CoolClub.it n.77/78 (Agosto - Sttembre 2011)

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anno VIII numero 77-78 agosto - settembre 2011

LA LETTURA CI FA BELLI



LA LETTURA CI FA BELLI Mentre scrivo, nella canicola di questa domenica di luglio, la radio canta Amy Winehouse, la tv la piange, il mondo la condivide in coro sui profili. Perché mentre il mio cane e il mio gatto dormono all’ombra, Amy Winehouse è morta e loro non lo sanno. Un’altra del club, quello dei 27. I ventisette anni di Brian Jones, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, qualche anno dopo Kurt Cobain e oggi lei. Come se quel numero fosse un confine: attraversarlo è sopravvivere, inciamparci è la fine di una vita e l’inizio del mito. Sembra quasi un appuntamento, lo stesso a cui molti anni prima si presentò puntuale Robert Johnson, quello che aveva stretto un patto con il diavolo in cambio del blues, giusto per intenderci. Love is a losing game oggi sembra ancora più triste, la morte con tutto questo sole è stridente, una vita che torna lì dove è solo buio, Back to black, adesso suona quasi profetico il titolo del suo album. La ragazza dalle gambe troppo sottili per portare in giro tutti quei problemi ci mancherà e sui no-

stri scaffali un altro disco diventa un testamento. Non c’è molto altro da dire. E mentre la musica è in lutto noi ci dedichiamo a una delle nostre passioni: la scrittura. Questo numero del giornale, come ogni anno ormai, è dedicato ai racconti di scrittori o aspiranti tali. Senza filtro, o quasi, i contributi di amici e perfetti sconosciuti occupano le pagine solitamente dedicate alle interviste, agli articoli e alle recensioni. Alcune delle parole ospitate nelle precedenti edizioni sono cresciute e diventate poi dei libri; altre uscite per la collana Coolibrì da noi curata per Lupo editore, altri per grandi e piccole realtà. Quello che comunque continua a piacerci è l’idea di dare spazio alla creatività e di creare occasioni per far emergere nuovi talenti. Una piccola antologia da spiaggia, il nostro regalo per allietare le vostre vacanze. Tra le pagine di questo numero continua anche la nostra guida agli eventi, i festival e i concerti più interessanti di questa lunga estate. Buona lettura. Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 8 Numero 77-78 agosto-settembre 2011 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, Tobia D’Onofrio Hanno collaborato a questo numero: Elisabetta Liguori, Nino G. D’Attis, Antonio Iovane, Alessio Viola, Omar Di Monopoli, Michael Gregorio, Mauro Maraschi, Francesca Maruccia, Mariagrazia Veccaro, Giuseppe Braga, Benedetta Longo, Francesco Cortonesi, Angelo De Matteis, Stefano Zuccalà, Roberto Conturso, Rossano Astremo, Rosario Tornesello, Marco Montanaro, Ennio Ciotta In copertina: foto di Phlippe Leroyer on Flickr Ringraziamo Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag. com, Radio Popolare Salento, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Radiodelcapo, Musicaround.net, Salentoconcerti.com, Radio Venere e Radio Peter Pan. Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione anche questa volta (e due volte), nonostante la giornata più sfigata dell’anno Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: ufficiostampa@coolclub.it

LA LETTURA CI FA BELLI

Nero Petrolio 6 Persone che potresti conoscere 10 L’amore e il caso 12 D.I.Y. 15 Curriculum Vitae 16 Manifestazioni 18 Alza gli occhi 20 Torino Blues 24 Sangue del mio sangue 26 Io per te 29 Uccelli di passo 31 Eden 32 La comunione 34 Il prezzo del successo 36 Finché morte non vi separi 38 La sacra famiglia 43 L’anno del serpente 44 Fine delle ostilità 47 In Salento veritas 49 Eventi

Calendario 52 sommario 5


NERO PETROLIO Elisabetta Liguori

Da quando mio padre si era ammalato, e forse anche un po’ prima di allora, non avevo più ripensato al colore originario dei suoi capelli. Giorni fa mia madre ne aveva notato la foto formato tessera che tenevo nel portafogli. Te li ricordi, Caterina? aveva detto, ma io non ricordavo. Mio padre, lo dicono quanti lo hanno conosciuto, era incanutito molto presto. In casa si parlava tanto di quel colore antico, come di una leggenda, di un’età perduta. L’era del nero petrolio, la chiamavamo, ma io non avevo alcun ricordo a riguardo. A cinque anni esatti dalla sua morte, l’unica cosa che riuscivo a ricordare era un mescolarsi da tavolozza: immagini in movimento che disperdendosi, lasciavano scie policrome. M’ero convinta così che fosse quello tutto ciò che resta delle persone che abbiamo amato. Niente a che vedere con l’anima, l’elettricità, o chissà cosa. Solo un riflesso luminosamente biondo, dinamicamente rosso, castano incerto o nero petrolio, appunto; qualcosa visto per un attimo o solo immaginato, qualcosa che non restava, destinato a sfumare altrove. Alla festa erano tutti in abito scuro. Io e mio fratello Alfio non eravamo stati avvertiti e il nostro abbigliamento risultò inadeguato sin dai primi passi sulla ghiaia, lungo la strada che portava alla villa. Il cancello d’ingresso era maestoso. Avevamo immaginato qualcosa di più discreto. 6

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M’ero detta: vorranno mantenere l’anonimato e non m’ero fatta problemi di forma, sforzandomi di apparire anonima anche io. Alfio m’aveva telefonato più volte nei giorni precedenti, chiedendomi con insistenza di cosa si trattasse, come avremmo dovuto comportarci una volta là, come funzionavano certe faccende. Ma come facevo a saperlo se era la prima volta anche per me? Prima della festa c’era stato solo quel biglietto d’invito. La morte non è il confine. Sul cartoncino che qualcuno doveva aver infilato nella mia buca delle lettere c’era scritto soltanto questo. Poi la data, l’ora e l’indirizzo esatti, senza nessun mittente. Al principio Alfio non voleva fidarsi. Se l’ambiente ci fosse parso strano o pericoloso, saremmo andati via subito, avevo dovuto giurare. Così avevamo preso la sua auto e Alfio aveva guidato in silenzio, fino a che si era fatto buio. All’ingresso presero i nostri nomi. Gli alberi intorno all’atrio non erano cipressi e sventolavano con inappropriata allegrezza. Oltre il portone il buio regrediva e l’aria sembrava composta da una stoffa inspiegabilmente più chiara. Quella luce sfinita, la cura dei roseti ai due lati della struttura centrale facevano pensare ad un centro di accoglienza per malati di mente. Uno di quelli pieni di visioni, costosi ritrovi per rimorsi dalle tasche piene. Niente che annunciasse la


morte, ad ogni modo, anzi al contrario, una certa caparbia forma di sopravvivenza. Il tizio all’ingresso annotò di noi su di un grosso registro. Ci chiese chi dovessimo incontrare. Nessuno in particolare, rispondemmo in coro Alfio ed io, così il tizio annotò che eravamo presenti non per visite, ma per Confidenza. La Confidenza di chi? chiedemmo, ma il portiere gentile si limitò a sorridere indicandoci la strada. Il corridoio era lungo. Ad ogni passo prendeva nuovo colore, grazie alla consistenza lieve delle tende alle finestre, i candelieri accesi sui mobili laterali e le applique di cristallo. Dal portone d’accesso alla villa fino ad un arco opposto al corridoio centrale saranno stati duecento metri, forse di più. Il percorso era odoroso d’erba appena recisa. Accanto a noi sfilavano individui di tutte le età. Bambini ridenti, donne procaci, vecchi pensierosi. Alcuni si muovevano nella nostra stessa direzione, altri tornavano indietro, verso l’uscita, in un brusio frusciante. Giungemmo alla parte opposta. Rovesciati d’improvviso all’aperto, in un grande giardino, piedi sull’erba, smettemmo di camminare per guardarci attorno. Lo spazio era vasto e scintillante. Pullulava di tavolini rotondi in ferro smaltato. Camerieri piccoli come nani in livrea servivano bevande colorate. La gente era raccolta in piccoli gruppi. Chi sono? chiese Alfio irrigidito dallo stupore. Non sembravano morti, ma neppure vivi, o per lo meno non come si è soliti immaginare i vivi durante i giorni della loro vita. Erano fissi e dinamici nello stesso momento. Erano tanti e luminosi e cangianti come uccelli piumati dentro una voliera. Rotolò verso di noi un donna piccola e tonda. Piegò il collo cercando i nostri occhi persi nel cromatismo acceso del giardino. Chiese attenzione e con un risolino discreto ci indicò un varco tra la gente. Solo allora ci inoltrammo tra i tavoli. Cercavamo qualcuno, è vero, ma senza desiderarlo del tutto. Alfio ruotava le spalle ora a destra ora a sinistra. Si grattava il lobo dell’orecchio come era solito fare da bambino prima di addormentarsi. Ascoltavamo, guardavamo, aspettavamo. La gente rideva tra gli alberi. Più cresceva lo spazio intorno a noi, e la luce slargava come vernice fuori da un secchio, più cresceva il nostro senso di ilare stupore. Procedemmo passando sotto ad un primo ponte di marmo bianco. Scorremmo come acqua sotto gli archi. Più sul fondo, lungo un percorso che sembrava svilupparsi in lunghezza, si intravedevano enormi platani verdi. Là le risate della gente sembravano an-

cor più sonore ed anche i tavoli si moltiplicavano. S’allargavano per circonferenza, accogliendo gruppi più numerosi e sonanti. Gli alberi ombreggiavano intere comunità, generazioni su generazioni, volti simili, quasi fosse in corso una festività famigliare: le nozze d’oro dei nonni, i cento anni della matrona. Ci passò accanto anche una coppia di ragazzini. Che giovani! pensai senza provare alcun dolore. Lei era minuta e scalza. Lui coi lunghi capelli rossi, fiamme sottili sulle spalle curve e il viso pieno di anellini. Chi sarà stato tra i due quello vivo, e quale il morto? Venne naturale seguirli. Passeggiavano agganciati: la ragazza si fingeva sospesa su un filo, metteva un piede dietro l’altro, sulle punte come un’equilibrista, e teneva le braccia aperte e larghe. Il rosso le reggeva i fianchi. Contammo i loro baci, sforzandoci di capire in cosa fossero diversi dai baci del mondo di tutti. Guardona! continuava a sussurrarmi Alfio nell’orecchio. Qualunque fosse la differenza tra il dolore e l’allegria nell’universo, io non la conoscevo di certo, ed era per quella ragione che continuavo a guardare. Infine lo trovai. Per primi i suoi capelli, neri, tangibili, e poi la cornice tutt’attorno. Alfio sussultò e mi tirò per la manica della camicia. E no! esclamò a bocca larga. Questa cosa è chiaro che puzza. Non può essere lui. E metti che siamo stati drogati? Che ne so, metti che ciò che vediamo non è reale, magari non proprio un sogno, ma di certo un inganno? Alfio era sempre stato un ragazzo privo di umorismo, ma ricco di fantasia. Drogati da chi, poi? Quando e dove? Dei due, Alfio era il più grande, la barriera scettica, mentre io ero la femmina, quella che conteneva, che apriva alle possibilità, quella che le trasformava in certezze. - Ma se non è nostro padre, chi è, allora? - Hai presente un ologramma? Ecco, è effetto di una qualche sostanza nell’aria. L’aria, sì, forse fu l’aria. Sentivo un vago ristagno, anche io. Quel fiato denso mi ricordava i Jardin del Turia di Valencia, quando comincia a far caldo sotto il Ponte del Mar: un sito alieno, anche quello a pensarci, ricavato sfruttando il lungo corso segnato da un fiume nemico che la città aveva dovuto deviare per sopravvivere e nel quale i cittadini avevano voluto investire una grossa quantità di sogni e denaro. In effetti era tutto proprio come in quella ultima vacanza fatta tutti insieme anni fa, il giardino e il resto, prima che la malattia di mio padre prendesse il sopravvento. Quando il mondo era ancora tutto da fabbricare. COOLIBRÌ 7



Nostro padre era seduto su una panchina, nascosto in parte dai giochi di alcune fontane poste in linea orizzontale lungo in nostro cammino. E non era solo. Un uomo calvo chiacchierava amabilmente con lui. - È Pietro Taranta – urlò mio fratello, puntando il dito. Mio padre aveva sempre disprezzato Pietro Taranta, il nostro amministratore. Si rifiutava di prendere parte alle riunioni di condominio pur di non incontrarlo. Caterina, lo vedi o no, che non può essere lui, lo vedi che qui ci stanno prendendo in giro? Rimasi ad osservarli immobile, come si fa con gli uccelli posati in terra. Le due figure comparivano e scomparivano dietro lo schermo delle fontane. Poi, quando, dopo tanto indugiare, Alfio ed io ci avvicinammo, mio padre non parve per nulla sorpreso. Solo felice, di una felicità piana e verde. Solido come il ponte di pietra sulle nostre teste. Vi aspettavo, disse, e chiese come stavamo. Non rispondemmo, non avremmo saputo cosa del resto. Sentivamo soltanto l’urgente bisogno che fosse lui a parlare. Di noi, di se stesso, di quella festa in giardino. - Parla forte, papà! – s’arrischiò con il tono di un supplica Alfio e indicò l’acqua che scrosciava. Sedemmo in punta alle due sedie lasciate libere per noi e quello che sembrava mio padre ci spiegò che ogni primo giovedì del mese era possibile presentarsi per la prima Confidenza. - Siete nel posto giusto. Quella che chiamavano Confidenza era dunque una specie di rivelazione, di debutto sociale. Al giovedì quelli che erano dentro il giardino spiegavano a coloro che ne erano fuori come far funzionare le cose dopo il trapasso. Tutto qui. Seguivano poi gli appuntamenti periodici per tenersi in contatto, per trovare conferme, qualora ve ne fosse il desiderio. Si parlò dei tempi dell’arrivo, dell’ambientarsi a fatica, del trovare posto al tavolo, delle prime scoperte. Quali scoperte? chiedemmo come avessimo avuto ancora cinque anni o giù di lì. Taranta sorrideva benevolo: anche lui aspettava i suoi per la prima Confidenza e per farsi notare continuava ad agitare le mani, smuovendo l’aria. - Innanzi tutto c’è da accettare l’idea che qui, nel giardino, non c’è più nulla da fare; tutto è già accaduto. Chiarì nostro padre e poi continuò a raccontare. Noi ascoltammo a lungo, concentrati, ma fu come masticare una ciliegia senza poterla ingoiare. Il colore di mio padre era quello delle origini, quello che credevo di non ricordare, ed era fisso. An-

che l’odore era antico e saldo, d’acqua saponata, di scale lavate da poco con il detersivo. O era il suo o era quello di Taranta, dacché il giardino alberato era ingombro di odori diversi. Il luogo era diviso in settori: aromi di cucina francese, d’oggetti di cancelleria o di corsia d’ospedale, oppure di frutta fresca o di letti d’albergo non rifatti. Odori netti che davano l’idea di una varietà organizzata quanto quella di un elenco telefonico. A sentir mio padre quando tutto era già stato fatto, quello era il momento giusto per tornare alle proprie origini e fare ordine. Restammo a farci confidenze sul quando e sul come non so per quanto tempo. Platani e palme tremavano su di noi, dentro un sole tiepido e immutabile. Fu a quel punto che avrei dovuto chiedergli scusa. Approfittare dell’occasione tanto insperata per farlo con cura. Rievocare ogni singolo episodio, il dissenso, le idee astratte, i debiti. Chiunque al mio posto avrebbero usato il giardino per scagionarsi, ne ero certa. Più volte mi schiarii la voce credendo di essere pronta. Ma nulla: nessuna parola su di me per lui. - Non preoccuparti, non ce ne è bisogno. Mi venne incontro, passandosi le mani sullo smalto dei capelli. - Non più, non qui. Era chiaro che qui era diverso. Lo capivo persino io. Ma diverso come? Mio padre non rispose subito: poggiò entrambe le mani sulle ginocchia per pensare meglio e i capelli gli scivolarono sul viso. Anche Taranta si raccolse in sé, chiudendo gli occhi, e per qualche secondo smise di sventolare le mani. La differenza, si, ripeteva Alfio, vogliamo conoscere la differenza! Sembrava volesse sfidare nostro padre e quella sua irreale amicizia con Taranta Vetrill, arrivata un po’ troppo in ritardo. Alla fine papà trovò la risposta. - La differenza sta nella proprietà del giardino! E ridendo toccò il ferro del tavolo, che ci teneva riuniti. Quello era il suo giardino, quindi. Un fatto certo, definitivo, quasi un istituto giuridico mortuario. Che strano, pensai, e per la prima volta la proprietà mi parve cosa buona. Non privava qualcuno di qualcosa dandola ad altri, ma arricchiva tutto di senso e possibilità. Pensai che se le cose stavano davvero così, allora voleva dire che solo la morte poteva rendere ciascuno padrone della propria vita. Pensai che la cosa suonasse sorprendentemente ridicola, ma possibile. Lo pensai, mi guardai attorno, ma non dissi nulla a nessuno. Neppure ad Alfio, dopo, mentre guidava verso casa. Non dissi nulla forse perché mi sentivo ancora un po’ troppo viva.

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PERSONE CHE POTRESTI CONOSCERE Un delirio di Nino G. D’Attis Esco dalla mia pagina Facebook con la sensazione di aver detto qualcosa di profondamente sbagliato a L. ma ormai non c’è modo di rimediare, so già che L. starà pensando che sono davvero uno stronzo insensibile e per niente riconoscente come dicono A. e R. (e anche V. a dirla tutta, sia pure in maniera leggermente più diplomatica), la qual cosa fa di me l’ultima persona al mondo che L. lascerebbe entrare una seconda volta a casa sua, oltretutto non dopo l’imbarazzante per non dire catastrofica Puntata Numero Uno, nel corso della quale penso sinceramente d’aver dato il peggio di me stesso in poche semplici mosse. Risultati brillanti a CityVille, Millionaire City, Farmville, Frontierville e Zombie Lane. 1.256 amici sparsi tra i quattro angoli del mondo, eppure è a L. che sto pensando. Significa che mi importa? Forse vuol dire che c’è una parte di me che sarebbe disposta a una specie di compromesso pur di approdare a una Puntata Numero Due tra i suoi cuscini indiani, sotto il poster che riproduce la Bewegtes Wasser di Klimt, mentre ascoltiamo il secondo album degli LCD Soundsystem e in particolare quella canzone che mi piace tanto che si chiama All my friends e a un certo punto dice: “Stai parlando a 45 giri / Più veloce che puoi / Si, lo so che stanca / Ma è meglio quando fingiamo.” Prima di uscire ho cambiato la mia immagine del profilo. In questa foto sono su una spiaggia del Salento, abbronzato e tutto, col tatuaggio 10 LA LETTURA CI FA BELLI

all’henné che mi sono fatto fare da un marocchino e il sorriso da canaglia sotto gli occhiali da sole che mi fa somigliare un po’ a Fabrizio Corona. L’estate scorsa è stata memorabile: papà ha avuto un bebè da una donna meravigliosa che in famiglia non abbiamo mai conosciuto e mia sorella ha battuto il record del matrimonio più breve della storia mollando il suo maitre chocolatier svizzero nel bel mezzo del viaggio di nozze tra i castelli della Loira. E dopo un breve intermezzo da leccaciuffe con un paio di amichette lesbochic addobbate come Lady Gaga ora se la fa con un tizio emotivamente insicuro tutto occhiaie e peli ributtanti che spuntano da naso e orecchie. È di Massa Carrara e fa il virtual community manager, che tradotto in parole povere sarebbe il parassita di quella scema di mia sorella. Sotto la doccia mi metto a pensare alle gambe di G. Sono lunghe e affusolate, belle gambe da modella, invece G. è la mia analista: ogni settimana, da quasi due anni, le tocca sciropparsi le storie che mi invento di proposito e che hanno a che fare con persone che avrei conosciuto nella mia vita, tante persone molto più instabili di me. Esseri umani capaci di qualsiasi cosa. Esseri dotati di un ego smisurato, ingordo, sgradevole, negativo. G. mi ascolta senza dire niente. Ha trentasette anni, è sposata da cinque con un docente di elaborazione numerica dei segnali, non ha


figli. Ogni tanto fa sì con la testa, oppure finge di tracciare uno scarabocchio sul suo taccuino. Più spesso accavalla le gambe color latte che immagino vellutate al tatto, incapaci di opporre resistenza davanti a un’offensiva decisa. Sotto la doccia mi viene duro. Sogno di sequestrare G., portarla qui a casa mia, strapparle dal naso quegli occhialini da maestrina, ridurre a brandelli i vestiti comprati da Zara e morderla tutta. Io vorrei divorare G. Vorrei stringerla a me, sentire il sapore delle sue labbra, insalivarle le cosce per ore, poi dilaniarla, straziare la sua carne come farebbe un leone della savana con una gazzella, la testa che ciondola avanti e indietro e tutti i prossimi appuntamenti in agenda cancellati, il marito che piange in televisione, impotente davanti all’orrore, piange sconsolato e spera che la giustizia faccia rapidamente il suo corso catturando il colpevole di un crimine così tremendo. G. ha detto che dal suo punto di vista ho avuto una paura immotivata di mostrare a L. la parte migliore della mia personalità (esiste, ne è convinta, ed io non sono nessuno per smentirla). Ha osservato ancora una volta da quando frequento il suo studio con divano Natuzzi color ghiaccio a base aperta e cuciture verticali sulla spalliera che senza una maschera avrei molte più possibilità di porre le basi per una solida relazione con un’altra persona. “Mettere la questione in termini potenzialmente più incisivi non è difficile come sembra. Dipende unicamente da te.” Intanto B. ha accettato la mia richiesta di amicizia. B. è nata a Rimini nel 1984 (Capricorno), parla italiano, inglese, tedesco e svedese, si dichiara “esigente, ipercritica, romantica, passionale” e “pronta a vivere in un giorno solo, nello spazio limitato di un’alba e un tramonto, l’incontro con le persone più importanti della mia vita”. Il suo regista preferito è Ferzan Ozpetek, il cantante Ligabue. Sta vivendo una relazione complicata e nella foto del suo profilo nasconde lo sguardo dietro una cortina di ciocche rosse e un vistoso paio di occhiali da sole. Le ho scritto in privato, chiedendole nell’ordine: A) Ti piacciono gli ansiolitici? B) Hai uno strizzacervelli che ti segue assiduamente? C) Pensi che sia nella norma avere delle fantasie sessuali sul proprio analista? D) Hai mai immaginato di giacere con le braccia legate dietro la schiena, le gambe nella posizione del loto e il busto piegato in avanti sul suo divano dal design moderno, compatto e lineare?

B. non ha ancora risposto, però sono sicuro che lo farà presto perché ho idea che dietro quegli occhiali da sole ci siano dei bellissimi occhi azzurri. L. porta le lenti a contatto Ciba Vision e scrive poesie scadenti dedicate al Dalai Lama, ai popoli sfruttati, all’orgoglio gay e alla natura violentata dall’uomo. Non credo che abbia apprezzato la mia franchezza quando le ho fatto notare senza iperboli che i suoi versi sono tipici di una persona che ha perso da tempo il senso e il gusto di farselo menare dentro. Sono un mostro come dice? Perché dovrei essere qualcosa di diverso? Glielo leggi in faccia, il modo che hanno le tipe come L. di guardare strano chi sputa la verità nuda e cruda sul loro faccino. Poi sono capaci di copiare e incollare sul loro status frasi di intellettuali famosi che si sono sentiti in diritto di esprimersi sul tema della lealtà. Metti su Google “Aforismi + sincerità” e vengono fuori circa 194.000 risultati multilingue in 0,07 secondi. Sotto la doccia penso che un buon modo per definire L. sia: la presunzione a braccetto con un surrogato di infantile innocenza. Poi torno a razzo su G. La immagino accovacciata qui con me, nel box della doccia. Lei mi chiede di scoparla. Lei mi dice che le piaccio molto perché ho un pisello gagliardo e vuole essere la schiava che striscia ai miei piedi, la serva che mi preparerà la colazione tutte le mattine per il resto della vita. Lei mi supplica di non farle del male. Le dico: “Va bene, facciamo una piccola prova.” E mi chino a baciarla sul collo, la afferro per i polsi sottili, quindi tento di strangolarla usando il cavo flessibile in acciaio cromato mentre l’acqua schizza sulle pareti di cristallo e le piastrelle a mosaico, rimbalza contro i miei addominali e la sua pelle bianca che adesso comincia ad assumere un tono caldo e aranciato. Penso che a Pontida Bossi ha dichiarato di voler cambiare il patto di stabilità e che El Shaarawy è praticamente rossonero. Penso che presto potrei raggiungere una buona posizione nella classifica di sterminatori di morti viventi di Zombie Lane perché non sono mai stanco di buttare giù quegli stronzi a colpi di fionda, fucile e granate. Penso che la Luna sia in armonia con il mio segno e mi stia offrendo l´occasione perfetta per mostrare alla gente che mi attrae che in fin dei conti so essere molto audace. E vengo. COOLIBRÌ 11


L’AMORE E IL CASO Antonio Iovane

Mi ero perso e mi infilavo strada per strada alla ricerca di una via di fuga quando imboccai una via senza uscita. Io non lo sapevo che era senza uscita, perché non era mica indicato. Me ne accorsi solo quando arrivai in prossimità del muro che la chiudeva. Stavo, allora, facendo inversione quando sulla soglia di un negozio una ragazza mi sorrideva. E io la vidi. Era rossa, di capelli, capelli ricci che non finivano e non iniziavano. E la ragazza dai capelli rossi agitava le cinque dita della mano destra in segno di saluto come quando ti fai passare una moneta tra le falangi. Così fermai il motorino e pensai che avrei detto una frase intelligente: - È una strada senza uscita – dissi. Era una frase lapalissiana, ma lei rispose qualcosa che io non sentii, doveva essere qualcosa del tipo hai detto una frase lapalissiana, mica una frase intelligente, come se mi leggesse nel pensiero, ma insomma io non sentivo perché il frastuono del traffico arrivava fin lì come il fiume quando invade le strade e allora forse neanche lei aveva sentito, e mi stava dicendo non sento perché il frastuono del traffico arriva fin qui come il fiume quando invade le strade. Così, alle sue parole che non udii, replicai con altre, che lei non udì. E ci parlammo in un breve scambio senza ascoltarci, e ci guardammo davanti al vicolo cieco. Poi però dovetti andare, perché avevo finito gli argomenti. Misi in moto il motorino ma mi rimase il rimpianto di non averle detto che mi chiamavo Antonio né di averle chiesto come si chiamava, o almeno il numero di telefono, o almeno se era fidanzata. 12 LA LETTURA CI FA BELLI

Però memorizzai la strada e il numero civico e scoprii che quello era lo studio di un fotografo. Allora scrissi una mail indirizzata alla ragazza dai capelli rossi che agitava le cinque dita della mano destra in segno di saluto come quando ti fai passare una moneta tra le falangi. Le scrissi che mi chiamavo Antonio e altre cose ugualmente dolcissime. E attesi. Passavo le ore a reloadare la posta elettronica. Attesi. E due giorni dopo mi arrivò una mail dallo studio del fotografo. Rispondeva una ragazza di nome Sandra, spiegandomi che si sentiva lusingata, che anche lei casualmente era rossa, ma che lo studio del fotografo non era più lì da un anno e che doveva aver visto un’altra ragazza dai capelli rossi. Le chiesi scusa e le proposi, per farmi perdonare del disturbo, di offrirle un caffè. Lei accettò, senza particolari resistenze, perché diceva che dovevo essere un tipo romantico e che tutti gli Antonio sono dei tipi romantici. Arrivai all’appuntamento in anticipo e la trovai seduta al tavolo. Che mi aspettava già. Mi sedetti e le dissi: - Ciao. Lei mi rispose: - Ciao. - Devi scusarmi, devo aver fatto una figuraccia. - Oh, no, mi piacciono le persone intraprendenti. Mi sai che hai carattere, tu. Parlammo cinque minuti, Sandra era una persona interessante, mi raccontò un mucchio di cose belle della sua vita tipo che una volta aveva visto Napoli. Poi le dissi: - Beh, Sandra, ti va se andiamo a fare una


passeggiata? - Io non mi chiamo Sandra – rispose. - Come no? - No. Le chiesi cosa aveva pensato allora quando le avevo detto che dovevo aver fatto una figuraccia, e lei mi rispose: - Al fatto che ti eri seduto al mio tavolo senza che ti avessi detto nulla. - Ah, bene. Mi chiese se la proposta della passeggiata era ancora valida e io dissi certo che è valida. Disse che si accomiatava un attimo per andare in bagno e io le dissi che era bella la parola accomiatarsi. La attesi fuori pensando che tutte le ragazze con cui avevo avuto a che fare, in quei giorni, avevano i capelli rossi. Mentre la attendevo mi accorsi che stava arrivando quella che doveva essere la vera Sandra, perché aveva la faccia da Sandra e l’espressione tipica delle sandre. Mi voltai di scatto perché non mi vedesse e andai a sbattere contro una ragazza mora. Le dissi: - Mi deve scusare. - No, non si preoccupi. Le erano caduti dei libri come nei film americani, che sembra che le ragazze camminino sempre coi libri impilati uno sull’altro, a torre, in attesa di qualche anima gemella che glieli faccia cadere. Ne afferrai uno e dissi: - A lei piace Il corsaro nero? - Lo adoro. - Ma davvero? - Sì. E a te piace? Risposi di no e mi uscì una risata da tenore alla quale lei oppose la sua da soprano. - Allora… a presto. - A presto – mi disse lei, con quello sguardo che faceva pensare alla promessa di un breve amore eterno. Rimasi imbambolato quando mi accorsi che un libro era rimasto per terra, come nei film americani che c’è sempre un libro malandrino rimasto imboscato tra le pieghe dell’asfalto. Lo afferrai e mi accorsi che la ragazza aveva già svoltato l’angolo. La rincorsi, e mentre la rincorrevo cercai nel libro qualche riferimento per scoprire il suo nome. Lo trovai. Girai l’angolo e c’era un mercato pieno di gente. La ragazza era distante ma ancora la vedevo e gridai: - Elsa! - alzando il libro. Lei non si girò. Avanzai ancora gridando: - Elsa! Ma Elsa non mi sentiva. Camminai un altro po’ ma c’era davvero un fiume

di gente. - Elsa! – dissi. E allora si girò una ragazza e mi disse: - Sì? Le dissi un po’ risentito che non ce l’avevo con lei ma con Elsa e lei protestò che si chiamava Elsa. Ora mi accorsi che la ragazza vendeva frutta e ortaggi. E io le mostrai il libro della ragazza che si chiamava Elsa. E la seconda Elsa mi spiegò: - Ma non è che la ragazza si chiama Elsa. È il libro che è di Elsa Morante. Io replicai che è quello che stavo dicendo io. La seconda Elsa mi osservò come chi rinuncia e mi disse: - Eh, lo ha fatto apposta, di lasciare quel libro lì. Voleva che tu la inseguissi. - Sì, ma poi si doveva fermare, altrimenti è chiaro che non ci saremmo visti. - Evidentemente voleva che tu la inseguissi ma che non riuscissi a raggiungerla. Le dissi che era una cosa senza senso ma lei mi propose di assaggiare una delle sue nespole voltando decisamente pagina, come dicono nei telegiornali. Io morsi la nespola ed era saporitissima. La seconda Elsa mi disse che le importavano da un paese dal nome strano, ma ora non le veniva in mente. Io le dissi che se non si ricordava da dove le importavano chi se ne importava. Le uscì una risata da contralto alla quale opposi la mia da baritono. Le proposi di darmi il suo numero, lei me lo diede e la chiamai già nel pomeriggio. Ma il numero doveva essere sbagliato, perché mi rispose una certa Caterina. Proposi a Caterina, per farmi perdonare del disturbo, di offrirle un caffè, e lei disse sì senza particolari resistenze, perché diceva che dovevo essere un tipo romantico e che tutti gli Antonio sono dei tipi romantici. Ci incontrammo nel pomeriggio. Appena la vidi capii che ne ero innamorato, Marina era bellissima, decisi allora che avrei confessato il mio amore a Felicia perché sentivo questo sentimento forte per Monica che mi veniva dal cuore e allora dissi a Michela: - Ti amo, Sonia. Elena mi guardò come solo Barbara sa fare, con quegli occhi accesi tipici di Clotilde e mi rispose che anche lei, Laura, mi amava. - Starai sempre con me, Wanda? – le chiesi allora. Tiziana si commosse e su un albero tracciò un cuore e cominciò a incidere i nostri nomi, e mentre incideva “Marianna”, Lulù mi giurò che sarebbe stata sempre con me. Lo giurò perché diceva che dovevo essere un tipo romantico. Perché tutti i Gennaro sono dei tipi romantici.

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D.I.Y

Michael Gregorio There’s no such thing as improvisation when you have a body to bury. You need to be well organised, and, of course, you need to have the right tools. Transport comes high on the list. A van or a car with a large trunk (‘boot’ if you are British) is essential. If renting the vehicle, book it for a period of at least three days, and well in advance. Any hire that runs from midnight to 4 a.m. on the date of a murder or a disappearance is inviting trouble. Rubber gloves are a must when handling a corpse, and anything that may once have belonged to it. Bin-bags will help protect the inside of the vehicle and minimise the dispersal of any biological evidence, but in my experience a large sheet of plastic – bubble-wrap, for example – is far more efficient, and it invites no suspicion, even when purchased in quantity. It is cheap enough to be left behind, keeping the heat of organic decomposition and the feasting bugs exactly where you want them, which is a definite plus. It is also virtually untraceable. A dependable torch is a top priority: durability is better than brightness. You need to see what you are doing, but you really don’t want to attract attention, do you?

Make sure to check your batteries before leaving home. It’s no fun digging in the dark. Stout waterproof boots with a thick rubber sole will guarantee your maximum safety and comfort while working. Don’t be fooled by rubber wellingtons. They tend to get stuck in the mud when it rains, and you wouldn’t want to wet your socks and catch a cold, now, would you? Finally, the pick and the shovel. Never try to economise on these essential tools. They are an investment which should last you a lifetime. They ought to be modern, massproduced, well-designed, easy to clean and comfortable to handle. Blisters on hands and cuts on shins are a dead giveaway to be avoided at all costs. Buy your pick from one store, and the shovel separately, preferably at a large supermarket or gardening store, and the further from home the better. Pay cash, and remember to burn all receipts. Now, have I forgotten anything? Ah, the body… Here, the matter of personal choice plays an important part. And do remember: a check-list helps, but practise makes perfect. COOLIBRÌ 15


CURRICULUM VITAE Alessio Viola

Spett.le Ente. Allego come richiesto dal vostro bando di concorso il mio curriculum vitae, per partecipare alla selezione di n° tre aiutanti fattorini con compiti di magazziniere e sostituto spazzino nel vostro pregiatissimo ente. Sono nato nel 1950, la guerra era finita da poco. Ho preso la licenza elementare in un vecchio edificio scolastico, c’erano ancora i manifesti con le bombe di aereo disegnate, e i bambini con le stampelle e la testa fasciata. Ho fatto la scuola media, e per non studiare latino mi iscrissi all’avviamento professionale. C’era il boom e volevo approfittarne. Dopo la licenzia media mi sono iscritto ad un istituto industriale, pare che al nord cercassero periti meridionali da ricoprire d’oro. Mi sono diplomato con il minimo, 36, non è bastato a fare niente. Allora ho deciso di fare l’università. Ma il ’68 ed il ’70 mi hanno portato da tutt’altra parte di quella che immaginavo. Come prendere un bus dal numero sbagliato. Magari il 62, che porta a S. Pietro…perdoni, non intendo divagare… dice16 LA LETTURA CI FA BELLI

vamo? ah, si. La laurea. Una brillante laurea in una delle tante inutili materie umanistiche, 110 e lode, mica bruscolini. Non è servita a un cazzo. Ops, volevo dire non mi è stata di grande aiuto. Ho provato a fare i concorsi, ho interi cassetti della scrivania di reliquie preziose: gentile signore, la ringraziamo per la sua domanda, ma al momento non necessitiamo ecc ecc… ho fatto allora lezioni private, supplenze in paesini disperati del Salento, di quelli che nemmeno gli abitanti sanno come si chiama. Poi ho litigato con un preside, sulla spinosa questione se bisognasse mettere la “R” dei ritardatari sul registro con l’inchiostro rosso oppure blu. Ho fatto l’operaio metalmeccanico, manovale. Per tre anni. A raschiare ruggine da enormi blocchi di ferro di cui non conoscevo l’uso e la destinazione. Vita di merda, posto schifoso, pochi soldi. Mi sono buttato nel sindacato, scioperi, picchetti, mazzate. Siamo riusciti a strappare le mense, i riposi, i controlli medici. Poi è morto un operaio che lavorava accanto a me. Ho deciso di andare via, non mi sentivo ancora pronto per quella solu-


zione ai miei problemi. Mi sono messo a vendere quadri falsi. Una ditta li pubblicizzava in tv, gli allocchi telefonavano, e noi portavamo a domicilio preziosi falsi d’autore, i miei preferiti erano Guttuso e Cascella. Gli affari andavano discretamente, ma poi la polizia fece una retata, i proprietari dell’azienda furono arrestati, e noi venditori rimanemmo senza lavoro. Ah, ho fatto le interviste per strada, naturalmente. Fermare le persone che ti scansano con un gesto, cercare di bloccarle con un pretesto per vendergli enciclopedie. Ho rimediato una sequela di mandate al diavolo che ancora me le ricordo. Ho fatto il rappresentante di birre in bottiglia, e nei locali era appena arrivata la birra alla spina, un disastro. Allora ho aperto io stesso un locale, un bar caffè letterario, volevo far leggere mentre si beve e viceversa. Esercizio difficile oltre misura, chi beve non legge, chi legge non sa bere. Allora ho aperto solo una libreria, fumetti e arti varie. Un disastro. Nel frattempo erano arrivati i call center. Sono andato a lavorare in diversi posti. In uno dovevo convincere le persone a comprare filtri per l’acqua del rubinetto che la rendevano azzurrina e frizzante, in un altro pacchetti di viaggi organizzati a Medjuogorie, e le guide erano la Koll e Legrottaglie. Grandi prenotazioni per il primo, ma con richieste irricevibili di approfondimenti. Per l’altro, meglio stendere un velo. Ho lasciato il call center, dieci ore al giorno per 300 euro al mese mi sembravano uno schiaffo a chi lavora 14 ore per 100 euro. Ho fatto l’acinino in campagna, si guadagnava bene, ma quando torni a casa non riesci ad abbassare le braccia, puoi solo avvitare lampadine per il resto della giornata. Anche con i pomodori d’estate non è male, ma è pieno di negri, rumeni, polacchi… Allora per qualche anno ho fatto “le stagioni”. Vai tre mesi all’anno in riviera, in estate, e tre in Trentino, l’inverno. Un lavoro bestia, non c’è orario, in compenso ti pagano poco. Ma si arrangiano turiste a carrettate, ed il gioco una volta tanto vale la candela. Vediamo, cos’altro… non vorrei dimenticare niente, gentile Ente… ah si, certo… ho provato a mettere su un agriturismo, coltivazione biologica naturalmente. Ci voleva un mare di permessi, ho fatto senza. Sono stato multato, ho dovuto chiudere. I ristoranti che avvelenano sono ancora aperti. Nel frattempo sono arrivate un sacco di iniziative per il lavoro ai giovani, ma io ho avuto la pessima idea di incominciare ad invecchiare. Ho provato con un mio amico a fare qualche viaggio, facevo l’autista. Mi ha detto che si stancava a guidare. Arrivavamo in certi posti, discoteche in genere. Scendeva, lasciava una borsa e tornavano a casa. Poi è sparito, mi hanno detto che è stato arrestato, non ho mai saputo perché. Ma so che molti ragazzi lo fanno, non è male come lavoro. I miei sono morti, con una

pensione da 500 euro non è che se la spassassero, fino all’ultimo hanno sperato che mi “sistemassi”. Peccato. Pensavo di mettermi a fare volontariato, ci sono in giro un sacco di associazioni, gli arrivano anche un bel po’ di soldi: niente, dice che sono troppo vecchio, ci vogliono i giovani per essere solidali con il prossimo. Nel frattempo ho continuato a fare domande e concorsi, dappertutto. Mi sono messo anche in graduatoria per una casa popolare, ma ancora non mi rispondono. Certo, l’età incomincia a farsi sentire. Questo vostro bando è la mia ultima speranza. Ho pensato che potrei essere utile almeno a pulire i cessi, le cucine, il giardino del vostro ente. Potrei andare in giro per la città a consegnare pacchi, a piedi perché non ho la macchina. Certo potrei essere investito, beccarmi un’insolazione d’estate e la polmonite d’inverno. Come fattorino e magazziniere farei la spesa per i dirigenti, e la porterei a casa loro naturalmente. Oddio, ora che non c’è più il sindacato dovrei stare ben attento a non ammalarmi. Mi buttereste fuori subito. Né a mancare di rispetto ai capi, si finisce in tribunale. Lo so, se dovessero mancare i contributi governativi mi tagliereste lo stipendio, così non potrei finire di pagare la macchina che mi sto decidendo a prendere. E non potrei allontanarmi per un caffè, quel nano maledetto ci osserva tutti. In compenso potrei fare gli straordinari la sera, pagati la metà perché c’è un tetto, ci mancherebbe... Insomma caro Ente, credo di essere la persona giusta per voi, il mio curriculum parla chiaro, è quello di milioni di persone, è collaudato. Ah, ho anche fatto un conto: ho partecipato dal 1969 in poi, a un totale di 2.250 manifestazioni di strada, ci cui 897 finite con tafferugli; ho collezionato 4368 ore di sciopero, e distribuito circa (qui non posso essere preciso) 350.000 volantini, di cui almeno un terzo direttamente ciclostilati da me; ho firmato per 30 referendum di cui pochissimi vinti; ho sempre votato, mai una festa; ho incollato 8.010 manifesti, e preparato 134 kilogrammi di colla liquida… più una serie di altre cose su cui preferisco sorvolare, ma che potrebbero tornare molto utili al vostro pregiatissimo Ente se qualche concorrente avesse bisogno di un intervento di persuasione o di dissuasione… Attendo vostre notizie, sperando in un cortese e positivo riscontro. Distinti saluti. Mario Rossi. P.s. Rileggo il curriculum prima di inviarlo. Una postilla: credo che la mia vita, per quanto minima, disgraziata e senza futuro valga infinitamente più del vostro Ente di merda e dei vostri profitti. Per cui mi pregio di invitarvi con tutta la forza che ancora mi rimane, poca, ad andare affanculo per l’eternità.

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MANIFESTAZIONI Francesca Maruccia

Avvenne. Fu nell’anno del Signore 1917, secondo i parenti di alcuni pastorelli che avevano portato le pecore al pascolo nella campagna portoghese e che, pare, ne vennero in diretto contatto. Altri che non amano le dietrologie dicono di avere non si sa che prove schiaccianti che la “Cosa” sia avvenuta dieci, o al massimo quindici anni fa. Addirittura, tre telefonate anonime provenienti da ricevitori collocati nella zona ovest del paese datano l’avvistamento all’altro ieri, localizzandolo in ambiente domestico. “Due giorni fa ha pranzato a casa nostra”, dicono. “Mia moglie le ha cucinato 300 grammi di pasta al pesto”. I filosofi tagliano corto e universalizzano: “È sempre stato così. È una questione archetipica”. Poi alla tv litigano in modo ingarbugliato sulle loro questioni ingarbugliate, sui tempi non coincidenti e ritornanti, sulle anime collettive e le malattie dell’epoca. Vegetariani a tavola e negli studi, a loro la carne non piace e cercano di disossare la vicenda, la mettono dappertutto - nell’archetipo e nel simbolo - in modo che non stia da nessuna parte, e se proprio devono dare un corpo alla “Cosa” che provoca la scorporazione di chi la incontra (e di chi pretende di dirne il nome), allora le danno un corpo sociale, che non ha intestini né vesciche e non produce scarti digestivi o urinari. Arriva però la telefonata da casa, e il mitomane di turno si preoccupa di riportare il discorso a terra: “È venuta a comprare le scarpe da me”, dice. “Mocassini indaco. Giusto dieci minuti fa”. Silenzio. Ci si chiede quanto possa essere andata lontano, la “Cosa”, con simili scarpe ai piedi. Si fanno i conti con la possibilità - e le conseguenze annesse - che la “Cosa” sia benestante e facoltosa, una con le conoscenze giuste. Ipotesi. Di certo c’è il fatto che tutti - conduttori, pubblico e filosofi - guardano l’aria davanti a sé in orizzontale, come se quello scampolo di ossigeno innocente fosse un letto da partorienti con disteso sopra un giro e mezzo di frase dalle cui doglie stesse per uscir fuori chissà che verbo. “Senta, - continua quello dall’altra parte - io qui ho lo scontrino dei mocassini!” Parla non si sa bene da dove. Se lo sentono arrivare sul cuoio capelluto e nelle orecchie, lo sentono in 3D, in dolby surround. Nessuno lo vede, ma i filosofi lo sentono bene cosa sta tentando di fare: li 18 LA LETTURA CI FA BELLI


vuole fregare. Vuol dare un paio di piedi alla “Cosa”. Sì, a quella cosa che i piedi degli uomini (e le milze, e tutto il resto) li fa sparire, lui vuol dare alluci, piante e talloni. Nell’inquadratura, a un certo punto, finisce il dottor Eisendorf, che fino a quel momento era rimasto in silenzio rispettando la scaletta degli interventi. Il dottor Eisendorf è studioso emerito di Heidegger e viene da un’università straniera di un paese impronunciabile, ma ai leggenti basti sapere che è un paese molto a nord, due civici prima della baita di Babbo Natale, nello stesso quartiere dove sorge il più grande peschereccio di merluzzi d’Europa. “No, no, qui si passa il segno!”, protesta il dottor Eisendorf, o meglio avrebbe intenzione di protestare, se non fosse per quella voce da biscia che si ritrova, una voce ossigenata come il ciuffo che gli venteggia sull’occhio destro, inadeguata a qualsiasi tipo di alterco e, per di più, voce da straniero, con le incertezze della grammatica e dell’accento che tolgono mascolinità anche al timbro e alle argomentazioni. Non potendo essere protesta di corde vocali, la sua diventa protesta gambesca, sì perché ciò che non ha nell’apparato fonatorio il dottor Eisendorf ce l’ha nelle articolazioni inferiori: un paio di gambe gommose ed estensibili, che ora per la verve si attorcigliano ai piedi in ferro battuto della poltrona stile liberty che le regge, imitandone i ghirigori floreali. Gliele guardano tutti, le sue gambe camaleontiche, curiosi di capire in che modo potrà mai slacciarle e ritornare a casa. Le guardano un po’ preoccupati, col fiato sospeso, aspettando lo scoppio, ma lo scoppio non arriva. Sono come i palloncini tubolari dei clown, queste gambe del dottor Einsendorf: che per quanto li attorcigli e li annodi e li manipoli e li premi, quelli non si rompono mai, e anzi prendono la forma di barboncini, di spade di Star Treck e copricapi alieni con antenne dall’andamento dei vermi da frutta. Non si capisce se la colpa sia delle gambe del dottor Eisendorf, che hanno innescato un vizioso processo di emulazione, o della dichiarazione di quello dall’altra parte del telefono, ma nei presenti cresce una frenesia fisica che si manifesta in fantasiose forme di ancoraggio alla carne: chi ne è provvisto affonda le mani nel lardo addominale come i mastri caseari nelle mozzarelle tirate su dal siero, mentre chi di lardo non ne ha si mette a darsi pizzichi sull’avambraccio o si gratta la forfora dalla testa. I più schiamazzano come bestie al macello. A rileggere i fatti ora, a distanza di tempo, l’aspetto clinico emerge con terribile evidenza: era la sintomatologia tipica, attestata in letteratura con abbondanza di casi. Sovraffollamento verbale. Agitazione motoria. Barcollamento della loquela prima del coma vocale. Quella sera tutti i presenti al Teatro Margherita erano lì lì per scorporarsi: la “Cosa” si era manifestata. Come sempre accadeva in quei casi, ci fu chi voleva acchiapparla per i piedi piuttosto che per altre parti del corpo, e chi, credendo solo al potere delle parole, le correva dietro per darle un nome, in modo che quella smettesse di essere la “Cosa” e diventasse una cosa ben precisa. Poi al minuto 17 e 17 decimi dopo il tassativo, come riporta la traccia video conservata presso l’archivio della tv di stato, si vide il conduttore che faceva un salto in avanti per gettarsi sulla notizia. Si vide lui e tutto il pubblico che muovevano le labbra con lo stesso incerto tic, quello tipico dei prescorporati. “Eccola, eccola!... È … ha...” Si favoleggia che alle estremità gommose del dottor Eisendorf furono visti dei mocassini di colore molto simile all’indaco. Finché - dopo il minuto 17 e 17 decimi post tassativo - non si vide più nulla, e anche la voce dall’aldilà tacque, che dopo aver emesso quello scontrino era già campata abbastanza. COOLIBRÌ 19


ALZA GLI OCCHI Omar Di Monopoli

Una coppia di uomini varca la soglia d’ingresso di una stanza d’albergo d’infima categoria: suppellettili impolverate sparse alla rinfusa, televisorino antidiluviano prominente al letto, una natura morta alla parete e un vago sentore di sconfitta a viziare l’aria. Il primo uomo è allampanato, il volto decorato da un paio di baffetti sbarazzini, il fare insopportabilmente untuoso. Mostra la camera al suo accompagnatore lodandone con dovizia d’altri tempi il rigore, la pulizia e la tranquillità e porgendogli infine con un’ampia voluta della mano le chiavi e il telecomando della tv; L’altro, quarant’anni, forse qualcosa in più, è vestito in maniera abbastanza anonima e ogni suo gesto trasuda tensione: accoglie i doni del suo anfitrione smorzando seccamente tutti quei salamelecchi: «va bene, va bene, non stia a preoccuparsi, starò qui giusto un giorno, forse due: il tempo di sistemare alcune faccende e poi farò ritorno a casa mia!». Quando il gestore dell’hotel - un inatteso sorrisetto luciferino sulle labbra - si è defilato scivolando all’indietro, il cliente accarezza con uno sguardo assente l’arredamento scabro della camera, imbambolato, poi scrolla la testa per mettersi a sedere sul letto e passarsi la mano tra i 20 LA LETTURA CI FA BELLI

capelli radi. Sbuffa. Il silenzio attutito della stanza sembra tramortirlo. Un silenzio che di lì a poco lo squillo di un cellulare lacera senza pietà. L’uomo reagisce al trillo con esagitazione e quando finalmente estrae l’apparecchio per pigiare il tasto di risposta, dall’altro capo giunge imperiosa una voce alterata: «…Ma dov’è finito? È da due giorni che la cerco: non è un comportamento corretto, il suo! Crede che scappare l’aiuterà forse a risolvere le cose?» Il cliente dell’albergo sembra prostrarsi, il telefonino gli sfugge di mano ripetutamente prima di riuscire a balbettare una qualche goffa giustificazione: «Mi spiace avvocato, davvero, sono costernato, è che il progetto cui stavo lavorando non è decollato e allora… » La voce lo interrompe bruscamente. «Non mi faccia perdere altro tempo e ascolti: se entro domani non paga il dovuto può dire addio al suo ristorante. Queste sono le regole e lei le conosceva perfettamente quando ha firmato. È la legge…» Il clik sonoro della chiusura della comunicazione azzera la tensione rilasciando l’uomo in uno


stato d’angoscia sempre più totalizzante, rigido sul letto, a guardarsi attorno disperato per poi, lentamente, abbandonarsi sul guanciale. Si tira il lenzuolo sulle spalle con un lamento e in breve sprofonda in un sonno simile alla morte. Ore dopo la camera galleggia nella tenebra più fitta. Un orologio al quarzo rosso lampeggia le tre di notte quando l’uomo spalanca gli occhi, svegliato da uno strano rumore: una serqua di tonfi ripetuti sulla sua testa, suoni attutiti, come di passi furtivi che si agitano da qualche parte lassù. Si china ad accendere la luce sul comodino rivolgendo gli occhi verso l’alto. Nota qualcosa, in un angolo del soffitto, una specie di riquadro che prima non aveva notato, quasi a delimitare il perimetro d’una botola che solo il gioco d’ombre scaturito dall’illuminazione notturna permette di identificare. La serie di colpi ha ripreso intanto a propagarsi, poi però, d’incanto, il rumore cessa. Incuriosito, l’uomo si leva dal materasso e si guarda attorno recuperando una sedia. Quindi, postala sotto il riquadro, vi s’inerpica cercando di raggiungere quella porzione di tetto mantenendosi in bilico sullo schienale. A fatica, l’uomo riesce a forzare la botola e a spalancarla. Uno spazio angusto e buio si profila nei meandri del soffitto. Quando, intimorito e guardingo, l’uomo arriva a infilare una mano oltre il bordo del riquadro, la sorpresa lo travolge. Muovendosi a tentoni, sotto i palmi avverte qualcosa e senza la più pallida idea di cosa si tratti la spinge verso di sé: un considerevole mucchio di banconote gli cade addosso svolazzando ai piedi della sedia. L’uomo è stupefatto. Guarda verso il basso, incredulo, scende dalla sedia e si mette a intascare gli euro avidamente, gettando gli occhi alla porta, alla finestra, poi di nuovo in alto. È un delirio. Un sogno. Un miracolo. Stende il denaro in fila sul lettino, eccitato come un ragazzino. Sono Euro. Un bel po’ di euro. Molti di più di quanti ne abbia visti negli ultimi anni. Scoppia a ridere senza controllo, la botola sopra di lui una bocca buia ancora spalancata. Poi, mentre un torrente d’interrogativi lo assale a tradimento facendogli dubitare del proprio senno, l’uomo torna a scrutare verso l’alto per scoprire che la botola è adesso nuovamente chiusa, perfettamente sigillata. Un po’ confuso, cerca di riguadagnare lo schienale della sedia, ma questa si spacca facendolo crollare di peso sul pavimento.

Dall’esterno giunge la voce del gestore: «Che succede lassù?» L’uomo resta carponi, immobile, cercando di non far rumore. Aspetta solo che il silenzio della notte torni ad ammantare la scena. DISSOLVENZA IN NERO STACCO. Il giorno dopo l’uomo è sulla porta della stanza d’albergo, felice come una pasqua e con una sporta piena di roba in mano. Il gestore dai baffetti sbarazzini lo incalza dall’atrio col suo solito fare appiccicaticcio: «Stanotte ha dormito poco, vero? Mi è sembrato di sentire dei rumori…» L’uomo tronca la discussione con un sorriso forzato, assecondando l’altro e augurandosi solo che torni a brigare con la sua ramazza. «Che fa? Lascia la stanza?», chiede ancora il gestore. «Cosa? No, per ora no… glielo faccio sapere presto, stia tranquillo!» Quando il gestore si ritira tra le mura della sua postazione a pianterreno, l’uomo varca la soglia della sua camera, deposita la spesa sul letto e poi torna fuori a prelevare una piccola scaletta che ha comprato in ferramenta. Il cellulare si mette di nuovo a suonare di prepotenza. «Avvocato», strilla tutto gasato nel ricevitore, «…allora siamo a posto così, vero? Posso considerare quell’incombenza come una faccenda chiusa, vero?» Dall’altro capo del telefono giungono rassicurazioni di circostanza, poi in pochi secondi la comunicazione è finita. L’uomo intasca il telefono, agguanta un cracker dalla sporta della spesa e infine, masticando rumorosamente, si mette a guardare il tetto cogitabondo. Di lì a poco ha aperto la scaletta, l’ha posizionata in direzione del riquadro sul soffitto e vi ci è salito sopra comodamente. Prova a picchiettare sulla botola come aveva fatto la notte precedente, prima con delicatezza, poi con sempre maggiore irruenza, sbraitando e smadonnando per l’inutilità di tutto quel lavorio. Sfinito, ridiscende dalla scala e si aggrappa a una bottiglia di liquore prelevandola dalla sporta sul letto. Accende il televisorino con il telecomando e si mette a guardare senza interesse un western, lanciando di tanto in tanto occhiatacce cupe in direzione della botola. DISSOLVENZA IN NERO. RUMORI DI SPARI ALLA TV. STACCO. È di nuovo notte fonda quando i tonfi cadenzati tornano a destare l’uomo dal sonno. Stavolta acCOOLIBRÌ 21



cende la luce sul comodino con la prontezza d’un fondista, quasi si fosse aspettato quei rumori da un momento all’altro. Scalzo ma perfettamente sveglio, l’uomo abbandona il letto per scattare su per i pioli della scaletta e raggiungere l’altezza della botola. I rumori sono nuovamente cessati di botto, ma il riquadro sul soffitto adesso sembra più lasco. Con uno spintone, l’uomo apre la botola sentendosi il cuore martellare nel petto. Stavolta arriva agevolmente a infilare anche la testa nel vano oscuro. Con trepidazione, scopre che ad attenderlo oltre l’orlo della botola vi sono numerose altre banconote, impilate come piccoli grattacieli del Monopoli. A bocca aperta, intasca il denaro mantenendosi a malapena in equilibrio sul trespolo, poi, costretto dalla mole di banconote a scendere a depositarne un po’, non appena rimette piede sul pavimento si accorge che, misteriosamente, la botola si è nuovamente richiusa, una cerniera ermetica sopra di lui. DISSOLVENZA SULLO SGUARDO STRALUNATO DELL’UOMO, UNA MONTAGNA DI SOLDI TRA LE BRACCIA STRETTE AL PETTO. C’è di nuovo un western, alla tv. Il rumore degli spari dei cowboys frammisto agli ululati di guerra dei pellerossa inonda la stanza. La bottiglia di liquore è vuota, poggiata di traverso sul comodino. Il trillo del telefono squarcia il concerto catodico di «Bang! Bang!». L’uomo si aggrappa all’apparecchio parlando in maniera un po’ strascicata: «Avvocato carissimo, è lei! Ma certo. Sono disponibilissimo a quell’affare. Macché, può avere fiducia: ci penso io, non abbiamo bisogno di cercare nessuno, davvero, nessun altro socio. Penso a tutto io, ho la liquidità per farlo… Mi creda! Sono un uomo ricco, adesso, e se accetta di collaborare con me raddoppierà anche il suo conto in banca…» Troncata la telefonata, l’uomo fissa il cellulare pensieroso e poi, facendosi coraggio, si mette a digitare un numero. Attende in linea qualche istante, in apprensione, poi biascica svelto nel ricevitore: «Amore, sì, non riattaccare. Giuro, le cose stanno cambiando. No, è così, credimi: ho fatto i soldi. Molti soldi. Macché rubati e rubati, fidati di me e torneremo a essere felici, ti prego non lasciarmi…» Qualche minuto più tardi l’uomo, un po’ provato dalle ore passate in solitudine, al chiuso, a bere e farneticare, sistema ancora la scala sotto la botola e armato di una picozza reperita chissà dove si

mette a colpire il soffitto con violenza, cercando di forzarne l’apertura con macchinale, rassegnata metodicità. La fatica risulta ancora una volta del tutto inutile mentre le urla del gestore tornano a redarguirlo dall’esterno: «Allora? Vogliamo farla finita o devo chiamare la polizia?» L’UOMO È COMPLETAMENTE MADIDO DI SUDORE. SBUFFA SFINITO. DISSOLVENZA. STACCO. Ore dopo l’uomo se ne sta steso lungoni nella penombra, sul letto, guardando come ipnotizzato il punto in cui s’intravede il perimetro della botola. Attorno a sé una cornice di banconote disseminate alla rinfusa. Il televisorino frigge puntolini bianchi e neri senza fare rumore salvo non un sottile fruscio elettrico. Calando dal nulla la sequela di tonfi si ripropone in maniera disarmonica e ripetuta come nelle precedenti nottate. Stavolta sembra intessuta anche di alcuni inquietanti sussurri sovrannaturali. Ma l’uomo resta disteso sul letto, imperturbabile, smuovendo solo lievemente lo sguardo in direzione dei passi sulla sua testa come se fosse la cosa più normale del mondo. All’improvviso la botola si spalanca con uno schianto, da sola. Un fascio di luce denso di pulviscolo si proietta verso l’interno come se un piccolo astro fosse ubicato lassù sul soffitto. All’uomo pare di sentire addirittura un richiamo celestiale. Si solleva come in trance, dirigendosi senza alcuna fretta verso la scaletta illuminata dalla luce. Sale gli scalini lentamente, ora la luce si è fatta viva, pulsante. Quando l’uomo ha infilato la testa nell’antro, uno schianto giunge a mozzare il richiamo angelico e l’uomo viene risucchiato violentemente nella botola. Il fascio luminoso s’interrompe, un ruggito sommesso ingolfa la scena. La botola si chiude autonomamente di botto. DISSOLVENZA IN NERO. STACCO. Di nuovo il gestore che spalanca la porta della camera. È mattina, gli uccelli intonano un crescendo radioso là fuori. Alle calcagna del gestore c’è un omino di mezz’età, vestito anonimamente. L’uomo coi baffetti sbarazzini gli mostra la camera mettendosi a lodarne con dovizia d’altri tempi il rigore, la pulizia e la tranquillità, poi gli porge le chiavi e il telecomando della tv; l’altro accoglie i doni del suo anfitrione smorzando seccamente tutti quei salamelecchi: «va bene, va bene, non stia a preoccuparsi, starò qui giusto un giorno, forse due: il tempo di sistemare alcune faccende e poi farò ritorno a casa mia!». COOLIBRÌ 23


TORINO BLUES Mariagrazia Veccaro L’aveva conosciuto all’università, magrissimo, un cappottone largo, rosso e nero, che sembrava lo aiutasse, ostinatamente, a rimanere per terra, l’aveva trovato appoggiato al muro, di fronte al bar, con gli occhi fissi sugli altri – ma non con cattiveria, no, piuttosto con una curiosità lontana e precisa, come uno scienziato che studia i suoi animali al di là del vetro e che trova la soluzione alle sue domande nei gomiti sul tavolo, nel chiacchiericcio sul bordo di un caffè, il piede nervoso della ragazza in nero che ticchetta aspettando qualcuno. Marta gli aveva chiesto dell’aula di geografia, lui disse “andiamo”, lei l’aveva seguito, lui si era lasciato seguire. Poi c’erano state le feste in Ateneo, a Torino, i compleanni, i nuovi amici, gli amici degli amici, il ripasso notturno prima di un esame, di due esami, la pizza a domicilio che alla fine arrivava sempre fredda, il mal di testa delle 2 dopo quattro pinte in quel pub del centro, di sabato, i concerti, il tempo. Luigi contava i soldi per arrivare a fine mese, 24 LA LETTURA CI FA BELLI

sistemava in fila le monetine come se muovesse un abaco e alcune sere passava dalle scatolette di tonno all’aria, altre apriva i barattoli di sugo che erano arrivati per posta qualche ora prima, un cartone dalla Puglia pieno di formaggio, confetture, zucchero, con quelle buffe etichette “richiudere”, “conservare in frigo”, “senza cipolla”, “con cipolla” , quel cartone come se fossero delle fotografie d’infanzia, l’abbraccio della madre, apriva i barattoli di sugo e affondava il pane, da solo, con la fame dei bulimici e quella rabbia da diseredato che lo aiutava a ripulire con le fette il vetro così in fretta da far bruciare lo stomaco, Luigi che quando gli altri parlavano rideva, per confondersi, per non permettere a nessuno di aspettare che anche lui partecipasse musicando gli aneddoti da liceo, le storie dei suoi viaggi, rideva e poi, d’un tratto, guardava fuori e la pupilla si diluiva a macchia nera, si allungava come per divenire barriera tangibile tra quel ridere impostato da palcoscenico e ciò che la malinconia nascondeva, e quelle volte


che veniva preso in giro per il suo accento marcato e fingeva che non gli importasse alzando una spalla, continuava a rotolarsi la sigaretta e solo Marta capiva che in quel ghigno c’era intrappolato qualcosa, dei sassi tra i denti , e un po’ le faceva paura, Luigi che la mattina si preparava sempre la moka più grande. Torino la notte se li mangiava entrambi, ma lentamente, come fanno le matrone stanche e oramai lontane dal loro languore antico e lungo il Po, camminando con in mano un cornetto caldo, Luigi raccontava dell’aria che si sente seduti in riva al mare, dell’assordante, violento grido dei grilli in paese, delle lucciole che da bambino intrappolava nelle lattine e delle angurie più succose e fresche, dell’odore di carne grigliata che si sentiva fin oltre due case lontane, poi chiudeva gli occhi , due secondi, li riapriva, come infastidito dai propri pensieri, finiva il cornetto, si girava intorno per cercare un cestino e intanto scherzava sulle superstizioni della Mole, sul nuovo proprietario del kebab all’angolo, ritornava da Marta. In una di quelle sere a cena da amici si baciarono, la porta della camera da letto aperta a metà come per lasciare spazio alle possibilità e lui disse “andiamo”, lei l’aveva seguito, lui si era lasciato seguire. Marta stesa sul letto, nuda, leggera come sempre, sfacciata e allegra perché nulla effettivamente l’aveva mai turbata, perché ad alcuni la vita li sfiora ma non li segna e Luigi che per la prima volta abbandona quel mutismo testardo, quelle vocali mozzicate, quelle frasi brevi come sentenze, quelle risposte che sembravano quasi sempre appunti di racconto andato, non-detti che si sforzano di fare capolino per strada travestiti a maschera e parla: “Tu non conosci le estati del Sud” le aveva detto mentre si arrotolava una sua ciocca tra le mani e lei vedeva arricciarsi il suo biondo attorno un grissino ineguale. “L’estate ha il colore rosso delle ciliegie, delle pietre morte che agognano per terra mentre il sole le schiaffeggia sulle punte, ematomi sull’asfalto morto. E poi i suoi raggi si distendono tra la gramigna tenace e gli ulivi che si rincorrono nei finestrini di un treno, e non c’è angolo in cui queste lucertole di cielo non s’insinuano con l’invadenza dell’innamorato respinto, violano gli interstizi per corrodere gli spazi, per diventare esse stesse campi e erba,un abbraccio, una morsa, per riempire le estensioni, bloccare la liberazione dalla stretta, braccare per non perdere neanche un lembo ad ombra di presenza che tenta la fuga e si nasconde. Il sud, in estate, sono le mie labbra screpolate, toccale amore,

sembrano piaghe di sete e stanchezza, sono linee decise come se ogni cosa, quaggiù, avesse una traiettoria segnata, persino una bocca poggiata su una faccia. E la mia gente la riconosco dalle cicatrici dell’arsura e dal fiato mozzo di vino e rassegnazione impastata, perché non chiedono acqua ad una terra disidratata e povera di pozzi, perché non sperano nel vento quando tutto rimane così uguale da cristallizzarsi nella cera d’agosto. Amore guarda i miei occhi, sono del mio paese accaldato, della rabbia del divincolarsi dalla presa e della sua sconfitta ad arrendersi al fuoco e ai falò di nulla. Anche in questa stanza dove tu cerchi altre coperte per burlarti del freddo e qui vicino al camino ti sfreghi le mani per cancellarci del bianco, i miei occhi sono di Sud che ci contorce nel caldo come due corpi che si uniscono – un’entrata e una spinta violenta – sono del colore delle mie radici più nere che ti legano per caviglie ai sassi mentre tu tiri una corda dal Nord credendola salvezza. E la mia gente che chiama ancora per nome, che riconosce le facce e ne ricorda le storie, e la piazza deserta al pomeriggio presto, solo ogni tanto risate di cani e piatti che applaudono nel silenzio del sonno sudato, e il campanile di una chiesa che ciondola con i suoi rintocchi strascicandosi per le strade, e le case dai calcinacci disfatti e le imposte a metà sbadiglio, e due bambini che vanno a mare, un vecchio che trascina un solo piede, odore di carne e pranzo su di un muretto a secco, di sale e carnagioni più sporche su una finestra che parla come una radio accesa.” “Amore vorrei parlarti di me” e lui intanto le si era avvicinato, sfregando anche le sue mani sopra la fiamma, il suo naso rosso sembrava buffo come uno scherzo,e una sciarpa azzurra da legare con un altro giro intorno al collo “vorrei raccontarti perché sono così, come mai soffio sulle mani in questo modo per riscaldarmi o perché in questa città mi sento sempre, nonostante gli anni, un ospite di passaggio, ma dovrei raccontarti dove sono nato, cosa ho visto, odorato, sentito, ma, bambina mia, parlare del Sud a chi non è cresciuto tra le sue estati è come spiegare l’andatura naturale del tempo a chi ha sempre vissuto per altri corsi e forme. I raggi d’estate laggiù e la loro morsa e tu che ne conosci bene le dita e solo tu, nel Sud, che ovunque andrai porterai sempre quei lividi sul braccio.” - Perché me ne parli ora? Così Luigi sorride –non ride- sorride, per metà. Ed è di nuovo silenzio in una Torino che protegge e giocherella con solitudini segrete.

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SANGUE DEL MIO SANGUE Mauro Maraschi

Mio padre mi lanciava addosso gli zoccoli Dr Scholl’s. Era il suo sport preferito. Per il resto, fino ai quarant’anni, si concedeva ancora qualche partita domenicale di calcio a cinque. Raccontava che da piccolo era talmente povero che non si poteva permettere nemmeno le chewing-gum e che, come surrogato, masticava per settimane il tappo del dentifricio. Oppure ricordava di quando, ai tempi del nonno, si usava appendere un’aringa sul tavolo e strusciarci sopra un pezzo di pane, per insaporirlo. Quell’aringa poteva stare lì per mesi. Mio padre mi parlava di questa povertà remota con un’inspiegabile nostalgia. Eppure faceva di tutto affinché la nostra non sembrasse una famiglia povera. Io, per esempio, ho sempre avuto tutto quello che volevo. Per ottenerlo dovevo faticare parecchio e accettare di buon grado almeno un ceffone, ma questa prassi mi è sempre sembrata conveniente. La domenica lui e mamma preparavano pranzi talmente abbondanti che ci si tirava avanti fino al mercoledì (in realtà una cosa tipica di molte famiglie meridionali). Per risparmiare compravano spesso le cicale di mare, che io odiavo perché sembravano scarafaggi giganti. Però ci veniva un gran sugo. Verso i quindici anni mi convinsi che ero stato adottato. Mio padre era alto e spigoloso, sguardo sanguigno, un fascio di muscoli. Io invece ero burroso e non parlavo il dialetto. Non riuscivo a trovare somiglianze. Poi, quattro anni dopo, il mio corpo cominciò ad affilarsi e indurirsi. Ai tempi non potevo saperlo, ma avevo appena intrapreso quel processo che mi avrebbe trasformato in un clone di papà, e non solo fisicamente. Nell’arco di una decina d’anni avrei persino contratto la sua stessa ipocondria. 26 LA LETTURA CI FA BELLI

Ricordo quando, scosso dalle analisi del sangue, cominciò a limitare l’uso di burro, olio e sale, nonché la varietà delle portate. In breve tempo si ridusse a mangiare solo fagioli, patate bollite e riso in brodo, ovvero il peggio del paniere del dopoguerra, il che gli procurava la solita piacevole nostalgia. Inoltre, considerando lo sport come un potenziale preambolo all’infarto, accantonò non solo il calcetto, ma persino il lancio degli zoccoli Dr Scholl’s. In realtà quegli zoccoli non mi colpirono mai, e non certo per un problema di mira: mio padre mi avrebbe mai torto un capello e il suo era solo un goffo approccio educativo. Anche perché io l’ho visto, mio padre, darle di santa ragione a un tizio, e posso assicurare che al confronto i ceffoni che dava a me erano carezze. In compenso, però, era geloso. La prima volta che portai a casa una compagnetta la fece scappare a gambe levate, non sto qui a raccontare come. Io, per pigrizia, non ho più frequentato nessuna per tutta la durata del liceo. Ho superato la pubertà insieme a Super Mario, sul Nintendo 64. Poi, al primo anno di università, ho conosciuto Nadia. Non so cos’è scattato, ma ho deciso che non volevo rinunciarci. Così, per evitare discussioni in famiglia, l’ho messa incinta. Sapevo che papà condannava l’aborto e avevo fatto due più due, ma ottenni il risultato sbagliato.


La notizia delle nozze, infatti, girò rapida come un’influenza asiatica: avevo appena compiuto vent’anni e per i parenti quell’evento era un commovente tuffo nel passato, quando ancora si usava sposarsi in giovane età. Per evitare voci su una gravidanza prematrimoniale, mio padre li informò tutti, in anticipo, che Nadia era piuttosto robusta. Per diversi mesi sembrò felice. L’idea di diventare nonno gli piaceva. Poi, però, la sera prima della cerimonia, sbottò senza motivo, durante la cena. Urlò e fece volare piatti e posate, accanendosi su mia madre. Alla fine sbatté la porta e non tornò a dormire. Il mattino successivo si presentò puntuale al matrimonio, in un impeccabile completo turchese. Per tutto l’evento sfoggiò il sorriso più brillante della sua carriera genitoriale. Non ho mai saputo dove abbia dormito. Una settimana dopo mi confessò che era indagato con l’accusa di molestie sessuali ai danni di una minorenne. Mi assicurò che quella sua alunna l’aveva istigato e che lui era stato al gioco, ma senza mai allungare le mani. Io sapevo che diceva la verità, che non avrebbe fatto nulla che potesse sputtanarlo agli occhi del rione. Lui aveva sempre agito al fine di “evitare le malelingue”, arrivando persino a convincere me e Nadia a sposarci pur di non far parlare il circondario: figurarsi se aveva molestato una ragazzina! Quando l’accusa fu confermata cominciò a dimagrire a vista d’occhio: la sua dieta da paniere del dopoguerra, unita allo stress della causa, lo ridusse a uno scheletro. Finì per litigare col macellaio, col fruttivendolo, col portinaio e persino con i passanti, convinto che lo squadrassero dall’alto in basso, che dicessero in giro che era un pedofilo. Divenne intrattabile. Finché mia madre, esasperata, non fece richiesta di divorzio. Io decisi di stargli vicino. Lo accompagnavo dall’avvocato e facevo da mediatore quando tra lui e mamma montava la tensione. Eppure il nostro rapporto peggiorò. Più mi vedeva disponibile più mi credeva mosso dalla pietà, una cosa per lui mortificante, inaccettabile, specialmente da parte di un figlio. Alla fine litigammo furiosamente. Nadia ed io, ancora senza una casa nostra, ci stabilimmo dai genitori di lei. Fu da lì che assistetti telefonicamente a tutte le fasi del processo, dall’udienza preliminare alla condanna. Durante quell’anno la

mia relazione si sfaldò di pari passo con gli argomenti della difesa: Nadia non riusciva a capire perché continuassi a difendere un pedofilo. Il fatto che fosse “sangue del mio sangue” non costituiva, per lei, un’argomentazione valida. Dopo altri due anni non mi rimase più nulla. Papà era agli arresti domiciliari, mamma stava per trasferirsi a Santarcangelo di Romagna con l’avvocato che le aveva fatto vincere la causa di divorzio e Nadia non mi permetteva di vedere Francesco. E io, che a Santarcangelo di Romagna non ci volevo andare, ero davvero nella merda. Poi, miracolosa, arrivò la soluzione. E partii per quel lungo viaggio che mi avrebbe condotto in Costa Rica a gestire un ostello. Sono trascorsi nove anni da allora, l’ostello è fallito, sono tornato in città. Nadia si è risposata. Non era ostile al telefono, anzi, credo sia felice di avermi lasciato: il suo uomo è ricco e li tratta da pascià. Eppure, dice, Francesco è un preadolescente problematico. Ecco perché da mesi, piuttosto che affrontarlo, preferisco far visita ad amici che si sono dimenticati di me, che non riescono nemmeno a fingere un sorriso. Non li biasimo, dopo nove anni senza una notizia. Se in questi anni non ho mai contattato nessuno, nemmeno mamma o Nadia, è stato perché non volevo recidere i contatti con la mia vita precedente, forse per illudermi che mio padre fosse una figura mitologica. Oggi me ne pento, perché non si può rinnegare il padre, che è sempre e comunque sangue del tuo sangue: ho fatto tutto questo per niente. Poi, però, succede questa cosa. Sto camminando verso il monolocale, di ritorno dal municipio, quando me lo ritrovo davanti: stravaccato sul davanzale della vetrina della Libreria Mondadori, copre con le spalle la pila dei best-seller. Accanto a lui due buste rigonfie e un sacchetto con una bottiglia. Sotto lo stivale destro, un cartello illeggibile e un piattino con pochi centesimi. Al piede sinistro, invece, uno zoccolo Dr Scholl’s. Ho uno svarione, poi un ghigno isterico. Quindi razionalizzo che si tratta una coincidenza grottesca, irrilevante. È vero, gli somiglia vagamente, ma si tratta di suggestione. Sto per andar via quando qualcosa mi trattiene, qualcosa di più tenace della semplice curiosità, ma soprattutto di più sudicio: è la mano del barbone, che mi tira con forza la manica della giacca. Una ventata di alitosi e piscio m’investe con l’impeto di uno tsunami. Mi libero con uno strattone deciso, digrignando e lasciandomi persino scappare un “evvaffanculo”. Lui si sfila lo zoccolo e lo brandisce minaccioso. Papà, penso. E mi metto a correre più forte che posso. COOLIBRÌ 27


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IO PER TE Giuseppe Braga alla (mia) grace la terra girò per renderci più vicini, girò sul suo asse e su di noi finché finalmente ci ricongiunse in questo sogno Eugenio Montejo

Io per te rimarrei me stesso ma all’occorrenza cambierei, per te questo e altro, ci mancherebbe Per te prenderei lezioni da un trasformista e diventerei ogni giorno un uomo diverso Ma tu lo sai? Io per te andrei persino da mariadefilippi. Ma lo capisci? Giuro! E poi, trasformismo per trasformismo, mi farei donna per diventar la tua migliore amica. Ore e ore al telefono e shopping compulsivo, confidente e intima e sodale e, se servisse, pure un po’ pettegola Per te imparerei a cucinare piatti strabilianti saporitissimi semplicemente formidabili Io per te cambierei genere letterario, scriverei soltanto romanzi d’amore. Racconterei la nostra storia. Con svariate sfumature. All’infinito, hai detto niente. Che poi, vedi mai, magari ci guadagno pure di più, ecco, quello è un genere che tira parecchio, si sa Imparerei, per te, solo per te, tutte le poesie di Prévert a memoria Te le reciterei in bilico su di un filo, folle equilibrista. Una corda tesa a strapiombo sopra un dirupo, col mare in tempesta. Rende molto più l’idea, vero? Per te mi taglierei i capelli, ‘fanculo Sansone, i filistei e tutti i classici greci Per te diverrei contadino o poeta o broker o pizzaiolo, persino bagnino sulla riviera romagnola Per te non toccherei mai più una bionda (intesa come birra e non solo) Per te non mi toccherei più Per te ingrasserei come un grosso grasso maiale, o, se tu lo preferissi, resterei a digiuno per un mese intero, altro che Pannella o Bonino, per davvero, dico! Io per te potrei anche darmi all’omosessualità, guarda cosa mi spingo a dirti Io per te davvero andrei da mariadefilippi, sai? Ci sto pensando, sto prendendo in seria considerazione l’intera faccenda

Oppure, per farla più breve, mi vestirei da postino e ti verrei a suonare. C’è posta per te! E poi, dopo le domande di rito, la consegna della busta, ecc., uscirei dal protocollo, ti prenderei e ti porterei via. In bicicletta, sì, ti porterei via tenendoti sulla canna, ah! Io per te cambierei tutti i finali, perlomeno quelli che a te non piacciono Per te cambierei sempre canale. Anzi, di più, per te diventerei direttamente un telecomando. Il tuo, così lo potresti toccare e schiacciare e digitare e carezzare a piacere Per te diverrei luna. E pioggia e tramonto. E stelle cadenti e sogni nascenti Per te brucerei nel sole. Un bell’arrosticino tosto tosto di carne abruzzese Ogni mattina, io per te, ti preparerei la macchinetta del caffè e sfornerei brioche calde e fragranti Io per te smetterei di dire bugie. Almeno per un giorno, che senza bugie, che vita sarebbe, dai! Io per te mi prenderei un gatto. Anche un cane. E un pesce rosso. E un canarino. E una tartaruga Per te potrei cominciare a fumare, ma solo poi per poter smettere, dicendo che è stato merito tuo Io per te butterei giù la mia casa e ne rifarei un’altra, più accogliente spaziosa luminosa e Per te scaverei a mani nude, nella terra nuda, alla ricerca del fuoco, scaverei fin quando non sarai tu a dirmi di smetterla. E non importa se le dita sanguineranno e se le unghie si spezzeranno. Il sangue, quando si ama, va messo in conto di perderlo Io per te circuirei Maurizio Costanzo. Ma che hai capito. Solo per avere il numero di telefono di Maria. Oh, mariadefilippi!, già me la vedo, quando, cartellina in mano, con la sua voce rauca, comincia a leggere l’incredibile storia di… uh, ma è la nostra! Oh mamma mia! Io per te infrangerei il codice della strada, ma farei attraversare le vecchiette in difficoltà, anche se non si trovano sulle strisce Un po’ guascone un po’ boy scout. Un po’ bohemien un po’ pantofolaio. Un po’ dandy ribelle un po’ dipendente comunale. Un po’ beat dissoluto un po’ neomelodico. Non so se ho reso l’idea Ma tu prova a mettere insieme Allen Ginsberg con Gigi D’Alessio e vedi un po’ che succede Io per te… ho visto le migliori menti della mia generazione… Aahhh! Aahhh! COOLIBRÌ 29


Come che cos’è! È L’Urlo! Io per te non avrei più amici. Ma, al contrario, diverrei l’amico di tutti Io per te mi farei frate. Oppure monaco buddista. O magari eremita. L’ascetismo, tra l’altro, come concetto astratto, m’è sempre piaciuto Io per te chiuderei gli occhi. Stringerei i pugni. M’inginocchierei alternativamente davanti a Santa Rita e a San Giuda Taddeo, i casi disperati non mi spaventano. Chiederei la grazia, mi pare scontato Mi amputerei un dito (il mignolo sinistro, però, che è il più inessenziale, dai) Per te scriverei canzoni. E poi te le canterei sotto la finestra, in quelle notti chiare illuminate dalla luna piena. Intonerei forte a squarciagola sfidando le secchiate d’acqua, e chissà cos’altro, dei vicini Per te mi farei internare. Un bel sanatorio, vista mare possibilmente Per te farei a piedi il giro del mondo. Un po’ esagerato forse, sì. Diciamo che potrei cominciare col giro dell’isolato Per te diventerei manesco, ma anche no. Coi bulli che si danno le arie, senz’altro sì Per te spaccherei il capello in quattro. Non so che vuol dire, ma lo farei Io per te mi travestirei da Sergio Cammariere Ma come perché? Perché così potrei cantarti canzoni d’amore molto parecchio ispiratissime! Io per te andrei a X Factor. Così mi vedresti tutti i lunedì. Dico lunedì a caso, che non conosco la prossima programmazione autunnale di Sky. Dacci dentro col televoto, però, mi raccomando! Io per te cosa non farei per amarti… lo ammetto, è di Sergio, ma è come se fosse mia Per te abbatterei ogni barriera razziale religiosa culturale generazionale classista sessuale Soprattutto l’ultima che ho detto Per te, io, limiterei all’essenziale la mia schizofrenia. Mica così facile, ma mi ci metterei d’impegno Diverrei complicato, ma, nel caso lo fossi troppo, mi semplificherei molto parecchio Io per te, sono uno che si adatta, io, soprattutto se dovessi farlo per te, non so se s’è capito Donerei il mio sangue, sì. Pure lo sperma, se servisse Per te ringiovanirei, tornerei bambino per farmi accarezzare i capelli dalle tue mani Io per te invecchierei precocemente, ammesso non lo sia già, per poter essere accudito e assistito (e non secondariamente per toccarti il culo, da buon vecchio pervertito!) Io per te, vivrei solo per te, e penserei a me, eventualmente, solo se me lo ricordassi tu Per te perderei tutto, ogni cosa, materiale e non, solo per poterti ritrovare Io per te perderei la faccia 30 LA LETTURA CI FA BELLI

Io per te perderei la brocca Io per te andrei a letto con mariadefilippi! A fin di bene, prendilo come sacrificio necessario. Per poter andare in trasmissione questo e altro Apriamo la busta? Io per te mi innalzerei all’ennesima potenza Imparerei le divisioni a tre cifre i calcoli statici la scienza delle costruzioni la fisica quantistica la termodinamica applicata Io per te non accenderei mai più la luce. La mia luce saresti tu Per te imparerei finalmente a memoria i nomi di tutti i personaggi di Un posto al sole, anche quelli secondari, incluse le comparse Per te vivrei ogni giorno come fosse l’ultimo e progetterei la vita come se dovesse durare in eterno Intensamente molto parecchio assai appassionatamente Per te, per me, farei tutto come fosse un gioco, mai per gioco Ricominciamo, gridava quel tale Perciò dunque ti dico, cominciamo di nuovo, col prezioso patrimonio che solo noi due custodiamo Io questo concetto piuttosto semplice e assai banale, ecco, l’ho elaborato espressamente per te Che non son mica scrittore per niente, io, uh! Per te aprirei parentesi all’infinito, purché l’infinito fossi tu Per te, credimi, andrei contro natura e mi leggerei i libretti d’istruzione di ogni elettrodomestico Per te mi farei venire il pollice verde. Pianterei piante e non ti pianterei mai Per te resterei sempre nudo. Coi sentimenti e le emozioni ben in vista, per nulla nascoste Per te sarei marito e padre e figlio e fratello e sorella e zio e nipote, se preferisci pure cugino Per te studierei il napoletano, inteso come linguaggio, sia parlato che scritto Per te mi lancerei nel vuoto. Bungee jumping, yeaaahhh! Per te, io, farei pazzie, uè, pazzierei, uè uè! Per te mi metterei in auto e ti raggiungerei, ovunque tu fossi Anche ottocentoventotto chilometri settecentotrentadue metri e spicci di centimetri in una notte Per te m’inventerei le ruote e mi trasformerei in autocarro. O in auto sportiva. O in bicicletta. Anche un triciclo, guarda un po’. O motocicletta, perché no, 10 hp, tutta cromata, è tua se dici sì Io per te aspetterò e aspetterò e aspetterò. Mai avuta fretta, io. Son paziente di natura, dico davvero Io per te le farei, tutte queste cose qui (e altre infinite inenarrabili cose), io solo per te le farei! E sai perché? Semplice, perché tu sei al centro esatto dei miei pensieri. E lì, esattamente lì, per sempre resterai


UCCELLI DI PASSO Benedetta Longo

del suo uomo (suo da troppo tempo, da troppe rughe) e l’altra tra il pelo caldo e rassicurante di un enorme gatto nero; allucinata e sconvolta camminò per anni con occhi vitrei e insondabili finché un gitano esile come un fil d’erba la prese per il polso urlandole di non aver paura, di guardare ciò che aveva intorno e di ridere dello strabismo comune! La fece correre e cadere nel vento soffocante di agosto, tra gente schifata da tanta scomposta allegrezza e indignata dall’animalità del passo; la portò lontana da sguardi ipocriti, madida di sudore la strinse a sé, le chiese di continuare a guardare, di averne il coraggio, e scappò dalla sua donna troppo lontana e legata per lui. Da quando comprese la propria vocazione all’instabilità si consacrò a essa, non ebbe più un nome, battesimo fu la musica... o meglio l’amore per un uomo e per la sua chitarra. - Chi sei? - Sono poco più che musica... - Come fare a non amare la musica? ...e con la leggerezza con la quale si sale su un’altalena lo baciò, baciò un uomo che non sarebbe mai stato suo, perché la musica è di tutti, anzi, non è di nessuno. Più turbato dal vedere le sue sei corde tra le mani di qualcun altro che la sua donna tra braccia sconosciute, prendeva l’amore così, come vento, senza sensi di colpa e con la passione che al momento poteva donare. Un atteggiamento nascosto agli occhi della morale, sicuro, sì, della sua scelta, ma troppo codardo per non mascherarla con la civile convivenza con una donna perfetta (perfettamente cieca), cara e inconsapevole. Foto di Asheli on Flickr.com

Aveva una natura volubile, da volatile, un uccello di passo. Riusciva a soffrire indicibilmente per amori che non aveva agognato o scelto; si straziava nello scappare dopo essersi fatta desiderare e baciare ché non avrebbe sopportato le carezze stanche del tempo... Credette di dover impazzire quando comprese di non potersi immaginare vecchia e calma, dinanzi a un focolare, con una mano tra le mani ferme

Quelle dita rovinate dalla prima tramontana percorrevano tremanti il bordo dell’orecchio, poi giù lungo il collo e la schiena di quell’amante fugace, tornavano indietro quasi ad accertarsi di non aver trascurato un solo millimetro di pelle, di aver indugiato abbastanza dal poterne ricordare il calore. Avevano fatto l’amore, un amore violento, di sangue, disperato. Un vecchio blues, malinconico e impetuoso negli occhi socchiusi, era lì a ricordare che concluso un pezzo si attacca col successivo, che la partita di un amore duraturo era persa in partenza così come la speranza di legarlo a sé oltre... COOLIBRÌ 31


EDEN Francesco Cortonesi

Dall’ottantacinquesimo piano Kurtz, mio atomico friend, certe volte i sogni son desideri e certe volte spaventose premonizioni. Non voglio essere menagramo, ma continuo a credere che alla fine sarà il male a trionfare definitivamente e a metterci davanti alla nostra stupidità. Ok, siamo nel bel mezzo dell’estate e la vita ribolle, ma non dimenticare che, a prescindere dalle stagioni, certi giorni hanno occhi malvagi e certe notti portano sogni di una guerra perduta. Mai abbassare la guardia perciò. Piuttosto hai mai visto The Cove? Cosa pensano i delfini quando l’uomo con cui vogliono giocare li uccide? E il pollo, quando la mano che lo ha sempre sfamato gli tira il collo? Te l’ho detto, faccio pensieri apocalittici e quindi tutto viene di conseguenza. Ok, basta deliranti dubbi. Ho scritto un raccontino per mia moglie Micky e ho deciso di passarlo pure a te. I due anonimi amanti di questa storia hanno pensato bene di prendersi una piccola pausa dal duro lavoro e per lei un sogno sta per diventare realtà. 32 LA LETTURA CI FA BELLI

Tra poco potrai leggere qualcosa che racconta di come a volte si possa finire per crescere piuttosto in fretta e di come, in certi casi, possa essere abbastanza semplice fabbricarsi un biglietto per una breve vacanza da sogno nel paradiso terrestre. Anche se, lo sappiamo, è sempre solo questione di punti di vista. Buona estate amico! Tuo Dead EDEN

“Nel salire non incrociò nessuno e quando giunse al secondo piano, frugò in ogni stanza, accendendo tutte le luci via via che passava da una all’altra, in cerca di chi poteva aver prodotto quei rumori. Non c’era nessuno.” William Faulkner – I fantasmi di Rowan Oak

Non avevano neanche quindici anni. Stavano distesi sulla spiaggia bianchissima. Distesi sotto il sole tiepido di primo mattino sui loro asciugamani uguali. Distesi sotto un cielo azzurro come il fiocco di un neonato. Si tenevano per mano, travolti da un amore im-


menso, puro e ingenuo come solo a quell’età si riesce a provare. Ascoltavano in silenzio il leggero infrangersi delle onde che dopo tanto li stava riconciliando con l’esterno. - Sposiamoci- disse lui all’improvviso. Lei si voltò stringendogli la mano, come se tutto a un tratto lui fosse potuto svanire. - Come?- domandò. - Sposiamoci! Lei chiuse gli occhi un istante, mentre il suo cuore sembrava una barca sbattuta sugli scogli dal mare in tempesta, poi si buttò tra le sue braccia e cominciò a baciarlo. - Oh dio – sussurrò, - non può essere vero! Lui le accarezzò i capelli, guardandola negli occhi. Ancora una volta si stupì di quanto erano verdi. Gli occhi più belli che avesse mai visto. Assolutamente irresistibili. - Ti amo, - le disse, - ti amo e voglio sposarti. Lei si alzò di scatto - Stai mentendo! Dimmelo ancora sei hai coraggio!- esclamò sorridendo e incrociando le braccia come per sfida. Lui le mise le mani sui fianchi e la riportò a sé. - Ti amo e voglio sposarti- le disse sottovoce all’orecchio- Voglio sposarti oggi. Qui! - Tu sei pazzo!- disse lei ridendo – Non possiamo sposarci. - Perché? Chi può impedircelo? - E chi ci farà da testimone visto che siamo solo io e te?! - Che significa? – rispose lui - Credi davvero che sia necessario qualcuno per dichiararci marito e moglie? - Maledetto bugiardo! – sibilò lei, facendo finta di essere arrabbiata – Avevi programmato tutto! - Ok, lo ammetto, non è una cosa che mi è venuta in mente adesso. Lei non riuscì a far altro che ripetere – Oh, mio dio - poi appoggiò le labbra sulla sua bocca. E si lasciò andare. Il sole si era fatto più caldo. Lui le passò la conchiglia. L’aveva presa in un museo il mese prima, l’ultima volta che era stato giù in città. Lei restò per un istante a guardarla sul palmo della mano come ipnotizzata. Non ne aveva mai vista una così da vicino e quasi si era dimenticata come potessero essere incredibilmente meravigliose e complesse. I film non rendevano l’idea. - Ti prendo come mia legittima sposa e prometto di esserti fedele per sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e… com’è che diceva? – disse lui sorridendo. - Non importa, – sussurrò lei abbracciandolo – puoi baciare la sposa.

Il sole era adesso rovente e sembrava un’enorme palla di cannone sul punto di colpire la Terra. La distesa azzurra davanti a loro era immobile e silenziosa come un lago di montagna. Presto sarebbe stato impossibile resistere fuori anche solo per qualche minuto eppure non avevano nessuna voglia di andarsene. Chissà quando gli sarebbe ricapitata una giornata così, ammesso che ce ne fosse stata un’altra ancora. - E se questa volta fosse vero?– disse lui abbracciandosi le ginocchia. Lei le appoggio la testa sulla spalla. - Oh andiamo, non dirmi che hai qualche dubbio? Lui le accarezzò la guancia senza distogliere lo sguardo dal mare e continuando a fissarlo con una certa solennità. - No, non proprio, – rispose lui – ma potrebbe essere così. Lei gli sfiorò il dorso della mano con le labbra. - Invece tutte le altre volte? Prima il 20 giugno, poi il 25 dicembre e infine il 6 marzo scorso. Eppure siamo ancora qui. No, non ci credo, stanno mentendo. E poi, se anche fosse, non avrebbero mai il coraggio di farlo. - E noi? Noi avremo il coraggio di farlo? - Noi siamo i buoni – disse lei sorridendo. Si rimisero le tute di ordinanza e dopo aver piegato gli asciugamani, tornarono al sentiero, non prima, però, di aver dato un’ultima occhiata al mare. Pensarono a tutte le storie che avevano sentito dai loro genitori. Forse un giorno tutto sarebbe tornato come prima. Salirono fino all’entrata del bunker e prima di usare il dispositivo di riconoscimento vocale, si baciarono ancora. Come sbucati dal nulla, improvvisamente due bombardieri solcarono il cielo volando a bassa quota e passando proprio sopra le loro teste. Entrambi salutarono sorridendo gli aerei. Lei poi d’istinto guardò ancora una volta la conchiglia che teneva in mano e pensò che era stata davvero una giornata meravigliosa, che si sentiva felice come non mai e che il mare era bello anche così, senza vita, se visto con gli occhi di una ragazza innamorata… Si era fatto tardi. La pausa era finita. Dovevano tornare al lavoro. A cercare di finire in tempo la Bomba. Entrarono senza che li vedesse nessuno. Intorno a loro, infatti, c’erano ormai solo città fantasma.

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LA COMUNIONE Angelo De Matteis

Sul comodino al lato del letto di Manlio, disposte in maniera ordinata affianco all’abat-jour, erano presenti una Bibbia usurata e la “Ricchezza delle Nazioni” di Adamo Smith. Era un tipo sempre in ordine con la riga da un lato fra i capelli. La religione gli aveva dato un appiglio per sfuggire ad un probabile destino infelice: così come era già nelle intenzioni della sua madre naturale Amina, una volta venuto al mondo, perché comunque doveva venire al mondo, avrebbe vissuto in una casa popolata da bambini che, come lui, erano stati degli incidenti di percorso. Crebbe, convisse con i propri traumi infantili da orfano grazie all’affetto delle “zie” che lo avevano allevato educandolo al cattolicesimo. Ora, al primo anno di università, si era trasferito in un quartiere popolare in un’altra città. La sua vita ruotava attorno alla parrocchia, al ricordo delle sue nutrici ed alle aule della facoltà di economia. Quella domenica, come ogni domenica, Manlio si recò ad ascoltare la funzione religiosa. Cercava di essere un buon cattolico ed un buon economista, aveva detto questo uscendo dalla chiesa a Rosa Frisiniello, una donna che gli camminava accanto costringendo i piedi gonfi in un paio di scarpe che accennavano dei timidi tacchi e, dalla punta, mostravano degli alluci violacei macchiati di smalto fucsia. I fianchi larghi iniziavano dove il grasso del tronco vi si posava arrotolandosi su se stesso, i capelli un po’ arruffati, corti, la pelle rugosa ed il collo taurino. Portava male i suoi anni, le macchiette scure sulla pelle delle mani raggrinzite sottolineavano il lavorìo costante di quegli arti. Il sole splendeva tondo nel cielo azzurro ed i panni svolazzanti stesi sui balconi di fronte alla chiesa contribuivano a creare una fresca atmosfera primaverile. - Mi occupo di pulizie in tutto il quartiere, aveva detto a Manlio che, giovane e bello, ben profumato, la guardava con nostalgia e compassione, la stessa con cui si guardano quelle donne che ti ricordano chi ti ha tirato su: i grossi seni, la temperatura corporea sotto i 36 gradi, gli avambracci uno più grosso dell’altro, un senso di fem34 LA LETTURA CI FA BELLI

minilità che traspariva dagli occhi solo in certe espressioni di vergogna, come qualcosa che risaliva fuori dall’acqua per prendere aria ed evitare di affogare in quel mare di intraprendenza e praticità che la vita le aveva imposto. Rosa gli faceva tornare in mente l’età delle prime, obbligatorie, comunioni: avvicinarsi in fila davanti al sacerdote, la mano destra sotto e la sinistra sopra, a coppa, “amen” si doveva rispondere al prete che annunciava la vera identità celata dietro quel disco bianco. Mettere in bocca l’ostia e tornare al proprio posto con espressione seria, compita, perché così si doveva fare, mettersi in ginocchio e poggiare la fronte contro le mani giunte, gli occhi contratti per mostrare qualcosa di vagamente simile, ad un tempo, alla purificazione, al pentimento ed alla redenzione; Manlio in realtà non sapeva cosa occorresse provare o pensare in quei momenti, né poteva genuinamente sentirlo. Non poteva a quell’età. Cercava di imitare gli altri, soprattutto le donne anziane che avevano l’aria di sapere davvero cosa stessero facendo. Ma, in quei momenti, lui non riusciva a pensare ad altro che a togliersi con la lingua l’ostia che si era letteralmente e perfettamente incollata al palato … alla fine si arrendeva e approfittava del momento in cui tutti guardavano dentro di loro per coprirsi la bocca con una mano, infilarci dentro l’indice dell’altra, e staccare l’ostia dal palato. Il tutto con espressione seria, intensa, da comunione. -Più precisamente mi occupo di tenere pulite tutte le case delle donne che esercitano la professione più antica, aveva specificato Rosa con un certo tono di soddisfazione per le dimensioni della sua attività e non curante del luogo da cui erano da poco usciti; Manlio ritornò alla realtà e quasi sentiva ancora nelle orecchie il suono di una campanella che, giungendo dal passato, annunciava il mistero della fede. Alla successiva domanda di un Manlio alla ricerca di dati ancora più precisi, Rosa aveva risposto dettagliatamente che si occupava di una decina di abitazioni, di cui tre nel quartiere, ma franca-


mente non sapeva quante donne le utilizzassero. E per caso Rosa sapeva anche dirgli dove si trovavano queste abitazioni che lei sicuramente teneva pulitissime? Certamente che poteva, era una donna organizzata lei, toccava delle buone cifre mensili, cosa pensava? Dopo che Rosa espresse le richieste informazioni con l’ausilio dei nomi degli esercizi commerciali come punti di riferimento ed annesso spreco di vocali che accompagnavano le consonanti finali delle parole, Manlio capì che nel suo stabile vi era un’abitazione usata per accoppiamenti a pagamento, esattamente al piano di sopra dal suo. La notizia lo inquietò. Un certo tipo di pensieri incominciarono a farsi strada nella sua mente, fra le preghiere del mattino e l’inizio delle lezioni durante le quali cercava di concentrarsi e poi, soprattutto, durante il tragitto di ritorno, dall’università a casa, mentre non poteva fare a meno di osservare i barbagli di femminilità delle studentesse, e le rotondità ondeggianti di talune procaci passanti. L’idea di poter incontrare la donna dell’appartamento di sopra lo metteva in agitazione. Passò una settimana di esitazioni, appostamenti sui pianerottoli ed origliamenti, poi decise fermamente di andare a chiedere del sale alla donna di sopra, voleva assolutamente vederla. Era sera, poco prima di cena. Montò le scale esitante ed arrivò innanzi alla porta: dall’altro lato giungevano dei suoni, dei gemiti che volevano essere di piacere, veri o finti poco importava. Manlio si pietrificò: il pugno a pochi millimetri dalla porta, la bocca semi aperta e secca, gli occhi fissi sulle striature del legno mentre l’adrenalina pulsava nel petto e fra le gambe. Il desiderio si affacciò nel suo corpo rendendo smaniosi i suoi pensieri: un’ora, un’ora e mezzo al massimo, e sarebbe ritornato su; per il sale non faceva niente, la scatola a casa era piena. E come l’avrebbe messa con Dio, la Bibbia, il peccato, la comunione, l’economia, la madonna e tutto il resto? Forse, e lo pensò davvero vergognandosi un po’, ne aveva le scatole piene anche di loro. Poi si disse quella frase che mette a tacere ogni tipo di coscienza, anche la più restia ai compromessi, “solo una volta, solo per questa volta e non lo rifarò mai più”. Dopo un’ora interminabile Manlio raccattò gli ultimi brandelli di un desiderio ormai scemato, risalì le scale e bussò timidamente. Alla voce inquisitrice proveniente dall’altro lato della porta rispose dicendo che era il ragazzo del piano inferiore. Dopo una breve pausa, udì lo scatto della serratura e gli si rivelò davanti una donna i cui capelli corvini ricadevano disordinatamente sul-

le spalle scoperte incorniciando un volto struccato e stanco, segnato, la scollatura della sottana lunga fino alle ginocchia lasciava intravedere la linea fra i seni naturali. - Signora buona sera… perdoni l’ora… mi chiamo Manlio Quinti… abito al piano di sotto e la disturbo perché avrei bisogno… di un po’ di sale, già, un po’ di sale… la pasta sciapa proprio non la sopporto. L’emozione lo fece trincerare dietro le sue buone maniere. Maria sorrise rivelando le rughe della sua età, non si meravigliò del rossore sul volto del ragazzo che per contrasto evidenziava l’ombreggiare dei primi peli di virilità e lo invitò ad entrare osservandolo attentamente. Nell’anonimo tinello adiacente all’ingresso si voltò verso la dispensa e Manlio, opponendosi al suo senso di colpa, sentì un nuovo eccitamento guardando i rotondi fianchi della donna. Maria prese un pacco di sale, glielo mise fra le mani ed ebbe un attimo di esitazione incrociando i suoi occhi. Affettò un sorriso… -Signora, va bene anche se me ne mette un po’ in un bicchiere di plastica, non vorrei approfittare. -E che sarà mai, per un po’ di sale! Prendi tutto il pacco giovanotto, hai l’aria simpatica e gentile tu. Separati da uno strato di cemento, Manlio e Maria erano nei rispettivi bagni, uno al piano di sotto dell’altra. Lui, nella luce gialla di una piccola lampadina, si guardava allo specchio provando, allo stesso tempo, sensazioni di vergogna colpa paura desiderio. In preda all’inquietudine cambiava ogni momento idea proponendosi di ritornare il giorno dopo con la scusa di restituire il sale o, magari, semplicemente per richiedere ciò che tutti gli uomini chiedevano a quella donna anzi no, si sarebbe confessato il giorno dopo ed avrebbe cambiato casa, palazzo, città, nazione, lontano dalla tentazione. Lei, mentre si lavava i denti guardandosi senza vedersi nello specchio sul lavandino del bagno, pensava intensamente agli occhi di quel ragazzo, al suo sguardo, chiedendosi come mai aveva avvertito qualcosa di familiare mascherando la sua emozione con un sorriso… il rumore dello spazzolino produceva delle “A-A-A” e degli “O-OO” a seconda dell’apertura della bocca, al piano sotto di lei Manlio continuava a dimenarsi fra i vortici del corso della vita aggrappandosi ora su un argine ora sull’altro di un’indole ancora fangosa ed incerta. Maria si bloccò, di colpo, e capì: le lacrime si mischiarono ai rivoli di dentifricio sul mento, il petto iniziò a singhiozzare mosso dal solo ricordo della sua amica Amina. COOLIBRÌ 35


IL PREZZO DEL SUCCESSO Stefano Zuccalà

Percorrevamo il corso, a piedi. Senza dire una parola. Ad ogni vetrina Maria si fermava a specchiarsi. Faceva finta di dare un’occhiata distratta alla merce esposta. In realtà, cercava di trovare il punto esatto in cui afferrare il proprio riflesso, sul vetro. Allora si assicurava di essere a posto. Velocemente, tornava a muovere un passo. Come se nulla fosse accaduto. Da quella mattina aveva un nuovo taglio di capelli. C’era poca gente, in giro, alle quattro del pomeriggio. Raggiungemmo il porto. Ci infilammo in un bar. Dissi a Maria che avrei preso un decaffeinato. Anch’io, mi rispose. Le dissi che avevo deciso, dalla mattina di quel giorno, di bandire la caffeina e l’alcool dalla mia vita. Definitivamente. Lo dissi seriamente, credendoci – fosse pure un solo istante. Lei mi sorrise, di pietra. Disse che quella stessa sera, o al massimo il giorno successivo, avrei cambiato idea. Lo disse senza che potessi appellarmi a niente. Quella sua aria 36 LA LETTURA CI FA BELLI

di sicurezza mi infastidì. Alla cassa arrivò il mio turno. Pagai due decaffeinati. Ci sedemmo. Il tavolino accanto al nostro era occupato da tre pescatori. Già a quell’ora erano mezzi ubriachi. Per un attimo sentii di essere un vero gentleman. Perfettamente sobrio, stirato nei tratti. Sentii di avere l’aria di uno che non aveva capito niente della vita, ma che proprio per questo motivo poteva permettersi di assecondare la tranquilla austerità di due polsini di camicia. Ero sereno, forse. L’aria pettinava i miei occhi senza stridere sulle ciglia. Ero sereno, certo. I tre pescatori avevano le facce devastate dal vento. Uno di loro aveva un occhio pesto. Proprio questo si alzò dalla sedia. Soffiò di fatica la vita dal naso. Poi raggiunse il bancone, prese un amaro e tornò al suo posto. Nel frattempo gli altri lo avevano tenuto d’occhio. Non lo avevano mai perso di vista – ma assenti. Maria era impegnata a specchiarsi nella vetri-


netta accanto. Le dissi che mi sarebbe piaciuto andare al cinema. Magari quella stessa sera. Lei si voltò verso di me con aria interrogativa. Forse a lei, ormai, non importava più niente di noi. Non rispose. Bevvi l’ultimo goccio di caffè. Forse a lei, ormai, importava solo l’uscita del suo prossimo disco. Due sere prima si era esibita all’Apocalisse, e io avevo bevuto fino a non sentire più niente. Più niente. Nemmeno la sua voce, che per i miei gusti si impennava troppo spesso in gorgheggi inutili. L’avevo guardata ondeggiare, e la mia mente aveva ondeggiato con lei. Avevo continuato a ordinare drink su drink. Avevo pregato per tutto il tempo che quella noia inghirlandata passasse il prima possibile. Avevo infilato la mano sotto la giacca, sotto lo sbuffo del taschino di sinistra, per cercarmi il cuore. Il pescatore dall’occhio violaceo si alzò nuovamente. Prese un altro amaro e tornò al suo tavolino. Fra i tre, era l’unico elemento dinamico. Collegai quel dinamismo ai bicchieri che scolava. Collegai il livido sul viso a quel dinamismo, portatore di un probabile eccesso di zelo che, in circostanze adatte, poteva diventare rissosità. Maria mi disse di essere preoccupata per l’uscita del disco. Sperava che questa volta il suo nuovo album potesse raggiungere “quante più orecchie possibile”. A quel punto non potei fare a meno di immaginarle, tutte quelle orecchie. Padiglioni auricolari di tutti i tipi. Timpani più o meno sensibili. Migliaia e migliaia di parole entrate e mai più uscite. Rumori di ogni genere. Il dolore dell’ascolto, della fortunata condanna a non poter esautorare la realtà intorno. Una realtà sonora, quasi del tutto. Dissi a Maria di stare tranquilla. Di avere fiducia, ma di restare in guardia. Accennai al facile gioco dell’incoraggiamento. Le ricordai, tanto per non dire nulla di nuovo, che il mercato discografico era in crisi. Le dissi che l’importante era continuare a suonare in giro, ad esibirsi. Sei una musicista di razza – aggiunsi – non puoi scoraggiarti proprio ora, anche se non vai oltre un riscontro locale. Ci saranno tempi migliori, vedrai. Fidati di me. Fidati di te stessa. Buono il caffè, vero? Maria si specchiò di nuovo sul vetro accanto, distante. Percorse con gli occhi i contorni del proprio viso riflesso, poi abbassò lo sguardo. Disse che doveva fare pipì. Si alzò, e si diresse verso il bagno. Fu costretta dal poco spazio a sfiorare uno dei tre pescatori devastati dal vento. Non quello con il livido, ma quello che aveva appena posato un giornale sfogliato di fretta. Tutti e tre seguirono Maria con lo sguardo, fin quando lei non sparì oltre la porta in fondo. Poi tornarono

a se stessi, muti. Non doveva essere facile, pensai, avere a che fare con quintalate di raffiche di aria sparate sulla faccia. Le parole, a quei tre, dovevano necessariamente essergli marcite dentro, e forse non era neanche un peccato. Controvento, pensai, si può solo comunicare con ciò che resiste alle proprie spalle. Oppure le parole ti vengono sbattute sulle guance. Spesso, sicuro, si è costretti a ringoiarle. Al confronto con quei tizi, mi ritenni fortunato. Fortunato di possedere ancora il gusto del niente che esce dalla bocca. Ma – lo scarto era tutto qui – quel niente usciva. Come un canto inutile. Come il canto di Maria. Il suo primo album risaliva a tre anni prima. Si intitolava Il mio amore è una crisalide. L’avevo conosciuta per caso, proprio mentre gironzolava in un negozio di dischi per verificare l’eventuale quantità di copie presenti. Il secondo album invece, uscito un anno e mezzo dopo, più o meno, era Canzoni per voi. Bel titolo di merda. Ma i pezzi contenuti in Canzoni per voi mi piacevano di più. Anche perché, nella stupidità della nostalgia, li associavo a un periodo migliore. Non c’era ansia, allora, di dimostrarsi nulla. Ci si teneva per mano, qualche volta, nella perfetta leggerezza delle braccia. Maria tornò dal bagno proprio mentre scrutavo le mie braccia, tenute in grembo. Sembrava più distesa di pochi minuti prima. Pensai che comunque era inutile rinvangare il passato. Eravamo lì, in un bar del porto. Sempre noi, noi. Solo un po’ più battuti dal tempo. Ma dovevamo ritenerci fortunati – osservai di nuovo i tre pescatori – a non avere il vento contro, giorno dopo giorno, ora dopo ora a stringere i denti e a socchiudere gli occhi. Socchiudere gli occhi. Mi venne voglia di un whisky. Cercai di trattenermi. Era una questione di stile, adesso. Maria si accarezzò i capelli, dietro. Mi sorrise, mentre la guardavo. Poi il suo viso si irrigidì di nuovo, ma lentamente. Lentamente: dalla leggerezza alla pietra. Mi disse che due sere prima, all’Apocalisse, io mi ero ubriacato mentre lei cercava solo di tirare su qualche soldo. Mi disse che era un comportamento inaccettabile. Che potevo anche darle un po’ di appoggio spirituale, durante le esibizioni. Altrimenti che me ne restassi a casa, o che uscissi con qualcun altro. Era una vecchia storia, questa. Sorrisi, debole. Le ripetei che non avrei più toccato un goccio d’alcool. Te lo giuro, Maria. Fidati. A meno che – dissi – tu non mi diventi una star. Tratto da: Il conto degli avanzi, in uscita per Lupo editore COOLIBRÌ 37


FINCHÈ MORTE NON VI SEPARI Roberto Conturso

Il giorno declinava nella luce calda del crepuscolo seguito dalle saracinesche di bar e chioschi, abbandonando la spiaggia al fragore delle onde e a una pigra melodia intrappolata nell’aria afosa della sera. Il pianista picchiettava sui tasti accompagnando l’ingresso degli sposi con una personale versione di I love you dei Motivations, trascinata da una valanga di applausi. I loro occhi brillavano di un misto di affetto e inquietudine per quel centinaio di facce sorridenti stipate nel ristorante. La sala, drappeggiata da ruvide tende bianche, era gremita all’inverosimile e l’unico mezzo per orientarsi nel nugolo di posate scintillanti e centritavola floreali era il tableau affisso all’ingresso. - Nun poi capì Cecì! Viè a vedè co chi stamo ar tavolo! Mary se ne stava ritta e immobile davanti la lista degli invitati, in un completo stato di incredulità. - ‘N attimo. Cecilia risaliva a passi incerti il vialetto lastricato da pietre rettangolari che al pari di una grossa lumaca si contorceva in mezzo a resti di tramezzini, tranci di pizza e bottiglie di prosecco, ammassati sui tavoli dell’aperitivo. 38 LA LETTURA CI FA BELLI

Sbrigate, leggi qua! Mary teneva il dito schiacciato contro il quadro, muovendo il resto del braccio come il pendolo di un metronomo. - Che palle! Provace te a camminà su ‘sti trampoli. Con una mano arricciò il volant verde smeraldo lungo il fianco e con l’altra cercò di trovare l’equilibrio prima


di affondare la scarpa nella sabbia e osservare da vicino il dannato tableau. Localizzò l’impronta ovale del dito di Mary stampata sopra una scritta a caratteri neri. - Fra-n-co… e chi è? - Franco Carvelli! - Se, beata a te. Si ritrasse svogliatamente, scollando il tacco imbrigliato in una zolla di granelli ferrosi. - Te dico che è lui. - Figurate, se c’era me n’ero già accorta. - Infatti, l’hai visto e manco l’hai riconosciuto. - E dove? - In chiesa, era er testimone dello sposo. - Er ciccione? - No, quello è er pischello de Giulia. L’altro. Cecilia ancorò gli occhi al cielo, ripensando al volto rancido e glabro del ragazzo cercando di tracciare tra quei lineamenti grinzosi una mappa di ricordi. Poi, scosse la testa sbarazzandosi di quell’immagine. - Nun è lui. - Fidate. - Che ne sai? - Me l’ha detto Giulia,‘a ragazza de Stefano. - Er ciccione. - Brava. Infatti, – il tono di voce si fece improvvisamente basso, come se volesse parlarle all’orecchio, spingendo l’amica a chinars i ,

rendendola complice di quel pettegolezzo - sto Stefano, Carvelli e ‘o sposo, so cresciuti insieme. Calcola che Carvelli all’inizio nun voleva fa er testimone, sai, dopo tutto quello che era successo co Roberta. - Allora stavano insieme sur serio? - Ma che nun li leggi i giornali? Se dovevano sposà! - Pensa te, io me credevo che faceveno così solo pe attirà l’attenzione. - Forse lei, perché pare che ‘na volta uscita dalla casa, continuava a fasse vede in giro co Franco mentre frequentava ‘n artro. E du settimane prima delle nozze, gli ha dato er ben servito. - Poraccio, deve esse stata ‘na botta. - Nun poi capì, ha scapocciato pe sta storia. Un fascio di luce si stiracchiava da un’applique, disegnando sulla parete un’impronta lattiginosa. In basso, schermata dalla penombra, spuntava la figura esile di Franco Carvelli. I muscoli tonici e sicuri di un tempo si erano dissolti, lasciando in eredità un corpo gracile, un involucro senza ossa, un soldatino di gomma dalle movenze fluide e armoniche, almeno era questa la sensazione che provava quando era sotto Lexotanil. Un rifugio sicuro che la benzoziadepina gli offriva durante i momenti di stallo, quando i ricordi riaffioravano e le voci gli ronzavano in testa. Sapeva che non sarebbe stata una buona idea partecipare al matrimonio, ogni oggetto in quella sala trasudava ricordi opprimenti: i vasi colmi di calle che incorniciavano la portafinestra, il cartoncino rosa utilizzato come segna tavolo, i sacchetti di tela rossa delle bomboniere e persino la spiaggia. Roberta trovava romantica l’idea di celebrare le nozze in riva al mare, sotto una luna bianca e immacolata contro un cielo puntellato di stelle. L’aveva visto in un film e non faceva che ripeterlo. Lui, al contrario, immaginava la sabbia nelle scarpe, il vento e l’odore acre del mare di Fiumicino, eppure, aveva assecondato le sue richieste, girando in lungo e in largo attraverso ristoranti, pasticcerie, fiorai, stabilimenti balneari. E lei, due settimane prima del matrimonio, l’aveva ripagato umiliandolo pubblicamente con un cazzo di ballerino. Uno di quelli che andava in televisione a muovere il culo in calzamaglia. La testa iniziò a farsi pesante e una pozza di sudore si allargò alla base del collo. Lanciò un’occhiata circospetta al tavolo solo per essere sicuro che Giulia, COOLIBRÌ 39


Stefano e un uomo dai lineamenti anonimi, non lo stessero guardando, poi fece scivolare il braccio sotto la giacca, all’interno del taschino, dove custodiva un involucro di plastica rettangolare. Con i polpastrelli ne saggiò le rotondità e le increspature, contandone le rimanenze. Agganciò il bicchiere di vino coperto da una condensa di gocce d’acqua e con un gesto rapido del polso, infilò una compressa da sei mg in bocca e mandò giù, sperando che quella cascata acidula lo aiutasse a ripulire la mente da oscuri presagi. Quando riemerse, vide due ragazze zigzagare tra la folla alla ricerca della loro postazione. La più alta, si muoveva goffamente sui tacchi, tastando con prudenza il suolo ad ogni passo ma ostentando un’aria di sfida, con la testa piegata all’indietro e il mento leggermente sollevato, come se tutto quello che accadesse al di sotto del bacino non fosse di sua competenza. L’amica, a dispetto di un fisico basso e tarchiato, mostrava un portamento sensuale, dovuto anche alle forme del corpo strizzate in un vestito rosso porpora che parevano sul punto di saltare fuori da un momento all’altro. - Piacere Cecilia, ‘na amica d’a sposa. Stefano fu colto di sorpresa, ancora alle prese con il vassoio di tartine al salmone. Si voltò prima verso Giulia, impegnata a scambiare confidenze con la ragazza formosa, poi si pulì la mano sul pantalone e con un movimento di forzata disinvoltura, alzò il culo dalla sedia quel tanto affinché il suo gesto fosse interpretato da tutti come un atto di galanteria. - Piacere Stefano, amico e testimone d’o sposo. La ragazza trattenne distrattamente la mano grassoccia e unta di Stefano, volgendo il mento spigoloso nella direzione di Franco. - Ciao. Disse, calcando la voce. Non aveva voglia di socializzare con nessuno, ma le uniche donne che aveva incontrato fino a quel momento erano le zie della sposa, un gruppo di vegliarde bendate in abiti color pastello, impegnate a frugare tra i ricordi sbiaditi dall’Alzheimer il nome del giovanotto dall’aria così familiare. Abbozzò un sorriso inebetito e srotolò il braccio sopra la tovaglia. - Piacere, io sono Franco. - Lo so chi sei. T’ho riconosciuto subito quanno t’ho visto. Nel locale soffiava una leggera brezza, asciugava le fronti imperlate di sudore dei camerieri, sgusciava sotto le tovaglie e accarezzava i piedi nudi e scodinzolanti delle signore, gonfiando e spalancando le tende su una distesa buia e densa che 40 LA LETTURA CI FA BELLI

uniformava il panorama, rendendo impossibile distinguere il mare dalla spiaggia. Il tramonto si era spento, al suo posto la luce della sala gettava sulla sabbia un recinto giallognolo, dove drappelli di ospiti condividevano cibo, vino e un’allegria fatta di grida e tramestii di bicchieri. L’alcol e gli antidepressivi avevano chiuso Franco in una cappa opprimente da cui non riusciva a liberarsi. La cena si stava trasformando in una lenta discesa verso uno stato catatonico, interrotta solo da sorrisi di circostanza in riposta alle sporadiche attenzioni che Cecilia e il resto degli ospiti gli rivolgevano. - Non trovate eccessivo tutto questo? L’uomo seduto di fianco a Giulia, rimasto fino quel momento avvolto in un’aurea di indifferenza, ruppe il silenzio. - Mi scusi? Giulia sfilò la sua attenzione da Mary, volgendo un’occhiata sprezzante verso il volto canuto dell’uomo. - La festa, il ristorante, il cibo, tutto questo spreco. Disse, lisciandosi una barba grigia e stentata. - È un matrimonio cosa si aspettava? Rispose seccamente, girando le spalle robuste a favore del suo nuovo interlocutore. - È proprio questo il punto. Ancora questa rincorsa allo sfarzo, lo stress dei preparativi, i litigi, per cosa? Per soddisfare le attese di amici, parenti o peggio quelle di una donna. Una vampata di calore esplose sul volto di Franco. Pensò che l’uomo stesse parlando di lui, forse aveva letto la sua storia su qualche rotocalco e ora se ne faceva scudo per deriderlo. - Non trovo nulla di sbagliato se due persone adulte e consenzienti decidono di celebrare la loro unione in questo modo. Franco accompagnava quello scambio di battute con leggere contrazioni del viso all’altezza degli zigomi, impercettibili spasmi muscolari che gli impedivano di dissimulare la rabbia dei suoi pensieri. - Più che sbagliato, lo trovo arcaico. Una forma superata che non mi aspetto da una giovane coppia. - Lei cosa consiglierebbe? - Una festa più intima e meno dispendiosa. D’altronde l’unione tra due persone è un qualcosa di personale che non ha bisogno di questo teatrino. Franco strinse i gomiti e iniziò a dondolarsi nervosamente sulla sedia. - Noi ci sposeremo l’anno prossimo e abbiamo intenzione di mettere su lo stesso teatrino, come lo chiama lei. Non è vero Ste? Rispose inviperita, rivolgendo un’occhiata inda-


gatrice al futuro marito. - Come no. Stefano emise un suono gutturale, come se un raspio in gola gli bloccasse le parole. Deglutì e allentò il nodo della cravatta, liberando un mento pendulo simile a un bargiglio. - Io pure. Cioè, nun me devo sposà, ma si lo faccio, voglio fa un gran ricevimento co ‘n sacco de robba da magnà. Mary tentò di spalleggiare l’amica, innescando la pronta adesione di Cecilia. - Te credo! Mica vogliò passà pe purciara co l’amici mia. - Per carità, signorine, non volevo offendere nessuno. Le mie erano solo considerazioni. L’uomo circumnavigò con gli occhi la tavola alla ricerca di un approdo. - La prego, almeno lei, mi dia una mano e dica che non vorrebbe tutto questo per il suo matrimonio? Il tavolo piombò in un silenzio stridente. Franco sperava di passare inosservato, ma fu punito dalla sua stessa timidezza come uno scolaretto introverso spronato a partecipare alla lezione. Sollevò la posata dal piatto, smettendo di utilizzare il fondo oleoso come fosse una lavagna magica e alzando la fronte paonazza, puntò lo sguardo minaccioso sull’uomo. - Io… non saprei. Non ci ho ancora pensato. - Bene! Questo vuol dire che condivide il mio pensiero. Se un giovane come lei non ha un’idea sul matrimonio, significa che non gli attribuisce questa importanza. L’uomo fece uno scatto all’indietro sulla sedia allargando le braccia, quasi volesse stringere Franco in un abbraccio. - Magari, uno non ci pensa perché ancora non ha trovato la donna giusta. Disse Stefano, ammiccando verso la sua compagna alla ricerca di aiuto. - Non tenti di irretire il suo amico. Io la penso esattamente come lui. Non dipende da quanto si è innamorati ma dall’idea che si ha dell’amore. Sentendolo continuare a disquisire, Giulia rimbalzò lo sguardo del suo futuro marito chiedendo di intervenire. Stefano, alzò le mani in segno di resa, tornando a concentrarsi sul tortino di radicchio e salsiccia. Franco appariva smarrito, le orecchie erano rivolte alle labbra sottili dell’uomo ma gli occhi erano incollati sulla sposa e sul suo abito bianco che sgusciava tra i tavoli come una medusa, appiattendosi contro le tovaglie di seta pesante prima di recuperare la naturale forma svasata. Immaginò Roberta, fasciata in balse color latte, fare gli onori di casa, elargendo sorrisi e appog-

giando affettuosamente la mano sulle spalle degli invitati, sincerandosi che tutto fosse di loro gradimento. - Mi arrendo! – esclamò l’uomo. – Vedo che anche lei in fondo ha un’insana voglia di matrimonio, lo capisco da come guarda la sposa. Un pensiero, una scintilla che mandò in frantumi ogni barriera, liberando un flusso di emozioni incontrollabili. Sentì il cuore accelerare e il sudore rigargli le guance. Si alzò di scatto, trasformando le chiacchiere dei commensali in dieci pupille dilatate al cospetto della forchetta saldamente ancorata nella sua mano. Avvertiva la curiosa morbosità nei loro occhi come un dolore che si allargava nel cervello. Non aveva via di scampo ma non voleva concedersi a quella gente, ai loro sguardi famelici, desiderosi di catturare un altro pettegolezzo da condividere con gli amici per ridere un’ultima volta di Franco Carvelli. Farfugliò qualcosa, lasciò cadere la posata e abbandonò il tavolo, facendosi largo tra coppie di invitati intenti a scambiarsi saluti e a raccogliere confidenze, inciampando nelle occhiate della gente e nei sorrisi malevoli delle vecchie zie, soddisfatte di aver smascherato l’identità di quel giovanotto taciturno. Superò la portafinestra e iniziò a correre, oscillando come un corpo vuoto scosso dal vento, mentre l’aria salmastra gli inondava i polmoni. Cadde più volte, il viso coperto da terra sabbiosa. Si rialzò, tolse via le scarpe, frugò nella giacca, scaraventò a terra le pasticche di Lexotanil e riprese a correre, senza vedere nulla, spinto solo dalla curiosità di sapere dove finisse la spiaggia e iniziasse il mare. Le risate e le grida ormai si confondevano con il rumore delle onde contro la scogliera. Quando raggiunse la battigia, fu una liberazione. Rimase immobile, in ascolto del ruggito del mare dietro gli scogli. Era eccitato, respirava affannosamente. Fece un passo e l’acqua si accoccolò timidamente ai suoi piedi, trasmettendogli un inaspettato senso di pace e tranquillità. Sentì di non aver più nulla da temere, era al sicuro lontano dai suoi demoni. Iniziò un timido corteggiamento con il mare, fatto di carezze che lambivano le caviglie, cosce e bacino, finché non si trasformarono in un tenero abbraccio e si ritrovò a galleggiare sull’acqua, cullato dalla risacca con i capelli che ondeggiavano come alghe marine. Intorno a lui non esisteva più niente, tutto si riduceva al mare, al cielo dipinto da una pennellata di inchiostro e a una luna screziata d’argento.

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LA SACRA FAMIGLIA Rossano Astremo

Raimondo, 7 aprile 1955

Un sottile refolo di vento, che oltrepassa i cardini slabbrati della finestra, si mescola al sordo rumore dell’orgasmo. Dura solo pochi attimi. La stanza è sepolta da un buio totale. Il letto accoglie due corpi nudi che paiono trovarsi nel momento che segue una lunga immersione subacquea. Tornati a galla si respira a pieni polmoni perché l’apnea sfianca. Raimondo ora guarda il soffitto. Giuseppe, invece, gli dà le spalle, disteso sul lato, con lo sguardo inclinato verso il pavimento. È la seconda volta che le loro gambe e braccia s’intrecciano come le trame contorte dei tronchi di ulivi secolari. Il tutto avviene nel più limpido silenzio. La notte è il tempo ideale nel quale il loro peccato può esondare. Raimondo e Giuseppe hanno sedici anni. Da più di due anni la loro vita si svolge all’interno del Seminario di Oria. Tra qualche anno prenderanno i voti e diventeranno sacerdoti. Cureranno le anime perdute dei fedeli che a loro si rivolgeranno. Si nasconderanno dietro i confessionali e ascolteranno pazienti le marachelle dei piccoli, i vizi degli uomini e i desideri osceni delle donne. Poi, facendo filtrare le loro parole attraverso gli spazi vuoti delle grate, doneranno la pozione magica della redenzione: una manciata variabile di atti di dolore, padre nostri e ave marie che farebbe

trasecolare persino i più devoti. Raccoglieranno offerte durante le quotidiane messe e celebreranno battesimi, comunioni, cresime, matrimoni e funerali. In sintesi terranno con fermezza il polso spirituale della loro comunità. Questo, però, è il futuro, al quale, i due ragazzi, che ora nascondono le loro nudità con lenzuola di grezzo lino bianco, pensano poco, attratti da quel nuovo mondo così tanto terrestre che brucia come carne sfrigolante su carboni ardenti. Sì, quel nuovo mondo così tanto piccolo che è tutto raccolto nella spoglia stanza del loro seminario. Quel nuovo mondo che è terribilmente più effervescente e vivo di quello passato e rannuvola ogni previsione del futuro. Raimondo cessa di fissare il soffitto e, girandosi nella stessa direzione di Giuseppe, lo cinge delicatamente, poggiandogli il braccio sinistro lungo il ventre, mentre con quello destro gli accarezza i capelli. Il suo sperma ha perduto la liquida consistenza di pochi minuti fa, divenendo solida sostanza biancastra posata tra i glutei di Giuseppe e tra la peluria ancora in definizione che adorna il suo pene. Raimondo pensa che tra due ore dovrà essere già in piedi, dovrà lavarsi e vestirsi. Le preghiere del mattino lo attendono. Però, è solo un pensiero fugace. Stringe forte Giuseppe e lo bacia sul collo. Il resto può attendere, per ora. COOLIBRÌ 43


L’ANNO DEL SERPENTE Rosario Tornesello

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Non stava più nella pelle. In effetti, ne era uscito. Come gli capita sempre, del resto. Che poi dire sempre è forse eccessivo. Ma almeno due o tre volte l’anno sì, questo è vero. Va fuori di testa. Così, semplicemente. A seguire, tutto il resto. Si agita, si strofina e tanto fa che ci riesce: sguscia per prima la bocca, per ultima la coda: il colpo finale chiude il numero e sparge meraviglia, quando non diffonde veleno. Dicono lo faccia per stare meglio, per crescere. Per rinnovarsi. Stringi stringi, lo fa per sopravvivere. Uno spettacolo della natura. Muta. Così si chiama. Non la natura, ma lo spettacolo. E tuttavia, siccome si ripete, spesso e per tutta la specie, è chiaro che muta assai poco: i soggetti sono tanti, il copione identico. Muta-azione in moltiplicaazione. Tutto cambia, ma è solo apparenza. Di fatto tutto resta. Com’è. Una generazione terra terra. Una vita a pancia in giù. Serpenti. L’invisibilità al momento giusto. Primo requisito, strisciare. Come condizione esistenziale. Polvere e briciole per alimento. A quelle altezze se ne trovano in quantità inaspettate. Attenzione, no, non sono bassezze: dirlo sarebbe ingiusto. Seguire l’istinto, per lui, è obbedire a un ordine superiore. Alto, ecco. L’evoluzione plasmata dai millenni non è uno sforzo trascorso invano. Sono i geni a dettare l’azione, come quando gli capita di ingoiare un rospo. Anzi due, anzi tanti. Al punto che neanche se ne accorge. Ingoia e ingrassa. La catena alimentare lo pone in posizione privilegiata. Spazzatore universale. Un folletto, insomma. Di bosco e sottobosco. Applicazione multiforme. E multistrato. Versatilità globale: si allunga, si arrotola, si stira, si avvolge, si svolge. Come un tappetino. Resistenza invidiabile: sopporta le intemperie, sopravvive alle stagioni. Se non ha un tetto, trova sicuro riparo in una poltrona sotto cui accovacciarsi. Fibra eccezionale. La moda ne ha fatto un must: sembra un destino segnato, una maledizione per la razza, una promessa di estinzione; invece lui ne ricava prestigio e notorietà: borse, con la variante di portaborse; scarpe, anche con applicazione di lustrascarpe. Sul mercato i modelli variano, i prezzi anche. Ma non è tipo da vendere cara la pelle. Ma neppure di rimettercela. Solo, la cambia. Restando uguale. Coerente fino in fondo. Spire tante. E la sua a-spirazione, del resto, è evidente: stringere. Qualcosa. Ma non spira; bisogna farsene una ragione. In compenso, è per lo più silenzioso. Ma quando parla è un vento che soffia rapido, ti infila in contropiede e sibila. Doti rare. La lingua è sciolta. E di solito, per non restare a corto di

argomenti, ne tira fuori una che sembrano due. Una punta guarda a sinistra, l’altra a destra. I bivi che pone la vita sono imprevedibili. Essere pronti a tutte le soluzioni rende immortali. E vincere la scommessa con l’eternità ha risvolti interessanti: si allunga l’esistenza, si allarga il conto in banca. Lui preferirebbe il mattone, soprattutto per non lasciare tracce. Ma i rovesci della sorte possono essere deleteri: se qualcuno rivolta la pietra sotto cui si annida, scoprirebbe anche il tesoro ammonticchiato. E buonanotte ai suonatori. Che poi proprio questi, i suonatori, sono tra i nemici giurati. Ce ne sono alcuni che li incantano. E incantare i serpenti è arte sopraffina. Un po’ come rubare ai ladri. C’è un fondo di giustizia in tutto questo. Ma è difficile, molto. Almeno qui. Altrove chissà. Incantarli, insomma. Non è che sia semplice. Occorre un flauto e qualcuno che sappia suonarlo, ma bene, come una nenia, un’eco lontana, un suono del tempo andato. Un indiano? Qui molti lo sono. Almeno così si sussurra: quello fa l’indiano… quell’altro anche… quell’altro ancora non ne parliamo… Chiacchiere. E poi, anche se fosse: qui? Proprio qui? Mmh, difficile riesca nell’impresa. Da noi l’evoluzione della specie ha prodotto menomazioni che rendono il rettile invulnerabile. Strano? Insomma. Il tipo più diffuso (nome scientifico surde anguis, nome volgare scurzone surdu) è refrattario per natura ai richiami. Oddio, lo è anche a quelli della coscienza, sempre che ne abbia una. Sornione e indolente, va per la sua strada. L’estate lo ha colto di sorpresa, con un residuo di sonno da smaltire. Ma sia, gli è bastato poco per adeguarsi alla stagione. Al tempo. All’aria che muta, appunto. Il cambio di pelle è la prova generale per l’invernata che lo aspetta. Quest’anno ci sarà da lavorare. Freddo o non freddo, niente letargo. Ha lasciato intatta la sua ultima scorza per esibirne un’altra, più splendente e levigata. E già lavora per i nuovi abiti da tirar fuori, quello giusto al momento giusto. All’apparenza diversi, in sostanza uguali. A righe, gessati, pezzati, rossi, verdi, azzurri, tricolori, a stelle e strisce, con burqa, con kefiah, con testa pelata in bella vista o col tatuaggio del Che. Quando sarà il momento di rinnovare, lui che è maestro in materia, saprà da quale parte volgere lo sguardo, il cuore, il portafoglio (pelle della stessa pelle). Dicono che in versione domestica viva in teca. Ma è nelle urne che lui si moltiplica. E qui, a breve, hai voglia quante se ne schiuderanno.

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FINE DELLE OSTILITÀ (UNA PREGHIERA) Marco Montanaro tu per me sarai l’anello, il motivo, la lingua imparata perché siano credibili queste memorie dall’interno. tu per me sarai pelle, quella morta e ricucita, una canzone cercata per mesi, sottoposta al silenzio, per cui le trombe pure hanno taciuto. sarai l’ancora e il ripiego, sarai la caduta e il libro nuovo, sarai eco e frustrazione, assenza, paradiso, finzione.

mai trovata; una storia disperata.

tu per me sarai vapore, il castigo cercato con ortodossa, caustica precisione; e cura, e risveglio, il rifugio in cui s’incappa per caso, indecisione, in cui affrontarsi è mai nascondere, cancellare le tracce, le orme, il percorso; perché tu sarai percorso, e convinzione.

tu per me sarai la scelta, lo specchio, infranto, il sogno, sarai un elenco e poi la fine, sarai l’augurio, la dipendenza, l’autarchia; per me sarai povertà e ricatto, il pensiero del limite in un giorno marcio; sarai ossa, e polvere, e ritmo, sempre: ritmo.

tu per me sarai delusione, di anni, e ricerca, e fatica, un desiderio che cola e si raccoglie, il fiato spezzato di chi ha già capito, la scarpa persa,

tu per me sarai il ritorno, strada sterrata, quando saprò di non esser mai partito, neppure per un giorno o per un’ora: nemmeno per paura.

tu per me sarai il coniglio, il tricheco, il difetto, la presa di posizione; per me tu sarai l’errore, il contrario, la ripetizione e l’affanno di una corsa al mare; per me sarai la rete, la confusione, un pescatore. sarai tempesta, un mondo labile, e preghiera.

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IN SALENTO VERITAS Ennio Ciotta

Tutto ciò chè esiste è salento. Il salento è immanente e trascendente: è nelle cose, è al di là delle cose. Il salento è la verità, il grande salento il dogma. I confini del grande salento, partiti dal tacco del nostro stivale, ormai si estendono ovunque. Le province di Lecce, Brindisi, Taranto, la Puglia intera, il sud Italia, l’intera nazione. Anche oltre le alpi è tutto salento. L’Europa continentale sente la spinta dello scirocco: la Germania beve birra e mangia taralli, in Francia ci si rifugia all’ombra della Torre Eiffel a mangiare friselle, l’Inghilterra, si sa, è un avamposto della taranta. L’ultima missione spaziale della Nasa (National Aeronautics and Salento Administration) ha portato la prima frisa sulla luna. La tradizione affonda le sue radici nella mitologia, nella religione, nelle credenze popolari. Adamo ed Eva caddero in tentazione sotto un albero di fichi d’India, molto probabilmente dalle parti di Carmiano. Lo stesso Adamo coprì le sue vergogne proprio con una pala di fichi d’India, patendo per primo il dolore e la vergogna per il peccato originale. La scoperta del fuoco altro non è che la nascita della Focara di Novoli.

L’età della pietra è senza dubbio l’età della pietra leccese: l’uomo scoprì fin da subito le sue superiori qualità, e grazie ad essa migliorò sensibilmente la sua qualità della vita. I riti tribali sono il vero avamposto della pizzica. Gli uomini primitivi si riunivano intorno al fuoco per suonare (ancora incoscientemente) ritmi tarantolati e mangiare pezzetti di cavallo. Potremmo continuare per ore: la storia della civiltà, in fondo, altro non è che il cammino della cultura salentina. Ma dalla tradizione e dalla storia passiamo all’innovazione. Il passato consegna nelle nostre mani un salento (grande salento, immenso salento, mondo salento) che è la vera alternativa al tutto. Questo lo hanno capito gli uomini e le donne che hanno scritto e che stanno scrivendo il nostro recente passato ed il nostro presente, soprattutto gli artisti, autentici lettori ed elaboratori delle epoche a venire. Ho avuto la fortuna di conoscere Jim Morrison a Patù negli anni settanta. Patù in quegli anni era la vera roccaforte del movimento hippie, i veri raduni fricchettoni dell’epoca, l’amore libero, gli stati alterati di coscienza, i movimenti pacifisti, tutto avveniva sulle splendide spiaggie di San COOLIBRÌ 49


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Gregorio. Jim mi parlava di quanto fosse legato a questa terra, di quanto si sentisse ormai definitivamente un vero salentino. Durante una nottata afosa trascorsa a mangiare cozze e bere vino a Santa Maria di Leuca, mi confessò che in realtà quel “light my fire” era proprio l’energia trasmessa dalla focara, e di come lui entrasse in trance pensando al rito dell’accensione. Ovunque lui fosse, in qualunque angolo del mondo lo avessero spinto la sua musica e le sua poesia, lui portava sempre in se l’immagine degli scogli di Roca. La stessa Madonna, all’anagrafe Luisa Ciccone, originaria di Trepuzzi ed ormai residente fra New York, Los Angeles e Londra, preme da anni con le autorità locali per la costruzione di un aeroporto nella provincia di Lecce che le consenta di poter portare i suoi figli nella sua villetta a schiera a San Foca, situata come tutti sanno di fronte alla prima scaletta per scendere al mare (sul citofono c’è scritto true blue). I Rolling Stones hanno preso il loro nome osservando l’estrazione della pietra dalle cave di Cursi, Paul McCartney ha ancorato da anni ormai la sua barca, Yesterday, a Porto Badisco, e non è difficile trovarlo in primavera seduto alla

bottega di generi alimentari in paese a godersi il primo sole e le munacedde. Micheal Jackson, prima di iniziare la sua folgorante carriera, vendeva durante la stagione estiva caramelle e zucchero filato in un camioncino a Torre Sant’Andrea. Ci furono delle lamentele, altro non so. Sting l’ho incontrato alcune settimane fa che vendeva il suo cd masterizzato alla sagra della cecora resta, pregando ancora una volta Enzo Petrachi di poter suonare un brano con lui sul palco (lo sanno tutti, Sting voleva Enzo Petrachi nei Police). Kurt Cobain combatteva i suoi demoni rifugiandosi nel suo ritiro privato a Melpignano, dove, circondato dai suoi veri affetti, ha composto il disco capolavoro della sua carriera,Nevermaglie, poi tradotto in Nevermind per semplici motivazioni commerciali. L’elenco sarebbe lunghissimo, preferiamo fermarci qui proprio per non annoiare un pubblico alle volte già stanco di continui colpi di scena, di scoperte incredibili, di rivalutazioni socio-culturali ai limiti della decenza, proprio noi, abituati a cercare il bello ed il buono nelle verità della vita di ogni giorno.

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EVENTI dal 7 al 19 agosto – Parco Torcito GREATEST BEATS

Nel 2008 Masseria Torcito divenne scenario di un festival di festival con ospiti internazionali. Quell’avventura, per vari motivi, non è mai stata recuperata. Cambio dell’amministrazione provinciale, i lavori (mai partiti) presso la Masseria, qualche incomprensione di troppo. Nel 2011 dopo tre anni di distanza torna al Parco Torcito, nel frattempo passato a nuova gestione dopo un bando della Provincia di Lecce, un “festivalone”. Greatest Beats mette insieme Sud Est Indipendente, Gusto dopa al sole, Day Off Music Festival, StreamFest, Salento Summer Festival, Puglia Reggae Festival. L’occasione è stata data da un bando, pensato proprio per la creazione di reti di festival, voluto e sostenuto da Puglia Sounds. La programmazione è da non perdere e spazierà dal reggae al rock, dall’elettronica al cantautorato, dall’hip hop alla tradizione. Greatest Beats è una compilation di generi, tutto il meglio della musica in circolazione in Italia e nel mondo. Insieme ai grandi nomi spazio anche agli artisti locali emergenti e alle band salentine e pugliesi più affermate.

SUD EST INDIPENDENTE

Il programma prende il via domenica 7 agosto con il Sud Est Indipendente, a cura di Coolclub, che (dopo le tappe itineranti di Lombroso, Valentina Gravili, Piet Mondrian, Oh Petroleum e Kiddycar) ospita un concerto rock da non perdere. Sul palco Jon Spencer Blues Explosion, la band newyorkese nata nel 1990 dallo scioglimento dei Pussy Galore, dal suono esplosivo e grezzo con elementi di noise, rock’n’roll, soul, funk e perfino rap. Prima di Jon Spencer spazio a One Dimensional Man, band nata nel 1996 dall’idea di Pierpaolo Capovilla, che negli ultimi anni si è dedicato anche al progetto del Teatro degli Orrori, che a sette anni di distanza da “Take Me Away” e a un anno dalla pubblicazione del cofanetto antologico ritornano con un nuovo disco di inediti. In apertura il progetto solista del bassista degli Afterhours Roberto Dell’Era, King Mastino, Idol Lips e Lola and the lovers. Il Sud est Indipendente in collaborazione con Salento Summer Festival e Free Pass, regala nella sua quinta edizione anche un fuori programma. Martedì 9 agosto il cantautore Vinicio Capossela presenta “Marinai, profeti e


balene”. L’album è arrivato subito al secondo posto della classifica FIMI degli album più venduti in Italia, ed al primo posto su iTunes. Il Mare: mitologia, canzone di gesta, simbolo del fato, sfida al destino, scenario di passioni umane, organismo vivente, acquario abissale, spettri, presagi, voci di marinai, uragani, naufragi. www.seifestival.it

GUSTO DOPA AL SOLE

giamaicano trapiantato in Usa che proprio nella contaminazione con la black music americana ha trovato la sua dimensione artistica ed il grande successo, questa estate sulla cresta dell’onda con l’hit “Sugarcane” e con l’album “Summer in Kingston”. Il roots reggae moderno è degnamente rappresentato dall’italo-giamaicano Alborosie nell’anno del suo album “2 Times Revolution”, oggi fra gli artisti reggae di maggior successo in tutto il mondo, che attira numeri di fan da brivido in tutti i maggiori festival internazionali. All’insegna del meticciato e della contamizione di sub-generi, la proposta di Asian Dub Foundation da Londra. Tra gli artisti italiani spazio ad Apres La Classe, Africa Unite, Mama Marjas, Casino Royale, Treble, Dj Gruff e molti altri ancora per quattro serate da vivere intensamente www.gustadopalsole.com.

DAY OFF MUSIC FESTIVAL

Dall’11 al 14 agosto nel grande parco naturale approda Gusto dopa al sole, dopo la partenza dall’Italia del Rototom, indiscutibilmente il più importante festival dedicato alla musica in levare. Reggae e hip hop che si spinge fino alle sue tante contaminazioni e subgeneri musicali, ed il modo originale in cui hanno influenzato la scena musicale italiana: rimangono queste le tradizionali coordinate musicali del Gusto Dopa. Si va dal grande rap americano di due giganti come Redman e Method Man, sinonimo di energia esplosiva e sostanza per gli appassionati del genere, al reggae mainstream di Shaggy, artista

Martedì 16 e mercoledì 17 agosto spazio al Day Off Music Festival che, dopo la grande esibizione dello scorso anno dei Chemical Brothers, riserva ancora grandi sorprese. Nella prima serata spazio a Crookers, Grandmaster Flash, Congorock. 2d noize. Seconda serata, in collaborazione con Salento Summer Festival, con Pendulum Dj, Discosplatters, Musique that we love, Draft e Aphex Twin: unanimemente riconosciuto come uno dei maggiori producer di elettronica a livello mondiale nella sua unica data italiana. Oltraggioso, sfuggente, sarcastico: EVENTI 53


aggettivi che si possono ritagliare benissimo sulla figura di Richard D. James, a patto che siano obbligatoriamente legati ad un riconoscimento oggettivo - quello della sua genialità. Sono in molti a considerarlo semplicemente il più grande artista di musica elettronica mai esistito; affermazione su cui si può discutere e che come ovvio dipende dai gusti personali, ma che l’iconoclasta musicista anglosassone (nato nel verde della Cornovaglia) sia stato la guida assoluta della musica di taglio dance più colta e rivoluzionaria è, in ogni caso, fuori discussione. Il suo talento si è rivelato con l’inizio degli anni ‘90, ad appena vent’anni: un ragazzo prodigio in grado di costruirsi sintetizzatori e campionatori da solo e soprattutto di sfornare pietre miliari come i primi due volumi targati Selected Ambient Works, materiale che ha letteralmente stravolto le regole del gioco. Lunedì 8 agosto il Day Off proporrà, in collaborazione con Mamanera, un’anteprima dedicata al reggae con Burro Banton, Tony Matterhorn e Romain Virgo www.dayoffmusic.com

STREAMFEST

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Venerdì 19 agosto Greatest Beats termina il suo viaggio musicale con il girovago StreamFest che conclude la sua programmazione ospitando Tarantavirus, progetto del trombettista Cesare Dell’Anna che vedrà la partecipazione di musicisti internazionali provenienti da differenti generi musicali e nel quale tradizione e nuove forme di espressione digitale si incontrano. Dal 7 all’11 agosto i centri storici di Lecce e Galatina, il Parco Gondar di Gallipoli e la Fiera del Salento faranno da cornice all’ormai consueto percorso itinerante del festival. Dopo la sostenibilità multimediale, le fonti di energia rinnovabili e l’acqua sarà Digital food il titolo e il tema predominante della quinta edizione dello Streamfest, il festival di cultura eco-digitale, che si ripropone ancora una volta come uno degli appuntamenti più interessanti e attesi per gli amanti della musica elettronica coniugata ad iniziative che supportano la cultura ecosostenibile. Il programma parte domenica 7 agosto nel Teatro Romano di Lecce con la presentazione di una produzione originale ed esclusiva del festival: “Just like Honey”, il nuovo progetto performativo nato dalla collaborazione tra il gastrofilosofo DonPasta, il produttore Ennio Colaci (Minimono) e i videoartisti Influx. Ospite principale della serata sarà Ad Bourke. Lunedì 8 agosto al Parco Gondar di Gallipoli una lunga notte di immagini e suoni dal futuro che lo Streamfest propone in collaborazione con Il Grido. Protagonisti assoluti saranno la regina dell’elettronica Miss Kittin e le nuove star italiane We Love, da poco entrati nella scuderia della Bpitch Control di Ellen Allien. Martedì 9 Agosto sarà la Fiera di Galatina, con una parata di nomi della scena elettronica pugliese a far gli onori di casa ai campioni del clubbing, capitanati da Jeff Mills, leggenda vivente e re indiscusso della scena techno internazionale. Mercoledì 10 e giovedì 11 agosto grande festa conclusiva con una due giorni nelle strade e nelle piazze del Centro storico di Galatina. Organizzate come un vero e proprio percorso multisensoriale che si propone di deliziare gli occhi, le orecchie e le papille gustative ci saranno le installazioni, le performance e i workshop curati dai due principali collettivi artistici italiani, The Fooders e Arabeschi di Latte, che studiano i legami tra il cibo e le altre arti, il laboratorio-performance Musica da cucina di Fabio Bonelli che cattura i suoni della cucina per ricamare suggestive melodie elettroacustiche, i suoni dei salentini Insintesi, sospesi tra devozione alle radici e derive futuribili del Dub. Info www.streamfest.org


Dal 25 luglio al 17 agosto - Lecce SOUND RES

Non è un festival e non è una semplice rassegna di musica. Sound Res, dal 2004 ad oggi, si è strutturato come un programma di residenza, un festival e una scuola intensiva per la nuova musica e l’arte contemporanea a cura del percussionista David Cossin (che vanta collaborazioni di altissimo livello) e di Luigi Negro e Alessandra Pomarico. Grazie a Sound Res sono transitati nel Salento musicisti come Terry Riley e Philip Glass (solo per fare due nomi), sono nati progetti e collaborazioni che hanno coinvolto molti artisti e musicisti pugliesi. Dal 25 luglio e sino al 17 agosto Sound Res torna con il solito carico di novità. Quindici artisti internazionali saranno in residenza per produrre nuove opere da presentare in prima mondiale e nazionale, e condividere l’esperienza della residenza e il processo creativo con i musicisti della scena locale. Una batteria di musicisti, video artisti, compositori, sound designer, scrittori e song writers, cantanti, educatori e produttori che confermano anche questa’anno il programma di residenza Sound Res come luogo per la ricerca e fulcro per la creazione artistica d’eccellenza. La performance d’apertura Sight Unseen (7 Agosto, ore 21- 24, nel Cortile del Palazzo dei Celestini, Lecce) avrà come protagonista Lee Ranaldo, il mitico chitarrista newyorkese fondatore di Sonic Youth a lavoro in duo con Leah Singer, video-artista e artista visiva. Non si tratta di un concerto ma di un’esplorazione visiva e sonora che celebra il nascosto, il perduto, l’invisibile. Una chitarra sospesa al centro, quasi

un perno, un pendolo sonoro che reagisce al sistema quadrifonico degli speaker, al paesaggio cinetico creato dai musicisti sparsi tra il pubblico e a quello cinematografico delle immagini proiettate tutt’intorno. Secondo appuntamento mercoledì 10 agosto al Teatro Romano di Lecce dove estratti e work in progress di tutti i lavori creati durante la residenza verranno presentati in prima mondiale e nazionale. Un concerto finale che riunirà nella Sound Res House Band gli ospiti internazionali e le collaborazioni attivate con i musicisti e artisti della scena salentina, grazie anche alla collaborazione con Bass Culture e il sostegno di Puglia Sounds. Momento centrale quello della Sound Res Summer School presso l’Ammirato Culture House (in via di Pettorano, 3 a Lecce) con workshop, incontri, mastercalss, performances dimostrative, un programma diversificato e gratuito per esplorare il suono nelle sue più diverse implicazioni. Rivolta a musicisti, compositori, cantanti, artisti e filmmakers (selezionati tramite cv) la Summer School è aperta anche ad un pubblico più ampio di auditori liberi. Tra gli ospiti di quest’anno oltre a Leah Singer e Lee Ranaldo anche David Sheppard, Phill Niblock, Ali Hosseini, Helga Davis, Jeffrey Zeigler, Paola Prestini, Emily Hall, Minda Tindle, Oh Petroleum. Inoltre il workshop di Found Sound Nation (11-17 agosto) sarà mobile ed itinerante e toccherà diversi luoghi e comunità per convergere in una registrazione e ed una performance finale. www.soundres.org

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12, 14, 16 agosto Parco Gondar di Gallipoli CUBE FESTIVAL

Dal 2008 c’è un appuntamento fisso dell’estate pugliese. Si chiama Cube Festival che dopo una prima edizione barese si è trasferito al Parco Gondar di Gallipoli. Dopo aver ospitato, tra gli altri, Max Gazzè, Bluevertigo, Marlene, Morgan, Motel Connection, Skin, Baustelle, Carmen Consoli, Giuliano Palma & The Bluebeaters il festival nella quarta edizione ospita tre serate tutte italiane con Afterhours (che tornano dopo

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due anni), Subsonica e Caparezza. Il festival, organizzato da Microbati, aderisce alla Rete dei Festival Puglia Sun, sostenuta dal progetto Puglia Sounds. Si comincia il 12 agosto con la band più rappresentativa del paese reale: gli Afterhours, eccellenza assoluta per il panorama rock italiano. La band milanese ha interrotto la registrazione del nuovo album per un tour estivo che ha attraversato l’Europa, partendo da Berlino per raggiungere l’apoteosi in un’indimenticabile notte salentina. Dopo il concerto, il Parco Gondar si trasformerà in una grande discoteca


a cielo aperto per il djset della berlinese Ellen Allien, reginetta della scena electro-minimal europea. Il festival proseguirà il 14 agosto, quando il parco Gondar si trasformerà nell’ Eden del dancefloor. Sul palco l’astronave sonora dei Subsonica, reduci dal trionfale successo del tour indoor del loro sesto album “Eden”. Samuel & CO saranno raggiunti sul palco dalle leggende viventi dell’elettropop italiano, i Righeira, protagonisti della collaborazione del fortunato singolo estivo La Funzione. Ma l’appuntamento raddoppia: dopo la performance live, i Subsonica saranno impegnati in un incredibile djset fino all’alba di Ferragosto. A chiudere questa quarta edizione del Cube Festival, l’icona della pugliesità: Michele Salvemini, in arte Caparezza. Il più irriverente rapper italiano torna da trionfatore nella sua regione per il concerto più atteso della stagione. La grande festa proseguirà con un dj set in linea con il Capa-Style: una miscela esplosiva a base di rock, reggae, rap e allegria. Ma le sorprese non finiscono qui: ad animare la notte del Cube Festival ci saranno, in consolle, i Motel Connection. www.cubefestival.it

PARCO GONDAR DI GALLIPOLI

Non solo Cube. Il Parco Gondar di Gallipoli ospita gli eventi della rete Puglia Sun che coinvolge oltre al Cube anche Hula Hoop Festival, Il Grido Festival e Reggae Saturdays, quattro festival diversi per genere con una serie di appuntamenti di richiamo nazionale e con alcune date uniche per il Sud Italia. Il Parco Gondar vedrà esibirsi decine di artisti con un’offerta musicale variegata che spazia dal rock al reggae, dal folk all’elettronica in un programma della durata di oltre sessanta giorni. La programmazione di agosto è molto ricca. Si parte con una serata a tutto ska con Vallanzaska e Statuto (1 agosto) e si prosegue con Black Bandana Crew, Noyz Narcos, Metal Carter e Duke Montana (2), Soirée Tzigane Paris (3), Ilario Alicante (4), Tre Allegri Ragazzi Morti (5), Tiromancino (6), Alessandro Mannarino e Bandabardò (7), Miss Kittin (8), Sud Sound System (9), Bob Sinclair (10), Paul Kankbrenner (15), Caparezza (16), Giuliano Palma & The Bluebeaters (17), Mario Carola (18), Mr Vegas (19), Toots and the Maytals (23). www.parcogondar.it

Dal 2 al 5 agosto - Sogliano Cavour (Le)

LOCOMOTIVE JAZZ FESTIVAL

Dudu Manhenga, Paolo Fresu, Nicola Conte, Donpasta e Gino Paoli sono gli ospiti principali di Jazz Circus, sesta edizione del Locomotive Jazz Festival, diretto da Raffaele Casarano, che si terrà dal 2 al 5 agosto a Sogliano Cavour. L’articolato programma prende il via martedì 2 agosto con “From Station to Station” terza edizione dei viaggi musicali a bordo dei treni delle Ferrovie Sud Est. Un progetto di e con la partecipazione straordinaria di Paolo Fresu che vedrà a bordo anche Larry Franco Quintetnico in Circus Station e gli attori di Specimen Teatro con “Circorale”. Il cuore del festival è Piazza Diaz a Sogliano Cavour con quattro giorni di grandi concerti. Lunedì 2 agosto (ore 21.30 - ingresso gratuito) Paolo Fresu Devil Quartet si esibirà insieme a Italian Jazz Young Day. Mercoledì 3 agosto (ore 21.00 - ingresso 10 euro) la serata vedrà come ospite principale Nicola Conte in una tappa del suo Love & Revolution tour. In apertura spazio all’incontro tra Raffaele Casarano, Alessandro Monteduro e la cantante Dudu Manhenga, classe 1981, ormai una star in Zimbabwe e in molti stati dell’Africa sub-equatoriale. Giovedì 4 agosto (ore 21.30 - ingresso gratuito) Piazza Diaz si trasforma in un tendone da circo con lo spettacolo “In bilico tra circo e...” di Mototrabbasso, a seguire, Food Sound Circus spettacolo nel quale il dj, economista, autore e appassionato di gastronomia Donpasta incontra La Compagnia di Nouveau Cirque. Venerdì 5 agosto (ingresso 21 - biglietti da 25 a 15 euro) gran finale con il trio guidato dal chitarrista Giancarlo Del Vitto incontra Enrico Zanisi, pianista ventenne, in apertura, e dalle 22.00, in esclusiva per la Puglia, Gino Paoli con i brani del suo progetto “Un incontro in jazz” accompagnato da Flavio Boltro, Danilo Rea, Rosario Bonaccorso, Roberto Gatto. A seguire (ingresso libero) festa finale Jazz Circus con il punk dub tarantolato dei Mascarimirì in un progetto speciale per il Locomotive e Terron Fabio dei Sud Sound System. Tutto il programma su www.locomotivejazzfestival.it



dall’11 al 27 agosto - Salento LA NOTTE DELLA TARANTA

Da Corigliano d’Otranto e Melpignano, passando per una dozzina di concerti nelle piazze dei comuni della Grecìa Salentina, di Galatina, Alessano e (da quest’anno) di Lecce, torna la Notte della Taranta. Amato o odiato, discusso o apprezzato, il più grande festival musicale europeo dedicato al recupero e alla valorizzazione della musica tradizionale continua a riempire le piazze e a far parlare di sé nel mondo. Nonostante le difficoltà economiche che attanagliano i bilanci pubblici e qualche riduzione di budget (che negli ultimi anni si è abbassato e di non poco) la Notte della Taranta sbaraglierà anche quest’anno la concorrenza di concerti ed eventi rinnovando la formula che l’ha resa famosa in questi anni. Maestro concertatore del 2011 (dopo l’apprezzata esibizione dell’anno scorso e i concerti applauditissimi in Italia e all’estero) sarà il pianista e compositore piemontese Ludovico Einaudi che, divertito dopo la prima esperienza, tornerà al suo pianoforte a dirigere l’Orchestra La Notte della Taranta. Sul palco dell’ex Convento degli Agostiniani a Melpignano saliranno anche i Chieftains, ambasciatori della musica irlandese nel mondo, noti per aver completamente ridefinito le basi della musica irish, consacrandola presso il grande pubblico del pop e del rock, e per aver composto la colonna sonora del pluripremiato film di Stanley Kubrick “Barry Lyndon”; l’inglese Justin Adams, chitarrista blues di grande esperienza, tra i principali fautori del crossover con la musica africana, collaboratore di Brian Eno e Robert Plant; Juldeh Camara, musicista di casta griot, tra le più originali voci del Gambia e virtuoso di nyanyeru, il tipico violino a una corda delle comunità Fulani dell’Africa occidentale; Joji Hirota, compositore e multistrumentista conosciuto in particolare come maestro di taiko, il tipico tamburo giapponese, accompagnato dal gruppo di percussionisti Taiko Drummers; il madrileno Diego El Cigala, uno dei maggiori esponenti del cante flamenco. Tornano a Melpignano, dopo il successo dello scorso anno, il maliano Ballaké Sissoko, tra i più grandi interpreti della kora, e il polistrumentista e dj turco Mercan Dede insieme ai percussionisti Secret Tribe. E non potevano mancare i Sud Sound System che battono tutti i record di presenze. Difficile sintetizzare il programma del festival itinerante che vedrà gruppi salentini, progetti speciali e ospiti provenienti da altre zone d’Italia. Il consiglio è quello di cercare il programma o di seguire la manifestazione sul sito ufficiale www.lanottedellataranta.it.

dal 2 al 7 agosto – Orsara (Fg) ORSARA MUSICA JAZZ FESTIVAL

Dal 2 al 7 agosto torna in provincia di Foggia per il ventiduesimo anno consecutivo il festival jazz più longevo della Puglia, manifestazione che dal 1990 propone concerti, seminari, attività divulgative, conferenze e interazioni fra differenti espressioni artistiche. Il Festival, che rientra nella rete Five Festival Sud System, prenderà il via con i seminari internazionali di musica jazz che, anche quest’anno, saranno condotti da docenti di rilievo internazionale. Ma il festival ospita soprattutto quattro giorni di concerti (tra Orsara e Foggia) che ospitano grandi personalità musicali e numerosi progetti speciali, produzioni originali e concerti in esclusiva. Appuntamento clou, sabato 6 agosto (ore 22.00) in Largo San Michele, con la prima mondiale per la composizione originale di Antonio Ciacca in sette movimenti dal titolo “Orsara suite for seven musicians” con la partecipazione di Jerry Bergonzi (sax), Jim Rotondi (tromba), John Webber (contrabbasso), Joe Farnsworth (batteria), Mark Sherman (vibrafono), Lucio Ferrara (chitarra), Antonio Ciacca (piano). Tra gli ospiti anche il pianista cubano Hilario Duran, Jason Lindner trio, il chitarrista Lionel Loueke, Lucio Ferrara Trio, Jim Rotondi, Mark Sherman, Joseph Lepore, Luca Santaniello, Rachel Gould Quartet, che propone “Italians Americans song book”. www.orsaramusica.it

RETE MOMART

Dopo Clean Art, L’Acqua in testa, Aqua Vite e Giovinazzo Rock Festival, prosegue il fitto calendario della rete Momart sostenuta da Puglia Sounds che raduna sette festival della provincia di Bari. Sabato 20 e domenica 21 agosto a Monopoli va in scena il Dirockato festival. Due interessanti serate (ingresso gratuito) che vedranno sul palco Marta Sui Tubi, affiancati da Uross, Io Ho Sempre Voglia, Two Left Shoes, Expirano e Corridoio...con figure e luci nel primo appuntamento e Meganoidi, La Biblioteca Deserta, No Broken Bottom, Teenage Riot, Acquasumarte e Lenula nella giornata finale. A settembre altri due appuntamenti della rete Momart ancora in via di definizione con Premio Vito Luisi a Castellana Grotte (2 settembre) e Aritmia Mediterranea di Molfetta (17 settembre).


AGOSTO LUNEDÌ 1 Oh Petroleum al Sud Est Indipendente al Soul food di Torre dell’ Orso (Le) Casino Royale e Brunori Sas al Giovinazzo Rock Festival a Giovinazzo (Ba) The Zen Circus, Nada, Fonokit all’ Anfiteatro di Lecce Satuto, Vallanzaska al Parco Gondar di Gallipoli(Le) Lunedì brasiliano al Chiringuito di Torre dell’Orso (Le) DAL 2 AL 7 Birra & Sound a Leverano (Le) DAL 3 AL 5 Ecologico International Film Festival a Cisternino (Br) Parte da Cisternino, in provincia di Brindisi, la quarta edizione dell’Ecologico International film festival. Questa tre giorni ospiterà le proiezioni dei primi film in concorso nelle varie sezioni, incontri ed eventi. Dal 22 al 24 agosto tappa a Nardò. tutte le info su www.eiff.it MARTEDÌ 2 Eveline a Lecce Statuto alla Notte Bianca di Vernole (Le) Italian Jazz Young Day e Paolo Fresu al Locomotive jazz Festival in Piazza Diaz a Sogliano Cavour (Le) Zucchero allo Stadio via del Mare di Lecce DAL 3 AL 6 Experimenta ad Alberobello (Ba) MERCOLEDÌ 3 Nicola Conte, Dudu Manhenga al Locomotive Jazz Festival a Sogliano Cavour (Le) Eveline al Surf di Taranto Aloe Blacc al Locus Festival a Locorotondo (Ba) Live Music al Relitto sulla Torre dell’ Orso - Otranto (Le) 60 EVENTI

DAL 4 AL 9 Carpino folk festival a Carpino (Fg) GIOVEDÌ 4 Bud Spencer Blues Explosion, A Tea with Alice, Dirty Blood, Shoe’s Killin Worm a San Vito Dei Normanni (BR) Mario Biondi a Largo Di Corte di Conversano (Ba) Stax! al Soul Food di Torre Dell’ Orso (Le) Don Pasta al Locomotive Jazz Festival a Sogliano Cavour (Le) Faber Festival a Martano (Le) VENERDÌ 5 Diaframma, Shoe’s Killin Worm, Shoe’s Killin Worm, Playontape a San Vito Dei Normanni (Br) Ministri, Republika Mod, Steela, Funzione Random all’Indi[e]pendent Music Festival a Porto Cesario (Le) Tre Allegri Ragazzi Morti al Palazzetto dello sport di Gioia del colle (Ba) Gino Paoli al Locomotive Jazz Festival a Sogliano Cavour (Le) James Senese, Napoli Centrale al Suono Dal Salento a Torre Suda (Le) Kymani Marley al Campo sportivo di Lizzanello (Le) Tiromancino al Parco Gondar di Gallipoli (Le) SABATO 6 Paolo Benvegnù al Roseto Attacca La Spina a Roseto Valfortore (Fg) Tre Allegri Ragazzi Morti al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Nicola Conte al Locus festival a Locorotondo (Ba) BandAdriatica a San Donaci (Br) Premio Kallistòs in Piazza San Quintino ad Alliste (Le) El Sabatone con Tobia Lamare al Buenaventura di San Foca (Le) Napoli Cantrale a Racale (Le)

DOMENICA 7 Sud est indipendente con Jon Spencer Blues Explosion, One Dimensional Man, Roberto dell’Era al Parco Torcito di Cannole (Le) Planet Funk al Forum Eventi di San Pancrazio Salentino (Br) Raiz a San Vito Dei Normanni (Br) Bandabardò e Mannarino al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Yo Yo Mundi all’Oasi San Martino di Acquaviva Delle Fonti (Ba) Raphael Gualazzi per il Locus Festival alla Cantina Sociale di Locorotondo (Ba) Fonokit ad Aradeo (Le) Leitmotiv al Cortile Campo Di Hockey di Torre Santa Susanna (Br) Jazz Jam Session al Buenaventura di san Foca (Le) StreamFest al Teatro Romano di Lecce Sight Unseen con Lee Ranaldo e Leah Singer per Sound Res a Palazzo dei Celestini di Lecce LUNEDÌ 8 Franco Battiato all’Arena Del Mare di Bisceglie (Ba) Yo Yo Mundi alla Festa Di Emergency a Brindisi Raphael Gualazzi in Piazza Libertini a Lecce Day Off Music Festival con Burro Banton, Tony Matterhorn e Romain Virgo a Parco Torcito di Cannole (Le) StreamFest con Miss Kittin al Parco Gondar di Gallipoli Lunedì brasiliano al Chiringuito di Torre dell’Orso (Le) MARTEDÌ 9 Franco Battiato al Foro Boario di Ostuni (Br) Vinicio Capossela al Parco Torcito di Cannole (Le) Sud Sound System al Parco Gondar di Gallipoli (Le) StreamFest con Jeff Mills alla Fiera di Galatina (Le)


MERCOLEDÌ 10 Live Music al Relitto sulla Torre dell’ Orso - Otranto (Le) Sound res House Band al Teatro Romano di Lecce StreamFest a Galatina (Le) GIOVEDÌ 11 Vinicio Capossela alla Banchina San Domenico di Molfetta (Ba) Jovanotti allo Stadio Via del Mare di Lecce (Le) Gusto Dopa Al Sole al Parco Torcito di Cannole (Le) StreamFest a Galatina (Le) VENERDÌ 12 Afterhours, La Fame di Camilla, Il Sogno, Dj Ellen Allien al Cube Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Max Gazzè alla Cantina Sociale di Locorotondo (BA) Gusto Dopa Al Sole al Parco Torcito di Cannole (Le) Carl Palmer a Suono dal Salento a Torre Suda (Le) Francesco De Gregori al Forum Eventi di San Pancrazio Salentino (Br) SABATO 13 Daniele Silvestri a Torre Regina Giovanna ad Apani (Br) Gusto Dopa Festival al Parco Torcito di Cannole (Le) Toromeccanica alla Notte Bianca di Taurisano (Le) El Sabatone con Tobia Lamare al Buenaventura di San Foca (Le) DOMENICA 14 Subsonica, Serpenti al Cube Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Mauro Ermanno Giovanardi all’ AlterFesta di Cisternino (Br) Jazz Jam Session al Buenaventura di san Foca (Le) Gusto Dopa Festival al Parco Torcito di Cannole (Le)

LUNEDÌ 15 Calibro 35 all’ AlterFesta di Cisternino (Br) Benèrika a Suono Dal Salento a Torre Suda (Le) Lunedì brasiliano al Chiringuito di Torre dell’Orso (Le) MARTEDÌ 16 Caparezza al Cube Festival al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Day Off Music Festival con Crookers, Grandmaster Flash, Congorock. 2d noize a Parco Torcito di Cannole (Le) MERCOLEDÌ 17 Giuliano Palma and The Bluebeaters al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Beatrice Antolini a Palagiano (Ta) Mario Biondi a Trani (Ba) Live Music al Relitto sulla Torre dell’ Orso - Otranto (Le) Day Off Music Festival con Aphex Twin, Pendulum Dj, Discosplatters, Musique that we love, Draft a Parco Torcito di Cannole (Le) GIOVEDÌ 18 Après La Classe a Suonincava ad Apricena (Fg) Lucia Manca al Soul Food di Torre dell’ Orso (Le) Ansansi al Jamjam Festival a Lecce VENERDÌ 19 Cut a Marina di Novaglie (Le) Anansi al Cotriero di Gallipoli (Le) Anima Mundi al Canto delle Cicale in Piazza Caduti a Felline (Le) SABATO 20 Brunori S.A.S a Torre Regina Giovanna ad Apani (Br) Marta sui Tubi a Monopoli (Ba) Cada del Mirto all’Eremo Club di Molfetta (Ba) Menamenamò al Canto delle Cicale in Piazza Caduti a Felline (Le)

El Sabatone con Tobia Lamare al Buenaventura di San Foca (Le) DOMENICA 21 Meganoidi a Monopoli (Ba) Jazz Jam Session al Buenaventura di san Foca (Le) LUNEDÌ 22 24 Grana al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Lunedì brasiliano al Chiringuito di Torre dell’Orso (Le) MARTEDÌ 23 Toots & the Maytals al Parco Gondar di Gallipoli (Le) MERCOLEDÌ 24 BandAdriatica a Torre dell’ Orso (Le) Live Music al Relitto sulla Torre dell’ Orso - Otranto (Le) GIOVEDÌ 25 Oh Petroleum all’Angelè pub Manduria (Ta) Zanca dj set al Soul Food di Torre dell’ Orso (Le) VENERDÌ 26 Toromeccanica al Cotriero di Gallipoli (Le) SABATO 27 Max Gazzè a Botrugno (Le) El Sabatone con Tobia Lamare al Buenaventura di San Foca (Le) La Notte della Taranta a Melpignano (Le) DOMENICA 28 Jazz Jam Session al Buenaventura di san Foca (Le) LUNEDÌ 29 Lunedì brasiliano al Chiringuito di Torre dell’Orso (Le)

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EVENTI 61


sino al 25 settembre

DALÌ IL GENIO E OLTRE DALÌ AL CASTELLO DI OTRANO

Cresce di anno in anno l’attenzione per le grandi mostre del Castello Aragonese di Otranto, gestito dalla Società cooperativa Sistema Museo di Perugia e dell’Agenzia di Comunicazione Orione di Maglie con la direzione artistica dell’architetto Raffaela Zizzari. E dopo le circa 90mila presenze delle precedenti mostre di Picasso e Mirò, i primi due mesi di Dalì, il genio hanno sbaragliato i precedenti con circa 20mila presenze e per agosto si attende un ulteriore incremento considerato l’afflusso di turisti che invadono Otranto. La mostra Dalì il genio, a cura di Alice De Vecchi, aperta sino al 25 settembre (ingresso 6/4 euro) accoglie sei sculture originali in bronzo, tra le quali “Elefante cosmico” quattro incisioni originali, che spaziano nel mondo del surreale per illustrare temi e testi letterari e che ancora una volta testi-

moniano la grande capacità grafica del maestro spagnolo. Nelle sale e negli spazi aperti del castello è stata allestita anche OltreDalì, rassegna collaterale a cura di Raffaela Zizzari, che trasforma il castello in una tappa obbligatoria per chiunque visiti Otranto, mutandolo in una grande macchina culturale dedicata all’arte e alle sue nuove espressioni. In tale contesto la rassegna interagisce omaggiando Dalì, le sue manifestazioni artistiche, gli elementi caratterizzanti di una figura poliedrica come quella del “genio polimor-

fo”, trasformati e reinterpretati da artisti nazionali. Dai baffi ceramici di Monica Righi alle tele molli di Pasquale Pitardi, dal fuori scala di Marino Ficola alle sedie di Luigi Orione Amato (in foto), dalle miniaturistiche illustrazioni di Massimo Pasca ai macro ciottoli di Studio Paladini, dalla seduta bocca di Gufram alle sedute di Romano Alcide Rizzo, dal sub reale di Giuseppe Piccioli all’uovo di Raffaela Zizzari e un eccezionale omaggio di Fabio Novembre. www.daliotranto.it

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della Cultura, Gamestore), Nardò (Libreria i volatori, Vite, Aioresis Lab), Novoli (Saletta della Cultura Gregorio Vetrugno), Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento (Sinatra Hole), Gagliano Del Capo (Enoteca Torromeo, Tabacchino Ricchiuto), Presicce (Jungle pub, Arci Nova), Salve (Chat Noir, Le Beccherie), Ruffano (Soap), Casarano (Caffè Cortes), Castrignano del Capo (Extrems), Torre dell’Orso (Soul Food e Chiringuito), San Foca (Buenaventura), Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini), Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee), Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli, Kismet teatro, New Demodè, TimeZones, Teatro Forma, H25), Giovinazzo (Arci 37), Trani (Spazio Off), Taranto (Associazione Start, Trax vinyl shop, Gabba Gabba, Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì Phone’s Center, Artesia, Radiopopolaresalento), Manduria (Libreria Caforio), ogni tanto a Roma (Circolo Degli Artisti) e molti altri festival, pub, live club....


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