Coolclub.it n.25 (Maggio 2006)

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Carver scriveva grandi libri non c’è che dire, quello lo faceva di mestiere, c’ha fatto pure un libro su sta cosa...figurati. Cioè anche io ho scritto delle cose...si poesie per la precisione. Come?No, non uso endecasillabi, no, no sonetti dici? No, io mi lascio ispirare dal momento e poi scrivo di getto. Cosa dici? No, veramente non l’ho letto, cioè non leggo molti libri di altri. È che non vorrei mi influenzassero. Si, mi piacerebbe fare anche io lo scrittore, magari scrivere un romanzo...lo sai che Fabio Volo ne ha scritti più di uno? Sai che ho pensato...scrivo un romanzo, se scrivo un romanzo sai le femmine?...poi ho pensato, si vabbhè lo faccio ‘sto libro ma alla fine che cazzo ci scrivo dentro. Adoro la Tamaro, credo che Moccia sia proprio un giovane promettente. Cosa? Ha l’età di mio padre...ah. Ma come avrà fatto a scrivere più di trecento pagine...cioè non si riesce neanche a leggerle, figurati a scriverle. Si adoro i Russi, Camus è sicuramente il mio preferito. Si, se vuoi posso recensire dei libri per il giornale...quindi li devo leggere. Ma poi mi chiedo, come faceva Bukosky a scrivere i libri con tutto quello che si beveva, io a stento riesco ad aprire la porta di casa... Apprendisti romanzieri, provetti lettori, questo numero di Coolclub.it è dedicato a voi, a chi ama, ognuno a suo modo, la scrittura. In un momento in cui sembra non si neghi un libro a nessuno, nel mare di pubblicazioni, nell’oceano di scrittori, che valore ha il mestiere di scrivere? Vivere per la scrittura o vivere di scrittura? Questo è il dilemma, avrebbe detto un marzullo con svarioni shakespeariani. Abbiamo scelto il tema portante del giornale motivati da un evento che ci emoziona come una nascita. Gianni d’Attis, amico di una vita e generoso collaboratore di queste colonne, ha pubblicato il suo primo romanzo per Marsilio. Quando succedono queste cose è difficile trovare le parole, e allora si passa ai gesti. Questo giornale è il mio e nostro omaggio a lui e al suo splendido libro. Per parlare di scrittura abbiamo preferito le parole di chi lo scrittore lo fa veramente. All’interno troverete le interviste a Vincenzo Cerami, Pietro Grossi, Enrico Brizzi, Mario Desiati, agli ideatori dei siti Mestiere di scrivere e Scrittura creativa, e gli interventi dei salentini Livio Romano (che tra poco darà alle stampa il suo nuovo romanzo) e Rossano Astremo (nostro valido collaboratore e fresco di pubblicazione). Abbiamo colto l’occasione per parlare di Chiedi alla polvere, film tratto dal romanzo di John Fante. Per fare questo abbiamo striminzito un po’ la parte dedicata alla musica, dichiarata vocazione della nostra rivista. Troverete altri sensibili cambiamenti, frutto di partenze e arrivi in redazione. Ne approfittiamo per salutare Roberto che le brilla de luntan e per dare il benvenuto a Danilo e al suo cane Congo, per gli amici Ciculu. Osvaldo Piliego

CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it redazione_bari@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno 3 Numero 25 maggio 2006 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Hanno collaborato a questo numero: Nicola Pace, Livio Polini, Giovanni Ottini, Camillo Fasulo, Dino Amenduni, Federico Baglivi, Dario Quarta, Massimo Ferrari, Ennio Ciotta, Gennaro Azzollini, Ilario Galati, Il Passo del Cammello, Rossano Astremo, Anna Puricella, Valentina Cataldo, Simone Rollo, Sabrina Manna, Nino G. D’Attis, Livio Romano, Roberto Cesano Ringraziamo Claudio Longo e le redazioni di Blackmailmag. com, RadioErre di Foggia, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, QuiSalento, Pugliadinotte.net.

IL MESTIERE DI SCRIVERE 4 Vincenzo Cerami 6 Gianni D’Attis

9 KeepCool 16 Sound Res

19 Maninalto!

23 Coolibrì

20 Xiu Xiu

28 Mario Desiati

31 BeCool

36 Appuntamenti

34 Livio Romano

38 Fumetti

Progetto grafico dario Impaginazione Danilo Scalera Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione nel primo giorno dell’era postberlusconiana. Per inserzioni pubblicitarie: Antonietta Rosato T 3404722974 antonietta@coolclub.it

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CoolClub.it C UI n tNe r v Fi sAt a lea VGi nNc eAn zme di t A le N t O o Cerami

il mestiere di scrivere

Saper narrare è dote rara di questi tempi e spesso chi lo fa pecca d’esperienza. Non è il caso di Vincenzo Cerami, uno dei mostri sacri della narrazione italiana ospite di recente al Museo Sigismondo Castromediano di Lecce per la presentazione di Incontro, il suo ultimo libro edito da Mondadori, in un evento organizzato da Libreria Palmieri e Astragali Teatro. È stata l’occasione per una chiacchierata su letteratura e carriera, sul mestiere di scrivere e sul talento necessario a farlo. Ne viene fuori qualcosa che assomiglia molto al consiglio di un insegnante affettuoso a un allievo dotato ma troppo sognatore. Non è cosa nuova per Cerami che già in passato aveva affrontato l’esperienza didattica di corsi e lezioni sfociata poi in un libro, Consigli a un giovane scrittore, in cui tira fuori i segreti del mestiere. Che in realtà sono più semplici di quello che si pensi. Scrivere è una cosa semiseria e come tale va affrontata. Senza calcoli o segreti. Solo con la voglia di raccontare ciò che gli altri fingono di non vedere. Questo numero di Coolclub.it è incentrato sul mestiere di scrivere. Lei come concilia passione e dovere? Momenti in cui non ha ispirazione a quelli in cui ha scadenze e vincoli da rispettare? Il concetto di ispirazione è più complesso di quello che si pensa. Io sono convinto che Dante Alighieri in tutta la sua vita avrà avuto 5-10 minuti al massimo di ispirazione, cioè di momento magico. Il resto è lavoro. Basta pensare a Balzac e alla Comédie Humaine, se avesse dovuto aspettare l’ispirazione per scrivere certo non avrebbe fatto quell’opera imponente, anzi lui scriveva anche perché aveva i creditori che cercavano di sfondargli la porta. Dopodichè l’ispirazione è un momento in cui uno vede tutta l’opera fatta, ha l’idea dello stile e del racconto, però poi lo deve scrivere, lo deve fare. Allora solo il momento in cui ha l’idea è il momento dell’ispirazione, ma quando si mette a scrivere deve lavorare. Capita

che durante il lavoro si riaccenda la luce, ma per pochi attimi perché ti dà un’altra spinta per andare avanti. Ma non si può stare lì ad aspettare l’ispirazione prima di scrivere altrimenti uno non scriverebbe mai nella vita. Lei è uno scrittore di successo e dalla lunga carriera. Ma cosa deve fare chi si affaccia oggi a questo mondo con molti sogni e poche certezze? E soprattutto scrivere può essere ancora un mestiere? Non bisogna avere un’idea della scrittura come identità sociale, né come mestiere. Se poi uno riesce a vivere con la scrittura tanto di guadagnato, perché almeno ha più tempo per scrivere però gli scrittori che vivono di scrittura sono pochissimi e in genere sono persone che hanno un altro lavoro. Uno deve scrivere non perché deve cercare di campare, dovrebbe scrivere in maniera libera senza dover dipendere dal mercato, dagli editori, dai rettori. Deve essere libero e per esserlo non può essere ricattabile economicamente. Dovrebbe salvaguardare la propria libertà e farlo significa non far coincidere il lavoro di scrittore con la propria professione. Per cui può accadere come mi è successo, ma se non avessi fatto cinema e teatro probabilmente avrei fatto l’insegnante. Tra tutte queste cose io riesco a farcela ma non faccio mai nulla che sia soltanto per vivere. La sua carriera è contraddistinta dalla poliedricità: cinema, teatro, televisione, letteratura. È essenziale per uno scrittore saper essere versatile? E cos’è che personalmente le piace più fare e perché? Io nasco letterato, nel senso che ho cominciato con la letteratura anche perché è quello che costa di meno. Basta un pezzo di carta e una penna per farlo. Poi dopo la fortuna e il caso hanno voluto che io incontrassi nella mia vita Pasolini che fu mio insegnante di lettere e che aveva scoperto in me questa vocazione narrativa. Me l’ha incoraggiata e poi mi ha

( vi N ce N Z O cer A mi - F portato con se quando ha fatto il cinema e il teatro. Quindi io ho potuto imparare anche queste altre arti che sono altri strumenti per poter raccontare. Sono un narratore soprattutto, prima di essere uno scrittore, ed è necessario poter raccontare sfruttando appieno tutti i linguaggi che ho imparato a frequentare. In un mondo come il nostro dove c’è sempre meno spazio per crescere, che cos’è per lei il talento? È una dote innata o è qualcosa che va nutrito? E infine basta il talento per saper scrivere? Io credo che il talento vada alimentato.


CoolClub .it SONO UN rAGAZZO FOrtUNAtO

F O t O C l A U di O L O N G O ) Certamente ci sono delle persone che sanno raccontare bene le barzellette e altri che non le sanno raccontare. Io conosco molti tassisti che le raccontano in maniera perfetta, con i tempi giusti, non sorridono e conosco professori universitari che le raccontano malissimo. Il talento è qualcosa che non ha a che vedere né con la cultura, né con nient’altro. È un istinto che ti può servire, ma certamente va nutrito perché da solo non basta. Può bastare per chi scrive un’opera sola.

Michele C. Pierri

“Mi sento fortunato perchè non ho molti amici che fanno un lavoro che sia contemporaneamente la loro passione. Ho firmato il primo contratto a diciotto anni, e in un certo senso spero di firmare l’ultimo subito prima di quando non avrò più storie da raccontare”. Enrico Brizzi è veramente un ragazzo fortunato. Classe 1974 è diventato famoso prima in Italia e poi in mezzo mondo con il suo romanzo d’esordio. Jack Frusciante è uscito dal gruppo è stato uno dei casi letterari dei primi anni ’90, vero e proprio inno generazionale per migliaia di giovani. Negli anni successivi Brizzi ha proseguito la sua carriera con Bastogne e altri romanzi di successo (tutta la biografia è on line sull’aggiornatissimo sito www. enricobrizzi.it). Recentemente la Black Candy ha pubblicato il cd Nessuno lo saprà nel quale lo scrittore si esibisce al fianco del gruppo bolognese Frida X. Un racconto musicale che ripropone l’omonimo romanzo che narra la lunga camminata da costa a costa, dal Tirreno all’Adriatico. Come convivi con un esordio così ingombrante? Credo che gli altri ci pensino più di me. Per me Frusciante è stato l’inizio dell’avventura: indimenticabile come tutte le prime volte, ma anche molto lontano nel tempo. Cosa pensi del proliferare delle scuole e dei corsi di scrittura creativa? Pensi che sia una buona via alla nascita di nuovi e validi autori? Per quel che ne so io, la scrittura non si impara in una classe, ma in una fucina, in un rapporto fra due, tre, massimo quattro persone, possibilmente di notte come tutte le arti magiche. Servono

maestri degni e allievi capaci di mettersi in discussione senza traumi. Qual è la situazione attuale della narrativa nel nostro paese. Esiste, secondo te, una vera e propria scuola italiana? La scuola italiana esiste, e ne fanno parte quanti scrivendo provano a lavorare a fondo con la nostra nobile lingua. Non supereremo mai gli anglosassoni sulle trame, ma possiamo essere fieri del nostro patrimonio lessicale e di tradizione, pronto per essere conosciuto, stravolto e reinterpretato nello scenario del XXi secolo. Ci racconti il tuo viaggio che ha portato al progetto Nessuno lo saprà? Perché hai sentito l’esigenza di camminare tanto... Molto semplicemente, si trattava di un vecchio sogno. Una volta con Giovanni (Wu Ming 2) sono andato al mare a piedi, una volta da Bologna a Firenze, e questa della traversata da mare a mare era un’impresa che si autoimponeva guardando la carta d’Italia: certo, da Nord a Sud è lunga, ma “per il lato stretto” bastano tre settimane... Nella tua carriera la musica mi sembra molto presente. Non solo nei libri ma anche nella tua esperienza di “cantante”. Come mai la necessità di mettere in musica le tue parole... Come nasce l’idea del disco con I Frida X? Non sono un cantante. Non più di Omero o di Kerouac, insomma. Sono uno che legge le proprie storie al microfono con intorno la musica che trova più adatta. Il successo di Jack Frusciante ti ha portato anche nelle sale cinematografiche. Cosa ci puoi dire della tua esperienza al cinema? Un mezzo fallimento. Fra le cose positive metto l’esordio di Accorsi, le partecipazioni di tanti amici e l’ottima colonna sonora. Fra le negative, il rapporto con la produzione. Volevano persino farmi firmare per il seguito, Jack Frusciante II - Adelaide torna dall’America, un progetto supersize in esclusiva per il cinema, ma ho rifiutato e perso la chance di diventare miliardario a vent’anni. Sarà per la prossima volta. Pierpaolo Lala


CoolClub .it C M ON T E ZU M A A I R B AG Y OU R P A R D ON

il mestiere di scrivere

“Al momento provo sentimenti contrastanti: un mix impossibile di piacere e disorientamento perché devo promuovere un libro fresco di stampa che ha occupato per un lungo periodo la mia testa, i miei taccuini, la memoria del mio pc, e nel frattempo è arrivata un’altra storia da raccontare. Sono di nuovo incinto!”, racconta così il suo esordio letterario Gianni D’Attis, salentino di nascita e romano di vita. In quanto tempo hai scritto Montezuma airbag your pardon? Ho impiegato cinque anni e quattro stesure diverse, le ultime due dedicate quasi interamente alla lingua del romanzo. È un periodo piuttosto lungo, me ne rendo conto e a mia parziale discolpa potrei tirare in ballo i problemi di sopravvivenza: Faulkner controllava i pali della luce, a me è toccato un call center. È anche vero però che sono molto lento a scrivere, almeno le storie di largo respiro: parto da un’idea, prendo appunti che mi trascinano verso altri appunti, altre domande...un lavoro lungo. Partiamo dall’inizio: mi parli della copertina e del titolo? La copertina è opera di Alberto Valerio ed è nata da una collaborazione tra la casa editrice e lo IUAV. Nel novembre scorso mi sono recato a Venezia e per un paio d’ore ho bombardato di input una trentina di studenti del laboratorio di design editoriale parlando del libro e mostrando loro una serie di immagini legate alla storia. Il titolo viene fuori da una storpiatura: Montezuma è il nome del cane di uno dei personaggi, l’airbag è un sistema di sicurezza assente nella vita del protagonista, mentre “Airbag your pardon” è un modo bizzarro di pronunciare la frase inglese “I beg your pardon”. Il protagonista del tuo romanzo vive la condizione del meridionale trapiantato altrove ed è una figura che viene dal passato a muovere le fila della storia. Qualcuno ha detto che “è sempre un’assenza la causa di tutto”. Che ne pensi? Ah, la “Visione fantasmatica”! Il femminile come mancanza, alla maniera del Don Giovanni visto con gli occhi di Carmelo Bene è un buon punto di partenza. Il

G I ANN I D ’ A T T I S f o t o m a s s i m o c a r l o n i

senso del mio libro è condensato nell’epigrafe di Rimbaud posta all’inizio, una riflessione sull’assassinio della Bellezza, sui molti e fantasiosi modi che hanno gli uomini per offenderla. L’Io narrante del libro è spregevole, immaturo: un Peter Pan negativo calato in un’epoca negativa e in una nazione al collasso. È l’assenza di profondità la causa di tutto. Montezuma airbag your pardon è il tuo primo libro, ma non ti si può certo considerare uno scrittore per così dire novello. Ma è un debutto continuo, altrimenti sai che noia! Ho cominciato a sei anni e non mi sono più fermato...hai idea di quanti soldi avrei potuto fare se mi avessero offerto un contratto alle elementari? Sei stato paragonato a nomi importantissimi della scrittura mondiale. Mi indichi qualche

Diceva Salinger: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. Questo libro per me è stato così, e fortunatamente questa volta conoscevo davvero l’autore e appena finito di leggerlo ho potuto chiamarlo al telefono e dirgli che questo libro, cavoli, è scritto bene davvero e fare due chiacchiere con lui e farmi raccontare da lui, di nuovo, quello che avevo letto. Nino G. D’Attis, che io chiamo Gianni, è uno scrittore esordiente, nel senso che questo è il suo primo romanzo, ma certamente non si può parlare di esordio nella scrittura, che lui pratica da oltre vent’anni. E questo sua lunga frequentazione della palestra della pagina scritta si vede. Si vede nell’attenzione data ad ogni parola. Si vede nella precisa costruzione di ogni frase, di ogni periodo. Si vede nella vividezza dei personaggi, nella coerenza dei loro pensieri e delle loro azioni, di quello che dicono. Si vede nella sapiente architettura della storia, compatta e senza sbavature, che ti porta dall’inizio sereno, quasi comico al finale aperto che ti lascia senza fiato e senza speranza. E questo inevitabilmente mi porta a fare dei paragoni forse troppo altisonanti ma

tuo maestro? William Burroughs su tutti. Poi James Ballard e in generale i migliori autori di satire, da Swift a Burgess. La cura per la lingua l’ho appresa dai soliti noti, ovvero Gadda e Pasolini. Questo numero di Coolclub.it è dedicato al mestiere di scrivere. È ancora possibile secondo te oggi vivere di scrittura? E credi che ci sia una differenza tra il mestiere di scrivere e lo scrivere per mestiere (perdonami la marzullata)? Sai quanto vale oggi il lavoro culturale nel Paese delle aspiranti veline, dei genitori che allevano futuri centravanti digiuni di libri? Devi conoscere le regole fin dall’inizio, per non doverti poi lamentare nel caso ti tocchi pagar pegno. È certo però che qualora non riuscissi a guadagnarmi il pane scrivendo farei un altro mestiere ma


CoolClub .it I GIOVANI PUGNI DI

intervista a Gianni D’Attis

certamente azzeccati: uno, richiamato anche nel risvolto di copertina è Bret Easton Ellis e l’altro, europeo, è Michel Houellebech, entrambi cantori della disperazione di un’epoca. Ma c’è una differenza essenziale che balza agli occhi. I due citati “scrittoroni” narrano le vicende di una classe altoborghese economicamente agiata che si trova a comportarsi in una certa maniera forse per noia, forse per inadeguatezza al mondo circostante. D’Attis invece parla del neoproletariato italiano. Infatti tutta italiana è la sua vicenda, ambientata in una Bologna che di rosso ha ormai ben poco, una Bologna fatta di gente che cerca di restare a galla nella merda. E alla merda è dedicata una delle pagine più riuscite, a mio avviso, dell’intero romanzo, un’elucubrazione del protagonista, addetto alla sicurezza in un ipermercato, continuamente calato nella smania comprereccia delle gente che sembra non avere altro da fare. Un libro che si legge tutto d’un fiato, un libro che ti dà la sensazione che la narrativa italiana non è messa poi così male e che di esordienti come D’Attis ce ne vorrebbero di più. (D.G.)

continuerei a scrivere. Tu sei il curatore di una webzine molto interessante (www. blackmailmag.com ndr). Molti scrittori, anche di una certa fama, hanno un loro sito. Credi che internet giochi un ruolo di qualche tipo nel panorama letterario italiano di oggi? Sì, e per ottime ragioni: intanto il web ha creato le premesse per un feedback tra chi scrive e chi legge. È un’opportunità che hanno colto soprattutto quegli scrittori che sono andati oltre l’idea di un sitovetrina. Poi, per fermarci alla sfera degli interventi critici, c’è un popolo di lettori che ha scoperto una salutare alternativa all’elitarismo - per non parlare della superficialità - di certi tirannosauri della carta stampata. Dario Goffredo

PIETRO GROSSI

Ventotto anni da poco compiuti, la Scuola Holden di Alessandro Baricco alle spalle e un romanzo d’esordio pubblicato con Sellerio. Pietro Grossi è uno dei più interessanti nuovi autori di questo inizio 2006. Il tuo primo libro Pugni, è stato accolto con entusiasmo dalla critica. Da dove nasce l’idea, i tre racconti, il loro essere diversi pur rappresentando un trittico? Ci parli un po’ della sua struttura? L’idea in realtà non so da dove nasce. Non so mai da dove parto e dove arrivo, quando mi metto a scrivere. Credo che tutto parta un po’ da un desiderio, il desiderio di un mondo dove le cose accadono come devono. Pubblicare un libro con Sellerio per un ragazzo di 28 anni è una bella soddisfazione... qual è stato il tuo percorso? Mi sa che il mio percorso è iniziato più o meno a otto anni, quando prendevo un piccolo panchetto rosso con le ruote – che per fortuna possiedo ancora – lo mettevo davanti alla vecchia macchina da scrivere di mia mamma e prendevo a raccontare delle storielle. Iniziai pure un romanzo. Era la storia di due ragazzini che scappavano di casa, il che non voglio nemmeno domandarmi quali e quanti sottotesti nasconda. Poi un giorno Sellerio ha letto più o meno per caso un mio racconto e mi ha chiamato. Il resto è venuto per fortuna da sé. Questo numero di Coolclub.it parla del mestiere di scrivere, credi sia possibile vivere di scrittura? Non lo so, ma me lo auguro fortemente. Senza dubbio è molto difficile. Poi però un giorno ti dici che forse è anche lei a vivere di te, e ti auguri che pian piano vi possiate venire un po’incontro. Come vedi il fenomeno del giovanilismo in letteratura? Pur essendo un esordiente ti discosti decisamente dalla letteratura di “consumo” se mi passi il termine. Non so dove io mi accosti o meno, e a essere onesto non credo stia a me dirlo. Credo però che non ci siano libri giovani o meno giovani, credo che ci siano libri buoni o meno buoni. Tutte le altre, alla fine dei conti, rimangono più che altro delle chiacchiere. Quali autori ti hanno influenzato o colpito e quali nuovi autori ti piacciono? Trovo folgorante la letteratura nordamericana, da Roth a Melville, da Hemingway a Bellow, da Wallace a Faulkner. E chiedo venia per tutti quelli che lascio fuori. Mi piace il loro modo di parlare come mangiano, senza stare tanto a nascondersi dietro le parole. Purtroppo non seguo molto la nuova letteratura, di conseguenza darei pareri limitati. Forse il libro”nuovo” che più mi è rimasto impresso negli ultimi anni è Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, furbizie varie escluse. Avrei voglia però di leggere qualcosa di davvero buono senza la sensazione che si debba impressionare a tutti i costi. Oltre alla scrittura ti dedichi anche ad altre cose. Ce ne parli? Tendenzialmente tutte le altre cose di cui mi occupo (pubblicità, cinema, ecc.) fanno in qualche modo parte della comunicazione. Pian piano mi sono reso convinto che la buona comunicazione può fare due cose fondamentali: farti vedere un pezzo di mondo come non lo avevi mai visto oppure dirti qualcosa a cui non avevi mai pensato. Ogni buon film, pubblicità, libro o quadro tendenzialmente cambia anche se in piccola misura la tua percezione del mondo. Purtroppo, a essere onesti, questo non accade quasi mai, e a dire la verità è piuttosto frustrante. Osvaldo Piliego



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Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie

la musica secondo coolcub

Motorpsycho

Black hole/black canvas Stickman Records Rock/****1/2 Il nord Europa è da un po’ alla ribalta della scena rock e la gente si chiede perché. Una delle risposte è sicuramente in questo gruppo. I norvegesi Motorpsycho dagli anni 90 macinano dischi su dischi, live su live dimostrando una prolificità ed una ecletticità rare. Da sempre fedeli al verbo del rock ma allo stesso tempo curiosi sperimentatori i tre di Trondheim hanno percorso più di un decennio senza mai ripetersi, hanno inciso più di una dozzina di album, una quantità di ep difficile da stimare, hanno infuocato il pubblico di tutto il mondo con dei live, a detta dei fortunati, incredibili per energia e durata. Dagli esordi più heavy (Lobotomizer, 1991) passando per il loro capolavoro riconosciuto (Timothy’s monster del 1994, triplo album che rappresenta una sorta di enciclopedia del indierock) e per il più pop, citazionista e comunque bellissimo Phanerothyme (2001) fino ad oggi i Motorpsycho hanno avuto il dono di mettere in musica la passione per i loro

ascolti creando una miscela originale ed esplosiva. Ascoltando la loro musica si pensa al passato, al presente, a possibili futuri dell’indie rock. Si sente l’amore per gli Who, per la psichedelia degli anni 70, ma anche per il folk inglese. Quando spingono sull’acceleratore ci ritrovi l’america dei Sonic Youth, il dolce amaro dell’emocore, l’indie pop di Lemoneads e Dinosaur jr. Il tutto è tenuto magicamente in piedi da impalcature sonore a volte maestose ed orchestrali altre volte semplicemente dall’incredibile amalgama che i tre riescono a creare. Per questo nuovo album i Motorpsycho passano da tre a due. Formazione all’osso per l’abbandono del batterista Gebhardt che ha deciso di seguire una sua vecchia passione: suonare il banjo. Rimasti in due i Motorpsycho hanno partorito un doppio della durata di quasi un ora e mezzo che è una vera e propria colata di potenza. Sembrano prenderti per mano,

tranquillizzarti in alcuni momenti per poi scaraventarti a tutta velocità su una giostra che raggiunge altezze cosmiche (The 29th bulletin) per poi scendere a capofitto verso le profondità della terra ( il basso in Triggerman). Resta, e a momenti spicca, una certa attitudine prog che rende il tutto più sincopato e ricco di colpi di scena. Hyena sembra un treno destinato a macinare qualsiasi cosa incontri sul suo cammino così come la scanzonata e serrata The Ace con i suoi falsetti. Ma è nelle prime battute, nella prima manciata di brani che il disco sfodera i suoi colpi migliori. Dalla partenza con tanto di chitarrona tormentone (No Evil), alla cadenzata e deflagrante In our tree, passando per l’apparentemente inoffensiva e alla fine devastante Kill devil hills fino alla bellissima e tesissima Critical mass. Osvaldo Piliego


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Bruce Springsteen

Grandaddy

Springsteen è uno di quelli che sembra aver fatto un percorso a ritroso nella storia della musica. Non c’è il rock and roll degli esordi in questo album, non ci sono le solitarie e struggenti ballate per voce e chitarra in questo album, ma le origini del folk, un tributo a chi come Guthrie ha scritto le più belle pagine della musica rurale americana. We shall overcome the seeger è un omaggio a Pete Seeger ma è anche festa, trionfo dell’improvvisazione e della session. E tutto questo diventa energia, una processione per le strade di New Orleans, una serata al pub, la protesta dei poveri, tutta l’Europa e il mondo che ha fatto l’America. Un disco alla riscoperta delle radici, nato dall’amore per una terra e per la sua gente. Molte delle canzoni sono state interpretate nel corso degli anni da molti artisti ma nelle mani del boss brillano di una nuova luce e non possono che conquistare. Osvaldo Piliego

Sembra sia il loro ultimo album e ci mancheranno. I Grandaddy hanno quella capacità rara di creare atmosfere sospese tra melodia e rumore, canzoni avvolgenti a tratti rassicuranti e intime, a sprazzi isteriche e punk, il tutto miscelato in pasta densa di contrappunti di elettronica minima e giocosa. La capacità di sintetizzare e semplificare il discorso intrapreso da gruppi come Flaming Lips e Mercury Rev ha sempre mantenuto ed edulcorato, se possibile, il sogno, la sospensione ad occhi socchiusi. E questo Just like the fambly cat altro non è che un viaggio, l’ultimo ahimè, nell’immaginario della band di Modesto. Semplicemente dedicato al gatto del leader Jason Lytle, semplicemente bello. (O.P.)

We shall overcome the seeger Sessions / Columbia Folk/****

Pearl Jam Pearl Jam J Records Rock/ ****

Pubblicare un album omonimo può vuol dire due cose: o è l’album d’esordio o il disco che rappresenta maggiormente la band. I Pearl Jam non sono certo degli esordienti e questo disco, in parte, segna un ritorno alle origini, a un sound grezzo e diretto, senza fronzoli. Non ci sono più i vent’anni, qualcosa da un po’ è cambiato ai tamburi (Matt Cameron, ex Soundgarden, spinge come pochi sanno fare), qualcosa nel mondo non va e sembra che Vedder e soci se ne siano accorti. Incazzati, sdegnati, si scagliano contro l’America di Bush e lo fanno a suon di riff e di una voce al vetriolo. Il disco celebra i quindici anni della band, un momento di grazia, da alcuni già definito un capolavoro Pearl Jam è in sostanza un disco di rock and roll nudo e puro. Il tiro è quello giusto, le ballate hanno fascino e intensità inedite. I Pearl Jam sono uno di quei gruppi che ha ancora molte cose da dire e si ascoltano sempre con grande piacere. (O.P.)

Just like the fambly cat V2 Pop/****

The Racounters

Broken boy soldiers Xl Recordings Rock/****

Questa non è propriamente la nuova band di Jack White dei White Stripes, questa non è la risposta a quello che da anni un po’ tutti si chiedevano e cioè: ma come sarebbero i White Stripes con un vero batterista? I The Racounters non sono questo ma qualcosa di simile. Intanto perché in questa band di Detroit, la cui paternità è di Brendan Benson (amico di Jack), White suona la chitarra e si sente, poi perché Jack con una band dietro fa faville ed è un piacere sentirlo. Il singolo e pezzo di apertura dell’album (Steady as she goes)è un trionfo, tra Monkees e i Turtles di Happy togheter, è una pop-rock song perfetta. il resto del disco alterna suggestioni pop sixties con tanto di coretti a vere e proprie bordate di chitarra. Quando poi è Jack a salire in cattedra e al microfono sembra di sentire qualche ghost track dei Lez Zeppelin ( ascoltate Blue Veins per credere). (O.P.)

Bugo

Sguardo Contemporaneo Universal Rock/****

Con Christian Bugatti c’è sempre da chiedersi se ci stia prendendo tutti per i fondelli o se sia semplicemente un genio incompreso. Io personalmente sono per la via di mezzo. Bugo ha la grandissima capacità di fare del “casalingo” e del quotidiano un teatro dell’assurdo irresistibile (Ggeell, La Caffettiera).

Musicalmente il suo percorso ha subito parabole incredibili, dalle origini low fi e folk, alla exploit electro del suo penultimo La gioia di Melchiorre fino a questo nuovo Sguardo Contemporaneo, prodotto da Giorgio Canali. L’impianto musicale è rock nell’accezione più ampia del termine, chitarra, basso, batteria, e giocattolini vari. Il risultato è delirante, irresistibile, irritante. E poi come si fa a resistere a una ballad disarmante come Quando ti sei addormentata. Nessuno ha il coraggio e la faccia tosta di scrivere canzoni così: Bugo si. (O.P.)

David Gilmour On Island EMI Rock/ *****

È un momento eccezionale per me, stringo tra le mani l’oggetto del desiderio, qualcosa che attendevo ormai da troppi anni, cioè il momento in cui qualcuno dei Floyd, al di là del prolifico Roger Waters, ritornasse alla ribalta con un lavoro, magari di grande spessore artistico. 6 marzo 2006, arriva nei negozi di musica di tutto il mondo, in concomitanza con il suo sessantesimo compleanno On Island, lavoro solista di Mr. David Gilmour. Questa volta a differenza del passato ha fatto quasi tutto da solo, basta pensare che ora oltre al piano suona anche il sax. È logico che il risultato stilistico non sia spersonalizzato, magari come alcuni episodi floydiani. Questo lavoro unito ai testi scritti dalla moglie, che in quanto tale ha saputo interpretare ed estrapolare i sentimenti ed i pensieri di David, hanno infine prodotto un risultato eccellente, tanto eccellente che On Island risulta avere pari dignità accanto ai classici di P.F. Naturalmente il disco comprende brani come sempre articolati che si alternano a grandi strumentali d’effetto. Fra le tracce più rappresentative: Castellorizon, strumentale d’interludio all’album, molto evocativo in cui David si cimenta in parti soliste di chitarra da brivido; subito dopo On Island, la title track, che posso onestamente paragonare al manifesto stilistico gilmouriano. Chitarra melodica ritmica che accompagna continui slide guitar e fraseggi d’organo, voce mesta e malinconica che si intreccia in finissimi e struggenti arrangiamenti corali ed infine due grandi assoli. Altro momento molto importante: Take a Breath, già dalle prime note capisco che mi trovo al cospetto di un Gilmour spersonalizzato nell’intento di tributare l’amico Roger Barret, (Syd). Il brano ci catapulta nella psichedelica Londra degli anni sessanta. On Island rappresenta tutto quello che tecnicamente e concettualmente David Gilmour è stato e continua ad essere nella sua vita, onestamente senza nascondere i suoi problemi, le sue insicurezze e le sue malinconie, che continuamente lo assalgono. Malinconie grazie alle quali già dai primi anni settanta è riuscito a creare uno stile personale, unico ed inimitabile. Nicola Pace


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The Organ

Grab That Gun Mint, Too Pure / Self Dark, new wave/***1/2

Dresden Dolls

Yes, Virginia Roadrunner Punk cabaret/***1/2

Dietro il nome “Le bambole di Dresden” si nascondono la cantante e pianista Amanda Palmer e il batterista Brian Viglione. Con il loro secondo album, Yes, Virginia, propongono una nuova e affascinante ondata di energia sonora. Divenuti famosi col precedente album omonimo e col singolo Coin - Operated Boy (abbastanza richiesto per radio), il duo di Boston si ispira con la propria musica al cabaret tedesco anni ’20, il genere col quale esprimono la propria arte è per loro stessa definizione il punk cabaret brechtiano. Appaiono in questo modo tanto lontani dalle mode quanto originali, sia per la composizione che per i temi toccati, testi con connotazioni politiche non privi di provocazioni. Il pianoforte e la batteria sono due strumenti che vengono usati con vera sapienza e padronanza, ottimi mezzi e protagonisti per esprimere gli stati di nevrosi, le psicopatologie violente, se poi a questi si aggiunge la splendida voce di Amanda, sapientemente usata sia nei momenti di strilla ed urla (Modern Moonlight, Dirty Business,…), sia in quelli più delicati e malinconici (Delilah, First Orgasm,…), allora il risultato è sorprendente, non si può non rimanere affascinati da questo gruppo, dal loro mondo così strano. Livio Polini

Da Vancouver una nuova interessante band, The Organ. Il gruppo, composto da cinque ragazze, tutte intorno ai venti anni, vede come leader la cantante Katie Sketch. A due anni dall’ep di debutto Sinking Hearts, il loro primo album, Grab That Gun, nel 2004, viene prodotto da Kurt Dahle dei New Pornographers. Il grande successo riscosso nel tour live, il brano Brothers, inserito nella colonna sonora di un telefilm (The L Word), l’aumento di numero dei fan, questi sono i motivi che hanno portato alla scelta di distribuire il disco, non più solo in Canada, ma anche negli altri paesi. Per questo passaggio, l’album, è stato registrato nuovamente, con una diversa produzione (Paul Forgues e Todd Simko), alla ricerca del suono perfetto. La musica delle Organ è di chiara ispirazione anni ’80, le somiglianze con Cure e Smiths sono davvero molte, eppure, nonostante il loro genere non sia nuovo, stupiscono per evidenti qualità. La scena dark new wave riaperta negli ultimi anni grazie a gruppi come gli Interpol, si arricchisce così di una nuova presenza. L’ascolto di quest’album è assai piacevole, la voce di Katie è delicata e malinconica, basso chitarra e batteria sempre in buona coordinazione, così come l’organo. Non c’è che dire, un gran bell’album. Livio Polini

Be Your Own Pet Be Your Own Pet XL Punk-Rock/****

Diciassette anni in America sono già abbastanza per guidare una macchina, figuriamoci per il rock’n’roll. Può quindi capitare che quattro scolaretti di Nashville, diano alle stampe, dopo due convincenti EP, uno dei dischi più aggressivi, crudi ed eccitanti di quest’anno (i detrattori

degli Yeah Yeah Yeahs me ne daranno ragione). Quindici violente schegge di garage-punk abrasivo e potente, ma allo stesso tempo scanzonato e goliardico, come solo chi non può comprarsi la birra da sè riesce a concepire. Canzoni che puzzano di sudore come lo spogliatoio dopo l’ora di educazione fisica e che, tra scartavetranti riff di chitarra e una sezione ritmica adrenalinica, reclamano a gran voce l’innegabile diritto al divertimento e al puro disimpegno. La voce, appunto, quella della biondina Jemina Pearl è indolente, selvaggia, dispettosa, irriverente (se scrivo sexy è pedofilia?) e ricorda i giorni migliori delle Riot Grrls come Babes in Toyland, L7, Bikini Kill, senza un grammo di ideologia, ovvio. Nella sua foga adolescenziale risulta comunque matura e molto convincente (l’avrà comprato il disco Juliette Lewis?). Scommettere su di loro è una roulette russa, potrebbero diventare più famosi dei Green Day o evaporare la settimana prossima, o la biondina trasformarsi nell’ennesimo epigono di Gwen Stefani… ci si gioca tutto col prossimo disco. O la va o la spacca. Per ora spaccano. Giovanni Ottini

Fiery Furnaces Bitter Tea Fat Possum / Self Indie pop/***1/2

Sono passati solo pochi mesi dall’uscita di Rehearsing My Choir, album ampiamente riconosciuto per la sua sperimentazione (ricordate la nonna cantante?). I Fiery Furnaces, duo composto da Matthew Friedberger e sua sorella Eleanor, ritornano con un nuovo disco, Bitter Tea, registrato nello stesso periodo del precedente. Inevitabile è allora che ci siano delle somiglianze o almeno dei collegamenti. La pazzia regna immancabilmente in questo concept, sali e scendi di ritmo improvvisi, stop e dissolvenze, ripresa dei suoni a distanza e nel tempo, registrazioni inverse, una miriade di effetti, psichedelia, frastuono, pop, calma, melodia, sprazzi blues, linea elettronica mischiata, la voce di Eleanor ritornata protagonista, i sinth (questa volta più tastiere e meno chitarra). Anche


KeepCool

12 nei momenti di disordine, però, si scorge una certa logica, manifestata attraverso le scelte compositive, può risultare ancora più evidente nei ripetuti ascolti. La forte vena artistica e l’intelligenza, qualità che contraddistinguono i Fiery Furnaces, ancora una volta trovano espressione. Le scelte, questa volta più rivolte verso la melodia, fanno ritrovare un buon rapporto nella comunicazione, la vivacità del passato è riconfermata. Ancora una buona prova, divertente ed entusiasmante. Livio Polini

Yeah yeah yeahs Show Your Bones Interscope/Universal Rock/***1/2

Sembra ieri, e invece sono passati tre anni dall’uscita di Fever To Tell, prima prova sulla lunga distanza per gli Yeah yeah yeahs: disco efficace, dai suoni nervosi, con attitudine punk, quello. Gli Yeah yeah yeahs cambiano però leggermente il tiro con il secondo album. Show Your Bones appare, infatti, più tranquillo del suo predecessore. Mostra davvero l’anima della band, almeno la sua parte più sensibile e più dannatamente romantica. E allora via alle chitarre acustiche, ai coretti, alle ballate… ma tutto resta molto ambiguo. Non c’è più l’urgenza della “rabbia giovane”, ma anche i piccoli punk crescono. Ora, non spaventatevi però, il terzetto newyorkese rimane comunque un oggetto selvaggio, capace ancora di sprigionare tanta energia. L’inquietudine del cantato di Karen e le pulsazioni elettro-ritmiche di Nick e Brian abbracciano adesso sonorità anche abbastanza lontane tra loro. Frullano rock’n’roll, garage e pop ma riescono a far convivere una poesia ruvida e decisa con un’attitudine, comunque, decisamente punk. Qui ci sono canzoni che si possono fischiettare ma che riconfermano anche la sostanza davvero eccezionale di un gruppo destinato a rimanere. Camillo “RADI@zioni” Fasulo

The Rakes

Capture / Release V2/Edel Art rock/ ***1/2

Arrivano da Londra, e si sente. L’album di debutto Capture/ Release, è oggetto davvero particolare, ricco di quelle trovate musicali che fanno molto trendy, in linea con il migliore art rock e la migliore new wave/post punk attualmente in circolazione. Insomma un sound tra i più “originali” prodotti nella seconda metà dello scorso anno.

Batterie nevrotiche, chitarre rapide, ritmica serrata e voce svogliata, ovvero un perfetto riassunto dell’estetica post punk. Centro immediato e prosecuzione appropriata: trenta minuti e spiccioli spesi a infilare il coro giusto subito dopo il verso giusto, cucendo il tutto con riff che, pure ascoltati mille volte, continuano a non mostrare il confine con la noia. I modelli restano Joy Division e Magazine, e brani come Strasbourg e Terror! provocano una curiosa sensazione di straniamento temporale. In più il cantante, Alan Donohue, si muove sul palco proprio come Ian Curtis ma con un pizzico di allegria in più. Stesso stile ma meno disperazione: i tempi cambiano… o no? Sicuramente più inclini a un’attitudine istintivamente punk (come la tradizione britannica impone), i giovani Rakes riescono a riprodurre, all’interno delle loro canzoni, anche un efficace gusto per la melodia. Se siete amanti di questo ritorno massiccio della new wave/post punk rimarrete davvero catturati dall’esordio di questi “scapestrati” (rakes = scapestrati) che in madrepatria sono già diventati un caso dopo solamente due singoli. Solo un fuoco di paglia? Chi vivrà vedrà! Camillo “RADI@zioni” Fasulo

AA.VV.

Exit Music: Songs with Radio Heads BBE-Audioglobe Cover/ **** 1/2

Blasfemia o tributo? I fan dei Radiohead hanno pane per i loro denti grazie a questa pubblicazione. In attesa del prossimo cd di studi della band di Thom Yorke e soci, previsto per gli ultimi mesi del 2006 (e ancora senza un’etichetta che li distribuisca), c’è da scommettere che questa collana di pezzi storici della band di Oxford, rivisitati dal gotha dell’elettronica contemporanea, con incursioni anche nel jazz sarà amato o odiato, senza mezze misure. Alcune riletture sono infatti molto eclettiche e questo può portare i fan più integrati a storcere il naso mentre chi ama sia i Radiohead sia i compilatori di questa opera griderà al miracolo. L’inizio è con No surprises di Shawn Lee, che almeno nei primi secondi sembra non voler sconvolgere l’originale: infatti si rivela una delle riletture più fedeli. Scorrendo l’album si incontrano Enki Bilal per una versione soul di High and Dry, Matthew Herbert, che mette il suo marchio di fabbrica per Nice Dream, i the Bad Plus per un tentativo molto irriverente di rivedere Karma Police ma anche la Cinematic Orchestra cui, quasi per predestinazione, tocca Exit: Music for a Film. Proprio per la lettura ambivalente che si può dare al cd, bisognerebbe almeno ascoltarlo. Così, se non ci piace, ameremo i Radiohead versione originale ancora di più, se è possibile. Dino “doonie” Amenduni

Gotan Project

Lunatico YaBa Nu-tango/ ****1/2

Questo cd rappresenta la prova del nove per i Gotan Project. I vantaggi dell’aver creato u n ’ o p e r a prima come La Revancha del Tango (2001, un milione di copie ma sopratutto l’attenzione mediatica generale) rischiavano di coincidere con i limiti: un suono chiaramente colorato dal tango ma inscindibile dal contributo dell’elettronica, fondamentale per rendere la formula attuale. Questa formula poteva diventare una gabbia, e invece il terzetto argentin-francesesvizzero, pur senza fare ribaltoni, dà la sensazione di aver creato qualcosa di nuovo. Paradossalmente lo fanno con canzoni (Celos) che sembrano classici recuperati dalla tradizione di Piazzolla o Gardel (Lunatico era infatti il nome del suo cavallo da corsa) alternate a tentativi uptempo (Mi Confesion, Diferente) o di cercare sonorità non tipicamente associabili al tango (Domingo). La produzione rimane pulita, e questo testimonia un uso ancora più saggio dell’elettronica. Interessanti, anche per il futuro, i tentativi che aprono e chiudono l’album: Amor Porteno risente della collaborazione dei Calexico e induce suggestioni di matrice messicana, più che argentina, mentre Paris, Texas, cover di Ry Cooder, testimonia una voglia di azzardare utile a chi, appunto, avrà la necessità di rinnovarsi. Un disco da avere. Dino “doonie” Amenduni

Souad Massi

Mesk Elil Mercury Flamenco/folk mediorentale ****1/2

Dall’Algeria arrivano le sonorità morbide e avvolgenti di Souad Massi, cantante di 32 anni trapiantata dal 2000 in Francia. Con alle spalle il visionario produttore Jean Lamoot (Noir Desir, Salif Keita), Souad segue il sentiero già intrapreso con i due album precedenti (Raoui, 2000 e Dab, 2003) fondendo alla tradizione delle sue origini (anche nel cantato, in arabo) arrangiamenti di gusto europeo, unendo il rai nord-africano (una musica popolare scritta con la volontà dichiarata di raggiungere gli africani emigrati in Europa, ma anche con gli stessi europei) a incursioni nel flamenco. Il suono “world” non fa dimenticare a Souad le sue origini, sottolineate anche nelle collaborazioni con artisti del continente nero, come


KeepCool Daby Tourè (per “Manensa Asli”). Questa canzone è il fulcro dell’album perché racchiude nel suo testo le motivazioni per cui il lavoro è stato prodotto, ovvero la volontà di utilizzare la musica per comunicare le storie di un’Africa il cui fascino non smette mai di sorprendere. Allo stesso tempo la volontà è quella di non veicolare messaggi religiosi (Souad non è musulmana e veste “all’occidentale”). Un cd moderno che piacerà immediatamente a chi ama il genere, e che invece annoierà un ascoltatore distratto e soprattutto con l’orecchio non allenato a questo tipo di musica. Dino “doonie” Amenduni

The Streets

The hardest way to make an easy living Vice Records Hip-hop/****

A distanza di due anni ecco il terzo attesissimo album del rapper Mike Skinner, al secolo The Streets, giovane talento bianco che ha letteralmente spazzato via ogni concorrente nella vecchia Europa. E che ora si appresta a sbarcare negli Usa. Difficile ripetere la bellezza e l’intimità di un disco come A grand don’t come for free, ma la stoffa c’è tutta e in questo nuovo lavoro che potrebbe essere definito un concept album Skinner affronta il tema della celebrità e dei cambiamenti che necessariamente comporta nella vita di chi ne è travolto. Ne esce fuori un disco ironico e autobiografico che trova in When you wasn’t famous, singolo di lancio, la sua parte più esuberante e la giusta sintesi dei suoi ultimi due anni di vita. Ma popolarità non vuol dire solo privilegi ma anche solitudine e incertezza, spesso nei riguardi di se stessi. Ecco allora emergere tracce come Never went to church che costringono il giovane guru del garage rap inglese a guardarsi allo specchio. Ne scaturisce un disco maturo e mai banale che conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, tutta la classe del ragazzo di Birmingham. Papa Ciro

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Agf & Zavoloka

Nature never produces the same beat twice Nexsound records Elettronica/**

Appena finito di ascoltare quest’album, sono corso subito a ripescare Westernization Completed, lp con il quale conobbi Agf e me ne innamorai; avevo in testa la sensazione che questa ennesima collaborazione della brillantissima poemproducer tedesca l’avesse portata lontano dalla sua concezione iniziale di elettronica. Alla fine, dopo averli ascoltati entrambi, ripetutamente nel giro di una giornata, convengo che la sensazione era in parte giusta. Nature never produces… è sicuramente un lavoro sui generis, come del resto tutti i suoi precedenti, ma questo davvero più di tutti. Tanto particolare da risultare azzardato; ovviamente non credo che la ragazza tedesca abbia aspirazioni da classifica, ma qui si rischia di uscire fuori dal seminato. In collaborazione con l’ucraina Zavoloka, spuntata fuori dal catalogo della stessa etichetta produttrice, la Nexsound, Agf si presenta con 50(!!!) tracce di appena un minuto ciascuna. Troppo fuori dal music business, pienamente dentro la sperimentazione, frammentano insieme suoni della natura ricomponendoli in paesaggi naturali elettronici, con beat che si rincorrono, a volte velocemente, a volte s’inceppano, fluide melodie aggraziano i ritmi occasionalmente taglienti. Attenzione, la produzione è ottima, i suoni utilizzati stimolano la fantasia, ma sinceramente il numero delle tracce e la loro eccessiva brevità potrebbe risultare controproducente. In definitiva, questo nuovo capitolo Agf sembra essere inferiore agli altri; Explode, nato lo scorso anno da una collaborazione con il finnico V. Delay, è senza alcun dubbio irraggiungibile, ma Nature never produces… sembra lontano anche dai precedenti lavori solisti della ragazza, su tutti proprio Westernization Completed. Prendiamo tutto questo come una sperimentazione che non potrà fare altro che accrescere le sue capacità, ma la prova di maturità per la poemproducer certamente non è questa, arriverà sicuramente e ci lascerà spiazzati con una piacevole sensazione nelle orecchie. La Zavoloka? Dolcissima, ha tutto il tempo e lo spazio per trovare la sua dimensione nel mondo elettronico europeo, la strada, anche se lunga, sembra essere quella giusta. Federico Baglivi

Barbara Morgenstern

The Grass Is Always Greener Monika rec. Waves-elettronica/ **** Forse ci siamo. Arriva dalla Germania un ottimo nuovo prodotto pop elettronico senza per questo avere la targhetta Morr. È infatti la Monika records

incaricatasi della release di questa artista tedesca, la quarta per l’esattezza. Un cantato in tedesco, innovativo per il genere ed a volte avvicinabile al suono di un glitch, arricchisce un pianoforte impreziosito da tocchi elettronici. Dalle melodie classiche al minimalismo elettronico, questa ragazza si candida ad affiancare Tba ed AGF come nuovo volto femminile dell’elettronica teutonica. Undici tracce, ben al di là della monotona indietronica Morr degli ultimi tempi, vedi ultima release dei Ms John Soda, che girano intorno ad un mix di classico e digitale. Postmoderna paragonabile a Marsha Qrella, trasognata e dolce nella title track The grassi is alway greener, lucido minimalismo in Mainland, allegria sommessa in Alles Was Lebt Bewwgt Sich e genuinità solare in Das Schöne Einheitsblid, si avvale della collaborazione del Tarwater Bernd Jestram per sfornare un prodotto che ha molto da dire e che pone le basi per ulteriori approfondimenti negli anni a venire. Le donne fanno bene, e dopo le sopracitate Tba, AGF e l’ucraina Zavoloka, questa nuova stellina si ritaglia un posto nel panorama romantico dell’elettronica europea. Federico Baglivi

Ms John Soda

Notes and the like Morr Music Indietronica-pop/**

Nulla di nuovo sul fronte Morr, eppure per chi come me in questi ultimi anni è cresciuto a pane e Morr, l’ennesima uscita della label tedesca non dispiace. Cambia poco dai lavoro precedenti della coppia, in nove tracce non v’è nulla di veramente originale e innovativo, molto semplicemente i Ms John Soda si riconfermano portabandiera della nuova scuola indietronica tedesca, insieme ad altre entità Morr quali Notwist e Lali Puna. In realtà sembra tutto fatto in famiglia visto che Micha Archer dei Ms John Soda è fratello di Markus dei Lali Puna, e inoltre i due insieme sono nei Notwist. In poche parole la famiglia Archer porta avanti l’idea indietronica dell’etichetta tedesca. In Notes and the like i ragazzi sembrano maturi, sia a sperimentare sia a tornare nei canali canonici del genere, in definitiva una buona produzione. Le tracce migliori sembrano essere A Nod on Hold, sullo stile MuM, Sometimes Stop, sometimes go e Outlined view; delude parzialmente No One, ripresa dall’ Ep While Talking del 2003, ripulita e riammorbidita eccessivamente. Mi ripeto, bello il suono a cui ci hanno abituato, ma la critica è semplice: nulla di nuovo. Bisogna inventare qualcosa, e non parlo solo dei Ms John Soda, la non evoluzione di un intero genere rischia di relegarlo nel dimenticatoio. In casa Archer è auspicabile una riunione di famiglia per decidere il da farsi. Federico Baglivi


KeepCool

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Raffaele Casarano & Locomotive

Crifiu

Tra terra e mare Ethnoworld - Venus Folk Core/****

Sulle rive della tradizione, Tra terra e mare, il folk-core dei Crifiu. Un importante lavoro questo dell’attivissima band salentina; sei sfrenatissimi “puledri” di razza della scuderia Dilinò di Claudio “Cavallo” Giagnotti, abituati come pochi a stare sul palco, suonare, divertirsi e divertire (il 13 maggio, a Muro Leccese, per la presentazione ufficiale di nuovo disco e rinnovato live. Provare per credere). Ed è l’attitudine live quella che emerge subito dalle 13 tracce del disco (prodotto dall’etichetta milanese Ethnoworld e distribuito da Venus) composto e scritto “al centro del confine”, “sulla riva” del mediterraneo. Dove le onde della contemporaneità sonora, fatta di loops, programmazioni e qualche scossa elettronica, si infrangono sulla solida scogliera della tradizione. Quella salentina naturalmente, ma un po’ tutta quella meridionale e mediterranea. Una tradizione richiamata dai ritmi e dalle parole, dalle evocazioni, da suggestioni e da un forte senso di appartenenza, molto evidente anche nei momenti più contaminati del cd. Un percorso transmeridiano che inizia proprio con la titletrack Tra terra e mare, lanciatissimo singolo, salato, solare e fresco. Esempio di una sorta di elogio del “meticciato” sonoro, linguistico, culturale, del quale il disco si fa portavoce in tutti i solchi: dalla “popolare” Cecilia alla letteraria e pasoliniana Cosa sarà?, dalla meridiana Rock in Sud al lungo viaggio di Transworld Express e... cosi via, fino alla fine del confine e Sutta 7 cieli, o forse più. Una nuova identità, indefinibile ma mai banale per il gruppo che, in pochi anni, ha fatto progressi notevoli, tecnici, esecutivi e compositivi. Risultati notevoli, battezzati dalla partecipazione al lavoro dei mitici fratelli Gang, di Fry Monetti dei Modena City Ramblers e di Fabio Losito dei Folkabbestia. Dario Quarta

Legend Dodicilune Jazz / **** 1/2

Fraseggi swing, armonie fast-latin, sound evocativi e ritmi pungenti, ma soprattutto tanto tanto jazz. Con Legend, Raffaele Casarano e i Locomotive, con la partecipazione straordinaria di Paolo Fresu e l’accompagnamento dell’orchestra Tito Schipa di Lecce, fanno respirare aria nuova ad un beat di periferia “tarantolato” dai suoni stridenti delle culture che hanno attraversato e attraverseranno sempre, intersecandosi, il Salento meta e punto di partenza. Basta ascoltare il primo dei nove brani contenuti nel cd edito da Dodicilune, il pezzo che dà appunto il nome all’intero lavoro, per capire come l’ispirazione di tutto sia proprio l’incontro, il crocevia in cui si sono ritrovati per caso un giovane sassofonista e un esperto trombettista, fermi entrambi ad aspettare un treno in una stazione a Parigi. E Legend volge lo sguardo a questa città e a quell’avvenimento, con la parte iniziale in cui il sax contralto di Casarano disegna un primo tema definito e intenso, mentre l’orchestra suona quasi in sordina, per poi arrivare alla seconda parte, quella in cui la tromba di Fresu risponde in maniera sottile e precisa, giusto quanto basta perché la sicurezza del trumpet sardo sopisca la timidezza del nuovo compagno di viaggio, invitandolo così ad alternare qualche solfeggio swing con lui. Lo stesso ritmo oscillante contraddistingue il secondo pezzo, Rue de la Tulipe, che inizia sui tocchi afro delle percussioni. Il brano è dedicato ad una via di Bruxelles, sede di uno dei più famosi jazz-club d’Europa dove si esibì il combo Locomotive, quartetto composto da Marco Bardoscia, Alessandro Napolitano ed Ettore Carucci. A quest’ultimo strumentista e al suo pianoforte è affidata The Fall intro, l’introduzione alla quarta traccia del cd: The Fall è una melodia meditativa, introspettiva, dedicata alle stagioni. Un’affilata ironia permea invece il titolo del quinto brano. Larry - si racconta nei jazz club pugliesi - è quel pianista cantante che una volta chiese

a qualcuno un sassofonista, allora quel qualcuno fece il nome di Casarano; Larry, con franchezza, rispose che quando Casarano sarebbe diventato famoso, allora avrebbe potuto suonare con lui. Casarano ovviamente non sa quanto possa sentirsi famoso, intanto però dedica un pezzo a tale Larry. Rievocazioni di vecchie pellicole, suoni tenui e distensivi, sono i tratti distintivi di Coccinella, l’insetto portafortuna fermatosi un paio d’ore sul pentagramma di Casarano durante la stesura del pezzo. Per chiudere nelle ultime tre tracce si passa dal fast-latin di You don’t see me, urlo verso chi sostiene d’essere invisibile o intoccabile, alla ballad scritta da Bardoscia My Head, con tanto d’autodedica dell’autore alla propria testa, fino al nono e ultimo brano, il classico di Buarque De Hollanda O que serà (A flor da Pele). Massimo Ferrari

Totipoeta

Totipoeta Etichetta Poeta Esordiente italiano/***1/2

La musica è già sentita. È un buon mix della tradizione italiana. Eppure questo esordio del siciliano venticinquenne TotiPoeta ha qualcosa di innovativo. Sarà perché a me la musica italiana piace, sarà perché sono affezionato alle chitarrone acustiche, alle fisarmoniche e alla nuova scena cantautorale ma trovo che questo cd sia scanzonato e impegnato al punto giusto. E soprattutto trovo che ci siano alcune belle canzoni (in realtà ce ne sono anche di brutte) come Solo una favola, Il valzer del pentito (questa le batte tutte), A Gino, L’idealizzato. Buon esordio. Scipione

Africa Unite

Controlli Venus Elettroreggae / **1/2

La voglia di mutare e trasformarsi nonostante gli anni e il successo è sicuramente un buon segno. I piemontesi Africa Unite, pionieri del reggae all’italiana, sfornano questo nuovo lavoro, Controlli è il tredicesimo album in studio, con una vera e propria rivoluzione di formazione


KeepCool e di suoni. I punti fissi restano due Bunna, che torna a cantare anche in inglese, e Madaski, impegnato nella produzione con Paolo Baldini, aka The Dub Alkemist, fondatore di B.R. Stylers. La sezione fiati viene sostituita da un massiccio uso di dub elettronico. Nelle intenzioni dei due fondatori una virata verso suoni più attuali, taglienti e fluidi. I testi come al solito sono impegnati e corrosivi. Tra gli ospiti Michela Grena, ragga-rapper danese dei Br Stylers (nel singolo Amantide) e Raiz (Vertigine). Tra i brani segnaliamo l’apri lista The cage, le più “canoniche” Once in lifetime, Bit Crash e Sotto pelle, e l’approccio alla Frankie Hi-nrg di In nomine. Pedroso

Meganoidi

Granvanoeli Green Fog Records – Venus Rock / ***

La svolta punk rock può piacere o non piacere ma è un dato di fatto. I Meganoidi sono lontanissimi dai primi pezzi a base ska, tutto divertimento e movimento, quelli famosi grazie alle Iene e a migliaia di copie vendute in giro per l’Italia. Questo Granvanoeli, edito per la genovese Green Fog Records (etichetta fondata e condotta dalla band) e distribuito da Venus, è il distacco completo dall’intrattenimento già avviato con i due precedenti lavori. Il disco alterna testi in italiano e inglese. Le canzoni trovano soluzioni decisamente riuscite (At dusk, The millstone, Dai pozzi, Nine times out of ten), suoni meno distorti (Anche senza bere, Quest’inverno, Ten Black rivers, Un approdo), e intrusioni troppo dure (02:16). Un lavoro onesto e che non finisce qui. Entro marzo 2007 è prevista l’uscita della seconda parte. Gazza

Non voglio che Clara Non voglio che Clara Aiuola records Canzoni/***

Salutati al loro esordio come una delle band artefici della nascita o rinascita della musica d’autore arrivano alla seconda e

15 difficile prova i Non voglio che Clara. Mio nonno avrebbe detto: la musica vera è quella che si fa con le orchestre, e basta ascoltare l’ouverture per ripensare alle atmosfere del mitico studio 1. L’impianto melodico su cui si costruiscono le canzoni partono dai mitici anni 60, dalla dolcezza e la malinconia cari a un certo Battisti o al miglior Tenco per poi spaziare, guardare oltre. Perché le storie che raccontano parlano di oggi, delle nuove solitudini, dei nuovi amori, della sua mancanza senza tempo. Fossero più furbi sarebbero i Baustelle, fossero inglesi sarebbero anche alla moda. La scrittura dei testi è sicuramente uno dei cardini del disco che viaggia sul filo di emozioni fragili, come la voce di Fabio De Min, che a lungo andare finisce per risultare un po’ monocorde. Attenzione a non confondere però le mosche bianche con i miracoli. Certo i Non voglio che Clara sono un caso unico in Italia ma sicuramente non il migliore in circolazione. E la musica d’autore? C’è ancora tempo per conquistarsi questo titolo. (O.P.)

Death SS

The 7th seal Lucifer Rising/Self Heavy metal/*****

È giunta l’ora di fermarsi, mettere da parte tutto ciò che di superficiale o inutile ci circonda e di portare attenzione e rispetto verso la più grande heavy metal band nostrana: i Death SS. La spasmodica attesa per questo settimo sigillo mi aveva consumato e non ero riuscito a colmare questa mia lacuna in nessuna maniera. Quando un sabato, per altre necessità, entro in un negozio di dischi, trovo il settimo sigillo, anzi è lui che trova me, lo compro, corro a casa sotto un intensissimo acquazzone, mi siedo e timidamente mi accingo nell’ascolto di questa nuova opera targata Death SS. Questo lavoro come era doveroso aspettarsi, se si conoscono Sylvester e soci si discosta con una certa violenza dal predecessore Humanomalies, forse troppo arricchito da inserti futuristi ed industriali. Il nuovo capitolo The 7th seal, è devoto a tutti gli stilemi cui il gruppo quasi in trenta anni di carriera ha proposto.

Insomma è un summa del percorso artistico realizzato fino ad ora, rielaborato con suoni e arrangiamenti differenti e con una produzione eccezionale, non solo nella qualità, ma soprattutto nell’originalità. Il disco ci propone una serie di brani diretti come la pesantissima Shock Treatment. Vi sono brani come la orrorifica Der Golem, che entra di diritto fra i classici di sempre della band. Oppure pezzi coinvolgenti come Give’em Hell, grazie alla complicità di azzeccatissimi cori. Non mancano brani lenti come Another life, bellissimo, costruito su semplicissimi accordi di pianoforte, in cui tutta l’espressiva vocalità di Steve è libera di sfogarsi e di dimostrare il proprio talento interpretativo. Ma l’apoteosi si raggiunge con gli otto minuti di durata della title track, The 7th seal, brano fra i più oscuri dell’intera produzione deathessiana, in cui a continui richiami al sound degli anni settanta vengono alternati suoni moderni e progressivi, impreziositi dagli interventi di flauto e sax di Clive Jones, fiatista dei Black Widow. Gli ultimi secondi fluiscono e con loro le ultime note di questo stupendo settimo sigillo. Spero di aver comunicato le linee fondamentali di questa opera che non è solo una proposta musicale, ma in sé ha riferimenti letterali, cinematografici, esoterici, insomma è un’opera a tutto tondo, dall’alto valore intellettuale. Nicola Pace

Les Fauves

How our dildo can change your life Urtovox Rock/****

Il rock and roll come il sesso dovrebbe essere, se fatto bene, una cosa sporca. Sporco nei suoni, nell’attitudine. La musica dei Les Fauves incarna in pieno queste caratteristiche. Se poi ci aggiungi che sono belli e giovani il gioco è fatto. Fossimo tutti a Londra sarebbero il gruppo del momento, ma diamo tempo al tempo. Chi lo ha detto che una manciata di accordi non bastano più? Ascoltate queste sei tracce e scoprirete che per scuotere fianchi e testa basta avere il dono della semplicità, sia che si stia giocando con una polka in acido, con una cassa disco, con il punk, con il blues della sexy explosion. Quale che sia la formula, funziona a meraviglia, perché l’alchimia è pressoché perfetta. Da tenere sott’occhio.


KeepCool

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Feldman

Watering trees Stout music Low-fi pop/****

Dopo il bellissimo disco di Songs for Ulan la Stout Music ha deciso di deliziarci con un altro gioiellino dai toni soffusi, un incontro elettroacustico tra due artisti catanesi. Il progetto si chiama Feldman ed è la risultante di due coordinate musicali che hanno finito per incrociarsi felicemente. Da un lato Massimo Ferrarotto (già Puertorico e Loma), dall’altra Tazio Iacobacci (Keen toy, Tellaro), insieme sono canzoni sottovoce per arredare momenti di intimità. Un lavoro intimo, prezioso nelle melodie come nelle dissonanze. Si muove leggero, cadenzato da batterie low-fi e cesellato da arpeggi per undici tracce che non rinunciando a una chiave pop hanno dentro il blues, inteso come sentimento.

Black eyed susan

And silence will begin soon Mizar records Rock/****

Sono dischi che ti sorprendono. Pensare che in Italia si suoni musica così è sempre incoraggiante. Prendete l’attitudine vocale degli Arab strap, il sound robusto dei Fugazi e degli Shellack, l’ipnosi di certo post rock, le urla di Kim gordon i sussurri di Kazu dei Blonde Redhead. Questi sono solo pochi indizi per spiegare la musica dei Black eyed susan. Un disco che in dieci episodi fa mostra di grande spessore, che ha nei suoi elementi varianti che solo ripetuti ascolti svelano completamente. Da cercare.

The Vintage

The Vintage Starsystem Entertainment Hard rock/ ***

Tornato alla ribalta grazie a gruppi come The darkness l’hard rock, certo glam rock e il rock and roll in genere sta attraversando un ottimo periodo. In questo filone si inseriscono, dalla porta di servizio, gli italiani The Vintage. Arrivano energici con una forte attitudine hard rock, melodici nelle aperture, granitici nelle strutture. Si diceva dalla porta di servizio perché il rock dei The Vintage non è ortodosso nel riprendere stilemi cari al passato ma si lascia sporcare da altre e più moderne, e questo non dispiace.

DAl 13 Al 23 GiUGNO - GleNN KOtcHe, PAUl GUerGAriAN e DAvid COssiN per SOUNd Res Una occasione di vacanza/studio nel Salento, una opportunità di confrontarsi con musicisti di livello internazionale: dal 13 al 23 giugno Loop House Gallery e Coolclub presentano tra Lecce e San Cesario la terza edizione di Sound Res, summer school, residenza artistica e festival di musica contemporanea a cura di David Cossin e Alessandra Pomarico, che rientra nel festival Salento Negroamaro, rassegna delle culture migranti della Provincia di Lecce, dedicato in questa sesta edizione all’Africa con la partecipazione, tra gli altri, dei musicisti Femi Kuti, Tambours De Brazza, Dobet Gnaore, Valerie Belinga e Youssou N’Dour. Il batterista statunitense di Wilco, Jim O’Rourke Band, On Fillmore e Loose Fur Glenn Kotche e il percussionista canadese Paul Guergarian affiancheranno il direttore artistico David Cossin (uno degli artisti emergenti della scena underground di New York, che ha suonato e registrato con Bang on a Can All-Stars, Steve Reich and Musicians, Philip Glass, Thurston Moore (Sonic Youth), Bo Didley e molti altri e ha collaborato con il premio Oscar Tan Dun per la realizzazione della colonna sonora del film La tigre e il dragone) in questa residenza internazionale sul suono incentrata quest’anno sull’influenza della tradizione africana nelle culture musicali americana ed europea. L’articolato programma di Sound Res prevede una serie di workshop gratuiti e aperti a musicisti di tutta Italia (dal 13 al 21 giugno), incontri e seminari, un concerto introduttivo durante il quale i musicisti si presenteranno (giovedì 15 giugno), una intensa settimana di prove che condurranno a due concerti evento, due prime mondiali della Sound res band (giovedì 22 e venerdì 23 giugno). Inoltre musicisti provenienti dal Senegal, dal Gambia, dal Ghana e da molti altri paesi Africani ma residenti nel Salento parteciperanno al programma e alla residenza, ai workshop e agli incontri di studio aperti agli studenti, al pubblico, alla comunità. Questo è un tentativo di superamento della visione occidentale

in cui la musica è fatta da professionisti, per sposare una visione africana in cui tutti i membri della collettività suonano, cantano e danzano. David Cossin, Glenn Kotche, Paul Guergarian rappresentano quella generazione di musicisti americani che hanno allargato la propria formazione classica allo studio di tradizioni altre, attraverso grandi maestri residenti a New York e Chicago. In particolare Paul Guergarian combinerà lo studio dei tamburi a cornice e delle tecniche presenti nel Nord Africa (ma che si spingono fino al medio Oriente) con l’integrazione del djambé e della musica dell’Africa Occidentale nelle composizioni contemporanee (pensiamo a Drumming di Steve Reich, scritto all’indomani di un viaggio del compositore in Ghana); Glenn Kotche illustrerà le possibilità della batteria (strumento nato in America in conseguenza della influenza africana) nelle sue declinazioni jazzistiche e sperimentali. David Cossin indagherà sull’uso delle tecnologie, funzionale ad una visione rivolta all’Africa, che ha insegnato a ricavare gli strumenti con gli elementi a portata di mano nel contesto d’origine. Gli incontri sono organizzati in collaborazione con il Conservatorio di Lecce, l’Accademia di Belle arti di Lecce, l’Università degli Studi di Lecce, in particolare con il corso di Laurea in Beni Musicali, e con la Fondazione Rico Semeraro. Sound Res è anche produzione audiovisiva, sonora, e letteraria, archivio di suoni, immagini e parole. Nel corso del festival sarà infatti presentato il documentario realizzato nella scorsa edizione, diretto da Ippolito Chiarello e prodotto dalla Prometeo Video di Silene Mosticchio. Anche quest’anno è prevista la registrazione di un cd, di un videoclip musicale e la pubblicazione di un diario che testimoni dell’unicità di questa esperienza su territorio regionale e nazionale. Per informazioni e iscrizioni 0832303707 – ufficiostampa@coolclub.it


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T H e H O rmONAUts N el sAleN t O

Abbiamo scambiato due chiacchiere con Andy, leader degli Hormonauts. Ha appena finito di tatuarsi e non vede l’ora di venire a suonare nel Salento. Preferirebbe parlare di vino e belle donne... ma per quello ci diamo appuntamento a Novoli. Dopo tanti anni di rock and roll e di

17 underground, state attraversando un periodo di grande notorietà, come vivete il fermento che c’è intorno a voi? Più che gran fermento direi gran vino... scherzo è un bel momento. Bella storia. Siamo molto contenti, anche di venire a suonare giù da voi. Presto nel Salento era da tempo che vi aspettavamo da queste parti conoscete il sud? Si sono stato giù circa otto anni fa. Sai che negli anni 80 un paesino in provincia di Lecce (Lizzanello) c’erano più ciuffi che tamburelli? Io sono in Italia dal ’93, dopo la prima grossa ondata rockabilly. Conosco gente che suona rock and roll a Bari e un gruppo Guy e gli specialisti...fanno swing. Siete cambiati voi o è cambiata l’attenzione della gente rispetto alla vostra musica? Boh! I nostri cambiamenti non sono mai stati calcolati, in questi anni ci siamo lasciati sicuramente influenzare da nuovi stimoli. Diciamo che l’entrata di Pinna alla batteria, ha portato un nuovo suono, più hard core per certi versi, alle nostre canzoni, credo come dicevamo prima, che questo abbia portato anche più gente ai nostri concerti... gente che segue il punk. Alla fine fare rock and roll anni 50 può anche stancare alla lunga. Nella nostra musica c’è questo ma anche tanto altro. ...cosa? Mi piacciono un sacco di cose. Pensa che in questi giorni mi hanno fatto conoscere i Cake e mi piacciono un sacco. I Cake hanno rifatto I will survive, accanto

i vostri brani originali eseguite una serie di cover strepitose ( una tradizione nell’ambiente rockabilly) come le scegliete? Si è vero I will survive...anche se quella canzone non la posso più ascoltare, sarà colpa degli Amici di Maria de Filippi. Riguardo alle cover... all’inizio sceglievamo i cavalli di battaglia di Elvis, Jerry lee lewis, poi con il tempo ci siamo divertiti a cambiare sound a canzoni famose in altri generi. Prendi Staying live, quella la facciamo da un sacco, poi alla fine è entrata nel disco. My sharona all’inizio era molto diversa, la nostra versione era molto swing, country con chitarre stile texas, poi alla fine ne è uscita questa versione più pompata. Poi fare le cover è un modo per arrivare prima alla gente e fargli ascoltare le tue canzoni. Si dicono grandi cose sul vostro live...come sono i vostri concerti? La dimensione live è quella in cui mi ritrovo, mi sento molto a mio agio. Quando la gente balla...ogni volta che scendiamo al sud poi c’è sempre più calore. Sicuramente si può vivere per la musica, ma si può vivere di musica? Ultimamente devo ammettere che le cose vanno bene, suoniamo molto fra poco andremo anche all’estero a promuovere il disco. Penso che dopo il Salento saremo in Germania. Nell’estate faremo un giro d’Italia sui palchi dei festival. Consigliate un disco ai lettori di Coolclub.it. Oltre ai Cake??? Johnny Burnette rock’n roll trio, bellissimo, quasi punk...e i Rammstein... si perché no. (O.P.)


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SU llA c O lliN A p UO i seppellire ci O’ cHe NO N Ami pi U ’ i ntervista a Creme Creme è definitivamente un artista maturo. La bellezza e la purezza di questo nuovo lavoro Sulla collina puoi seppellire ciò che non ami più risiedono soprattutto nella scelta del cantautore brindisino di concepire e registrare il tutto nel buon ritiro delle sue mura domestiche,scelta che gli ha consentito di misurarsi con le sue reali spinte interne,producendo un lavoro assolutamente personale e dai forti accenti emotivi,specie nella schiettezza liberatoria dei testi, ora più che mai forti,decisivi e belli. Per chiunque si fosse messo in ascolto solo adesso mi limiterò a dire che si tratta di un uomo (e della sua anima) accompagnato dalla sua chitarra.

Prima di parlare di evoluzione partiremo dal concetto di eredità: sei cosciente del fatto che il tuo percorso passato ed anche presente come musicista, per quanto sia ovvio ogni volta contare come “anno zero” la nascita del progetto Creme, insieme al lavoro di altra gente tra i quali Blackboard Jungle, Amerigo Verardi, Birdy Hop, Destitutes, Shock treatment, Psycho Sun e Miele June ha avuto e continua ad avere un peso specifico notevole per almeno un paio di generazioni di musicisti ed appassionati della nostra zona? Alcune mosse o scelte degli artisti che ho appena citato (e di altri…) venivano e probabilmente vengono tenute in considerazione tanto quanto le scelte degli artisti mainstream circondati da copertine e festival. Condividi questa mia osservazione? Credo che i gruppi che hai citato non hanno più il peso che dovrebbero ancora avere. Intendo dire che bisognerebbe riflettere, senza nostalgie infantili, un po’ di più sugli artisti che ci hanno preceduto e sulla loro musica; qualcuno si accorgerebbe che Brindisi, ancor prima del Salento, aveva una scena musicale imponente e di qualità; ora che in Italia quando si parla di rock non si fa altro che citare Manuel Agnelli, mi viene da ridere. Nella mia città, Brindisi, io la musica rock me la trovavo dovunque a partire dalle mura di casa. Alla fine degli anni ottanta venivano fuori i dischi dei BJ e Birdyhop, Amerigo Verardi con gli Allisonrun mi hanno fatto capire cos’era un concerto rock; di gruppi milanesi non c’è traccia nei miei ricordi. Era un periodo molto vivo e per me, credo per molti, quello è stato certamente un punto di partenza. Personalmente i momenti in cui sono più lucido e ricettivo sono quelli in cui sono in casa, circondato dalle mie cose e dai miei affetti sento di potermi esprimere meglio e con maggiore sicurezza. Sento che anche tu hai messo a fuoco, in una maniera toccante e spettacolare, ciò che volevi esprimere musicalmente e nei testi registrando in casa. Spiegaci questa evoluzione.

Registrare in casa, da solo, è la conseguenza della mia natura di autore schivo e indipendente. Ancora oggi mi chiedo perché abbia tentato l’esperienza dello studio, non ho una risposta visto che ne sono uscito sempre con le ossa rotte. Ma essendo il solo a dover pensare un po’ a tutto, forse è stata solo stanchezza, forse... In casa posso gestire il tempo a mio piacimento ed è la cosa più importante, per il resto è un continuo “sbagliando si impara”. Il risultato è il mio ultimo disco Sulla collina puoi seppellire ciò che non ami più, il lavoro che più mi appartiene in tutti i sensi, il primo a piacermi dall’inizio alla fine, il primo credibile della mia esperienza. È un disco sincero, amaro, ironico e poetico. Comporre, arrangiare e quindi registrare nella propria casa porta sicuramente a una forma di alienazione, forse ormai l’unica scelta vincente tornando al discorso di prima; provare a costruirsi un’identità in tutto e per tutto. Per questo le parole prendono il sopravvento, la musica le accompagna un passo indietro, i testi scavano dentro per fermarsi appena fuori ciò che trovo intorno. Giustamente la chiami evoluzione. I musicisti brindisini, almeno quelli che conosco io, non hanno mai inseguito con affanno trend e mode del momento, l’equazione è sempre stata quella di avere pochi mezzi ma molte idee. Quanto questa città portuale ed industriale, popolata tanto da operai che si alzano presto al mattino quanto da teste calde che dormono e basta, permeata da una densa nube di insoddisfazione e desiderio passivo di fuga, in cui aspettare è l’attività principale ha influenzato Creme? Brindisi è la mia città, portuale, industriale, americana, dall’aria puzzolente e mi sento brindisino nel bene e nel male, il sentimento vago di insoddisfazione e il desiderio ancora più vago di fuggire mi appartiene eccome. Nella mia vita ho lavorato poco ma non ho dormito, ho aspettato, ma in maniera cosciente, ho dato anch’io la colpa a qualcun altro del

( creme )

mio malessere e ho fatto il finto ribelle. Ora che sono un ribelle sul serio sento forte la mancanza della mia città. Anche io ho la sensazione che i brindisini seguano una corsia diversa, che abbiano l’attitudine di ignorare le mode del momento, segno che le radici, come dicevamo prima sono altre e piuttosto solide. Come musicista cosa desideri e cosa prevedi che ti possa accadere in un futuro prossimo? Spero di poter suonare il più possibile e grazie a Ylenia Ippolito e Davide Niccoli che mi accompagnano ora rispettivamente al basso e alla batteria, e cantano comincio anche a divertirmi sul serio. Non so che prospettive il disco mi possa dare, visto quello che si sente in giro, ma non mi preoccupo molto. Sono fiducioso nel fatto che presto per trovare concerti e guadagnare qualcosa non ci sarà bisogno delle discografiche, una volta venuto meno il supporto cd che ha ancora troppa importanza a mio parere. Internet potrà essere la soluzione ammesso che ci sia l’interesse, perché essere raggiungibili quando nessuno ti cerca è “fastidioso”, aspettiamo e vediamo... Tre nomi di musicisti/bands/artisti che consiglieresti e perché? A consigliare un disco di Battisti o uno dei Beatles mi sento un pirla, in effetti ascolto solo cose vecchie e spesso riascolto gli stessi dischi per giorni, perciò anziché chi o cosa consiglio come. Consiglio di ascoltare la musica in un buon impianto sedersi e dare al disco che si mette nel lettore una possibilità, consiglio di non comprare dischi inglesi o “inglesoidi???” recenti tanto sono tutti uguali, è finto rock and roll, infine consiglio a tutti i possessori di porto d’armi di sparare a vista a Pete Doerty o come cazzo si chiama lui Quale vorresti fosse il finale a sorpresa di questa intervista? Che è stato solo un sogno...

Ennio Ciotta


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IL SALTO NELL’INDIE: Nuovo mese e nuova tappa del nostro percorso attraverso le etichette indipendenti italiane. Il salto nell’indie arriva a Milano alla scoperta della Maninalto! Ne abbiamo parlato con Dava, voce dei Vallanzaska e anima del progetto discografico. Maninalto! è una minaccia o un’esortazione? Maninalto!, si, si scrive con il punto esclamativo, è un nome che ben si abbina al colore e alle tematiche del mondo gangsteristico-musicale dei Vallanzaska. Nel 2004, prima di entrare in sala di registrazione per registrare Sisisi nonno abbiamo prima pensato e poi deciso di fondare una nostra etichetta per autoprodurci. Desiderio che derivava dalla nostra lunga esperienza in campo musicale. Sono 15 anni che i Vallanzaska suonano e si affidano a strutture esterne (booking, produzione etc.). L’esperienza e l’osservazione di queste strutture organizzative e lavorative ci ha permesso di apprendere il know how necessario ad intraprendere questa avventura. Dando uno sguardo al vostro catalogo salta all’occhio la passione per i ritmi in levare, ce ne parli? Il mondo dello ska è quello che più conosciamo. Suonandolo da così tanto tempo abbiamo l’orecchio giusto per trovare tra le mille bande quelle che hanno qualcosa da dire veramente, sia nello scelta dello stile che nei testi, scelta che mai deve esser banale. Da qui la nostra attenzione si è concentrata oltre che sui Vallanzaska, anche su gruppi emergenti come i Lemon Squeezers, giovani e bravissimi, I Catwalk, di grande raffinatezza, e gli Harddiscount, ottimi musicisti dal gusto latino. Non solo ska, ma anche rock, rock e ska insieme. Sono queste le due anime della

Maninalto!? La Maninalto! piano piano cresce. Noi tre soci, Christian, Lucio ed io (Dava), stiamo allargando il rooster dei gruppi anche in senso stilistico. I Mesas, le Officinalkemiche sono i primi esempi di questa evoluzione. Ma la cifra stilistica dell’etichetta non cambia. Si è alla continua ricerca della qualità, che, come si sa, spazia e si trova un po’ in tutti i generi. Basta saperla vedere. Questo numero di Coolclub.it è dedicato al mestiere di scrivere, lavoro bello ma allo stesso tempo difficile, come quello del musicista e del discografico, come si muove la Maninalto! nel burrascoso mare dell’industria discografica indipendente? Per ora seguendo strade che ben conosciamo. Per la stampa dei dischi, la loro distribuzione ci affidiamo a professionisti con i quali c’è una conoscenza e una fiducia che va oltre i rapporti di lavoro. Fiducia nata nel corso degli anni e che si alimenta anche proponendo prodotti che vale la pena di distribuire e stampare. Ma questo lavoro è fatto anche di ufficio stampa, e noi ne abbiamo uno molto forte curato da Christian. Ma anche di rapporti con fornitori, riviste, altre etichette, gruppi, tv, radio. Noi tre soci abbiamo di fatto capacità e ambienti di influenza diversissimi, e questa è la nostra forza. Ho visto che Maninalto! non è solo un’etichetta ma offre anche una serie di servizi legati alla musica. Appunto, per esempio Lucio oltre a fare booking crea siti ad alta professionalità. Abbiamo inoltre uno studio mobile per potere fare riprese live ai concerti, e altri servizi che potete trovare sul nostro sito: www.maninaltoweb.com Lo ska, lo ska-core, il punk-rock sono generi musicali che in questo periodo

stanno attraversando una fase di grosso rilancio, penso al ritorno dei Bluebeaters al fenomeno Ska-p. Tu come lo vedi? Sono 20 anni che ascolto ska, 15 che lo suono. Potrei dire che lo ska non muore mai, ma anche che non esplode mai, tranne rari exploit (nel 1980 Gangsters degli Specials vendette 2 milioni di copie). Rimane sempre in ambito underground, e per questo lo considero di una forza fenomenale. Un po’ come il reattore numero 4 di Chernobyl che sta sotto terra da 20 anni e ancora produce energia, però nel caso della musica ska è energia positiva e sana. La settimana scorsa ho visto un concerto dei Bluebeaters e uno degli elementi del gruppo mi ha riferito che il loro disco è quinto in classifica. Un exploit che mi fa piacere perché permette di alimentare ancora questo fuoco. Ci parli un po’ delle vostre ultime produzioni? Le ultime riguardano i Mesas e gli Harddiscount, di cui ho già parlato. Posso aggiungere che i Mesas sono il gruppo che ha inventato lo “spaghetti stoner”. Molto testosteronici, una voce coinvolgente, chitarre molto presenti, molto bravi. E gli Harddiscount, che ho descritto come latineggianti, di fatto hanno lavorato il disco a Città del Messico. Le difficoltà per portare avanti tutto questo non crediate che non ci siano, ma noi andiamo avanti per la nostra strada, tenendo gli occhi sempre bene aperti. Anche perché tra breve partirà un lavoro veramente immenso che richiederà parecchio tempo: la produzione dalla a alla z del nuovo disco dei Vallanzaska.

Osvaldo Piliego

(HARDDISCOUNT)


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( Xiu Xiu)

X i U X i U iNtervistA A JAmie SteWArt Tornano in Italia gli Xiu Xiu, per un tour in compagnia dei Larsen con cui hanno prodotto l’album Ciautastico. La prevista data in Puglia è stata annullata all’ultimo momento. Ci accontentiamo dunque di una chiacchierata con Jamie Stewart, il quale, anche fuori dalla sue canzoni, si dimostra essere quella persona fragile e complicata, ma allo stesso tempo energica e determinata nel suo lavoro, che ci aspettavamo. Ciao Jamie, che stai facendo? Stai preparando le valigie? So che ti aspetta un lungo tour... Qui tutto ok. Partiremo per l’Australia prima di venire in Europa, perciò sto evitando di bere per dare il tempo al mio corpo di rimettersi in ordine prima dei prossimi abusi... Non sembra, ma ormai sono più di cinque anni che si sente parlare di Xiu Xiu. Come ti senti e come vedi oggi questa tua creatura? Ovviamente diversa da allora: mi sento più sicuro e creativamente più fortunato. Mi sento anche più solo, ma non certo depresso o prossimo al suicidio, e questo è già un immenso sollievo. Comunque è strano pensare che sia già passato così tanto tempo, in particolare gli ultimi due anni sono davvero volati. Hanno definito le tue canzoni “le ultime volontà di un suicida masochista lasciato a se stesso in uno studio di registrazione”. Ti senti davvero un tipo depresso, ossessionato, disperato? In effetti è così che mi sono sentito negli ultimi otto mesi, ma, come ho detto, sto meglio adesso. Questo tipo di sentimenti, dovuti a certe particolari circostanze e alle mie caratteristiche psicofisiche, vanno e vengono. Staremo a vedere come si evolveranno. Sono per natura un tipo molto pessimista e incazzato, e triste,

ma, d’altra parte, sento di non volerlo essere, e così spero che queste due forze opposte riescano a tenersi sotto controllo. Che consapevolezza hai della tua musica quando non fai il musicista? Io suono ogni giorno, e quindi non ho lo spazio e il tempo per avere una consapevolezza esterna della mia musica. Il che è una cosa buona, credo, perché analizzare troppo le proprie creazioni porta a diventare ripetitivo e ad aver paura di sbagliare. Sebbene la tua musica sia tutt’altro che facile, sia nei suoni che nei testi, riesce in qualche modo ad essere accattivante e a suscitare interesse anche tra coloro meno disposti a ragionare su quello che ascoltano. Da cosa dipende, secondo te? Questo non potrò mai saperlo con sicurezza, ma ciò che è certo è che noi lavoriamo molto duramente proprio con lo scopo preciso di rendere il più interessanti possibili i nostri suoni e i nostri testi. Forse con la nostra fatica siamo riusciti in questo. Il nuovo album è pronto e uscirà a settembre. Si chiama The air force: quali sono i temi trattati? È semplicemente un ovvio cenno all’armata aerea degli Stati Uniti attivata per la guerra al terrorismo: è quella che infligge il maggior danno ma da lunghe distanze, senza sporcarsi letteralmente le mani di sangue. Questa credo sia la cosa più cattiva: essere un assassino di massa ermeticamente protetto. C’è inoltre un immenso contingente della destra cristiana all’interno delle forze armate americane, il che è così paradossale che mi fa vomitare. Ho anche sentito un pilota che in un’intervista ha confidato che lanciare le bombe gli provoca una

gratificazione sessuale. Parallelamente, molte delle canzoni parlano anche delle crudeltà, intenzionali e accidentali, che ho inflitto alle persone in quest’ultimo anno. Ho letto sul tuo sito che nel nuovo disco partecipa Nedelle Torrisi. Lei ha suonato a Bari proprio un anno fa. Come vi siete conosciuti? Siamo sulla stessa etichetta in America e abbiamo fatto un tour insieme qui. È una grande musicista. So che oltre al nuovo album hai in cantiere altre cosucce: un Ep di cover composto da un 7” con due brani e un cd con tre, e un disco ambient in collaborazione con i Grouper. Si, entrambi sono praticamente pronti. L’Ep uscirà a maggio, con canzoni di Nina Simone, Pussy cat dolls, Nedelle, Bauhaus e This mortal coil/Alex Chilton. Il disco con i Grouper credo uscirà insieme a The air force. Stai lavorando anche sulle musiche per un DVD di vecchi cartoni animati. Di che si tratta? È stata una cosa strana e divertente. Io e Devin Hoff (che suona con i Nels Cline e nei dischi degli XiuXiu) abbiamo appena finito un lavoro per una storia che parla delle relazioni e dei problemi tra una coppia di insetti sposata. Si tratta di un opera russa risalente al 1912, credo. Non posso evitare la domanda: che ci dici del progetto con i Larsen, XXL, con cui girerai a maggio? In Italia Ciautastico è piaciuto molto. Stiamo suonando come XXL in questo tour e penso faremo un altro disco in inverno. Andrà quindi avanti questa collaborazione? Certo, con piacere. Gennaro Azzollini


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PRIMAVERA S OUN D Quattro chiacchiere con Abel Suarez A pochissima distanza dalla nostra italietta, in un luogo bagnato dal nostro stesso mare, in una terra da sempre riconosciuta come vicina e fraterna, si svolgono ogni anno magici eventi di perdizione sonica così immensi che ci fanno apparire lontani anni luce - in termini sia di spazio che di tempo. Il Sonar, il Fib (Festival Internazionale di Benicassim) e, ultimo arrivato ma già megagalattico, il Primavera Sound, sono quei fenomeni che fanno di una nazione, musicalmente, una grande nazione. Di concerti, rassegne, contest, festival se ne vedono un po’ in ogni dove e di ogni tipo, ma ci sono appuntamenti che, per la loro dimensione, la loro qualità, la loro capacità di richiamare gente da ogni angolo del pianeta e, soprattutto, la loro capacità di diventare motore propulsivo della terra da cui nascono, diventano punti di riferimento extranazionali. Invidioso e incuriosito, mi è sembrato interessante porre la questione proprio al fautore di uno di questi maestosi eventi, Abel Suarez del Primavera sound. Barcellona è da sempre una delle città più vive e stimolanti del Mediterraneo, ma in questi ultimi anni sembra davvero essere esplosa. Quali sono le condizioni cittadine e regionali che permettono la nascita di un festival come il Primavera Sound? Beh, per quello che ci riguarda, posso dire che noi ci siamo sempre mossi al limite del “do it yourself”: semplicemente, abbiamo iniziato con i concertini nei primi anni ’90, e poi a poco a poco, siamo arrivati a organizzare grandi eventi. Ma bisogna dire che Barcellona è un posto perfetto per questo tipo di cose: la città è bellissima, il tempo è splendido quasi tutto l’anno, e c’è un sacco di gente che è interessata a quel che facciamo. Come è nato il progetto? Perchè ha questo nome? Chi ha partorito l’idea? Chi sono i soggetti produttori dell’evento? Il Primavera Sound nacque all’inizio degli anni ’90, ma era molto diverso da ciò che è diventato oggi: era un evento incentrato sulla scena indie spagnola e si svolgeva nei diversi locali della città durante il mese di aprile (da qui la scelta del nome). La cosa poi si fermò a causa del crescente impegno per altri progetti. L’idea del festival venne poi ripresa nel 2000. Inizialmente eravate più indirizzati verso

sonorità dance-oriented, cosa vi ha spinto poi a una differenziazione delle proposte musicali? In realtà, il primo anno (2001) fu una specie di esperimento: avevamo una certa fretta e, visto che in quel periodo seguivamo molto la musica elettronica, quella fu la via più facile per iniziare. Ma fin da subito le nostre intenzioni erano di arrivare a fare un festival così come è concepito adesso. Pur differenziandosi, le vostre scelte cadono comunque su artisti indipendenti. L’intransigenza ben calibrata con la qualità può dunque essere una formula vincente (in certi luoghi del mondo)? La nostra ricetta è molto semplice: scegliamo le band che più ci piacciono. Non so come si regolano per gli altri festival, ma noi ci limitiamo a selezionare i nomi nuovi che ci sembrano più interessanti insieme a gruppi del passato che riteniamo abbiano avuto una notevole influenza sulla scena musicale attuale; il tutto poi deve risultare il più eclettico e differenziato possibile. Le scelte, quindi, non sono mai finalizzate ad ottenere un pubblico sempre più vasto: questo è successo, si, ma semplicemente è stato determinato dal fatto che c’è sempre più gente che la pensa come noi in ambito musicale. L’anno scorso avete deciso di spostarvi dal Poble Espanyol (roccaforte medioevale posta su una delle colline che circondano la città) al Forum (area futuristica a ridosso del mare). Quali sono state le difficoltà principali che avete dovuto affrontare per rispondere adeguatamente ad un incremento così esponenziale del vostro pubblico? Qual è l’importanza del supporto degli enti pubblici da una parte e delle aziende private, grandi e piccole, dall’altra? Certo, la crescita di pubblico è stata la ragione principale per cui ci siamo dovuti spostare al Forum. Ma questo non significa che ci siamo spostati in un posto così grande con l’obiettivo di avere più gente, ma solo di rendere l’esperienza del festival più confortevole. D’altra parte, gli aiuti da parte degli enti pubblici e degli sponsor non sono stati ovviamente immediati, ma sono cresciuti poco alla volta, e ancora adesso non sono sufficienti: a differenza di altri tipi di festival, gli investimenti esterni sono una ben piccola parte rispetto alla spesa

complessiva per l’organizzazione. L’Italia, apparentemente simile alla Spagna, in realtà si trova ancora molto arretrata culturalmente e musicalmente rispetto al vostro Paese (o almeno alla Catalogna). Che interesse c’è da parte vostra per il pubblico italiano? Quale per ora è la percentuale di italiani partecipanti? E quale quella degli stranieri in generale? In effetti non ci sono molti italiani partecipanti al festival. I paesi stranieri in cui vendiamo più biglietti sono il Regno Unito, la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. A pensarci bene, sarà appena da un paio d’anni che ho iniziato a conoscere qualche artista italiano (ma soprattutto dj). Per la verità in Spagna non riceviamo molte notizie sulla situazione musicale italiana, e non saprei dire perchè... Qui da noi festival del genere sono ancora impensabili (dal punto di vista di proposte e organizzazione): quelli davvero alternativi sono inevitabilmente molto piccoli, e quelli più importanti sono schiavi delle logiche commerciali. Le grandi aziende (le stesse che in altri paesi sponsorizzano eventi come il vostro) hanno paura a rischiare qui da noi, e gli organizzatori, viceversa, sono costretti a dare spazio ad artisti di dubbio valore ma di sicuro ritorno economico pur di salvare la baracca. Qual è il vostro punto di vista rispetto alla situazione musicale e culturale italiana? C’è qualche speranza, dottore? Humm, anche da queste parti ci sono un bel pò di ragazzini che ascoltano solo cacate per telefonini, ma di certo qui in Spagna (e, presumo, a differenza dell’Italia) c’è stata, da sempre, anche una grande attenzione per la musica dal vivo (calata un pò negli anni ’90, ma ora ritornata fortissima). Per questo tipo di gente affamata di concerti, i festival come il nostro sono una occasione d’oro per ascoltare gruppi che difficilmente avrebbero potuto vedere nelle loro città, ma anche per scoprirne di nuovi. In tal senso, ne sono sicuro, il Primavera sound è uno dei migliori posti dove essere. Gennaro Azzollini


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M O N sie U r GAiNsbOUrG revisited Nonostante il palese influsso spiegato a più livelli su tutto il pop contemporaneo, nonostante la statura da romanziere e la grande capacità di giocare con la parola, nonostante la figura e i comportamenti da esteta, Serge Gainsbourg resta ad oggi un prodotto per palati fini, da maneggiare con cura. Vero, numerose riletture hanno interessato la sua opera, dal bellissimo tributo siglato dalla Tzadik di John Zorn nel 1997 ai due dischi che il Bad Seeds Mick Harvey ci ha regalato qualche tempo fa, Intoxicated Man e Pink Elephant, passando per una nutritissima schiera di artisti di ogni latitudine intenti a misurarsi con la sua opera (Belle and Sebastian, Blonde Redhead, Mike Patton…). Vero, ma nonostante questo, Gainsbourg rischia di essere ancora oggi – e al di fuori della Francia – solo un culto, un artista di nicchia. Il che risulta essere quanto meno paradossale visto che nella sua arte si è raggiunta una sintesi poetica tra il colto e il popolare raramente riscontrabile tra i suoi colleghi (persino quelli d’oltreoceano). Le canzoni di Gainsbourg, una volta spogliate di quelle vesti che di volta in volta erano jazz, reggae, pop, exotica, r’n’r, mostrano una perfezione stilistica che prescinde dai generi. Sono canzonette, musica leggera per antonomasia, a volte troppo legate alle mode del momento, ma dotate di

una capacità tale da potersi permettere di essere maltrattate e non cambiare di una virgola il loro incredibile potere di persuasione. Monsieur Gainsbourg Revisited, tribute-album appena pubblicato per celebrare il vecchio porco a 15 anni dalla sua dipartita, sembra non smentire quanto affermato sino ad ora, ospitando un manipolo di artisti giovani e meno giovani in evidente stato di grazia. C’è posto quindi per una grande “dark lady” della canzone, tale Marianne Faithfull, perfettamente a suo agio con una canzone reggae come Lola Rastaquere. Oppure per uno strepitoso Michael Stipe che quasi non lo riconosci nella rilettura di Hotel Particulier. O ancora per gli inutili The Rakes che non sfigurano con una canzone difficile come Le Poinconneur de Lilas. Alla stessa maniera è incredibile come l’ennesima rilettura di Je T’aime, Moi Non Plus non risulti tediosa ed insignificante, con una Chan Marshall da urlo e una Karen Elson (la mogliettina di Jack White dei White Stripes) che solleticherà i vostri istinti cercando di emulare la magnifica Birkin diciassettenne. Poi ci sono i Franz Ferdinand, Tricky, Marc Aldmond, Placebo, Jarvis Cocker dei Pulp e tanti altri che meritano di essere ascoltati. L’unica nota stonata è rintracciabile negli adattamenti dal francese all’inglese, che naturalmente non rendono giustizia alla poesia di Gainsbourg. Un buon disco quindi, sicuramente meno coraggioso del già menzionato tributo della Tzadik, ma che resta un ascolto consigliato per chi ha abbondantemente f r e q u e n t a t o Gainsbourg. Il neofita, al contrario, dovrebbe concentrarsi sugli originali, che tra l’altro sono stati oggetto di ottime ristampe negli scorsi anni. Un bel modo per incominciare è rappresentato dalla

raccolta pubblicata una decina d’anni fa dal titolo De Gainsbourg a Gainsbarre (riduzione in due cd del box omonimo) che contiene alcune tra le più belle canzoni di Serge. Canzoni lascive, ambigue, egocentriche, ma piene di ironia, nelle quali è il Gainsbourginterprete a farla da padrone. Che di volta in volta si traveste da mattatore alcolista che languidamente canta jazz (Black Trombone), da affabulatore capace di parole dolcissime (Je suis venu te dire que je m’en vais) o ancora da erotomane in astinenza (La decadanse). Canzoni confezionate in maniera tale dal Gainsbourg-musicista da risultare incredibilmente attuali dopo decenni, nonostante il corredo esotico. Altro versante da approfondire per comprendere l’arte di Gainsbourg è sicuramente quello del personaggio. Che pare non fosse poi così piacevole. Un uomo affatto bello ma circondato da alcune tra le più belle donne del mondo, che aveva eufemisticamente dei problemi con l’alcool ma che si diceva proibizionista, che alternava atteggiamenti da intellettuale a comportamenti da star televisiva (in forte contrasto con la sua origine di figlio di emigranti ebrei). Gli ultimi anni ce lo consegnano in uno stato di quasi perenne alterazione (quando per esempio dichiara davanti a Whitney Huston in diretta tv di volerla scopare), impegnato a fare il guitto su ogni palcoscenico che lo ospitasse. Questo emerge nella biografia di Sylvie Simmons, Per un pugno di Gitanes (Arcana), opera fondamentale per capire appieno il genio poliedrico di Gainsbourg: attore, regista (con la macchina da presa non teme di raccontare nemmeno il tabù più estremo, l’incesto, scegliendo come interprete proprio la figlia Charlotte), pittore, scrittore (formidabile il racconto salvatosi da un rogo che lo stesso autore aveva alimentato per distruggere tutti i suoi scritti, che narra di un uomo e dei suoi peti) e, naturalmente, autore di canzoni. Che, a 15 anni dalla sua morte, suonano ormai universali. Ilario Galati


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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale

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la letteratura secondo coolcub

Tuttalpiù muoio Albinati-Timi Fandango *****

Uno scritto di sangue, carne e vomito, che sventra la morale attraverso 450 pagine di verità assolute, e insegue la lettura per il tempo fugace di uno sputo. Due scritture si fondono, e non ne sarebbe bastata una sola, a rendere lo straordinario esempio di registrazione realistica, che nulla cede al romanzo e tutto impregna di fiaba nerissima. Filo, padrone e servo della storia narrata, nasce a sette mesi dalla pancia ustionata della mamma, che incauta sta friggendo dolci per Carnevale, e che ignara sta per buttarsi addosso l’olio bollente. Filo è dentro quella pancia, prima morbida ed accogliente, ora dura e bruciacchiata, e con sforzo sovraumano rinnega quella casa non più sicura. Non è ancora pronto, ma sceglie di venire al mondo, e con un anelito prepotente si consacra alla vita bastarda e beffarda. Un paesino umbro, piccolo e pessimo, accoglie la sua infanzia e la sua adolescenza, ma

queste età si rivelano subito toccate da drammi fisici continui, da un immenso vuoto d’amore, da un’eccitazione incessante e molesta. Il tutto vissuto senza grazia alcuna, e subìto con una ferocia a dir poco battente. E cresce, Filo, con gli occhi sempre più feriti da un morbo raro e maledetto, le parole a tartagliare anche le bestemmie, un corpo scosso da rapide convulsioni come da un’immane violenza. In cerca di un istinto definito, e affamato di cibo - che questa sola è la vera fame per Filo – avviene l’incontro con il teatro, improvviso ed imprevisto, che non lo salva come nelle storie belle, ma ne brutalizza ancora di più le intenzioni di sopravvivenza, ne adorna il corpo perfetto di sublime arroganza, senza delegare alla finzione il racconto della vita bestia, la sua, sempre, anche in scena. Sino a divorarne corpo e sentimenti, sino a sanguinare patti falsi e falsi suggelli, sino a vomitare la cattività

di un’esistenza che è in cerca, sempre e solo, di un amore pieno e totale. Sino a divorarne… Come si divorano queste infinite righe bulimiche, dove tutto è desiderio irrefrenabile e senza controllo, dove la reazione è unica azione possibile, e il compromesso non può esistere, pena la morte. Perché la vita val bene uno sbaglio senza ritorno, un saporaccio già gustato, un incubo già vissuto, tanto Tuttalpiù si muore. E rimane spazio anche per ridere, perchè il confine è sottile, con il pianto. Lettura d’un fiato, rielaborazione lenta e sofferente, rimozione impossibile. Edoardo Albinati è insegnante di Lettere nel carcere di Rebibbia, e scrittore. Filippo Timi è un ragazzone umbro affetto da balbuzie, semi-epilettico e con gli occhi malati, giovane rivelazione del teatro buono. Il Passo del Cammello


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Passare l’inverno Olivier Adam Minimum Fax ****

La notte non può durare per sempre, come le stagioni fredde del resto. Molte vite si muovono sotto lo stesso cielo, si muovono dentro scenari simili. E gli inverni come le notti della vita sono momenti e condizioni a cui l’uomo cerca di reagire frazioni di esistenza destinate a passare. Accanto ai vincitori e ai lieto fine ci sono i vinti o semplicemente la gente normale che vive storie a un passo tra buio e luce, in un crepuscolo incerto, un passaggio che non capisci se è tramonto o alba. Nei suoi nove racconti Olivier Adam è capace di dipingere con essenzialità e vividezza altrettante vite. Gente normale che si muove sotto lo stesso cielo plumbeo e aspetta giorni migliori, uomini e donne che nascondono un dolore, un rimpianto, ma che svelano alla fine una speranza un attaccamento alla vita che li porta a continuare, la speranza che ci saranno stagioni della vita migliore. Questo è passare l’inverno, una galleria di personaggi, nove storie che consacrano Adam come una delle penne più giovani e interessanti della letteratura francese. Osvaldo Piliego

L’insegnante di inglese R.K. Narajan Guanda *****

Nulla è per sempre, neppure la morte. Realizzazione intensa, pensiero pesante, frutto di uno sconvolgimento interiore frenetico e sofferto. Perché questa opera di Narajan è soprattutto la cronaca lenta e lieve di una crescita personale assolutamente necessaria. Il protagonista, Krishna, è un insegnante di letteratura inglese. La sua quotidianità si consuma tra le mura di un college, in un’India ancora assoggettata all’impero britannico, e le lettere impregnate di essenza di gelsomino della moglie lontana. Su sollecitazione dei parenti, i due coniugi si riavvicinano costruendo d’un colpo una mai provata esistenza comune, all’inizio serena, colma della vivacità della loro piccola creatura, Leela, e forte di odori tipici e profumi preziosi. Ma la ricerca di una nuova casa, più bella e a dimensione di piccola famiglia, inquina il corpo di Susila, la splendida moglie, con una malattia improvvisa e feroce, prima scambiata per una malaria complicata ma guaribile, e poi manifestatasi in tutta

la sua gravità di tifo resistente ad ogni tipo di cura. Muta così il corso leggero delle cose, e la morte compare ad appesantire gli animi, a spegnere i sorrisi, ad impedire alle fragranze di spandersi nell’aria come appena poco tempo prima. Un medium bizzarro e il direttore di una scuola d’infanzia giungono all’improvviso nel silenzio in cui padre e figlia ormai abitano rassegnati, a restituire il senso perduto della vita. I nodi fatti ad arte dalle ansie e dalle aspettative del mondo iniziano a sciogliersi con levità, e così le esistenze dei protagonisti. Non per caso l’autore ha fatto incontrare tra le parole due culture distanti come quella inglese ed indiana, per carpire e svelare la lontananza intellettuale imposta dalle vicende storiche . Nell’attesa che vengano sciolti anche i nodi malamente intrecciati dagli affanni politici, nel nome della difficile convivenza tra le differenze. Il Passo del cammello

Dies Irae

Giuseppe Genna Rizzoli ****

Tutto inizia nel giugno del 1981, quando a Vermicino Alfredo Rampi, 6 anni, viene trovato incastrato in un pozzo artesiano. Diciotto ore di diretta televisiva raccontano la sua drammatica fine trasformandolo in un’icona mediatica: Alfredino. Evento che trasforma cinquanta milioni italiani in cinquanta milioni di spettatori italiani. Nelle stesse ore: la scoperta delle liste della loggia P2, il processo Calvi, l’edificazione della città satellite di Milano 3 a opera dei fratelli Berlusconi. La storia diviene pellicola capillare che s’insinua tra le trame del romanzo che ha come protagonista non solo Giuseppe Genna, che nel suo alloggio abusivo e claustrofobico usa un congegno per l’intercettazione della voce dei morti, e scrive un libro segreto, il Dies Irae, appunto, nel quale profetizza le sorti della specie umana, fino all’estinzione del pianeta, ma anche Paola C. che, in fuga da un indicibile dramma, attraversa il tetro sottobosco tossico di Berlino e la scena psichedelica di Amsterdam, e Monica B. che vive la parabola ben poco spirituale della buona borghesia milanese. La storia dell’Italia degli ultimi 25 anni diviene una sorta di materasso a molle su cui rimbalzano i drammi assoluti degli attanti che si muovono nello spazio-tempo del romanzo. Ecco quindi l’ascesa al potere di Bettino Craxi, la caduta del Muro di Berlino, i mali oscuri di Tangentopoli, la sequenza dei governi Berlusconi – Centrosinistra – Berlusconi, ma è la storia individuale dei tre protagonisti a colpire. In fondo l’incubo del bambino morto nel pozzo viene utilizzato come valvola simbolica

che piaga con ossessione Paola, Monica e Giuseppe. Dies Irae è un romanzo storico, certo, ma soprattutto un romanzo del dolore privato. Solo la scomparsa dei rispettivi padri determinerà la graduale rinascita dei tre protagonisti. La rinascita richiede una morte. E in questo romanzo Giuseppe Genna muore come uomo e come scrittore, ma, tramite la sua nuova nascita, diviene un altro uomo e un altro scrittore. Rossano Astremo

Officina

AA.VV. Manni Editori ***

La pubblicazione di Officina segna la conclusione del corso di scrittura tenuto lo scorso anno da Livio Romano e Antonio Errico. L’antologia offre una selezione di undici lavori (tra racconti e poesie) di altrettanti autori esordienti. Undici promesse di scrittura di vario tipo, dal fantastico all’abbozzo al racconto più o meno autobiografico, alle quali il lettore può avvicinarsi facilmente. È sempre entusiasmante avventurarsi tra pagine di questo tipo, dove puoi sentire forte l’odore delle speranze e dei risentimenti di chi nella scrittura crede pienamente e comincia a muovere i primi passi. Ed è altrettanto interessante scoprire i vari mondi, o meglio le infinite impressioni dello stesso mondo che ognuno ha, di persone vicine a noi, geograficamente o culturalmente, o che addirittura ci possiamo vantare di conoscere proprio come desiderava Salinger. Anna Puricella

Vienimi nel cuore

Micol Arianna Beltramini Coniglio editore 2006 ****

Tra i tanti libri un libricino. Una bimba che nuota in copertina, lo sfondo viola come i miei calzini. Fa parte della Collana di Coniglio Editore i Lemming, dedicata ai nuovi autori italiani. Lo prendo, e contatto subito Micol. L’autrice. Sei così romantica come appare dal titolo? - le chiedo. “Romantica per scelta e non” - mi risponde - ho bisogno di lasciarmi andare, di credere che tutto sia magico. La vita poi, le esperienze che ho fatto, si sono rivelate più incredibili di qualunque sogno”. Martina, luna e Daniel, Ramona, Orfeo e Euridice, Mar, Ale. Ancora, Tom e Marta, Melotti Junior, l’arrotinoombrellaio, David, Peter e Wendy, Lula


Coolibrì belle, David e sempre David. Fanno tutti parte della vita, e dei sogni di Micol. Dei suoi racconti raccolti in queste pagine. “Ho finito col descrivere le mie storie mi dice - con qualche variante e diversi castelli in aria in più, ovviamente, ma nemmeno in tutti i casi”. Un libro erotico viene definito in molte recensioni. Un libro d’amore, piuttosto. In cui ci sono le mail di notte che soffri d’insonnia anche tu?, in cui Euridice può tornare a vivere e in cui dentro, in fondo, se c’è cuore abbastanza, non si finisce mai. Ascolta Tori Amos e Tom Waits nella metro milanese Micol, il periodo blu di Nick Cave le è scivolato di dosso adesso. Scrive da almeno dieci anni, per passione, per allegria e perché la aiuta a mettere ordine nella testa e nella vita. È una giornalista free lance e le piace molto raccontarsi. Nei suoi progetti futuri c’è una fiaba e si definisce una persona che ha troppo cuore, o troppa memoria, “una delle due cose comunque, o tutte e due, non so”. Vede le storie d’amore “come se fossero posti in cui per un po’ si abita in due, poi uno dei due se ne va, o tutti e due, non è detto, ma arriva il giorno in cui ripassi di lì, e sai che se entrassi, se riaprissi quella porta, probabilmente ritroveresti tutto quanto, che l’altra persona sia lì con te o meno”. Valentina Cataldo

La storia del rock Vol 1 Carmelo Genovese Editori Riuniti ***

A due anni dal suo cinquantennio il rock and roll ha visto intorno a sè una sfilza di celebrazioni. Molti libri, sulla scia dell’entusiasmo, sono usciti a ridosso del compleanno. Volumetti mordi e fuggi, come piccoli bignami buoni giusto a intrattenere una conversazione. Ma il rock è materia che richiede approfondimento e dedizione. Come ogni storia anche quella del rock è fatta di momenti topici grandi personaggi e meteore. La storia del rock di Editori Riuniti ha il respiro di una piccola enciclopedia e questo rassicura. Dieci volumi per raccontare dalle origini al grunge la storia di un genere che fa parte della nostra vita. Carmelo Genovese parte dalle origini e dalle influenze prima di Elvis. E poi Rock around the clock, il mitico film Blackboard junlge e una serie di personaggi (alcuni famosi altri no) che hanno scritto le prime pagine di questa bellissima storia. Dalle sue origini blues alle derive più pop questo primo volume ripercorre il primo decennio del genere. Le ultime pagine sono dedicate a un’agile cronologia, un elenco con breve biografia dei personaggi più importanti e una discografia consigliata. Ben fatto! (O.P.)

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Amatevi e non moltiplicatevi Maria Lacerda de Moura Edizioni Spartaco ****

I fell good

James Brown Minimum fax

**** Tutta l’energia di un uomo come lui compressa in 200 pagine è una bomba, un ordigno micidiale capace di infiammare cuori e fantasie di chiunque si accinga alla lettura. Questa è la sensazione che si ha leggendo le pagine dell’autobiografia di James Brown: materiale che scotta, roba che nel momento stessa in cui è letta pulsa. E il merito è di uno dei mostri sacri della musica di tutti i tempi, pioniere in campo musicale ma anche nel business legato ad esso, l’esempio vivente dell’ uomo che si è fatto da solo, partendo dalle stalle fino ad arrivare alle stelle e ancora più su, alternando, come tutti i grandi, alti e bassi. L’influenza musicale di James Brown a tutti i livelli è indubbia. È stato lui il primo a esaltare nel soul ritmo e fiati, il primo a fare dello show uno spettacolo, il primo a usare il mantello in scena (lo stesso Elvis sembra abbia copiato da lui). da molti è considerato anche tra i padri dell’hip hop perché molte delle prime basi sono campionamenti dei suoi brani. Ma c’è di più in questo libro. Oltre alla storia e la vita di un uomo (tradotta molto bene da Francesco Pacifico) c’è l’esempio, la lezione di chi ha vissuto una vita al mille per cento. E non c’è solo musica in queste pagine ma anche la questione razziale “il muticulturalismo americano è come la Ford, solo che invece delle macchina noi abbiamo ogni sorta di razza” uno spaccato della storia americano e delle piccole e grandi rivoluzioni che un uomo come James Brown ha vinto. Sembra di essere al bar, lui di fronte con il suo sorriso smagliante, fasciato d’eleganza dai mocassini fino al collo, che ti spiega come stare al mondo. Come se lo cantasse, immediato come il soul e il funk, severo com’è sempre stato con se stesso e con la band, con la rabbia di chi ha sofferto la fame e non si è mai stancato di lottare, con la supponenza che solo i grandi come lui possono permettersi. (O.P.)

A sessant’anni dalla morte di Maria Lacerda de Moura, scrittrice femminista, antimilitarista, anticlericale ed educatrice libertaria di San Paolo del Brasile, la Edizioni Spartaco pubblica un’antologia che ne raccoglie gli scritti. Sulla scia del rinnovato interesse scaturito in Brasile durante l’ultimo forum mondiale dell’educazione, di cui la scrittrice è stata una dei protagonisti, le riflessioni della Lacerda hanno riacceso, se mai si fosse sopita, la discussione su tematiche quanto mai attuali, quali l’antimilitarismo, la condanna del patriottismo e quella delle “parodie” delle alleanze tra Stati che inseguono il bene comune, la denuncia della massificazione della società come omologazione e castrazione della realizzazione individuale. Ed è soprattutto su quest’ultimo argomento che si concentra la riflessione della Lacerda, che in alcune pagine infuocate arriva a definire il pensiero di Émile Durkheim, del tutto “detestabile” perchè antitetico all’idea di lei, che proclama invece l’antisocialità, il tenersi fuori dalla collettività organizzata quale unico modo per giungere alla liberazione degli individui, della donna su tutti, poiché è solo con la pacificazione tra i sessi e l’instaurarsi di una nuova relazione tra uomo e donna (entrambe schiavi della società) che si giunge al progresso dell’umanità tutta. Antonietta Rosato

I Situazionisti Il movimento che ha profetizzato la società dello spettacolo Mario Perniola Castelvecchi ****

Ritengo che l’internazionale situazionista sia il punto più alto mai raggiunto dalle culture alternative. Il movimento nato attorno all’omonima rivista, conta tra le sue fila intellettuali ed artisti che, nel corso del decennio 1958-1969 attuano una serrata critica alla società industriale e tecnocratica che culmina con la critica alla società dello spettacolo colpevole dell’alienazione e della passività contemplativa tipica del capitalismo. Non hanno remore nell’asserire che la premessa di un pensiero rivoluzionario moderno è la totale ripulsa del modello bolscevico in tutte le sue varianti. Questo distaccarsi dalla sinistra radicale fa sì che il situazionismo diventi un modello a se di sviluppo artistico e sociale. Modello in tutti i sensi poiché l’I.S, non si ferma a criticare il modello imposto di società bensì propone tangibilmente


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26 ed a 360 gradi un cambiamento e la via da seguire per effettuarlo. Saranno le sollevazioni del ‘68 a minare e dividere l’I.S che, ingloriosamente, si riversa in un circolo vizioso di possesso settario ed esclusivo della totalità delle idee. L’autore, che seguì con estrema attenzione e coinvolgimento l’ultima fase del movimento, racconta ed interpreta una storia che è diventata leggenda. Simone - Ergot (Lecce)

Identità mutanti. Dalla piega alla piaga Francesca Alfano Miglietti (FAM) Bruno Mondadori ***

Un libro che brucia, ricco di fotografie che sintetizzano visivamente il contenuto di un testo che non può mancare nella libreria di chi ama il cyberpunk, le mutazioni, la body art e quant’altro possa riguardare l’agire mutevolmente su se stessi. Da Ballard a Tsukamoto passando attraverso la poesia di Artaud, il sangue di Franco B., le operazioni della Orlan. Un lavoro che parla d’arte senza mai citarla, FAM parla per esperienza personale utilizzando le voci di filosofi, artisti, registi, sociologi..... Il messaggio è chiaro: “Bisognerebbe avere la possibilità di modificare il proprio corpo a seconda della moltitudine di identità che la mente produce...”. Difficile in una società che non riconosce ed anzi medicalizza l’abbondanza di personalità rinchiuse in un solo soggetto fisico. Un libro per pochi ma che dovrebbero leggere tutti, se non altro per comprendere minimamente un’altra realtà, quella della mutazione che, nella sua forma più blanda, quella del tatuaggio, è da tempo sotto gli occhi di tutti. Non è certo della farfallina sulla natica che si parla in Identità Mutanti (a questo ci pensano già gli psico-media). Qui si parla di creature umane in una continua avventura tra arte-vita-malattia, di protesi elettroniche innestate nei corpi, di ferite che fanno male solo a chi le guarda e alimentano la vita di chi se le procura. Simone - Ergot (Lecce)

Sushi Bar Sarajevo Giovanni Di Iacovo Palomar ***

Nella seconda di copertina del romanzo Sushi Bar Sarajevo di Giovanni Di Iacovo firmata da Valerio Evangelisti, maestro della letteratura di genere, si legge: “Il romanzo è scritto alla perfezione e, nonostante la struttura articolata e il gran numero di intriganti personaggi, contiene persino una notevole suspanse. Come

se McLuhan e Marcuse si fossero alleati a Philip K. Dick e a Robert Sheckley, rendendo avvincete e fantasmagorica la propria saggistica. Insomma, difficile concepire un esordio più brillante”. Quale la trama di questo complicato romanzo? Le vicende si articolano in un arco temporale che dalla guerra di Bosnia si sviluppa oltre il presente, fino ad un futuro prossimo in cui l’Europa ha subito pericolosi mutamenti geopolitici. Trent’anni, dal 1995 al 2025, in cui lo scontro di civiltà da molti paventato si trasforma in una lotta frontale tra le Democrazie Centrali e Unione Islamica Internazionale. All’interno di questo contesto futuribile e apocalittico che, si spera, non sia per nulla profetico, il filo conduttore è rappresentato dalle esistenze di tre fratelli, Tomislav, Vlad e Maja, che in una terribile notte, durante l’assedio di Sarajevo, si perdono, e i cui destini si intrecciano con quello di una ricca signora ossessionata dal sogno che legò Guglielmo Marconi a Gabriele D’Annunzio. Le pagine più belle del libro, piene di cinismo e ironia, sono quelle che si svolgono all’interno di un grande talk show globale, condotto da Max Magenta, presentatore estroso e torbido, pronto a tutto pur di fare audience, sino all’ottenimento dell’evento massimale, quello che più d’ogni altro fa salire l’indice dello share, quello della morte in diretta. Un romanzo che, celandosi dietro la costruzione tipica della “fantascienza sociologica”, si sofferma su molte delle deformazioni del nostro presente, dominato dalla spettacolarizzazione ad ogni costo, dal tutto è lecito purché si alzi l’indice d’ascolto. Rossano Astremo

Rock trip

Kevin Sampson Newton Compton ****

Kevin Sampson ha iniziato a scrivere pubblicando recensioni sul Nme e Sound quando ancora andava a scuola, diventando poi giornalista freelance specializzato in musica e cultura giovanile, pubblicando articoli su The Face, The Observer, Arena e scrivendo per channel four tv. Inoltre è stato per cinque anni il manager dell’indie band The Farm di Liverpool ed ha pubblicato ben cinque romanzi. Rock Trip è la storia della scalata al successo e della relativa discesa della rock band The Grams,trainata dal leader Keva McCluskey. La prima parte del libro parla della strada percorsa dalla band per arrivare al successo, di come in un lasso di tempo relativamente breve si arrivi a suonare per migliaia di fan adoranti, il tutto condito dalle relative esagerazioni del rock: droghe,sesso,den aro,vizio. La seconda parte del romanzo

racconta inevitabilmente la discesa della band, la fine del sogno, la disillusione che avanza a passi da gigante: l’enorme castello di sabbia crolla sotto la forza di una sola onda. La bellezza di questo libro non risiede solo nella trama, di per se anche abbastanza abusata, bensì nelle perfette descrizioni e ricostruzioni spazio temporali: i riferimenti sono totalmente reali, un po’ come se The Grams si fossero realmente confrontati col music business mainstream degli anni novanta. Quindi spesso escono fuori nomi e situazioni realmente esistenti,creando quadretti descrittivi divertenti e molto godibili. Inoltre le descrizioni minuziose degli eccessi sono veramente divertenti. Rock rules! Ennio Ciotta


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L A scritt U r A cre A tiv A

È

www.scritturacreativa.com

È difficile districarsi nella selva dei corsi di scrittura creativa, sempre più numerosi e di diverse tipologie. Il giornalista La Luca Lorenzetti, presidente nazionale dell’Associazione stampa on line, nel 2002 ha pubblicato Un posto per parola scrivere, indagine sulla scrittura creativa in Italia, edito da Prospettiva Editrice, e da allora cura il sito www. d’ordine scritturacreativa.com. Un interessante iniziativa che censisce corsi, laboratori, master, scuole, opportunità, d e g l i curiosità. “L’idea nasce intorno al 1995/96 dopo il mio incontro con Carlo Lucarelli e Marcello Fois, autori ultimi anni e docenti di scrittura creativa”, sottolinea Lorenzetti. “In quegli anni stava nascendo anche in Italia la sembra una cultura della scrittura creativa (creating writing) inizialmente importata dalla didattica anglosassone. e una sola: In Inghilterra e negli Stati Uniti corsi di questo tipo, sia a livello privato che accademico, sono presenti comunicare. almeno dagli anni 20. Nel nostro paese Raffaele Crovi, primo in assoluto, Alessandro Baricco, Lidia Una parola usata Ravera, Dacia Maraini, oltre ai già citati Lucarelli e Fois, hanno cercato di cavalcare l’onda di e abusata che, questo nuovo interesse ribaltando quella tradizione che voleva intorno allo scrittore un alone di secondo molti, sta intoccabilità e mistero. In realtà la scrittura creativa serve proprio a confrontarsi e a cercare annebbiando la vista di tirar fuori ciò che dentro di noi c’è già. In Italia”, prosegue l’autore, “il fenomeno è iniziato dei giovani studenti e a cavallo tra gli anni 80 e 90. Ricordo che proprio in quel periodo uscì un’opera a fascicoli ingrossando i portafogli degli della Fabbri editori Scrivere (con traduzioni da autori inglesi e americani). Il primo numero organizzatori di corsi, seminari, andò esaurito in pochi giorni e scatenò stage, master che insegnano a discussioni. Il mio libro è nato per puro scrivere. Non parliamo di scrittura interesse personale. Tramite una serie di creativa ma di quella professionale. fortuite coincidenze sono riuscito a mettere Giornalisti, addetti stampa, web insieme tutte le voci più significative della editor: siamo tutti alla ricerca di narrazione italiana. Ognuno ha una sua consigli e contatti utili per imparare e prospettiva e il suo modo di vedere la trovare lavoro. Luisa Carrada nel 1999 scrittura creativa, visioni diverse”. Ma qual ha aperto su internet il sito Il mestiere di scrivere (da 3 anni anche blog), il primo è la fotografia della situazione attuale che in Italia sulla scrittura professionale e esce fuori da questa inchiesta? “Secondo per il web. me” ci spiega Lorenzetti, “è impossibile Quali sono i motivi che hanno condotto fare una generalizzazione. Ci sono corsi alla nascita del Mestiere di scrivere? di tutti i tipi e per tutte le tasche. Corsi fatti Il sito nasce da una spinta in week end o nell’arco di otto mesi con esclusivamente personale: volevo appuntamenti settimanali, in quindici giorni sperimentare in prima persona la full time oppure solo in mezza giornata. scrittura per il web e la cosa più semplice In linea di principio dividerei tra quelli mi è sembrata scrivere sul mio lavoro, che sono esperienze totalizzanti (penso che è di business writer per le aziende. alla Holden di Torino che è una scuola di Ho cominciato per gioco, quindi, narrazioni che dura due anni) e quelle, che convinta che sarei stata letta soltanto sono ovviamente la maggior parte, con da quattro gatti. L’interesse per i temi una formula ridotta nel tempo, corsi pensati della scrittura professionale invece per gente che lavora”. Molti di questi corsi è stato inaspettatamente grande, e vengono tenuti da autori non di grido. Una questo mi ha spinta a continuare con ottima opportunità per arrotondare? “Si entusiasmo, condividendo sul web la ma fino ad un certo punto,” conclude quotidianità del mio lavoro. Lorenzetti. “I corsi non si tengono tutti i Il mercato è cambiato molto in questi giorni. Uno scrittore per vivere del suo sei anni per gli aspiranti scrittori e lavoro deve essere, secondo me, comunicatori? eclettico. Deve fare cose diverse Sicuramente è cambiato il mondo, e che hanno una pertinenza con quindi anche il mercato. Il web ha portato alla luce un desiderio e un bisogno di la scrittura ma agiscono su scrivere che ha sorpreso un po’ tutti. A livello amatoriale, ma anche professionale. fronti più redditizi: editoria, Quali possono essere oggi i rischi per i giovani che si rivolgono a corsi di scrittura e presentazioni, consulenze, comunicazione? articoli, lezioni. Anche se Il termine “rischi” mi pare corretto: laddove c’è tanta richiesta, giustamente si sviluppa il in questo modo diventa business, e quindi nascono come funghi facoltà, master, corsi e scuole. Sono spesso studi costosi, un mestiere e si perde che attirano i giovani con la prospettiva di stage e, quindi, in lontananza, di un posto di lavoro. un po’ il fascino Penso con franchezza che gli studi siano naturalmente utili, ma che non siano indispensabili né per dello scrittore”. imparare a scrivere, né per trovare un posto di lavoro nel mondo della comunicazione. Moltissimo (pila) si può fare da soli: leggendo, osservando, viaggiando, relazionandosi con gli altri e naturalmente scrivendo e sperimentando in prima persona. Bisogna cercare di lavorare il prima possibile, facendosi le ossa sul campo, cercando di capire come funzionano le cose fuori dalle aule universitarie. Mentre oggi si tende a fare il contrario: prima un lungo curriculum di studi, poi si pensa di avere tutto il bagaglio teorico per cominciare a praticare. Si arriva così fin quasi ai 30 anni, e a volte è troppo tardi. Il mio consiglio, quindi è sì di studiare, ma contemporaneamente di scrivere, anche gratis (è una gavetta che abbiamo fatto tutti): blog, blog collettivo, collaborazione a siti web, a riviste, correzioni di bozze, editing. Quando il mercato del lavoro è difficile, bisogna essere molto bravi. Per chi scrive, questo significa sviluppare uno stile originale e avere molte idee. Tutte cose che si imparano soprattutto leggendo, vivendo e guardando il mondo con tanta curiosità e voglia di sperimentare. (Pila)

L A scritt U r A pr O F essi O N A le

www.mestierediscrivere.it


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il l A v O r O N ell A scritt

Martin Bux, l’apoteosi dell’inettitudin

prOblemi A tempO i N determi N A t O

Con i tempi che corrono lamentarsi del posto fisso è quasi considerato un reato. Orde di lavoratori temporanei e cocopro, stagisti e callcenteristi resteranno scandalizzati da questo Buon lavoro edito da Fernandel, dodici racconti ambientati in anonimi palazzi aziendali scritti dall’esordiente (autore) e navigato (impiegato) Federico Platania. “Negli ultimi tempi sono stati pubblicati molti libri dedicati al tema del precariato”, sottolinea l’autore. “Criticare questa forma neanche troppo occulta di sfruttamento è sacrosanto. Ma non per questo si deve smettere di affrontare in letteratura la realtà del posto fisso. Solo constatando la povertà umana della condizione impiegatizia si può capire fino in fondo lo stato davvero tragico dei precari, di questo sottoproletariato aziendale che non può vantare nemmeno quella povertà. Il lavoratore precario vede nel posto fisso la fine dei suoi tormenti, la conquista di un lido sicuro. Ma è davvero così roseo questo traguardo? Buon lavoro prova a dare una risposta a questa domanda”. In apertura del libro Platania cita una frase degli Area: L’estetica del lavoro è lo spettacolo della merce umana. “Questo era uno dei titoli di lavorazione del libro e questo la dice lunga su quanto quella frase abbia pesato nello sviluppo della raccolta. Non è uno spettacolo quello a cui prendiamo parte come attori/spettatori quando siamo in ufficio? Gli ascensori, le telefonate, i monitor, i distributori di caffè, la fila alla mensa, il disordine sulle scrivanie. È innegabile che in tutto questo ci sia un’estetica che io trovo al tempo stesso squallida e sublime”.

Mario Desiati, dopo l’osannato romanzo d’esordio Neppure quando è notte (2003), ha da poco pubblicato la sua seconda opera narrativa, Vita precaria e amore eterno. Il romanzo, edito da Mondadori, nella collana Strade Blu, racconta la storia di Martin, giovane meridionale trasferitosi a Roma, vittima di quel precariato lavorativo che sta falcidiando un’intera generazione. Martin da precario diventa un uomo contraddittorio e dagli ideali confusi: imbroglione, qualunquista, egoista, razzista, sessuomane, corrotto, meschino, pigro, pronto a tutto per un giorno in più di benessere, per uno scherzo di cattivo gusto, per esaudire i propri istinti primari. “Ma soprattutto – aggiunge Desiati – Martin è terrorizzato da qualunque cosa: da un aereo di linea, da un autobus troppo pieno, da un pakistano, dai vicini di casa. L’unica sua ancora di salvezza è Toni, la sua compagna”. Due temi portanti di questo tuo secondo romanzo: da un lato il precariato lavorativo e dall’altro l’intensa storia d’amore che ha come protagonisti Martin e Toni, con un finale che non ti aspetti e che da solo vale il prezzo di copertina. Come si è sviluppata l’idea? Quali sono state le difficoltà da te incontrate nel cimentarti con questa storia? “Niente di più semplice. Ho fatto la cosa che è più facile per uno che scrive. Partire da una cosa che si sente propria. Ho usato il punto di vista di un indifeso, di un vinto, di uno prossimo al fallimento. Credo che uno scrittore sia sempre sul punto di un inesorabile fallimento. Tutto sta nel saperlo elaborare oppure rimuovere questa sensazione. Ecco il libro è questo punto di vista…che ti confesso sento appartenermi”. Il tuo romanzo esce dopo Pausa caffè di Giorgio Falco, Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Franscesco Dezio, Cordiali saluti di Andrea Bajani, tutti romanzi che, assieme a tanti altri, hanno come centro propulsore della loro narrazione la difficoltà dei protagonisti di trovare lavoro. Il precariato, quindi, come macrotema della narrativa contemporanea. Un fenomeno davvero interessante dal punto di vista della sociologia della letteratura… “Ecco la mia generazione e io, dunque, siamo intrinsecamente precari in questa fase della storia repubblicana italiana. Precarietà non è solo una problematica lavorativa, ma anche esistenziale (società, vita, famiglia, religiosità) non diventa necessariamente solo rivendicazione di una giusta collocazione sociale. Insomma la letteratura degli antieroi, degli inetti. Il protagonista di Vita precaria e amore

eterno è l’apoteosi dell’inettitudine”. Il passaggio da una piccola casa editrice come peQuod a Mondadori rappresenta per te la “prova del nove”. Quali speranze hai? “Speranze non ne ho, se non quelle che molti miei amici finalmente non avranno la scusa di dire che non trovano il libro e che non conoscono la casa editrice. Ti confesso che il rapporto che avevo e che ho con peQuod (che resta la mia casa editrice del cuore) è un rapporto impossibile da avere con un grande editore. Marco Monina, editore di peQuod, lo sento tutti i giorni, ed è quasi come un parente. Con Mondadori ho tanti interlocutori, tutti di grandissimo livello, faccio un torto a citarne qualcuno e altri no, ma è ovvio che con ognuno di loro si vive un pezzo della vita e della gestazione del libro. Con Marco Monina invece abbiamo fatto insieme l’editing, la copertina, la promozione, l’ufficio stampa”. Il tuo lavoro come redattore di Nuovi Argomenti ti offre la possibilità di avvistare prima degli altri i nuovi talenti della letteratura italiana. Per quanto riguarda la narrativa, cosa c’è di nuovo sotto al sole? Se dovessi puntare una moneta su un paio di nomi? “Sotto il sole c’è che una fortissima letteratura delle cose. Sta tornando la scrittura della realtà e su questo credo

precArietA’ d’AUtOre “Il precario sembra oggi incarnare un tipo umano, bene al di là dei meri connotati economicocontrattuali. Come l’ebreo di certa letteratura mitteleuropea o l’inetto piccoloborghese del romanzo di fine secolo, qui il tratto della precarietà trascende il dato particolare per farsi cifra di una condizione umana”. È questa la riflessione del giornalista e scrittore Enzo Mansueto (Corriere del mezzogiorno - 20 aprile) che centra in pieno una nuova realtà letteraria. In questi ultimi anni sono stati pubblicati molti libri sul tema del lavoro e del precariato in particolare. Il più recente è Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno 250 euro al mese... (Einaudi) libro inchiesta di Aldo Nove


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ne Intervista a Mario Desiati che sarà molto importante un genere di narrazione a metà strada tra romanzo e reportage narrativo. Credo che Gomorra di Roberto Saviano sia la vera novità del 2006. Uscirà a maggio ma ho avuto il privilegio e la fortuna di leggerne alcuni brani oltre che di pubblicarne un pezzo sulla rivista. Seguendo invece una linea più tradizionale con una lingua originale e una scrittura robusta, la leccese Elisabetta Liguori è una delle voci più incoraggianti della narrativa italiana: uscirà in autunno”. Questo numero di Coolclub.it ha come tema “Il mestiere di scrivere”. La domanda nasce spontanea: è possibile oggi vivere scrivendo? “Sul numero 18 di Nuovi Argomenti, serie quinta, fu esteso un questionario agli scrittori italiani. Il questionario aveva domande che servivano a capire come si mantenevano gli scrittori italiani. Il quadro che ne veniva fuori era quello di un mondo che per lo più faceva altri lavori che poco centravano con la scrittura. Insomma chi vive di scrittura in Italia non esiste, con poche eccezioni che tutti conosciamo. Piuttosto si può vivere di indotto. Ossia corsi di scrittura, collaborazioni giornalistiche, consulenze editoriali. Ma quella è una storia, forse un altro lavoro”. Rossano Astremo

che raccoglie le testimonianze (già apparse su Liberazione) di quattordici precari. Tra gli altri (le poche righe a disposizione non fanno giustizia) ricordiamo Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004) di Francesco Dezio, l’interessante raccolta di racconti Tu quando scadi? (Manni 2005), il romanzo di esordio di Giovanni Accardo Un anno di corsa (Sironi 2006), Vent’anni che non dormo di Marco Archetti (Feltrinelli 2005), Generazione 1000 euro di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa (on line su www.generazione1000. com), il diario di Angelo Ferracacuti Le risorse umane (Feltrinelli), Pausa Caffè di Giorgio Falco (Sironi) e molti altri titoli ancora.

Sei cOllANe iN cercA d’AUtOre Lorenzo Barbera editore “Nel primo anno di attività abbiamo pubblicato 41 titoli, suddivisi in sei collane, tra narrativa, classici e divulgazione scientifica, vendendo circa 80 mila copie e realizzando il fatturato record, per un editore neonato, di 650 mila euro. E nel 2006 abbiamo in previsione l’uscita di oltre 60 titoli e un raddoppio di fatturato”. Gianluca Barbera presenta con orgoglio gli incoraggianti dati della sua neonata casa editrice Lorenzo Barbera Editore del quale è fondatore, amministratore e direttore editoriale. Attualmente le collane della Barbera Editore sono 6. Radio Londra, narrativa contemporanea italiana e straniera è la collana di punta e ha ospitato scrittori esordienti (come il collaboratore di Coolclub.it Antonio Iovane autore della fortunata raccolta di racconti La gang dei senzamore) e navigati (tra le uscite più recenti Il vangelo di Jimmy di Didier van Cauwelaert). I Perché della scienza è la prima collana della casa editrice e risponde in modo semplice, piacevole e scientificamente rigoroso alle numerose domande con le quali ci confrontiamo nella vita di tutti i giorni e con le quali, in molti casi, l’uomo si misura da secoli. In amore siamo delle bestie? di Michel Serres, Perché i gatti fanno le fusa? di François Moutou, Uomini e donne sono sessualmente compatibili? di Lucien Chaby, L’uomo è al centro dell’universo? di Francois Vannucci sono solo alcune delle domande alle quali i libri tentano di dare risposte. Seneca, Platone, Cicerone, Aristotele, Erasmo sono alcuni degli autori delle Parole per Sempre, classici in traduzione. Il catalogo è completato da La Mela di Newton, narrativa a sfondo scientifico e filosofico, Il Rosso e il Nero, narrativa storica, e Le indagini di Quizzy, narrativa scientifica per ragazzi. Nel 2006 nasceranno altre tre nuove collane (classici greci e latini, poesia, classici moderni) e almeno 2 pubblicazioni usciranno fuori collana (opere di Gibran, divise in 4 titoli, e Le nuove Mille e una

notte, un romanzo “oversize” di Ivo Mej, giornalista di TG la 7). Il quarantenne Gianluca Barbera dopo una lunga ed importante esperienza nella casa editrice Sironi (del quale è ideatore insieme a Giulio Mozzi), ha deciso di ripartire daccapo fondando una casa editrice innovativa e con le idee molto chiare. Libri di qualità ma di grande vendibilità, copertina accattivante e una idea centrale molto forte. Come sono chiare le idee di Barbera. “Se hai sufficiente esperienza del mercato puoi fondare una casa editrice e sperare di farla funzionare. Se ti poni fin dal principio controcorrente, relegandoti in qualche nicchia, non vai lontano (salvo rarissime eccezioni)”. Come dire che le leggi del mercato sono spietate ma vanno accettate. “Sono dodici anni che lavoro in questo settore”, raccontava Barbera in un’intervista al trimestrale Fernandel. Ormai posso dire di capirne qualcosa. Ho cominciato a Modena, lavorando per un distributore che importava libri illustrati. Quell’esperienza mi ha permesso di conoscere il mercato estero, le logiche della distribuzione e di stare a contatto coi librai di tutta Italia. Poi sono passato a lavorare per un importante editore milanese di manualistica e parascolastica: Alpha Test. E dopo un anno sono riuscito a convincere questo editore a investire in un progetto di narrativa, Sironi editore, di cui sono stato il padre fondatore. Barbera editore nasce proprio da quell’esperienza, tenuto conto di pregi e difetti. È all’esperienza, pertanto, che mi affido nella progettazione delle collane e nella scelta dei titoli. E al fiuto, ammesso che ne abbia”. La promozione e la distribuzione nelle librerie è affidata a Messaggerie Libri con circa 1000 punti vendita in tutta Italia. Lorenzo Barbera Editore Srl Via Massetana Romana 52/A, 53100 Siena tel: +39 0577 44120 - fax: +39 0577 47883 info@barberaeditore.it www.barberaeditore.it


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Le mille vite di FrANk ZAppA Due Asteroidi (3834 Zappafrank e 16745 Zappa), una medusa (Phialella zappai), un gene (ZapA), un pesce (Zappa confluentus), un mollusco estinto (Amauratoma zappa), un ragno (Pachygnatha zappa) e una scheda madre prodotta dall’Intel. Sono tutte le nuove scoperte e invenzioni che nel corso degli anni sono state dedicate ad uno dei più grandi musicisti del secolo scorso: Frank Zappa. Docente presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Lecce, Ferdinando Boero, è il biologo marino che ha dedicato una delle specie di meduse da lui scoperte al compositore, chiamandola Phialella Zappai. Da questa storia nacque un’amicizia, abbiamo raggiunto il professore per farcela raccontare. Cos’è la Phialella Zappai? È una piccola medusa che vive lungo le coste della California, un animaletto di circa 2mm; ho pensato di dedicarla a una persona a cui tengo molto, Frank Zappa. Gli scrissi spiegandogli tutto. Mi rispose dicendomi che era contento che una medusa avrebbe avuto il suo nome. Un piccolo animaletto le ha permesso di conoscere uno dei più grandi musicisti del secolo scorso. Lei ovviamente ha avuto la possibilità di conoscerlo non solo musicalmente, ma anche nella vita privata. Chi era Frank Zappa? Arrivai a casa sua nell’estate dell’83 e quando entrai si presentò in tuta con una tazza di caffé in mano e una sigaretta nell’altra. Parlammo delle meduse e della musica che stava componendo. Dato che a Los Angeles ero solo di passaggio, mi invitò a mangiare e a dormire a casa sua. Conobbi la famiglia; Diva era nata da poco. Del figlio Dweezil diceva: ”Lo mando a lezione da Van Halen”. Il giorno dopo venne Chad Wackerman, il batterista, per registrare la traccia di The torture never stops. Sono stati un pomeriggio a lavorarci su, con Frank Zappa che gli diceva in cuffia, nota per nota, tutto quello che avrebbe dovuto suonare. Quella che ho visto io era una immagine totalmente diversa da quella che la mitologia sulla persona raccontava. In effetti la sua musica era strana, ma suonata in modo professionale e meticoloso, lasciava poco spazio all’improvvisazione degli altri. Tutto quello che ha composto lo ha fatto partendo dagli assoli di chitarra durante i concerti, da lì poi traeva spunto per tirare fuori una melodia. In definitiva una persona innamorata del suo lavoro e contenta di quello che faceva. Quando poi l’ha rivisto dopo questo primo incontro? L’anno dopo il primo incontro sono andato a trovarlo a Parigi. Pier Boulez, il direttore del Ensamble Intercontemporain, gli aveva commissionato della musica. Come Mozart diceva di scrivere la sua musica su due livelli, uno per la gente normale, che la doveva trovare piacevole, e l’altro

per gente che fosse in grado di capire l’innovazione che c’era dietro la melodia, cosi faceva Zappa. Prendi Cruising with the Ruben & the Jets, un disco di musiche doo-wop; apparentemente sembrano canzoni banali, ma dietro hanno delle strutture complicatissime. Lui diceva a proposito della difficoltà delle sue musiche, riferendosi al Ensembe di Pier Boulez: “se non ci riescono loro, allora non ci riesce nessuno”. In effetti nella parte finale della sua carriera Zappa si servì molto del computer, pur definendo la musica di un computer una musica di plastica. Frank Zappa ha ricambiato la cortesia suonando un pezzo su di lei, Lonesome Cowboy Nando. Cosa ha provato ad avere un pezzo scritto da Zappa? Ero andato con mia moglie a Torino, a vedere un suo concerto nell’estate dell’88. Ero lì durante il soundcheck, in pratica un vero e proprio concerto di due ore, mi chiese se sarei stato a vedere il suo concerto a Genova qualche giorno dopo. Durante il concerto a Genova iniziò questo pezzo Lonesome cowboy Nando, con la melodia presa da Lonesome cowboy Burt dall’ lp del ’71, Frank Zappa’s 200 Motels, ma cambiando le parole e parlando di me e della medusa. Lo vidi il giorno dopo a Portofino all’hotel Splendido, ridendo e scherzando per la sorpresa che m’aveva fatto. In seguito Lonesome Cowboy Nando finì su You can’t do that on Stage Anymore, Vol. 6; non mi disse che l’avrebbe incisa, quando poi andai a comprare il disco e vidi il pezzo rimasi felicemente meravigliato. Quello di Genova fu l’ultimo concerto rock di Zappa. Mi raccontò che aveva lasciato al bassista la gestione dell’orchestra e per questo erano nate delle gelosie all’interno del gruppo. Non potendo permettersi di prendere un altro bassista e ricominciare da capo, sciolse il gruppo. Rispetto ai The Mothers of Invention i tempi erano cambiati; in Freak Out si sentiva tirare un’altra aria, più fresca e dissacrante.

Sì, diceva che allora si divertiva di più. I musicisti con cui ha suonato dopo erano molto professionali ma senza il giusto humor. Nonostante questo fecero molte cose; ricordo una cover di Stairway to heaven dei Led Zeppelin. Frank Zappa fece suonare l’assolo all’unisono da tutta la band, fiati compresi, nota per nota, con l’orchestra intera. Fecero anche molte cover dei Beatles, che non gli hanno lasciato pubblicare. Per cui c’è una miniera di registrazione nel magazzino di casa. In effetti nel corso degli anni dopo la sua morte, la famiglia ha continuato a pubblicare le sue musiche inedite, sfruttando questa miniera. Prima di morire ha venduto i diritti di tutto quello che aveva pubblicato alla Rykodisk, rendendo ricchissima la famiglia. In più nel magazzino di casa sua ci sono le registrazioni di tutte le musiche che ha fatto, ha registrato sempre tutti i soundcheck ed i concerti. Sempre a Genova, durante il soundcheck, in un concerto precedente a quello di Lonesome…, appena mi vide arrivare iniziò un pezzo su Jellyfish Guy. Infatti all’inizio della nostra conoscenza, credendo che lui non si ricordasse di me, lo salutavo con la frase I’m the jellyfish guy, quel soundcheck probabilmente è da qualche parte. Sicuramente le mancherà come uomo, ma comunque la musica che ci ha lasciato sopperisce in minima parte a questa mancanza? Sì, è così, ma viene anche da pensare a quanta roba avrebbe potuto ancora incidere. È una cosa che dà fastidio. Su molti dischi di Zappa c’era scritto “Il compositore moderno si rifiuta di morire”. È una frase di Edgard Varése, uno dei suoi ispiratori. Zappa rimane vivo finché dice qualcosa di talmente anticonvenzionale da non poter essere suonato dai più bravi musicisti in giro. Per questo rifiuta di morire. Federico Baglivi


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Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico

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il cinema secondo coolcub

Chiedi alla polvere Robert Towne Moviemax ++++

Fare molto con poco è il mestiere dello scrittore. Questa frase di sicuro impatto è la perfetta sintesi di un’attitudine che rende raccontare profondamente diverso dal semplice scrivere. È una questione di sensibilità e di esperienza. In una parola sola è una questione di irrazionalità. Tratto dall’omonimo capolavoro di John Fante, Chiedi alla polvere è un film che si svolge in due tempi. E non poteva essere altrimenti. Un po’ biografia, un po’ amara consapevolezza di un costante mal di vivere, carica con se tutta la rassegnazione per una esistenza vissuta sempre attraverso gli occhi degli altri. A questo si aggiunge il ritratto di un’America e di una Los Angeles in piena depressione, in cui l’immigrazione è un problema e le proprie origini qualcosa di cui vergognarsi e da cui riscattarsi. Tutto questo è Arturo Bandini (Colin

Farrell), alter ego del geniale scrittore italo-americano riscoperto nei primi anni 80 da Charles Bukowsky. Deciso a fare lo scrittore il protagonista deve vedersela con la sua voglia di affermarsi e la necessità di sopravvivere, con la sua fede incrollabile e con la voglia di vivere l’amore. O almeno di raccontarlo. È a questo punto che la pellicola cambia, così come la vita, radicalmente registro e la dolce messicana Camilla (Salma Hayek) mette sulla bilancia il peso più importante, quello del fallimento. Non sempre le cose vanno tutte per il meglio e un fiore è, presto o tardi, sempre destinato ad appassire. Questo il piano su cui si muove il lavoro frutto di un progetto nato circa vent’anni fa quando il regista, dopo aver letto il libro, decise di acquistarne i diritti dall’autore stesso e di trarne una sceneggiatura di cui oggi

vediamo i risultati. Inutile dilungarsi in improbabili paragoni, ma il film di Towne è un esperimento interessante e intelligente che riesce a brillare di luce propria anche quando le trame si infittiscono e sarebbe facile cadere nella retorica. Ma a rimanere impressa è anche una fotografia che salta all’occhio per la sua nuda capacità di tessere trame misteriose e coinvolgenti, che a tratti avvolgono proprio come la polvere del Middle West, dove nulla cresce se non sogni e delusioni. Coniugare azione e spirito non è per niente facile e capire e raccontare la propria coscienza lo è ancor meno. È come un’onda del Pacifico che bisogna domare e fare propria così come la morale di questo racconto. Guarda in te stesso, cerca Bandini e se non lo trovi, chiedi alla polvere. Michele C. Pierri


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Il regista di matrimoni Marco Bellocchio 01 Distribution ****

Nell’ultima pellicola di Marco Bellocchio ritroviamo il sempre stupefacente Sergio Castellitto e la continuazione spirituale de L’ora di religione. Franco Elica (Castellitto) è padre turbato dal matrimonio della figlia con un fervente cattolico, e regista in crisi che sta preparando l’ennesima versione dei Promessi Sposi. Quando la sua casa di produzione viene messa sotto sequestro e scoppia lo scandalo, l’uomo è costretto a fuggire in Sicilia, dove incontra Enzo, umile regista di matrimoni, Smamma, regista che si finge morto per vincere un “Davide di Michelangelo” e per avere dignità di uomo e artista, e Ferdinando Gravina (Sami Frey), principe decaduto. Il nobile siciliano propone a Elica di cinematografare l’evento delle nozze della figlia Bona (Donatella Finocchiaro). Elica, invece, se ne innamora e si sostituisce alla provvidenza “manzoniana”, pensando per lei ad un “finale diverso”… In questo film troviamo atmosfere fiabesche (la principessa triste prigioniera del suo destino, il nobile viscontiano) e surreali (le scene ambientate sulla spiaggia): attraverso queste e il rapporto uomo donna, Bellocchio descrive l’immobilità intellettuale e politica italiana. La dinamicità dello svolgersi della trama e il finale aperto a diverse interpretazioni, lasciano però un messaggio positivo di cambiamento. Sabrina Manna - Zero Project

La Supercazzola

Ugo Tognazzi Mondadori (Libro + Dvd) ****

Tarapia tapioco. Prematurata alla supercazzola o scherziamo! Farnetico questo mantra ad alta voce perché l’Ugo mi manca. Quell’Ugo lì, intendo: il Supertognazzi, come lo chiamava affettuosamente Brizzi in Bastogne. L’Ugo Mascetti. L’Ugo Angelo Negro. L’Ugo de I Mostri e de Il Mantenuto, di Casotto per Citti. Anche l’Ugo drammatico al servizio di Pasolini in Porcile e de La Tragedia di un uomo ridicolo per Bernardo Bertolucci, a dirla tutta fuori dai denti, a ricordare altresì gli aforismi di un egocentrico di gran classe e rara intelligenza: “L’uomo mangia anche con gli occhi, specie se la cameriera è

carina”. E: “L’ottimista è un uomo che, senza una lira in tasca, ordina delle ostriche nella speranza di poterle pagare con la perla trovata.” Vogliamo scherzare? Tognazzi, Gassman padre, Mastroianni, Sordi, Manfredi. Le facce della commedia all’italiana, che è anzitutto una commedia umana al tempo stesso farsesca e tragica: base moltiplicabile per l’altezza (sempre alla supercazzola come se fosse antani!) di un modo di pensare/fare cinema oggi scomparso, imperdonabilmente estinto (altri nomi: Risi, Salce, il quintetto Comencini/Monicelli/Loy/Scola/Magni che nel 1976 girò Signore e signori, buonanotte). Il grottesco italiota (nevrosi, vigliaccheria, volgarità e pacchianerie assortite) rappresentato, immortalato, risputato sulle masse paganti. Se mancano figure di questa stazza, di questa portata, allora è proprio vero che non c’è più niente da ridere, non ci sono più occasioni di cinema, di Tv (di teatro?). Siamo fottuti, consegnati al vuoto perpetuo. Siamo orfani dal 27 ottobre 1990, e a ricordarci il peso di questa assenza ora c’è La Supercazzola, libro corredato da Dvd (o viceversa), a cura di Roberto Buffagni. La storia e le storie di Tognazzi Ugo, nato a Cremona il 23 marzo 1922, ex dipendente della premiata fabbrica di insaccati Negroni che nel 1944 vince un concorso per dilettanti allo sbaraglio ed esordisce nella rivista, nell’avanspettacolo, quindi nella televisione degli anni ‘50 (in coppia con Raimondo Vianello), e ancora al cinema, accanto all’immenso Walter Chiari ne I Cadetti di Guascogna (1950). Attore feticcio di Marco Ferreri, premiato con la Palma d’oro a Cannes nel 1981, interprete dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello per la prestigiosa Comédie Française. L’essenza di Ugo è ben raccontata nelle pagine de La Supercazzola (meno nel Dvd, privo di estratti dalla lunga carriera sul grande schermo). Si ride, si compie un grand tour intorno alle passioni, alle manie (le donne, il cibo) di un uomo straordinario e alla fine, giuro, vien voglia di uscire fuori, fermare il primo sventurato e gridargli in faccia “blinda la supercazzola con uno scappellamento a sinistra o a destra come se fosse di pentolone…” Nino G. D’Attis

Il codice Da Vinci Ron Howard

Dall’omonimo best-seller di Dan Brown il film più atteso dell’anno che aprirà in anteprima mondiale il 59esimo Festival di Cannes. L’intreccio è quello già noto. Robert Langdon riceve una chiamata durante la notte: viene trovato un morto al museo del Louvre. Gli indizi portano ad un’organizzazione religiosa che da 2000 anni nasconde un grande segreto. Con Tom Hanks, Jean Reno e Audrey Tatou, dal 19 maggio in sala.

Mare nero Roberta Torre

Arrivata al quarto lungometraggio la

Torre propone una storia a tinte forti interpretata da Luigi Lo Cascio. Il racconto è incentrato sull’omicidio di una ragazza che scatena la caccia all’assassino. Le indagini portano un ispettore ad addentrarsi nel mondo misterioso della vita notturna romana.

Volver Pedro Almodovar

Il regista spagnolo premio Oscar con Tutto su mia madre (2000) torna in sala con Volver. La storia è quella di un fantasma di una madre, che dopo la sua morte torna indietro per dare sostegno alle figlie e guidarle nel passaggio generazionale Nel cast Penelope Cruz.

Bubble Steven Soderberg

Introspezione psicologica è alla base di Bubble, thriller dai risvolti imprevedibili. Nel film Martha e Kyle lavorano in fabbrica da molti anni e tra loro di è creata una solida amicizia. L’equilibrio però, viene disturbato dall’arrivo di una nuova operaia, una ragazza madre di nome Rose.

L’Amara Terra Mia (videoclip) Musica Radiodervish Regia Franco Battiato

Lo scorso 9 e 10 Marzo sono state effettuate nel Salento le riprese del videoclip dei Radiodervish Amara Terra Mia, cover di una canzone di Domenico Modugno. A dirigere le riprese, durante i due giorni di lavorazione tra Otranto e Melpignano, Franco Battiato, alla sua terza esperienza (accreditata) dietro la macchina da presa, dopo i controversi lungometraggi Del Perduto Amor e Musikanten. Parallelamente a questo progetto, gli stessi Radiodervish hanno esordito il 31 marzo al Teatro Moderno di Tricase (Le) con lo spettacolo Amara Terra Mia- tra parole musica, che li ha portati poi in tour per i teatri italiani. Si tratta di un’idea realizzata insieme all’attore Giuseppe Battiston (L’uomo perfetto, Chiedimi se sono felice, ecc.): reading di brani e repertorio musicale del gruppo si fondono, compiendo un lungo viaggio tra Oriente e Occidente. Il video e la messinscena teatrale convivono e si completano, sono accomunati non solo dalla presenza dell’attore, ma soprattutto dal concept di fondo: il costante movimento umano, l’abbandono dell’amara terra di origine per cercare nuovi spazi e prospettive altrove. Il Battiato regista sceglie come location proprio quei luoghi “inquieti” del Salento, che hanno visto tante partenze e tanti approdi; sceglie di non forzare la fotografia, di non alterarne i colori, ne coglie la luce cruda. Il videoclip è stato realizzato da Princigalli Produzioni (Bari) e Gone Shopping (Milano), con la partecipazione delle pugliesi Oz Film e Zero Project: alle prese con gli ultimi giorni di post produzione, verrà presentato nel mese di maggio.



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il mestiere di scrivere

IL MATERIALE DI SCARTO DEI DENTISTI di Livio Romano

( livi O r O m A N O )

Il giorno di Pasqua un mio giovane parente che vive a Parigi e fa i soldi commerciando in oro e platino di risulta dei dentisti mi ha chiesto come procede il mio business. Sono così, questi trentenni che trascorrono la vita in aereo, che hanno studiato Economia, che non leggerebbero un libro manco a torturarli. Per loro c’è il business e la Borsa Merci, il Sole 24 Ore e le vacanze in Costa Rica. Quando mi chiedono come procede il mio lavoro, io non so mai se si

riferiscono a Come Procedono Le Stipule Di Contratti Editoriali E Di Marchette Variegate Nel Gran Mambo Dello Show Biz, oppure alla vena creativa che stai rincorrendo in quel particolare momento, alla cifra poetica che, giorno dopo giorno, lascia esterrefatto anzitutto te stesso, richiuso come sei nella tua officina narrativa. Ovviamente la maggior parte della gente si riferisce alla prima accezione di “lavoro”, e fa bene. Tanto è vero che lo stesso parente naturalizzato parigino, senza aspettare la mia risposta, ha chiosato: “Un mio collega sta scrivendo un libro. È un disastro sul lavoro, lo licenzieranno. Sarà anche un disastro con i libri, dunque. Non farà mai fatturato, quell’uomo”. E io gli ho risposto che è vero. Che se uno trascorre l’esistenza a ingobbirsi sul pc è automaticamente uno che non tirerà mai su peculio. Il trentenne mi ha guardato interrogativo. Poi ha concluso: “Eppure mi sembrava che il tuo business fosse partito bene”. A quel punto mi son fatto passare la grappa invecchiata. E non perché stessi maturando una qual insofferenza nei confronti del commerciante di platino riciclato. Era piuttosto nei miei stessi confronti che montava l’insofferenza. Avevo trascorso tre ore del cuore della notte a sfogliare vocabolari alla ricerca di un aggettivo che mi rendesse plasticamente, icasticamente una luna che galleggia fra le montagne. Non avevo trovato nulla che mi soddisfacesse e, dopo aver montato e rimontato quella proposizione, l’avevo rabberciata alla meglio ed ero andato a dormire per 3,5 ore prima d’esser svegliato dalla baraonda delle mie figlie – la baraonda delle figlie non è roba da poco, per gli scrittori: Carver dichiarò di non aver mai scritto un romanzo perché non ne aveva il tempo, perché le unità di scrittura che la sua vita gli permetteva, con due figli avuti a vent’anni e i tanti diversi lavori per sopravvivere, non superavano la possibilità di andare oltre la novella, la short story. Quindi il risveglio era stato drammatico. Balle girate per una scena risolta malissimo. Balle girate per non avere tutto il tempo del mondo a mettersi a costruirla come si deve. Balle girate perché l’agente si rifiuta di vendere a dei pur interessati inglesi se prima a) il libro non è uscito in Italia e ha avuto delle buone recensioni, b) è uscito in Germania e Spagna. Ma, poiché ottobre era slittato per problemi di collana, e

dicembre è il peggior mese per uscire, e a gennaio escono gli sfigati con cui l’editore ha firmato e che utilizza quel mese per toglierseli dalle scatole, allora tutta la faccenda si sposta a febbraio 2007. Troppo tardi per beccare, a catena, tedeschi, spagnoli e poi inglesi. Si deve aspettare Francoforte 2007, o Londra 2008 (ho finito di scrivere quel romanzaccio nei primi mesi del 2003, e ho impiegato due anni a trovare un editore disposto a pubblicarlo). Balle girate, la mattina della Resurrezione, anche perché devo preparare le lezioni per i laboratori di scrittura (solenne supplizio per qualsiasi narratore: non credete loro se vi dicono che si divertono, lo fanno solo per sopravvivere, e malissimo), e ci sono circa trentacinque ottimi ragazzi che da un anno m’hanno affidato il loro manoscritto e mi scrivono mail sempre più accorate per chiedere se almeno li abbia sfogliati, e vogliono tutti prefazioni per edizioni in stamperie sconosciute. Balle girate perché l’unica cosa davvero lucrosa che t’era capitata quest’anno (una ripugnante sceneggiatura soft-porno per Mediaset) tardano a pagartela. E tardano anche i gettoni per i convegni cui hai preso parte, tarda tutto, e i tuoi conti sballano, e tu hai trascorso tre ore del cuore della notte a cercare un aggettivo e allora pensi a quella volta che la moglie del poeta Caliceti disse “Voi che scrivete avete tutti qualche rotella che gira male” e le dai ragione, diavolaccio se non c’azzeccò. Una persona sana di mente non va in giro con la faccia color senape il giorno di Pasqua perché s’è dannato per notti a risolvere un dialogo di due pagine. Ché poi, stessi scrivendo un capolavoro, oppure una mostruosità commerciale e redditizia: uno può anche immaginare di impiegare in maniera così balzana 1790 ore della propria vita (Microsoft Word non perdona: il file creato nel giugno del 2002 tante ore di “tempo totale modifica” ha avuto, e quest’altro cui sto lavorando sta già, dopo un mesetto, a quota 112). Invece, al contrario degli ottimi, ancora creduli manoscrittari di cui sopra, sai benissimo che non stai facendo né un capolavoro, né ottima letteratura, tantomeno una roba commerciabilissima. Al limite onesto artigianato per 3 o 4000 lettori, niente di più e niente di meno. Dopo un paio di bicchierini di grappa ho cominciato a informarmi sul mercato salentino del materiale di scarto dei dentisti.


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Gli steNti del GiOvANe scrittOre Il mestiere di scrivere è il e poco con piccole case titolo di un libro pubblicato editrice pugliesi e non, la da Raymond Carver. situazione rasenta il tragico. Non uno dei tanti libri di A volte il tragicomico. Oggi racconti del maestro del appare ridondante parlare minimalismo americano, di precariato lavorativo ma la raccolta di una e tutti i nessi e connessi serie di consigli sul come legati alla questione si diventa narratori. In dell’assenza di lavoro per realtà il libro raccoglie la nostra generazione una serie di aneddoti con Laurea e Master e ed esercizi che lo stesso tutti i connotati al posto Carver sottoponeva giusto per richiedere una ( r O ss A N O A strem O ) agli studenti dei corsi di sistemazione dignitosa (se il scrittura creativa che Governo Prodi non cambia lui teneva nelle Università americane. sostanzialmente la Legge Biagi dovremmo Questo perché uno degli scrittori cult del davvero mobilitarci in massa e quello che Novecento letterario americano non è che è successo in Francia negli ultimi mesi vivesse nell’agio. I proventi derivanti dalla deve farci riflettere molto). E quindi il pubblicazione dei suoi libri gli servivano a sottoscritto, per pagarsi l’affitto e i piccoli ben poco: aveva bisogno di arrotondare vizietti che custodisce con somma gelosia, per sopravvivere. Questo per dire cosa? Se collabora con giornali, con case editrici, accantoniamo Raymond Carver e diamo in questo periodo anche con l’Università, uno sguardo alla situazione italiana, gli e alla fine del mese, quando le tasche unici a vivere della propria scrittura sono dei suoi pantaloni piangono l’assenza di Andrea Camilleri, Giorgio Faletti, Federico monete, si guarda allo specchio e ripete Moccia e Melissa P. e qualche altro, a se stesso come un mantra è venuto il autori di bestseller che vendono milioni di momento di cambiare vita, lascio questo copie. Gli altri annaspano. Conosco molti città del cazzo, ricomincio da zero…In giovani scrittori che pubblicano per case conclusione, la vita del giovane scrittore editrici di tutto rispetto, Rizzoli, Einaudi, oggi in Italia non è delle più agevoli, ma Mondadori, che per arrivare alla fine del ognuno è artefice del proprio destino e se mese fanno di tutto e di più, collaborano accettiamo di vivere negli stenti è perché, con quotidiani, con case editrice, tengono in fondo, romanticamente, un po’ ci corsi di scrittura creativa in giro per l’Italia, piace. presentano i propri libri nelle sempre più Rossano Astremo assidue manifestazioni letterarie sparse per lo stivale. Se vogliamo aggiungere una distinzione di generi, possiamo ben dire che i narratori se la passano meglio dei poeti. Perché, un po’ di sana retorica non guasta, la poesia non vende, i poeti che vogliono vivere di solo poesia sono dei morti di fame, e non sono mica pochi i poeti che a un certo punto cercano una svolta dandosi alla prosa. Questo in soldoni. Se poi passiamo dal generale al particolare, se vogliamo fare un piccolo cenno alla mia situazione di giovane scrittore che ha pubblicato molto in Rete


A pp U N t A me N ti

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MUSICA

ogni lunedì/ Karaoke al Caledonia di Lecce ogni lunedì e mercoledì/ Serata universitaria con prezzi ridotti e imperdibili offerte al Corto Maltese di Lecce ogni martedì/ Jam sassion jazz al Cagliostro di Lecce ogni martedì/ Tour de pub al London tavern di Lecce ogni martedì/ Doctor Why al Jack ‘n’ Jill di Cutrofiano (Le) ogni mercoledì/ High fidelity al Caffé Letterario di Lecce ogni mercoledì/ Live al Wallace pub di Lecce ogni giovedì/ Live jazz e bossa al Godot di Lecce ogni giovedì/ Festa house con cocktail a 3 euro al Prosit di Lecce ogni giovedì/ Rutta del rum al Corto Maltese di Lecce ogni giovedì/ Doctor Why al Wallace di Lecce ogni venerdì/ House e divertentismo al Corto Maltese di Lecce ogni venerdì/ Dj set al Wallace Pub di Lecce ogni sabato/ Open bar sino alle 00.30 al Willy Nilly di Squinzano (Le) tutte le domeniche/ Happy hour dalle 20 alle 24 con drink e buffet al Prosit di Lecce giovedì 11/ Gardenya al Jack ‘n Jill Pub di Cutrofiano (Le)

L’idea dei cinque ragazzi di Trani (Ba) è quella di fare della propria musica un giardino nel quale la pianta possa vivere, in cui ogni fiore che la colora sia rappresentato dai suoni e dalle melodie che la vestono. La GaRdeNya tranese, “quella con la Y”, sboccia nell’agosto del 2003. La band debutta dal vivo il 27 novembre 2004. A novembre 2005 fiorisce Dammi 1 dose di normalità, il terzo

demo della band, presentato un mese dopo al teatro Kimset di Bari nella maratona radiofonica di Controradio, Controfestival 2005. Ingresso gratuito. venerdì 12/ Martino De Cesare al Teatro Verdi di Martina Franca (Ta) sabato 13/ Leitmotiv allo Spazio Sociale Zei di Lecce sabato 13/ Ferenc Snetberger trio al teatro Paisiello di Lecce sabato 13/ Crifiu a Muro leccese Tra terra e mare è il titolo del nuovo atteso cd dei giovanissimi salentini Crifiu che viene presentato in anteprima in Piazzetta Santi Medici a Muro Leccese. Dalle 21.00 sul palco saranno ospiti molti amici che hanno collaborato alla realizzazione del disco: Fabio “a repetiscion” Losito, violinista dei Folkabbestia, e Francesco “Fry” Moneti, chitarrista dei Modena City Ramblers. “Ingresso libero. Info: 0836 341153 / 348 0442053 / 320/1877168. www.crifiuweb.com - www.dilino.com sabato 13/ Futureclub: the easier way to the next al Target di Bari Serata evento dedicata alla musica che ieri come oggi ha ispirato al futuro. Tutte le commistioni tra pop rock ed elettronica che hanno segnato questo inizio millennio. Ai comandi di questo incredibile viaggio sonoro ci saranno due storici dj baresi: Arcangelo ( dallo zenzeroclub) e Pierpaolo ( dal gildaclub), una garanzia di classe, ricerca e divertimento! (ingresso libero e consumazione obbligatoria non maggiorata). domenica 14/ Crifiu al Fondo Verri di Lecce La festa per la presentazione del nuovo lavoro dei Crifiu si sposta al Fondo Verri di Lecce con uno show-case e un party d’ascolto. A seguire letture a cura di Mauro Marino. Inizio ore 21.00; ingresso libero. martedi 16/ Casiotone for the painfully alone alla Taverna del maltese di Bari Owen Ashworth, meglio conosciuto come Casiotone for the Painfully Alone, torna in Italia nel bel mezzo di un tour europeo, fresco delle recensioni entusiastiche ottenute dal nuovo lavoro Etiquette, edito come sempre dalla grande Tomlab. Owen ha allargato il suo progetto di registrazioni da cameretta ad una piccola orchestra composta da pianoforte, organo, archi, flauti, pedal steels, batteria, drum machine e synt, e stavolta i suoi bozzetti intimistici


CoolClub.it elettroanalogici lo-fi hanno ottenuto la produzione che meritano, tanto da rendere il nuovo album il migliore della sua carriera. Da non perdere: uno dei personaggi più interessanti della scena glitch-folk odierna. Ultimo concerto in taverna! Ingresso libero. giovedì 18/ Triple exp -Electric Voodoo C. all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) venerdì 19/ Cosmica allo Spazio Sociale Zei di Lecce sabato 20/ Super Reverb al Motoraduno Indian Bikers di Monopoli sabato 27/ Municipale Balcanica a Conversano (Ba) sabato 27/ Futureclub: the easier way to the next al Target di Bari (vedi sabato 13) sabato 27/ Alessio Lega alla Saletta della Cultura di Novoli (le) Alessio Lega accompagnato dai poliedrici Mariposa, gruppo più rappresentativo della “musica componibile”, vincitore del Premio Tenco con Resistenza e amore, è ospite della rassegna di musica d’autore Tele e Ragnatele della Saletta della Cultura di Novoli (Le). Ingresso 5 euro. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it sabato 27/ The Hormonauts al Palazzo Baronale di Novoli (le) Arriva nel Salento l’inarrestabile live degli Hormonauts. Il trio italo-scozzese capitanato dal cantante, musicista ed artista scozzese Andy Mc Farlane e composto dal contrabbassista Sasso Battaglia e dal batterista Paolo Peddis propone un progetto rockabilly con un repertorio originale che passa dallo swing al country, dal blues alle cover più famose. Recentemente è uscito Il nuovo cd Hormonized, considerato dalla stampa un vero e proprio capolavoro. Il tour sta segnando una lunga serie di “tutto esaurito” da record. L’appuntamento organizzato da Arci Novoli e Coolclub e nell’atrio del Palazzo Baronale di Novoli. Ingresso 5 euro. Info 0832303707 – www. coolclub.it da giovedì 1 a domenica 4 giugno/ Gods of metal 2006 all’Idroscalo di Milano Quest’anno per festeggiare la decima edizione il Festival propone un cast stellare con il ritorno dei Guns n’ Roses, Korn, Motorhead, Alice in chains, Soul Fly, Deftones, Whitesnake, Def Leppard, Venom e molti altri. Per informazioni 055.5520575 www.liveinitaly.com - www.godsofmetal.it

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da giovedì 1 a sabato 3 giugno/ Metarock a Ospedaletto (Pi) La ventesima edizione del festival toscano ospita Alpha blondy, Africa Unite, Prodigy, Asian Dub Foundation. venerdì 2 giugno/ Marta sui Tubi al Teatro Kismet di Bari sabato 3/ Marta sui Tubi al Palazzo Baronale di Novoli (Le)

TEATRO

da lunedì 29 maggio a sabato 3 giugno/ Francesco Calogero alla Masseria Ospitale di Lecce Si sono aperte le iscrizioni ai laboratori di cinema rivolti ad attori, organizzati da Laboratorio Salento in collaborazione con Masseria Ospitale, Associazione Culturale Albania Hotel Casa Laboratorio, e Aviolamp Energia Salento, che si terranno presso la Masseria Ospitale a 3 Km da Lecce. I due laboratori saranno tenuti da due dei maggiori autori del cosiddetto “cinema indipendente italiano”, contraddistintisi in passato per pellicole di grande pregio distribuite nelle maggiori sale cinematografiche italiane. Aprirà la stagione dei laboratori Francesco Calogero. Autore siciliano che da circa vent’anni fa parte dello staff organizzativo del Taormina Film Festival, oltre ad essere il creatore e il direttore artistico di Messina Film Festival e Costa Iblea Film Festival. Regista eclettico che alterna il cinema col teatro, in cui collabora con Ninni Bruschetta per la realizzazione di diverse regie, e l¹opera, tra gli altri titoli Rita ou Le mari battu, di Gaetano Donizetti, Cavalleria rusticana, di Pietro Mascagni Pagliacci, di Ruggero Leoncavallo Norma, di Vincenzo Bellini La sonnambula, di Vincenzo Bellini andate in scena al Teatro Vittorio Emanuele di Messina. info: oronzot@yahoo.it

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il mestiere di scrivere

FUmetti: UNA peNNA trA le NUvOle ( st A N lee )

di Roberto Cesano

Lo scrittore di fumetti è una figura un po’ vaga: qual è il suo ruolo effettivo nella realizzazione di un fumetto? Spesso egli si limita a dare brevi indicazioni scritte al disegnatore di turno, che deve tirare fuori da esse una storia. in molti casi il volo dello scrittore si limita alla costruzione dei dialoghi: Cris Claremont, il padre putativo degli x-men (la celebre serie della Marvel comics) nonché artefice del loro successo planetario, lascia completa libertà creativa al disegnatore, mentre egli si occupa di caratterizzare i personaggi attraverso dialoghi ed una trama piuttosto elaborati. Non a caso, nel corso degli anni, la qualità della serie scritta da Claremont variava in base alle capacità ‘”narrative” del disegnatore. Lo stesso tipo di discorso vale per il padre di tutti gli autori di comics popolari, Stan Lee. Il creatore dell’universo Marvel (a lui dobbiamo la nascita dell’Uomo Ragno, Hulk, ecc..) era solito comunicare poche informazioni sull’episodio mensile, oltre ai dialoghi naturalmente, lasciando a John Romita Sr, il più amato tra gli illustratori dell’Uomo Ragno, o al mitico Jack Kirby, il co-creatore della maggior parte dei personaggi Marvel, il compito di ideare le fattezze dei protagonisti e le ambientazioni. In tale metodo di lavoro non si devono scorgere dei limiti del talento di Lee o Claremont; i due scrittori sono stati, semplicemente, consapevoli della natura del medium fumettistico, ovvero il suo essere una narrazione per immagini. Memore di questa lezione Alejandro Jodorowsky ha “partorito” un’opera rivoluzionaria nel mondo dei comics Artigli D’ Angelo ( edito in Italia da Alessandro Distribuzioni); ha scritto la sceneggiatura partendo dalle tavole di Moebius, sperimentando una differente modalità creativa, attraverso il ribaltamento dei ruoli e sottolineando quanto sia labile il confine tra scrittura ed immagini in questa forma espressiva. Anche in base a tali caratteristiche del fumetto si sono generate le ultime tendenze negli USA: le grandi “major” del fumetto d’oltreoceano hanno affidato alcune tra le serie più vendute del proprio parco-testate a professionisti di altri campi. Indicativo è il caso Joss Whedon, impostosi come ideatore della serie tv Buffy:The Vampire Slayer. Whedon che è sceneggiatore e regista (il suo ultimo film è Serenity,tratto da un’altra serie tv di

sua invenzione) è stato chiamato da Joe Quesada, il direttore creativo della Marvel, per scrivere i testi dell’ultima collana dedicata agli X-Men Astonishing X-Men (edito in Italia da Panini Comics) che è stata sin dal primo numero un successo di vendite e critiche. Questa tendenza era stata già attuata dalla Marvel con l’affidamento della serie Exiles al giornalista ed attore Judd Winick, che all’epoca aveva appena vinto un reality show di MTV, The real world. Winich, come Whedon, ha assicurato alla casa fumettistica nuovi lettori attraverso un’opera indirizzata alle nuove generazioni di lettori grazie a personaggi e vicende frizzanti ed in linea con le mode. La rivale storica della Marvel, la DC Comics ha fatto proprio questo trendy assegnando a Winick una delle testate dedicate a Batman; mentre Whedon, in pausa dagli X-Men, sta dirigendo una pellicola su Wonder Woman, la più famosa tra le eroine del DC Comics. Ritornando a Jodorowsky occorre ricordare che anche l’artista cileno ha iniziato la propria carriera dirigendo alcuni capolavori del cinema underground degli anni settanta (Santa Sangre, El Topo e La Montagna Sacra), per poi dedicarsi all’attività fumettistica in tandem con disegnatori del calibro di Moebius e Jimenez, alla quale alterna l’attività letteraria (Psicomagia, La danza della realtà). Dunque, gli sceneggiatori fumettistici lavorano spesso in altri settori, calcando differenti percorsi creativi. Molti autori hanno scritto romanzi di successo; come Neil Gaiman che ha addirittura vinto il premio Hugo (il massimo riconoscimento nordamericano della letteratura fantasy e di fantascienza) con American Gods, oltre ad aver sceneggiato e diretto in Inghilterra un serial TV tratto da un altro suo libro Nessun dove (edito in Italia da Fanucci). Adesso aspettiamo di vedere che cosa scriveranno Brian Singer, il regista de I soliti sospetti e X-Men 1 e 2, e Damon Lindelof, il quotatissimo sceneggiatore di Sex and the city e Lost, sulle serie Ultimate della Marvel. Certamente il premio per l’ attività alternativa più originale spetta ad Alan Moore, l’autore di V for Vendetta che, all’uscita del film omonimo, ha dichiarato di essere stufo di scrivere fumetti e di volersi dedicare alla sua reale vocazione, l’alchimia.

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