Anno VI Numero 52 aprile 2009
INDIE RAGION PER CUI
INDIE RAGION PER CUI L’indie è il motivo, indi ragion per cui siamo qui. Ce lo ha ricordato in questi giorni il Paese è reale, disco voluto e ispirato dagli Afterhours, band che con la sua partecipazione a SanRemo ha messo in chiaro che l’Italia non è solo quella che la tv e la radio ci propinano. E per sottolineare il gesto non scelgono la strada del facile disco post festivaliero ma pubblicano una compilation, che consigliamo a tutti, con tutto, o quasi, il meglio dell’indie Made in Italy. Non è un fenomeno ma una realtà che da anni esiste e resiste sul territorio. E noi con lei, con questo giornale, figlio più o meno legittimo delle mitiche fanzine ciclostilate e con i nostri concerti (parte in questi giorni il nostro festival Keep Cool dedicato alla musica indie). Abbiamo dedicato questo numero a quello che, forse, è più di tutto uno stile di vita, il modo in cui interpretiamo noi stessi all’interno della realtà. La filosofia che questo concetto porta con se è quella del do it yourself, figlio del punk e padre dell’altro mercato, dell’altra informazione e più in generale dell’altra cultura. Ne abbiamo parlato con Marco Philopat, pioniere e teorico di questo pensiero nel nostro paese. Lo troviamo aggiornato ai nostri tempi con le storie delle
nuove radio e tv nate sul web. E ancora sul web abbiamo visto come un gruppo come i Radiohead possa fare a meno di una major e vendere di più. Prima di internet l’indie era fatto di carta, sudore, vinile. Ce lo ha raccontato Gianni Maroccolo, per la musica e per il mercato discografico un personaggio chiave (nei Litfiba, nei Csi, nei Marlene Kuntz come musicista e tra i fondatori del Cpi - Consorzio Produttori Indipendenti). Ancora musica con le interviste ai salentini Muffx e Shank, agli americani Cristal Antlers, ai Les Fauves, agli El ghor. Come sempre recensioni indie, e non, e il Salto nell’indie, manco a dirlo, la nostra rubrica dedicata alle etichette discografiche. La letteratura ospita le parole di Serge Quadruppani e Marco Mancassola, il cinema quella di Margherita Buy. E alla fine come sempre troverete gli appuntamenti più “cool” di aprile. Un mese speciale per Coolclub che saluta un amico che torna e uno che si allontana, i ritorni ci si augura siano per sempre gli arrivederci per poco. Per il resto a tutti, come ogni mese, buona lettura. Osvaldo Piliego
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CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 6 Numero 52 aprile 2009 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo Hanno collaborato a questo numero: Simone Rollo, Marco Montanaro, Giancarlo Susanna, Dino Amenduni, Ennio Ciotta, Marco Chiffi, Vittorio Amodio, Tobia D’Onofrio, Pierfrancesco Pacoda, Alfonso Fanizza, Rino De Cesare, Federico Baglivi, Camillo Fasulo, Oscar Cacciatore, Emiliano Cito, Rossano Astremo, Nino G. D’Attis, Francesca Maruccia, Roberto Conturso, Michela Contini, Elisabetta Lapadula In copertina foto di Giovanni Ottini Ringraziamo Manifatture Knos, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag.com, Radio Popolare Salento di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Musicaround.net. Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione la domenica delle palme tra un arrivederci e un bentornato Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: redazione@coolclub.it 0832303707
Indie ragion per cui
Marco Philopat 6 Pronti al peggio 11 Prima di tutto i Beatles 12 Gianni Maroccolo 18-19 musica
Crystal Antlers 20-21 Muffx 24 Recensioni 29 Libri
Serge Quadruppani 42-43 Marco Mancassola 44 Recensioni 47 Cinema Teatro Arte
Margherita Buy 52-53 Recensioni 54-55 Momart 56 Eventi
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MAI SOTTO PADRONE Intervista a Marco Philopat
È il simbolo della controcultura italiana degli ultimi trent’anni. Tra i primi punk in Italia è stato uno dei fondatori del Virus, mitico centro sociale. Anni cruciali per la scena underground italiana, raccontati da Marco Philopat in Costretti a sanguinare pubblicato nel 1997. Libro che inizia una trilogia che prosegue con La Banda Bellini nel 2002 e si chiude con i Viaggi di Mel nel 2004. Nel 2006 esce Punx - creatività e rabbia, un dvd/ libro che tratta della scena punk in Italia. Sempre nel 2006 pubblica per Agenzia X Lumi di punk, la scena italiana raccontata dai protagonisti. Nel 2008 esce Roma KO (Agenzia X) scritto insieme al Duka, che intreccia fiction e realtà ripercorrendo trent’anni di underground romano, dagli anni settanta al G8 di Genova 2001. Agitatore e animatore della scena “indipendente” italiana (anche se la parola non gli piace, ndr) Marco Philopat è oggi nel gruppo di Agenzia X, casa editrice che unisce cultura “alta” e cultura di “strada”. Uno dei più grandi conoscitori di tutto quello che si muove all’ombra, delle culture “altre”, un personaggio fuori dagli schemi capace di offrirci una prospettiva nuova sulla nostra storia e il nostro presente. Questo numero di Coolclub.it è intitolato Indie ragion per cui, come se l’essere indipendenti sia il motivo per cui siamo su questo pianeta, che cos’è oggi, secondo te, essere indipendenti e che senso aveva 20, 30 anni fa? Diciamo che la parola indipendente non mi è mai piaciuta molto, indipendenti da che cosa? È un po’ riduttivo. Per quel che mi riguarda essere indipendenti vuol dire non esssere sotto un padrone. Sono convinto che il fatto di essere indipendenti, autonomi, nel caso della mia gioventù da militante nella scena punk, delle autoproduzioni, coincide con il do it yourself. Quello che ci permetteva di fare una rivista, un disco, facendo tutto da noi, senza dover andare a bottega da nessuno, senza dover dipendere dal più infinitesimale dente dell’ingranaggio della produzione culturale che c’era. Chi faceva il do it yourself ai tempi del punk faceva di tutto: era musicista, pubblicista, promotore, grafico, rilegatore, venditore e distributore del proprio prodotto. Aveva a disposizione, se pur con numeri limitatissimi tutto quanto era necessario per il meccanismo della produzione e, bene o male, avendo un’ idea, una visione complessiva del processo di produzione culturale imparava in fretta i modi i punti in cui si vendeva meglio. Essere lontani dal mercato, a volte, è una scelta, quale messaggio “politico” si riferisce a questa scelta?
In questo senso io credo che, per la situazione del mercato oggi, e lo dico soprattutto per i giovani che si affacciano nel mondo del lavoro così frastagliato e devastato, così privo di umanità in cui la competizione è tutto, può essere una scelta. Magari uno fa uno stage per imparare una piccola parte del proprio lavoro sottoposto a ritmi allucinanti in cui predomina l’arrivismo, la competizione, lo sgomitare contro i propri simili. Con il do it yourself invece collabori con le altre persone, non c’è questo clima di competizione che c’è adesso. Una volta c’era il praticantato, l’inserimento nel mondo del lavoro tramite i corsi di formazione che al tempo funzionavano. Poi con l’avvento del post fordismo questo è decaduto completamente. Diciamo che il do it yourself e anche l’essere indipendente aiuta molto i giovani per la scelta del loro ruolo nel mercato del lavoro. Poi per quanto riguarda la scelta di essere indipendenti, è sicuramente una scelta che ha dei costi. Le controculture hanno bisogno di essere documentate, di diventare testimonianza, forse in questo senso l’essere indipendenti è in qualche modo un’esigenza, cosa ne pensi? Si, perché l’ambiente contro culturale, quello underground è proprio uno stile di vita, che non prevede, tra l’altro, meccanismi gerarchici. Tutto ciò che è dipendente vuol dire dipendenza soprattutto da questi meccanismi: capo, sotto capo, capoufficio e quant’altro. Quindi la cultura underground rifiuta gli schemi gerarchici, figurati stare dentro una grande azienda. Non esiste la possibilità di dividersi in due lavorando da una parte per un padrone e dall’altra per te stesso, perché le pratiche contro culturali dell’underground non prevedono la separatezza tra questo mondo e quell’altro mondo, non siamo divisi in cassetti (questa è la mia professione, questo è il mio hobby, questa è la mia convinzione politica)… si vive alla luce del giorno… o meglio, nel buio dell’underground ci si riconosce in una maniera orizzontale. Non esiste una proposta culturale all’interno di grandi corporations o addirittura aziende che pretendono di essere capostipite di qualcosa. Per quanto mi riguarda non riesco a concepire, questo è un mio grosso problema, di stampare i miei nuovi libri in una casa editrice, preferisco ancora lavorare nel mio piccolo laboratorio dove la resa, anche dal punto di vista economico, è inferiore ma la qualità migliore di dieci volte. Questa scelta ha però dei costi, a cui facevo riferimento prima, che equivalgono a una mancanza di organizzazione, interminabili riunioni dove si tenta di trovare una via INDIE RAGION PER CUI 7
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comune perché si lavora in equipe e quindi un libro rischia di uscire con quattro, cinque mesi di ritardo. È un principio di crescita, una scelta di vita anche dura però, per quella che è stata la mia vita, non riuscirei a fare altro. Musica e scrittura, il punk cosa significa oggi? Il punk… Quando ho cominciato a scrivere Costretti a sanguinare, nei primi anni ’90, l’avevo scritto soprattutto perché mi sembrava che l’esperienza del punk, del Virus (storico centro sociale milanese) a cui avevo partecipato quando ero giovane, erano cose che stavano andando perdute. Agli inizio degli anni ’90, con la caduta del muro di Berlino, il punk sapeva di muffa, allora mi è sembrato giusto scriverne per dare memoria storica di quello che avevo vissuto. Però, allo stesso tempo, proprio quando ho cominciato a scrivere il libro è scoppiata la guerra, prima in Slovenia, poi in Croazia, il mondo non era più tanto pacificato e quindi le nuove generazioni hanno trovato nel punk ancora un preciso riferimento per contestare, per opporsi alla logica della guerra e di un sistema che stava diventando peggio del precedente. Un sistema che si è rivelato man mano sempre più pazzesco. Pensa che quando è uscito, nel ’97, Costretti a sanguinare ha iniziato ad andare subito bene “inaspettatamente” e avevamo stampato solo 1000 copie. Poi è scoppiata la guerra anche in Serbia con il bombardamento di Belgrado nel ’99 e anche qui le nuove generazioni hanno trovato nel punk nuova linfa vitale per poter ribellarsi alle proprie condizioni di vita partendo dalla condizione della guerra in senso stretto. Negli anni 2000 poi la situazione è ulteriormente peggiorata e quindi i gruppi punk, che agli inizi degli anni ’80 erano cinque o sei a Milano, sono esplosi. C’è stato un grandissimo proliferare di band e di riviste agli inizi degli anni zero, non solo a Milano ma in tutte le città italiane e le provincie. È un fenomeno europeo e più in generale occidentale. Di conseguenza sono andato a rivedere perché il punk non morisse e ancora qui nella filosofia Do it yourself ho trovato una risposta. I ragazzi che oggi escono dalle scuole, magari da istituti professionali di quartieri popolari o zone depresse italiane, si buttano nel mondo del lavoro e lo vedono organizzato in maniera assolutamente assurda… beh forse gli conviene mettere su una band oppure una piccola redazione di una rivista ed entrare in meccanismi di collaborazione reciproca. Do it your self è quindi una chiave di volta importante che ha portato il punk a resistere così tanto nel tempo.
Ancora, la tua attività editoriale come scrittore e non solo è un percorso unico in Italia. Ci racconti l’esperienza di Agenzia X? A noi piace chiamarlo un laboratorio di scrittura, che lavora in stretto contatto con gli autori. Tutti gli autori dei nostri libri sono qui a lavorare con noi per la realizzazione dei vari volumi. Abbiamo un rapporto di amicizia reale, vero e anche tutta la parte che riguarda le presentazioni e la promozione in genere la portiamo avanti insieme. X è una sorta di crocevia di una serie di personaggi che individuano nelle idee per la condivisone dei saperi il terreno comune. Condivisione di saperi che significa mischiare i saperi alti, elevati, quelli dell’accademia a quelli della cultura del ghetto, la gente che arriva dalla strada, l’urgenza di scrivere, di esprimersi attraverso la carta stampata… una scrittura che noi abbiamo definito “teppista”. In realtà quasi tutti i nostri libri sono indirizzati sul rapporto tra fonti orali e una trasposizione storica in chiave narrativa, nel senso che molti nostri libri partono proprio da registrazioni orali di persone che sanno raccontare bene. Noi mettiamo insieme queste storie, le elaboriamo e cerchiamo di metterle in forma narrativa come una sorta di racconto che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Questo per far si che la memoria, la memoria storica del nostro presente sia una sorta di veicolo in movimento verso una migliore comprensione di ciò che ci circonda e di quello che può essere un orizzonte futuro. Abbiamo anche una collana dedicata al cinema, una che si occupa di odio e opposizioni e anche alcune riviste e saggi che esplorano dal punto di vista storico e sociologico. Quali sono, secondo te, le realtà indipendenti italiane più interessanti? Mi piacciono le case editrici che lavorano su un limitato campo di azione. Mi piace Derive e Approdi, una casa editrice che lavora tanto su un immaginario che è nato durante gli anni ’70 e che in qualche modo dà strumenti di lettura per un possibile rapporto tra letteratura e impegno politico. Sensibili alle foglie è un’altra casa editrice che mi piace seguire. Ci sono cose interessanti anche dal punto di vista musicale e teatrale. Vorrei citare il sito carmillaonline: un progetto collettivo in cui c’è dentro tanta gente. È portato avanti dal fondatore Valerio Evangelisti ed è l’esempio di un sito che ha più di un milione di contatti, che ha creato un dibattito forte e si è creato anche una forte identità attraverso tutti quelli che vi partecipano. Simone Rollo
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ESSERE O NON ESSERE INDIE
L’essere indipendente è un po’ come essere rock and roll, è un attitudine, un atteggiamento che si assume nei confronti del mondo, e non solo musicalmente parlando. E proprio con il rock and roll nasce, in embrione forse, l’idea di un mercato ufficiale e di un mercato altro, negli anni ‘50 e anche prima, con le piccole etichette discografiche, che producevano in linea con quella che sarà poi teorizzato come il do it yourself, dischi realizzati in bassa fedeltà (low-fi) molto diversi dalla musica commerciale del tempo e rivolti a un pubblico di nicchia. Ma già il rock and roll, la sua esplosione con Elvis, è la testimonianza di come l’indie non sia solo un genere destinato a pochi ma forse più vicino al gusto reale della gente. Un fenomeno, quello dell’aggressione dell’indie al mercato globale, che la nostra generazione ha vissuto con i Nirvana e l’etichetta Sub Pop, giusto per fare un esempio. Alcuni sostengono che il mercato indipendente non faccia che anticipare quello che prima o poi diventerà un gusto diffuso. In un senso più politico l’indie è opposizione alle major, alla grande industria discografica rappresentata da un pugno di etichette che gestiscono la quasi totalità del mercato. Tutto il resto è indie? E quanto spazio ha? Difficile marcare i confini, soprattutto oggi, di un concetto che assume una miriade di sfaccettature. L’indie può essere inteso anche come un genere musicale, padre di una grande famiglia di sottogeneri che partono dall’indie rock, passano dall’indie pop e arrivano INDIE RAGION PER CUI
all’indie dance. Anche il punk è indie? Sicuramente si, almeno nelle intenzioni, nel suo nascere. Essere contro o meglio essere liberi sembra la chiave di volta dell’indie. Suonare o creare più in generale senza pensare a un pubblico inteso in senso commerciale. Detto in questi termini sembra quasi una forma di espressione egoista, ma non è così. L’indie è estremamente solidale, sviluppa naturalmente il senso di rete, di circuito, una sorta di mutuo soccorso volto alla resistenza, alla sopravvivenza. E grazie a questo che ieri e mai come oggi (merito della rete, questa volta intesa come internet) che la musica indie arriva ovunque. Simon Reynolds, critico inglese illuminante, ha proposto una teoria secondo la quale la sostanziale differenza tra cultura indie e cultura pop si basa sulla dicotomia celebrale/corporeo. L’indie rinuncia alla carica sessuale che il rock aveva negli anni ‘60 (Mick Jagger, Iggy Pop), si allontana dalla sua radice black per assumere caratteri più passivi, un look più trasandato, una virata verso il rumore (Sonic Youth, Husker Du) o un atteggiamento più snob (The Smiths). Il pop mainstream invece predilige il ballo, l’eleganza, la spudoratezza e attinge ancora oggi a piene mani dalla cultura r&b, funk, soul. E dice Reynolds: “il culto della perfezione oggi dilagante ci toglierà il diritto di costruire le cose, di costruire una cultura”. L’indie sembra inoltre voltare le spalle al futuro (no future?) visto come il paradiso del consumatore e si esilia, si rifugia nell’infanzia, nell’androginia, nel disordine. Sono passati un po’ di anni dalle parole di Reynolds e i confini si sono, per così dire, avvicinati. Il nuovo indie riscopre la dance, la pista, l’estetica e il nuovo pop si lascia affascinare da suoni più underground e “sporca” la sua patina levigata. Resta l’atteggiamento, la spinta da cui tutto parte, il senso del fare musica, o forse semplicemente il “modo”. Segno di una continua evoluzione, di una generation (beat, blank o rave) figlia del tempo che scorre e batte un ritmo sempre nuovo. Indie o pop che sia l’importante è che ci siano ancora canzoni e musiche capaci di raccontare quello che siamo. Osvaldo Piliego
PRONTI AL PEGGIO Storia di una web tv al servizio dell’indie Non posso dire di aver mai compreso appieno cosa sia l’indie. Indie pop? Indie rock? Indie boogie? Rimane il fatto che certa musica che ascolto finisce sotto questa etichetta. Ah, il problema deve esser proprio quello, l’etichetta. Freghiamocene. Sarà un movimento, sarà qualcosa d’inesistente come la maggior parte dei movimenti. L’intervista che segue è ad Andrea Girolami, una delle menti di Pronti al Peggio, una web tv che si occupa di musica (indie? boh), e lo fa avvicinandosi di traverso ai protagonisti attuali della canzone italiana meno conosciuta (meno sputtanata, fate voi). Sul sito di Pap troverete molte rubriche interessanti, dai live improvvisati in stile Blogotheque a interviste informali sul luogo del lavoro (quello vero) dei musicisti. Come nasce l’idea di Pronti al Peggio? Intendo dire, quando vi siete accorti che tecnicamente si poteva cominciare? Quando ci sono stati i soldi. Scusa la poca poesia ma è così. Pronti Al Peggio è un format a budget ultra ristretto ma per produrre alcuni dei contenuti e, soprattutto, ripagare me e Iragazzidellaprateria che ci lavoriamo 12 ore al giorno serviva un budget di partenza. Abbiamo prima girato dei piloti che abbiamo presentato in giro, poi è partita la prima serie vera e propria. Credo che saremo in disaccordo su quanto sto per dire. Direi che l’indie, come altri “movimenti” musicali, sia più un fatto d’atteggiamento che di genere musicale; non vedo cosa c’azzecchino Le luci della centrale elettrica con i Radiohead ad esempio; poi mi chiedo, anche da un punto di vista dell’atteggiamento, cosa c’azzecchino i gruppi citati sopra; forse è solo un atteggiamento verso il music business? (che suona sempre bene)
C’è chi fa le cose per sfondare, per guadagnare soldi o perché un’analisi di mercato gli ha detto così. E sono tanti. Poi c’è chi fa le cose per urgenza, per bisogno espressivo, semplicemente perché gli piacciono e non potrebbe-vorrebbe fare altro. Qualcuno, in musica, chiama questa seconda categoria indie, va bene se ci fa comodo, tanto sappiamo tutti il vero significato. Serve più che altro a separarci dagli altri, ma è un discorso di forma più che di sostanza. Altra cosa sull’indie: che io sappia, a differenza di altre sottoculture metropolitane (argh) non credo ci sia un qualche tipo di droga strettamente legato a questo stile di vita. Eccetto forse quel pensare sempre che siamo un po’ tutti nella merda (cosa che genera dipendenza, a mio parere). L’indie pensa di essere nella merda perché non si droga abbastanza. È un grosso errore che io cerco di non fare. Quello che mi piace di PaP è il motivo di fondo: e cioè che produrre musica, oltre che un lusso (data l’offerta, visto che non siamo negli anni ’50 e tutti hanno una band), è un grosso sacrificio, e che non è più tempo di rockstar. Il che esce fuori molto bene nell’intervista a Jukka dei Giardini di Mirò, quasi a disagio nel far ascoltare la sua musica sul posto di lavoro. Oppure che nessuno è una rockstar se lo osservi abbastanza da vicino. Le superstar oggi vengono create a tavolino, perché permettono di creare le cosiddette property: vacche grasse da cui poter tirare fuori soldi in ogni modo. Ecco, noi cerchiamo di fare la cosa opposta, non perché siamo dei missionari ma crediamo sia semplicemente più interessante parlare o sentir suonare una persona in carne ed ossa che un cartellone pubblicitario. Marco Montanaro INDIE RAGION PER CUI 11
PRIMA DI TUTTO I BEATLES Uno dei nodi centrali nella storia della civiltà occidentale è il rapporto tra gli artisti e i detentori dei mezzi di produzione dell’arte stessa. Proprio per questo non si contano i tentativi dei musicisti di realizzare le loro opere in assoluta autonomia dalle “logiche commerciali”. Non è questa la sede per affrontare una questione tanto complessa, ma possiamo almeno tentare un breve esame di uno dei casi più eclatanti di “business” gestito in prima persona da artisti. Non tutti lo ricordano, ma anche i Beatles tentarono di trovare la classica quadratura del cerchio: lavorare all’interno del mercato privilegiando soprattutto la qualità della musica (e non solo quella, come vedremo). Nel 1967 i Beatles vennero informati che rischiavano di perdere due milioni di sterline in tasse se non li avessero reinvestiti al più presto. Decisero quindi di creare una società con una serie di divisioni specializzate in vari settori della comunicazione e della produzione e nel gennaio del 1968 trasformarono la Beatles Ltd in Apple Corps. Il nome e il logo della Apple furono scelti da Paul, che era un appassionato collezionista 12 INDIE RAGION PER CUI
di Magritte. La mela verde compariva intera sull’etichetta della facciata A dei dischi e tagliata a metà su quella della facciata B. Ci furono poi delle varianti: la mela era arancione per All Things Must Passa di George Harrison, bianca per Imagine di John Lennon. (Un aneddoto: nella parodia beatlesiana dei napoletani Shampoo, pubblicata dalla EMI, sulle etichette c’erano un pomodoro intero e uno a metà!). Le sezioni della Apple Corps, tuttora in attività dopo varie vicissitudini erano sei. Il responsabile, che ha preso il posto di Neil Aspinall, scomparso nel 2008, è attualmente Jeff Jones. Apple Records. Partì alla grande nel 1968 con Hey Jude dei Beatles e Those Were The Days di Mary Hopkin. Ha chiuso i battenti nel 1975, ma dischi dei Beatles come One o Love portano ancora il marchio della mela verde. Tra i dischi del catalogo c’è il primo di James Taylor prodotto da Paul. Apple Films. Fu lanciata nel ’68 e chiusa da Allen Klein nel 1969. Ha prodotto pochissime cose, ma sulla carta è ancora in funzione.
Apple Retail. La famosa Apple Boutique di Baker Street a Londra fu aperta nel dicembre del ’67 – il gruppo creativo olandese The Fool aveva fatto dipingere uno splendido murale, provocando le proteste degli abitanti del quartiere - e chiusa per difficoltà nella gestione a luglio del ’68. Apple Electronics. Un vero disastro. Ad opera di Alex Mardas (alias Magic Alex), che aveva allestito negli scantinati della Apple a Savile Row uno studio di registrazione con un 72 piste (!) totalmente inefficiente. Apple Publishing. Molte entrate, grazie soprattutto a Without You, la canzone dei Badfinger portata al successo da Harry Nilsson. Zapple Records. Etichetta sperimentale, pubblicò solo due dischi, uno di John e Yoko, Life With The Lions (1969), e uno di George Harrison, Electronic Sounds (1969). Secondo John Lennon, «L’obiettivo della società non è una serie di denti d’oro in banca. Non ci interessa. È più un trucco per vedere se riusciamo a ottenere la libertà di espressione artistica all’interno di una struttura commerciale; per vedere se riusciamo a creare cose e a rivenderle senza caricare tre volte sui costi». Non si può dire che la Apple sia stata un totale fallimento, ma certo non raggiunse del tutto gli obiettivi che i Beatles si erano prefissati. Ingenuità, senso dell’amicizia – tutti i collaboratori della Apple, da Derek Taylor (ufficio stampa) a Pete Shotton (direttore della boutique), da Magic Alex a Neil Aspinall, erano amici stretti dei quattro – volubilità, spese “voluttuarie” e presunzione furono alcune delle cause dei vari naufragi all’interno della Apple Corps. Se John, George e Ringo non avessero chiamato – contro il volere di Paul, l’ex manager dei Rolling Stones Allen Klein, la Apple avrebbe trascinato i Beatles in un disastro definitivo. P.S. Un’altra curiosità: uno degli oggetti più ambiti dai collezionisti dei Beatles è una confezione di quattro 45 giri pubblicata solo in Italia alla fine del ’68 per lanciare il marchio Apple. Il primo 45 giri comprendeva un’intervista ai Beatles di Kenny Everett, gli altri dei brani di Mary Hopkin, The Iveys e Jackie Lomax. Giancarlo Susanna
EFFETTO RADIOHEAD Il mondo indie ha un’occasione irripetibile. La coda lunga (vedi Coolclub di marzo), ovvero quella teoria economica che spiega che nel mondo dei beni immateriali (Internet, in particolare), i costi di produzione e distribuzione di prodotti e servizi ha costi tendenti allo zero apre uno scenario ancora incompreso dal mercato discografico mondiale. Non a caso, è stato un gruppo a consegnare il vaso di Pandora al mercato musicale. Non a caso, l’idea è cresciuta subito dopo la furibonda litigata tra Radiohead ed EMI che ha portato alla rescissione del contratto. Rimasti soli e con un album pronto tra le mani, hanno deciso di mettersi alla prova. E già che c’erano, hanno messo alla prova anche i nervi di molti amministratori delegati. Hanno creato un sito internet, www.inrainbows.com, su cui hanno messo a disposizione il loro ultimo album. Tutti i brani, scaricabili legalmente. Il prezzo? Lo hanno fatto decidere agli utenti. Si poteva pagare 10, 20€, 70 centesimi, nulla. E’ stato l’utente a dare un peso all’intangibile. Si è tornati al rapporto diretto tra musicisti e appassionati. Chi ha deciso di pagare ha messo i soldini nelle tasche dei Radiohead, e solo a loro. Nessun’azienda che produce cd, nessuna casa discografica, nessuno spazio pubblicitario, nessun volantino. Ma soprattutto, il quartetto di Oxford ha deciso di non farsi proteggere da nessuna macchina pubblicitaria. Quanto hanno raccolto? 2,75€ ad album. Un settimo del prezzo di un cd. Un disastro? Affatto. La vendita di un cd musicale porta in media 2,3€ nelle casse degli artisti. 17€ e 70 centesimi arricchiscono aziende in cui il compratore non aveva deciso di investire. I Radiohead hanno quindi inventato un’operazione economica per loro stessi e per i loro fan. E la prossima volta, chissà, la musica dei Radiohead avrà un valore ancora maggiore. E gli italiani? Truffatori, scaricatori a tradimento su eMule, consumatori a scrocco? Il primo mercato mondiale. 800mila € spesi. Il motivo? Di sicuro, non è solo una questione di smisurata ammirazione per Thom Yorke. L’Italia è un mercato dove la qualità premia, ma premia anche la relazione personale. Le case discografiche sono avvisate: i gruppi possono sfondare senza il bisogno dell’aiuto di nessuno. Dino Amenduni
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JUST DO IT (YOURSELF)
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Erano gli anni novanta. Avevo spesso i capelli lunghi ed ero convinto che non sarei mai morto. Erano anni in cui la gente acquistava ancora i dischi e vantava in comitiva di avere “colonne” di compact disc e vinili in casa. Io ero uno di quelli. Mentre la maggior parte dei miei compagni d’avventura ordinava tramite posta i magici oggetti del desiderio, alternando di tanto in tanto le spedizioni postali con pacifiche invasioni di massa presso negozi specializzati in giro per l’Italia, io inizio sfacciatamente ad acquistare ogni sorta di supporto audiovisivo presso i banchetti in giro durante i concerti. Inizia anche per uno come me, allora poco meno che maggiorenne, il lungo viaggio nel fantastico, affascinante ed incoerente mondo dell’autoproduzione. Era stimolante spulciare tra pile e colonne di vinili, cassette e compact disc senza conoscere neanche un nome, farsi spiegare il genere, le influenze, le motivazioni, le mille storie che si nascondono dietro un gruppo o dietro un disco. A quanto pare scopro tutta una serie di dischi, libri e fanzine che sfuggono alle dure leggi del mercato, esprimendo efficacemente l’idea di autoproduzione ed autogestione. Moltissime di quelle esperienze non mi hanno mai più abbandonato. L’autoproduzione è un concetto che è stato introdotto nei primissimi anni ottanta da uno storico gruppo musicale, anarchico e pacifista: i Crass. La loro comparsa ebbe un effetto dirompente sulla scena punk di quel periodo, caratterizzata da giovani scapestrati dall’attitudine marcatamente nichilista, autolesionista e teppista. Essi ebbero il merito di introdurre la pratica dell’autoproduzione in reazione all’industria discografica che, allora come oggi, cercava di influenzare a scopo commerciale la musica e le idee degli artisti sotto contratto. L’autoproduzione viene vissuta non solo come un modo per livellare i prezzi di vendita ma, soprattutto, è il modo più efficace per mantenere la propria indipendenza dalle pressioni che le case discografiche fanno sugli artisti al fine di commercializzare la propria musica per poter avere un prodotto più vendibile. Da un lato quindi viene vista come un “prodotto”, una merce su cui investire, dall’altro come il frutto della propria creatività che, in quanto manifestazione di libera espressione, non accetta di essere manipolata. I confini non esistono per chi è abituato a pensare con la propria testa ed a confrontarsi con ciò che vede, e quindi anche il concetto di “Do It Yourself” inizia a manifestare ai miei occhi tutte le sue molteplici sfaccettature. L’idea di libera espressione si confronta subito col fatto che buona parte di questi gruppi, e parliamo spesso e volentieri di formazioni punk, hardcore, post
punk, crust, grind core, assorbono in ogni caso una nicchia di mercato attenta ma piccola, non suscitando alcun interesse da parte di possibili investitori e rendendo necessaria la nascita di piccole etichette (le celeberrime etichette indipendenti) in grado di saper gestire questo business. Succede anche che l’autoproduzione venga spesso vista come una rampa da affrontare per poter conquistare un po’ di attenzioni in giro, un modo per stare “nel mercato” prima che qualcuno si accorga del potenziale e decida di investire tempo e denaro. Queste ed altre differenze specifiche hanno reso il confronto spesso poco disteso, lasciando spazio a critiche, chiacchiere e “nicchie di appartenenza”. Resta necessario capire questo clima interno, frutto dell’evoluzione degli anni novanta che vanno a chiudersi, per poter comprendere la situazione attuale. Oggi l’autoproduzione è una realtà consolidata e forte. I grossi trust del mercato discografico, sulla scorta dei pessimi dati di vendita dei dischi, perdono rapidamente il loro ruolo ed il loro potere, creando purtroppo anche loro grosse risacche di precariato, concentrando quindi le loro attenzioni su affari “mordi e fuggi”. Ecco quindi che il valore di un singolo, cioè del brano con cui un artista lancia sul mercato il proprio disco, si trasforma nel potenziale di una suoneria per il cellulare. Ormai quasi tutti gli artisti ad ogni livello sono abituati (o sono stati costretti) a gestire in casa i propri affari, autoproducendo i propri dischi per poi affidarli a bravi distributori o meglio ancora ad ottimi promoter. Pur di battere cassa, anche chi prima viveva comodamente adagiato sulle sue cifre di vendita, ha dovuto imbracciare gli strumenti e tornare a suonare dal vivo. In un’epoca in cui accendere il pc significa avere accesso a qualunque brano musicale (e non solo) mai esistito, creare un supporto fisico destinato alla vendita rimane un’idea a cui in molti hanno già rinunciato. L’evoluzione del mercato discografico, e quindi anche l’autoproduzione, con tutto il suo bagaglio storico, ideologico e pratico, sono il vero fulcro intorno al quale oggi girano molte domande senza una risposta definitiva. Come in un battito di ciglia siamo passati dai banchetti coi dischi punk con le splendide copertine inguardabili, alle migliaia di stand del meeting delle etichette indipendenti di Faenza, in cui davvero chiunque si sente autorizzato a parlare di autoproduzione pur di raschiare il fondo di un barile ormai vuoto. Ma noi non vendiamo ciò che abbiamo di più intimo, lo regaliamo o preferiamo sprecarlo! Ennio Ciotta INDIE RAGION PER CUI 15
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LIBERA RADIO IN LIBERO WEB Nell’era del web 2.0 e di internet nella quale stiamo nuotando (affogando forse) il fenomeno delle web radio è in costante aumento. Le web radio sono emittenti radiofoniche che trasmettono in streaming il proprio segnale su internet, e se da una parte la rete è diventata un canale fondamentale per le grandi compagnie radiofoniche per ampliare il proprio bacino di ascolti, dall’altra è diventata un’opportunità per sfogare la passione amatoriale per la radio. Il parallelismo con le radio libere degli anni settanta è spontaneo. Nel 1976 la Corte Costituzionale dichiara illegittima una legge che proteggeva il monopolio della Rai sulla diffusione radiotelevisiva. Risultato: quelle che prima erano radio “pirata” diventano radio “libere”. Bastava un giradischi, un trasmettitore, un microfono e senza nessuno sponsor o costo aggiunto si era “on-air” nel raggio di qualche chilometro. Per trasmettere sul web oggi bastano una connessione internet, un pc, un piccolo software e pochi spiccioli per affittare un server al quale agganciarsi. Ma a parte l’economicità dei mezzi che è rimasta la stessa, è cambiato il raggio d’azione, dai pochi chilometri si è passati alla possibilità di farsi sentire dal mondo intero e certo questa è la peculiarità delle libere web radio del duemila. Ma la libertà, l’indipendenza, esiste davvero? A tutt’oggi in Italia le istituzioni non si sono interessate al fenomeno, almeno a livello giuridico, ma ci pensano i grandi comparti del music business. Per chi fa musica a livello amatoriale la SIAE è come l’esattore delle tasse che ti dorme sul pianerottolo. E con la SIAE si muove la SCF (Società Consortile Fonografici). E se ci spostiamo all’estero il quadro non è poi tanto differente. Negli USA la RIIA, l’associazione dei produttori discografici, sta gradualmente entrando nel settore delle web radio richiedendo royalties altissime che favoriscono solo i grandi gruppi. Col tempo sono nate anche delle forme di associazionismo tra le emittenti web. In Italia spicca la WRA (Web Radio Associate) mentre a livello
internazionale vi è la ETCA (European Thematic Channels Association), che si propongono di rappresentare e tutelare chi trasmette sul web. Certo la situazione appare quanto mai difficile ma il problema dei diritti d’autore non risolve e chiude tutta la questione. Nonostante tutto, piccole emittenti crescono e si moltiplicano. Lontano dai meccanismi dei grandi gruppi radiofonici e dagli interessi derivanti da pubblicità e royalties, gruppi di ragazzi aprono spazi “liberi” a costo quasi zero e arrivano a risultati spesso interessanti. Un esempio è RadioFLO, una piccola emittente nata a gennaio 2009 che raccoglie un gruppo di ragazzi con la comune passione per la musica e la radio. Tutto è autoprodotto e non c’è né uno sponsor né tantomeno pubblicità all’interno dei programmi. Dando poi uno sguardo al palinsesto è sorprendente vedere sia il numero dei programmi e degli speaker (che per onor di cronaca non prendono un centesimo) che i luoghi da dove trasmettono, dalla Puglia alla Sardegna, alla Finlandia! E se poi un progetto come questo invoglia gli ascoltatori a collaborare e ad avere un proprio spazio all’interno del palinsesto, beh di certo si inserisce appieno nella logica del web duepuntozero. Inoltre, con meno di tre mesi di vita RadioFLO ha collezionato più di 6.200 visite sul sito e quasi 800 membri del gruppo su Facebook. RadioFLO è solo un esempio. Ma credo renda bene l’idea. Se il web è fatto dagli utenti e per gli utenti, anche le radio entrano nella logica e diventano un prodotto degli utenti stessi. Indipendenti dalle speculazioni e dai programmi commercialmente vendibili, queste piccole realtà riescono a trovare un ruolo che parte dall’ambito locale per poi estendersi col passaparola ad altre realtà. Certo è inutile soffermarsi su questi aspetti dato che il web sta insegnando a tutti quelli che lo utilizzano regole precise sui ruoli e le possibilità. In fin dei conti resta la voglia di fare e la passione di mettersi in gioco. Marco Chiffi 17
GIANNI MAROCCOLO
Trent’anni di rock italiano dai Litfiba ai Marlene Kuntz Un pezzo della nostra storia. Gianni Maroccolo, o più intimamente Marok, per chi con lui ha condiviso suoni e note, ha attraversato la scena del rock indipendente italiano sotto le vesti - mutevoli e intrecciate - di musicista, produttore, scopritore di gemme rare e, perché no, alchimista di incontri. Dai Litfiba passando per i Csi fino ad arrivare ai Marlene Kuntz la vita di Gianni Maroccolo è costellata di innumerevoli progetti a cavallo tra musica e arte. Tra le sue numerose collaborazioni quelle con Timoria, Andrea Chimenti, Bandabardo’, Diaframma, Pgr. È stato uno dei fondatori di un altro mercato discografico con il Cpi, Consorzio Produttori Indipendenti, realtà emblematica della scena musicale italiana indipendente degli anni ’90, Gianni Maroccolo rappresenta non un capitolo ma un vero e proprio tomo della storia dell’indie italiano. Questo numero è dedicato al concetto di 18 INDIE RAGION PER CUI
Indie (indipendente), per molti musicisti della tua generazione un sogno... un sogno che si è realizzato o un percorso che si è interrotto? Per ciò che mi riguarda un sogno che si è realizzato. Ho lavorato con etichette indipendenti, ne ho fatta una (il CPI), ho anche lavorato con le majors, e sempre da indipendente ovvero, portando avanti ogni progetto secondo le mie idee e salvaguardando sempre l’indipendenza mia e/o degli artisti che ho prodotto. Senti a proposito degli inizi riesci ora, in maniera distaccata, a parlarci brevemente di quell’esperienza che fu l’IRA Records? L’IRA fu un sogno meraviglioso. Un’esperienza nata sulle onde dell’entusiasmo che purtroppo però in poco tempo si trasformò in “altro”. Devo molto all’ Ira, ma ben presto la filosofia dell’etichetta si modificò in modo netto. Iniziò ad ope-
rare come se fosse una major e il rapporto tra etichetta e artisti divenne davvero molto pesante e limitante. È innegabile che gli anni ‘80, nonostante loro, siano stati per la musica italiana indipendente la chiave di svolta... e la Toscana in quel periodo giocò un ruolo di strategica importanza. Penso ai gruppi fiorentini, alla Materiali Sonori di San Giovanni Valdarno, all’Indipedent Music... cosa è rimasto di quella scena 30 anni dopo? Poco o niente direi, a parte la mitica Materiali Sonori! Il fermento eccezionale di quegli anni sfumò nel giro di 7/8 anni. Non fummo in grado di unire le forze... tutti pensarono esclusivamente al proprio orticello ed arrivò il “mercato” a comprarsi quello che potenzialmente valeva di più. Un’ occasione persa direi, ma un’ impronta indelebile che rimarrà per sempre. I Litfiba sono stati tra i primi gruppi di quella scena a sottoscrivere un contratto con una major... ne seguirono polemiche ed accuse di “tradimento”. Oggi questa netta separazione tra i “due” mercati esiste ancora? E se no? qual è oggi il concetto di “indipendente” che ti senti di condividere... Indipendente per me significa non dover dipendere da nessuno. Questa è stata ed è la mia filosofia di vita in generale e ancor di più in particolare musicalmente parlando. Ho sempre operato con le majors e non ho mai dovuto sottostare a nessun tipo di compromesso. È un falso storico che siano le majors a rovinare gli artisti ... gli artisti si rovinano da soli x mille ragioni, non ultima, la sete di successo e popolarità. Una sera, proprio a Firenze, parlando con Caterina Caselli e dei primi dischi di “rock italiano” prodotti dalla Sugar mi disse “mi spieghi perché un gruppo che prima di arrivare da noi riesce a fare un disco con 5/10 milioni di lire e con noi ne spende minimo 100 di milioni? Se i dischi dei gruppi rock italiani continuassero a costare poco, si potrebbe investire più in promozione ecc. invece arrivano da noi ed i costi aumentano vertiginosamente”... in effetti un bel paradosso. Un paradosso relativo. Non sempre è così. Con Csi e Pgr abbiamo lavorato benissimo con Polygram/Universal e non siamo caduti mai nella tentazione a cui accenna Caterina. Sono le persone che fanno la differenza, la loro capacità di sapersi gestire. Questo vale anche ad esempio per i MK (gruppo con cui collaboro dal ‘94) e il loro rapporto con Virgin/Emi. Il vero problema
è un’altro... Se le majors investissero davvero in “ricerca” non si troverebbero nella situazione di dover acquisire a cifre alte artisti che provengono dall’underground. In tal senso trovo giusto che non essendoci stati nel momento più difficile e non avendo rischiato alcunchè l’acquisizione di un’artista preveda un riconoscimento per tutto ciò che è stato il “passato”. Del resto, secondo me, i gruppi italiani, quelli del cosidetto nuovo rock, hanno sempre considerato il “disco” come “biglietto da visita” per suonare dal vivo e non come prodotto a se’... o no? Si e no. Negli 80 ad esempio, il disco rappresentava una meta per tutti noi. Ci si arrivava dopo anni di concerti, di gavetta dura. Oggi invece è diverso. Siamo in un periodo di passaggio da un’epoca ad un’altra ancora tutta da comprendere. Ora produrre un disco è alla portata di tutti e il farlo rappresenta una delle molteplici attività di chi fa musica. Serve per farsi conoscere, per provare a farsi suonare in radio e per trovare concerti. Come è cambiato, e se è cambiato, il concetto di musicista indipendente con l’avvento del web 2.0... le carenze sono sempre le stesse... (produzione, distribuzione, promozione...) É cambiato l’uso che si fa della musica. Il mercato ti propone si e no il 10% della musica prodotta e suonate nel mondo. Il web fa si che ora la musica circoli liberamente e che il concetto di “indipendente” ormai più che una scelta sia la “regola”. C’è musica ovunque... e il supporto è sempre meno importante. Oggi essere musicista significa (mi si perdoni il termine) essere imprenditore di se stessi... Questa è una grande conquista ... Indipendenti in tutto e al tempo stesso unici artefici del proprio destino. In chiusura raccontaci a cosa stai lavorando... Sto collaborando con i MK su svariati progetti. A giorni uscirà l’album di addio dei Pgr e sto preparando il nuovo disco di IG con Ivana Gatti. In preparazione un mio disco solista tutto strumentale... e poi è nato un gruppo estemporaneo che si chiamerà Beautiful... ci sarò io, i 3 MK e Howie Beee... e per finire... mi sto occupando della produzione artistica di due giovani band: Bastian Contrario di Caserta e The Clockmakers di Padova. Vittorio Amodio
INDIE RAGION PER CUI 19
MUSICA
CRYSTAL ANTLERS Neo psichedelia dalla California Dopo un folgorante EP d’esordio, esce sempre su Touch and Go l’atteso album dei Crystal Antlers, band californiana del filone neo-psichedelico. In occasione del tour italiano, scambiamo due chiacchiere con il cantante e bassista Johnny Bell. La vostra musica è un mix di rock psichedelico, garage, prog, ma in alcuni pezzi si sente una netta vibrazione punk-hardcore. Credo che un simile effetto si avverta nella musica dei Wolf Parade. Puoi spiegare come si mescolano tutte queste influenze? 20 MUSICA
Non sono sicuro, per quanto riguarda i Wolf Parade, perché non li ho mai ascoltati. Abbiamo suonato con gli Handsome Furs (vedi recensione in questo numero), il progetto parallelo di metà dei Wolf, Dan Boeckner. Tutti noi suonavamo in gruppi punk, in pratica è il nostro background; poi alcuni sono rimasti legati alla scena, mentre altri hanno iniziato ad esplorare sonorità diverse come il soul, la musica psichedelica anni ‘60, e sono queste influenze, prendi ad esempio l’organo, che rendono il nostro sound psichedelico, ma
stiamo cercando di suonare gli strumenti anche in modo diverso. Certo, si sente molto il soul nella tua voce e soprattutto ci sono molte più tastiere rispetto all’EP d’esordio. Si, assolutamente! Ho scritto seduto a un organo molti pezzi del nuovo album, nonostante io sia il bassista. Le vostre uscite hanno riscontrato un immediato successo di critica e pubblico. A parte la prestigiosa Touch and Go, il vostro EP è stato prodotto da Ikey Owens, il tastierista dei Mars Volta. Come vi siete conosciuti? Beh, Long Beach è una città molto piccola, ha una ristretta scena musicale, quindi ci conoscevamo da tempo. Il nostro batterista (Damian Edwards), che tutti chiamano Sexual Chocolate, era un suo amico. All’inizio abbiamo suonato insieme e ci siamo divertiti un mondo; avevamo due tastiere, per un certo periodo. Grazie a questa esperienza abbiamo avuto modo di entrare sempre più in sintonia, finché Ikey ha deciso di produrre il nostro EP. Ho letto che avete registrato l’album Tentacles in una settimana; sembra incredibile! Come avete fatto? Beh, avevamo molti impegni, così abbiamo deciso di ritornare nello stesso studio di registrazione in cui eravamo già stati… i Closer Studios a San Francisco. Lì ci ha registrati Joe Glodring, che si è rivelato una specie di mago, è stato grandioso. Il risultato è estremamente compatto, avete registrato in presa diretta? Si, quasi tutto il materiale. In realtà abbiamo sovrainciso poche tracce: qualche tastiera, piano, i fiati, il sax e qualche controcanto. Ma il grosso è tutto registrato in presa diretta. Volevo giusto farti un’altra domanda a questo proposito. Molte delle vostre canzoni suonano un po’ come delle jam sessions. Mi chiedevo se lo fossero davvero. Quanto spazio lasciate all’improvvisazione? In realtà nessuno, è solo un impressione. Tutte le parti sono ben definite, ogni passaggio è esattamente come lo abbiamo strutturato in fase di scrittura. Non c’è improvvisazione. Fondamentalmente non mi piace improvvisare e non amo ascoltare parti improvvisate.
Parlami del rivival psichedelico in America: Animal Collective, No Age, Fleet Foxes, Bodies of Water, avete legato con qualche band in particolare e soprattutto che ne pensi di questo revival? Non saprei, anche perché effettivamente le bands che hai nominato sono davvero molto diverse l’una dall’altra. Non so fino a che punto psichedelico sia la parola giusta, o se semplicemente indichi, più che altro, un’attitudine free alla musica. Abbiamo legato con diverse band che potremmo definire psichedeliche, per esempio i Fucked Up, con cui abbiamo girato in tour, oppure le Vivian Girls… ci sono un sacco di gruppi grandiosi che suonano musica free, al momento, semplicemente non le chiamerei bands psichedeliche. Alcuni critici e diverse riviste vi hanno paragonato ai Comets on Fire. Pensi che il paragone sia calzante? Ho capito a cosa ti riferisci, ma non mi sembra che tra i due gruppi ci siano molte somiglianze. Le nostre canzoni si muovono su uno spettro sonoro più ampio. Non credo che il paragone sia calzante. Vi siete fatti un’idea della scena indipendente italiana? C’è qualche gruppo che ti piace? Beh è la prima volta che veniamo in Italia, nessuno dei componenti della band ci era mai stato prima. Finora siamo stati a Bologna, ma non siamo ancora riusciti a farci un’idea della scena musicale. Girando, però, abbiamo avuto modo di apprezzare le bellezze di questo posto incredibile. In questo momento non mi viene in mente nessun gruppo italiano. Forse gli Uzeda, anche se vivono in America. Steve Albini è un personaggio importante… da il meglio di sé proprio lavorando in studio, sembra riesca ad essere più critico. Raccontaci qualche disavventura che vi è capitata mentre giravate in tour! Beh viaggiando in tour ce ne sono capitate di tutti i colori, con innumerevoli gruppi. Quante volte abbiamo rotto i pullman! In un tour con i Fucked Up, ci fermammo nel bel mezzo di un’autostrada canadese e fummo costretti a fare l’autostop. Arrivammo a destinazione con tre ore di ritardo, ma il locale stava già chiudendo. Allora stanchi morti, in quell’atmosfera surreale, strappammo una performance di quindici minuti a testa… Fantastico! Tobia D’Onofrio
MUSICA 21
LES FAUVES Giocare a fare sul serio
Sono uno dei gruppi di punta della scuderia Urtovox, piccolo re mida della discografia indie italiana. I Les fauves con questo Liquid Modernity spiazzano e dividono pubblico e critica. Secondo capitolo di una trilogia questo nuovo album mette da parte i giovanilismi e decide di fare sul serio. Basta ascoltare i primi tre brani del vostro ultimo album ed il vostro eclettico programma appare subito chiaro. Si sentono la psichedelia e il garage dei ‘60, ballate esotiche, pulsioni dance, la new wave dei ’70, ma ciò che colpisce di più è la tensione tra lo spirito garage-punk che caratterizza molti dei vostri patchwork e l’attenzione verso i dettagli che spesso e volentieri sforna cambi e arrangiamenti interessanti. Quello che intendo dire, è che senza dubbio l’approccio dadaista e giocoso investe sin dalla copertina, ma sembra anche che la ricerca di soluzioni musicali “originali” sia una parte importante del vostro lavoro. Quanto vi prendete sul serio, insomma e dove conduce la vostra ricerca? Non ci prendiamo granché sul serio a dire il vero, il tutto é inteso come gioco, come prendere tanti ingredienti, frullarli insieme e poi cercare di 22 MUSICA
ridargli un ordine, destrutturare e ricomporre in nuove forme, eliminare gli schemi fissi per crearne di liquidi. Il fatto che il nostro eclettico programma sembra subito chiaro un po’ mi preoccupa. Mi sembra che Liquid Modernity si rifaccia soprattutto alla new wave americana, in particolare Devo, Residents e Pere Ubu. Sono davvero stati questi i vostri ascolti? In parte si, siamo grandi ammiratori di quei gruppi, come anche della scena no wave di new york, come Linda Lunch o i Contortions, ma ciò che ci accomuna a loro non é tanto la musica in sé, quanto l’approccio iconoclasta credo, per il resto si tratta di gruppi esistiti in un altro posto e in un’altro periodo e noi non cerchiamo di fare revival. Il disco è il secondo capitolo di una trilogia. NALT significa Noise Arms Limitation Talk. Che vuol dire, esattamente? È preso dai trattati di non prolificazione delle armi di distruzione di massa, fra la Russia e gli Stati Uniti, durante la guerra fredda, quelli si chiamavano SALT, e ce ne furono tre, in quel periodo il batterista stava studiando storia contemporanea e l’analogia ci é sembrata carina.
volutamente evitato i cliché, oppure li abbiamo esasperati fino al paradosso. Ho letto che avete realizzato una colonna sonora. Come è nata questa collaborazione che ha portato all’acclamato film del Festival di Venezia, Non Pensarci? Che tipo di esperienza si è rivelata, cosa ha rappresentato per voi? Ci hanno chiesto di usare un nostro pezzo per quel film e noi abbiamo accettato a scatola chiusa, senza nemmeno guardare il film o informarci sul regista. Fortunatamente poi siamo stati invitati alla proiezione a Venezia e il film era una bella commedia, al di sopra della media italiana. Mentre la collaborazione con Swayzak, il duo elettronico londinese su K7? È stata una vostra idea? Conosciamo molto bene Francesco Brini, il loro batterista, é un nostro grande amico e ha mixato anche parecchi pezzi nell’album. Ci ha chiesto lui di collaborare e noi abbiamo accettato più che volentieri.
Avete immediatamente attirato l’attenzione della critica e della stampa internazionale, il che non accade tutti i giorni ad una band italiana. Ovviamente vi farà piacere, visto che ogni musicista sogna di portare in giro le sue canzoni in tutto il mondo. Ma a partire dalla scelta della lingua Inglese, sembra che il vostro target, sin dall’inizio, fosse da qualche altra parte, oltre i confini nazionali. È soltanto una mia impressione? Hihi, il nostro target é potenzialmente oltre i confini planetari! No, a parte gli scherzi penso che quando qualcuno comincia un lavoro non dovrebbe partire ponendosi dei limiti, deve seguire le proprie inclinazioni naturali. Nel nostro caso sono testi in inglese e musiche al limite della comprensibilità. Forse Keep living in a Subway è il brano in cui emerge più chiaramente la classica struttura strofe e ritornello, così a metà tra Barret e i Flaming Lips. Avete evitato consapevolmente la forma canzone tradizionale? Si, abbiamo cercato di giocare con le strutture tradizionali, mescolare un po’ le cose. Abbiamo
Nonostante la quantità enorme di sonorità differenti, ogni passaggio sembra comunque ricercato e studiato nei dettagli. Come nascono i vostri pezzi? Scrivete insieme tutto il materiale? Beh, di solito si parte da una struttura per la ritmica, un giro di basso più batteria, una struttura che di solito comprende già una linea vocale e tutti i vari cambi, che per questo possono essere anche audaci ma non sono mai artificiosi, e su questo poi si condisce di roba. È un po’ come accade con un quadro o con una scultura: si fa prima una struttura portante e poi la si lavora fino ai particolari. Parlatemi del vostro tour americano, avete avuto la possibilità di entrare in contatto con la fiorente scena neo-psichedelica? Ma soprattutto credete che esista davvero e quali sono i gruppi che seguite maggiormente? Beh, non é stato un vero e proprio tour, abbiamo suonato solo all’ SXSW ad Austin, per i restanti sei giorni siamo stati a zonzo per il Texas, é stato un bel viaggetto on the road, una bella sfacchinata ma ne è valsa la pena. La scena neo-psichedelica però non l’abbiamo vista neanche da lontano, apprezziamo comunque molto gruppi come Clinic e Animal Collective Tobia D’Onofrio MUSICA 23
MUFFX
Piccole ossessioni stoner dal Salento Nuovo album per la band salentina capace di mettere a frutto la lezione dello stoner rock di matrice americana imbastendo un circo sonoro alieno e al contempo personale. Esce in questi giorni Small Obsessions, album licenziato da Go down records che conferma eclettismo e maturità di una band veramente esplosiva. Inutile dire che il vostro mondo musicale è assolutamente visionario, da dove nascono queste piccole ossessioni? Al super mercato quando mi trovo vicino alla cassa felice di trovare sempre meno fila e ringrazio la “crisi” per questo; nel salotto di casa in fondo a destra vicino al pianoforte; su facebook dove tutti sono amici di tutti e si interessano di te e dei tuoi cazzi; la sera nei bar quando tutti si lamentano dei politici esattamente come ieri, e non ti spieghi se è l’alcol a rendere meccanica 24 MUSICA
la gente ho è la meccanicità insita in noi che ci spinge comunque sempre in questi discorsi di merda; poi sul terrazzino di casa dove da bambino lanciavo gavettoni in testa ai passanti ed invece oggi al massimo qualche mozzicone di sigaretta per sbaglio; quando discuto con gli anziani, molto più aperti, rivoluzionari, interessanti e alternativi di tanti giovani o presunti tali, sarà che non ci sono più i vecchi di una volta? Queste piccole ossessioni, emergono un po’ dappertutto. Rispetto al primo lavoro, si nota nei nuovi brani un certo coraggio, la voglia di intraprendere nuovi percorsi musicali, cosa è successo? Credo che fisiologicamente prendendo maggiore coscienza di quello che già si sapeva, e cioè che con la musica non ci guadagnerai mai salvo in casi rari (sempre se non si è un “big” dei ma-
trimoni) a questo punto si è deciso di lasciarsi andare un po’ di più nelle ambientazioni sonore senza troppe seghe mentali, il divertimento personale non ha prezzo e in questo vogliamo essere ricchissimi! In più, mi piacciono i Beirut, Yan Tiersen, Nino Rota, Ivo Papasov, Tom Waits e molto etno world in genere... ascolta oggi e ascolta domani prima o poi qualcosa filtra nella tua musica... basta filtrarla con “educazione”. Poi cambiano anche le esperienze, resta il teatrino Salento, ma se ti piace osservare noti che cambiano tante cose, pensa al clima per esempio! Cambia lui, figurati noi. Il vostro rapporto con la musica ha un che di giocoso, ci spieghi questa immagine del circo? A nostro avviso dovrebbero giocarci tutti con la musica, se ci si prende troppo sul serio anche con le sette note non ci resta che piangere Giocare ma con rispetto ovviamente, rispetto per la tua dignità di musicista ma principalmente per chi ti ascolta, soprattutto se suoni roba tua. Il circo invece lo interpretiamo un po’ come evasione dal frenetismo della vita attuale sempre più difficile sotto tutti i punti di vista, inoltre in forte contrapposizione al divertimento virtuale, cito Guitar Hero per esempio... poi il circo è vario, stilisticamente riconoscibile ma nonostante ciò rappresenta un contenitore di tante cose diverse, è nomade come lo siamo un po’ tutti ancor di più in quest’epoca, odora di “zingaro” e la cultura Rom mi affascina (addirittura volevo metterci un pezzo cantato in romanes nel disco ma poi... vabbhé...). In questo album avete importanti collaborazioni, ce le racconti? In questo disco hanno collaborato in molti, la selezione è stata basata su due principi fonda-
mentali: il primo ovviamente riguarda la scelta degli strumenti che volevamo aggiungere; e poi un’attenta ricerca durante i concerti salentini per individuare appunto i personaggi che avrebbero potuto dare vibrazioni positive in relazione all’idea finale del disco. Ed ecco che la ricerca ha dato i suoi frutti. Dopo aver chiesto a tutti la collaborazione e dopo che tutti hanno accettato il cerchio si è chiuso col giusto entusiasmo, così abbiamo in questo disco con noi: Max Ingrosso e Max Ear per le percussioni, Marco Tuma per i flauti, Marco Landolfo voce baritono, Zara Veleno cori e sexy voice, Claudio Prima all’organetto diatonico e diabolico, Alessia Vantagiato Terragno voce in Prelude, Gabriele Saracino all’organo leslie... solo due artisti ci sono scappati per questioni di tempi, Cesare Dell’Anna e Mauro Tre ma una collaborazione con loro sarà inevitabile, il magnetismo tra i Muffx e questi due artisti folli c’è, e presto o tardi esploderà in qualche modo. Un album, un immaginario, ma anche un’immagine, sono in preparazione due clip, ce ne parli? Il divertimento impagabile nel girare il primo video clip realizzato nel 2007 non volevamo perdercelo neanche questa volta, perciò abbiamo deciso di ripristinare la vecchia squadra capitanata da Cristian Sabatelli, per questo nuovo capitolo della band si è deciso di girare con lui As the Foxes, un video clip tra il minimale e lo sperimentale davvero divertente! E poi Cristian sta ai Muffx come Morricone sta a Sergio Leone (ora l’ho sparata grossa!). In più, mandammo una copia del disco ad Edoardo Winspeare prima ancora del master definitivo, per vedere cosa ne pensava, in fondo gli spaccati di società che spesso lui mette in risalto nei suoi film non erano poi così distanti da quelli realmente vissuti da alcuni di noi e che volenti o nolenti trasudano dalle nostre canzoni... chissà ci siamo detti: magari qualche atmosfera di S.O. si potrebbe legare bene alle sue visioni, alla fine ci arrivò la telefonata, Winspeare aveva accettato la nostra umile proposta, il secondo video clip dell’album si avvarrà della sua regia. Bella storia. Sulla canzone scelta dal regista per ora tutto tace… Credi ci sia più rabbia o alienazione in quello che fate? Per questa domanda siamo andati alle votazioni, il responso è che: Amedeo e Cristiano sono arrabbiati con tutti per via della loro alienazione; io e Alberto siamo alienati da tutto perché sempre arrabbiati... Osvaldo Piliego MUSICA 25
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Logique, presente nel primo album Dada Dazè del 2006, ci siamo accorti che la lingua francese poteva rappresentare il sigillo di una ricerca musicale ed “estetica”; oggi mi riesce più facile cantare in francese anziché in italiano, ma non escludo eventuali cambiamenti.
EL GHOR Italia canta Francia
Italiani ma con la passione per la musica francese, figli della gioventù sonica ma curiosi esploratori della melodia, gli El Ghor riescono a far convivere stati d’animo e atmosfere sonore con equilibrio ed eleganza. Questo nuovo Merci Cucù, licenziato da SuoniVisioni e Seahorse Recordings si prepara ad essere una delle rivelazioni indie di questo 2009. La vostra musica riesce a unire sfuriate soniche a momenti di melodia malinconica, quante anime compongono gli El Ghor? Di anime, come per ogni buon artista che si rispetti , ce ne sono tante. In questo caso, le anime visibili sono quattro: Luigi Cozzolino, Ilaria Scarico, Luca Marino e Francesco Simeone. Nella vostra musica fanno da contrappunto arrangiamenti affidati agli archi, quasi un voler prendere fiato, ma allo stesso tempo dare corpo alle canzoni. Come strutturate le canzoni e i loro vari strati? Non esiste uno schema ben preciso e neanche un vincolo stilistico, ogni brano ha una propria storia. Ci sono pezzi nati da improvvisazioni e man mano sistemati a seconda dei nostri gusti e dalle nostre esigenze espressive. Altri, invece, partono da un singolo riff di chitarra che muta spesso con l’innesto degli altri strumenti. Nel caso di Nessuno Mi Risponde e Cucù-tête, tutto ruota intorno al pianoforte. Gli arrangiamenti di fiati e di archi sono arrivati in un secondo momento, dopo aver completato i brani con i nostri strumenti principali, anche perché siamo consapevoli di non poterli proporre sempre in una dimensione live. Strana la scelta della lingua francese, almeno per un gruppo italiano, da dove viene? Grazie ad un brano “francofono” come Sans
In questo disco avete delle collaborazioni importanti, ce ne parli? Si! Innanzitutto, mi fa piacere dire che queste collaborazioni sono frutto di amicizia. Davide Arneodo dei Marlene Kuntz , ad esempio, lo conosciamo da un paio di anni, e sin dall’inizio c’è stata grande stima reciproca; pochi mesi prima di entrare in studio di registrazione, lo invitai a prendere parte al disco e lui fu contento della cosa. Con Francesco Di Bella dei 24 Grana, la storia è differente, tutto parte dal loro attuale fonico che missò la nostra prima demo e la fece ascoltare alla band, che ha sempre nutrito interesse nel nostro progetto. A Luca Fadda invece, ci lega un’ amicizia nata tramite web, visto che vive da molti anni a New York , anche in questo caso tutto è stato molto spontaneo. Per quanto riguarda i restanti musicisti, gravitano costantemente intorno alla band e hanno dato un ulteriore, e grande, contributo al disco: Regina Ada Scarico (violoncello), Massimo Rosa (clarinetto), Giovanni Bonifacio (violino). Questo numero di Coolclub.it è dedicato alla musica indipendente, voi sicuramente ne fate parte, cos’è oggi essere indipendente secondo te? Beh, vuol dire poter utilizzare ogni mezzo per comunicare in un contesto dove non esistono censure di nessun genere. Noi viviamo a pieno questa dimensione, visto che Paolo Messere di Seahorse Recordings e SuoniVisioni, l’altra etichetta che ha coprodotto l’album, ci hanno lasciato fare senza nessun tipo di vincolo, e ci hanno permesso, inoltre, di eseguire la produzione artistica dell’album. Che cosa della folta scena indie francese vi piace ascoltare, cosa di quella italiana? Dell’ attuale scena francese, siamo molto legati ad artisti come Yann Tiersen, Benjamin Biolay, Pascal Comelade, Jérome Miniére. Vorrei citare però, una band Canadese che canta in francese e che si chiama Malajube, in particolar modo mi è piaciuto l’album Trompe-l’oeil. Per quanto riguarda la scena italiana, ci sono tantissime band valide, sicuramente i Blessed Child Opera, i Maisie, gli Spiritual Front, i vecchi Bartok e Teho Teardo, reputo le sue soundtracks splendide. Antonietta Rosato 27
SHANK
Rock estremo salentino Colonna portante del rock estremo del nostro territorio, gli Shank arrivano al traguardo del secondo album. Esperienza da vendere, rabbia e coerenza, sono nati, morti e risorti più volte, ma resistono e sono ancora qui a suonare un altro Salento. Abbiamo parlato con Max e Andrea. Siete una band che si può definire “storica”, parola che in musica ha un peso. Questo in particolare è un momento cruciale del vostro percorso: il cambio di formazione, il secondo disco… qual è il bilancio? Beh, in effetti dieci anni passati a calcare i palchi (pochi) e i pavimenti (moltissimi!) dei peggiori postacci del Sud Italia sono un bel periodo, soprattutto in rapporto alla vita media delle band underground. Se mi guardo alle spalle vedo due album e 200 concerti, tanti bei momenti, ma ovviamente tante difficoltà e tante perdite di tempo che ci hanno penalizzato e impedito di raccogliere per quanto seminavamo. Il mio passaggio alla voce (prima suonavo solo la chitarra) è stato un momento cruciale che ha dato come frutto principale il nostro nuovo album Create/Devour e spero che porterà nuova linfa e nuove motivazioni in tutti noi. Il bilancio attuale, a giudicare dalle reazioni che stiamo raccogliendo per il disco nuovo da parte degli addetti ai lavori e durante gli ultimi concerti da parte di chi ci viene a sentire, è positivo, ma tanto ormai qui da noi per i bilanci falsi non si va nemmeno più in galera! Il metal, l’hardcore e affini hanno subito un evoluzione (Converge, Mastodon, Terror). Come vi rapportate a queste scene? Quali sono le vostre influenze? Mastodon e Terror li mastico poco, anche se non mi dispiacciono. Tutt’altro discorso per i Converge e tutta la schiera di band cresciute lungo la east coast americana tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio: Botch, Dillinger Escape Plan, Coalesce. Questi sono attualmente i miei principali punti di riferimento in fase compositiva. “Metalcore” o “post-hardcore” sono etichette di 28 MUSICA
comodo sotto cui si ammassano gruppi diversissimi tra loro, un po’ come quando sotto l’etichetta “grunge” trovavi dei metallari impenitenti come gli Alice In Chains e dei punk-rockers come i Mudhoney. Noi ci inseriamo in questi filoni per non doverci inventare un’etichetta e perché se dico che facciamo metal si aspettano un clone degli Iron o degli Slayer e se dico che facciamo hardcore pensano agli Hatebreed o agli Agnostic Front! Qual è lo stato di salute della musica estrema nel Salento? Rispetto a qualche anno fa ci sono in giro più gruppi, la qualità media si è alzata, escono dischi e demo che suonano meglio, ci sono un paio di posti che offrono serate in maniera abbastanza frequente ma sembra che “il pubblico” stia diventando più schizzinoso. Non faccio nomi perché vorrei che chi legge sia abbastanza curioso da farsi un giro tra i vari myspace delle band salentine per ascoltare e giudicare di persona. A proposito: www.myspace.com/shank555 Quali sono i vostri prossimi impegni? Due date con gli Slowmotion Apocalypse (una delle migliori band italiane in circolazione!), l’8 maggio a Bari e il 9 a Squinzano per la serata di chiusura del calendario metal dell’Istanbul Cafè (curato quest’anno interamente dal sottoscritto); inoltre stiamo lavorando per delle date tra Calabria e Sicilia a fine maggio e stiamo delineando progetti più a lungo termine. È prevista la nostra partecipazione al secondo volume di Stones From The Sky, la compilation-manifesto del post-hardcore italiano curata dai ragazzi di Neuroprison. Consigliateci tre dischi da portare all’inferno. Andrea: Con questa intervista ti sei guadagnato il paradiso hahaha, ma comunque dico: Converge Jane Doe, Slayer Seasons In The Abyss e Botch We Are The Romans. Max: Bitches Brew di Miles Davis, un patto con il diavolo a tutti gli effetti. Ennio Ciotta
ALELA DIANE To Be Still Rough Trade
U2 No Line On The Horizon Island
Alela Diane è un amichetta di Joanna Newsom. Una sensibilità affine è evidente nelle tematiche affrontate: la natura al centro del mondo, le relazioni, il viaggio alla ricerca di equilibrio e stabilità domestica; musicalmente, però, le due cantautrici hanno ben poco in comune, dato che Alela si muove in territorio folk verso i monti Appalachi, e bisognerebbe citare Marissa Nadler e Cat Power, come riferimenti contemporanei prossimi alla Diane. Tuttavia Cat Power ha costruito le sue gemme in cornici ultraminimali, aggiornando così il genere “confessionale”, mentre Alela indulge in corposi arrangiamenti country-folk di tipo tradizionale, rivelandosi una sorprendente versione femminile del maestro Will Oldham aka Bonnie Prince Billy. Questo secondo album, infatti, é privo di segnali contemporanei. È una raccolta di paradisiaco folk ombroso e raramente obliquo, le cui canzoni si insinuano sotto pelle una alla volta, diventando tanto irresistibili da scomodare la Mitchell e lo spettro di Sandy Danny. Ci vorrà più di qualche ascolto per gustare i notevoli arrangiamenti, tutt’altro che innocui; attenzione però, potreste non riuscire più a farne a meno. Tobia D’Onofrio
Era il 1990 e gli U2 registravano Achtung Baby, opera seminale che anticipava diverse tendenze, senza la quale non sarebbero forse esistiti ne i Radiohead (soprattutto Ok Computer) ne gran parte del rock anni 90. Poi l’ispirazione della band capitolava irrimediabilmente con l’album Pop, consegnando gli irlandesi ad un finale di carriera fatto di dischi inutili e mainstream. Ingannando ogni pronostico, il nuovo lavoro si apre con un brano degno dell’ultimo TV On The Radio, secondo il rock ultra-sonico codificato dagli stessi U2. Si fa apprezzare il timido gospel di Moments Of Surrender. Unknown Caller forza un po’ i clichè della band, ma le voci allucinate funzionano. Get On Your Boobs è un trascinante hardrock, in cui spiccano i cori, che si inseguono ancora in Stand Up Comedy, tributo ai Jane’s Addiction. Fez è una rarefatta cavalcata in crescendo che ci risparmia banali ritornelli, mentre Cedars Of Lebanon sembra uscita dall’ultimo Radiohead. The Edge avrà anche esaurito i trucchi del suo arsenale, ma alcuni pezzi piacciono e lasciano sperare in un ritorno agli U2 che furono. Meno male che non si sono dati allo shoegaze! Tobia D’Onofrio ZINA Afreeque 11/8 records
C’è chi fa quello che può e chi fa quello che vuole, labile quanto sostanziale differenza tra il ge-
nio e il talento. C’è poi chi ha dentro talmente tante anime, che un solo abito non può vestire. Cesare Dell’Anna è di tutto questo un po’. Difficile stargli dietro e forse solo l’ascolto concede di capire, appieno, la sua spiccata e multiforme personalità musicale. Zina è tra i suoi progetti, quello che più risponde all’idea di musica totale. Una bussola impazzita, un amante infedele, anarchia al servizio dell’arte, oriente e occidente, nord e sud del mondo uniti sotto un’unica bandiera che sa di pace. Disco meticcio che guarda ai canti griot come al rap francese, che passa dal MUSICA 29
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reggae e il dub made in salento lo sporca di funky anni ’70 e si sposta in Palestina, in Marocco, in Senegal. Il beat si spezza quando tende verso il Magreb, tira dritto verso la Bristol più jamaicana, si dilata e diventa in levare, si comprime. Su tutto Cesare, la sua tromba dalla grammatica tra il jazz e l’ovunque, che fa da timone a questo battello ebbro. Zina non ha generi in cui restare ingabbiato, Zina è free, è Afreeque. Osvaldo Piliego
CLAUDIO COCCOLUTO Amigdala Just
HANDSOME FURS Face Control Sub Pop
Probabilmente le fantasie new wave dei canadesi Wolf Parade non esisterebbero senza l’unione fra le due anime musicali del progetto: Spenser Krug, padrino di Frog Eyes e Dan Boeckner che con la moglie forma gli Handsome Furs. Più di un anno fa il debutto di questi ultimi colpiva con la sua miscela di cantautorato, blue collar e beats sintetici a disegnare minimali atmosfere dark/wave. Grande il potenziale melodico, ma soprattutto freschissimo il risultato. Questo secondo capitolo prosegue sulla stessa linea, incrementando le distorsioni, così da dare l’impressione di una versione elettroclash di Bowie o meglio ancora Springsteen. Esemplare in questo senso
Su e giù nello spazio. É un’ avventura fiction, il nuovo album di Claudio Coccoluto. Tutto il piacere dell’esplorazione astrale, la dimensione, la profondità, tra la pista da ballo ed il cielo. Cosmic disco scelta in giro per il mondo ed assemblata con amorevole, artigianale cura da un dj che considera una “raccolta” una occasione per mettere in scena lo “stato delle cose” della sperimentazione dance contemporanea. Così l’album attraversa i territori, viaggia per l’Europa, il nord dell’elettronica rarefatta, delle più psichedeliche interpretazioni della disco, arriva persino in Russia e poi torna in Italia con il brano, inedito, di Coccoluto che chiude il disco. Amigdala, spiega l’artista è quella ghiandola del cervello dove si trova la memoria emotiva. Quella delle nostre sensazioni. Perché la musica deve far vivere le passioni, trasformare la cultura elettronica in puro sentimentalismo. Masha Era con Ice Touch, Mathias Meyer con Skipper e naturalmente Coccoluto con Beach Games gli artisti da segnalare. Pierfrancesco Pacoda l’apertura con gli hand claps e il ritornello che ricorda Human Touch. Il titolo Face Control allude ai buttafuori dei club che selezionano i clienti in base alla loro apparenza. Nel complesso l’album è più a fuoco del suo predecessore, pur fermandosi a un passo dal capolavoro. Fra rimandi a Soft Cell ed episodi più aggressivi e meno decadenti, l’epica di Boeckner fiorisce in tutto il suo splendore e ci regala una gradevolissima collezione di canzoni che scende giù fresca, tutta d’un sorso. Tobia D’Onofrio
METHEL & LORD Steps of a long run Point of View Rec
Forti dell’esperienza maturata con il debutto (Pai nai), i Methel & Lord perfezionano la loro macchina compositiva confermandosi band di culto della scena indie italiana. Anche in Steps of a long run offrono la stessa magia evocativa, un sound magnetico ed espressivo insito tra le atmosfere elettrizzanti dei brani sviscerando l’energia, la poesia e l’ironia che gli viene più congeniale. Un sound riconoscibile nella sua pluralità di MUSICA 31
stili e linguaggi impiegati, dove modellando musiche di matrice classica con una discreta dose di elettronica in atteggiamenti blues e con spontanei rimandi al jazz, al rock e al folk vengono proposte otto interessanti composizioni. Coadiuvate da un cantato manifestato in una sorta d’inglese mediterraneo, catturano nell’immediato brani come Escape from significance immersa in ritmiche elettrofunk, e Gnu & Gna e Pizza mafia & mandolino dalle forti reminescenze psichedeliche. L’album continua la sua ascesa musicale mostrando le sue molteplici facce: incursioni jazz (Dear Tony); emanazioni elettriche di (Maybe) o situazioni più delicate (Hippocondriac e Washed untrue), fino a concludersi sulle atmosfere delicate e misteriose della strumentale Grandfather. Alfonso Fanizza
numerose sedute di registrazione in giro per il mondo, da Città del Messico al Giappone passando per Israele. In questo paesaggio musicale che fonde mirabilmente pop, rock progressivo ed elettronica, Wilson si fa circondare da un cast stellare che annovera tra gli altri Tony Levin al basso, Gavin Harrison (dai Porcupine Tree) alla batteria, Jordan Rudess (dai Dream Theater) al piano e Theo Travis, i cui flauto e sassofono avevano già impreziosito nel 2001 il suono dell’album Returning Jesus dei No-Man. L’eccellente prodotto finale può essere collocato nella sfera sperimentale di recente frequentata da Portishead, Nine Inch Nails e Thom Yorke. Rino De Cesare
forma i The Wooden Birds. In poche frasi Magnolia? Dodici tracce di classica indietronica e folk, in piena armonia con le ultime uscite dell’etichetta tedesca, vicini alle correnti europee scandinave, inglesi, tedesche, ma in fondo con un inconfondibile stile americano sommesso che permea il tutto. Ad Aprile, Morr Music per l’Europa, Brasuk per USA e Canada. Una tranquilla release. Federico Baglivi
SAXON Into The Labyrinth SPV/Steamhammer
THE WOODEN BIRDS Magnolia Morr Music
STEVEN WILSON Insurgentes K-Scope
Apprezzato per il suo lavoro con Porcupine Tree, Opeth ed Anja Garbarek tra gli altri, Steven Wilson debutta come solista con Insurgentes. Pubblicato il 9 marzo scorso su K-Scope, l’album racchiude 10 brani che spaziano da ballate sognanti ad assalti in perfetto stile industrial noise. È un lavoro oscuro, cinematico e ricco di sfumature, sintesi di due anni di esplosione creativa e 32 MUSICA
Nuova band in arrivo nel catalogo Morr Music: i The Wooden Birds, che esordiscono ad Aprile con Magnolia. In realtà questi The Wooden Birds sono una nostra vecchia conoscenza, infatti dietro la band vi è un tale Andrew Kenny degli American Analog Set. Dopo sei album con gli A.A.S., band ora inattiva dal 2005, e dopo svariate collaborazione con Album Leaf, Her Space Holiday, Styrofoam, Ola Podrida, Arthur & Yu e Broken Social Scene, il texano Andrew Kenny ritorna ad Austin e
Ci sono band che restano sulle proprie orme… per sempre fedeli a se stesse. Altre, invece, hanno ancora voglia di giocare, di rimettersi in discussione.. È gente che mette il cuore in ciò che fa. Ma non credo che occorra un’altra recensione per svelare i contenuti del nuovo album dei Saxon. Lèggere che, dopo 30 anni, questi signori hanno ancora voglia di conquistare un pubblico giovane e di rivedere il sound che da sempre li ha contraddistinti, significa non poco. Se alla volontà si aggiunge la capacità e la tecnica, allora salta fuori un risultato quanto meno notevole! Di certo riuscire a sfornare cose di questo genere, a questi livelli, è un privilegio che pochi possono permettersi.
Anche questo è “vivere per il rock”! Resta soltanto da inchinarsi e ringraziare. Into The Labyrinth allunga la seconda giovinezza ritrovata dai Saxon con The Inner Sanctum (2007) e apre a nuovi stimoli. Diretti e privi di ambiguità Byford e soci puntano tutto su riff di chitarra e ritornelli adatti a scatenare arene di metallari “old school”. Birra, chitarre e strade asfaltate continuano ad essere lì, per chi di vecchietti non vuol sentirne nemmeno parlare. Del resto hanno una personalità musicale granitica e inconfondibile. Camillo “RADI@zioni” Fasulo
MASCARIMIRÌ Dieci anni (live tour) Dilinò /Soniboni
Dalle nostre parti le ricorrenze sono importanti. I dieci anni, per la vita di una band, sono traguardo ma anche punto di partenza. I Mascarimirì li compiono con una dichiarazione di maturità che è allo stesso tempo conferma del nuovo continuo a cui Claudio Cavallo e soci ci hanno abituato da sempre. Unici nel saper attingere e approfondire con coerenza i linguaggi della tradizione per scrivere pagine inedite di quella che non è più musica popolare ma word music. La sensibilità di artisti come questi è nella capacità di sentire, e non solo con le orecchie, affinità con
ZU Carboniferous Ipecac
Notevole il percorso di maturazione e ricerca stilistica condotto dagli Zu fino ad oggi: una produzione pressoché sterminata in circa dieci anni di attività, concretizzata in tre album di cui Carboniferous è l’epigono. Tralasciamo di indicare il genere di appartenenza: inclassificabile. Il loro suono è personalissimo; in formazione “soltanto” batteria, basso e sassofono (ed effetti, sapientemente organizzati) ma a valere per dieci! Non hanno un cantante (per evitare che l’attenzione primaria si focalizzi su di lui) e dimostrano una scelta di timbri sempre coerente e dall’impatto disarmante, un flusso omogeneo e vagamente straniante ai primi ascolti. Le dieci tracce sono legate da un discorso musicale solo in apparenza oscuro ed introspettivo: si avvertono ‘emanazioni’ di matrice death-metal, industrial e ambient, amalgamate brillantemente su tessiture e strutture jazzistiche, offrendo una visione d’insieme totale e raffinata. Consigliato a chi avverte un impellente bisogno di novità. Oscar Cacciatore il pianeta e suoi suoni, nel coraggio di osare e sperimentare in un viaggio continuo fatto di scoperte. Questo produce musica che è difficile etichettare. In questo album i Mascarimì celebrano la loro anima live, dimensione assolutamente travolgente in cui la band consuma con attitudine punk un rituale a metà strada tra la festa e il rave. Strumenti tradizionali ed elettronica, voce, sudore e danza, dopo dieci anni e per altri cento… ci auguriamo. Osvaldo Piliego
MEDUSA I musicisti hanno facce tristi Dracma records
Il titolo è il manifesto di una generazione: quella dei musicisti ultratrentenni che ancora si barcamenano nella scena indie, accumulando ettolitri di birra, debito di sonno e poche soddisfazioni. Riso amaro, ostinazione, passione sono sentimenti che in un modo nell’altro emergono dalle tracce di questo album. Un disco sulla consapevolezza, una sorta di concept in MUSICA 33
cui i Medusa, in giro da quasi vent’anni, ce le cantano e ce le suonano senza girarci intorno. Tra stoner rock, Faith No More, funk metal, punk rock old school e rap i Medusa sanno pestare duro e tirare il freno per lasciare il tempo alla melodia di entrare in circolo. Se notate qualcosa di conosciuto nella voce, ci avete preso, Diego ha collaborato e collabora con caparezza a con Antianti (progetto solista di Dade, bassista dei linea 77).
tempi sono maturi per lasciare il segno: La casa brucia (da Andrea Pazienza), la title track, Bevo e Il futuro è una trappola fra i pezzi memorabili; a coronare il tutto, piccoli interventi di canti popolari campano-salentini al passaggio fra le tracce: senza retorica, freschi e di sicura presa. Oscar Cacciatore
quale Mercuri duetta in Altitudini. Un buon esordio, ben curato, non innovativo ma che miscela sapientemente il meglio del pop/rock all’italiana. Scipione
IRENE SCARDIA I giorni del vento Workin’
FABIO MERCURI Di tutto quello che c’è Novunque
MINISTRI Tempi Bui Universal
“Veramente vivo in tempi bui…”: da questo incipit siamo subito trasportati nel mondo dei Ministri i cui ingredienti principali sono: riff rock alternative essenziali ed incisivi (primi Afterhours, Verdena) ma, soprattutto, accattivanti refrain melodici (ottima prova vocale di Davide Auteliano) e validissimi testi, il tutto (o quasi) opera d’ingegno del lead guitarist, Federico Dragogna. I Ministri ci hanno abituato ad idee efficaci: nella copertina del full-lenght d’esordio, I soldi sono finiti (2006), inclusero (fisicamente!) una moneta da 1 euro (e la lista spese di registrazione nel booklet…), a fronte però di un disco non particolarmente esaltante. Qui la situazione è migliorata e i 34 MUSICA
Dopo una lunga carriera da chitarrista (in numerosi progetti e con cantautori come Tricarico, Dave Muldoon, Luca Gemma) il salentino Fabio Mercuri arriva al suo album solista. Di tutto quello che c’è contiene undici brani che spaziano tra canzone d’autore, pop, echi psichedelici e atmosfere suggestive con aperture melodiche interessanti. Le sonorità richiamano Afterhours, Amerigo Verardi, Tricarico, Moltheni, Baustelle solo per dare qualche punto di riferimento. I testi sono semplici, con un linguaggio a tratti colloquiale, e si ispirano ad episodi di vita quotidiana e riflessioni generali. Il cd, prodotto da Paolo Agosta, ospita Roberto Dellera e Enrico Gabrielli (Aftehours), Paolo Iafelice (produttore tra gli altri di Pacifico), I Cosi e la cantante americana Georgeanne Kalweit con la
Negli ultimi anni il piano va forte. Una battuta che sottolinea la popolarità di personaggi come Ludovico Einaudi, Giovanni Allevi, Stefano Bollani, Nicola Piovani, Enrico Pieranunzi e molti altri. Una tendenza che sembrerebbe solo maschile. Nomi come Rita Marcotulli o Alessandra Celletti hanno lanciato anche una “via femminile” al pianoforte. La salentina Irene Scardia, pianista e agitatrice culturale, si inserisce in questo solco proponendo I giorni del vento. Nove brani di poesia in punta di dita nei quali “lo sguardo si rivolge, ora con curiosità e slancio creativo, ora con spirito d’indagine ad uno degli elementi naturali maggiormente densi di fascino e carico di innato potere evocativo, il vento”. Un disco - che è anche la colonna sonora di uno spettacolo multimediale – nel quale si esprime tutto lo stile della musicista che varia tra sonorità morbide e raffinate, influenze jazz, musica impressionista sino alle correnti minimaliste e romantica. Gazza
AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Bat For Lashes – Daniel Natasha Khan ha aperto I concerti dei Radiohead la scorsa estate. Moltissimi non sapevano nemmeno chi fossero i Bat for Lashes, e almeno altrettanti non lo sanno tuttora. Ma gli appassionati di musica un po’ sgamati avevano già fatto una buona associazione mentale e avevano intuito che Thom Yorke stava pontificando. Synth-pop in verità non troppo originale, ma sapientemente miscelato con un po’ di glocalismo: i suoni orientaleggianti non sono solo un orpello, ma il tributo che Natasha Khan, di etnia pashtun, fa a se stessa. Melanie Fiona – Give it to me right Viene dal Canada, ha origini sudamericane. Non si sa molto altro: facendo una ricerca su Internet sulla sua biografia si trova veramente poco, e per’altro in Italiano, il che vuol dire che ha fatto successo solo da noi. Alla quarta pagina arriva la sua pagina Myspace. Cerco sul suo lettore musicale, e il singolo non c’è. Il mistero si infittisce. Scendo ancora, scopro che in Inghilterra suona in arene da 15000 persone. Continuo a scendere: ha vinto un premio reggae. Parte il player automatico, è bravissima. Continuo a non capire. Ecco. Ha firmato per la Motown. Hanno deciso di rinascere. E hanno scelto una splendida voce. Ma il marketing non è nelle loro corde. Franz Ferdinand – No you girls Dopo “Ulysses” qualcuno si sarà sentito male e avrà scritto tanti messaggi su Myspace. E allora i Franz scelgono un secondo singolo rassicurante in un album che rassi-
curante non lo è affatto, tanta è la quantità di sperimentazione e di divertissement pop. Dicono che i loro concerti italiani siano stati belli, quanto sadicamente corti. Alex Kapranos scrive di cucina su Internazionale. I White Lies, che ora si fanno belli in Italia, sembrano poco più di una loro cover band: non pensate che siano tra i padroni del mondo musicale, seppur in perenne stato di understament? Dente – vieni a vivere
È andato a “Deejay chiama Italia”. Fino all’apparizione radiofonica era nell’altra rubrica, quella che trovi se giri la pagina. Ma quando Linus decide c’è poco da fare, non c’è niente da suggerire: Il ragazzo ha sfondato. Ora è poco più di un dettaglio il fatto che ci abbia messo 33 anni per andare sulle radio nazionali. Lui che non ha mai avuto niente da invidiare a nessuno, lui che è schivo e per questo affascinante come molti altri nostri cantautori. Però scrivono molto meglio. Per fortuna (sua, e questa volta anche nostra) è stato incrociato da qualcuno che ha soldi da spendere e uffici stampa da scatenare. E per fortuna, sua, nostra e chi ci ha investito, Linus ha deciso. Il Genio – Non è possibile Noi di Coolclub continuiamo a mettere le bandiere sui nuovi territori conquistati da Alessandra e Gianluca. Nella nostra umiltà un po’ nerd e un po’ snob, possiamo dire che siamo stati tra i primi a parlarne, che abbiamo esultato per “Pop Porno”, anche perché con quella canzone hanno fregato tutti. Ora scelgono un pezzo ancora più paraculo e quindi ancora più affascinante. Video a Milano, cavalcano tutti i clichè frettolosamente messi a punto per raccontare un fenomeno pop. E continuano a giocare con il mondo della musica. Dino Amenduni 35
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DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse... La Roux - In for the kill (Skream rmx) Era il 2 gennaio 2009 e NME già si affrettava nel parlare di sicura prossima star raccontando di La Roux, duo composto da Elly Jackson e Ben Langmaid, il quale ha gentilmente prestato il palco a Skream, uno dei 3 o 4 carbonari che hanno messo su il dubstep, l’unico elemento di discontinuità che la musica mondiale ha saputo proporre a se stessa negli ultimi 2 anni. La Roux continua a non entrare nemmeno nella top 10 in Inghilterra, in Italia sarà molto difficile sentirla, ma qui c’era chi ci aveva visto giusto: qui sforiamo il capolavoro postmoderno. Bjork feat. Antony and the Johnsons – Dull flame of desire (modeselektor rmx) Non è tanto la trasformazione di Bjork, l’ennesima, per certi versi anche meno estrema di alcune sue invenzioni indigene (e quando dico indigene dico indigene: ve lo ricordate il video di Triumph of the Heart? Baciava il suo gatto dopo che in un pub di Reykjavik si scatenava una jam session), quanto la trasfigurazione di Antony, uno dei pochissimi artisti che può vantare la personalità necessaria per mettersi a duettare con sua maestà. Il remix, molto meno elegante dei padroni di casa rende questo improbabile duetto ancora più etereo, ancora più eclettico, ancora più incredibilmente ipnotico. Ed ancora più improbabile. Royksopp feat. Robyn – The girl and the robot Il mese scorso denunciammo il primo caso di autoplagio proprio da queste righe, proprio al posto due di questa rubrica. Oggi dobbiamo denunciare l’autoplagio di chi
scrive, perché non era mai capitato di citare gli stessi artisti per due mesi consecutivi. Ma i Royksopp hanno deciso di boicottare il primo singolo e partire con il battage sfruttando furbamente la collaborazione con Robyn, un fattore aggiunto per raggiungere il successo, almeno da Berlino in su. Il pezzo è sinceramente meno bello del precedente “Happy up Here” ma è ruffiano all’impossibile. E allora diamo una spinta ai norvegesi, anche se in questo caso forse non ne avevano tanto bisogno. Yeah Yeah Yeahs – Zero Karen O sembra Cyndi Lauper. Detto questo, e sapendo di averla sparata abbastanza grossa, ci ritroviamo davanti al pezzo più commerciale della band indie di New York. Di indie si fa sinceramente fatica a parlare in questo caso, a meno non si voglia ricercare una vena “à la Franz Ferdinand”, in cui la ricerca del suono più facile rappresenta più una sfida alla propria essenza che la ricerca della via comoda. Non sono passati poi tanti anni da quella bordata da 2 minuti e 3 secondi che era “Pin”, ma a parte l’enorme carisma della cantante non c’è nessun punto di contatto. E non per tutti è un male. Agnese Manganaro - Mille petali E così abbiamo piazzato un salentino per rubrica. Qualcosa vorrà pur dire. Anche in questo caso giochiamo in casa, Spudoratamente, Ma si tratta solo di seguire le intuizioni della Irma Records, di aprire gli occhi e le orecchie, di percepire che abbiamo un piccolo fenomeno in casa e che se ne stanno accorgendo gli addetti ai lavori. Almeno loro. Rendere una star Agnese è una questione di senso di responsabilità nei confronti di un pubblico che ha un disperato bisogno di grandissime voci italiane. Dino Amenduni 37
SALTO NELL’INDIE
IMPROVVISATORE INVOLONTARIO 38 MUSICA
Questo mese abbiamo il nostro viaggio nell’indie di ferma dalle parti di Improvvisatore involontario etichetta che raccoglie musiche sperimentali o meglio “dell’oggi” come preferisce definirle Francesco Cusa fondatore di questo stravagante e coraggioso collettivo. Il vostro collettivo/etichetta è un’esperienza insolita anche nel panorama indipendente. Da dove nasce questo progetto? È un’idea che nasce tre anni fa, sulla scorta delle mie esperienze fatte in associazioni quali Bassesfere ed ExB. Nasce da una discussione feconda tra il sottoscritto, Paolo Sorge e Carlo Natoli (entrambi parte del gruppo Francesco Cusa Skrunch), con l’idea di creare un soggetto composito e aperto a tutte le forme artistiche ed interdisciplinari, più un movimento d’opinione che una realtà associativa chiusa ed autoreferenziale. Un soggetto camaleontico e fustigatore dei consunti costumi e dei patetici cliché della proposta artistica; un osservatorio attivo e dinamico sulla disperante e monodica recita della farsa in cui versa la retorica della cultura artistica museale italiana. Quindi col tempo abbiamo accolto tanti “adepti” e la nostra famiglia è cresciuta, venendo a costruire un piccolo esercito con avamposti per ogni parte d’Italia e dell’Europa. Siamo dunque diventati label, management, distribuzione, produzione ecc. Chi è l’improvvisatore involontario? Improvvisatore Involontario è una sorta di Kaiser Sose (vi ricordate il film I soliti sospetti?). Succede che un giorno riceviamo una telefonata nella nostra sede da parte di un noto finanziatore internazionale che ci ha intimato di mantenere l’anonimato. Egli, interessato al nostro progetto, ha scelto di finanziarlo a fondo perduto proponendoci un insolito contratto; poche righe con la Clausola in neretto: “Il Finanziatore intende mantenere l’assoluto anonimato sulla vicenda pena la rescissione del contratto e relativa penale”. Noi non siamo certo nella condizione di poter rifiutare o reagire. Quindi, per quel che ne sappiamo, il nostro benefattore potrebbe essere la Cia, il Kgb, il Mossad, Murdoch, Gelli o la fallita Semeraro Mobili. Sicuramente le vostre pubblicazioni hanno un pubblico particolare, per non usare la parola nicchia, quanto è difficile, in Italia, produrre e promuovere musica sperimentale?
Grazie ai finanziamenti di “Kaiser Sose”, come ormai abbiamo deciso affettuosamente di chiamarlo, per noi è relativamente più semplice. Dovendo esprimere un giudizio più obiettivo nei rispetti della situazione generale e verso chi è meno fortunato di noi direi che è praticamente impossibile se non essendo ricchi e facoltosi rampolli. Ci muoviamo in un regime e di conseguenza la musica “d’arte” - utilizziamo questo patetico cliché -, è annientata da leggi vessatorie che uccidono il proliferare della attività performative tramite una tassazione indecente che finisce con il favorire, paradossalmente, gli “stranieri” a discapito degli italiani. La musica “sperimentale” (poi sperimentale ‘de che’?”) è vilipesa da un sistema crapulone della riscossione del diritto d’autore, leggi: Siae, è oltraggiata dal pullulare di conservatori e scuole di musica che finiscono con lo sfornare replicanti senza meta, è mortificata dall’indecente eccesso della proposta e dall’arroganza dei neofiti. Non ci si vergogna più di “darsi”. Ciascuno ostenta sicumere frutto del trip egomasochista che trova in sottospecie di guitti riccioluti i modelli tragici per non dire immondi della libertà della espressione artistica (come se fosse “bello” ruttare in faccia a chiunque pur d’esprimersi). La musica sperimentale (sperimentale “de che”? Quali esperimenti di grazia?), o meglio le musiche dell’oggi, sono lo spettro angoscioso del senso di colpa e del rimosso: messa in scena del teatrino del nulla, sovente, al limite pratica masturbatoria nel migliore dei casi. Quantomeno in Italia. Questo numero del nostro giornale è dedicato al concetto di indipendente, secondo te ha ancora un senso, è sinonimo di libertà o cosa? Non significa più nulla nell’era della società dei consumi. Indipendente non è neanche la nostra volontà, figurarsi l’espressione della nostra nevrosi. La moderna ricerca ha annientato l’illusione del concetto di libero arbitrio, fortunatamente. Improvvisatore Involontario segue le leggi del Fato, è un simbolo, un archetipo che ci guida verso il nostro cammino pre-determinato. Come novelli Ulisse, noi abbiamo una Missione. Possiamo al massimo ingraziarci gli Dei affinché il nostro cammino sia fecondo e propizio. La libertà poi è un altro concetto chimerico giacché essa non esiste senza la prigionia. Ecco i nostri adepti sono come dei carcerati cui venisse concessa qualche ora d’aria. Quella è la libertà. Antonietta Rosato MUSICA 39
ON THE ROCK Dischi da ascoltare tutto d’un fiato In tempi di crisi e vacche magre, mai il detto “april dolce dormir” è stato più adatto alla pausa di pubblicazione di dischi di rilievo tra l’inizio della primavera e la fine dell’estate. È così da sempre e anche questo 2009 non si sottrae alla consuetudine. Ma non disperiamo, anzi approfittiamo per segnalarvi alcune uscite di grande interesse che pescano a piene mani negli annali della storia del rock. Se c’è una radio al mondo che grazie ai propri archivi conserva tracce indelebili di intere generazioni di musicisti questa è la BBC. Così Joe Jackson, che da qualche mese ha pubblicato l’opaco Rain (10 tracce per la Rykodisc), edita un disco, via Universal, che coglie il meglio della sua produzione tra il 1979 e l’83. Doppio cd, quindi, che (ri)testimonia un allampanato e cinico inglese di Burton innamorato pazzo per New 40 MUSICA
York. Memorabile la versione in quattrominutiquattro di Fools In Love registrata durante una puntata (quella del 21 febbraio 1979) del mitico John Peel Show in uno scarno reggaestyle. A dispetto di chi dice che negli anni ottanta non si suonasse del buon rock. Se però il salto temporale di soli 29 anni non vi suscita sufficiente curiosità provo a segnalarvi un disco uscito ben 42 anni fa. In realtà si tratta di un dei dischi più originali ed interessati mai pubblicati. Basta citarvi, per esempio, che contiene un brano dal titolo I Can See For Miles; sto parlandovi di Sell Out degli Who ripubblicato in queste settimane in versione De Luxe. In ordine cronologico è stato il terzo album della band di Pete Townshend e in questa versione troviamo ben undici brani inediti. Per chi volesse approfondire, e Dio solo lo sa quanto ne varrebbe
la pena, l’ultimo numero della prestigiosa rivista Mojo (www.MOJO4music.com ) gli dedica la copertina, approfondimenti ed immagini inedite. Ma visto che questo numero è dedicato al concetto di “indipendenti” ora sottraggo tutto lo spazio che mi rimane per raccontarvi di un gruppo che del “concetto” né è stato portabandiera assoluto nella scena musicale degli ultimi 40 anni. Un gruppo che ho amato sopra ogni cosa: The Henry Cow. L’occasione me la fornisce la pubblicazione di due raccolte (The road: vol. 1-5 e The road: vol. 6-10) per un totale di 9 CD e un DVD. Il primo contiene la documentazione degli anni dal 71 al 76, dalle primissime registrazioni del periodo pre virgin ai concerti storici di Amburgo e Trondheim, un booklet di 60 pagine con storia, note, memorie e foto. il box contiene lo spazio dove poter inserire (se lo possedete) il doppio cd dal vivo Concerts. Il secondo a copertura del periodo dal 76 al 78. Dalla prima fase post virgin fino allo scioglimento del gruppo. Inclusi i concerti di Brema, Stoccolma e Goteborg. Il dvd di 80 minuti ci propone invece riprese televisive di un concerto in Svizzera nel 1976, ad oggi le uniche immagini esistenti del gruppo. La band inizia a suonare alla fine del 1968 quando i polistrumentisti Fred Frith e Tim Hodgkinson danno vita all’embrione che assumerà identità precisa qualche anno dopo, nel 1971. A loro si uniscono il fiatista Geoff Leigh, il bassista John Greaves e il batterista Chris Cutler. Radicali nelle scelte iniziano a suonare ovunque sia possibile gratis o a prezzo politico. Per ascoltarli in vinile si dovrà aspettare la primavera del 1973 quando viene pubblicato The Henry Cow Legend, un concentrato di sperimentazione, tra free-jazz rock e pazzie zappiane. Una buona dimostrazione è offerta dai brani incisi nell’ottobre del 1973 in occasione del concerto alla Dingwall’s Dance Hall, compresi nel doppio LP della Greasy Truckers al fianco di Camel, Global Village e Gong. La bella Lindsay Cooper (fagotto e oboe) subentra a Geoff Leigh e all’inizio del 1974 gli e Henry Cow registrano Unrest, se fosse possibile un disco che si spinge ancora più in là nella loro lettura musicale del rock. Ma è nel ‘75 che il progetto musicale compie quel salto di qualità
che li ascrive negli annali della storia, la band decide di condividere il percorso di un’altra formazione : gli Slapp Happy (Anthony Moore - ts. - Peter Blegvad - ch. - Dagmar Krause - v.) : assieme i due organici realizzano Desperate straight e In praise of learning entrambi pubblicati dalla Virgin nel ‘75. Ed è di quegli anni i due memorabili concerti a Taranto, a pochi mesi di distanza l’uno d’altro, davanti ad un pubblico straordianario (altri tempi decisamente... ndr.: in quell’occasione registrai una delle mie prime interviste). L’esile figura di Dagmar affascinava e rapiva ed il resto lo facevano la creatività e la grande maestria strumentale di Fred Frith e co. In quegli anni svolgono costantemente un’intensa attività live a bordo di un autobus trasformato in casa che girerà senza sosta l’Europa tutta e sempre nel 1975 effettuano alcune esibizioni con la formazione allargata a RobertWyatt. Su tre lati del doppio Concerts trovano spazio le registrazioni ricavate da concerti tenuti tra maggio e novembre, con particolare interesse per le belle versioni di Little red riding Hood hits the road (con Wyatt) e di Ruins (registrata a Udine, in Italia la band aveva trovato la sua naturale seconda patria). Prima di esplodere in mille altre direzioni (carriere soliste, Art Bears, Aqsak Maboul, Work...) Henry Cow resiste fino al 1978, in tempo per la pubblicazione dell’ultimo, e ancora rilevante, Western culture (Broadcast), registrato senza l’apporto di John Greaves (impegnato con i National Health), che chiude degnamente la storia di questo straordinario progetto musicale. La spesa complessiva per portarvi a casa le due raccolte dovrebbe aggirarsi sui 150 euri... fatevele regalare per la prossima occasione o se state per sposarvi inseritele nella vostra lista nozze (http://www.rerusa.com). Infine segnalazione web2.0.: http://www.kgsr. com questo è l’indirizzo presso il quale potete ascoltare la stazione Radio Austin... una quantità indescrivibile di materiale audio, interviste e live in studio. Alla prossima.... Vittorio Amodio MUSICA 41
LIBRI
SERGE QUADRUPPANI
Dal suo ultimo libro al caso Battisti: lo scrittore francese ci racconta la sua idea di noir Serge Quadruppani, francese, vive tra Roma e Parigi ed è direttore di una collana pubblicata da Metailié dedicata al noir italiano. Ha scritto diversi saggi e romanzi noir, fra cui L’assassina di Belleville, La breve estate dei colchici, La notte di Babbo Natale, pubblicati nei Gialli Mondadori e praticamente introvabili. Per Marsilio è uscito nel 2007 In fondo agli occhi del gatto. Traduttore dall’americano e dall’italiano, è la voce francese di alcuni dei migliori giallisti italiani, da Andrea Camilleri a Massimo Carlotto, da Marcello Fois a Giancarlo De Cataldo. Coolclub.it gli ha chiesto di raccontarci le sue idee sulla scrittura e sulla società contemporanea. Con la grande simpatia che lo contraddistingue Quadruppani ha accettato volentieri di fare due chiacchiere con noi.
mantiene intatta la sua forza dirompente e la sua attualità, a dimostrare che i buoni libri durano ben più dei canonici tre mesi in libreria. È così anche per te? Credi che Y, sia ancora oggi un libro che ti rappresenta? Lo scriveresti di nuovo? Ovviamente, non posso che condividere i giudizi lusinghieri sul mio lavoro! Certo, Y mi rappresenta. Non lo scriverei esattamente nello stesso modo (forse un po’ più di sobrietà nello stile, un po’ meno di sesso - si, è vero, sto invecchiando) ma, nella stessa maniera che in me, c’è sempre il ragazzo di 36 anni fa e quello di 18 anni fa, che fanno sempre parte di me, questo libro fa ancora parte del mio mondo immaginario (che non è separabile dal nostro mondo tout court).
Il tuo ultimo libro pubblicato in Italia è Y, un libro scritto diciotto anni fa, ma che
I tuoi libri per me sono diventati come una droga, purtroppo in Italia di difficile repe-
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ribilità e sconosciuta ai più, fino all’intervento dell’editore Marsilio. Come spieghi questa miopia italiana nei tuoi confronti? Caro fan, sono già molto fortunato di avere trovato un buon editore come Marsilio per continuare a pubblicarmi. Oggi, la cultura è un mercato e fino a quando ci saremo sbarazzati del mercato e della merce, dovremo subire le “leggi” del mercato, cioè dei rapporti di forza in cui la qualità delle opere ha un peso, si, ma molto leggero a confronto di altre forze come la stupidità, la moda, il kitsch, le passioni tristi, il bisogno di dormire. Cosa salvi e cosa invece “butteresti via” della tradizione francese noir e polar? Salvo sicuramente un certo numero di scrittori. Prima di tutto, Manchette poi Jonquet, Delteil, Prudon, J.-F. Vilar, Leroy, H.-F. Blanc, qualcun altro - e tra i più anziani: Amila, Georges J. Arnaud, Tito Topin (di questo ultimo dovrebbe uscire tra un anno un capolavoro, Photofinish, tradotto per E/O dalla mia traduttrice preferita, Maruzza Loria) e qualcun altro. Butterei un sacco di mezzecalzette, tra cui il pesante Daenaincks che scrive come un burocrate stalinista e pensa lo stesso. Credo che in Italia i libri gialli francesi più letti siano quelli di Fred Vargas. Il caso Vargas, per me, è complicato. Ho molta simpatia per lei per ragioni extra-letterarie (come persona è gentile e vera, condivido con lei la difesa di Cesare Battisti, e lei lo fa con un coraggio e un dedizione imparagonabili - anche se, facendolo, spara un sacco di cazzate). Come scrittrice mi fa dormire ma, tra l’altro, lei ha dichiarato che i suoi libri erano dei “calmanti”. Questa parola risponde alla tua domanda. I nostri contemporanei stanno ancora, per ora, cercando di calmarsi invece di arrabbiarsi - ma il giorno della rabbia verrà, questo è sicuro (se sarò ancora vivo, non lo so, ma comunque, è l’attesa di questo giorno che mi permette di ridere ancora davanti alla gigantesca e tragica buffonata che si chiama “ordine mondiale” o “civiltà tardocapitalista”).La situazione nel “mio” paese rassomiglia molto a quello del “tuo” (questi possessivi mi fanno ridere, spero che capisca perchè): al capo dello stato, un potere crepuscolare di un cinismo mai visto, che scatena le repressioni contro i più deboli per tentare di dominare il cuore di quelli che sono un po’ meno deboli, un opposizione istituzionale in coma terminale, dei movimenti di resistenza (l’Onda qui, le lotte degli universitari qua, la Guadeloupe, i sans-papiers). Una
cosa è diversa in Italia: la resistenza culturale è molto più raggruppata e organizzata (tra l’altro, intorno alla New Italian Epic e agli amici di Carmilla). Conosci molto bene il panorama italiano. Cosa pensi dei nostri autori gialli e noir, dai maestri celebrati come Camilleri ai più giovani (letterariamente parlando) come Nino D’Attis o Angelo Petrella? Ne penso un sacco di bene, come direttore di collana ne ho pubblicati un bel po’ nella mia Bibliothèque italienne, e ne pubblicherò sicuramente tanti altri (tra cui, i due ultimi nomi citati). Da lettore, cosa cerchi in un romanzo noir? Atmosfera, scrittura, punto di visto sul mondo e, in un modo o l’altro, rabbia. Infine ti vorrei chiedere una battuta sul caso Battisti, di cui le cronache italiane sono tornate a parlare negli ultimi tempi. Per ora, prevale l’isteria mediatica e l’amnesia organizzata. Un giorno o l’altro, verranno dei nuovi storici, come è successo per esempio in Israele dove una nuova generazione sta rivisitando i miti del sionismo. L’Italia si dovrà confrontare con la storia degli anni ‘70, come la Francia si è confrontata con la storia della guerra d’Algeria o di Vichy. Speriamo che, nel frattempo, Cesare avrà potuto rifare la sua vita in Brasile o altrove. Invito tutti i lettori a comprare e a diffondere il libro appena pubblicato da DeriveApprodi: Il Caso Cesare Battisti: quello che i media non dicono. In particolare, bisognerebbe fare leggere in tutte le scuole il testo di Tarso Genro, il ministro della giustizia brasiliano, in cui spiega le ragioni per cui ha concesso l’asilo politico a Cesare. Il disprezzo con cui certi politici e giornalisti italiani hanno parlato del Brasile in questa occasione è veramente ridicolo: che credono di essere, la Francia o l’Italia davanti a paesi emergenti come il Brasile? Spero bene che il Brasile non si arrenda davanti alle pressioni deliranti dell’Italia e faccia vedere fino in fondo a questi due paesini europei dove sta oggi la culla della civiltà! A proposito sai già quale sarà il tuo prossimo titolo che leggeremo in Italia? In francese, si chiama Rue de la Cloche, è il secondo della trilogia iniziata con Y. Non abbiamo ancora deciso niente per il titolo italiano. Dario Goffredo LIBRI 43
LA VITA EROTIC Intervista a Marco Mancassola Il trentacinquenne Marco Mancassola torna in Puglia per presentare il suo nuovo romanzo La vita erotica dei Superuomini edito da Rizzoli, il Reading/Performance si svolgerà a Bari il 19 aprile alle 19.00 presso la Galleria Bluorg via Celentano 92, e a Taranto il giorno seguente alle ore 20.00 presso il Cine Teatro Bellarmino in corso Italia angolo via Bellarmino. In attesa di incontrarlo, raggiunto via mail, ecco cosa ci ha raccontato: Partendo dal titolo del tuo ultimo lavoro, perché chiami i protagonisti del romanzo “superuomini” e non semplicemente “supereroi”? Da un punto di vista, come dire, filosofico, il supereroe novecentesco sembra una declinazione del superuomo. Voglio dire che ‘superuomo’ si porta dietro molti significati, molte allusioni positive o negative, molta ‘volontà di potenza’, molti riflessi metaforici, sembra insomma un termine più ampio di ‘supereroe’. Anche se, in realtà, il vero motivo è l’idea che questo è un libro pieno di umanità… I personaggi di questo romanzo sono vivi e sono in carne e ossa, hanno una profondità sentimentale che è umana, anzi, nel loro caso, potremmo dire ‘superumana’. Alla Feltrinelli di Bari il libro era venduto nella sezione “letteratura erotica”… Bene: è un libro anche erotico. Male: la solita esigenza di rinchiudere tutto in qualche nicchia specifica. D’altro canto, il titolo, che a dire il vero non ho scelto e non condivido del tutto, punta sulla componente erotica. Attenzione, però: l’eros non è il semplice sesso. L’eros è una forza attrattiva ampia, generalizzata, che ci costringe a fare il conto con l’Altro, e con il nostro stesso corpo. “Il corpo, residuo ultimo della vitalità e del possesso. Il corpo lo abbiamo tutti ed è forse l’unico potere che c’è rimasto. Quando non si può agire più su nulla, sul corpo si può anco44
CA DEI SUPERUOMINI ra.” Simona Vinci. Ci racconti il ruolo della corporeità che esplode prepotentemente tra le righe? Se ho scelto di usare dei supereroi come personaggi, è perché mi interessavano i loro corpi, la loro possibilità di incarnare, alla lettera, le rispettive condizioni esistenziali: l’Uomo di Gomma può allungarsi in ogni direzione, ma non riesce a stringere l’oggetto del desiderio. La mutante Mystique finisce per trasformarsi fisicamente nelle persone che ama. Un paio di recensioni si sono soffermate sul fatto che io, in un modo o nell’altro, finisco sempre per scrivere libri corpocentrici. Libri sul corpo, libri fisici, quasi fisiologici. Ora, una ‘letteratura fisiologica’ è una strada quasi inevitabile, oggi, per molti narratori. Perché il corpo è così importante, tanto da rientrare ossessivamente nei dibattiti etico-politici? (Pensiamo alla questione del testamento biologico). Perché il corpo è l’ultima realtà difendibile. Il corpo è la sede della nostra presenza. Il corpo ci schiude misteri non ancora compresi. L’approdo alla Rizzoli e la pubblicazione di un romanzo strutturato e di respiro internazionale presuppone forse una possibile sceneggiatura e/o traduzione? Ti piacerebbe magari ricavarne una serie televisiva o un film d’animazione? Sceneggiatura impossibile: non credo che la Marvel o la DC Comics acconsentirebbero volentieri!... L’unica parte sceneggiabile sarebbe quella della famiglia De Villa, che peraltro è quella che molti lettori hanno amato di più. Quanto alle traduzioni, per adesso il libro è stato preso in Francia da Gallimard. Gli editori anglosassoni sono più restii, si chiedono perché mai un autore italiano si metta a raccontare una storia così ‘americana’. Questa è la tipica ingenuità del diavolo: l’America plasma il nostro immaginario, poi si stupisce se qualcuno rielabora questo immaginario e glielo rimanda indietro…
Hai sempre curato molto l’aspetto performativo nella promozione dei tuoi libri accompagnandoti sovente a musicisti, i tuoi non sono soltanto reading o semplici presentazioni ma performance in piena regola, quanto è importante la dimensione “live” di un libro e il rapporto diretto con i lettori? Quando parlo del corpo e della ‘presenza’, non parlo solo dei miei personaggi, parlo anche del corpo e della ‘presenza’ dello scrittore. C’è un piano di comunicazione sottilissimo, inafferrabile eppure profondo, che avviene solo nel ritrovarsi fisicamente gli uni al cospetto degli altri. Anche se, ovvio, il muoversi e il parlare davanti agli altri crea disagio, squilibrio, poiché nessun gesto e nessuna voce sembrano abbastanza sicuri, abbastanza definitivi. E io in realtà sono un uomo schivo, che si imbarazza per nulla. Non mi reputo un bravo performer. Mi basterebbe essere un performer sincero. Da precursore dei saggi sulle musiche elettroniche con il tuo ormai pluricitato Last Love Parade come giudichi il panorama attuale e quale scena segui con maggiore interesse? Da qualche anno faccio una vita piuttosto austera, a dormire presto, pochi giri notturni, cose così. Ascolto più musica classica che elettronica. Anche se certo mi emoziono sempre quando sento un buon ‘beat’. Tra gli ultimi lavori che mi hanno seriamente colpito: Untrue di Burial, un anno e mezzo fa, e poi l’ultimo Sébastien Tellier. Quanto alla scena dance, mi stupisco sempre di quanta poca voglia di ballare sembrino avere i ventenni di oggi. Voglio dire, ballare sul serio, ballare per se stessi, per sentirsi pulsare, per sudare fuori l’angoscia dei tempi, come si faceva fino a qualche anno fa. Emiliano Cito (Lab080) 45
MIGUEL ANGEL MARTIN Playlove Purple Press
A pochi mesi di distanza da Bitch, la casa editrice romana Purple Press manda nelle librerie Playlove, il nuovo graphic novel dello spagnolo Miguel Angel Martin. Martin è autore di storie dalle tinte forti, accolte in modo contrastante dal pubblico e dalla critica e, come accadde in Italia nel 1998, con l’avvenuto sequestro di Psychopatia Sexualis, non certo benvolute da certa magistratura censoria. In Playlove si racconta la storia della giovane Ari, che nello stesso giorno perde sia il lavoro che il suo ragazzo. Giornata disastrosa che viene risollevata dall’incontro con Dani, l’uomo giusto al momento giusto che, oltre ad essere un ottimo amante, le trova un nuovo lavoro e riesce a restituirle il sorriso perduto. Dietro questa apparente perfezione, però, Dani presenta un lato oscuro. A volte è sfuggente, non ama farsi fotografare e la sua perfezione è talmente assoluta da sembrare irreale. Da qui parte la voglia di Ari di porre in luce la vera identità di questo misterioso ragazzo e i suoi pedinamenti porteranno a rivelazioni a dir poco sorprendenti. Martin è abile nel tessere il suo romanzo come un puzzle in cui ogni pezzo s’incastra con gli altri, dando vita ad una rappresentazione gelida della nostra contemporaneità, in cui non c’è spazio per la trasparenza dei sentimenti e in cui, molto spesso, è la falsità a tenere in piedi le relazioni umane. Rossano Astremo
RAYMOND CARVER Principianti Einaudi
Questo libro ha una lunga storia, finora sconosciuta a molti. È la più famosa raccolta di racconti di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, nella versione originale concepita dallo scrittore americano. A suo modo un inedito, non solo un balocco per filologi (con una bella traduzione di Riccardo Duranti), se pensiamo al modo in cui a volte certe opere cambiano significativamente prima di arrivare
al pubblico. Fu Gordon Lish, potente direttore editoriale della casa editrice Knopf a manipolare il manoscritto all’alba degli anni ‘80, tra tagli e correzioni di una certa consistenza che passavano anche per personaggi, titoli e finali cambiati. Possibile? Sì, dal momento che all’epoca dei fatti, il padre del minimalismo, uno dei maggiori autori di short stories del Novecento, era ancora poco famoso e si stava impegnando a ricostruire la sua vita professionale e privata dopo anni di bocconi amari (alcolismo, lavori precari, un matrimonio fallito). Se ne dolse, Carver. Dolorosamente. Provò ad opporsi, a rivendicare il diritto dell’ultima parola prima di andare in stampa, scrivendo a Lish una lettera accorata: “Ti dico la verità, qui è in gioco il mio equilibrio mentale. Ora non vorrei fare il melodrammatico, ma davvero ho appena fatto ritorno dai morti per rimettermi a scrivere dei racconti.” La data è quella dell’8 luglio 1980. L’editor tenne duro, lo scrittore (forse per paura, forse per eccesso di stima) si rassegnò ad accettare ogni singola scelta e il libro uscì nell’aprile 1981. A rivelare lo scandalo, nell’estate del 1998, ci pensò D.T. Max con un articolo apparso sulle pagine del New York Times Magazine. Sconcerto e imbarazzo generale, visti i nomi in campo: tutto vero, tutto da seppellire nel dimenticatoio, se possibile. Qualcosa che dura ancora oggi, un decennio dopo la sensazionale rivelazione, se è vero che l’unico Paese in cui questo volume non verrà pubblicato sono gli Stati Uniti. Mettendo a confronto i due testi è interessante notare come, in realtà, il ben noto rifiuto dell’etichetta di minimalista da parte di Carver non fosse del tutto campato per aria: a Lish si devono sicuramente certi tagli bruschi sul finale di un racconto, certe soluzioni sospese, per non parlare dei dialoghi ridotti all’osso, della rimozione di interi pezzi del passato di un dato personaggio. Più ricca, più ampia è la visione dell’insieme secondo Carver, come testimonia del resto la raccolta Cattedrale, apparsa per la prima volta nel 1983. Leggere Principianti significa dunque, anzitutto, andare incontro a una rilettura di Raymond Carver senza filtri, senza le maledette forbici di Lish, vero inventore del minimalismo. Nino G. D’Attis LIBRI 47
STIEG LARSSON La regina dei castelli di carta Marsilio
Terzo e ultimo capitolo della Millennium trilogy che ha appassionato solo in Italia più di un milione di lettori e dalla quale verranno tratti dei film che già si preannunciano come dei successi, questo La regina dei castelli di carta non tradisce le aspettative dei numerosi fan di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander. Scoppiettante fin dall’inizio e ricchissimo di colpi di scena come ci ha abituati lo sfortunato autore, morto per un infarto nel 2004 prima di vedere pubblicati i suoi libri, il romanzo getta finalmente luce su acluni aspetti dell’inquietante protagonista, una sorta di Pippi Calzelunghe decisamente più gothic dell’originale. Ed è proprio nell’originalità del personaggio di Lisbeth che molti individuano la chiave del successo dei libri di Larsson. Lisbeth è una ragazza poco cresciuta, piena di tatuaggi e piercing, dall’intelligenza superiore alla media e dal profilo psicologico piuttosto anomalo contro la quale sembra che tutti in poteri forti di Svezia si siano accaniti con inspiegabile e incredibile tenacia. Come sempre il libro si lascia leggere d’un fiato. Unico rimpianto: non poter sapere come va a finire la saga di cui l’autore pare avesse previsto dieci volumi. Dario Goffredo
JOSEPH WAMBAUGH Il campo di cipolle Einaudi
Ex marine ed ex poliziotto Joseph Wambaugh si dimise dal servizio per dedicarsi alla scrittura. Considerato uno dei padri della narrativa noir contemporanea, è stato ideatore e consulente di una memorabile serie televisiva: Sulle strade della California. In questo libro pubblicato in America nel 1973, racconta una storia vera. Due agenti di polizia vengono disarmati 48 LIBRI
e rapiti da due delinquenti che li portano in un campo di cipolle. Ed è nell’odore pungente delle cipolle, che si consuma la tragedia, uno dei poliziotti viene ammazzato mentre l’altro riesce a scappare. Gli assassini vengono catturati ma il finale della storia è ancora lontano e tutt’altro che consolatorio e soprattutto tutto da leggere. Il libro è una riflessione sulla giustizia che non sempre funziona come dovrebbe e su come ogni fatto di sangue segna l’esistenza dei colpevoli e delle vittime in modo irreparabile. Una vera chicca l’introduzione di James Ellroy, che vale già da sola un salto in libreria. Dario Goffredo
CHRISTIAN FRASCELLA Mia sorella è una foca monaca Fazi
È convinto di saper fare a botte, ma viene messo come niente al tappeto; non sa andare in moto; fa il fico ma con le ragazze è un povero imbranato: ecco il sedicenne protagonista di questo libro. Periferia di Torino: mentre gli anni Ottanta stanno finendo, il ragazzo colleziona lividi esterni e interni, eppure continua ostinato a lanciare il suo guanto di sfida alla vita. Del resto bisogna tener duro: non è facile vedersela con suo padre, soprannominato “Il Capo”, un alcolista che passa tutto il tempo steso sull’amaca, ad affibbiare punizioni che sembrano uscite da un telefilm americano, come falciare l’erba del prato. Ed è snervante vivere accanto alla “Foca Monaca”, la sorella triste e ubbidiente. Quanto alla madre, è scappata col benzinaio. Ma il protagonista di questa storia stringe i pugni, sbuffa e s’affanna, anche se la vita gliele suona ogni giorno; anche se le prende perfino da Chiara, la ragazza di cui s’innamora: bella, sveglia e inaccessibile a sfigati come lui. Il Muro di Berlino che crolla e un serie di citazioni pop e da telefilm fanno da sfondo a questo romanzo, un Jack Frusciante da periferia che strappa il sorriso a ogni pagina, illuminato da una scrittura esilarante ma a tratti dolente, insieme cinica e romantica come il suo protagonista. Frascella con il suo libro d’esordio dimostra di avere tutte le carte in regola per diventare una voce interessante nel panorama narrativo italiano.
CYNAN JONES La lunga siccità Isbn
Gareth una mattina si accorge che una delle sue vacche è scomparse. Si mette alla ricerca e metro dopo metro il giorno volge al termine. Presto la sua giornata diventa un lungo bilancio, una presa di coscienza della siccità che ha asciugato le radici dei suoi affetti familiari: la moglie secca, che non riesce a scendere dal letto, sua figlia piccola lasciata sola ad accudire le bestie. Gareth non sa ancora che alcuni dei pensieri che non ha il coraggio di confessarsi prenderanno presto la forma di una tragedia senza possibilità di riscatto. La lunga siccità è il dolcissimo, commovente romanzo della solitudine, dell’ineluttabilità del dolore, della consapevolezza del senso della natura, scritto con uno stile e una sensibilità verso ciò che (non) vedono i nostri occhi che fa pensare ai migliori racconti di Breece D’J Pancake.
ERRI DE LUCA Il giorno prima della felicità Feltrinelli
Don Gaetano è un tuttofare in un grande caseggiato della Napoli degli anni cinquanta: elettricista, muratore, portiere. Da lui va a bottega un giovane chiamato “Smilzo”, un orfano dalle passioni silenziose. Don Gaetano sa leggere nel pensiero della gente e lo Smilzo lo sa, sa che nel buio o nel fuoco dei suoi sentimenti ci sono idee ed emozioni che arrivano nette alla mente del suo maestro e compagno. Lo Smilzo impara con Don Gaetano a non aver paura dei compagni, dei muri alti, delle grondaie, delle finestre. Lo smilzo continua a guardare a una finestra in particolare, quella in cui, gli è apparso un giorno il fantasma femminile. Un fantasma che tornerà a sfidare la memoria dei sensi, a postulare un amore impossibile. Lo Smilzo cresce attraverso i racconti di Don Gaetano, cresce
nella memoria di una Napoli che si ribella alla sua stessa indolenza morale. Lo Smilzo impara che l’esistenza è rito, carne, sfida, sangue. È così che l’anziano e il giovane si dividono il desiderio sessuale di una vedova, è così che l’uomo passa al giovane la lama con cui difendere l’onore, è così che la prova del sangue apre la strada a una nuova fuga che durerà il tempo necessario a essere uomo. Con il suo stile inconfondibile De Luca ci racconta il rapporto tra un maestro e il suo allievo, con la sua sensibilità verso tutto ciò che è umano, verso la poesia che solo una città come Napoli è capace di trasmettere.
FRED VARGAS Un luogo incerto Einaudi
Dopo appena venti giorni dall’uscita in libreria, il nuovo libro della signora del giallo francese è già in vetta alla classifica dei libri più venduti. Non ci stupisce e nemmeno ci dispiace. Meglio Fred Vargas di tante altre cose dopo tutto. Non sarà l’ultima frontiera del noir più arrabbiato e sorprendente, ma i suoi personaggi, Adamsberg su tutti, il suo modo di costruire le storie e dipanare gli intrecci, il suo humour, la sua cultura (Fred Vargas è lo pseudonimo di Frédérique Audouin-Rouzeau, archeozoologa e medievalista), la sua capacità di creare dialoghi succulentie strepitosi, fanno dei suoi libri un piacevole passatempo e un diversivo intelligente. Certo, non ti fa incazzare, non ti fa venire voglia di spaccare tutto, non ti stringe l’epigastrio, non ti muove emozioni e sensazioni sepolte, ma non si può avere tutto dalla vita. In questo Un luogo incerto il nostro amico Adamsberg, in compagnia del suo inseparabile Danglard si trova in Inghilterra per una riunione della Grande Europa poliziesca per armonizzare i flussi migratori tra ventitré Paesi. Ma il ritrovamento di diciassette scarpe spinge il commissario a percorrere un’altra Europa che da Londra, attraverso i dintorni dell’Hauts-deSeine e la Serbia, lo porterà alla tomba di Peter Plogojowitz, riesumato nel 1725 col sospetto di essere un vampiro. Ed ecco che il commissario Adamsberg si ritrova a dover fare i conti niente meno che con il mito del vampiro. E con un passato come sempre troppo ingombrante. Dario Goffredo LIBRI 49
INTERMEZZI EDITORE
Certo è che le case editrici spuntano come i funghi. Altrettanto vero è che per ogni fungo ci sono almeno trenta aspiranti scrittori – scrivitori, d’ora in poi – il che, secondo alcuni, crea un effetto allucinatorio nel mercato librario italiano. Il punto è forse capire chi ha qualcosa da dire, che sia una casa editrice o uno scrivitore, e chi no. E come si fa? Internet può aiutare: la pagina “chi siamo” sul sito di una casa editrice, ad esempio, può rappresentare un inizio. Così, un po’ per curiosità un po’ per il fatto che abbiano tra le loro prime uscite un horror di Marco Candida, m’è venuto di chiedere due o tre cose a Chiara Fattori di Intermezzi Editore. Una casa editrice che, leggo, si occupa di viaggi e di intermedialità: dal viaggio classico, dunque, a quello rappresentato dalla rete. Non poteva essere altrimenti, visto che Intermezzi è nata appunto nell’epoca della rete e lì abita tra blog e social network. Insomma, da un viaggio all’altro, siamo di nuovo ai funghi (e mi fermo qui, non sono mica Jim Morrison). Detto da dottore in Comunicazione a dottori in Comunicazione e Lettere: cosa spinge dei giovanotti come voi ad aprire una casa editrice in questo inizio secolo? Credo che una casa editrice, proprio perché viene sommersa da manoscritti, debba anche dare delle garanzie a un aspirante scrivitore (li chiamo così). In altri termini, qual è la particolarità di Intermezzi Editore, ciò che nessuna altra casa editrice può avere? Ciò che ci ha spinti a fondare Intermezzi è stata la nostra passione comune per libri, cultura, comunicazione, unita a una certa insofferenza 50 LIBRI
nei confronti dei lavori e dei contratti a progetto che dopo la laurea ci venivano proposti. Abbiamo pensato che fosse il momento giusto per provare a fare qualcosa di nostro, abbiamo pensato che potevamo avere qualcosa da dire, che eravamo abbastanza preparati, abbastanza capaci, abbastanza incoscienti per farlo. E l’abbiamo fatto. Per quanto riguarda le garanzie, io credo che il punto di vista vada ribaltato: non sono gli “scrivitori” (mi piace “scrivitori”) i nostri utenti, ma i lettori. Con gli autori lavoriamo, stipuliamo i contratti, li rispettiamo. È molto semplice e se da entrambe le parti c’è trasparenza e serietà non ci sono problemi. Con i lettori invece è diverso: loro vanno conquistati, non ci sono contratti, niente li potrà mai legare a noi e ai nostri libri. Loro devono fidarsi. Loro hanno bisogno di garanzie. E l’unica garanzia che possiamo dare è la qualità. Scegliamo le cose che ci sembrano belle, quelle che a noi, per primi, piacerebbe veder pubblicate, e le realizziamo per loro. Siamo una casa editrice dalla parte dei lettori, insomma, ma non so se questa può essere una particolarità, una cosa che nessuna altra casa editrice può avere, anzi forse è una cosa che tutte “dovrebbero” avere. La domanda di prima parte dal luogo comune che in Italia ci siano più scrivitori che lettori. Io non credo che sia così. Ma credo anche che, come per un disco o un film, ci sia anche bisogno di responsabilità: non tutto ciò che si scrive può necessariamente interessare gli altri. Forse si scambia il bisogno di comunicare con la scrittu-
ra vera e propria? (e soprattutto, chi decide cosa interessa e cosa no? mi sto perdendo!) Sicuramente non tutto può essere pubblicato, non tutto può interessare. Decidono gli editori, ovviamente, responsabilmente e coscienziosamente, ma anche i lettori: se una cosa non piace, non vende, non la si pubblica più. È la legge della domanda e dell’offerta, insomma. Nemmeno io credo al luogo comune. Però gli “scrivitori” sono davvero davvero tanti… Di conseguenza: cosa pensate dell’autoproduzione in ambito librario (ilmiolibro.it, lulu)? Io non so che pensare. Di certo potrebbe tagliare le gambe all’editoria a pagamento. Io penso che sia un’ottima cosa. È giusto che se uno ha scritto un romanzo, un racconto, una poesia, un saggio o un testo qualsiasi che per lui è importante, là dove non trova un editore, o mentre lo sta cercando, provi a raggiungere i lettori per altre vie. La rete ci offre libertà di espressione e facilità di opportunità. Non vedo perché non sfruttarle. Se questo poi taglierà davvero le gambe all’editoria a pagamento tanto meglio. Intermezzi, come suggerisce il nome, si pone il problema dell’ibridazione, dello scambio, del viaggio, e dell’intermedialità: in cosa si tradurrà soprattutto quest’ultima caratteristica? (un’anticipazione, insomma) Intanto si sta traducendo in un continuo scambio con la rete. I nostri libri, i nostri contatti, noi viviamo nella rete, praticamente. Questo per ovvie ragioni: una casa editrice appena nata non ha la forza, la possibilità, le risorse per vivere offline. I canali di distribuzione, i media, sono difficilmente utilizzabili e raggiungibili per chi muove i primi passi. A parte i momenti delle presentazioni, degli eventi che creiamo, non ci sono altre opportunità per noi. Qualche anno fa non avremmo mai nemmeno pensato di aprire una casa editrice, probabilmente. O se l’avessimo fatto non avremmo mai ottenuto in così poco tempo la visibilità che, se pur minima, abbiamo. Oltre al nostro sito (www.intermezzieditore.it), al blog (www.intermezzieditore.it/blog) e a vari social network in cui siamo presenti e attivi, abbiamo da un mese aperto il sito WebSite Horror (www.websitehorror.com), un portale di racconti horror curato da Marco Candida, con l’idea di invitare gli autori a cimentarsi in questo genere, così particolare e spesso snobbato. Per adesso l’idea è stata ben accolta e speriamo che possa avere un seguito. Marco Montanaro www.malesangue.wordpress.com
CHIUSA LA PRIMA FASE DEL PREMIO “IL CENTRO DEL DISCORSO” Un’altra tappa del viaggio verso il centro del discorso si è conclusa. Sabato 14 e domenica 15 marzo si è riunita a Roma, presso il Centro Sperimentale Culturale RialtoSantAmbrogio, la giuria della prima edizione del Premio nazionale di Drammaturgia Contemporanea “Il Centro del Discorso” per selezionare i testi vincitori del bando. La giuria ha dichiarato vincitori della prima fase del Premio, per la categoria under 26: Gli Illuminati di Vittoria Tambasco; H di Rossella Placuzzi, Ilaria Faletto, Carlotta Scioldo; per la categoria over 26: Ricordati di ricordare, cosa? Shoa di Valentina Diana; ed ex aequo tra loro, Ente Conni di Erik Sogno e I Soccombenti di Paolo Musìo. I vincitori riceveranno un contributo economico per portare a termine il lavoro di scrittura. Successivamente al completamento dei progetti selezionati, verrà proclamato il testo vincitore, che sarà presentato attraverso letture sceniche o prove di studio e di perfezionamento in alcuni circuiti e festival di teatro sul territorio nazionale. Il vincitore potrà inoltre usufruire di un periodo di residenza finalizzato alla produzione dello spettacolo, presso le Manifatture Knos di Lecce, dove sarà presentato in anteprima durante la prima edizione di un Festival di Teatro e Drammaturgia Contemporanei che si svolgerà in autunno. Secondo gli ideatori Lea Barletti e Werner Waas, dell’associazione Induma Teatro, “Il Centro del Discorso vuole contribuire a rivitalizzare l’attività teatrale pugliese facendo crescere il discorso culturale in una prospettiva non localistica ma di apertura e riflessione sulla capacità di dialogare. Vogliamo che il Salento sia motore di una rinascita a livello nazionale dell’arte drammaturgica e culla di un nuovo ruolo del teatro nella comunità di cui è specchio ed espressione. L’idea che in teatro si manifesti il mondo in cui viviamo, e che questa manifestazione abbia la forza di modificare la percezione della realtà e generare pensiero, ha fatto nascere un’occasione in cui l’arte scenica e la parola drammatica possano riflettere sui tempi odierni, sulla nostra vita di artisti e uomini, oggi. Vogliamo che il Salento, partendo dalla periferia, si faccia centro propulsore di una rinascita a livello nazionale dell’arte drammaturgica, per giungere, finalmente, al centro del discorso”.
CINEMA TEATRO ARTE
IO NEL RUOLO DI DONNA Intervista a Margherita Buy
Nel corso della sua lunga carriera Margherita Buy ha lavorato con alcuni dei migliori registi italiani, tra cui Moretti, Tornatore, Faenza ed Ozpetek. Ma è con Sergio Rubini, suo ex marito e “barese” di Grumo Appula, che la Buy ha scoperto il Salento e la Puglia, una terra ricca di suggestioni che a suo dire l’ha segnata profondamente. La decima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce ha dedicato all’attrice romana una retrospettiva con la proiezione di alcuni dei suoi film più conosciuti. Nel corso del Festival è intervenuta anche alla presentazione del libro Margherita Buy. Immagine di donna, scritto dal critico cinematografico tarantino Massimo Causo per Besa editore. Adesso è nelle sale nei panni della talentuosa pianista Gabriella in Due partite, commedia agrodolce di Enzo Monteleone tratta dall’omonimo lavoro teatrale di Cristina Comencini. Hai frequentato l’Accademia di Arte drammatica a Roma. Poi la tua carriera dal teatro è migrata al cinema. Una scelta di vita? Fare del teatro richiede numerosi sacrifici, è molto faticoso e scomodo, per questo ammiro tantissimo chi lo fa in maniera stabile. Non fraintendermi lo amo molto il teatro e di alcuni lavori conservo bellissimi ricordi. C’è un clima inconfondibile e familiare. Se dovessi scegliere però preferirei il cinema. Il tuo rapporto con la Puglia però nasce proprio a teatro. Direi di si, dal momento negli anni dell’accademia ho conosciuto Sergio (Rubini, ndr) con cui poi ho lavorato, anche in Puglia. Ho avuto modo di conoscere, attraverso la sua guida, alcune delle caratteristiche peculiari di una terra che amo moltissimo e nella quale torno sempre con piacere. Se dovessero ripropormi di lavorarci non avrei esitazioni. Molti tuoi ruoli femminili sono rimasti nell’immaginario collettivo. In questi giorni sei nei cinema con un altro ruolo di spessore, Gabriella, pianista che decide di mettere da parte il suo talento per amore del marito e della famiglia. Come donna cosa
ne pensi di una scelta del genere? È possibile che di quei tempi forse non sia rimasto nulla e che oggi una scelta del genere sarebbe impraticabile o forse nemmeno sentita. Probabilmente anche Gabriella, come molte donne di allora, sarebbe stata una grande pianista, ma non aver assecondato i suoi sogni l’ha messa in una situazione di forte insicurezza e di dipendenza dal marito. Credo che chi vedrà il film non potrà non riflettere su questo. Non bisogna però mai sottovalutare quello che un essere umano sarebbe capace di fare quando è innamorato. A volte le scelte, quando sono dettate dall’amore, sono del tutto irrazionali. Per quanto riguarda il ruolo, è stato entusiasmate, ma anche duro interpretarlo, soprattutto per un salto che mi ha portata indietro negli anni ‘60. Per rimanere in tema Due partite, prima che un film è stata un commedia teatrale, che tu stessa hai interpretato. Quali sono state le diversità del ruolo tra camera e palcoscenico? Quello del film era un progetto di cui si era sempre parlato con Cristina Comencini, ma che poi lei ha abbandonato per affidarlo a Enzo Monteleone. Non ero quindi del tutto impreparata a dover adattare lo stesso personaggio al grande schermo. Più che sulla diversità di cinema e teatro, ho cercato di concentrarmi sul rapporto con il regista, in questo caso un uomo, circondato da otto donne e da un universo femminile che spesso ai maschi sfugge. Enzo si rivelato del tutto all’altezza della situazione. Un’ultima valutazione, di carattere sociale più che professionale. La totalità del cast di Due partite è composto da donne, tra cui nomi eccellenti come te, Alba Rohrwacher, Isabella Ferrari e Paola Cortellesi. Troppe prime donne per lo stesso set? È stata un’esperienza originale, anche se a dire il vero avevo già lavorato con molte donne nello stesso cast. Non ci sono state difficoltà, anzi si è creato un clima di intesa che solo tra donne può nascere, qualcosa di particolare e molto intimo. Insomma, un’esperienza da rifare. C. Michele Pierri
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DIECI ANNI DI CINEMA EUROPEO La X Edizione del Festival del Cinema Europeo, diretto da Alberto La Monica e Cristina Soldano, che si è tenuto a Lecce dal 31 aprile al 5 aprile, si è chiusa con un buon successo di pubblico. La manifestazione quest’anno ha visto come protagonisti del cinema Europeo: Costantin Costa Gavras, Margherita Buy, Ferzan Ozpetek, Raoul Bova (acclamato da centinaia di fan), Mimmo Calopresti, Monica Guerritore, Simonetta Solder, Riccardo Scamarcio, Nico Cirasola (che ha presentato il suo nuovo film Focaccia Blues), Tonino Zangardi, Adriano Giannini, Andrea Osvart, Fulvio Lucisano, Sonia Bergamasco, Fabrizio Gifuni, Giuseppe Piccioni. La giuria internazionale, composta da Eva Zaoralova (direttrice del festival Karlovy Vary), Carlo di Carlo (regista e storico del cinema), Carlos Hugo Aztarain (direttore di riviste, attore), Dunja Klemenc (produttrice), Philip
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Bergson (critico, sceneggiatore ed attore) ha premiato con l’Ulivo d’oro per il Miglior Film Kino Lika del croato Dalibor Matanic. Il Premio per la Migliore Cinematografia è andato a Tranquility dell’Ungherese Robert Alfoldi. “Con sicuro mestiere e con una solida struttura, riesce a raccontare con efficacia una storia di solitudine e di disperazione di una piccola comunità di un villaggio di montagna”, recita la motivazione. Altri premi per La belle personne di Christophe Honorè (sceneggiatura), For a moment freedom di Arash T. Riahi (premio speciale della giuria), Mukha del regista russo Vladimir Kott (Premio giuria Fipresci), Sonderbehandlung di Carlo Michele Schirinzi (Puglia Show), “Per la ricerca espressiva che rielabora materiali di repertorio in un immaginario personale”.
GIUSEPPE PICCIONI Giulia non esce la sera
Guido (Valerio Mastandrea) sa poco del mondo e poco anche dei libri ma fa lo scrittore e ha successo. Non parla francese, non ha letto Kafka, non sa tener testa ai giornalisti, si è solo messo a scrivere, ritrovandosi tra i finalisti di un prestigioso premio letterario. Le storie banali e irritanti che abbozza ribadiscono che la vita, dentro e fuori dai libri, è solo vita, senza evidenti attributi estetici o morali, materiale incompleto sia per il dramma che per la commedia. Poi arriva Giulia (Valeria Golino), con la sua tara dal passato espressa nel misterioso divieto di uscire la sera. I due s’incontrano, s’innamorano, ma una logica fredda e coerente li schiaccia sul proprio destino impedendo all’amore di operare trasformazioni. Giulia è trascinata al fondo da una sofferenza “oggettiva”, mentre Guido resta schiavo di una malattia immaginaria che si chiama insoddisfazione. Continuerà a disprezzare il mondo letterario e a farne parte, a ricevere complimenti da chi non ha letto i suoi libri, si chiederà perché scrive e perché piace alla gente, senza trovare risposte e senza smettere di accumulare domande. La pellicola di Piccioni risulta grigia, gravata da un senso di ovvietà che risucchia personaggi rassegnati e segretamente compiaciuti di un ruolo da vittima che li solleva dalla responsabilità del cambiamento. Francesca Maruccia
CLINT EASTWOOD Gran Torino
Walt Kowalski trascorre le sue giornate facendo qualche lavoretto in casa e sorseggiando birra in veranda sotto il tiepido sole del Midwest, in compagnia della sua fedele cagnetta, l’unica rimastagli accanto dopo la morte dell’amata moglie. Il volto emaciato, segnato dalle violenze e dai ricordi della guerra in Corea, lascia trasparire il suo carattere scontroso ed irascibile, incapace di
dimostrare affetto ai suoi due figli che sembrano preoccupati solo di mettere le mani sulla vecchia casa e sulla Gran Torino. Questa automobile costruita negli anni settanta dalla Ford, diviene motivo di incontro fra l’anziano patriota ed il suo vicino di casa, un giovane di etnia Hmong. Da quel momento la vita del rude Kowalski si intreccia con quelle di Thao e di sua sorella Sue, intraprendente e spigliata ragazza che introduce lo scorbutico vicino nella cultura Hmong. I preconcetti razziali del protagonista si scontrano con il cambiamento dei tempi. Quello che era un quartiere operaio in cui gli abitanti erano per lo più dipendenti della limitrofa azienda Ford di Detroit, con gli anni e con la conseguente crisi economica che ha travolto il settore automobilistico, si è trasformato in una zona in cui vige la violenza delle gang cinesi, messicane, ed afroamericane. Uno stravolgimento sociale che però aiuta Kowalski a mutare la belligeranza iniziale verso gli estranei, i musi gialli, in un inaspettato sentimento di affetto e di amicizia. Il protagonista di Gran Torino ricorda le precedenti interpretazioni di Clint Eastwood. L’intrattabile patriota sembra muoversi nell’ombra del testardo allenatore di Million Dollar Baby. Entrambi vedovi, combattuti nella loro fede cattolica, instaurano con la disagiata e promettente pugile e con il timido ed impacciato Thao, quel legame paterno che mai erano stati in grado di avere con i rispettivi figli. In questa nuova pellicola, però, si assiste ad una lenta mimesi fra il vecchio ed il bambino, l’insegnante e l’allievo. Il regista insiste su stacchi di inquadratura che ritraggono Thao che lavora sotto la pioggia, nel fango del giardino, ed il vecchio che lo osserva sotto la veranda. Un processo di identificazione fra la sofferta esperienza vissuta in trincea ed il difficile percorso di crescita del giovane asiatico. Eastwood mescola diversi generi in questo film, un western urbano che strizza l’occhio ai buoni sentimenti, senza tralasciare l’aspetto comico (i tentativi di trasformare il giovane Hmong in un vero uomo, si esauriscono in grotteschi dialoghi fra il ragazzo ed un barbiere italiano). Un ottimo prodotto filmico, caratterizzato da una narrazione lineare che ha il pregio di aprire una finestra sugli stravolgimenti socio culturali della provincia americana. Un’altra stella nella filmografia dell’intramontabile attore e regista californiano. Roberto Conturso
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MOMART Ad Adelfia una nuova casa delle arti
La mia maestra delle elementari diceva che l’essere delle cose è nel loro nome. Mi sono ricordata di questo suo insegnamento quando ho cominciato a leggere del progetto Momart, per scoprire che l’acronimo si scioglie in Motore Meridiano delle Arti. Parola ambivalente questa Momart, che si compone di più pezzi: Moma è il primo, è il nome di una discoteca particolarmente nota nella mappa del divertimento notturno pugliese. Nell’ottobre 2007 la discoteca è sequestrata a seguito di un’operazione coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Bari. Ed è qui che la parola comincia a diventare equivoca. Al primo pezzo si aggiunge il secondo, Art, e diventa MOMart, se ne trasforma il senso. Perché il sequestro del Moma rappresenta un nuovo inizio nella legislazione dei beni sequestrati ma non ancora confiscati alla mafia; perché da lì comincia un 56 cinema teatro arte
nuovo modo di concepire la responsabilità dei progetti culturali; perché da lì si scommette, con responsabilità e concretezza, sulle potenzialità di sviluppo civile e culturale del territorio. Il progetto Momart nasce dalla collaborazione tra il Teatro Kismet di Bari e l’Associazione Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, fondandosi sul desiderio comune di fare di questo spazio riconquistato il simbolo di una nuova politica e di una società civile che ripudia l’illegalità in tutte le sue forme, e che ambisce a sostenere, e a mettere in rete, gli organismi dell’ impresa culturale locale e nazionale, nella certezza che la cultura agisce come veicolo di informazione e sensibilizzazione su tematiche di rilevanza sociale. Dopo la firma di un protocollo di intesa, con il quale si affida ai due organismi la gestione
dell’ex discoteca di Adelfia, comincia un impegnativo periodo di monitoraggio volto al confronto con gli operatori e le tante associazioni pugliesi che lavorano nel campo della creatività. Ad ottobre del 2008 Momart fa il suo ingresso in società: lo slogan Momart mette in moto il cambiamento segna la partecipazione alla prima iniziativa pubblica, segnata da un forte spirito di condivisione, partecipazione, voglia di creare una rete di relazioni tra le varie realtà locali, sufficientemente forte per sostenere ed alimentare il motore meridiano della arti. Non a caso Momart, in accordo con il programma della Regione Puglia Bollenti Spiriti, elabora forme di sostegno e interazione con le realtà giovanili del territorio, il sistema della produzione nazionale e la rete internazionale della cooperazione artistica. Tre sono le declinazioni della parola Momart: Moma live, uno spazio performativo in cui proporre serate live dedicate a musica, letteratura e arti visive; -Momart – motore della creatività giovanile, un luogo dedicato alla produzione, alla formazione e all’inserimento lavorativo degli artisti del territorio, da sviluppare attraverso formule quali bandi, corsi di formazione, festival, seminari internazionali per la creazione di reti tra giovani creativi; Moma hub, un motore delle relazioni e della cooperazione internazionale, il cui compito sarà quello di generare relazioni a tutti i livelli per realizzare da un lato progetti di cooperazione artistica internazionale, dall’altro relazioni di stage con reti specializzate nel settore. La prima formula operativa di MOMArt, con la quale si aprono ufficialmente gli spazi della struttura riguadagnata alla legalità, è quella dei “Cantieri”, e il primo a partire è quello musicale del progetto “Hub – networking per le attività creative”. Nei prossimi mesi, seguiranno gli altri. Se è vero, come diceva la mia maestra, che la parola è il significato, appare chiaro che il senso profondo del progetto MOMArt è quello di essere centro e riferimento di coordinamento fra le numerosissime realtà creative della regione. Del resto, come tutti i neologismi, che si presentano più di frequente in culture che stanno cambiando rapidamente, anche MOMARt sorge in una situazione culturale, quale è quella pugliese, caratterizzata da una rapida diffusione dell’informazione e da un dinamismo, una spinta, che lascia ben sperare noi “fannulloni” creativi delle giovani generazioni. Michela Contini
( A + B)³ Storia di un amore al Teatro Kismet di Bari
Sul palco a e b, due amanti, un uomo e una donna qualsiasi, in un cubo, una struttura essenziale, fatta di legno e pannelli di stoffa. I due vivono e raccontano la loro storia semplice, uguale a tante altre: l’amore e la quotidianità, in un susseguirsi di cene, bicchieri di vino, sigarette e promesse, sono bruscamente sostituiti dalla guerra e dai suoi ritmi, che scandiscono la separazione, la distanza e la solitudine. Tutto si fonde in un racconto senza parole, agito all’interno e attraverso la semplice cornice che è il cubo fatto di legno e pannelli di stoffa. Pannelli che, da pareti, di volta in volta si trasformano in schermi per videoproiezioni, o in teli per il teatro delle ombre, giocando con le figure create attraverso sagome e il proprio corpo. Ogni tecnica è svelata, costruita davanti agli occhi degli spettatori: i due performer sono dentro e fuori lo spettacolo, protagonisti e narratori, contemporaneamente attori del qui e ora teatrali e latori di un messaggio universale, slacciato dal tempo e dallo spazio. Si tratta di una narrazione teatrale attraverso un linguaggio ricco di modalità espressive e stimoli, denso ma mai fine a sé stesso, come invece è ormai buona parte del teatro di sperimentazione. Ogni ombra proiettata, ogni frenetico gioco di luce, ogni intervento filmico, che danno allo spettacolo un impatto visivo straordinario, non rappresentano una sterile sperimentazione, ma una struttura drammaturgica coerente e visionaria. Il gruppo Muta Imago, nato a Roma nel 2004, concentra la propria attività proprio sulla creazione di drammaturgie originali, sull’aspetto visivo e sulla ricerca di nuovi linguaggi performativi. Elisabetta Lapadula
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EVENTI DAL GIOVEDÌ ALLA DOMENICA Appuntamenti alla Svolta di Lecce Proseguono e si intensificano gli appuntamenti della Svolta, un nuovo ristorante e jazz bar di Lecce, che si presenta con una ricetta i cui ingredienti principali sono la cucina semplice, rispettosa dei cicli naturali degli alimenti, e la musica jazz. Ogni giovedì serata “Casinò”, ogni venerdì spazio alla rassegna “Svolta classic jazz live”, serata all’insegna della purezza del Jazz e della buona tavola, ogni sabato jam session. La domenica infine (dalle 19.00) aperitivo a buffet e musica dal vivo brasiliana. Info 329 8455974 – 3924300512 GIOVEDÌ 9 Bingo Bongo - Tributo ai Manonegra al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Emanuele Pagliara e Tobia Lamare alla Città del tempo di Lecce Richard Sinclair alle Officine Cantelmo di Lecce Dj Giovanni Ottini al Molly Malone di Lecce It’s a musical ai Cantieri Koreja di Lecce VENERDÌ 10 Withate vs Burning Seas all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) R’n’R 4 Jesus Party allo Skatafashow di Aradeo (Le) Una buona novella alle Officine Ergot di Lecce Massimo Donno (voce e chitarra) e Luca Barrotta (piano, fisarmonica, cori) propongono un personalissimo tributo a Fabrizio De Andrè. Nello spettacolo vengono riproposti tutti i brani della “Buona Novella” rielaborati con sonorità che spaziano dai suoni etnici del Mediterraneo, fino a sonorità orientaleggianti, passando per le suggestioni del valzer. Info 339.1200398 Open Mic al Molly Malone di Lecce È un appuntamento fisso per tutti i musicisti leccesi, armati di strumenti o semplicemente di voglia di suonare ci si da appuntamento all’open mic. Microfono aperto a chi si vuole esibire, un cantautore, una band o semplicemente un musicista in cerca di amici con cui suonare. In un’atmosfera intima e rilassata è possibile ascoltare canzoni inedite come grandi successi della storia del rock. Damien ai Sotterranei di Copertino (Le) Mama Roots al Gabba Gabba di Taranto Evolution Son Far alla Masseria Valente di Crispiano (Ta) The Snipplers allo Spazio Off di Trani (Ba) SABATO 11 Amerigo Veradi e Marco Ancona live, dj set Tobia Lamare presso le Officine Cantelmo di Lecce QCK, dj Gopher e Soulfiero all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Matilda Mother alla Masseria Valente di Crispiano (Ta) The Hacienda al Gabba Gabba di Taranto
KEEP COOL V EDIZIONE
Torna Keep Cool, la rassegna organizzata da CoolClub che questa’anno giunge alla sua quinta edizione. Rock, punk, folk, noise, elettronica, indie, lo-fi, beat: da aprile fino a giugno sette concerti di musica indipendente. Si parte giovedì 9 aprile con il concerto di Richard (presso le Officine Cantelmo di Lecce), il bassista e chitarrista inglese fondatore dei Caravan, gruppo progressive della fine degli anni ’60, uno dei principali protagonisti della scena di Canterbury. Sinclair ha suonato nelle più importanti formazioni della corrente di Canterbury a partire dal 1964 tra cui The Wilde Flowers, gli Hatfield and the North, i Camel e gli In Cahoots oltre ai Caravan e ai Sinclair and the South, gruppi da lui fondati. Si prosegue sabato 18 aprile, sempre alle Officine Cantelmo, con Aidan Smith, uno dei cantautori più interessanti del new acoustic movement inglese e paragonato addirittura a Badly Drawn Boy. Aidan Smith, è capace di comporre leggere filastrocche per semplici accordi di piano e basso, testi brillanti e irriverenti che snocciolano finti rimpianti con un sorriso sornione, condite da quella forza sottile che trasforma un innocuo numero lo-fi in una canzone piena, riuscita, completa. A maggio e giugno Keep Cool ospiterà Piers Faccini (9 maggio), The Phonems & Forest City Lovers (13 maggio), Casador e Tecnosospiri (23 maggio), Ulan Bator (30 maggio), Orange (13 giugno). Info: 0832303707; info@coolclub.it Foggy, Mad Kid & Fidoguido al Villanova di Taranto Le Single Blanc, Ada Nuki, Bogong in action e Matilda Mother alla Masseria Valente di Crispiano (Ta) Serata Punk al Cloro Rosso di Taranto Almamegretta al Cube di Bari DOMENICA 12 Fitness Forever e Giorgio Tuma all’Istanbul Cafè di Lecce Il cantautore salentino e la band napoletana scritturati dalla spagnola Elefant Records, una delle più importanti etichette al mondo di eventi 59
indie pop si esibiscono in questo speciale live che arriva come una bella sorpresa pasquale. Giorgio Tuma aprirà la serata per presentare in esclusiva il nuovo “My Vocalese Fun Fair”, un disco dalle mille coloriture in cui il tropicalismo brasileiro incontra le armonie ariose di Burt Bacharach, passando per l’indie intellettuale di Stereolab e Belle & Sebastian. I Fitness Forever, creatura POP di Carlos Valderrama, arrivano da Napoli con il loro “Personal Train”, un disco italianissimo, fatto di melodie sentimentali e grandi arrangiamenti orchestrali. Modena City Ramblers ad Acaya (Le) Ada Nuki ad Alessano (Le) Frontiera al Gabba Gabba di Taranto Tributo a Fabrizio De Andrè al Cloro Rosso di Taranto LUNEDÌ 13 Pasquetta al Parco Gondar di Gallipoli (LE) Inaugurazione delle nuova stagione del Parco con un evento lungo 15 ore con 14 set differenti e circa 50 artisti tra i quali Boosta, Salento Show Case, Roy Paci, Apres la Classe,Code Fish e Tuna, Villa Ada Sound, Groove Department, Boo Boo Vibration, Dario Lotti, Kill Jim, Ecodek.(Le) Yes we rock a Villa Concamarco a Vanze (Le) Torna la pasquetta di Villa Concamarco all’insegna del Rock and Roll. Una lunga giornata, una maratona di concerti e dj set. A partire dalle 12:00 sul palco live si avvicenderanno Flavio Jordan for Elvis, Psycho Sun, Spread your Legs, Amerigo Verardi & Marco Ancona, Lola and the Lovers, Bubble Bullet. La consolle invece sarà animata dai dj Postman Ultrachic, Tobia Lamare, Ballarock, jack Rosella, Tony Rucola, Valeriana e tanti altri. Tutto questo e ancora: video installazioni, angolo barbeque, animazione per bambini e pranzo su prenotazione. MARTEDÌ 14 Le Jam Del Birdland al Felix di Trepuzzi (Le)
Appuntamento con la rassegna coordinata e diretta da Marco Bardoscia e Raffaele Casarano, giunta alla sua terza edizione, è ormai una tradizione per i cultori e gli amanti della più moderna e affascinante musica popolare: il 60 EVENTI
jazz. Il progetto “Le jam del Birdland”, cerca all’interno della classica jam session, una sorta di laboratorio sulle interpretazioni dei classici standard del jazz e sull’improvvisazioni con il supporto di una ritmica di base (pianoforte, batteria, contrabbasso) dal vivo, invitando chiunque abbia voglia di suonare il jazz ad avvicinarsi con il supporto tecnico di musicisti competenti nel campo. GIOVEDÌ 16 Serpentine al Molly Malone di Lecce Carìon all’Auditorium Vallisa di Bari VENERDÌ 17 Alessandra Celletti al Conservatorio “Tito Schipa” e al teatro Paisiello di Lecce Blu Cianfano Jazz & Blues Jazz Trio al Kalì di Melpignano (LE) Samuel Katarro alla Saletta della Cultura di Novoli (LE) Progetto solista di Alberto Mariotti avviato nel Maggio 2006, predilige la dimensione acustica scarna ed essenziale e la povertà di mezzi tecnici tipica dei primissimi bluesmen e folksingers americani immersa in un’atmosfera più nevrotica e schizofrenica propria del rock ed in particolare di certa new wave americana degli anni ’70. Nel Novembre 2008 è stato pubblicato da Angle Records il suo album d’esordio Beach Party co-prodotto e mixato da Marco Fasolo dei Jennifer Gentle. Silvered al Molly Malone di Lecce Lost After Death e Waiting for better days al Gabba Gabba di Taranto SABATO 18 Inoki e Skizo all’Istanbul Cafè di Squinzano (LE)
Inoki nome d’arte di Fabiano Ballarin, rapper e writer romano ma attivo sulla scena bolognese, ha all’attivo numerosissime collaborazioni prestigiose nel mondo hip-hop e ha realizzato quattro album solisti. Dal 2006 fa parte della scuderia Warner music e nel 2007 è stato eletto dall’emittente televisiva Mtv “Scommessa MTV dell’anno”. Bad Skizo Newz comincia la sua avventura sui giradischi nell’84 fondando il primo gruppo rap della storia italiana: i Radical
Stuff. Negli anni a seguire si consacra come uno dei più grandi produttori Hip Hop nostrani e dj di altissima qualità. Collabora con svariati produttori a New York e produce in Italia gruppi come Gente guasta, La Pina, Frankie Hinrg, Alienarmy. Nel 96 si trasferisce in Australia e collabora in produzione e tour con musicisti come Torcha, Hijack, Thorn, DjSing, Dj Bonez, facendo dell’Australia la sua seconda casa artistica. Superfreak all’Arci 37 di Giovinazzo (Ba) The Ultra Twist al Gabba Gabba di Taranto Burning Seas, Fomento e Rising Hate al Cloro Rosso di Taranto Moltheni allo Spazio Off di Trani Gemboy allo Zenzero di Bari Aidan Smith alle Officine Cantelmo di Lecce DOMENICA 19 The Vicious Circles al Nordwind Discopub di Bari LUNEDÌ 20 Presentazione A.C.A.B di Carlo Bonini al Cloro Rosso di Taranto MARTEDÌ 21 Le Jam del Birdland al Felix di Trepuzzi (Le) Mauro Pagani al Teatro Italia di Gallipoli (Le) Moha e Vialka al Bohemien di Bari MERCOLEDÌ 22 e GIOVEDÌ 23 Bascule ai Cantieri Koreja di Lecce GIOVEDÌ 23 Spazio Live The Warlus + Mary Lame + Dj Set Mr Moon e Dj Echoes al Jack’n Jill di Cutrofiano (LE) Lola & the lovers alla Città del Tempo di Lecce VENERDÌ 24 E SABATO 25 Short Pieces ai Cantieri Koreja di Lecce VENERDÌ 24 Lucia Manca al Kalì di Melpignano (LE) Franco Morone alla Saletta della Cultura di Novoli (LE) Franco Morone è considerato il poeta italiano della chitarra acustica. Le sue melodie, grazie anche alle sue originali doti interpretative, emozionano sin dal primo ascolto. In tutti i suoi album, sia delle composizioni originali che delle trascrizioni, i temi antichi e popolari rivivono una seconda giovinezza. E questo
è ciò che maggiormente sorprende di questo musicista. Per le sue ricerche e pubblicazioni in campo didattico, Franco Morone è un punto di riferimento per molti musicisti e appassionati che frequentano i suoi seminari in Italia e all’estero. Come chitarrista si esibisce regolarmente in concerti in Europa, USA e Giappone, ed è protagonista di prestigiose rassegne e festival internazionali. Trouble Vs Glues al Gabba Gabba di Taranto Don Ciccio ft Gioman & Killacat al Cloro Rosso di Taranto SABATO 25 Soul Rebels al Parco Gondar di Gallipoli Festa del 25 aprile - Villa Comunale - Zollino
Una grande manifestazione per una grande giornata: sabato 25 aprile a Zollino presso gli spazi della Villa Comunale l’ass. L’Ostro in collaborazione con A.N.P.I., Comune, Pro Loco e Centro Anziani di Zollino e con la consulenza artistica di Dilinò organizza la festa del 25 aprile. Uno spazio, nei pressi della villa comunale, allestito in diverse aree per un grande evento che abbraccia musica e letteratura con ospiti importanti: si parte alle 19 con “Raccontare la resistenza”, presentazione del libro “Zia, cos’è la Resistenza?” di Tina Anselmi (Manni Editore) con Antonio Errico (scrittore) e Maurizio Nocera (Ass. Naz. Partigiani Italiani). A partire dalle 20 cena del 25 aprile con esibizione del gruppo
Tanto pe’ canta’. A partire dalle 21.30 sul palco principale si dà il via alla musica live con i Nudo al cubo trio atipico di musicisti ispirati alla scena jazz norvegese e alle sonorità elettroniche. Si prosegue con i Cosmica con il loro rock capace di emozionare. A chiudere i live del main stage, l’esibizione dei Crifiu, alle prese con il Rock in Sud tour 2009, tour nazionale che sta toccando i principali festival nazionali. In chiusura del live, area dance hall finale con i Ghetto Child Sound System_Roots & Culture, il suono della notte salentina. Info: 328/8028846 Super Elastic Bubble Plastic allo Spazio Off di Trani (Ba) Avvolte al Gabba Gabba di Taranto Foggy, Kalibandulu e Flag Sound al Villanova di Taranto Puglia Resistenza Hardcore alla Masseria Valente di Crispiano (Ta) Petrol e Cff al Cloro Rosso di Taranto Aidan Smith e Runway al Circolo Arci 37 di Giovinazzo (Ba) Ascanio Celestini al Teatro Impero di Brindisi Fabbrica di Ascanio Celestini nasce dopo due anni di lavoro, di incontri, di dialoghi e una serie di laboratori sparsi per l’Italia, per raccogliere la memoria degli operai della prima metà del secolo scorso. Un lavoro poderoso eseguito da un autore straordinariamente eclettico, Ascanio Celestini, che recita, racconta, scrive, canta e interpreta antropologicamente il vissuto contemporaneo in maniera dinamica e, certamente, non
cattedratica. MARTEDÌ 28 Le Jam Del Birdland al Felix di Trepuzzi (Le) Alexander de Large al Bohemien di Bari GIOVEDÌ 30 Vascomania, tributo a Vasco Rossi al Jack’n Jill di Cutrofiano (LE) Polar for the masses allo Spazio Off di Trani (Ba) Gerson al Gabba Gabba di Taranto VENERDÌ 1 MAGGIO Primo maggio a Kurumuny a Martano (Le) Piccola Orchestra Apocrifa a San Cesario (Le) SABATO 2 Polar for the masses ai Sotterranei di Copertino (Le) Asian Dub Foundation, Mascarimirì, Crifiu e Insintesi all’Evening di Monteroni (Le) Muffx all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Il gruppo stoner salentino presenta il nuovo album: Small Obsessions. Una serata speciale in cui saranno suonati i brani che compongono il secondo lavoro in studio della band pubblicato dall’etichetta Go down records e in distribuzione in tutta Italia a partire dal 7 aprile. GIOVEDÌ 7 Primo Tempo - tributo a Luciano Ligabue al Jack’n Jill VENERDÌ 8 Mariposa alla Saletta della Cultura di Novoli SABATO 9 Piers Faccini alle Officine Cantelmo di Lecce
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