino Gaetano, Moltheni, Bugo e Amerigo Verardi), dai Beatles a Beck. Qual è il tuo percorso, quali sono i tuoi punti di riferimento? Sono cresciuto ascoltando i Beatles, Mozart e tutta la scuola dei cantautori italiani... erano gli anni buoni, quelli di Gaetano, Bennato, De Gregori, Bertoli, Graziani, Nannini, De Andrè, Dalla. Una serie infinita di capolavori che mi son portato fino ad oggi. L’abbigliamento di un fuochista di De Gregori, per esempio, che ho registrato con Bugo, l’ho cantata a memoria nonostante non l’ascoltassi più da 15 anni! Insomma mi piacerebbe essere annoverato tra i cantautori italiani moderni, perché trovo anacronistico suonare ancora le canzoni “all’italiana” facendo finta che Beck e i Radiohead non siano mai esistiti. La loro è stata una rivoluzione copernicana… Ho letto da qualche parte che saresti interessato a scrivere musica per i film. Con quali registi ti piacerebbe lavorare e collaborare? Vorrei scrivere musiche per una commedia italiana. Mi piacciono i film italiani, (anche se smetterei di chiamare sempre Margherita Buy e Stefano Accorsi…), quelli che parlano di adolescenti mai cresciuti, di mogli in rivolta, di grandi amicizie che finiscono e poi ricominciano… Mi piacerebbe cimentarmi nella scrittura di canzoni dedicate ad immagini, sarebbe una novità, mi darebbe
nuovi stimoli. Credo che le mie canzoni si prestino particolarmente… (poi magari il risultato sarà pietoso, ma che c’entra!) Cosa ascolti? Quali sono le realtà più interessanti nel panorama italiano secondo te? Credo che Samuele Bersani abbia dimostrato che la canzone italiana sia capace di rinnovarsi, di unire generazioni lontane, gusti differenti, anche scrivendo in maniera elaborata ed intelligente. Rifugge dai luoghi comuni, scrive musiche semplici e allo stesso tempo nuove, diverte… Dalla musica indipendente italiana, in questo momento, mi sento molto poco rappresentato I tuoi testi sono molto ironici. È una tua necessità? Hai mai avuto a che fare con dei bimbi? Imparano giocando perché giocando si pongono domande che altrimenti non si sarebbero mai manifestate. Gli adulti sono ancora di più sulla difensiva, competitivi, piuttosto presuntuosi, autocentranti. Credo che per penetrare questa diffusa barriera di diffidenza non ci sia altro modo che ridere tutti insieme delle idiozie che reiteriamo giornalmente. Ridi oggi ridi domani, il dubbio si insinua… Qual è oggi il ruolo del cantautore? È una definizione che ti piace? Indubbiamente una domanda tosta… Mi piace molto la definizione e mi piace immaginare che le canzoni siano opere che abbelliscono il mondo. Spero che il mio passaggio sulla terra e i miei dischi lascino questo pianeta un pochino più bello di prima. Forse è un po’ presuntuoso, ma è quello che dà significato alle mie giornate. Pierpaolo Lala
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Il viaggio della nostra rubrica Salto nell’Indie, dedicata alle etichette indipendenti, prosegue con la My Honey. Miele e musica, un’associazione insolita. Ce ne parli? Non così strana, se si pensa che mio padre è apicoltore, ed io sono un appassionato di musica indiepop, probabilmente il genere musicale più dolce che esista! Quali sono le caratteristiche del vostro catalogo e quali quelle del vostro miele? È un catalogo decisamente Indiepop, i nostri eroi locali sono i bresciani Le man avec les lunettes, poi tanti gruppi stranieri: dalle adorabili Rough Bunnies, agli elettropoppers Mutt Ramon, alla deliziosa Soda Fountain Rag fino agli shoegaze Mixtapes & Cellmates. Usciranno a breve i chiacchieratissimi My Awesome Mixtape, una promettente band bolognese. Per quanto riguarda il miele, produciamo principalmente castagno, acacia, millefiori, tiglio e melata, tutti mieli tipici delle valli bresciane. Un’etichetta nata per appagare più sensi, indipendente, aperta al mondo…come vi muovete? Da dove siete partiti? È nata inizialmente per promuovere e sponsorizzare i Le man avec les lunettes, poi la cosa mi è piaciuta ed ora in catalogo ci sono molti artisti stranieri. Ho scoperto la maggior parte di questi gruppi attraverso internet, e grazie a siti come indiepop.it e ad altri blog specializzati. Sembra che il vostro marchio di fabbrica sia comunque il pop, nelle sue varie forme ma comunque pop. Cos’è, secondo voi, oggi, il pop? La parola pop è vista molto spesso come un termine negativo all’interno della scena indie. Viene erroneamente confusa con la musica da classifica, mentre in realtà il mondo dell’indiepop è veramente sotterraneo, e credo che il saper scrivere una bella melodia molto semplice di questi tempi è una cosa rara e da non sottovalutare. Dove nasce l’idea di una compilation come Let it bee? Come avete coinvolto tutti i partecipanti? Volevo fare una compilation diversa dai soliti sampler, e così ho chiesto ad alcuni gruppi che stimavo, di scrivere un pezzo a tema, ed il tema naturalmente è quello delle api, del miele e dell’apicoltura in generale. I gruppi li ho coinvolti in modo molto semplice: via e-mail e con myspace. In questi casi internet aiuta molto! Come definiresti Le man avec le Lunettes? È la vostra prima produzione full lenght? Loro si autodefiniscono come un progetto italiano con un nome francese che canta in inglese! Il loro è un suono decisamente indiepop con influenze ’60 e sono molto apprezzati anche all’estero (hanno suonato al prestigioso festival di Emmaboda, in Svezia). Le man avec le Lunettes ? è il primo disco sulla lunga distanza dei Lmall e della My Honey. Indie band e indie label italiane che vi piacciono? Tra le band: Yuppie Flu, Fitness pump, Giardini di Mirò, mr. 60 e tanti altri. Tra le etichette: Best Kept Secrets, Kirsten’s postcard, Homesleep, Unhip, Zahr, Wallace… Osvaldo Piliego
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Torna anche quest’anno l’appuntamento con uno dei festival internazionali più esaltanti dell’estate, il Primavera Sound di Barcellona. Nell’avveniristico spazio sul mare del Forum si susseguiranno centinaia di artisti dai grandissimi ai più piccini. Tanto per buttare giù qualche nome si va da nomi di richiamo come Smashing Pumpkins o White Stripes a classici del passato come Buzzcocks, Billy Bragg, Fall, Patty Smith (e tanti altri) e nuovi classici come Wilco, Spiritualized, Low; da dj della caratura di Luke Slater, Dj Hell, Kid Koala, Luomo, David Carretta ai nomi più piccanti della odierna scena indipendente come Explosions in the sky, Klaxons, Mùm, fino ad arrivare a decine di piccole entità sotterranee da scoprire. Il cartellone è davvero immenso e variegato, e ce n’è di tutti i gusti, pertanto vi invito caldamente a visitare il sito www.primaverasound.com giusto per farvi un’idea di cosa rischiate di trovarvi a sentire. Tuttavia questa edizione si distingue per la particolare decisione di invitare alcune importanti band del recente passato per riproporre per intero il loro album più significativo, quello che gli ha resi famosi in tutto il mondo e che ha segnato i tempi dell’evoluzione musicale. Si tratta dei Melvins con il loro Houdini, gli Slint (nella foto) con Spiderland, i Dirty Three con Ocean Songs, i Comets on fire con Blue Cathedral e i Sonic Youth con Day Dream Nation. Un’ iniziativa davvero interessante e che meritava attenzione. In particolare per l’esser riusciti a riportare sul palco i mitici Slint. Una edizione dunque dal forte impatto emozionale, che gioca sui bei ricordi di suoni che non si ascoltavano da tempo o che avevamo sempre sognato di ascoltare dal vivo. Probabilmente qualche malalingua starà già bisbigliando che sembra proprio una furba operazione di marketing, ma il punto è che, fosse anche così, si tratterebbe di una gran bella operazione, e speriamo proprio che economicamente ciò possa avere grandi riscontri. Buon per loro. Da parte nostra so solo che avremo modo di rispolverare vecchie dolci emozioni di gioventù e per questo non possiamo che ringraziare immensamente i promotori del festival. Se si considera poi che gli Slint non esistono più (ma già si vocifera di un loro possibile ritorno), e i Sonic Youth sono lì lì per mollare tutto dopo i deludenti riscontri commerciali dell’ultimo disco (non brutto, solo troppo consueto, non necessario), allora l’appuntamento appare davvero impedibile. Gennaro Azzollini
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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Manituana Wu Ming Einaudi
Non è un romanzone western, anche se ci sono gli indiani, gli scalpi, le canoe. Non è un romanzo di guerra, anche se ci sono le battaglie, i morti, i feriti, i cannoni e i fucili. Non è un romanzo di viaggi, anche se ci sono lunghe marce, esodi, attraversamenti dell’atlantico. Non è un romanzo criminale, anche se ci sono i bassifondi londinesi, le gang di tagliagole e i locali malfamati. Non è un romanzo storico anche se date, ambientazioni, personaggi e avvenimenti sono storici. O meglio, Manituana, l’ultima fatica del collettivo Wu Ming, forse è tutto questo e qualcosa d’altro. Ambientato nell’epoca della guerra di indipendenza americana, la narra dal punto di vista degli indiani delle sei nazioni irochesi che vi ebbero una parte non indifferente. In Manituana ritroviamo alcuni dei punti di forza del collettivo bolognese. Personaggi strepitosi, come Phlip Lacroix, 50 per cento indiano, 50 per cento francese, 50 per cento inglese,
anche se la somma fa più di cento, e più di cento vale questo personaggio, da qualcuno paragonato ad Atos, da altri ad Achille. Un personaggio destinato certamente ad entrare nell’immaginario collettivo. E poi c’è Esther, inglese che sceglie di rinascere indiana, che rifiuta la sua famiglia biologica per unirsi a quella che lei stessa sceglie. Ci sono i grandi guerrieri Mohawak, il Popolo della Selce. E poi ci sono i grandi personaggi storici: sir William Johnson che aleggia per tutto il romanzo, Joseph Brant, Thayendanega, il grande capo di guerra che guiderà il suo popolo verso il destino che lo attende. Ricostruzioni storiche perfette, grazie alla indiscussa maestria dei cinque Wu Ming nello studiare, capire, rivivere e ricostruire momenti, paesi, uomini e donne che fanno la storia, la vivono, ne partecipano, la cambiano. Non è un romanzo western. Non ci sono buoni e cattivi contrapposti come il bianco e il nero. È inevitabile
che le simpatie vadano verso una delle due parti, e verso certi personaggi in particolare, ma non c’è l’eroe buono con il quale identificarsi al cento per cento. C’è la Storia, senza manicheismi e senza facilonerie. I buoni e i cattivi convivono da entrambe le parti, spesso le stesse persone sono buone e cattive, compiono gesta eroiche e infrangono tabù, si elevano al di sopra della mediocrità e compiono azioni esecrabili. Ma è la Storia, e a Wu Ming non resta che raccontarla con quella capacità di renderla viva e reale che nessuno può togliergli. È la storia di Gemello Destro e di Gemello Sinistro, antica leggenda indiana che permea del suo significato tutto il romanzo. Manituana è il romanzo che stavo aspettando da molto tempo, e il successo di vendite che sta avendo mi fa sognare sulle buone sorti della letteratura italiana e sulle buone sorti dei lettori italiani. Dario Goffredo
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Scogliera
Olivier Adam minimum fax
Il più dolce delitto Giancarlo Onorato Sironi
Era la fine degli anni ’90. Ero studente universitario ed un mio amico, nel nostro continuo scambiarci musica e libri da leggere, mi regalò una cassetta del cantautore Giancarlo Onorato: Io sono l’angelo. Ora ho tra le mani questo suo romanzo, Il più dolce delitto, pubblicato di recente da Sironi. L’ho letto nei giorni di tregua pasquale. Ho ritrovato nelle pagine del libro la stessa intensa, estrema ed ossessiva vena lirica presente nell’unico suo album da me ascoltato. Il romanzo racconta la storia del Dottor Marlo, giovane medico inviato in una clinica psichiatrica situata nel cuore della Svizzera, per far luce su presunti abusi e violenze ai danni delle pazienti. Non solo gli abusi in questione sono presenti, ma lo stato di salute mentale di molte pazienti è davvero al limite del sopportabile. Tra queste c’è Geli, adolescente gracile ed inavvicinabile. Marlo s’innamorerà perdutamente di lei. E tutta la storia ruoterà attorno a questa indicibile, incontrollabile ed inspiegabile relazione che imprigionerà medico e paziente. C’è un elemento che più di ogni altro colpisce nella storia in questione: la densità emotiva della scrittura di Onorato. In questo gorgo violento nel quale normalità e pazzia sembrano essere non più agli antipodi, ma perdere rigidità di definizione, per scontrarsi con l’inesplicabilità della vita, Onorato riesce a mettere a nudo, con pagine di un lirismo straziante, la complessità dell’animo umano, la perfettibilità dell’uomo, il suo continuo azzerare convinzioni e verità, per mettersi continuamente in discussione, toccando anche i bassi gradini del lecito, lasciandosi trascinare in perversioni, a volte, inspiegabili, in questo dominio assoluto della passione che tutto obnubila e annulla: “Lei sembrava già oltre ogni cosa. Pensai che la sua bellezza fosse un dono dei morti. La neve che le faceva da sfondo il letto immacolato dal quale si fosse alzata”. Un altro assaggio: “Ancora le strisce morbide delle tue labbra sotto le mie dita incredule, ancora un fine scivolare sulle tue anche le natiche le ginocchia che reggono con tanta abilità il tuo terrore trasformandolo in desiderio. E questo in delitto”. Infine: “Così il furore di vederla appassire dal di dentro mi ha agitato in una disperazione sorda, l’appartamento mi è parso denso di un gas che volesse esplodere, e in quel boato interiore le mie vene davanti al suo dolcissimo sonno hanno vibrato. Le ho toccato le labbra socchiuse, le ho alitato sul petto, soffrivo troppo”. Nell’epoca dei libri prodotti e consumati con troppa furia, Il più dolce delitto si distingue poiché mette in scena una storia che va annusata lentamente. Si legge non con l’ansia di andare avanti per vedere come tutto va a finire, ma con la voglia di tornare indietro per soffermarsi su quella frase così piena di significati che non si può lasciarla andare via, senza riattraversarla nuovamente. Rossano Astremo
Manuale per sopravvivere agli Zombi Max Brooks Einaudi
Gli zombi camminano tra noi, e questi morti viventi sono la peggiore minaccia per l’umanità - dopo l’umanità stessa, beninteso. Le vittime più fortunate vengono divorate, le ossa completamente spolpate, la carne consumata; quelle meno fortunate passano dalla parte degli aggressori, trasformandosi in putridi mostri carnivori. Contro queste creature le strategie di guerra e il pensiero tradizionali non servono a nulla, ecco perché è stato scritto questo libro. Dalle sue oltre trecento pagine imparerete a riconoscere i vostri nemici, a scegliere le armi giuste, a eliminare gli aggressori, a organizzarvi e improvvisare in situazioni di difesa, fuga e attacco. Preziosissima la sezione storica, che documenta, data per data, la storia degli attacchi zom-
bi dal 60.000 avanti Cristo ad oggi. Compratelo, studiatelo e non createvi false speranze: se tutto ciò fosse mera finzione, ci sarebbe quantomeno da inchinarsi alla fantasia a dir poco esuberante di questo autore. Silvestro Ferrara
Cunnilingusville
Augusten Burroughs Mondadori
Omosessuale, ironico, strampalato. Credo che questi siano gli aggettivi giusti per definire Augusten Burroughs, che in Cunnilingusville ci parla apertamente di sé attraverso 28 racconti. Partendo dalla descrizione di quella che sembrava essere una giornata di scuola come tante, ci informa della sua passione per i transessuali e per tutto ciò che luccica, come le star, si snoda tra gli episodi più esilaranti ed eccentrici della sua vita fino a condurci nella sua dimensione odierna, quella di pubblicitario gay felicemente innamorato e convivente. La forza di questo libro, curioso sin dal titolo, risiede nel suo essere un’autobiografia senza veli né paura di mostrare troppo, ma anzi, così spontanea e diretta che, giunti alla fine, sembra di conoscere Augusten da sempre. Maria Grazia Piemontese
Come il protagonista di Alla ricerca del tempo perduto, il quale, dopo aver imbevuto nel tè la madeleine che soleva mangiare da piccolo la domenica mattina, riesce a riappropriarsi di tutto il mondo della sua infanzia, di tutto il tempo vissuto a Combray quand’era bambino, così l’io narrante di Scogliera, romanzo di Olivier Adam, appena pubblicato da minimum fax, nella visione notturna dell’illuminata scogliera dalla quale vent’anni prima si scagliò sua madre, privandosi della vita, riporta a galla i momenti tragici dei primi anni della sua esistenza. Con le dovute differenze. Se in Proust i ricordi sembrano affluire copiosi, in Adam la memoria sembra giocare brutti scherzi. Dei primi nove anni di vita nessuna immagine nitida. Tutto sembra aggrovigliarsi attorno ai mesi in cui la malattia psichica della madre ha subito una brusca accelerazione. Sino all’estremo gesto. La vita del protagonista è segnata indissolubilmente da questo evento tragico. Tutto ruota attorno alla mancanza della madre: “Vivevo circondato da paesaggi di ovatta, in una zona indistinta del mio cervello, del tutto estranea alla vita reale e come su un altro pianerottolo, in un’altra stanza, in un passato continuo in cui mia madre non era morta”. Unico legame forte quello con il fratello Antoine. La descrizione della loro adolescenza non è altro che un porre in evidenza una comune voglia autodistruttiva. Il padre, sconvolto dalla perdita della moglie, si chiude in un burbero mutismo. Il legame con Antoine, però, non può durare in eterno. Antoine fugge via da quella situazione opprimente. Il protagonista perde non solo il fratello, ma anche Lorette, la sua dolce fidanzata, rinchiusa in una clinica per anoressiche. Tutto sembra costringerlo alla più totale solitudine. Anche lui va via da casa. Senza avvisare il padre. Trova lavoro in un albergo. S’innamora di Léa. Vivono una storia estrema, fatta di sesso, abbracci e lacrime interminabili, sino al suicidio della ragazza. È l’incontro con Claire a determinare una svolta definitiva. Nonostante la vita dissoluta che lui conduce, la caduta violenta nell’alcolismo, è lei a tenerlo vivo, ad aiutarlo a lottare contro i suoi vividi fantasmi. La nascita di Chloé è il punto più alto della rinascita del protagonista: “Ho trentun anni e la mia vita comincia. Non ho avuto un’infanzia e una qualunque ormai andrà bene. Mia madre è morta e tutti i miei familiari se ne sono andati. La vita mi ha messo di fronte
Coolibrì a una tavola rasa a cui siedo con Claire, e dove Chloé si è autoinvitata con un sorriso tenero all’angolo delle labbra”. La vita ci consegna la morte, ma da ogni morte ci si può sollevare, con fatica, evitando i cortocircuiti solipsistici della mente. Una storia dolente come poche, scritta in una prosa nitida e a tratti lirica. Rossano Astremo
All’ombra del melograno Tariq Alì Baldini Castoldi Dalai editore
Nella Granada del 1499 i re cattolici impediscono ai musulmani di Spagna di professare liberamente la loro religione, venendo meno agli accordi di sette anni prima. L’arcivescovo Ximenes de Cisneros, uomo implacabile e violento, obbliga i sovrani a convertire forzatamente gli infedeli, o in caso di resistenza a sterminarli senza pietà. I Banu Hudayl, aristocratici islamici del tempo, assistono impotenti al rogo dei libri depositari della loro sapienza, alla messa al bando della loro lingua, alla censura della loro musica, e all’improvviso la furia feroce della Storia costringe questi uomini alteri a confrontarsi con le uniche tre alternative alla loro distruzione, tutte difficili e sofferte: la fuga, la lotta, la conversione. Con struggimento d’amore, la vecchia balia Ama ricerca da sola un senso agli accadimenti, affidando i pensieri e confidando le scelte ai melograni che da secoli abitano un antico giardino. All’om-
Syd Barrett
Alessandro Bratus Editori Riuniti
Tra le mille cose che si possono raccontare sulla contorta e stupefacente persona che è stata Syd Barrett degno di nota è sicuramente il suo immaginario fiabesco, magico, che attingeva dal reale per renderlo speciale. Leggendo le parole di Syd Barrett se ne percepisce la sensibilità, la stessa che lo costringerà ad eclissarsi, a scomparire dopo un solo disco con i Pink Floyd e qualche episodio solista. Come se non potesse essere altrimenti. Questo nuovo episodio della collana pensieri e parole pubblicata da editori riuniti ne ripercorre la vita attraverso le canzoni, le citazioni nascoste tra le parole, le divagazioni metafisica. Un’altra doverosa pubblicazione dedicata a una delle personalità più brillanti e preziose del rock. (O.P.)
2325 bra del melograno - appunto - la donna registra i dettagli di un’epoca incerta in cui l’intolleranza cela inquietudini profonde, e realizza che l’incapacità della convivenza e la diffidenza nei confronti dell’altro non possono essere “solo” frutto di giochi di potere. Intanto le scintille dei fuochi censori volteggiano nell’aria, e disperdono in cenere le pagine preziose di una cultura che fu. “Era come se le stelle stessero versando in lacrime tutto il loro dolore”. Con questo romanzo storico, scritto con sensualità e suggestione, Tariq Alì ci permette di rintracciare in altri secoli le insicurezze dei nostri giorni, e di rinnovare il lontano timore che ciò che è stato spesso si ripete, inesorabilmente si ripete. Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello
Lo spettacolo cosmico. Scrivere il cielo: lezioni di astronomia visiva Franco Piperno DeriveApprodi
La conoscenza è l’atto che presume di definire l’esistente dando il nome ad ogni cosa, in modo da fissare dei confini opportuni e di renderci padroni dell’ “altrimenti sfuggevole”. Nel tempo e da sempre, l’uomo ha applicato questa sua tensione al nome anche alla volta celeste presunta infinita e per questo più pericolosa - sbizzarrendosi, oltre che a “nominare” il cielo, anche nel “descriverlo”. E lo ha fatto legando le stelle tra loro, attraverso immaginati punti di congiunzione, costruendo così le costellazioni e “scrivendo sul cielo” una rinnovata relazione con la terra. Il gusto di creare narrazioni collettive e celesti, però, si è smarrito con il passare delle sapienze, e oggi sono in pochi, tecnici e appassionati, a dilettarsi con la contemplazione dell’universo. Questo libro, insieme di svelte lezioni sulla bellezza dello sguardo all’insù, mira proprio a riportare
The Doors
Fabio Rapizza Editori Riuniti
Sono passati 40 anni e le porte sono ancora aperte. Quelle scardinate dai Doors, da Jim Morrison e compagni capaci di offrire al mondo un nuovo modo di intendere musica e vita. su tutti lui, una delle icone del rock, il poeta di una e di tutte le generazioni, l’incarnazione del nuovo decadentismo: Jim Morrison. Ma insieme a lui una band che ha prodotto musica assolutamente innovativa, che ha creato un nuovo stile del rock, che lo ha accostato al teatro lo ha reso profetico, enfatico, sessuale. E tutto questo è raccontato e spiegato con minuzia da Fabio Rapizza, ce ripercorre la storia della band californiana album per album. Ben curato, scorrevole, tecnico. Per non dimenticare e per saperne ancora un po’ di più. (O.P.)
in auge il sentimento dell’osservazione di quel mistero immenso che è il cielo, soprattutto notturno. E lo fa invitando il lettore ad orientarsi con il sole, la luna, le stelle, ma anche a recuperare il piacere delle storie che quell’orientamento, anticamente, ha creato. Per questo nel testo si avvicendano pagine curatissime con mappe facilitate per il riconoscimento degli astri ad occhio nudo, e paragrafi di cosmogonie, mitologie e racconti profetici, che sembrano appartenere ad un’altra pubblicazione. Il tutto reso con una scrittura sublime e da preziosa divulgazione, che mai si riduce a banale tecnica manualistica. Franco Piperno è docente di Astronomia visiva presso L’Università della Calabria, ha insegnato Fisica in numerosi atenei italiani e presso le più prestigiose realtà accademiche americane, e ai tempi del suo Assessorato alla Comunicazione presso il Comune di Cosenza si è impegnato per l’ideazione e la costruzione del nuovo planetario. È noto, altresì, per la sua partecipazione attiva alle vicende politiche che hanno caratterizzato l’Italia degli anni ‘70. Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello
Follie di Brooklyn Paul Auster Einaudi tascabili
Nathan Glass sta cercando solo un posto tranquillo dove morire. Per questo decide di tornare a Brooklyn, sua città natale. Per fare il punto di una vita, la sua, indebolita dal cancro ai polmoni e giunta a suo avviso al termine. Per ingannare il tempo Nathan si mette a scrivere una raccolta di aneddoti sulla follia umana. Quasi a voler impacchettare la vita in tutte le sue sfumature, con l’illusione di poter così affrontare la morte. Ma la vita colpisce in tutta la sua imprevedibilità. Si materializza nell’incontro con l’annoiato nipote Tom, e prende i volti di Harry Brightman, libraio e truffatore, della nipotina Lucy e di sua madre perduta in chissà quale Stato americano, della B.P.M., la Bellissima e Perfetta Madre. Vite apparentemente slegate che invece si aggrovigliano con rapidità sempre maggiore, e lasciano Nathan il più delle volte sconvolto. Incontri apparentemente casuali che cambiano il corso degli eventi. Perché la follia umana non si può catalogare in un libro, è tutta intorno a noi. E non a caso il libro si chiude proprio la mattina dell’11 settembre 2001, a pochi minuti da una strage che quella follia l’ha eretta a normalità. Anna Puricella
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Uomini e cani è il primo romanzo di Omar Di Monopoli. Classe 1972 vive e lavora a Manduria, nella patria del Primitivo. Nel 2004 aveva firmato la sceneggiatura di La caccia, cortometraggio inserito nel lavoro collettivo A Levante prodotto dalla Provincia di Lecce e dalla Saietta Film di Edoardo Winspeare. Nel tuo libro parli di un sud che ci è familiare ma anche di un sud nascosto che si scopre sfogliando le pagine, come si è svolto questo percorso a scavare? Mah, il sud che descrivo io è assolutamente iperbolico, esasperato sino allo spasimo tanto da diventare un ‘non-luogo’. Non mi sono posto il problema se un sud così crudele e violento rappresentasse davvero quello che tutti i giorni si muove attorno a me. Volevo raccontare un western contemporaneo e così ho preso il Salento che conosco io – che sicuramente è diverso da quello oleografico che le associazioni turistiche hanno imparato a propinarci – e ne ho esagerato alcune pecche, ingrossando a dismisura quell’incuria (anche morale) che probabilmente è parte integrante nel nostro Mezzogiorno. I cani compaiono spesso nella narrazione, ne sono cornice, protagonisti. C’è un significato altro nell’associare “uomini e cani”? A parte il portato letterario che si porta appresso un titolo siffatto (Uomini e topi di Steimbeck ma anche Uomini e no di Vittorini), è evidente il tentativo di racchiudere in due parole l’intera materia del romanzo: quell’umanità “scalena e abnorme” che finisce, appunto, per somigliare ai propri cani, a reagire alle sollecitazioni esterne con una ferocia e un’irrazionalità che è tipica degli animali (animali braccati, aggiungerei!). Una delle cose che mi ha colpito molto è la tua capacità di accostare il gergo e il
dialetto a un italiano letterario e ricco, un contrasto che funziona. È un effetto voluto o semplicemente sono due tuoi registri? È frutto di una ricerca meticolosa, per la verità. Perché, a parte la moltitudine di modelli letterari che ogni scrittore si porta appresso, ho cercato di guardare allo spaghetti-western rifacendomi in qualche modo al grande Sergio Leone, da cui ho cercato di mutuare una serie di accorgimenti (inquadrature sghembe reiterate all’infinito, tema musicale ricorrente, rumori e spari che diventano parte di un complesso panorama filmico) per sintetizzare una cifra stilistica che fosse funzionale alla mia storia. Ed è per questo che il mio romanzo suona qua e là volutamente “barocco” e, nonostante questo, estremamente ritmico. L’intreccio delle scene e il loro alternarsi è rocambolesco, filmico quasi. È vicino, per alcuni versi, ad alcuna narrativa italiana (mi viene in mente Come dio comanda di Ammaniti, giusto per l’avvicendarsi di personaggi e scene), anche il genere è “al passo con i tempi” se così si può dire. Quanto la tv, il cinema e le nuove forme di comunicazione influenzano la tua scrittura? Guarda, ho appena detto di Sergio Leone cui probabilmente andrebbero aggiunti miliardi di influenze televisive e cinematografiche (io poi faccio il grafico, e sono cresciuto a pane e fumetti Marvel), ma la vera differenza sta nel fatto che, a dirla tutta, credo di appartenere a quella categoria di scrittori “visuali” che invece di pensare per blocchi, scalette e sviluppo dei personaggi pensa soprattutto per “immagini”, ed è per questo che il mio romanzo sembra (me lo hanno detto in molti) un trattamento cinematografico! Ammaniti se devo essere sincero non lo amo granché, però da più parti mi giunge
voce di alcuni tratti comuni. Forse è solo un caso. Come uomo del sud che guarda alle cose belle ma anche a quelle brutte della sua terra, qual è, secondo te, il nostro più grande male oggi? Non ne ho idea. Io in fondo sono stato fortunato a riuscire a esprimere attraverso un romanzo (un prodotto “artistico”, quindi) un mio personalissimo grido di dolore per una terra che amo ma che non capisco. In Uomini e cani ho cercato d’infilare – tra un ammazzamento e l’altro – le estreme contraddizioni di questo sud che splende di bellezza e che al tempo stesso canta la propria morte tra dissalatori pirata, termovalorizzatori assassini e abusivismo diffuso. “Restare qua. E resistere. Come ho sempre fatto. Affrontare chiunque a testa alta. Perché di questo è fatto l’uomo. Di orgoglio, perdio. E di niente altro”. È una frase del tuo libro che mi ha molto colpito. Racchiude il senso di appartenenza a questa terra, ma anche il ritorno (raccontato anche nel romanzo). Ce ne parli? Bhè, appartenendo anch’io a quell’accolita di persone che ha studiato fuori (a Bologna nel mio caso) sperando di trovare altrove ciò che forse possedevo già, alla fine sono tornato quaggiù spinto dall’amore per il mare e il sole (lo so, è un po’ banale, ma è anche questa una forma di orgoglio). Mi ritengo quindi a pieno diritto una di quelle “anime fuori-sede” che non riescono a decidersi su dove è la loro casa. E forse, oggettivamente, al giorno d’oggi comprenderlo appieno si è fatto impossibile. Comunque il ritorno è importante, credo. Coraggiosa operazione quella di Isbn che ha sporcato la sua solita veste grafica con il sangue. Quanto sangue c’è in questo libro, quanto cuore e quanta passione
Coolibrì nello spingere giovani autori da parte degli editori? Io ho lavorato per anni coi piccoli editori, e conosco bene i meccanismi editoriali (ho anche curato per la Besa gli esordi della rivista Tabula Rasa). Ma ciò che ha fatto la differenza - credo di poterlo dire, spero, senza timore d’essere tacciato di presunzione - è la qualità del lavoro. Per anni ho inviato racconti e romanzi in giro per l’Italia, senza che nessuno mi considerasse di striscio. Stavolta ho avuto numerose offerte, segno che evidentemente la mia scrittura era maturata al punto giusto. Alla fine ho scelto quelli di ISBN perché sono giovani e in gamba, hanno creduto in me e soprattutto mi hanno fatto capire l’importanza di uno sguardo “a lunga distanza”. Mettere a segno un libro è un conto, cominciare a percepirti come uno scrittore è tutt’altra cosa. Quali scrittori ti hanno folgorato, quali formato? Tutti quelli che hanno cercato di raccontare il difficile, difficilissimo transito di un luogo o di un popolo verso una modernità che sembra non arrivare mai: William Faulkner (assolutamente irraggiungibile!), Flannery O’Connor ma anche il nostro straordinario Beppe Fenoglio, che nel periodo postresistenziale (in specie nella raccolta Un giorno di fuoco) ha saputo descrivere in maniera esemplare la fatica di una popolazione (quella dell’Italia dopo la guerra) a crescere e mettersi la violenza alle spalle. Domanda, per noi, di rito: cosa ascolti in questo momento? Quali dischi girano nel tuo lettore? Le chitarre dei Grinderman, il nuovo gruppo di Nick Cave, sono assolutamente un toccasana per gli animi inquieti come il mio. Osvaldo Piliego
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Scoprire la casa editrice Meridiano Zero è stata veramente un bella sorpresa, Tutti i miei amici sono super eroi (nostro libro del mese di marzo) ci ha conquistato. Abbiamo parlato delle nuove uscite con il fondatore della editrice Marco Vicentini. Sbirciando tra i vostri titoli sembra che l’ironia sia una sorta di leit-motiv o per lo meno un elemento importante...cosa ne pensi? È vero. L’ironia è una cosa che in genere mi conquista ed è facile che mi faccia prendere dall’autore che la sa usare con intelligenza. Come si pone Meridiano Zero nel sovraffollato mondo dell’editoria? Si pone come il tentativo di far affiorare, in un mondo già parecchio affollato, delle scelte di qualità. (Alla fine sono sempre i lettori che stabiliscono queste cose, e che possono determinare la riuscita o meno di una casa editrice). Come nasce la vostra casa editrice? Come si articola? Meridiano Zero nasce 10 anni fa dal tentativo di creare una casa editrice che pubbli-
Actarus. La vera storia di un pilota di robot Claudio Morici Meridiano Zero
Operazione davvero fuori dal normale quella compiuta da Claudio Morici con il suo nuovo romanzo, Actarus. La vera storia di un pilota di robot, edito da Meridiano Zero. Come prendere uno dei cartoon culto per i bambini nati negli anni ‘70 e trasformarlo in una storia grottesca. Perché Actarus, il pilota di Goldrake, non ne può più di lottare contro Vega. Stanco, come non gli era mai capitato, decide di volersi prendere una pausa, magari una bella vacanza a Fleed, dove regna la pace suprema e dove per entrare all’Ikea basta spendere uno yen e poi puoi comprare tutto quello che vuoi. Sì, vorrebbe prendersi una bella vacanza, ma il Dottore non è consenziente. C’è da sconfiggere il nemico. Vega è pronta a scagliare sulla terra le sue armi distruttive. La salvezza dell’umanità è nelle mani di Actarus, il quale, non sopportando tutta questa responsabilità beve come un dannato. Actarus è un alcolista e la cosa più assurda è che l’unica cosa che riesce a bere è la birra Peroni. Questa situazione davvero insopportabile continua sino all’incotro con Roberta, una stupenda ragazza, che vende ad Actarus quaranta confezioni di margherita, una sorta di infuso i cui proventi andranno poi ai bambini poveri. E sarà proprio Roberta a dare una svolta alla vita di Actarus. In fondo, non esiste solo il bene dell’umanità. Oltre alle alabarde spaziali e ai missili perforanti c’è una vita da portare avanti. Actarus parte da Roberta per ricominciare a vivere. Ma le donne, come si sa, nascondono insidie impensabili. E il povero Actarus non regge quest’altro colpo tremendo. Con Actarus Claudio Morici si conferma uno tra i più folli scrittori della nuova generazione. Per chi volesse addentrarsi in duecento pagine di puro divertimento, ecco il romanzo giusto. Rossano Astremo
casse esattamente i libri che vorrei leggere. Sperando ovviamente che i miei gusti siano condivisi da molte persone. Si articola in due collane principali che ne sono l’ossatura e altre collane o libri fuori collana che si sono alternati in questi anni, sempre tutti di narrativa. Ma la spina dorsale della casa editrice resta sempre il noir, con cui ho incominciato e che è la mia vera passione. In catalogo italiani e stranieri, come avviene la scelta? Scelgo personalmente tutti i titoli. Per convincermi devono comunicarmi qualcosa, devono farmi scattare il clic dell’entusiasmo. Io cerco libri che abbiano una buona potenza narrativa, in cui la storia abbia una posizione importante, ma dove ci sia anche modo di narrare personale e coinvolgente. Insomma stile e storia, qualità e intrattenimento. Nonostante siate una piccola realtà in giro si parla molto di voi, potenza della comunicazione, dei titoli o cosa? Non credo che si possa capire, altrimenti sarebbe fin troppo facile identificare il meccanismo: “perché si parli di una casa editrice bisogna fare così…”, e a quest’ora sarebbero già in molti a farlo. In fondo spero che sia un segno che le scelte editoriali sono apprezzate… Ci parli un po’ dei vostri ultimi titoli? Delle nuove uscite? L’uscita più importante è la prossima Quando cala la nebbia rossa di Derek Raymond (nella foto in alto), il sesto libro della sua serie più famosa, quella della Factory. È un noir che ha tutte le caratteristiche che hanno reso famoso Raymond: il cinismo e la durezza che l’autore trasfonde nel protagonista, le storie immerse in una coreografia di disperazione. Delle ultime uscite un’altra che amo molto è La lunga notte di Berlino, che trasferisce i ritmi e la tensione del noir alla Ellroy in Europa, nella Berlino d’oggi. Un’atmosfera magistrale, un ritmo incalzante, una scrittura di classe: rappresenta tutto quello che cerco in un buon noir. Non credi ci siano più libri che lettori? Certo, ne sono convinto. Ma con una situazione che si sta involvendo (la diminuzione del numero dei lettori, l’innalzamento dell’età media dei lettori), in cui nessun organismo, statale o privato, elabora alcuna proposta in grado di cambiare la scena, si sta ricadendo nel meccanismo del supermercato: vendere subito e al resto ci penseremo poi. Meccanismo diabolico perché chi non lo accetta viene tagliato fuori, in tutti i sensi. Osvaldo Piliego
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Se di esordio dobbiamo parlare, in questo caso occorre andarci con i piedi di piombo, perché Luciano Pagano, l’autore di Re Kappa edito dalla Besa editrice, con la scrittura ha un rapporto di osmosi pulsionale portato avanti da anni con metodo e rigore. Non solo ha prodotto interventi di carattere poetico, ma anche sul piano della saggistica (facciamo riferimento, tra quelli più recenti, al suo intervento nel libro La transe dell’artista a cura di Vincenzo Ampolo e Luisella Carretta con la prefazione di Georges Lapassade per i tipi di Campanotto Editore) e della critica letteraria sia come redattore della rivista Tabula Rasa sia come direttore del sito www.musicaos.it, ma anche in altre prestigiose sedi cartacee e on-line. E Re Kappa rappresenta un’operazione editoriale coraggiosa sia dal punto di vista linguistico, con un procedere periodale fortemente pausativo, secco e incalzante, sia per ciò che concerne strettamente l’intera architettura della trama. Se qualcuno volesse ad esempio trascorrere un po’ del suo tempo a cercare di trovare un editing diverso al testo in esame in questa sede, o riflettere su altre possibilità testuali ed extra/para-testuali, magari eliminando o aggiungendo questo o quel dato periodo, una frase o una parola, si accorgerebbe subito che l’intera impalcatura crollerebbe, non per debolezza o inconsistenza, ma per simmetria bilanciatissima da intendersi more geometrico. Re Kappa, romanzo di Luciano Pagano, di cui si parlerà molto in futuro, non analizza tanto la realtà editoriale salentina, che è pur presente nella storia ma si capisce che è solo un pre-testo, quanto il vivere una determinata realtà (non importa se centro o periferia) sincopata, quasi claustrofobica, ricca di personaggi grotteschi, carichi di un’umanità velenosa, attraverso le relazioni esistenti tra tre personaggi chiave: l’io narrante, un giovane scrittore alle prese febbrili con il suo percorso di ricerca, Gastone Gallo, editore inquieto, sempre con nuove idee da condividere con maniacale dovizia di particolari ai suoi collaboratori, e Michel Benoit, un critico di origini francesi, un imbroglione, un – per utilizzare un’espressione di Pagano a me cara anche se non puntualmente riferibile al personaggio in questione – batonga di una dimensione culturale d’avanspettacolo. E Benoit viene descritto dal nostro autore in maniera brillante, con grande stile, mettendo in luce le zone d’ombra di un personaggio degno di essere chiamato “losco figuro”, un critico che non ha mai fatto pubblicazioni degne di portare questo nome. Il suo unico merito, forse, è quello di avere nelle sue grinfie, il manoscritto leggendario Volonté du roi Krugold di Louis-Ferdinand Céli-
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ne, testo di oltre novecento pagine sul quale l’autore di Viaggio al termine della notte lavorò per molti anni, senza che lo stesso potesse mai veder la luce, in quanto trafugato da mani maialesche, strumenti per l’occasione, di una volontà carica di livore nei confronti di un genio come Celine in grado di produrre un’opera d’arte come La volontà del Re Krugold. Ad ogni modo Pagano rende in punta di penna, un mondo cancrenoso e canceroso, in cui Benoit, rimandando continuamente la consegna dell’edizione critica del manoscritto in questione, tiene in paranoico stand-by l’editore Gallo, facendosi elargire gustose somme di denaro per organizzare i suoi Festival di Poesia da cartolina nel Salento. L’odio profondo del protagonista nonché il desiderio di poter avere un rapporto onesto, sano e collaborativo con il suo editore, lo spingono a compiere l’impensabile. Un gesto che sa di grande valore prometeico. E sarà proprio la ricerca del manoscritto misterioso a far compiere alla narrazione la sua fuga verso un insolito ma affascinante finale, tutto da godere. Pagano utilizza il romanzo per descrivere le meccaniche sociali, quelle della realtà di ogni giorno, con occhi che sanno guardare al buio, che sanno vedere spettrograficamente quello che sta prima di tutto questo. Ne viene fuori una narrazione metaletteraria, un monologo che ha una voce senza filtri, e che possiede la forza del desiderio, anzi di un unico desiderio… quello trans-letterario, meta-etico, metapop, della verità a ogni costo. Re Kappa – dice Elisabetta Liguori in suo intervento critico al volume di Pagano – è un lavoro che comincia proprio quando la letteratura contemporanea italiana sembrerebbe fermarsi. “Pagano in via preliminare tratteggia il suo ambiente: l’inquietante mondo pop delle lettere salentine. Ambiente del quale intravede strani bagliori alla fine del canale attraverso il quale è costretto a strisciare per arrivare a vedere alla luce. Ma inquietante perché?! Certo a qualcuno verrebbe di chiamare l’autore, di disturbarlo al suo cellulare, o di scrivergli una mail, perché si sentirebbe coinvolto in prima persona (quanti scheletri nell’armadio e quanti fantasmi in giro!!!) , quasi offeso da qualche improbabile denuncia allo stato delle lettere e della critica … solo Salentina? E questo qualcuno, vorrebbe addirittura farsi scappare “… ma ti riferivi a me, quando scrivevi …?”, vorrebbe che Re Kappa non fosse sul mercato, per sfuggire a questa voce forte e feroce di denuncia contro qualsivoglia malcostume letterario. Forse perché a sfogliare le pagine del lavoro di Pagano, ci si sente come scossi da una scarica elettrica, come se sorgesse repentino un imperativo categorico che spinge a dedicarsi alla parola, al suo modo d’incedere tra le righe, nel costituirsi fulmineo dei periodi. Ma Re Kappa è questo e molto di più! Forse bisognerebbe ri-pensarlo nella sua totalità. O forse basterebbe leggerelo, e ri-leggerlo, per non dimenticare nemmeno una virgola di tutte queste parole scritte col sangue. Stefano Donno
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il cinema secondo coolcub
Salvador – 26 anni contro Manuel Huerga Istituto Luce
Una delle pagine più buie della recentissima storia europea è raccontata da Salvador – 26 anni contro, intenso ritratto di una nazione sull’orlo del cambiamento, che come spesso accade, è pagato col sangue. In nomination come miglior film agli ultimi premi Goya, il film di Huerga racconta la vera storia di Salvador Puig Antich, militante di estrema sinistra del partito di liberazione spagnola durante il regime franchista, ultimo condannato a morte col barbaro strumento della garrota (anello di metallo messo intorno al collo per spezzare le vertebre cervicali) del periodo dittatoriale. Siamo nel ‘73 e un gruppo di ragazzi lotta per rendere libera la Spagna. Durante una retata, degli agenti catturano due militanti, ma durante il conflitto a fuoco Salvador (David Brühl di Goodbye, Lenin) viene ferito e un poliziotto ucciso. Poco
dopo verrà arrestato e usato come capro espiatorio. Questa la storia di una pellicola che, sebbene a tratti deludente e un po’ retorica, è estremamente interessante, soprattutto per chi come noi viene da un recente passato di controllo e negazione e troppo spesso se ne dimentica, dando pericoloso filo a revisionismi e nuove interpretazioni storiche. Altro discorso, allo stesso modo importante, è quello che riguarda la pena di morte, pratica adottata ancora in molti paesi del mondo e per la cui abolizione l’Italia si batte ormai da tempo. Il film si muove su due piani, uno fatto degli ultimi momenti di vita del condannato, l’altro dei continui flashback in cui dalla galera, Salvador ricorda i momenti che lo hanno portato a combattere il regime e a vedere la sua vita spezzata a soli 26 anni. Il film, che ha sicuramente un colorato
taglio giovanile adatto a un pubblico non molto esigente, a volte si perde in lunghe e meticolose descrizioni, ma dà il meglio di sé nell’introspezione psicologica del padre di Salvador e del rapporto tra il condannato e il suo secondino, momenti che rendono appieno il periodo provocando un sincero disagio interiore. Una considerazione a parte merita la bellissima colonna sonora, composta tra gli altri da pezzi di Dylan e Cohen, che sottolinea in maniera originale anche i momenti più drammatici. Un lavoro importante quindi, se non altro per i temi trattati che rendono il suo giudizio sicuramente più malleabile e un film da vedere perché non c’è pezzo di storia, anche la più drammatica, che a cuor leggero possiamo permetterci di dimenticare. C. Michele Pierri
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Le vite degli altri
Florian Henckel von Donnersmarck 01 Distribution
Inizio degli anni ’80: Hauptmann Gerd Wiesler (Ulrich Mühe) è un capitano della Stasi, la polizia segreta della DDR di Honecker. È un irreprensibile ingranaggio della macchina spionistica più potente del mondo. Uno Stato nelle Stato che controlla minuziosamente le vite degli altri, di tutti gli abitanti della Germania Est, siano essi militari, politici, operai o artisti come Georg Dreyman (Sebastian Koch) noto drammaturgo filo-comunista e la sua fidanzata, l’attrice Christa-Maria Sieland (Martina Gedeck). La condotta di Gorge è irreprensibile e sembra preludere ad una archiviazione del caso da parte di Wiesler, ma le avances di un ministro verso Christa-Maria, il suicidio di Jerska (Volkmar Kleinert), scrittore amico di Dreyman, e una serie di altri piccoli eventi, modificheranno i rapporti di
Mio fratello è figlio unico Daniele Luchetti Warner Bros Italia
Tratto dal libro di Antonio Pennacchi, Il fasciocomunista, il nuovo film di Daniele Luchetti (Il portaborse, La scuola) presenta lo scontro tra due ideologie – quella fascista e quella comunista - e due opposti modi di vivere. Protagonista la Latina degli anni ‘60 e ‘70, che assiste alle vicende e al rapporto conflittuale tra due fratelli, Manrico (Riccardo Scamarcio) e Accio (Elio Germano). Il primo incastrato nel ruolo del giovane ribelle di sinistra, tutto proteste
forza presenti e segnerà per sempre la vita di Dreyman ma soprattutto aprirà una breccia nella mente di Wiesler, che sembrerà per la prima volta prendere coscienza della sua vita e le cui certezze cominceranno a scricchiolare insieme a quel Muro che di lì a poco crollerà. E proprio sui primi difficili mesi post-caduta, il regista esordiente Florian Henckel von Donnersmarck chiude il racconto. È un film che lascia spazio alla riflessione e che approfondisce un tema storico a lungo oscurato (in questo è simile al Bechis di Garage Olimpo) unendolo ad una analisi psicologica su un personaggio maniacale nella sua monotonia (ricorda Titta, il protagonista de Le Conseguenze dell’amore). Resta però un dubbio da chiarire: come si fa a morire investiti da un camioncino in pieno giorno a Berlino Est quando per tutto il film non si vedono altro che strade deserte? (al limite qualche Trabant !) Willj De Giorgi
studentesche prima e scioperi in fabbrica poi, l’altro seminarista fallito e infine iscritto al partito fascista. L’uno donnaiolo e l’altro imbranato. Ma sempre fratelli, capaci di guardare oltre le divergenze politiche quando necessario e di amarsi profondamente, di lottare per tenere unita la famiglia, per strappare un sorriso alla madre ormai troppo stanca di vita. Figli di una rabbia di periferia, che in Manrico e Accio esplode in maniera diversissima, ma con la stessa dirompente energia. Film ironico e triste allo stesso tempo, brillante nei dialoghi (“Perché un fascista, in famiglia, fa sempre comodo”). Grande merito alle interpretazioni di Angela Finocchiaro e Luca Zingaretti, e ad uno strepitoso Elio Germano. Anna Puricella
Still life
Jia Zhang-Ke Shanghai Film Studios/ Xstream Pictures
Still life, Leone d’Oro a Venezia, è il docu-film rivelazione di Jia Zhang-Ke sul devastante e violento impatto prodotto dalla costruzione della diga delle Tre Gole. Ambientato a Fengjie, antica città cinese prima a naufragare nel bacino della diga,
racconta la storia più grande del rilancio socio-economico della Cina e dei suoi alti costi sociali servendosi di due storie semplici, quotidiane, legate al piccolo vissuto. Han Sanming è un minatore dello Shanxi che si reca a Fengjie in cerca della ex moglie che non vede da 16 anni e Shen Hong è un’infermiera alla ricerca del marito che non torna a casa da due anni. Le loro storie avranno percorsi ed esiti diversi: di integrazione attraverso la condivisione di oggetti inanimati (Still life) e ancoraggio al passato la prima e di chiusura con esso e distacco la seconda. Incarnano il conflitto e le contraddizioni che investono l’intero Paese trattenuto da un passato radicato e proteso verso un futuro agognato ma portatore di distruzione. Lucido spaccato di una regia invisibile, sobria e pregna di simbolismi talvolta surreali, si avvale di un montaggio lento, vicino allo stile documentaristico, ritmato dal lavoro ripetitivo degli operai. Egregio esempio di cinema d’immagini e silenzi, accorda armonicamente la toccante poetica della fotografia e l’ efficacia della denuncia. Francesca Vantaggiato
La vie en rose Olivier Dahan Mikado
La pellicola ripercorre la vita della celebre cantante transalpina Edith Piaf (nel film Marion Cotillard), dalla difficile infanzia nel bordello della nonna alle canzoni che ne hanno consacrato il successo mondiale. Emozioni intense e indimenticabili per una vita eccezionale. Nel cast Gerard Depardieu.
Spiderman 3 Sam Raimi Sony pictures
Terzo capitolo per la saga dell’uomo ragno nato dalla matita del geniale Stan Lee. Raggiunto finalmente l’equilibrio tra i suoi doveri e la relazione con la sua amata, il giovane Peter Parker (Tobey Maguire) dovrà vedersela con Sandman, Venom e Goblin. E con un nuovo e inaspettato nemico: se stesso.
La ragazza del lago Andrea Molaioli Medusa Film
Valeria Golino e Toni Servillo sono gli interpreti di questo sapiente mix di dramma e thriller. Un uomo con problemi mentali convince una bambina a salire sul suo furgone e dopo qualche tempo viene rinvenuto il corpo della bambina insieme ad altri cadaveri. Un investigatore è chiamato a fare luce sui fatti.
L’ottava edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, dal 17 al 22 Aprile, ha visto come protagonista Valeria Golino, sicuramente uno dei volti italiani più conosciuti e apprezzati nel panorama del cinema internazionale. A lei è stata riservata una mostra fotografica: “ho scelto le foto personalmente, tra quelle che avevo nella mia cantina. Non mi piace tenerle in giro per casa, soprattutto le copertine delle riviste. Alcune rappresentano scatti inediti, appartenenti alla mia collezione privata e mai state pubblicate”. L’attrice quarantenne è stata soprattutto omaggiata con una monografia ed una retrospettiva: i sei film, anche questi scelti da lei personalmente, segnano le tappe fondamentali di una già longeva carriera, coronata da tre Nastri d’argento, una Coppa Volpi e svariate candidature al David e può vantare più di sessanta film all’attivo. Inizia, infatti, appena diciassettenne, quando viene scelta da Lina Wertmuller per Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante di strada (1983). La incontriamo a Lecce appena approdata al Festival, assediata dalla stampa e dai fotografi, con il compagno Riccardo Scamarcio. Ti piace rivederti nei film che hai girato? Solitamente provo grande imbarazzo a rivedermi nei film. Soprattutto nei film che ho fatto negli Stati Uniti, in cui sono stata doppiata. Le pellicole che ho voluto mostrare al pubblico di questo festival sono probabilmente le uniche che rivedo con piacere, che per me hanno una maggiore potenza emotiva, come Storia d’amore di Citto Maselli, Respiro del 2002 di Emanuele Crialese. In quest’ultimo film interpreti una madre atipica. Come ti rapporti a questo genere di personaggio? Spesso mi trovo in netto contrasto, mi ar-
rabbio con i miei personaggi. La madre creata da Crialese, per Respiro ha grande voglia di incantarsi e, allo stesso tempo, ha bisogno quasi di essere “cresciuta” dal figlio appena adolescente. Così come anche i ruoli materni di L’albero delle pere di Cristina Archibugi, in cui interpreto una donna tossicodipendente, o di La guerra di Mario di Antonio Capuano, in cui sono il genitore adottivo di un bambino con problemi comportamentali. Credo però che nella realtà un pezzetto di ognuna di queste donne possa creare la figura della madre ideale. Sei probabilmente l’attrice della tua generazione più conosciuta ad Hollywood. Come mai negli ultimi anni hai messo un po’ da parte quel tipo di cinema per tornare a lavorare quasi esclusivamente in Europa? Negli Stati Uniti sono stata benissimo e sono riuscita a lavorare in molti film, affrontando qualsiasi genere. Ho cominciato molto giovane, per caso, avevo appena ventidue anni quando sono arrivata a Los Angeles con un gruppo ristretto di amici. Una serie di provini andati bene mi hanno permesso di lavorare prima con Dustin Hoffman in Rain Man di Levinson, nei due episodi della commedia Hot Shot, in Lupo Solitario di Sean Penn, film a cui sono profondamente legata. Fino ad arrivare a Le cose che so di lei di Garcia. La scelta di tornare non è stata affatto meditata. È stato piuttosto un passaggio graduale. Dapprima ho cominciato una relazione sentimentale, durata dieci anni, con Fabrizio Bentivoglio, poi ho scoperto che in Italia avrei avuto la possibilità di interpretare dei ruoli diversi rispetto a quelli, da “straniera”, che mi venivano proposti dai registi americani. Con scadenze semestrali si parla di rinascita/crisi del cinema italiano… Credo che non si possa parlare di “rina-
scita” solo quando tre dei cinquanta film italiani che escono nelle sale fanno degli incassi record. Questo tipo di pellicole non possono assolutamente rappresentarci all’estero. Nel nostro cinema ci sono molti registi, come Moretti o lo stesso Crialese che, in paesi come la Francia, riescono a portare nelle sale un pubblico vastissimo, pur dedicandosi a prodotti “autoriali”. Quali sono i tuoi progetti per i prossimi mesi? In questi giorni verrà presentato a Cannes, l’ultimo film di Valeria Bruni Tedeschi Actress, in cui interpreto un piccolo ruolo. Prossimamente uscirà nelle sale anche l’opera prima di Fabrizio Bentivoglio, in cui recito accanto ai fratelli Servillo e Sergio Rubini. A partire dal mese prossimo, sarò sul set di Caos calmo di Grimaldi, con Nanni Moretti, tratto dal bellissimo libro di Sandro Veronesi. Mi aspetta anche un film alla Ocean’s eleven con Jean Renò Cash, di Erik Benhar, in cui interpreto una poliziotta manipolatrice. Mentre ad ottobre girerò finalmente con Anghelopoulos The Dust of time, uno shooting molto tormentato, rimandato già più volte, a fianco di Harvey Keitel. Con quali registi ti piacerebbe lavorare in futuro? Sicuramente con i registi della Fluid Video Crew. A dire la verità, ci è mancato davvero poco a girare un film con loro. Ero stata contattata per realizzare il loro ultimo lavoro Fine pena mai, per un ruolo che è stato poi affidato alla bravissima Valentina Cervi. Ho sentito di dover rifiutare la parte perché penso di essere troppo in là con l’età per quel tipo di personaggio. Sono sicura che comunque non mancherà occasione per una collaborazione futura. Sabrina “Zero Project” Manna
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Risalgono già alla seconda metà degli anni cinquanta le prime incursioni in Puglia da parte del cinema italiano e non solo. Da Roberto Rossellini e Pierpaolo Pasolini, fino ad arrivare alle ultime generazioni, molti registi hanno scelto questa regione come set ideale per sviluppare le proprie storie. Autori italiani come Cristina Comencini, Edoardo Winspeare, Sergio Rubini e Alessandro Piva, hanno fatto si che prendesse vita un nuovo tipo di cinema, pensato, ambientato e realizzato in questa regione. A tutto ciò si aggiungono anche i set della fiction di media serialità e dei film destinati alla televisione, che negli ultimi periodi si susseguono sempre in maggior numero su questo territorio. Le produzioni non rivolgono il proprio interesse al sud solo ed esclusivamente per fattori estetico-artistici, ma piuttosto per riduzioni consistenti dei costi giornalieri della fase di shooting, dall’affitto delle stesse location e degli alloggi. Inoltre, il personale proveniente dalla Puglia, viene spesso utilizzato a supporto dei vari reparti. Ultimamente però si sta verificando una spiacevole controtendenza. Le case di produzione preferiscono infatti arrivare sul territorio con delle troupe complete di assistenti, nonché di location manager, rinunciando quindi all’ingaggio di maestranze locali. Ciò deriva dalla quasi totale assenza di enti che si rivolgono esclusivamente al marketing territoriale e alla promozione degli operatori del settore. Inoltre le scuole di formazione hanno i propri poli di eccellenza a Roma e Torino, per quanto riguarda il cinema e Milano per la televisione. Da questa serie di problematiche è sorta dunque l’esigenza di istituire la Apulia Film Commission. Silvia Godelli, assessore al Mediterraneo della Regione Puglia, è attualmente presidente del neonato ente regionale: “È stato necessario un anno per costituirlo a livello giuridico e per stilare uno statuto completo. Tuttora però si sta cercando di chiudere il cerchio intorno a quello che sarà il futuro consiglio di amministrazione. Solo da questo momento in poi si potrà far partire l’attività ordinaria della Film Commission. Sin dall’inizio è stata prevista la presenza attiva delle Province e dei capoluogo, anche se tuttora tardano ad arrivare da quest’ultimi le sottoscrizioni al documento ufficiale. Una prima importante risposta è comunque ar-
rivata dalla Confindustria di Lecce che ha aderito come soggetto economico.” “La Fondazione Film Commission”, aveva sottolineato il presidente della Provincia di Lecce Giovanni Pellegrino, “è stata fortemente voluta dall’Amministrazione Provinciale che ha collaborato con la Regione Puglia sin dalle prime fasi di stesura dello Statuto e del Regolamento. Si tratta di implementare la significativa e positiva esperienza del Salento Film Fund, che a questo punto cessa la sua attività confluendo in questo progetto regionale che potrà meglio affrontare le sfide che i processi di trasformazione in atto nell’industria del cinema e dell’audiovisivo pongono ai territori”. Proprio grazie all’esperienza maturata in questi anni dalla Provincia di Lecce nel campo degli audiovisivi ad essa è stata riconosciuta la facoltà di esprimere il vice presidente della Fondazione indicato da Pellegrino nella figura del responsabile dell’Ufficio Cultura, Luigi De Luca. Oltre all’attività di ricerca e offerta location e servizi, si dovrebbe però puntare maggiormente alla valorizzazione delle nostre maestranze e dei tecnici. Sempre secondo l’assessore “la Puglia intende diventare nei prossimi anni un importante polo produttivo per il digitale. Vuole infatti specializzarsi soprattutto nelle neotecnologie, dell’High Definition e della grafica e animazione 3d”. Non solo, ma esiste anche il progetto di una maggiore e migliore fruizione
delle sale cinematografiche, soprattutto quelle esistenti sul nostro già da qualche decennio, ristrutturandole e adibendole esclusivamente alle proiezioni in HD. Nel mese scorso è stato infatti inaugurato uno delle primi centri di questo tipo a Santo Spirito a Bari. Il primo passo verso il compimento di questo importante progetto deve necessariamente partire dalla costituzione di un numero consistente di corsi e scuole di formazione in loco, non tanto indirizzate verso i settori della artistici del cinema, come la regia o la recitazione, ma piuttosto atte a formare tecnici e, soprattutto, esperti e capireparto di fotografia, macchinisti o addetti alla produzione che riescano ad operare agli stessi livelli di quelli che provengano dalla “scuola” romana e, negli ultimi anni, da quella torinese. Pochi giorni fa inoltre è stato firmato un protocollo d’Intesa, tra il Consiglio Internazionale del Cinema, della televisione e della Comunicazione audiovisiva presso l’UNESCO (CICT-UNESCO), la Regione Puglia, il Comune di Specchia e l’Istituto di Culture mediterranee della Provincia di Lecce (ICM), per la realizzazione di una Mediateca Multifunzionale per l’area Euro Mediterranea con sede nel Castello del piccolo borgo salentino.Il progetto condurrà alla realizzazione di un progetto destinato a dotare l’UNESCO di una piattaforma satellitare per trasmettere programmi educativi, culturali, scientifici e diffondere in tal modo i principi fondamentali che animano l’attività dell’Agenzia, contribuendo al raggiungimento di uno degli obiettivi dell’ONU. E proprio Specchia dovrebbe ospitare la nuova edizione del Cinema del Reale, la rassegna dedicata al documentario, organizzata da BigSur e diretta dal regista Paolo Pisanell (nella foto) i all’interno di Salento Negroamaro. Sabrina “Zero Project” Manna
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Philip Glass sarà l’ospite principale della quarta edizione di Sound Res, festival di musica contemporanea organizzato da Loop House e Coolclub, sotto la direzione artistica di Alessandra Pomarico e David Cossin, e inserito nell’articolato programma di Salento Negroamaro, rassegna delle culture migranti della Provincia di Lecce. Il musicista statunitense si esibirà giovedì 28 giugno nell’atrio di Palazzo dei Celestini in un concerto esclusivo affiancato dalla violoncellista Wendy Sutter e dal percussionista David Cossin. Glass, che era già stato nel Salento due anni fa con la sonorizzazione dal vivo di Koyaanisqatsi di Geoffrey Reggio, resterà in residenza in una masseria per una settimana per concludere la composizione di un’opera per la San Francisco Opera House. Sound Res, forte del successo della prime tre edizioni e della crescente reputazione conquistata all’estero, manterrà anche quest’anno (dall’8 al 30 giugno) la sua solita struttura con una serie di concerti, workshop, lezioni magistrali, masterclass e laboratori per ragazzi. In residenza ci saranno il contrabbassista
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Robert Black, il chitarrista Mark Stewart, il violoncellista Felix Fan, il percussionista Roberto Pellegrini, il chitarrista/artista Steve Piccolo, il collettivo multimediale Vision into Art composto dalla compositrice Paola Prestini, dal violoncellista Jeff Zeigler (Kronos Quartet), dalla cantante iraniana Haleh Abghari, e dal sound designer Brian Mohr (Kronos Quartet). In questa edizione ai musicisti si aggiungeranno anche degli artisti visivi, che collaboreranno alla creazione di percorsi sonori, installazioni e mostre di sculture sonore. Questa sezione a cura dall’artista Luigi Negro, si arricchisce della presenza di Cesare Pietroiusti, Emilio Fantin, Giancarlo Norese, Steve Piccolo - musicista e artista -e Davide Faggiano come artista locale. Tra gli ospiti anche Ira Glass, noto conduttore del popolarissimo programma radiofonico e ora anche televisivo This American Life, sulle frequenze e i canali nazionali statunitensi, porterà alla registrazione di un programma sul Salento. Info 0832303707 – www.soundres.com – www.coolclub.it
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da giovedì 10 a domenica 13 / L’alternativa a... a Corigliano d’Otranto (Le) venerdì 11 / Enzo Favata trio al Teatro Paisiello di Lecce venerdì 11 / Giardini di Mirò all’Arci Novoli sabato 12 / Serena Spedicato e Marco Della Gatta alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) La vocalist Serena Spedicato e il pianista Marco Della Gatta saranno i protagonisti del nuovo appuntamento della rassegna Tele e Ragnatele della Saletta della Cultura di Novoli. La canzone americana è da sempre la più grande fonte musicale. Le più popolari commedie musicali di scena a Brodway si sono rivelate ideali trampolini per improvvisazioni di grandi solisti, da Louis Armstrong a Cole Porter ai maggiori songwriters quali Gershwin e Berlin. Ad uno dei maestri della canzone america Frank Loesser il duo ha voluto dedicare un’antologia musicale con alcune tra le canzoni dell’indimenticabile autore dove emerge la sensibilità per le melodie classiche ed il gusto stravagante e un po’ retro dei primi anni ’50. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it sabato 12 / Lucio Dalla a Brindisi sabato 12 / Inti Illimani a Galatina (Le) sabato 12 / Miranda ai Sotterranei di Copertino (Le) sabato 12 / Arè rock festival a Barletta sabato 12 / DJ set house per Maggiovani a
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venerdì 18 / Zu + Stearica all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Venerdì 18 maggio la rassegna Keep Cool si chiude all’Istanbul Café di Squinzano (Le) con l’esibizione di Zu e Stearica. Gli Zu sono uno dei gruppi più attivi e quotati dell’avanguardia post-rock contemporanea. Uno stile vulcanico che oscilla tra il free più evoluto e il rock estremo ma mai in forma autoreferenziale. Ne emerge un suono urbano e modernissimo, che incrocia epoche e stili, i maestri del free jazz, i pionieri della No New York, la generazione noise-core con il misticismo di Coltrane, la nevrosi dei DNA e l’iconoclastia dei Big Black. Gli Zu, trio di Roma, dal ‘97 hanno registrato 8 album e girato per l’Europa ed Usa in centinaia di concerti in diversi tour in solo e con The Ex, No Means No, The Vandermark 5, Dkv Trio, Ruins, Fantomas, Otomo Yoshihide, Chris Cutler, Fred Frith, Tom Cora, Han Bennink, Dalek, Eugene Chadbourne, Mats Gustafsson ed altri. Chitarra, basso e batteria la base del suono degli Stearica. Molto di più di questi tre elementi il suono che ne risulta. La band ha divorato decine di migliaia di km, suonando da luoghi storici dello stivale sino al principale festival baltico nella città di Liepaja, organizzato da Zona, la stessa label che distribuisce negli ex paesi sovietici, mostri sacri come Robert Wyatt, Pixies, Joy Division, Dead Can Dance... per citarne solo alcuni. Appena terminati i missaggi del loro primo disco ufficiale che vanta ospiti straordinari come Dälek MC e Oktopus producer (Dälek), Amy Denio (Fred Frith, Derek Bailey, Matt Cameron, The Tiptons, etc. ), Jessica Lurie (Bill Frisell, Nels Cline, The Indigo Girls, The Tiptons, etc. ), Massimo Pupillo (ZU, The Original Silence, etc. ), Nick Storring (Damo Suzuki network, Picastro). Inizio ore 23.00. Ingresso 5 euro. Info www.myspace.com/zuband, www.coolclub.it – 0832303707.
Corigliano d’Otranto (Le) giovedì 17 / Squartet al Matisse di Bari venerdì 18 / Miss Fraulein all’El Royo di Alezio (Le) venerdì 18 / Jam Session al Solaire di Marina di Andrano (Le) Roberta & Carlo presentano Jam Session,
un live itinerante dedicato ai musicisti appassionati di tutti i generi. Dodici appuntamenti per dodici locali tra le province di Lecce e Brindisi. Ingresso gratuito. sabato 19 / Germano Bonaveri alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)
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Si intitola Magnifico il cd d’esordio dello scrittore e musicista Germano Bonaveri che sarà presentata alla Saletta della Cultura Gregorio Vetrugno di Novoli all’interno della rassegna Tele e ragnatele. Un cantautore, già fondatore dei Resto Mancha, nel senso classico del termine. Impegnato e musicalmente essenziale. “Il percorso del mio scrivere e comporre musica è scandito dal quotidiano”, sottolinea Bonaveri. “Scrivo di getto cercando di essere il tramite tra l’esperienza e la canzone con la solida certezza di non avere risposte ai tanti interrogativi che mi pongo. Mi piace immaginare di poter dare voce e parola alle emozioni delle persone che ascoltano e trovarmi a parlarne alla fine di un concerto”. Ingresso 5 euro. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it sabato 19 / Leitmotiv al Teatro Antoniano di Lecce
La rassegna Suoni a Sud, organizzata da Teatro Antoniano e L’orchestrina, si chiude con il live dei tarantini Leitmotiv freschi vincitori delle selezioni regionali di Italia Wave. Le loro canzoni, che coprono i generi più diversi, sono in italiano, francese ed inglese. È dall’incontro e dallo scontro del locale con il globale che la loro musica prende vita e creatività, nelle sonorità e nei contenuti testuali, cercando un difficile trait d’union tra la forza e l’impatto del rock, la tradizione cantautoriale e l’animosità della musica mediterranea. La band è composta da Giorgio Consoli (voce), Dino Semeraro (batteria), Giovanni Sileno (chitarra e piano), Giuseppe Soloperto (basso). Il Teatro Antoniano è in Via Monte San Michele, 2 a Lecce. Inizio ore 21.00. Ingresso platea 10 euro (8 ridotto) – galleria 5 euro. informazioni e prevendita 0832.392567
sabato 19 / Finale Szigest Festival on tour al Teatro Kismet di Bari sabato 19 / Radici nel Cemento a Tricase (Le) sabato 19 / Altri talenti, Fernando Conte, I ragazzi disobbedienti e Sostanza per Maggiovani a Corigliano d’Otranto (le) domenica 20 / Exploited al Teatro Kismet di Bari Il gruppo si formò nel 1980 a Edimburgo e fin da subito si buttò a capofitto in un’incessante attività live, spesso segnata da risse e violenza e caratterizzate dal front-man Wattie Buchan che indossava magliette con la svastica, insultava il pubblico e incitava alla violenza. Comunque sia gli anni ‘80 si rivelano il periodo d’oro della band, infatti dopo aver firmato un contratto con la Secret Records cominceranno ad incidere una serie impressionante di album di studio, EP, LP, album live e una manciata di raccolte per fermarsi solo brevemente nel 1990. Gli anni ‘90 saranno un periodo relativamente calmo, per quanto riguarda l’aspetto discografico, per la band che in una decina di anni pubblica solo un paio di album in studio, una manciata di raccolte e qualche live album. Apriranno Los Fastidios, Non Toccate Miranda e Payback. lunedì 21 / Apres la Classe a Casarano (Le) venerdì 25 / Shank + Cast thy Eyes + Warknife all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Sonorità pesanti per questo venerdì dell’Istanbul. Sul palco uno dei gruppi più longevi e importanti della scena metal salentina. Gli Shank, che presenteranno i nuovi brani, saranno affiancati dai Cast thy Eyes (brutal post metalcore) e Warknife (trash metal). sabato 26 / Sparklehorse a Bari sabato 26 / Skarlat + Vallanzaska a Corigliano d’Otranto (Le) La manifestazione “Maggiovani – mica tanto x...” si chiude con un concerto carico di ritmi in levare. I salentini Skarlat condivideranno infatti il palco con i Vallanzaska. La band si impone da anni grazie al mix di ska, rocksteady, pop, reggae, punk e rock. Tutto accompagnato da testi ironici, sarcastici, dissacranti. Ingresso libero. Inizio ore 21.00.
CoolClub.it Info www.maggiovani.it sabato 26 / Lorenzo Hengeller alla Saletta della Cultura di Novoli (le) A dispetto del cognome, Hengeller è napoletano. Nel 1998 esce il suo primo cd, “Hengellers” . Nel 2004 con l’etichetta Polosud pubblica il suo secondo disco: “Parlami Mariù... ma non d’amore!”, che spinge Stefano Bollani a dichiarare: “Lorenzo rivitalizza le canzoni dell’epoca di sua/nostra nonna con un occhio affettuoso e l’altro ironico...”. Ingresso 5 euro. sabato 26 / Daemonia a Santa Maria di Leuca (Le) sabato 26 / Rita Marcotulli per Archeo jazz hall a Cavallino (Le) sabato 26 / Ludmilla ai Sotterranei di Copertino (Le) domenica 27 / Dr. Blues & Soul Brothers a Carmiano (Le) venerdì 1 giugno / Disguise, Clinicamente Morti me Darkest Insania all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)
teatro venerdì 18 maggio / Da Bussotti a Cocteau ai Cantieri Koreja di Lecce Da Bussotti a Cocteau presso i Cantieri Teatrali Koreja sarà l’evento “straordinario” del Festival Oltrepasso 2007, soprattutto per la presenza del grande compositore italiano Sylvano Bussotti: l’irrequietezza artistica e culturale di un genio che scrive disegnando la “sua” musica in pentagrammi desueti portandoci su pianeti inesplorati per provocare con essa sensi irripetibili tra teatro, danza e ancora musica. La regia del concerto è pensata per dare al pubblico una visione esclusiva e intimistica di un personaggio complesso per la varietà e l’estro multiforme che lo hanno portato ad essere uno dei capisaldi della musica “classica moderna”. Lo spettacolo celebra
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con Bussotti anche i compositori della “musica in scena” del Novecento, oltre a brani musicali e vocali di Debussye, Ravel, Poulenc e lo stesso Bussotti Toni Candeloro, per la prima volta come attore si immerge nell’ambiguo monologo al telefono La voice umane di Jaene Cocteau a cui l’intera regia dello spettacolo si ispira. Alla fine della presentazione sarà consegnato il premio “La Provincia di Lecce premia l’Arte” al M.tro Sylvano Bussotti. Biglietto intero € 10,00 - ridotto (sotto i 25 e sopra i 60) € 7,00. info 0832.242000 sabato 26 e domenica 27/ Zerogrammi ai Cantieri Koreja di Lecce Questo lavoro vuole raccontare la leggerezza, il vuoto, dire niente, noi di fronte a noi stessi, svegliarsi la mattina e tutto quello che c’è in una giornata un po’ inutile. In mezzo all’arrabattarsi in mille modi hanno preso forma due personaggi, drammatici malgrado essi stessi. Che ci prospettano un mondo sub-reale là dove nulla accade, dove tutto è così leggero da non esistere, quel nulla beckettiano che potrebbe sopraffare un uomo qualunque che cammina lungo una strada qualunque. Proviamo a raccontare un’esperienza umana, la coesistenza, un qualunque momento di una qualunque giornata in un qualunque luogo dove due vite si incontrano, si contrappuntano, si affezionano, si infervorano convinte di Essere e segnare tracce del proprio passaggio per ripetersi in realtà grottescamente inconcludenti. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Sipario ore 20.45. Info 0832242000.
Mostre 23 maggio 23 giugno / Looks di Sergio Perrone al Caffè Letterario di Lecce Dal 23 maggio al 23 giugno al Caffè Letterario di Lecce in Via Paladini 46, espone Sergio Perrone, giovane fotografo leccese. Looks è il titolo della mostra che si sviluppa in due capitoli. Il primo è un attento “sguardo” su oggetti di produzione industriale che perdono la funzione per la quale sono stati creati per acquisirne un’altra. Il secondo capitolo è il racconto di un viaggio a New York. Anche qui lo spazio è protagonista. L’ambiente urbano sapientemente ritratto è lo scenario in cui i protagonisti della quotidianità newyorchese agiscono.
CoolClub.it Vi sono sette entità preposte ad altrettanti aspetti dell’esistenza umana: Destino, Morte (Death), Sogno (Dream), Distruzione, Desiderio, Disperazione e Delirio, l’ultimogenita di quest’inconsueta famiglia, gli Eterni. Essi non sono divinità ma concetti incarnati, sorti assieme alle creature viventi all’alba dei tempi e che al loro termine svaniranno. Il terzogenito Sogno ha trascorso tutto il ventesimo secolo imprigionato nelle segrete d’un maniero inglese, a causa della follia d’un massone che ha pasticciato con oscuri riti. Alla morte di questo, Morfeo (uno dei suoi innumerevoli nomi) è nuovamente libero, tuttavia il regno dei sognatori, dalle dorate sabbie, giace in rovina, devastato dall’assenza del suo monarca e molti altri inquietanti eventi sono accaduti nel mondo degli uomini durante tale periodo. The Sandman, la più prestigiosa delle testate pubblicate dalla Vertigo (la linea editoriale adulta della D.C. Comics), si apre con la ritrovata libertà dell’emaciato Sogno e con il suo tentativo di ristabilire l’equilibrio infranto dalla sua prigionia; Morfeo è metodico e del tutto ligio alle proprie responsabilità poiché egli è il suo lavoro, letteralmente. Egli è il signore delle storie, in quanto cosa sono i sogni se non frammenti ancestrali della “grande narrazione condivisa”? E Morfeo ne è l’ispirato custode, affetto da una tale abnegazione al proprio ruolo da essere, apparentemente, il meno umano trai suoi fratelli e sorelle, assieme a Destino, saccente e polveroso incappucciato, che vaga cieco ed indifferente nelle vie del proprio giardino, incatenato al libro degli eventi. Sono molto più vicini alle mediocrità ed alle virtù umane, l’androgino Desiderio, dallo sguardo e dal sorriso affilati come voluttuose lame; egli/ella è tutto ciò che ogni essere umano brama e la sua mancanza sprofonda nel nebuloso reame della sua deforme gemella Disperazione, che osserva da infinite finestre le amenità delle nostre vite. Delirio, al contrario, non ha alcun sentore delle altrui sofferenze: simile ad una “punkabbestia” dai capelli colorati, la più piccola degli Eterni ha un occhio verde ed uno blu nel quale sguazzano pesciolini argentei, simboli della sua follia. Un tempo era Delizia ma poi gli uomini furono cacciati dall’Eden e venne l’ora del cambiamento che li portò tra le braccia di Death; incapace di accettare ciò, ella impazzì divenendo Delirio. Mentre Distruzione con l’avvento della Rivoluzione industriale, resosi conto che gli uomini non avevano bisogno del suo lavoro, se n’è andato lasciando le proprie mansioni per tentare la carriera creativa (!) come un semplice mortale, nascondendosi dal-
a maggio inaugurazione terrazze
la sua ingombrante famiglia. Attraverso i dieci cicli che costituiscono la saga di The Sandman lo sceneggiatore Neal Gaiman ha tessuto un affresco nel quale il lettore è avvinto dalla bellezza dei personaggi sopra presentati e dalla straordinarietà di trame che lasciano il segno. Gaiman ci accompagna nel ’600 elisabettiano, durante la prima rappresentazione di Sogno d’una notte di mezza estate inscenata da un intimorito Shakespeare di fronte ai veri Oberon e Titania ed all’intero popolo fatato, in procinto di abbandonare il nostro mondo perché gli umani non credono più in loro; nell’Africa dell’età del mito dove una splendida mortale osò rifiutare l’amore di Sogno, che la condannò a indicibili torture nell’inferno di Lucifero, dal quale andrà a riscattarla, dopo aver saggiato egli stesso una dura prigionia, trovandolo però vuoto; nella Grecia delle divinità dell’Olimpo, durante l’infausto matrimonio di Euridice ed Orfeo, figlio della musa Calliope e di Sogno, che segnerà il fato di quest’ultimo, profondamente. Gaiman stupisce con la sua smisurata conoscenza del Mito d’ogni luogo del pianeta, tuttavia questa è soltanto una delle qualità della sua prosa; attraverso la lettura di Sandman si ha quasi un’esperienza terapeutica dalla forte valenza catartica, da cui si esce riappacificati con noi stessi e con l’intero genere umano… Basta soltanto accennare alla figura di Death, la morte, così lontana dall’iconografia popolare: una ragazzina solare e dalla saggezza zen e dal look dark, che ha sempre una parola di conforto per coloro che deve “prendere” ed il cui film preferito è Mary Poppins! Sin dal suo esordio nell’episodio Il suono delle sue ali, nel quale riprende il fratello Morfeo (colpevole d’essere caduto in un’immotivata depressione), Death ha conquistato i lettori con la sua personalità risoluta e brillante (ella non ama gli inutili fronzoli di cui adorniamo le nostre vite, essendo fin troppo consapevole di quanto sia alto il costo di esse), divenendo una delle creazioni più riuscite dello sceneggiatore inglese. Potrei scrivere decine di pagine su The Sandman, fumetto che ha suggellato definitivamente il mio amore per tale medium, ma vi dirò soltanto ciò: Gaiman ha lo stesso dono di artisti come Lynch e Battiato, ovvero la capacità di conquistare qualsiasi tipologia di persona, al di là del suo background culturale grazie alle corde che tocca con la propria scrittura. Ancor oggi, a distanza di dieci anni dalla conclusione della sua lettura, quando m’addormento flebilmente prego d’incontrare Morfeo sulle spiagge dei lidi del Sogno. Roberto Cesano
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