anno III numero 24 aprile 2006
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“NON LUOGHI�
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Partire da una negazione per affermare fortemente. Negare il non-essere, come fece Parmenide, è parlare del nulla, di cose che non ci sono. Difficile la filosofia del non come quella del post, si rischia di non dire niente di interessante o di parlarsi addosso. Ogni volta che una parola nasce molti ne vorrebbero la paternità, tutti le vorrebbero attribuire un’accezione, altri ne sono vittime. Dopo la moda del postmoderno (maltrattato, stropicciato, abusato) c’è il non-luogo. Nato in riferimento ad aereoporti, mallcenter, villaggi vacanze, non-luogo è diventato la rete, internet, lo spazio stellare, la comunicazione: tutto e niente. Fino al paradosso che l’intero pianeta sia un non-luogo o ancora che i non luoghi siano in realtà super-luoghi, contenitori sovraffollati di informazioni. Siamo partiti proprio da chi ha reso famosa la parola non-luogo, e cioè l’antropologo francese Marc Augé, per parlare di luoghi. Abbiamo concesso diritto di replica a Luigi Negro, artista, sociologo e storico dell’economia, che mette in discussione questa non esistenza. Claudia Attimonelli percorre le strade di Berlino alla scoperta dei luoghi temporanei. Giancarlo Susanna racconta alcuni luoghi di Roma in cui la musica è stata protagonista negli anni sessanta e settanta. Con Francesco di Bella, leader dei 24 Grana, abbiamo ricordato gli anni dei centri sociali e l’influenza che questi spazi hanno avuto sulla musica. Dal sud fino al suono senza confini geografici dei torinesi (altra città, altra scena) Mau Mau intervistati in occasione dell’uscita del nuovo album Dea. Carlo Chicco ha intervistato, in esclusiva per noi, il gruppo del momento: gli Arctic Monkeys (ai quali abbiamo dedicato la copertina), anche loro figli di un non luogo perché nati, cresciuti ed esplosi grazie ad internet. Federico Baglivi ci ha portato alla scoperta dell’Islanda e della sua musica. Ancora luoghi: la loro deturpazione e liberazione, uno sguardo alla nostra terra con l’articolo di Ludovico Fontana sull’abbattimento di Punta Perotti a Bari, l’evento del mese. Partendo dal concetto di luogo abbiamo parlato di musica, di libri (con l’intervista ad Alessandro Golinelli), di teatro (Ilario Galati ha intervistato Alessandro Langiu, autore e inteprete di Otto mesi in residence). Senza concederci alla politica oppure facendone a nostro modo... sperando che non aumentino luoghi o definizioni di essi ma solo spazi dedicati alla musica e all’arte. Osvaldo
CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it redazione_bari@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno 3 Numero 24 aprile 2006 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Hanno collaborato a questo numero: Mino Degli Atti, Rita Miglietta, Mimmo Pesare, Luigi Negro, Claudia Attimonelli, Giancarlo Susanna, Livio Polini, Dario Quarta, Lorenzo Coppola, Camillo Fasulo, Giovanni Ottini, Giuseppe Lorenzo Muci, Nicola Pace, Giancarlo Bruno, Kosmik, Antonio Olivieri, Ilario Galati, Gianpaolo Chiriacò, Sergio Chiari, Gennaro Azzollini, Massimo Ferrari, Federico Baglivi, Anna Puricella, Valentina Cataldo, Il Passo del Cammello, Mauro Marino, Simone “Ergot”, Rossano Astremo, Ennio Ciotta, Cinzia Dilauro, Roberto Pasanisi, Carlo Chicco, Ludovico Fontana, Roberto Cesano, Sarah Faraone, Daniela Mita
“NON LUOGHI” 4 Marc Augé 5 Non nulla
Foto di Viviana Martucci
6 Berlino
8 Roma 9 KeepCool
18 Mau Mau 21 Paolo Fresu 22 Islanda
Ringraziamo le redazioni di Blackmailmag.com, RadioErre di Foggia, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi e Pugliadinotte.net. In copertina gli Artic Monkeys. Foto di Andrew Kendall. Progetto grafico dario Impaginazione Roberto Pasanisi Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione in un giorno di primavera cosparsi di uova (pesce d’aprile). Per inserzioni pubblicitarie: Antonietta Rosato T 3404722974 antonietta@coolclub.it
23 Coolibrì 28 Alessandro Golinelli 31 BeCool
34 Arctic Monkeys 35 Appuntamenti 38 Fumetti
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CoolClub .it NEL NONLUOGO LA RESIDENZA “E’ASSEGNATA” Intervista a Marc Auge’. A cura di Mino Degli Atti, Rita Miglietta e Mimmo Pesare
Marc Augé, già directeur d’études presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, di cui è stato a lungo Presidente, è uno dei più affermati antropologi contemporanei. A Marzo il professore è stato ospite a Lecce del convegno “Luoghi e non luoghi – Gli spazi invisibili” organizzato dalla Sezione Italiana delle Donne Architetto (S.I.U.I.F.A.), in collaborazione con la Provincia di Lecce e con l’Ordine degli Architetti. Nell’occasione gli abbiamo fatto alcune domande a partire dal tema dell’intrattenimento, un tema caro alle istanze giovanili che richiedono nuove progettualità nelle politiche del settore. Cosa può dirci sulla distinzione tra spazi d’intrattenimento (loisir) come luogo d’incontro e di scambio emozionale, dove si predilige la libera espressione, da una parte, e spazi orientati verso il mero consumo, dove l’individuo è parte di un copione già scritto dall’altra? Devo dire che la società del consumo ha la tendenza a recuperare tutto. Si dice spesso di essere nell’età dell’individualismo, è vero, tuttavia l’individuo è si un re, ma è un re nudo e sembra che tutti lo vogliano vestire! Tutti siamo liberi di avere quello che vogliamo, specialmente nel campo del divertimento. La società dei consumi fornisce tutto quello che possiamo desiderare creando un catalogo da cui si può scegliere. Tutto, quindi, è programmato ma c’è un aspetto un po’ illusorio in questa libertà. Tutto quello che c’è è sovrabbondante e
( M ar C A uge ’ )
la cosa più illusoria è la stessa sensazione di libertà che possiamo avere nella scelta. Da questo punto di vista tutte le iniziative che cercano di creare uno spazio di vera libertà e di creatività autentiche sono evidentemente preziose perché bisogna tenere vivo il conflitto tra le tendenze culturali dominanti e l’agire creativo. I club, dunque, possono essere un’alternativa di questa specie al consumo generalizzato? Uhm...si...questi luoghi in realtà esistono un po’ dappertutto e, in fondo, si possono considerare sia come qualcosa di “programmato”, come fornitori di “consumo omologato”, che come luoghi dove le persone si incontrano e creano delle cose; in questa ultima accezione sono effettivamente spazi dove si può sperimentare la libertà. Quindi si può parlare di luoghi ambivalenti. Cosa pensa del formidabile successo dei reality-show, tra i giovani? Questi programmi veicolano il desiderio dei giovani verso una rappresentazione virtuale, ci pare... Non solo dei giovani, ma un po’ di tutti. I reality show mi sembrano un fantasma della nostra epoca. La frontiera tra ciò che appartiene all’ordine della pura finzione e l’ordine della realtà è una frontiera più fluida rispetto a qualche anno fa, perché la realtà attinge dalla finzione e la finzione
ha bisogno della realtà. Si creano così delle storie che hanno bisogno di qualcosa che assomigli quanto più possibile alla realtà. L’ideale di ciascuno, oggi, è vivere dall’altra parte dello schermo, non è il “gioco dell’Altro”, nella formula di Rimbaud e di Lacan, ma è l’altro che è in gioco. Si esiste pienamente solo se siamo dall’altra parte dello schermo. Il suo nome è da anni associato a quello dei nonluoghi, titolo del fortunato saggio del 1992. Cosa rimane, a distanza di questi 14 anni, di quel concetto? Ha pensato a una attualizzazione dei nonluoghi, o la loro fenomenologia rimane identica? Se per nonluoghi designiamo empiricamente gli spazi di comunicazione, circolazione e consumo, bisogna dire che essi si sviluppano in maniera talmente accelerata che il mondo stesso è diventato un nonluogo. Tuttavia, negli ultimi tempi, la mia riflessione è consistita nell’interrogarmi sull’uso che possiamo fare di questo concetto. Del resto, quando una categoria attira così tanto l’attenzione, c’è bisogno che continui ad indicare qualcosa... ecco perché sono tornato sulla definizione iniziale. Diciamo allora che I nonluoghi sono uno spazio dove si ha la sensazione che le relazioni sociali (regole, codici, procedure, eccetera) siano perfettamente leggibili. Il “perfetto nonluogo” è quello dove le relazioni sociali sono tutte completamente decifrabili attraverso l’osservazione. Ma in questi luoghi non c’è libertà, la residenza “è assegnata”. E da questo punto di vista mi è sembrato che quei luoghi che, in qualche modo, percepiamo come “parentesi aggregative”, ad esempio aeroporti, supermarket, mall-center, siano luoghi dove non si possano leggere le relazioni sociali simboliche: ci sono dei codici che vi indicano ciò che dovete fare, come e dove entrare; sono degli spazi dove la
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condizione “normale” è quella di essere soli. Ed è per questo che li ho chiamati nonluoghi. Ma non penso che si possa fare una lista al cui interno ci sono i nonluoghi da una parte e i luoghi dall’altra; se torniamo su questa nozione, ed è questo il passaggio sul quale ho insistito negli ultimi anni, possiamo vedere come i due aspetti siano legati: questa coppia permette di leggere il grado di socializzazione in uno spazio. Di contro mi è sembrato che a partire da questa distinzione si possa andare verso altre nozioni, presentate anche da altri autori o verso coppie di termini “alla moda”, tipo globale/locale, tutti modelli molto carichi ideologicamente. È interessante opporre a questi la nozione di luogo/nonluogo, oppure le categorie di Paul Virilio (importante teorico della contemporaneità n.d.r.), interiore/ esteriore, in riferimento al sistema globale che mi sembrano essere coerenti rispetto al discorso che abbiamo intrapreso. Si potrebbe dunque cercare di leggere la tensione tra luogo e nonluogo a partire da questa prospettiva: la cittamondo è un luogo mentre il mondo-città ( L u ) Ca F ’ haus ( U ) di è una rete. Per concludere: lei ha parlato di “spazi di resistenza” interiori ed esteriori alla realtà sociale...ci può chiarire meglio dove e come è possibile individuare questi spazi? Mah...bisogna intendere la resistenza come “durezza”, cioè così come i materiali sono resistenti. Si può avere l’illusione della resistenza individuale, ma, più che altro, ci sono dei punti forti nel tessuto sociale e nei legami simbolici...è lì che si resiste!
Lo dico fin dall’inizio a scanso di equivoci: non-amo la parola non-luogo. Sono dell’idea davvero stupida che un non luogo non possa esistere: se è un non-luogo, non-esiste e se invece esiste, allora esistono anche tutta una serie di non-cose. Del tipo: la non auto, il non pavimento, il non gelato, il non campanello, il non amore, il non suono, la non visione, il non-nulla. Se esiste un nonluogo che non sia la semplice inesistenza di un luogo e che sappia essere esso stesso non essendolo, dobbiamo pensare che esista un nonmondo connesso. E tutto questo non ha senso e non ha neanche nonsenso. Io credo che la fortuna di Marc Augé sia un esempio di come il caso sia la vera teologia del contemporaneo. Esistono una serie di domande incredibili che chi si interessa di teorie del caos conosce bene e che hanno come risposta unica “il caso”: Perché le auto vanno a benzina e non a vapore? Perché è caduto il muro di Berlino? Come è possibile san C esario di le C C e che da un brodo primordiale sia nata la vita? Perché l’orologio va in senso orario?... Perché Marc Augé è così noto come l’inventore del non-luogo? A tutte le domande precedenti, nel caso foste davvero interessati o non fossero nel vostro bagaglio di conoscenze, posso rispondervi in dettaglio, per Mr Augé ci provo pur sapendo di fallire. Ricordo che il giorno della conferenza a Lecce, un professore universitario
di biologia, chiese a qualcuno dell’organizzazione chi fosse mai questo Marc Augé e gli fu risposto: Quello che ha inventato il “non luogo”, nel dirlo ovviamente fece le virgolette con le dita. Il professore annuì avendo sicuramente sentito questa parola diffusamente negli anni. È fantastico come “il caso” riesca a diventare Creatore. Io credo che ciascuno di noi abbia una idea del concetto di non-luogo personale e confusa, e credo che Mr. Augé lo abbiano letto (con attenzione) davvero in pochi. Pochi parlano di post moderno o semplicemente fanno riferimento ad una antropologia delle rovine o meglio ad una fenomenologia del tempo in rovina mentre indicano che un determinato posto è un non-luogo. In realtà la “questione del tempo”, un po’ come per le teorie della relatività o quella dei buchi neri, è la questione delle questioni, cruciale anche per comprendere davvero che per Augé la parola (non -parola?) non-luogo sia stata solo un pretesto per tentare di definire una intuizione comune ad altri pensatori e artisti che spesso lo hanno preceduto di molti decenni (uno fra tutti Duchamp). Immagino anche che per Augé il successo di questa parola sia stato un tormento, è il tormento degli attori che interpretano personaggi che diventano talmente popolari da non riuscire a staccarsene neanche tentando il suicidio. Per cui Ron Moss sarà sempre nell’immaginario collettivo Ridge Forrester (e non un mediocre attore porno), Alvaro Vitali sarà sempre Pierino (e non l’interprete drammatico o l’attore Felliniano), Rocco Siffredi sarà sempre Rocco Siffredi, Zingaretti il Commissario Montalbano, ecc. Così Marc Augé sarà sempre l’inventore del “non luogo”. Detto questo, francamente, non credo nell’esistenza di questi famigerati “non luoghi”, i non luoghi dovrebbero non esistere e ciò e troppo per il mio se pur delirante cervello, se dovessi accettare questa idea dovrei iniziare a credere all’esistenza degli gnomi, dei “marziani” e persino dell’etica in politica. Credo in
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realtà prosaicamente nell’esistenza di luoghi con tutti i requisiti dei luoghi reali ed identificati con il “non” solo per una serie di ragioni, intuizioni e conoscenze che ne connotano una comunione, o come si diceva alla scuola media, un insieme. In sostanza si identifica una certa tipologia di luoghi come “non luoghi” dotandoli di una serie di caratteristiche omogenee. Fra queste vorrei soffermarmi su una identità (multi-identità/nonidentità) già citata in precedenza, che è appunto “il tempo”. Lo faccio perché il problema del tempo è un problema piuttosto complesso, e da cui sono nate le maggiori confusioni riferite ai non luoghi. È del tutto evidente che viviamo in un enorme Presente divoratore, un Presente identico a Hyuoine il verme mitologico che, respirando, si nutriva di se stesso ingrossandosi a dismisura. Come nella teoria dei buchi neri, il presente si ciba del tempo che ha intorno e quindi del futuro e del passato espandendosi. Le conseguenze sono evidenti a tutti, e sono spesso luttuose: la fantascienza (morta oramai negli anni ottanta), la religione, l’ideologia, la Storia ecc.. Il tempo non-presente esiste solo come funzionale alla politica, all’economia, al potere. Che questa ipertrofia del presente sia evidente appare anche da alcune recenti ricerche di marketing, in tali osservazioni è interessante notare una nuova categoria che descrive una popolazione, quella degli adultescenti. Una categoria che fa riferimento al consumo e che descrive una fascia di età enorme che inizia con la preadolescenza e finisce con l’inizio di quella che una volta si chiamava anzianità, una super-fascia di super-presente, insomma. Ma prima che questo discorso ci porti lontano, lo chiudo dicendo che questo tipo di presente-mostro (mostroluogo), è probabilmente la prima conseguenza della nostra capacità mobile e moltiplicatrice di creare mondi e doppi anche nel reale. Il doppio non è oramai un problema o una identità esclusiva dell’analisi, dell’arte o del teatro, ma è oramai una categoria sociale, antropologia, sociologica. Ci sono doppi comunitari, doppi collettivi, e cosi anche, evidentemente doppiluoghi, ed è proprio qui che cresce la mistificazione o l’errore, nel confondere
il non-luogo di Augè, con una generica e diffusa esigenza di definire una serie di tipologie fluide che fanno riferimento a luoghi stranianti o insalienti (con una apparente o reale mancanza di senso), luoghi casuali, luoghi configuratori, luoghi metafore (come le mappe dinamiche, le encarte di Pierre Lévy), luoghi diffusi, e per questo non necessariamente tangibili, luoghi frutto di una visione connessa (come spesso capita con la rete e internet), ecc. Con tali identità gli aeroporti-non -luoghi o le hall di alberghi di Augè poco hanno a che fare. Parlando proprio di rete, negli anni ‘90 Paul Virilio annunciò la presenza di una “minaccia” incombente, la minaccia della perdita di realtà. Per Virilio l’impatto delle nuove tecnologie e della realtà virtuale avrebbe assunto un’importanza così grande da farci perdere i nostri punti di riferimento nello spazio reale, proprio come accadeva con la stereofonia: c’è uno luogo (spazio) in cui dialogano lo spazio della presenza concreta e quello virtuale. Per Virilio per questo si è condannati a perdere la percezione della realtà, di precipitare nel disordine (un certo tipo di disordine), di arrivare a “uno sdoppiamento dell’identità del reale”. Sdoppiamento, doppio, doppi, alterità, aura dei luoghi (cosi ben citata da Walter Benjamin), luoghi neutri, tutte dimensioni che, con l’idea di non-luogo di Augè, hanno a che fare davvero molto marginalmente, ma che ineluttabilmente (casualmente) ci portano a lui. Per questo, pensavo che mi piacerebbe costruire un pacchetto turistico verso un non-non-luogo. Ve lo propongo, ne ho in mente uno in particolare si chiama (Lu)Caf’Haus(u). È territorio d’accumulazione di senso, di svolgimento di senso. Di mancanza di senso. È quello che siamo e non siamo simultaneamente, (scandalosamente) senza scandalo. È ciò che stiamo diventando e quello che siamo non-stati. Al centro esatto di un lungo corridoio di fallimenti (una volta erano cipressi) è passaggio per il limbo. È il nulla, segno oscuro, campo della disfatta. È un presagio inaccessibile, luogo alieno. È il varco per l’ade. È un chiodo fisso, la mia linea politica, la mia etica. È come essere innamorati, come odiare, per un NonNulla. luiginegro@gmail.com www.undo.net/synapster
Reportage di Claudia Attimonelli
Ostalgie: termine coniato a Berlino negli anni ’90, racconta della nostalgia per l’Est – Ost – senza retorica socialista e in sintonia con il clima respirato subito dopo l’89, quando la città ha sperimentato intensamente una connotazione affettiva della nozione di quartiere. Secondo Michel Maffesoli il quartiere acquista una nuova modulazione che si riferisce a gruppi di strade, locali, fermate della metropolitana, incroci di situazioni, gente e piccoli eventi. Ciò che avviene fra le strade, i negozi, i bar è dato dal legame tra lo spazio e il quotidiano, al punto che le architetture e le sonorità di sottofondo assurgono a modalità attraverso cui sperimentiamo la città. Dunque, Prenzlauerberg, Eberswalderstrasse, fermata della metropolitana a NordEst di Berlino. Anche alle prime luci dell’alba il giornalaio del chiosco all’uscita trasmette reggae. Da lì, a destra c’è il Mauer Park, luogo della memoria di confine Est/Ovest (Bernauer Str., Gleim Str.), mentre a sinistra con il tram M10 si viaggia nelle epoche della DDR, da quella sobria fino a quella monumentale della sovietica Frankfurter Allee. In Friedrichshain, fermata Warschauer Strasse, snodo di fuga verso la zona della città più affascinante perché decadente e retrò, sede della scena notturna, luogo della techno e del punk. Uebercoolisch. Le pratiche culturali berlinesi sono fondate sulla logica degli spazi temporanei, luoghi urbani scelti perché abbandonati e adoperati per breve tempo per eventi musicali e inevitabilmente marcati dal segno della precarietà. Questo principio è ben descritto in Temporary Spaces, (M. Eberle, Berlin 2001) volume di qualche anno fa nel quale gli autori offrono una rassegna fotografica dei club di Berlino esistenti o scomparsi. Il titolo rivela il fenomeno racchiuso nell’essenza transitoria del club alla quale si associa il conseguente adattamento dei collettivi artistici ad esso vicini, connotati dall’essere nomadi: gruppi di dj, videomaker, web designers, organizzatori che ruotano attorno ad un club ospitato temporaneamente in una location, a chiusura dello stesso,
CoolClub .it PORANEI: BERLIN, MARZO 2006
( tresor )
migrano verso un altro contenitore. Il nomadismo dei collettivi artistico-musicali è, a sua volta, parallelo a quello del suo pubblico: si assiste al continuo mutamento della scena metropolitana che si muove seguendo gli spostamenti di questi nuovi architetti di spazi temporanei e dei loro animatori, divenendo tutti esploratori di nuove mete urbane. Un fattore singolare di questo fenomeno è dato dal termine che caratterizza le descrizioni di questi club: ehemalige, cioè ex, “ciò che una volta era”. Qui, infatti, è una peculiarità della club culture il situarsi in ex sedi di enti, poste, fabbriche, banche, stazioni, alberghi. Il Tresor, chiuso da più di un anno, ad esempio, prende il nome dalla funzione originaria della pista da ballo, l’ex caveau di una banca. La stanza blindata, riconoscibile dalle sbarre del cancello antecedenti l’ingresso al floor, era circondata dalle cavità nei muri che ospitavano le cassette di sicurezza, lì si sudava al suono della techno negli anni ‘90. Il Tresor si trovava in Leipziger Strasse - Potsdamer Platz, il territorio di nessuno che separava Est e Ovest. Per chi non lo
conosceva era pressoché impossibile notarlo di giorno, poiché, si trattava di costruzione semidistrutta dai muri scalcinati, ingresso in ferro arrugginito che non recava alcuna insegna e la scritta sovrastante era così minimale da passare del tutto inosservata di giorno. Attualmente le serate Tresor Im Exil, sono ospitate da diversi club. Il 103, durato dal ’97 al ’98, situato nella Friedrichsstrasse, era in un complesso di prefabbricati una volta sede dell’istituto di credito fondiario della DDR poi distrutto con la ristrutturazione della zona. Nessuna pubblicità, nessun manifesto, nessuna indicazione, senza il passaparola risultava impossibile da scovare. Oggi si trova ad Est, in una sede cool su due piani, accanto al leggendario Watergate, tra F’hain e Kreuzberg, in un ex fabbrica. Quello che è stato uno dei club più amati della città, il Maria, dal 2002 ha lasciato la leggendaria sede panoramica – un ex ufficio della Stasi - dove, alle prime luci dell’alba dalle grandi pareti a vetro si poteva ammirare, stagliata nel cielo mattutino, la Fernsehturm. Ora si è trasferito nella non meno suggestiva sede sul fiume
che in precedenza ospitava il Dehli, conservando l’insegna vintage rossa con la scritta Maria. La complessa vicenda dell’Eimer, occupato dopo la caduta del muro e reso uno dei più significativi spazi e club temporaneamente autonomi del centro della città, il quartiere Mitte, si è conclusa 3 anni or sono con il definitivo sgombero e la repentina ristrutturazione. L’Eimer era un vuoto diventato pieno: l’edificio, dei tre livelli ravvisabili dall’esterno da tre piani di finestre, presentava un interno oscuro, sventrato, dove addobbi barocchi e gotici non lasciavano intendere le proporzioni reali degli spazi. La tentazione di narrare le innumerevoli storie di nascita e declino, talvolta vero e proprio crollo strutturale di questi luoghi, è forte: Ulli, ad un tavolino di un bar sulla Revalerstrasse, mi racconta delle trattative durate due anni per ottenere nel 1995 la sede dell’ex ospedale della Charitè a Mitte, Montjubi Platz, dove organizzarono memorabili party. E poi c’era l’Ostgut in un ex deposito ferroviario lungo la strada dell’East Side Gallery, con il suo fascino per le architetture industriali e metalliche associate all’immaginario fetish. I luoghi citati incarnano due tensioni delle culture elettroniche: l’interesse per le pratiche di détournement del già esistente e il tentativo di sfuggire alla fissazione in stereotipi musicali e sociali. Sonorità futuristiche, nomadismo metropolitano, proliferazione di culture underground frutto dell’esperienze condivise da piccoli gruppi, hanno animato, ad esempio, la deceduta Love Parade (1989-2003); l’evento non si limitava al giorno della parata, ma comprendeva la Loveweek durante la quale l’intera città di Berlino si trasformava in un club senza distinzioni di tempo né spazio. Negli anni si sono alternate delle contro parate: Hate Parade, Fuck Parade, Shit Parade dove si celebravano le radici dell’underground vs il mainstream. Per raver e clubber la questione dello stile, la convivenza di tendenze diverse, le pratiche culturali esperite nei luoghi urbani sono un affare serio.
CoolClub.it ROMA E LA MUSICA Ai più sembrerà la solita storia... ci sarà anche qualcuno che dirà, “Non se ne può più degli anni ‘60”... In quanto state per leggere non c’è tuttavia l’ombra di nostalgia. ma soltanto la constatazione di come un’attitudine nei confronti della musica e più in generale della cultura sia nata a Roma (e non solo) in quel periodo. Restringeremo la nostra breve panoramica sui luoghi del folk, del jazz e del rock a due locali. Roma è paradossalmente una città priva di memoria. Potete entrare nella chiesa di San Clemente, a un passo dal Colosseo, e scendere giù giù, fino a quel che resta di un antico tempio mitraico, ma potete passare davanti al cinema Adriano, trasformato nell’ennesimo e asettico multisala, e nessuno vi dirà che proprio lì, il 27 e 28 giugno 1965, suonarono i Beatles. E cosa resta, nell’ardita (e rimaneggiata) architettura del Palalottomatica (ex Palasport) dei concerti dei Rolling Stones, degli Who o dei Pink Floyd? In una città che non ha ancora una “casa del rock”, uno spazio degno di questo nome per un suono che proprio non vuole saperne di spegnersi, non è sempre facile ricatturare l’eco di eventi comunque straordinari, il tutto mentre Morrissey le fa pubblicità e si fa fotografare sulla tomba di Keats al Cimitero degli Inglesi. L’Auditorium di Renzo Piano si è aperto alla musica di Brian Wilson, dei Sigur Ros o di Joan Baez, ma accoglie con efficacia batterie e amplificatori soltanto nella cavea. Ed è un po’ strano che in questa area - che non può essere definita istituzionale più per l’eccentricità delle forme che per la gestione degli eventi - qualcuno tenti di rilanciare l’avventura del Folkstudio, aprendo le porte ai giovani emergenti. È già qualcosa che se ne recuperi il nome, ma quell’esperienza resta unica e irripetibile. Qualche volta il Folkstudio è stato in superficie; a livello stradale, e ha perfino conquistato parchi come Villa Pamphili o Villa Torlonia, ma la sua vocazione all’underground (in senso letterale) era scritta già nei suoi turbinosi esordi. Il primo gruppo di appassionati di folk e spirituals si raccoglie nel 1960 nello scantinato di un ristorante di Via Garibaldi, a Trastevere. Di lì a passare all’attiguo studio di uno scultore, affittato per pochi soldi e aperto due volte alla settimana, il passo è molto breve. Il locale, a forma di “L” rovesciata, con un
lungo corridoio e una stanza in fondo, è a livello della strada, ma l’atmosfera che vi si respira è quella delle caves parigine o dei folk club newyorchesi. Battezzato Folkstudio e guidato da Harold Bradley – “negro americano, pittore, rugbista, diviso tra Roma e Perugia, dove frequenta l’università” (1) - e da Giancarlo Cesaroni – “chimico di successo, appassionato di cavalli e proprietario di una Mercedes” (2) - quello spazio di pochi metri quadri diventa subito “il posto” per eccellenza dagli appassionati di folk e di jazz della capitale. Ci arrivo sul finire dei Sessanta, giusto in tempo per assistere alle prime prove di Francesco De Gregori, di suo fratello Luigi, di Antonello Venditti, di Ernesto Bassignano e di una piccola schiera di giovanissimi cantautori. Ricordo - scherzi della memoria – soprattutto una serata di Pasqua a lume di candela, con Cesaroni che distribuiva uova colorate al pubblico che si affollava nello stretto corridoio... Il 1971 è l’anno del primo trasloco. In seguito a una serie di surreali traversie, il Folkstudio con tanto di pedana, panche e sgangherate poltroncine - emigra. Prima nell’osteria Meo Patacca, poi al Setteperotto, un cabaret aperto da Maurizio Costanzo, e infine nello scantinato della libreria Uscita, in Via dei Banchi Vecchi, dall’altra parte del Tevere. Nel 1972 il Folkstudio approda in un seminterrato di Via Sacchi, tra il Gianicolo e Piazza San Cosimato, e lì resterà per molti anni, fin quando, dopo uno sfratto, Cesaroni sarà costretto a traghettare armi e bagagli in Via Frangipane, nella cantina (un’altra!) di una scuola trovata grazie al Comune di Roma. Basta girare l’angolo e si vede il Colosseo. Se piove un po’, il Folkstudio si allaga. Non c’è la licenza per la birra e per i superalcolici. È un
( l ’ auditorium di roma ) tramonto malinconico, insomma, culminato con la scomparsa di Cesaroni, che tutti giustamente consideravano l’anima stessa del Folkstudio. L’ultimo flash è per Ramblin’ Jack Elliott, uno dei grandi vecchi del folk americano. Chi altri, se non Giancarlo Cesaroni, avrebbe potuto portarlo a un tiro di schioppo dai Fori? Tutt’altra storia quella del Piper, culla del beat italiano, ma anche sede di concerti prestigiosi: dai Pink Floyd (nell’aprile del ‘68) ai Byrds (con Gram Parsons), dai Genesis ai Van Der Graaf Generator, dagli Strawbs agli Audience. Davanti all’ingresso di Via Tagliamento (dall’altra parte della strada c’è la “porta” del quartiere Coppedé) bisognerebbe mettere una targa per ricordarne la storia ai passanti. Non basteranno le attuali serate da discoteca un po’ becera a cancellare la gloria di certe serate. Quando vennero gli Spirit, nel 1973, ci fu una piccola ma significativa vittoria degli “autoriduttori”. Non scendemmo quelle “amate scale” finché non fu ribassato il prezzo dl biglietto. I luoghi, i colori, i suoni, i ricordi... il futuro affonda lì le sue radici. Giancarlo Susanna 1 da FolkStudio story, Dario Salvatori, Studio Forma, Torino, 1981. 2 ib.
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Sondre Lerche and the faces down quartet Duper Session Emi Jazz-pop /***** Sondre Lerche è quello che si dice un ragazzo prodigio, uno di quelli a cui non manca proprio niente: giovanissimo, bellissimo, dotato di un talento da fare invidia ai colleghi più attempati. Tre dischi all’attivo e poco più di vent’anni. Cifre a cui il mondo del pop ci ha abituato da tempo ma che al cospetto di questo norvegese dagli occhi cerulei assumono un rapporto età/qualità inversamente proporzionale alla media dei coetanei. Fin dal suo primo album (Faces Down) pubblicato nel 2002 e registrato due anni prima a soli 17 anni Sondre Lerche ha dimostrato la grande capacità di saper scrivere canzoni ammalianti, connubio quasi perfetto di angeliche leggerezze, acustiche indie, pop d’altri tempi. Spensierato e romantico, ha un approccio spontaneo con la melodia, di disarmante semplicità e allo stesso tempo sofisticato come un novello Bacharach.
Chi lo aspettava al varco, chi ne intimava lo scivolone è invece rimasto sbalordito dal secondo Two way monologue. La sicurezza nei propri mezzi, una certa “maturità” hanno dato vita a un album in cui gli ascolti di Sondre Lerche le sue inclinazioni, le sue divagazioni trovano sfogo. Sfacciato, senza la paura di ripetersi, eclettico quanto fedele al suono della sua voce, cristallina e svogliata e della sua chitarra. E quando tutti si aspettavano la consacrazione commerciale, l’album scala classifica arriva un disco spiazzante, un bellissimo dispetto. Affiancato dal Faces down quartet Sondre Lerche pubblica Duper session. È un album intriso di passato a partire dalla copertina, il riferimento o la dichiarazione d’amore è agli anni 50 al jazz e allo swing. Senza perdere lo spirito pop (in quegli anni si sarebbe detto ballabile) questo crooner dal falsetto facile, sfodera una classe e una sensibilità
che fa pensare al Chet Baker cantante. Si muove agilmente tra chitarrine alla Django Reinhard, un tributo a Cole Porter (Night and day), carezzevoli ballate in cui sfodera tutta la sua delicatezza. In Dead and misery sembra folk come il Beck più malinconico, in (I wanna) call it love attinge al suo campionario di perfetta pop song, mentre in Nightingales sembra lasciarsi affascinare da un che di latino. Un disco in cui l’amore per la musica, per il suono degli strumenti diventa celebrazione del bello. Senza sbavature ed eccessi, con l’equilibrio di un autore consumato, senza trucchi ma con una produzione pulita Sondre Lerche riesce a mettere l’abito da sera alle sue canzoni. Tutto quasi sottovoce, come in una jam tra amici. Tra le varie strade possibili per una terza prova non ha scelto certo la più semplice e ha colpito ancora nel segno. Osvaldo Piliego
KeepCool
10
Morrissey
Ringleader of the Tormentors Attack/Edel Pop / ***
Inutile rimarcare l’importanza di Morrisey nella storia del rock. Con gli Smiths ha scritto pagine di letteratura musicata, innamorato di Wilde, dandy, pop, nichilista, provocatorio. Da solista ci ha abituato a scivoloni e a riscatti repentini. Il suo penultimo You are the quarry aveva segnato un felice ritorno, un disco a misura di uno stile difficile da contenere. Molta attesa ha preceduto questo Ringleaders of the Tormentors. Registrato a Roma, città che lo ha conquistato e che cita più volte nel disco, l’album, che ha ospitato anche il maestro Ennio Morricone, ci restituisce il Moz di sempre. Questa volta più pomposo del solito Morrisey si fa strada tra arrangiamenti magistrali con la sua voce inconfondibile, le scalate e i salti di tonalità tanto amati dai fan e odiati dai denigratori. Ogni qual volta ci si imbatte con un personaggio come Morrisey si finisce per fare media tra passato e presente e alla fine quello resta è la classe di un uomo che è stato capace, e lo è ancora, di raccontare storie toccanti e amori intensi. Osvaldo Piliego
Casiotone For The Painfully Alone Etiquette Tomlab - Wide Folktronic / ***
Quarto e nuovo album ricco di novità per Owen Ashworth, in arte Casiotone… Il songwriter ventottenne americano, uno dei migliori nella scena indipendente, sceglie questa volta di allargare la sua one man band coinvolgendo nel progetto le cantanti Katy Davidson (Dear Nora) e Jenn Herbinson, i musicisti Jason Quever (Pan American Recording Studio e The Papercuts), Jherek Biscoff (Dead
Science e Degenerate Art Ensemble) e Sam Mickens (Dead Science). In questo disco rispetto al passato si avverte una cura superiore nella produzione anche grazie alla scelta dell’ampliamento nella strumentazione (pianoforte, flauto, archi, drum machine, organo, synth, ecc.). In questo modo Owen può esprimersi pienamente spaziando tra i generi musicali più diversi, dal sinthpop di matrice dark al folktronic, dal pop di natura sixties alle ballate rock. La sua voce appare profonda, sicura, i suoni non nascondono lo stile lo-fi che sempre ha contraddistinto i suoi lavori. Assistiamo così ad una prova di maturità. Cosa è rimasto di quel ragazzo della California, di una cittadina vicino a Los Angeles, che amava comporre brani strambi e spartani attraverso una tastiera Casio a batterie, un registratore ed un microfono? Il grande talento e l’originalità. Livio Polini
Loose Fur
Born Again In The U.S.A. Drag City - Wide) Post... / ****
Il progetto Loose Fur vede tra i suoi protagonisti due componenti dei Wilco (band di Chicago divenuta nota col disco Yankee Hotel Foxtrot), sono il cantante e chitarrista Jeff Tweedy e il batterista Glenn Kotche (che a giugno sarà ospite nel Salento nella residenza Sound Res). Insieme a loro a completare il trio c’è Jim O’ Rourke, cantante, musicista eclettico, produttore richiestissimo, in passato collaboratore anche dei Sonic Youth, ebbe un importante ruolo nella scena post-rock con i Gastr Del Sol, infine una carriera solista, il disco Eureka ne è una buona testimonianza, un gioiello pop. I Loose Fur, dopo un buon album d’esordio nel 2003, ritornano ora con Born Again In The USA. Mi sono chiesto, che cosa avranno voluto dire con questo titolo? Un riferimento a Bruce Springsteen? Non credo. Nelle varie tracce si passa dal southern rock al country pop, dal progressive al rock più distorto, tutto con una naturalezza ed un’intesa da far pensare che questo sia molto più che un semplice side-project o una jam sassion tra amici, qui c’è dello stile e che stile! La batteria è protagonista indiscussa in molti frangenti, come anche i riff di chitarre violenti e improvvisi, c’è spazio anche per momenti più malinconici e meditativi. Se amate il rock e non disdegnate qualche pregevole (in questo caso) contaminazione pop, questo album vi piacerà. Livio Polini
Ben Harper
Both side of the gun Emi Rock/***
Nel corso della sua carriera Ben Harper ha sempre messo a nudo le sue due anime: quella funk, black, soul, rock
e quella più pacata intima, acustica, rurale, blues. Dopo le escursioni nel reggae di With my own two hands contenuta nel vendutissimo Diamonds on the inside, dopo l’investitura a nuovo messia del Black power, dopo il disco con i The Blind Boys of Alabama, Ben Harper raddoppia. Il suo nuovo Both sides of the gun è un doppio album (proprio come Live from Mars nel 2001). Le due anime di Ben Harper sono affidate a due dischi separati. Come se in uno volesse guardare intorno e nell’altro dentro. Ci sono l’Africa, l’India, il mondo, la foce del Mississipi nel primo cd. Ci sono la rabbia, la speranza, l’impegno sociale e tutto il groove che la sua band (The innocent criminals) riesce a sfoderare. Eclettico come sempre Ben Harper va a spasso nei generi con naturalezza sciorinando lezioni di storia della musica afroamericana. Il secondo cd è l’anima di Ben Harper vibrante come la sua voce e la sua chitarra. Intimo come i temi trattati, essenziale perché quando c’è il cuore basta veramente poco. Osvaldo Piliego
Adam Green
Jacket Full Of Danger Rough Trade Cantastorie / ***
Vi ricordate i Moldy Peaches? Adam Green insieme a Kimya Dawson, davvero una grande band, emozioni vive, espresse attraverso sonorità indie. Dopo quell’esperienza così importante Adam intraprese la carriera solista incontrando altri generi: pop, folk e rock racchiusi da una chiave cantautoriale. L’importanza da quel momento è rivolta ancor di più alle parole. I testi: ironia allo stato puro, per riflessioni a volte anche sul sociale, sarcasmo, leggero, o spinto fino al limite, ma sempre con dietro una grande intelligenza. Allora mi chiedo, perché siamo in così pochi a conoscerlo? È normale, forse, almeno finché la stragrande maggioranza dei consumatori (che brutta parola!) di musica continuerà a fidarsi dei consigli dati dalle classifiche tipo TRL di MTV, almeno in Italia andrà così. Ho capito, ok, ad ognuno la sua musica! Questo album è il quarto come solista, viene realizzato con la mitica Rough Trade (etichetta storicamente rivoluzionaria nel modo di produrre, distribuire e vivere la musica). Adam è un piccolo genio, non c’è dubbio, un cantastorie moderno e vivace, di gran talento. L’altra notte, facendo zapping, ho visto il video del suo nuovo singolo proprio su MTV. Vuoi vedere che questa è la volta buona? Come dice l’imitatore di Gianni Morandi? “Dai che ce la fai!” Livio Polini
KeepCool
Circo Fantasma I Knew Jeffrey Lee Lain Blues/****
Fa un certo effetto parlare di questo disco a pochi giorni dalla scomparsa di uno dei suoi creatori: Nikki Sudden, eroe del sottobosco musicale rock a cui molto dobbiamo ma poco abbiamo dato. E lo troviamo all’interno di un disco che a un altro eroe del rock è dedicato. Parliamo di Jeffrey Lee Pierce leader dei mai dimenticati Gun Club. E Nikki Sudden insieme a Pierce fu tra i protagonisti nell’86 di I knew Buffalo Bill un disco simbolo per il rock indipendente. Da questo è partito il Circo fantasma per realizzare I knew Jeffrey Lee, il super disco di un super gruppo. c’è dentro la crème dell’indie italiano (Manuel Agnelli, Cesare Basile, Amaury Cambuzat, Emidio Clementi, Mauro Ermanno Giovannardi, Steve Winn). Tutti insieme, tutti per celebrare la musica il Blues come essenza e sentimento del suonare. Canzoni da I Knew Buffalo Bill, dal repertorio di Pierce, da Nick Cave, arrangiate e interpretate con tutto il sentimento possibile. Tutti in nome della musica, con la passione che ci dovrebbe essere ogni volta che si prende in mano uno strumento. Un disco appassionato, I Kenw Jeffrey Lee è un testamento, una lettera d’amore, un ricordo a cui non rinunciare. (O.P.)
Calexico
Garden Ruin City Slang/V2 Country-rock/****
Sarà stato l’incontro con Iron and Wine, il naturale scorrere del tempo, ma i Calexico sembrano essersi chetati. Messe da parte le scorribande tra mariachi e sangria sembrano aver preferito per questo disco sedie a dondolo e camino. Senza rinunciare agli spazi aperti e alle vedute sudiste questo Garden Ruin ha il sapore spesso delle cose genuine. I Calexico si dimostrano ancora una volta maestri nell’arte di rinnovare senza stravolgere il country-
11 rock, tra tradizione e curiosità per l’altro si confermano come una delle mie band preferite. (O.P.)
Flaming Lips
At the war with the Mystics Warner Rock-psichedelico/****
Più di dieci dischi all’attivo, più di vent’anni di onoratissima carriera. Tutto all’insegna del gioco, della ricerca, della follia. I Flaming Lips sono una di quelle band che si fa difficoltà a definire. Rock, psichedelia, da Barret ai Mercury Rev, noise, pop, indie tutto messo insieme. Liberi sul palco ( i loro concerti sono esperienze memorabili) e in studio dove non hanno mai smesso di sperimentare. Questo nuovo album li vede di nuovo creatori di un mondo fantastico, popolato da esseri incredibili che vivono storie allucinanti. La musica non è che la sghemba colonna sonora di questo trip in musica tra chitarre compresse, elettronica, flauti, voci processate, falsetti. At the war with the Mystics è straniante e bellissimo.
Caparezza
Mau Mau
Disco che vai, tormentone che trovi. E uno come Caparezza, lo stravagante rapper di Molfetta (che qualche anno fa si faceva chiamare MikiMix), in quanto a tormentoni non ha davvero nulla da imparare. Tagliato il traguardo del terzo disco si dimostra infatti più maturo e incisivo che mai e sforna immediatamente la hit La mia parte intollerante (con la presenza nel video di Gennaro Cosmo Parlato), che ha già invaso tv e radio. Ma parlare solo di singoli sarebbe riduttivo. Sembra infatti che il paroliere pugliese in questo suo nuovo lavoro abbia deciso di affondare il microfono e staccarsi persino da se stesso. Conscio del fatto che troppa esposizione non poteva che fargli smarrire la via, in Mors mea? Tacci tua! mette in scena il suo funerale. Ovviamente virtuale. In realtà Caparezza è tornato e in questo disco sono riconoscibili oltre che uno stile inconfondibile, un impegno sociale che ne fa un portavoce contro l’appiattimento culturale (The auditels family) e i pregiudizi (Inno verdano). Ne esce fuori un disco intenso e impegnato, come forse non ce ne sono più in giro, che va riflettuto prima che ascoltato. E che fotografa alla perfezione il pazzo mondo in cui viviamo. Papa Ciro
Sono tornati i Mau Mau, ed è un gran piacere. Levati gli ormeggi a Safari Beach (disco del 2000), dopo sei anni di migrazioni, Luca Morino e compagni tornano a casa, nel loro anomalo e multicolore Piemonte e sfornano un altro capitolo del percorso Mau Mau. Non cambia la matrice, che più che matrice è una vera attitudine musicale, non cambia ma non sembra per niente vecchia. In copertina un coloratissimo pappagallo, simbolo del “tropicalismo amazzonico” che ha ispirato Dea, titolo del disco e della seconda delle undici tracce. Una delle più trascinanti forse, e che certamente si sentirà (con Il treno del sole) nella prossima estate salentina. E non cambia neanche l’affetto di Morino per il Salento, tappa delle sue peregrinazioni, ora in quello balcanico dell’Albania Hotel, come in quello “babiloniano” degli anni ’90. Salento presente anche nella voce dei Sud Sound System, che mettono il refrain e un po’ del loro fuecu nel pezzo La casa brucia. Il resto è un insieme di suoni e sensazioni, lungo lo strano asse PiemonteBrasile, insieme di ritmi quasi tribali e di coloratissime percussioni, di gioiose, brasilere e bucoliche canzoni, ma anche di infiltrazioni elettriche, che servono a dare un po’ di “asprezza”, lì dove ci vuole. Dario Quarta
Habemus capa Virgin Hip-Hop/****
Dea Mescal/Columbia Patchanka - ****
KeepCool
12
Devics
Push the heart Bella Union / V2 Indie / ***
Inutile spendere troppe parole per questo disco quando a dirci tutto ci pensano il titolo (Push the heart) e il disegno in copertina: una bimba. Canta con lo sguardo rivolto verso l’alto e la sua voce, come per magia, si trasforma in farfalle che rompono un orizzonte giallognolo aprendosi un varco verso un cielo meno torbido. La bambina in copertina è Sara Lov, che fin dagli esordi porta sulle spalle il fardello di altisonanti paragoni, seppure meritatissimi, con altri emblemi della disperazione femminile in musica (Hope Sandoval, Lisa Germano e soprattutto Beth Gibbons). Giunti al quinto album, lei e il compagno di viaggio Dustin O’Halloran sembrano optare per un linguaggio più semplice, mettono da parte le impalcature sonore dello stupendo My beautiful sinking ship e sfornano dieci pezzi dall’approccio più cantautorale, in cui pianoforte e chitarre acustiche sono attori protagonisti. Ciò non significa, sia chiaro, che Push the heart sia stato vestito con faciloneria: basti pensare che in A secret message to you a tenere il tempo è una macchina da scrivere “suonata” da Pall Jenkins dei Black heart Procession. Le storie raccontate dai Devics non saranno forse allegrissime, ma chi scruta un cielo scuro, guardandolo dal loro punto di vista, riuscirà a vederlo attraversato da farfalle colorate. Lorenzo
Editors
The Back Room Kitchenware/Self Rock / ****
Una band su cui vale la pena scommettere. Una manciata di singoli alle spalle ancorati su salde posizioni new wave/ post punk hanno preannunciato l’uscita di The Back Room, ma nulla lasciava presagire che la band toccasse livelli creativi così elevati. Estasi e tormento. Inutili altre definizioni. L’esordio degli Editors è stato indubbiamente una dei dischi più interessanti dell’ultimo anno. Non tanto per la qualità del materiale, quanto per la forte componente emotiva che la band inglese è stata in grado di catalizzare all’interno della propria scrittura. Gli Editors sono anche l’ultimo grido di una generazione che riporta in vita le intuizioni della prima scuola post punk inglese. Ri-eccoli qui gli anni ’80, allora! Sono risorti, celebrati, vivissimi. Inutile riaprire la giostra delle somiglianze: qui dentro i nostalgici
ritroveranno tracce di Joy Division, Smiths, Psychedelic Furs, Echo & The Bunnymen e primissimi U2 mentre i più giovani metteranno la loro figurina accanto a quelle di Interpol, Rakes, Departure e The National. L’unica verità dimostrabile è che gli Editors sono completamente immersi nell’onda del momento. Ritmiche secche, chitarre allucinate, ma sempre controllate, attitudine vagamente dark e malinconica, e voce profonda. Birmingham è la loro attuale base operativa. Nomi anche grossi del passato provengono da laggiù: UB40, Duran Duran, Black Sabbath, Steel Pulse, Slade, Napalm Death, Traffic, Electric Light Orchestra, Dexy’s Midnight Runners, Judas Priest, metà dei Led Zeppelin… vi bastano? Non una scena cittadina particolarmente significativa ma un proliferare continuo di ottime varietà musicali. Camillo RADI@zioni Fasulo
Battles
Ep C / B Ep Warp Post-rock/***
Lo chiamano “mathrock” ed è più di tante altre la musica dei numeri: cervellotici incastri di strutture matematiche e formule sonore ripetitive. Questo e qualcos’altro sono i Battles, supergruppo formato da ex membri di Helmet, Lynxs, dei primi della classe in matematica Don Caballero, più un polistrumentista avant-jazz. Al primo impatto, nelle loro tracce strumentali, ogni elemento pare andare in direzione diversa senza soluzione di continuità, quasi un’impossibile semplificazione tra numeri primi. Ci sono due modi per approcciarsi a dischi così. Puoi tendere l’orecchio e tenere il conto di quante volte la disparità della batteria chiude il ciclo coi minimali riff di chitarra o come le tastiere si incastrano alle convulsioni del basso. Oppure fai due passi indietro e ti lasci affascinare dal risultato d’insieme, come la geometria dei frattali in quei poster (che fanno tanto anni ’60) dove sai che quelle fantasiose forme psichedeliche sono il risultato di miriadi di microelementi messi insieme da rigide formule matematiche. Allo stesso modo in Dance, piccoli frammenti sonori impazziti tratteggiano uno sghembo funk psicotico alla Fantòmas. SZ2 parte con un respiro più ampio e lascia all’inconfondibile rullante del signor Helmet il compito di fare unità tra gli elementi prima di partire per la tangente drum&bass. La prima delle tre versioni di Tras inizia minacciosa e finisce per diventare una colonna sonora da videogame in cui gli omini dei Sims si trovano loro malgrado nel quadro sbagliato di Dungeons & Dragon… In questa raccolta di tre vecchi EP lo senti che i ragazzi si applicano, ma talvolta tutto suona freddo, troppo. Li rimandiamo a settembre quando si presenteranno col
loro primo album.
Giovanni Ottini
Placebo Meds Virgin Rock / **
I Placebo sono una di quelle band che “o le odi o le ami”; e l’androgino frontman Brian Molko, anima e mente del gruppo, non è tipo da mezze misure, tanto da risultare a volte poco credibile nei suoi eccessi. Ma proprio questa capacità di innescare reazioni forti è la forza del trio britannico. O meglio, era, perchè da qualche tempo a questa parte le cose sembrano cambiate. Meds conferma quei vuoti creativi venuti alla luce in Sleeping With Ghosts, (poco) mascherati dal ricorso alla zattera dell’elettronica. Già da qualche tempo i sintetizzatori avevano iniziato a fare capolino tra i muri sonori intessuti dalle chitarre di Molko e soci: Meds è un ulteriore passo avanti in questa direzione, senza che tuttavia ciò vada ad aggiungere niente di nuovo ad uno stile ormai ampiamente inflazionato. Il disco può far leva su una manciata di buone canzoni: non mancano le solite ballate dalle tinte decadenti, ma ci sono anche pezzi più tirati e viscerali, muri di distorsione ed esplosioni improvvise e fragorose. VV dei Kills e Michael Stipe dei R.E.M. danno man forte a Molko, ma la sostanza non cambia: se vi sembrerà di ascoltare continuamente la stessa traccia, non è detto che sia attivata la funzione repeat del vostro lettore cd. Giuseppe Lorenzo Muci
Roger Waters
Ca Ira Sony Opera lirica/****
Cosa dire di Roger Waters, c’è da dire un fiume immenso di parole, per una delle personalità artistiche più grandi della storia della musica degli ultimi cinquanta anni. Capace di esprimersi ad altissimi livelli in svariati contesti (psichedelica, progressive, opera rock, film), riesce a toccare sempre risultati eccelsi. Il concetto delle sue opere, dopo i primi lavori formativi, è stato da sempre a servizio delle sue idee. Ha messo in luce il problema dell’incomunicabilità fra i popoli e le nazioni, causa di molti mali, si è scagliato contro le dittature auspicando un mondo migliore e più democratico. E come se Waters fosse a servizio o il mezzo stesso delle sue idee. Questa volta con Ca Ira mette da parte la strumentazione tipicamente rock, per sfruttare un’orchestra sinfonica, tenori soprani ed un coro di voci
KeepCool bianche. L’opera lirica in questione vuole raccontare gli eventi francesi fra il 1789-93, anni che portarono il popolo a ribellarsi contro il proprio sovrano, violento e corrotto, spinto dagli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Il racconto si muove sul concetto che la società anche se priva di libertà può lottare in un coinvolgimento popolare, per riconquistare la propria dignità. Malgrado io non sia proprio il prototipo fruitore di opere liriche, devo dire che Ca Ira mi ha coinvolto subito, poiché vi ho trovato tutto il sentimento e la teatralità delle opere di Waters. Tuttavia quello che appare subito sono le numerose melodie popolari prese in prestito dal diciottesimo secolo. Molti sono i pezzi coinvolgenti per la loro epicità e coralità. Pur essendo interessante il suo ascolto non è consigliato a tutti, ma potrà essere un’occasione per conoscere un mondo musicale molto distante culturalmente ai più. Nicola Pace
AA.VV.
Let’s Boogaloo vol.3 Record Kicks Funk/soul/boogaloo/ **** 1/2
Avete presente il meglio della recente produzione funk, dancefloor jazz ed hammond groove? No? Ok…allora comprate il terzo volume della raccolta Let’s Boogaloo (preferibilmente il vinile), mettetelo sul giradischi e allacciate le cinture! La Record Kicks ormai non spiazza più, ci si aspetta il meglio e non delude; il compilatore del disco, e patron dell’etichetta, Nick Recordkicks ha inserito brani datati, belli quanto sconosciuti, e ha portato un po’ di luce sulla scena moderna; si comincia con una ammiccante Beatcoma di Alan Moorehouse e si continua con la ritmica sincopata fino all’estremo, che sconfina quasi in un levare, della stupenda Look what you can get (il mio pezzo preferito) dei Funky Nassau; irresistibile Say Yeah Yeah di Yvonne Fair, una delle ruggenti ugole che in passato hanno militato nella gloriosa JB’s Family (il manipolo di musicisti e cantanti che orbitavano intorno al Padrino del Soul James Brown). Tra i “giovani” bisogna citare innanzitutto gli italianissimi Minivip che in questa compilation compaiono con Miss Augusta, ideale colonna sonora di uno strampalato spy movie…supereroi di rara bruttezza in sella ad una vespa special circondati da splendide donne - Austin Powers e il James Taylor Quartet insegnano - e l’energico trio D. Glover, G. Crockett, G. Glover con Jazz cat e una su tutte Latin Soul Strut apoteosi latina che porge i saluti ai Mandrill e strizza l’occhio alla pista da ballo. Consigliatissimo. Giancarlo Bruno
13
Ann Peebles
The best of Original Funk Soul Sister Music Club Soul/ ****
Raccolta di una soul diva troppo spesso tenuta in disparte e lasciata scivolare nel dimenticatoio. Ann Peebles è stata una protagonista del glorioso soul americano dei ‘60/’70 e ha scritto alcune delle più belle pagine di quel periodo che, in questo best of, sono quasi tutte inserite; le passate collaborazioni con vere e proprie leggende come Sam Cooke e Al Green rendono l’idea della statura dell’artista che attualmente però, porta in giro per il mondo una discutibile tournèe dal nome Acoustic Soul Tour che non aggiunge nulla, e anzi forse toglie, qualcosa alla Peebles. Come si può rimanere indifferenti alla stupenda I can’t stand the rain, che John Lennon definì il “più grande singolo di sempre”? Fiati poderosi a passo di marcia e sintonia perfetta con l’ipnotico andamento della batteria. Presente anche la cover degli Isley Brothers It’s You Thing che fa scricchiolare l’assioma secondo il quale la versione originale è sempre la migliore… qui c’è dinamite pura; si continua poi con succose ballads (Trouble Heartaches And Sadness) inevitabilmente influenzate dalla Aretha Franklin degli anni d’oro e con i classici soul come I’m gonna tear your playhouse down. Una cascata di southern soul insomma (non a caso fu identificata come il contraltare sudista di Diana Ross); gemme ripescate da soffitte impolverate. Giancarlo Bruno
Jimmy Edgar
Color Strip Warp Elettronica/ ****
Se metti insieme una città storica (Detroit) e una storica etichetta (Warp) e le affidi al talento creativo di un giovinetto cresciuto suonando assieme agli inventori della techno e ascoltando i dischi della Motown Rec, il risultato si chiamerà Color Strip. Lo ascolti e capisci come l’elettronica possa andare a braccetto con il funk, l’hip hop e l’R’n’B. Ti rendi conto di quanto sia importante conoscere le diverse scene musicali per poi fonderle al meglio in concetti e atmosfere tutt’altro che confusi. Ed è proprio questo che ci spiega Jimmy Edgar, il ragazzo di Detroit, mettendo insieme questi elementi e plasmando un suono attualissimo, ritmato da fredde cadenze electro e riscaldato dal calore, di chiara tradizione soul black, di chi è vissuto nella motor city. In questo album c’è il funk del futuro (Semiriotic), l’hip hop technologico (My Beats), l’R’n’B sintetico (Color Strip Warren), ma anche un piccolo tributo (Jefferson Interception)
a chi a Chicago parlava di Acid House. Rimango stupito dalla maturità di questo lavoro , soprattutto se penso che Edgar, di anni, ne ha solo 23... Kosmik
Public Enemy
Rebirth of a Nation Guerrilla funk Hip hop/****
Le pantere nere dell’hip hop sono tornate incazzate come sempre, ma con nuove cause, lontane anni luce dal vacuo gangstarismo del rap moderno. Il fine dei nemici pubblici, stavolta, è quello di colpire un film; quello di David W. Griffith (1919) girato in difesa del ku klux klan, mantenendone il titolo (Rebirth of a Nation), ma sovvertendone il significato. E non poteva di certo stare a guardare inerme, Chuck D, lo storico leader dei Public Enemy, che tra beat incalzanti e rime oculate, ci spiega come e perché l’old school non è una moda, bensì uno stile di vita. Dalla fine degli anni ’80 i fratelli neri-uniti-combattono la loro guerra contro le palesi ingiustizie del sistema americano avvalendosi, per questa battaglia, della collaborazione di mostri sacri del rap come: MC Ren dei NWA, Kam, Dead Prez e tanti altri... L’intero album, in sostanza, è finalizzato a confermare i concetti di sempre e a far capire che c’è ancora bisogno dei Public Enemy. Tracce fiere, di consapevolezza, in cui ritrovi il piacere, quasi perduto, di ascoltare i campionamenti del passato che appartengono (ve lo assicuro) ai fiati dorati della band di un certo James Brown. Il cerchio non si chiude quindi, bentornata vecchia scuola. Kosmik
Prefuse 73
Security Screenings Warp Elettronica/***
Nuovo album per i Prefuse 73, classificazione impossibile. Atmosfera musicale a se stante, sia nel mondo dell’hip hop, che nella galassia elettronica. Il modo in cui Herren riassume cadenze spezzate e down beat, con tecniche di scuola prettamente glitch e atmosfere cinematografiche, è davvero unico. Album sicuramente più strumentale dei precedenti, trova la sua voce nei campionamenti. Per chi ne acquista il cd, più di quaranta minuti di atmosfere sognanti e reali allo stesso tempo, battiti e pulsazioni del tutto nuovi e suoni inusuali, se analizzati da un angolazione hip hop, per un totale di diciotto tracce. Per gli amanti del vinile invece, il lavoro, che contiene anche diversi interludi pieni di voci ed effetti,
KeepCool
14 può risultare davvero utile; ad esempio ai dj creativi e a chi fa “scratch music”, oppure a chi è alla ricerca di nuovi tools per costruire i propri dj set. Da sottolineare, inoltre, la collaborazione del maestro Four Tet in Creating Cyclical Headaches, per tre minuti di viaggio sonico tra spasmi elettronici e sconnessioni ritmiche. Kosmik
Wimeke
La prima volta CD-R Punk rock /****
Per chi come me li aveva amati all’istante dal vivo è davvero un lieto evento. I brindisini Wimeke sono un power trio costituito da ¾ della prima formazione dei Lova, uno dei tesori più preziosi (e sprecati) del nostro underground, e non potevano scegliere un modo più bello di perdere la verginità di questi 7 brani brevi ed intensi che anche grazie alla produzione dell’esimio Amerigo Verardi ci restituiscono l’emotività dei loro live. La scrittura del chitarrista Sandro Palazzo - finalmente anche vocalist- è, al solito, semplice ed efficace: impregnata di una stupenda sensibilità pop, eppure genuinamente punk-rock (altro che ragazzi morti). Ricordano i Diaframma anni ‘90 più cattivi mano nella mano con Hüsker Dü, Dinosaur Jr. e Nirvana “La scimmia sulla schiena”, “Due o tre cose”, “I giovani rampanti di oggi da bambini a carnevale si vestivano da punk”… per non parlare di “Niente da perdere” (La fine di un amore? In italiano? Senza una goccia di retorica??)e sono brucianti e bellissime, disilluse e gonfie di rabbia. Finiscono e vuoi ricominciare il gioco. “Ricordo che prima della tua caduta non c’erano guerre da fare…” . L’ultimo romantico di cui parlava Fiumani forse non se la passa poi troppo male e nel conseguente mare di guai che vuole rubargli i sogni, lui almeno non rinuncia a pisciarci. One, two, three, four. Antonio Olivieri
Missiva
Controvento Demo New wave/***
Il 2006 potrebbe essere un anno importante, se non decisivo, per i Missiva. È da poco uscito Controvento, nuovo lavoro in forma di promo per il quintetto brindisino in attività da circa otto anni, sicuramente uno dei gruppi più promettenti dell’ultima generazione locale.
Controvento è una piccola raccolta di moderno rock dal piglio deciso ed appena bagnato da gocce di rugiada psichedelica, a metà strada tra la new wave anni ‘80 e le nuove intuizioni di quest’ultimo decennio, sospeso com’è tra mosaici elettrici ed atmosfere malinconiche. Un lavoro che rappresenta la prova più convincente che il gruppo potesse al momento realizzare. Sarebbe tuttavia riduttivo catalogare Controvento come prodotto derivativo, figlio del colonialismo anglo-statunitense tutto chitarre e sudore. Le chitarre ci sono, e si sentono, ma rollano verso il versante più intelligente del pop-rock, tessendo trame semplici e decisamente gradevoli su strutture in forma di canzone. Questi 5 nuovi pezzi si inseriscono perfettamente in un contesto musicale cresciuto ai margini di un ambiente “provinciale”, fuori dal circuito mainstream: grande sensibilità melodica (dovuta senz’altro ad una buona padronanza dei propri mezzi), e poi sincerità e impegno... una mano sul cuore e l’altra sulla chitarra, meglio se elettrica e collegata ad un buon distorsore. I risultati di questo processo creativo hanno portato alla luce Controvento dischetto emozionante e vibrante di elettricità. Struggente la versione decisamente personalizzata, virata verso una sorta di incredibile ed inacidito hard/grunge, de Il mio canto libero di battistiana memoria, unico brano non firmato dai cinque Missiva. Contatti: www.imissiva.it; info@imissiva.it Camillo Fasulo
La Menade
Conflitti e Sogni Load Up Records/Venus Rock/***
La Menade è una band rock romana tutta al femminile, attiva già dal 2000. Dopo aver conquistato notorietà nell’underground ed aver partecipato alla colonna sonora del film Tre metri sopra il cielo, con lo strumentale The wheeling, la Load Up Records ha deciso di investire su queste ragazze. Conflitti e Sogni è un EP di sei brani di ottimo rock cantato in italiano, dove dolcezza e rabbia si incontrano in un’unica formula musicale. Ottime le singole prestazioni delle ragazze, che hanno dimostrato di avere buone capacità. Da segnalare due cose importanti: per primo
la bella confezione con bonus DVD contenente il video del singolo Strane Idee e per secondo che il ricavato, eventualmente guadagnato andrà interamente ad Emergency. Nicola Pace
AA.VV.
Seguendo Virgilio Ala Bianca Records/Warner Musica italiana / ****
L’apertura degli Avion Travel sembra degna della migliore cronaca della contemporanea politica italiana. Troppi affari, cavaliere è invece solo il primo dei brani composti da Virgilio Savona, anima del Quartetto Cetra, rifatti da numerosi musicisti della nuova scena italiana. Un omaggio all’ottantacinquenne musicista, cantante, autore, operatore culturale che ha caratterizzato il Premio Tenco 2004. Queste dodici canzoni diventano un cd prodotto dalla Ala Bianca Records e distribuito dalla Warner. Petra Magoni e Ferruccio Spinetti presentano in una intima versione voce e contrabbasso l’ironica Il cammello e il dromedario, Carlo Fava, fresco vincitore del premio della Critica a Sanremo, esegue Le burle, serie di filastrocche per bambini, mentre Samuele Bersani canta le Sette piccole streghe. Seguendo Virgilio, dentro e fuori il quartetto cetra, ospita anche Roberto Vecchioni, Alessio Lega e i Mariposa, Caparezza, Pietra Montecorvino, Gang, Lou Dalfin, Stefano Vergani e Leonardo Manera. Tutti i brani sono stravolti, tutta la storia di Savona, dagli anni 40 agli anni 80, viene rivisitata dai musicisti in chiave del tutto moderna. Una rilettura doverosa per un uomo (e un gruppo) ironico e irriverente. “Troppi affari cavaliere / lasci star le società / le altre cento attività / cavaliere senta qua / sgobba troppo cavaliere / di giorno in borsa per giocar / con gli avvocati vuol cenar / getti via la giacca la cravatta / si dimetta presto per favor / troppi affari cavaliere”, sono versi scritti nel 1954 e quanto mai attuali. Gazza
Ennio Rega
Scritture ad aria Scaramuccia/Egea Records Jazz/pop - ***1/2
Dopo Concerie, numerosi riconoscimenti
KeepCool come il Premio Pigro (dedicato a Ivan Graziani), il Premio Carosone e il Premio Lumezia, e in attesa del nuovo lavoro discografico, Ennio Rega presenta questo mini cd. Scritture ad aria, oltre alla title track contiene Così da lontano e Cara stai calma. Rega rientra, per semplificare e per dare delle coordinate, nella migliore scuola cantautoriale italiana. Testi densi e accurati, arrangiamenti che fanno convidere jazz e melodia tradizionale, pop e innovazione, cantato poco scontato. Il musicista romano, che esordì come solista al Premio Tenco 1993 con Due passi nell’anima del sorcio, per la prima volta abbandona la sua dimensione più tipicamente jazz per avvicinarsi alla musica “cosiddetta” leggera. E i risultati sono incoraggianti. Il cd contiene anche il videoclip del brano (regia di Simone Pellegrini) che dà il titolo al lavoro e che vede protagonista lo stesso cantautore con i suoi musicisti Lutte Berg (chitarre), Luigi De Filippi (violino), Pietro Iodice (batteria), Luca Pirozzi (basso e contrabbasso). Pierpaolo Lala
Pedro Ximenex
Che fretta c’era Shinseiki / Audioglobe Poprock / ***2/3
Vengono dall’Umbria e hanno scelto come nome quello di un vino spagnolo. Nati dalle ceneri di Niumonia e Il Pianto di Rachel Cattiva, i Pedro Ximenex, dopo l’apparizione ad Arezzo Wave nel 2004, esordiscono con Che fretta c’era, firmato da Shinseiki, distribuito da Audioglobe, arrangiato e mixato da Lorenzo Corti, uno dei chitarristi più apprezzati del panorama indipendente italiano. Un disco che parte bene con Ridere solo a metà, con uno stile che ricorda da vicino i più ispirati Marta sui tubi (ed è ovviamente un complimento) e procede con altri dieci brani che scivolano tra pop (Se mi guardi, 6) e rock (Forbice, Blu, Vola), ballate (Manchinme, Che differenza c’è) e suoni più duri (Palpito fragile, Soluzione #1). Un buon primo album che scivola via piacevolmente. Pedroso
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I ratti della Sabina A passo Lento Upr/Edel CombatFolk/****
Dal Lazio con furore, ardore, musica e cuore. I Ratti della Sabina negli ultimi anni si sono ritagliati un posto d’onore nella zona combat-folk alla Modena City Ramblers e Folkabbestia (tanto per segnalare due dei gruppi migliori della categoria). A passo Lento è il terzo lavoro dei Ratti anticipato dal singolo Chi arriva prima aspetta. L’anima del gruppo è divisa nettamente dalla diversa sensibilità degli autori/cantanti Roberto Billi e Stefano Fiori che nel disco non si incontrano quasi mai. Più portato verso il folk incazzato e ballereccio il primo, più influenzato dal cantautorato il secondo. Molte canzoni sono ispirate da temi politici e sociali come in Rivoluzione, che si apre con alcuni versi di Gianni Rodari, La giostra (cantata con Mimmo Locasciulli), A passo lento, Il re dei topi, Il suono del motore e molte altri. Da segnalare anche i ritmi più acustici e tranquilli di Non fa paura la notte, Il tempo che merita, Dopo la pioggia. Un disco che sarà apprezzato soprattutto dalle piazze. Gazza
Alessandro Gwis
Alessandro Gwis RaiTrade Tango-Jazz / *** 1/2
Se brani nati come improvvisazioni in studio mantengono, nonostante tutto, una bellezza personalissima vuol dire che in questo disco c’è qualcosa di buono, sul piano formale e su quello emotivo. Se poi scopri che la faccia da sbarbo della copertina appartiene a un pianista che ha accompagnato il Gegé Telesforo degli anni migliori e che è da sempre una colonna degli Aires Tango, si può facilmente capire da dove venga quella verve inesauribile, quella plasticità liquida evidenziata in ogni assolo. Se inoltre aggiungi che i brani composti posseggono qualità ipnotiche, a cui ti abbandoni come in un ballo inarrestabile, o in un gioco passionale, si ha la giusta misura di questo disco. Buono in tutte le ore,
adatto a un viaggio in macchina come a un ascolto attento; quale sottofondo per una concentrata degustazione di vini o in un momento di relax. Contrabbasso, batteria, pianoforte e pochissimo altro confezionano qui scenari sinfonici, come Agosto Noir, o sentimentali, come Ajedrez, da osservare senza interruzioni, uno dopo l’altro, perché briosi, vivaci e genuini. Cosimo Farma
Berardi Jazz Connection The way I like Antibemusic Nu-jazz - ***
Dietro la sigla Berardi Jazz Connection si celano due validi strumentisti tarantini, Francesco Lomagistro alla batteria e Ettore Carucci al piano e al fender Rodhes, impegnati in questo progetto che potremmo sbrigativamente definire nu-jazz. Si respira un’aria profondamente europea nei solchi di questo dischetto, anche se le composizioni qui presenti sono aperte a disparate influenze sonore, in primis alla lunge-music (Jive Samba) e a certo electro-jazz tanto in voga tra i francesi (l’iniziale Offside che, in un contesto seppur molto più mainstream, fa il verso a Saint-Germain). Suonato e registrato in maniera molto professionale, ottimamente prodotto dall’Antibemusic, The Way I Like si segnala per uno standard qualitativo molto alto, arrangiamenti brillanti e mai edulcorati, e soprattutto per una coerenza di fondo che lega le dieci composizioni. Un progetto vero, che mutua il proprio nome dalla centralissima via Berardi di Taranto (il luogo dove i due musicisti avevano allestito da ragazzi uno studio per le prove) e che, pur non brillando per originalità, sorprende sia per la maturità del sound, personale ed elegante, sia per le indubbie capacità compositive dei due titolari. Ilario Galati
Guignol
Guignol Lilium Produzioni Rock/***
Dopo l’esordio con un ep dal titolo Sirene, i Guignol da Milano arrivano alla loro prima prova su lunga durata con questo
KeepCool
16 omonimo disco che prosegue sulle direttrici già tracciate di un rock letterario crudo e urticante che fa uso dell’italiano ma che guarda principalmente a grandi modelli anglo-americani, Leonard Cohen in primis - non a caso omaggiato con una vibrante versione di Story of Isaac. La produzione artistica affidata a Giancarlo Onorato, vera e propria icona della nostra musica indipendente, chiarisce gli intenti del gruppo guidato da Pierfrancesco Adduce che, rispetto all’esordio, acquista un elemento importante, il polistrumentista Fabio Gallarati (già negli interessanti R.U.N.I.) che con il suo apporto aiuta a diversificare l’offerta generale. Ottimo il lavoro sulle liriche, che raccontano storie ‘difficili’ popolate da personaggi borderline. L’episodio migliore è Festa di Pepe, sorta di valzer tenebroso e sinistro che ricorda da vicino il raga allucinato di The Carny di Caveana memoria e che da solo vale il prezzo del biglietto. Ilario Galati
Quintorigo
Il cannone Exess Rock Italiano / *** ½
Dirò una verità ineluttabile: i Quintorigo con John De Leo erano un’altra cosa. Bella scoperta. I primi a essersene accorti sono stati proprio loro, i Quintorigo superstiti, quei quattro ragazzi, armi classiche in pugno, che erano riusciti a dare consistenza rock a contrappunti, canoni e rondò proprio in virtù del virtuoso e spericolato cantante. Tuttavia, l’amarezza, il rancore e il lutto, se non opportunamente veicolati con le note, non hanno alcun valore in musica, e quei quattro ragazzi sanno bene anche questo. Quindi, fuori con un nuovo disco, senza più quel frontman enorme, ma con una voce esattamente opposta: raffinata quanto viscerale è quella di John, evasiva dove la sua è invadente, mansueta se l’altra è esplosiva, femmina giacché De Leo è maschio. Un album pensato, ripensato e ragionato, con poca ispirazione ma molta onestà e qualche traccia accattivante: l’interpretazione di L’attesa, le versioni di Redemption Song e Goodbye Pork Pie Hat e la vena sottile e impertinente di alcuni testi (Il cannone e Nel clone del padre). Pare evidente, a questo punto, che si tratti di un disco di passaggio, in tutti i sensi. Ma se è vero quanto detto prima, la transizione (quando è onesta) diventa un diritto, e anche un po’ un dovere per un gruppo di artisti. Per questo dò a Il cannone la sufficienza piena. Attendiamo, però, con pazienza e fiducia, il nuovo capitolo dei
nuovi Quintorigo. E aspettiamoci di più. Perché la transizione non può durare per sempre. Gianpaolo Chiriacò
La Zurda
La Zurda Surco Patchanka / ***
Patchanka dal gusto indio e ribelle. La Zurda è una formazione di origine argentina che si è fatta conoscere da noi l’estate scorsa, con partecipazioni di rilievo quali Arezzo Wave, Sunsplash e il live presso Radio Popolare Network. Cosicché, mentre il gruppo prepara una nuova incisione, viene distribuito ora in Italia il disco d’esordio, registrato alla fine del 2001. Le linee vocali attingono non poco dall’inafferrabile profeta Manu Chao e dal Sergent Garcia di Amor pa mi, ma gli arrangiamenti sono densi, ricchi e multiformi. Chitarre, fiati, samples, ma anche charango – piccolo strumento a corde, anticamente ricavato dalla corazza dell’armadillo –, armoniche, percussioni di vario tipo e, soprattutto, un sound collettivo di grande spessore. Stranamente, poi, le canzoni più intense sono quelle in cui il ritmo si fa lento e la strumentazione meno fitta (Tafì del valle, Los ejes de mi carreta, Vidita), a dimostrazione di una vena compositiva non scontata, benché ancora da affinare. Gianpaolo Chiriacò
Lalli & Pietro Salizzoni Èlia Il Manifesto Canzone d’Autore/****
A circa tre anni dall’acclamato All’improvviso, Nella Mia Stanza, la torinese Lalli ritorna con un nuovo disco dal titolo Èlia, parola che d’ora in avanti contraddistinguerà un progetto musicale che si dà forma di band. Prosegue dunque anche il sodalizio tra la cantante e il chitarrista Pietro Salizzoni, insieme da quando scrissero Testa Storta, una delle più belle canzoni mai cantate da Lalli, per il film Preferisco il rumore del mare di Mimmo Calopresti. Il nuovo lavoro di Lalli è colmo di suggestioni letterarie, a partire dal primo pezzo, I Gatti lo Sapranno, tratto da una poesia di Cesare Pavese, passando per altre grandi innamoramenti artistici, da Margherite Duras a Erik Satrie, dal brasiliano Lenine al folk e alla canzone d’autore. Disco profondo e coinvolgente, che ha dalla sua un pugno di canzoni perfette nel loro incedere elettroacustico, rette dalla voce fuori dall’ordinario di Lalli, che le interpre-
ta se possibile in maniera ancora più intensa che in passato. Alla produzione c’è un esperto come Carlo U. Rossi e segnaliamo l’apporto alla tromba di Giorgio Li Calzi, che suona in maniera funzionale a queste composizioni arricchendone il timbro. Canzoni che fanno largo uso del chiaroscuro e che delineano una proposta musicale di qualità senza che i toni risultino supponenti. Anzi, semmai è la fragilità di queste brevi istantanee dalle tinte pastello a colpire nel segno, perché a conti fatti di canzoni così in Italia se ne scrivono di rado. Ilario Galati
Mascarimirì
Tríciu Dilinò-Radio Popolare Folk / ****
Claudio “Cavallo” Giagnotti è il Camarón della nostra regione. Protagonista attivo della tradizione, amato e criticato, magnetico e indifferente, coraggioso fino a essere insolente, il Nostro manifesta da sempre grande disponibilità a mettersi in gioco. Del resto, nel presentare il lavoro su queste pagine, ha espresso lui stesso l’intenzione di innovare senza rinnegare, facendo peraltro riferimento all’Andalusia, la cui cultura è stata reimpostata proprio dal Camaron de La Leyenda del Tiempo. Ad avvalorare il paragone c’è, inoltre, il fatto che Tríciu segna un punto d’arrivo del percorso di ricerca dei Mascarimirì, e allo stesso tempo rappresenta un allontanamento definitivo da certo folk revival integralista: proprio come fece il famoso gitano col già citato disco. A sgombrare il campo da eventuali dubbi ci pensano subito i primi brani: lo sguardo fisso sul Mediterraneo (Pizzica Raï, Tríciu, Sule) non sminuisce affatto la carica fornita da una batteria presentissima, da un basso robusto, imponente, e dagli interventi elettronici. Ci sono sempre i tamburelli (Badisco, Pizzica Vanniciata), c’è sempre quella voce scheggiante – a cui torna ad aggiungersi quella, più misteriosa, del fratello Cosimo Giagnotti –, ma, dalle spezie orientali di Tribal Sound Tarantolato al dub di Trainante – con tanto di giro di basso di Natural Mystic –, domina la volontà di allargare (e confondere) i confini. Gianpaolo Chiriacò
KeepCool No Sound
Sol 29 Autoprodotto Psichedelia/***
Per un attimo ci si sente a Bristol con No sound per la sua attitudine al dowmtempo, poi ci senti un vento psichedelico arrivato dai Pink Floyd degli anni ’70, la delicatezza di David Sylvian. Le trame di Giancarlo Erra, nome che si cela dietro questo progetto, si intrecciano lente, eteree, in altri momenti liquide e poi ancora dirompono in aperture progressive. Musica per spazi immensi, strutture armoniche che si sviluppano si infittiscono e crescono in un perfetto equilibrio tra elementi elettronici, suoni di passaggio, altri persistenti e ipnotici, poca voce, giusto un contrappunto a quello che la musica dice benissimo da sola. Il compositore romano ha realizzato un buon disco per viaggi in solitaria. (O.P.)
Animal ferox
Maltominimarco Alphasouth - Audioglobe Politicamente scorretto/***
Ok, l’attitudine tipica del recensore medio di demo (che io non sono, per forza e per fortuna) sarebbe quella di stroncarlo senza pietà, non fosse altro per la pessima qualità di incisione e per la sua natura da sagra del “politicamente scorretto” (salvo che di politico non c’è una mazza, semmai “culattoni”, “puttane” e “negre” in abbondanza).
17 Poi ti ricorda quei nastri scassati prodotti dai tuoi amici per strapparti più di una risata (la cover di Sympathy For The Devil ribattezzata Gay è abbastanza indicativa in questo senso). Poi ci rifletti e pensi a come sarebbe suonato da una band e con una produzione di quelle giuste. Poi ci senti l’amore per i ’70, Renato Zero, Rino Gaetano, Mgz etc. Va a finire che lo promuovi con una pacca sulla spalla, dandogli fiducia piena. Sergio Chiari
Richard Bartz Big Kurbel records
Houseggiante / *** Come un salto in uno scuro tunnel, Bartz sputa fuori un disco che la Gigolo avrebbe tanto bisogno di pubblicare, di questi tempi. Nero come la pece. A partire dalle deliranti note di copertina, che sembra la sua versione del dio rasoio lansdaliano, alle foto che accompagnano il booklet (maschera di pelle, benda da pirata etc.). E la musica ovviamente: le danze si sciolgono in Atomic dog,una dark house buona da danzare in un tempio pagano, piuttosto che in un club. Ed è un album più houseggiante, in effetti, quello che Bartz ci consegna questa volta. Solo che gli avventori del suo club non tengono in mano il solito cocktail ma “roses and candles, silver knives and spoons”. Sergio Chiari
Resina Sonora Sogni Chiavino Sound Hip Hop/****
Arrivano alla prima prova su disco i Resina Sonora, composita crew, promessa delle lande salentine, e lo fanno con onore e gusto. Il taglio è quello di chi ha le orecchie un po’ dappertutto (reggae, dre e la madre terra) ed è un’attitudine che paga. Il Salento che vive nelle loro liriche è, per una volta, quello che conosciamo (disoccupazione, faide tra i paesi etc.) e non l’edulcorata versione estiva fatta di dance hall e pizzica-party per turisti: Terre Bruciate, che pure bruciano a suono di tamburelli. Le basi e le melodie sono raramente festose, ma capaci di rilassarsi, comunque, come in Se tramonta il Sole, dove batte un cuore soul atipico. Si incazzano e non poco in Sguardi accecanti, dove si avvalgono della collaborazione del prode cesellatore di scratch, Kosmik (nella foto in alto), presente in diverse tracce. E coltivano il sogno oscuro. Sergio Chiari
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TORINO, SALENTO, BRASILE E UN PO’ DI MONDO: L’ONDA NUOVA DEI MAU MAU Bau, bau. Per uno strano gioco di parole e di versi, c’è l’abbaiare minaccioso dei cani di Torre Chianca sullo sfondo della chiacchierata telefonica con i Mau Mau. Abbiamo parlato con Fabio Barovero, fisarmonicista e anima, insieme a Luca Morino, del progetto avviato a Torino circa tre lustri fa. Fresca di nuova uscita discografica, Dea (vedi recensione a pag.11), la band è tornata nel circuito dopo qualche annetto di assenza dopo aver segnato per più di dieci anni il territorio musicale italiano ed europeo; percorrendo migliaia di chilometri con l’originale patchanka naif, con l’acustico miscuglio di suoni, con il simpatico e “minaccioso” nome. Mau Mau, oltre ad essere il nome di una arcigna tribù che lottava per l’indipendenza del Kenya dalla colonizzazione anglosassone, in dialetto piemontese è il termine con il quale viene chiamato chi viene da lontano, magari scuro di pelle e poveraccio... forse simile a quell’essere, indefinito e cattivo, che minacciavano di chiamare i nostri genitori e nonni, esasperati dai nostri capricci. E sulle loro rotte, i Mau Mau hanno da sempre incrociato il Salento, anche fuori stagione, come, in questo uggioso inizio di primavera, è capitato a Fabio Barovero. Prima di iniziare l’intervista manifesto tutta la mia ignoranza chiedendo quale impegno lo abbia portato dalle nostre parti. “Io sono salentino - mi dice – o almeno lo sono per metà, mia mamma è di Lecce”. Ahssì??? Allora...scusa cumpà, non lo sapevo. Mi riprendo con nonchalance dalla gaffe e inizio con le domande. I Mau Mau sono tornati, o semplicemente non se ne erano mai andati? Diciamo che dopo dodici anni consecutivi e così intensi, eravamo decisamente stanchi, abbiamo preso una sorta di pausa di riflessione. L’ultimo spettacolo lo abbiamo fatto nel 2002, e prima di allora non c’eravamo fermati quasi mai. Era difficile sostenere un ritmo così elevato, anche dal punto di vista della motivazione. C’era la necessità di imparare qualcosa di nuovo, forse anche per riossigenare un po’ il cervello. Che avete fatto in questo periodo di allontanamento? C’è stato molto studio, su strumenti diversi, altre tecnologie, io e Luca abbiamo avuto un percorso anche un po’ separato. Lui ha fatto uscire il disco, di parole e racconti, io ho lavorato tanto con il teatro e con il cinema, ho fatto quattro colonne sonore, tra cui quella che ha vinto il nastro
( D a sinistra Fabio barovero , lu C a morino e bienvenu N songan ) d’argento col film La febbre di Alessandro contenti, e ci divertiremo sul palco questa D’Alatri, dove erano presenti anche i estate. Negramaro. Poi abbiamo un po’ avviato ...e quando, da queste parti, ci divertiremo il discorso musicale del disco, sul quale a vedervi contenti sul palco? abbiamo iniziato a lavorare circa un anno Di sicuro stiamo mettendo a punto questa fa, siamo stati un mese e mezzo in Brasile. sorta di “orchestrone d’assalto”, saremo È lì che avete trovato la “Dea” ispiratrice? in giro da giugno ad agosto, non so Abbiamo cercato di approfondire quella esattamente quando verremo nel Salento caratteristica, quell’onda “bahiana” ma...è ovvio che qualcosa la tireremo che usciva un po’ fuori negli anni passati fuori, per ora non sappiamo. Il disco è ma che non riuscivamo a completare, uscito da pochi giorni, faremo un po’ di per cui abbiamo deciso di immergerci presentazioni al nord prima del tour, poi completamente, più in profondità. È quello c’è l’uscita del primo singolo, Dea, e del che abbiamo fatto, in prospettiva “live”, video, che è ormai definito. È bello, lo potrebbero venire quattro percussionisti abbiamo girato in Brasile, esattamente nei da Salvador di Bahia, a darci una mano posti dove siamo stati e con i musicisti che a far uscire questo fuoco, l’energia che verranno a trovarci a Torino. abbiamo cercato di mettere nel disco, Dicci com’è Torino adesso dal punto di lucidata con un po’ di tecnologia ma vista musicale, cosa è... restato di quegli senza tradire il nostro linguaggio musicale. anni ’90? Che si fa? Dal Piemonte al Brasile, ascoltando il disco, Bah, non so, io non ho esattamente le appare chiaro che ci sono anche un po’ di antenne per ricevere quello che accade. luoghi salentini sul vostro tragitto. È un periodo che va, più della musica Beh, abbiamo voluto aggiungere un po’ di suonata, quella prodotta, quindi c’è “orgoglio salentino” all’operazione, siamo un grande movimento di dj, quello si. stati all’Albania Hotel da Cesare Dell’Anna Poi magari adesso si è colpiti da una qualche settimana, poi sono venuti i Sud sovraeccitazione, da quella “bambagia Sound System a cantarci su un pezzo. olimpica” che comunque, non si può Così come ha fatto il chitarrista dei Mano non ammettere, sembra abbia dato una Negra, e altri ospiti; abbiamo avuto molto spinta e una voglia di fare in tutti i campi. materiale umano, è stato un percorso Sicuramente, andando a confrontare, molto lungo, anche quello eseguito in non vedo quell’onda che ha interessato studio. Di bello c’è che abbiamo fatto la nostra generazione, noi gli Africa Unite, tutto con estrema calma, selezionando i Fratelli di Soledad e tanti altri. Quello era e scegliendo. È venuto fuori davvero il un momento storico, e logicamente quello massimo di quello che potevamo fare che c’era si è un po’ perso. con questo progetto. Quindi siamo molto Dario Quarta
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IL SALTO NELL’INDIE: BLACK CANDY Questo mese il nostro salto nell’indie arriva a Firenze per conoscere una nuova etichetta discografica: la Black Candy. Tra passione, sperimentazione, rock, letteratura e video questi ragazzi hanno i piedi in Italia ma le orecchie e le mani nel mondo. Chi siete, da dove venite, cosa portate? Siamo in due, Giuseppe e Leonardo… la nascita dell’etichetta risale al 2003, anno in cui abbiamo deciso di provare a portare qualcosa di emozionante nel panorama italiano. Non sappiamo se ci siamo riusciti, ma dal nostro punto di vista siamo veramente contenti del lavoro fatto fin qui…. e la voglia di andare avanti c’è e ci sarà ancora per molto molto tempo! Abbiamo già avuto modo di parlare delle vostre produzioni, tutte belle e diverse tra loro. Dove e come trovate i gruppi o sono loro che vi cercano? Non c’è una regola precisa… è come in un rapporto tra un ragazzo ed una ragazza: in alcuni casi siamo stati noi a corteggiare e mostrare per primi interesse e voglia di lavorare con loro, in altri casi sono stati loro a cercarci; in altri ancora si è trattato di amore a prima vista! La passione e la curiosità sono elementi fondamentali del nostro vivere la musica, è per questo che ci piace ascoltarla, ed è quindi per questo che ci piace produrla. Noto che oltre all’etichetta in sé avete in piedi varie collaborazioni. Si, ci piace vivere questa esperienza come una “factory” fatta di rapporti grazie ai quali poterci arricchire di sempre nuove esperienze. Oltre ad Audioglobe, che provvede alla distribuzione delle nostre produzioni, abbiamo ottimi rapporti con diverse agenzie di booking come Locusta (Pecksniff), Labile (Joe Leman, Milaus e Fine Before You Came) o De Stijl (Three In One Gentleman Suit, Santo Niente), con la Shinseiki, società di edizioni che ci dà una mano a sbrigare le noiose pratiche relative alla SIAE, e con un paio di locali nella nostra zona (Limonaia e Mulligans), preziosi punti di incontro nei quali organizziamo spesso concerti dei nostri gruppi ma non solo… Si tratta di persone che abbiamo avuto la fortuna di conoscere in questi anni e che
condividono il nostro modo di intendere la musica ed assieme alle quali formiamo una grande “famiglia”. Tra le vostre ultime uscite c’è il nuovo album dei Fine Before You Came, un progetto che unisce immagine e musica, di cosa si tratta? Si tratta di un lavoro di cui andiamo molto orgogliosi, l’ultima fatica di una delle più belle ed interessanti realtà della scena post-punk italiana. Un lavoro maturo che lascia senza fiato dal punto di vista della raffinatezza, correlato ad un DVD intitolato I Was Fine Before You Came, cortometraggio nato da un’idea del quintetto milanese e del film-maker Antonio Rovaldi. Attraverso immagini in movimento e fotografie, riprese a New York, che descrivono stati di solitudine ed alienazione, il regista evoca le sensazioni messe in musica da brani strumentali inediti che ricalcano i temi principali dei pezzi del disco. Un lavoro bello e ambizioso, nonché molto impegnativo realizzato con persone magnifiche, che vi assicuriamo... vale qualsiasi sacrificio. Musica e immagini ma anche musica e letteratura … Enrico Brizzi e i Frida X, Umberto Palazzo e il Santo Niente … Black Candy allarga i suoi orizzonti? Siamo sempre stati dei grandissimi ammiratori di Enrico, quindi provate ad immaginare la nostra sorpresa, quando sul suo blog (http://www.archiviomagnetico. splinder.com) consigliò ai suoi lettori “tre ottimi album di cui temo non sentirete parlare in tivù”: The Book Of Stanley Creep dei Pecksniff, Occhiali Scuri al Mattino del Santo Niente e Days dei Brother James... per noi due fu un’enorme sorpresa… uno dei maggiori scrittori italiani dell’ultimo decennio invitava all’acquisto di alcune nostre produzioni: puoi immaginarti quale sia stata la nostra reazione. Dopo neanche un mese, nel febbraio dello scorso anno, abbiamo avuto il piacere di conoscere Enrico in occasione di una Black Candy Night tenutasi al Covo di Bologna; ci siamo da subito trovati in perfetta sintonia, siamo rimasti in contatto ed abbiamo deciso di suggellare questa nostra amicizia con la produzione dell’album dal titolo Nessuno
( J oe leaman )
lo saprà, Concerto per voce e rock’n’roll band, ispirato all’ultimo suo romanzo, collaborazione che crediamo e speriamo non si fermerà, ma proseguirà nel tempo. Di Umberto che dire… oltre essere un grande musicista, è una persona incredibile che purtroppo non ha ancora raccolto quello che si merita. Ho visto che siete orientati anche all’estero, come va l’indie italiano fuori dai confini? Sinceramente abbastanza bene… abbiamo raggiunto accordi per la distribuzione dell’intero nostro catalogo in Giappone, Cina e Hong Kong, Canada, Belgio e Olanda, Spagna, Portogallo, Francia e Inghilterra; le cose sembrano andare molto bene: in Estremo Oriente hanno apprezzato molto i nostri lavori ed è stato per lo meno curioso vedere al di sotto dei nostri cd delle note in giapponese! In Italia ci sono alcuni gruppi ed etichette ai quali i confini nazionali vanno decisamente stretti, ad esempio non ci meraviglieremmo affatto di vedere l’ottimo lavoro di gruppi come Studio Davoli, Rosolina Mar, Settlefish, e Midwest riconosciuto anche all’estero… o almeno ci piacerebbe fosse così! Una piccola descrizione per ognuna delle vostre ultime produzioni. Che dire…il cd di Enrico e dei Frida X è un disco emozionante, un insieme imprescindibile di parole, suoni e colori che racchiude la poesia di un viaggio a bassa velocità attraverso un’Italia autentica… un disco da amare. L’album dei Fine Before You Came è invece proprio uno di quei dischi senza confine, una musica che va oltre la classificazione dei generi e non può che arrivare dritta al cuore… inoltre ha un booklet unico e davvero bellissimo realizzato dai ragazzi di Heartfelt (www.heartfelt.it). Tomviolence, Milaus e Three In One Gentleman Suit hanno realizzato tre dischi diversi l’uno dall’altro: tutti e tre mostrano un’urgente necessità di esprimersi, un approccio ed una passione per il rock’n’roll davvero unici, tre band da amare e, per chi non lo avesse ancora fatto, da scoprire senza alcuna esitazione… Provare per credere. Osvaldo Piliego
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25.03.06 TUXEDOMOON IN TARANTO Come a completare il discorso iniziato su queste pagine un paio di mesi fa, ecco che ci capita a proposito un’ottima occasione per proseguire: sabato 25 marzo il Palamazzola di Taranto ha ospitato il più significativo e più noto (in Europa almeno) figlio della new wave di San Francisco, i Tuxedomoon. E sì perchè, dopo Londra, New York e Berlino, non possiamo dimenticare San Francisco, la terra da cui sorse la mitica Ralph Record, l’etichetta che produsse la compilation di culto Subterranean Modern (anno domini 1979), in cui partecipano i quattro gruppi chiave della scena cittadina: (in ordine, crescente, di fama) i misconosciuti quanto eccezionali Mx-80 Sound, gli psichedelici Chrome, i leggendari quanto indefinibili Residents e i Tuxedomoon, la band che ha indirizzato il proprio spirito sperimentale per lo più in ambito jazz elettronico. Col tempo però, quello che voleva esser un inquietante elettrorock sporcato di jazz d’avanguardia si è progressivamente formalizzato in un digital art-pop jazzato, sofisticato ed elegante, ma privo di quell’ansia, di quel bruciore, di quella tensione che accomunava tutte le bands suddette. Di fatto, ciò che in definitiva ha permesso, fin da subito, al gruppo di Steven Brown, Blaine Reininger e Peter Principle di tirarsi fuori dal ristretto ambito underground, è stata la loro sostanziale anima pop, individuabile non tanto nella loro musica, quanto nella loro capacità di sapersi confrontare con successo con la macchina del mercato e della moda musicale, senza tuttavia caderne vittima. E forse questo è stato uno dei maggiori meriti della band, proprio perchè, senza di loro, tutta la scena di certo avrebbe avuto una più sofferta esistenza. Pensate a Los Angeles: se da un lato la scena punk di Germs, X, Black flag e Circle jerks riuscì ad ottenere una certa visibilità internazionale, dall’altro, una scena più sotterranea quanto sofisticata e composta (in tal senso più propriamente new wave), come quella che passò sotto il nome di “trance” (per il suo carattere ipnotico e meditativo), nata all’interno del dipartimento di belle arti
della prestigiosa UCLA e capeggiata dai seminali Savage republic (ne riparleremo il mese prossimo in occasione del loro imminente concerto a fine maggio a Bari), non ebbe mai la possibilità di emergere proprio perchè non possedeva (ma anche perchè probabilmente non avrebbe voluto possedere) al suo interno una band capace di addentrarsi con successo all’interno del circuito commerciale. Anche i Tuxedomoon New Music Ensemble, come molte band new-wave-butnot-punk, avevano origini universitarie: Brown e Reininger erano studenti di musica elettronica al San Francisco City College, e la loro volontà era costituire un progetto multimendiale che includesse musica, teatro e videoproiezioni. Contrariamente all’etica punk (falsa) secondo cui chiunque può prender in mano uno strumento e metter su un gruppo punk, solitamente i musicisti delle università possedevano una ben più profonda consapevolezza della natura della musica, e la loro ricerca era indirizzata verso nuove espressioni del suono capaci di stimolare neuroni solitamente tenuti in disuso nelle normali faccende quotidiane (compreso l’ascolto della musica popolare). Ma proprio per questo, le possibilità di far combaciare le volontà spirituali dei musicisti della new wave colta, di ogni tempo e luogo, con le esigenze restrittive del mercato discografico (che persegue il principio: suoni facili per masse stupide) sembrano limitate a quel processo di standardizzazione e appiattimento delle nuove soluzioni del quale si è parlato qualche mese fa. Da questo processo, si sa, quasi costantemente i ricercatori escono sconfitti: a prendere i meriti dei loro risultati sono quei gruppi (spesso creati a tavolino) che acquisiscono e sfruttano, nelle loro canzoni, secondo una modalità più fruibile, easy, le recenti innovazioni tecniche, melodiche ed estetiche. Ma ci sono casi, e quello dei Tuxedo è uno di questi, in cui proprio i musicisti sperimentali posseggono la notevole dote di saper conquistare direttamente il pubblico di massa. Notevole, perché quasi sempre
( tuxedomoon )
questi soggetti sono tipi dalla personalità fragile, chiusa, introversa, ma proprio perchè disagiati, poco vicini ai caratteri della società in cui vivono (e per questo spinti alla sperimentazione). Brown e Reininger hanno invece due personalità fortissime, capaci di confrontarsi costantemente con il loro pubblico e con la stampa; hanno sempre girato il mondo (hanno abbandonato Frisco ben 25 anni fa) esibendosi ovunque, col gruppo o nei loro innumerevoli progetti solisti (solo in Puglia sono venuti 3-4 volte al completo, e molte di più singolarmente). Chiaro che il risultato di tutto questo movimento porti inevitabilmente a un riscontro di apprezzamenti più ampio e globale. Il rovescio della medaglia è che entrare in quell’ottica ti spinge diabolicamente ad ammorbidire i toni, a facilitare l’ascolto, a riaprirti alla luce della “normalità quotidiana”, a riaffondare quella tensione, a dimenticare quel disagio, a rinunciare a quel disprezzo che inizialmente produssero grandiosi effetti. Nei Tuxedomoon il risultato fu quello di fossilizzarsi in un compito ensemble di bravi musicisti stravaganti di sperimentazione educata (tra italo-disco, cocktail lounge e vezzeggi orientaleggianti) che tanto piacciono ai borghesucci radical-chic desiderosi di eccitanti esperienze. Forse per tirarsi fuori da questo tuxedo-sun in cui erano infilati, si buttarono ognuno dei tre in tonnelate di progetti paralleli con infinite collaborazioni (quelle di Brown in particolare mostrano questa esigenza di fuga, in special modo nelle diverse opere di ambientmusic elettronica alla Brian Eno incise con il musicista d’avanguardia Benjamin Lew). Vederli oggi dal vivo è un po’ un misto di tutte queste cose, così come lo sono i brani dell’ultimo Cabin in the Sky: solo a tratti davvero emozionanti (ottimo il basso di Principle nel brano inedito presentato durante il concerto), per il resto una simpatica esibizione perbenista da musica da camera che ha reso tutto il live non dico brutto (impossibile, a parte l’agghiacciante cantata alla Capossela di Reininger), ma per lo meno noiosetto. Gennaro Azzollini
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LA CULTURA RINASCE DALLE PERIFERIE Intervista a Paolo Fresu
“Oggi in Italia c’è una sorta di rinascimento culturale, questo grazie anche al contributo delle periferie. Nelle grandi città c’è un’offerta tale, in quantità e qualità, che spesso anche le cose importanti passano in secondo piano, mentre nelle zone di periferia, come la Sardegna o il Salento, c’è un modo più profondo di agire e influenzare la cultura”. Quello salito in cattedra lunedì 20 marzo nella Sala Azzurra della Fondazione Filograna, a Casarano, è un Paolo Fresu considerato non soltanto tra le più apprezzate trombe jazz italiane, ma anche il fondatore di una manifestazione di prestigio che si tiene nel suo paese natale, a Berchidda, in provincia di Olbia, dove dal nulla il trumpet sardo ha creato un importante festival. Fresu, oltre a partecipare al dibattito promosso dalla Provincia, nella serata ha suonato con Raffaele Casarano & Locomotive per la presentazione di Legend, prima fatica discografica del quartetto jazz salentino (report del concerto su www. coolclub.it). Ad arricchire l’incisione realizzata presso il convento degli Agostiniani a Melpignano, come pure il concerto inaugurale casaranese, c’è stata non soltanto la partecipazione straordinaria di Fresu, ma anche quella dell’orchestra del conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, ensemble diretto dal maestro Massimiliano Carlini. E nel lavoro edito dall’etichetta Dodicilune, Fre-
su ha tolto la sordina della propria tromba per imprimere il tono giusto ai duetti con il sassofonista, giovane talento di Sogliano che già sta facendo parlare molto bene di sé, accompagnato al contrabbasso da Marco Bardoscia, al piano da Ettore Carucci e alla batteria da Alessandro Napolitano, tutti musicisti ormai noti nel panorama jazzistico non solo pugliese. Ma torniamo al pensiero di Fresu. Egli parla di jazz e di luoghi, di come “la musica si sposi e si allacci sia con le altre forme espressive sia con la peculiarità dei posti”. Ma oltre al Fresu musicista c’è anche il Fresu docente, quello al quale abbiamo rivolto la prima domanda. Paolo, oltre a suonare, tu insegni. Pensi che le istituzioni, in primis la scuola, riservino abbastanza interesse alla musica? “Sicuramente no, basti pensare alle scuole primarie e ai bambini. Per loro c’è pochissima musica. Oggi, con le riforme dei conservatori, le cose vanno un po’ meglio, però siamo ancora lontani. Specie in Italia, la musica resta un fatto d’arte e di comunicazione. Fortuna ci sono ancora le bande musicali. Io stesso sono diventato musicista suonando la tromba nella banda del mio paese. In particolare per gli strumenti a fiato, la vera scuola resta la banda. Tuttavia è importante che ci siano altre istituzioni didattiche, che permettano ai giovanissimi d’imparare a suonare da piccoli”. Ecco, parlando delle bande, secondo te si può intravedere un parallelismo tra i nostri complessi bandistici e le big band americane di una volta, considerando che le sonorità jazz nascono sì dai ritmi afroamericani, ma si suonano prevalentemente con strumenti tipici della nostra cultura musicale? Inoltre, anche il fatto di rivisitare brani della tradizione locale, non può essere un modo per creare un nostro jazz? “Certamente, è quello che stiamo cercando di fare noi. Con le bande però il discorso è un po’ più complesso, perché il repertorio tipico di un raggruppamento bandistico presuppone una preparazione tecnica non necessariamente troppo sviluppata, cosa che nel jazz è importante. Tuttavia, mi sembra che le bande oggi spesso inseriscano anche il repertorio jazzistico. Ma io andrei anche al di là del discorso del jazz. Vedrei bene la sperimentazione del repertorio bandistico
( S opra P aolo Fresu , in basso a sinistra R a F F aele C asarano )
con la tradizione popolare. In fondo la banda è uno strumento popolare, ed in quanto tale è auspicabile che possa trattare, oltre alle grandi composizioni dell’Ottocento, la musica tipica dei luoghi”. Cambiamo argomento. Tu hai musicato già diverse pellicole. Che differenza c’è tra comporre per un film e suonare davanti ad un pubblico? “Beh, è molto diverso. Musicare un film significa calarsi in una sceneggiatura, in un personaggio, in un ambiente, in una fotografia; significa rispettare una storia che è stata scritta. Io scrivo per diletto per il cinema. Negli ultimi anni ho avuto più di un’opportunità. Quando si scrive per le immagini bisogna pensare a quelle scene, mentre quando si compone per sé stessi tutto dipende dal proprio stato d’animo. Diciamo che c’è una sorta di drammaturgia che ti obbliga a porti una problematica diversa. E questo è molto interessante. E’ molto limitante sotto certi versi, ma ti permette di aprire delle porte nuove, che altrimenti vedi lì e lasci chiuse. Per me la scrittura per il cinema è stata un suggerimento molto importante e da quelle musiche mi sono poi mosso in direzioni nuove ed inaspettate, verso le quali di sicuro non sarei mai andato”. Sei qui nel Salento a dar manforte a questi ragazzi. Cosa consigli loro e a chi si avvicina al jazz in generale? “Consiglio di avere molta umiltà, di affrontare le cose investendo tutto. L’umiltà è importante perché di strada da fare ce n’è veramente tanta, non solamente per i giovani ma per tutti. C’è sempre da imparare. Eppoi dico di investire tutto, perché la cosa straordinaria della musica è quella di essere uno strumento totale. La musica non è solo fatta di note. Anche alzarsi presto la mattina per prendere un aereo è musica. E’ qualcosa che si deve sentire dentro, altrimenti, si può essere il più bravo musicista al mondo, ma non si arriverà mai a trasmettere niente a chi ascolta”. E probabilmente il consiglio di Fresu non vale solo per chi suona, sia jazz che altro, ma anche per chi ascolta, tanto jazz e tanto altro. Massimo Ferrari
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ICELAND: VIAGGIO NELLA MUSICA ISLANDESE Cosa c’è al di là della Scandinavia, verso occidente, oltre le Isole Fær Ǿer e il Mare di Norvegia? Non chiedetemi le coordinate geografiche perché sembra non averle. Poi guardi una foto dei tetti multicolori di Reykjavik e ti chiedi: che strana gente abita queste terre? Oltre 100 vulcani su tutta l’isola, 5 eruzioni in media l’anno. Che strana gente vive su queste terre? Reykjavik, letteralmente “la baia fumante”, ha un’Università dal 1911, numerosi teatri e musei, 50 case editrici e 5 quotidiani, il tutto per centomila abitanti. Gli islandesi hanno il maggior consumo di libri pro-capite del mondo. Che strana gente abita su quelle terre? Gli islandesi non hanno cognomi, o meglio hanno un nome e per cognome il nome del padre più il suffisso –sson per gli uomini e –dottir per le donne: Bjork Gudmunsdottir, come dire Bjork la figlia di Gudmuns, come si usa dire nei nostri paesini quando si vuole far capire chi è una persona, solo che laggiù è un interna nazione a chiamarsi “il figlio di…”. Le donne non prendono i nomi dai mariti. E comunque più del 60% dei figli nasce senza che la coppia sia sposata. Strana gente questi islandesi. Non è necessario andare indietro nel tempo fino al primo vichingo che colonizzò l’isola, oppure scrivere di Eric il rosso, l’islandese che senza la bussola ma con un coraggio difficile da immaginare, scoprì il continente americano cinquecento anni prima di Cristoforo Colombo; per capire la gente di quelle terre basterebbe ascoltare un album che in questi ultimi anni viene da quei luoghi sperduti nell’oceano: decenni di isolamento hanno prodotto qualcosa che esplode nelle nostre casse come eruzioni vulcaniche, geyser e terremoti. E così Bjork figlia di Gudmuns, la punta dell’iceberg, capace di duettare con orchestre di calici di cristallo, ci fa immaginare solo lontanamente il sottobosco musicale islandese. Voce ed attitudine meravigliosa che si mostra a noi stranieri sin dai tempi degli Sugarcubes, primo gruppo rock islandese a diventare conosciuto nel mondo con l’album Life is too good nel 1988, gruppo che vedeva la donna cantare con la sua personalissima voce su una sonorità new wave abbastanza comune per quegli anni. Ma scendendo in profondità, guardando la parte sommersa dell’iceberg, dentro tutto questo immaginario ritrovo la musica che scelgo per svegliarmi dolcemente, riscaldato dal freddo dei loro tintinni, sulle quattro corsie delle Lecce-Brindisi alle 7:30 mentre ogni mattina vado a “lavoro” avvolto dall’emozioni penetranti delle loro accennate melodie e sincopi delicate. Oppure steso sul letto ad occhi chiusi con in cuffia l’insistenza del caldo e glaciale tepore del freddo, la sera, a casa, a fine giornata. Una strana sensazione come un girasole nato su artiche prate-
rie di muschi e licheni islandesi, come scaldati da un rovente raggio di sole su una lastra spessa di ghiaccio. Scavano solchi quando li ascolto, MuM, Yesterday was drammatic, today is ok, ed il futuro sarà sempre meglio. Immagino una serata tra le vie di Reykjavik, la musica che esce fuori dai locali, ovattata, si percepiscono suoni glaciali di pop elettronico, Blindfold, ossia Biggi degli Ampop, impegnato nelle morbide increspature di un pop aggraziato, ai confini del post-rock. Immagino Olvis, moniker dietro cui Orlygur Thor Orlygsson, mi avvolge con l’ormai tradizionale ed orchestrale suono che i compatrioti Sigur Ros, maestri di molti, hanno contributo a creare. Sono ormai abituato a questi suoni, le mie orecchie non si spaventano, il cervello li registra, li rimanda nelle braccia, nelle gambe nel cuore e in tutto il resto, facendomi vivere. E poi gli Einoma, coloro che, con il loro suono glaciale illuminato dai bagliori delle prime ore del giorno, guardano maggiormente alla musica extra-isolana, impercettibile elettronica, a volte tenebrosa a volte fresca, adepti della scuola Warp tuttavia rivisitata in versione islandese, con tutte le conseguenze ambient-cinematiche del caso. Seppure debolmente, una dolcissima italo-islandese ci unisce a questo popolo: una meravigliosa e dolce ragazza di nome Emiliana Torrini che dopo il triphop di Love in the time of science del 1999 in Fisherman’s woman del 2005, passa, strizzando l’occhio a Nick Drake, ad un intimismo acustico fatto di chitarre arpeggiate e racconti sussurrati. Calma e serena, ci accarezza con la sua voce armoniosa, raccontandoci con toni delicati di amori ed amici, di speranze ed attese, di paesaggi meravigliosi. Ed infine, potrei anche non parlarvene, ormai li conosciamo tutti, questi elfi ancestrali dal nome Sigur Ros, i quali racchiudono all’interno del loro suono la genuinità innocente ed incontaminata della loro terra, tra storie fantastiche e leggende di piccoli esseri nordici che escono dai nostri stereo nella più afosa giornata in una città dal puzzo di tubi di scappamento. Perché è questo che sembrano offrire: una fuga. Una
( emiliana torrini )
semplice fuga dove noi stessi scegliamo la piacevole direzione. Bene, sono italiano ma se c’è un’origine che rimpiango di non avere è proprio quella islandese, e poco importa se invidio principalmente quello che la maggior parte degli islandesi sembra a volte snobbare, poco importa se i primi tre posti delle classifiche islandesi non sono riservati a Bjork, Sigur Ros e Mum o al massimo Emiliana Torrini come noi potremmo immaginare, poco importa se i primi tre posti delle classifiche islandesi non differiscono poi tanto da quelli delle classifiche del resto del mondo. Questi islandesi non sono poi tanto strani quanto vi volevo far pensare. Ma voglio che i “miei” islandesi restino quelli delle canzoni di Mum e Sigur Ros, cosi continuerò a non aver più bisogno di alcuna medicina per curare i miei mal di testa: il suono di Finaly we are no one, un posto caldo e una tazza di tè saranno sufficienti. Federico Baglivi Icelander Playlist: Surgarcubes Life’s too good (Elektra, 1988) Bjork Homogenic (One little indian, 1997) Bjork Vespertine (One little indian, 2001) Mum Yesterday was dramatic, today is OK (Thule Musik, 2000) Mum – Finally we are no one (Fat Cat, 2002) Emiliana Torrini Fisherman’s woman (Rough Trade, 2005) Sigur Ros Takk (EMI, 2005) Ampop - My delusions (SENA/ Dennis, 2005) Blindfold - Blindfold (Resonant, 2005) Olvis – The Blues Sound (Resonant, 2005) Einoma – Milli Tònverka (Vertical form, 2002) Stafraenn Hàkon aka Olafur Josephsson – Ventill/Poki (Resonant, 2004)
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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Pietro Grossi Pugni Sellerio *****
Pietro Grossi compie gli anni il mio stesso giorno e farà 28 anni, proprio come me. È ariete e non gli interessa cosa significhi, proprio come me. Ma Pietro Grossi ha scritto un gran libro, ha in se il mestiere di scrivere e qui non ci sono coincidenze. Chi si avvicina ai trenta, proprio come me e Pietro, sente il trapasso, il passaggio a un’età che molti chiamano adulta. Passaggi, cambiamenti, che nel suo libro Pugni racconta da sei angolature esistenziali. Tre sono i racconti che lo compongono, in ognuno di essi Pietro esamina due angolature, due vite nella stessa storia che giungono a soluzioni o direzioni diverse. Due protagonisti che agiscono e reagiscono percorrendo tangenti. Questo fa della raccolta corpo unico, panoramica sul momento del cambiamento. Per fare questo Pietro utilizza scenari molto differenti uno dall’altro. Tra un racconto e l’altro le concordanze però risaltano e rendono la panoramica completa. Si capisce alla fine il senso della scelta, si percepisce come, nella loro diversità, alcuni momenti delle nostre vite siano un punto nodale. C’è sempre qualcosa
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che succede e ci avverte che di lì in poi nulla sarà più uguale. Può essere un avversario, un fratello o un amico. Boxe, il primo dei tre racconti, è la storia di due vite che si incrociano su un ring. Il Ballerino e la Capra avversari, combattono uno contro l’altro, ma alla fine per vincere su qualcosa che è solo dentro di loro. Cavalli è l’iniziazione, la direzione che dividerà il destino di due fratelli, legati ma diversi. Le scelte e le vicissitudini li porteranno a intraprendere strade, a rincontrarsi nel momento del bisogno e a separarsi nel cammino della vita. La scimmia infine è un tuffo nel passato. Un presente surreale è l’occasione per vedere tutto da una nuova ottica. Lontano dal cliché del giovane scrittore, Pietro Grossi suggestiona con un immaginario che sorprende per ampiezza e varietà. Descrive tre mondi con la capacità dello scrittore consumato, una pulizia e un’essenzialità del linguaggio da fare invidia e un senso del mondo fresco ma al contempo maturo. È nato uno scrittore, ed è ancora giovanissimo. Osvalo Piliego
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Lo Stordimento Jöel Egloff Instar libri ****
Egloff è uno di quelli che sarebbe piaciuto a Céline, o per lo meno avrebbero avuto un sacco di cose da raccontarsi. Entrambi parlano del margine e lo fanno senza girarci troppo intorno perché sembra ci siano dentro fino al collo. Il protagonista di Lo Stordimento vive il mondo però più come Candide che come un Bardamu. Non c’è pessimismo nella constatazione del reale ma una reazione, un volo che la fantasia concede, un’ironia che rende tutto surreale. E ci sono, sotto questo cielo perennemente grigio, affetti sinceri, l’amicizia, la morte, consumati tra un lavoro al macello, percorsi in bici, un natale tenero nel suo squallore. Sembra di rivedere i brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, perché la periferia descritta è il senso stesso del margine, di vite che scorrono lente sempre uguali fronteggiando gli stenti, a contatto ogni giorno con la morte, che porti negli occhi, sui vestiti come un odore, sulla testa come un pericolo imminente. Scanditi da aerei che decollano, passano i giorni raccontati da Egloff che riesce a fare di queste pagine e di questi paesaggi veri e propri quadri in cui la poesia trova spazio tra le discariche. Una delle penne più interessanti della nuova letteratura francese. Osvaldo Piliego
Trattato di ateologia Michel Onfray Fazi Editore *****
In uno dei periodi più oscuri e difficili per il libero pensiero, ecco un agile libello che rappresenta la classica boccata d’aria fresca. Il filosofo francese Michel Onfray, fondatore dell’Università Popolare di Caen, è l’autore di questo breviario irreligioso che, senza falsi pudori, punta a decostruire i tre monoteismi partendo dall’unica arma ancora disponibile, la filosofia. Profondamente libertario, lo scritto di Onfray è ricco di spunti e citazioni storiche, senza che questo impedisca all’autore una sana e caustica ironia contro ‘la nevrosi infantile dell’umanità’. Cattolicesimo, Ebraismo e Islam, in barba allo scontro di civiltà, hanno più punti in comune che differenze: la sottomissione, il gusto macabro per la morte, la castità, la necessità di creare un aldilà che giustifichi una vita di privazioni e sacrifici. Così, la
costruzione teologica si mostra in tutto il suo traballante concentrato di pensiero antistorico e antifilosofico, a partire da una costruzione della vita che è patimento e rigetto dei piaceri, ma anche obbedienza e abdicazione del pensiero in luogo di una credenza fondata su libri che si contraddicono pagina dopo pagina, che narrano storie palesemente false, cariche di significati ambigui (basti pensare alla sessualizzazione forzata della favola di Adamo e Eva). Ecco come la reiterazione di una somma di errori sia finita per diventare un corpus di verità intoccabili. Ilario Galati
Il percorso dell’amore Alice Munro Einaudi ****
La scrittura di Alice Munro è fortemente legata alle sue origini canadesi. I paesaggi dell’immenso Canada sono infatti presenti anche in questa raccolta, e sono spesso parte integrante della vicenda, se non, come succede a volte, i veri protagonisti. Lande infinite attraversate da un famiglia in viaggio in auto per far visita ai genitori, come in Miles City, Montana, villini estivi in prossimità di un lago (Lichene), piccoli villaggi dove si torna dopo anni passati altrove, portandosi dietro rancori e nostalgie, voglia di cambiamenti. Il paesaggio sta lì muto ad osservare le piccole vite degli esseri umani, fatte spesso di eventi insignificanti, privi di valore. Quelle quotidianità che definiscono la vita di ognuno, una miriade di decisioni e cambiamenti infinitesimali che si amalgamano per rendere unica ogni singola esistenza, la Vita. Sono cambiamenti rapidi e a volte sconvolgenti per un uomo, lenti e millenari per la terra, ma si assomigliano tremendamente. E la Munro insiste proprio sui piccoli dettagli, crea così i suoi racconti partendo dalla mente dei suoi personaggi, indagandola e facendosi attrarre dai segreti, dai ricordi d’infanzia. Leggendo questi racconti (già editi nel 1989 da Serra&Riva, ma pubblicati in una nuova traduzione da Einaudi), si scivola negli intricati meandri del pensiero, si passa con naturalezza dal presente al passato, grazie all’abilità dell’autrice, nel giro di un punto o di una virgola, si comprendono i perché di oggi guardando ad uno ieri spesso remoto, fatto di gente che non c’è più, di situazioni sfocate nella memoria. Poco importa se poi quegli eventi evocati siano accaduti davvero o siano solo immaginati, come il più delle volte succede a tutti. Poco importa, perché la realtà è fatta di impressioni, di immaginazione, il più delle volte è la conseguenza dei nostri pensieri e delle nostre distorsioni, più che il succedersi di fatti. È questo l’insegnamento primo di questi racconti,
insieme all’apprezzamento del valore immenso delle vite semplici. Anna Puricella
Il mago
César Aira I Narratori Feltrinelli 2006 **
Lento, forzato, insoddisfacente. Mi appare così l’ultimo romanzo di uno dei più quotati autori della narrativa sudamericana: César Aira. Voce originale e sovversiva, Aira propone in questo breve romanzo una storia surreale, la storia di un mago vero. Hans Chans (il suo nome era Pedro María Gregorini) non era un imbroglione né tanto meno un illusionista dalle doti eccellenti e da strabilianti trucchi. Egli era un Mago, quello le cui capacità e possibilità sono impensabili perché in grado di cambiare e sovvertire il mondo. E proprio per questa ragione non aveva mai osato neppure provarle. È rimasto nella vita un mago mediocre, di fama limitata e con qualche esigua apparizione televisiva alle spalle. Questo romanzo si apre con la ricerca di un riscossa, la speranza di una svolta, il bisogno di una rivalsa. E una convention di illusionisti a Panama ne rappresentava l’occasione giusta e attesa. Metafora dei sogni e i desideri che a lungo rimangono sospesi nella vita di una persona senza che si possa o si riesca a far niente per tramutarli in realtà, il racconto di questa magia esistente solo in potenza lascia spazio a molte riflessioni (quante cose sapremmo e potremmo fare senza farle mai?). Ma non basta, e il libro rimane sospeso. Come se volesse dire tanto, insegnare, suggerire, ma non trova il modo giusto per farlo. Valentina Cataldo
Sto da cani
Emiliano Gucci Lain ****
Vite normali e a loro modo speciali, eventi che finiscono per coinvolgere vite, cambiarle, rovinarle o salvarle sul ciglio del baratro. Da una parte gli occhi di un bambino sul mondo, dall’altra quelli della morte che incombe. Al centro un giovane uomo alle prese con la quotidianità e a guizzi di ordinaria follia. Un romanzo, quello del giovane Emiliano Gucci, che riesce a immortalare un variegato campionario umano. Vite all’apparenza normali, altre al margine, altre in divenire. Trait d’union sembra essere la storia d’amore del protagonista ma è solo un punto di vista. Abile nell’intersecare rac-
Coolibrì conti diversi facendoli convivere a tratti, lo scrittore dimostra mestiere di scrivere. Sto da cani è un romanzo esilarante, amaro e poetico, un libro a strati che da un fulcro di partenza si dirama, un punto di vista che pian piano si alza per fotografare dall’alto per poi tornare ad occuparsi dell’infinitamente piccolo. Colpi di scena, improvvise sferzate attanagliano il lettore, la scrittura agile e fresca scorre veloce con ritmo filmico. Ed è uno di quei libri che non dispiacerebbe vedere ben trattati in pellicola. Sto da cani è una bella storia che vale la pena leggere e di questi tempi non è poco. (O.P.)
L.C.I
(Letteratura chimica italiana) Antologia Venerea ****
Prendi tutto quello che vedi e comincia a scavare. Dopo il primo strato, la patina c’è qualcosa che non tutti vedono o che fanno finta di non vedere. Anche per leggere ci vuole stomaco, non ci sono solo storie d’amore, hai mai sentito parlare di scrittura automatica? E di stati di alterazione? Se non hai mai provato Burroughs l’impatto può essere straniante, ma non puoi non restarci sotto. Esiste un’altra letteratura: La letteratura chimica italiana. Questa antologia di racconti edita da Venerea è come una guida alla scoperta dei sotteranei capitolini e non quelli raccontati da Gide. Esperienze al limite, droga e sesso. Un libro che indaga il confine vero e immaginato e lo supera. Chi cerca il lieto fine ha sbagliato strada, qui c’è solo la rappresentazione del vero, del crudo, un’operazione a cuore aperto a una città per scoprirne il male o solo una faccia. Tra sperimentazioni linguistiche, grafiche e nessuna concessione alla censura questi racconti, quasi tutti ambientati a Roma sono il campionario di una nuova città invisibile. Come un calcio nei denti...non è detto che alla fine non piaccia. (O.P.)
La ragazza del secolo scorso Rossana Rossanda Einaudi *****
L’esistenza di ciascuno è pezzo integrante di vita collettiva e le storie individuali costruiscono tutte, nessuna esclusa, pagine e pagine, voluminose come a volte esigue, di immensa storia comune. Ma ci sono vite che, più delle altre, costruiscono in coscienza e non per caso, e contribuiscono, agendo appunto con consapevolezza, al cambiamento sociale ed alla trasformazione epocale. Sono vite che spesso e volentieri neanche immaginano
25 quanto i loro particolari agiti influiranno sul proseguire di tutti, impegnate come sono a contrastare con sdegno quel che causa loro disprezzo e riprovazione. La militanza, dopotutto, è sentimento urgente e pieno, e come tale non ha criterio pensarlo in proiezione di un domani: va operato qui ed ora, pena lo smarrirsi, pericoloso, della sua indicibile necessità. Poi edificherà memoria, fermerà sul passaggio del tempo quegli istanti di sicuro riferimento, e avrà compiuto, con quel fissaggio, anche il suo senso futuro. È il caso, questo, del vissuto robusto ed intenso di Rossana Rossanda, signora ultraottantenne di rara discrezione e finezza, che ha abitato e “fatto” una significativa fetta di novecento italiano. A scuola da due massimi sistemi – la guerra ed il partito - è cresciuta coltivando energia e combattività, per poi formarsi come donna di scelte coerenti - le scelte prima le facciamo poi ci fanno - e difficile coraggio. Antifascista e fondatrice de Il manifesto, ci racconta in queste pagine, sacre ed appassionate, gli anni dell’impegno in prima persona, della condivisione audace di idee ed intenzioni, della lotta vera e ad oltranza. E lo fa con una scrittura lucida ed incisiva, che non cerca alcuna raffinatezza - fatta eccezione per la naturale eleganza di una prosa asciutta e pulita – e che ha il solo obiettivo di ben rendere al lettore. Risultato, un registro puntuale di eventi, un inno alla partecipazione, anche se difficile in tempi di dubbi insostenibili, e a tratti anche un diario, toccante di impreviste emozioni, capaci di sorprendere chi legge per poi abbandonarlo alla commozione, come nel caso delle righe svelte e delicate sulla morte della madre – “Una madre ed una figlia sanno poco l’una dell’altra, per difesa ed affetto e pena. Ora sarei più grande, potrei prenderla in braccio, averla partorita” - sul risvolto di copertina, l’essenza del testo intero, e la dichiarazione di un amore folle: “il racconto di una vita: la politica come educazione sentimentale”. Il Passo del Cammello
Questo amore
Roberto Cotroneo Mondatori ****
Questo Amore, è il romanzo di una assenza. È la mancanza a muovere tracce, piccole memorie, sensazioni e paesaggi. Rumori, parole, carte e libri. Odori anche, di tabacco, di caffè, di cognac, di mare e di stradine che tagliano la città, incroci d’attese e
di incontri. Edo era un uomo bello, con un grande sorriso e occhi quieti, ti ci affezionavi, era facile, e lui ricambiava, affettuoso, premuroso. Io non cercavo una ‘farmacia’ e non avevo ancora “i dolori dell’esistenza”. Una libreria si, la cercavo. La sua era fatta per accogliere ogni desiderio di scoperta. Ero giovane, nel tuonare oscuro degli anni settanta e per crescere ho scelto i libri, con il loro silenzio, compagni e guida. Edo c’era a curare ogni bisogno, più di altri che i libri te li toglievano se troppo poco inquadrati nelle ideologie. Poi, ti dava fiducia, ti lasciava da solo a perderti in cerca di titoli, di frammenti di senso, lui intanto andava via, per un caffè. Cotroneo con Questo amore dona, a noi leccesi, a noi ‘sensibili’, un viaggio a ritroso, figurandosi attraverso i racconti di Anna, un Edo che non ha mai conosciuto. Costruisce un tempo, s-memora, dimentica il mondo, strania i luoghi, li rincorre, in allerta, con una scrittura funambolica, fatta di assoli dolorosi che osano piccole gioie, sorrisi, speranze. Solo la poesia, i libri si fanno realtà, veri, nel loro stare, nel loro conservarsi, nascondendosi, tenuti in scaffali. Una libreria - dopo le piccole glorie del calcio giocato con particolarità di stile - dono di matrimonio, che accoglie l’amore e un vento che sfoglia e spagina, che dice versi. Un’andatura malinconica rievoca un “non esserci in forma di presenza…” è Edo che lo dice “morire è solo non essere visto” e la voce di Anna si consola, disponibile all’attesa rievocando la storia d’un amore e di un’attesa. Mauro Marino
Nel paese dei vicerè
Alessandro Leogrande L’ancora del mediterraneo ****
Cosa è accaduto al movimento no global dopo i giorni di Genova nel luglio 2001? Perché una forza davvero nuova come quella espressa dalle tante realtà che la componevano si è lasciata domare dalle logiche della sinistra istituzionale, tutta votata alla lotta parlamentare? Come è possibile per il movimento che si oppone alla globalizzazione neoliberista reagire al post-11/9, schiacciato tra l’incudine (le bombe occidentali) e il martello (i tagliatori di teste)? Sono alcune delle domande alle quali cerca di rispondere Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore tarantino, redattore della rivista Lo Straniero e collaboratore di Popolare Network e Radio Tre, in questo suo terzo lavoro, edito dai tipi dell’Ancora del Mediterraneo. Leogrande parte da Genova - un seme sotto la neve, che rischia di morire a causa del gelo anziché germogliare - per passare in rassegna alcune tra le esperienze più autentiche di lotta dal basso degli ultimi anni, come la lotta operaia di Melfi nel 2004, cercando di tracciare un quadro coerente che sfocia in una serie di considerazioni cruciali per il futuro della sinistra italiana e internazionale. Unico strumento disponibile, la non-violenza. A patto che
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26 sia attiva: attraverso alcuni ‘eretici’ del novecento, da Ghandi a Don Tonino Bello, da Luther King a Pasolini, Leogrande ridefinisce una prospettiva concreta e di ampio respiro basata su analisi rigorose. Un saggio necessario. Ilario Galati
20 Per Luca 1986-2006 chi non ha memoria non ha futuro AA.VV. Ediz. Socialpress Milano ****
Milano 23 febbraio 1986, Piazzale Lugano, luogo abituale di spaccio, tre persone discutono animatamente da venti minuti alternando urla a botte, due persone fuggono in auto, la terza, l’agente digos Policino, prende la mira e spara, il suo proiettile fugge via e rimbalza. A pochi metri Luca e Dario correvano a prendere la filovia, in comune hanno la passione e la vita, la lotta ed un desiderio, cambiare questo mondo affinché smetta di essere ingiusto e diventi un luogo ospitale e accogliente per tutti gli esseri viventi, umani inclusi. Un millesimo di secondo e Luca incontra il proiettile che non sarebbe mai dovuto partire e che lo ucciderà poco dopo in ospedale. A distanza di vent’anni per ricordare Luca esce questo libro con gli interventi di amici ed intellettuali chiamati a raccontare un percorso comune che caratterizza il libro. La rielaborazione dei materiali raccolti in questi anni, viene pubblicata con un doppio cd musicale con brani di 23 gruppi ed un filmato su Fausto e Iaio del Centro Sociale Leoncavallo uccisi a Milano nel marzo del 1978. Simone
Il Cantico dei Drogati Don Andrea Gallo Sensibili alle foglie ****
Il secondo lavoro editoriale di Don Andrea Gallo prende nome da una canzone di Fabrizio De Andrè il grande profeta laico. Don Gallo da più di trent’anni vive affianco di chi viene colpito dalle sempre più attuali politiche sociali proibizioniste. Uomo di chiesa e di campo, illuminato come pochi, l’autore parte da un presupposto ben preciso: “...le droghe non sono vietate perchè fanno male, ma fanno male perchè sono vietate”. A chi lo accusa di volere una società di drogati risponde che sono stupidaggini. Legalizzare tutte le droghe significa prima
di tutto darsi nuove regole e non significa rinunciare alla costante pratica della dissuasione e della prevenzione che verrebbero affiancate dall’educazione e dalla riduzione del danno. Ridurre il danno vuol dire ridurre le sofferenze individuali e collettive che esso produce, vuol dire non creare cittadini di serie B dai diritti civili sospesi solo perchè assuntori di stupefacenti. Non sono parole dolci nei confronti del proibizionismo, e delle sue dinamiche perverse e dei suoi paradossi. Non ci si spiega perché le droghe più nocive, alcool e psicofarmaci, non sono affatto proibite anzi godono del monopolio dello Stato. È molto realista Don Gallo quando dice che non ci sono ricette magiche ma è necessario superare la logica della terapia autoritaria rendendo il fenomeno gestibile dalle persone che lo vivono e da quelle che con esso interagiscono. Simone
Profilo del dada Valerio Magrelli Laterza ****
Valerio Magrelli è tra i più importanti poeti italiani contemporanei. Ha al suo attivo quattro libri di poesia, l’esordio folgorante Ora serrata retinae, Nature e venature, Esercizi di tipologia e Didascalie per la lettura di un giornale. Nel 2006 uscirà nella prestigiosa collana bianca dell’Einaudi il suo nuovo lavoro in versi. È stato il vincitore dell’ultima edizione dell’Olio della Poesia, manifestazione letteraria che ogni anno si svolge a Serrano. Ma Magrelli, docente di Lingua e Letteratura Francese presso l’Università di Pisa, è anche autore di brillanti saggi critici, due dei quali recentemente dati alle stampe. Profilo del dada, edito in una prima occasione nel 1990 da Lucarini, è stato ripubblicato dalla casa editrice barese Laterza. In questo testo Magrelli, a quasi un secolo dalla nascita del Dadaismo, la più radicale delle avanguardie storiche, si sofferma sulle caratteristiche rivoluzionarie di un movimento che non sembra avere ancora esaurito il suo corso. Il termine dada, casualmente ricavato da “un tagliacarte scivolato incidentalmente tra le pagine del dizionario” (Larousse), fu da subito sinonimo di rivolta furiosa e negazione totale non solo nei confronti della società, ma addirittura nei confronti dell’arte stessa, in quanto pur sempre prodotto della civiltà organizzata. Infatti Dada è anche contro i movimenti artistici contemporanei, è anticubista, antifuturista, antiastrattista, anticostruttivista, Dada è contro l’irrazionalismo e il sentimentalismo degli espressionisti, contro i principi eterni, contro l’immobilismo, contro i proclami
di universalità, contro la perfezione, contro l’ordine, contro ogni tipo di dogma. Fra cronaca e teoria, in questo studio Magrelli ricostruisce la storia di un movimento che sostituì la provocazione alla vocazione, l’operazione all’opera, il gesto al manufatto, fino a toccare il punto estremo dello sperimentalismo moderno. Rossano Astremo
Derisioni notturne Marco Fincardi Edizioni Spartaco ****
Charivari, Rough music, Katzenmusik o scampanata: chiamatela come volete ma la sostanza non cambia. Se il popolo si incazza e scende in piazza inizia a rumoreggiare con tutto quello che trova. La pratica è in voga almeno dal Trecento (anche per motivi molto più futili come feste di matrimonio mal pubblicizzate nel paesino) e ritorna sistematicamente nella storia dei paesi di tutto il mondo. Il femminismo, il movimento del 1977, i disperati del sudamerica e i no global tutti prendono in mano pentole e oggetti “percuotibili” per mettere in scena delle “serenate alla rovescia” (come recita il sottotitolo di questo interessante libro) ricche di rabbia ma anche di umorismo e ironia. Una carica emotiva che viene ripercorsa dall’autore Marco Fincardi attraverso una attenta e dettagliata analisi che passa in rassegna racconti e saggi degli ultimi due secoli, con testimonianze di scrittori e di intellettuali. Un racconto che parte dalla più clamorosa scampanata degli ultimi anni, quella del 13 marzo 2004 a Madrid nella notte che precede le le elezioni che portò alla vittoria di Zapatero contro il premier Aznar, reo di aver accusato ingiustamente l’Eta per la strage terroristica che due giorni prima era costata la vita a circa 200 persone. Qualche scampanata in più anche in Italia non farebbe male. Scipione
L’eterna cosa peggiore Tony Sozzo Lupo editore ***
Ottiero Ottieri l’avrebbe definita “un’irata sensazione di peggioramento”. L’inquietudine di non riconoscersi in quello che ci circonda, di non trovare un ruolo o semplicemente di non accettare quello assegnatoci. Ci si arrovella per capire il motivo, per trovare se stessi e riconoscersi nel mondo. Lo si può fare con l’ironia di Woody Allen o grazie agli insegnamenti dei grandi pensatori. Tony Sozzo in questo suo primo romanzo interroga una storia. L’apparenza di una vita semplice
Coolibrì nasconde uno sguardo attento sul mondo. Spettatore della quotidianità, protagonista e vittima della storia, la voce narrante percorre le vicende di L’eterna cosa peggiore e le esamina, le studia. Ecco che quello che potrebbe essere il classico romanzo di esordio su un lui e una lei e un’estate sullo sfondo si trasforma in qualcosa di più. La prospettiva è sfalsata, non si accontenta di scorci di vita, e scava per trovare risposte. C’è il disagio di sentirsi fuori luogo e fuori tempo, di sentire una passione come quella della scrittura (il protagonista è alle prese con la stesura di un romanzo) non accettata dalla famiglia, dai coetanei. C’è il desiderio celato di essere come gli altri e semplificare le cose ma si è troppo avanti e non si può fare finta di niente. Il primo romanzo di Tony Sozzo è coraggioso, si sposta dalla semplice narrazione per ambire ad altro. Tony è poetico, romantico, ironico, cinico, è bravo. Osvaldo Piliego
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IL RECIDENCE LAF Otto Mesi in Residence è il titolo della nuova pièce di Alessandro Langiu, giovane autore e attore tarantino, esponente del cosiddetto teatro della narrazione. Così come aveva fatto per il suo primo spettacolo, Venticinquemila Granelli di Sabbia, Langiu mette in scena una storia vera, che affonda le radici nel dramma del mobbing: nel 1997 l’Ilva di Taranto, il più grande siderurgico d’Europa, decide di “confinare” alcune decine di dipendenti all’interno della famigerata Palazzina LAF. Si tratta in gran parte di lavoratori “scomodi”, per lo più sindacalizzati, che non avevano accettato la cosiddetta novazione, ovvero la proposta da parte dell’azienda di lavorare con mansioni inferiori a quelle precedenti. Pratica del resto vietata dallo Statuto dei Lavoratori. All’interno della fatiscente palazzina non c’è niente e i lavoratori sono costretti a passare otto ore della propria giornata senza avere la possibilità di lavorare. Parcheggiati, esclusi, ridotti alla stregua di macchine in disuso, vengono vessati sia dai capetti che dai colleghi. Molti di loro si ammaleranno gravemente. Pochi giorni fa la condanna definitiva per violenza privata e frode processuale nei confronti di patron Riva, suo figlio e altri dirigenti. Langiu sceglie un titolo ironico e sagace per raccontare il periodo ‘di confino’ subito da questi lavoratori - la loro quotidianità spesa tra le mura della palazzina attraverso le parole di Cataldo Sancio Parise, un impiegato trentenne che cerca di resistere al tentativo di retrocedere alla qualifica di operaio. “L’idea di lavorare a questo soggetto risale a molti anni fa, quando entrai in contatto con alcune persone che avevano vissuto direttamente quella vicenda. Solo che all’epoca non avevano voglia di parlarne. Era ancora troppo vivo in loro quel ricordo”, sottolinea Langiu. “Un anno fa ho incontrato altri mobbizzati. Abbiamo cominciato a vederci ed è nato Otto Mesi in Residence”. Il residence, appunto, luogo per antonomasia asettico e impersonale: “è un non-luogo, un posto che tu riempi per un tempo limitato e quando andrai via tornerà ad essere tale e quale a prima”. Una forma di violenza tale che in molti fecero fatica anche solo a capire: in Italia si cominciò a parlare compiutamente di mobbing solo dopo che la storia di questi lavoratori “indesiderati” acquistò spazio sui quotidiani e sui media in genere, il che avvenne piuttosto in ritardo. “Gli stessi lavoratori non capivano quello che gli stava succedendo” continua Langiu, che in quel periodo sente la necessità di incontrare due personaggi chiave di questa vicenda: il pm Franco Sebastio e la psichiatra Marisa Lieti. “Grazie a loro ho compreso il meccanismo che c’era dietro questa violenza, sul piano giudiziario e su quello psicologico. In particolare la dottoressa Lieti mi ha permesso di vedere le ragioni che alterano in maniera importante l’esistenza delle persone”.
Una storia paradigmatica, che nasce nell’acciaieria di Taranto ma che potrebbe benissimo essere stata vissuta dagli operai di Porto Marghera piuttosto che dagli addetti della Fiat di Melfi: “Anche di fronte ad una platea estranea al contesto che racconto non sento la necessità di introdurre il tema, perché purtroppo l’esperienza della disperazione legata a vicende del lavoro è tutt’altro che ignota. C’è anche un importante precedente storico, quando nell’80 la Fiat avviò la cassa integrazione guadagni che provocò – si stima - il suicidio di circa 160 lavoratori e il fortissimo ricorso alle cure del Centro di Igiene Mentale di Torino da parte dei cassintegrati”. Sono vicende dolorose da ascoltare quelle narrate da Langiu, in primis per coloro i quali hanno vissuto vessazioni di questa portata. “Il mio raccontare è intimamente legato alle cose che vedo, ai luoghi che mi appartengono, al mio territorio, ma il mio modo di fare teatro coincide naturalmente con la mia visione politica delle cose. Cerco di fare oggetto di discussione vicende che sono portatrici di violazioni di diritti o di luoghi” conclude Alessandro, “anche perché il mio territorio continua a subire imposizioni che vengono dall’alto, vedi la questione del rigassificatore che vogliono fare a Brindisi o a Taranto”. Una pagina di soprusi e abusi che Langiu racconta con competenza e passione, facendo comprendere compiutamente il grado di violenza celato dietro comportamenti di esclusione che hanno avuto ripercussioni serie sull’integrità mentale dei “reclusi”. Una ferita che avrebbe potuto restare aperta se la Cassazione non fosse intervenuta in via definitiva. Tra due mesi sarebbe infatti arrivata la prescrizione. Ilario Galati
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METTERSI NEI PANNI DEL Intervista ad Alessandro Golinelli
Pubblicato lo scorso anno da Marco Tropea Editore, Le rondini di Tunisi è uno dei pochi romanzi italiani dedicati alla delicata questione dei rapporti tra il nostro paese e quelli del Maghreb. La chiave usata da Alessandro Golinelli per narrare le vicende di un gruppo di giovani tunisini ci è sembrata particolarmente giusta: non ci sono né un giudizio precostituito né un’ostilità irrazionale, naturalmente, ma neppure il pietismo e il buonismo di chi parla e scrive senza conoscere la realtà. Di questo e di Fi Jerda (“Al campetto” in arabo), il lungometraggio in digitale realizzato con un budget ridottissimo dallo stesso Golinelli con Rocco Bernini, abbiamo parlato con l’autore. Le rondini di Tunisi nasce evidentemente da una conoscenza profonda della realtà del Nord Africa. Da quanto tempo frequenti quest’area geografica e culturale? In realtà quando ho cominciato a scrivere il libro nel 2004 non era molto che frequentavo il Maghreb. Ci ero stato come turista e ne avevo già anche parlato in un lungo capitolo di Come ombre, Le petit voleur de Bagdad, ma poi ho avuto l’occasione di conoscere molto bene alcuni ragazzi arabi qui in Italia e di frequentare a lungo la Tunisia e le loro famiglie, ho preso una casa lì, ho imparato l’arabo abbastanza decentemente, e ho studiato, letteratura araba, sociologia, storia...Insomma ho fatto un lavoro di ricerca e... Quello che colpisce di più nel libro è il punto di vista. Non è il nostro, quello occidentale di scrittori come Paul Bowles o André Gide, ma quello dei giovani arabi che si confrontano con il cosiddetto “mondo civilizzato”. Come sei riuscito in un’impresa così difficile? Mettersi nei panni dell’altro è il modo migliore per costruire una morale che non sia fanatica. Lo suggerisce il filosofo ebraico Franz Rosenzwaig, e anche Gesù Cristo... Ma è anche il processo fondante la grande letteratura dell’Ottocento e non solo, penso soprattutto ai grandi romanzi di Manzoni, di Dostoevskij e Tolstoj, o anche Flaubert e Balzac, solo per citarne alcuni. La letteratura contemporanea invece, soprattutto italiana e americana, si concentra sull’ombelico dell’autore con la presunzione che sia, per citare Jovanotti, l’ombelico del mondo. Credo che ci siano temi più interessanti che l’ombelico di uno scrittore occidentale, fra questi il confronto con la cultura dei nostri vicini arabi, e non solo per la sua attualità. Quando ho deciso di affrontarlo però mi sono trovato di fronte a un bivio che sembrava irrisolvibile. Venivo da un paio di anni di studi sulla globalizzazione che poi ho riassunto in una saggio, “Il volo di Margherita”, che si può leggere sul mio sito, (wwww.alessandrogolinelli.it). Quegli studi mi hanno permesso di rileggere la mia cultura come occidentale, appunto, e non assoluta. Una cultura in cui mi riconoscevo, sì, ma di cui non condividevo più tutti gli aspetti. Non volevo quindi scrivere una
storia dal punto di vista occidentale. Ma non potevo nemmeno scrivere una storia dal punto di vista degli arabi, perché non sono arabo, anche se lo sono i miei personaggi. E nello stesso tempo mi dicevo che in fondo se uno vuole leggere una storia araba si può leggere gli originali. Il mio pubblico è occidentale. Ho introdotto così la figura del finlandese, una sorta di mediatore di interprete fra le due culture. In ogni caso ho ambientato la storia lì. Il qui del libro, che si doveva chiamare Qui e altrove, è appunto laggiù, mentre l’altrove è l’Italia, Milano in particolare. Ho quindi cercato di dare il punto di vista di un luogo, attraverso le voci di personaggi, anche occidentali, e cercando di mettermi nei panni di chi viveva laggiù, pur senza perdere la mia identità gay, atea, comunista, spregiudicata se vogliamo. Oltre alla dialettica tra i personaggi laddove quello che potresti essere tu, “il finlandese” è un po’ defilato - ce n’è anche una tra i luoghi, tra il sole della Tunisia e il grigiore di Milano. Pensi che la perdita di calore e di umanità delle nostre città sia irreversibile? Sì, lo è. Ma gli extracomunitari, come i meridionali di un tempo, questo calore ce lo riportano. Un romanzo come Le rondini di Tunisi può essere molto più utile di un saggio per aiutare la comprensione reciproca tra due culture che molti vorrebbero contrapposte. Cosa ne pensi? Spero che lo sia, era nelle mie intenzioni. Non credo però nemmeno che si possa parlare di due culture. Credo che si possa parlare di differenze all’interno della cultura occidentale mediterranea e non. Io per cercare di mettermi nei panni di laggiù sono ricorso anche ai ricordi dell’infanzia, quando abitavo in un paesino delle cinque terre in Liguria. Se le due culture fossero davvero così differenti forse non ci sarei riuscito. Hai avuto la sensazione che di questo libro non si sia parlato abbastanza proprio per il clima di intolleranza che si vive in molte parti del nostro Paese? Non dico censura, ma... quasi? C’è molta censura. Sorvolo sul fatto che continua il pregiudizio sugli scrittori gay, da parte di molta critica siamo ritenuti di per sé poco interessanti e comunque si ritiene che non abbiamo nulla da insegnare agli etero o che i nostri temi non siano universali... Ma in questo caso c’è di più. Io non ho descritto gli arabi come degli integralisti fanatici – come servirebbero per la destra - e nemmeno delle vittime totali, morte di fame e che suscitano pietà come servirebbe o piacerebbe a certa sinistra. Nemmeno li ho fatti dei delinquenti totali. Li ho descritti come persone diverse, che amano scopano, trasgrediscono, e fanno tutto quello che fanno i giovani della loro età e della loro classe sociale. E questo è scomodo. In più poi li ho fatti vedere come persone che fuggono dalla dittatura in cerca di libertà e trasgressione e questo è scomodo perché certe dittature piacciono
alla destra, perché tengono a bada gli islamici, e alla sinistra perché si vantano di essere arabi moderni e islamico moderati e quindi... Poi chiaro, non è che non se ne è accorto nessuno, anzi... Però la cultura soprattutto di sinistra mi sembra che insegua un po’ troppo le mode falso trasgressive americane per sentirsi più moderna, forse... Come pensi sia stato possibile per un popolo di emigranti come quello italiano dimenticare la sua storia per approdare in alcuni casi al razzismo? Gli europei hanno la memoria cortissima. Anzi gli occidentali ce l’hanno. E non potrebbe essere che così per una cultura che si vanta di cambiare e di essere sempre più avanti delle altre. Guarda cosa è successo con l’olocausto. Fra un po’ sembrerà che sono stati gli arabi a costruire i campi di sterminio, e non i tedeschi cristiani... In Italia poi c’è anche il fattore Lega. Un partito xenofobo e razzista che è stato portato al governo da Berlusconi, per i suoi interessi, cosa che in altri paesi normali non sarebbe potuto succedere. In Italia c’è al governo una destra becera e cafona, che si vanta del proprio razzismo. Si danno targhe premio a personaggi come la Fallaci che si meriterebbe solo una lapide... Ci sono organi di stampa come Libero o la Padania che inneggiano alla guerra santa e allo scontro di civiltà, e tutto per creare un capro espiatorio da usare per mantenere il potere. Ma è un discorso lunghissimo... Cosa pensi del cosiddetto turismo sessuale? E’ dai tempi di Oscar Wilde e André Gide
( A lessandro
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LL’ALTRO
lessandro golinelli )
che il Maghreb è meta prediletta da molti omosessuali. Proprio come lo era l’Italia nell’Ottocento e ai primi del Novecento. Il turismo è sempre sessuale. O meglio lo è quello giovanile o dei single. Si parte sempre in cerca di un’avventura. O comunque spesso. Sennò perché andare a Ibiza, Mikonos o anche a Rimini? Però, anche se la modernità sta cambiando le cose, in Nord Africa è particolarmente facile avere un’avventura sessuale. C’è una sessualità repressa e sfrenata allo stesso tempo e... Insomma il mito dell’arabo macho persiste ancora. Certo ora, rispetto ad alcuni anni fa, soprattutto nelle città, il denaro conta molto. Ma spesso è una scusa e comunque non si paga mai qualcuno perché altrimenti muore di fame, ma solo per qualche vizio, una maglietta o magari la ricarica del cellulare. E se pur meno di prima c’è anche moltissimo sesso solo per piacere... Pensi che le popolazioni del Nord Africa riusciranno a mantenere una loro identità e una loro purezza nello scontro/confronto con il consumismo occidentale? Ovviamente no. Certo stanno cercando una loro strada, ma noi cerchiamo di impedirglielo, di far prendere a loro la strada che ci è più comoda e redditizia. Ma questo è un discorso davvero troppo complesso per riassumerlo in poche righe. Posso solo dire che però se noi pretenderemo che tutti prendano la nostra stessa strada non arriveremo da nessuna parte. Giancarlo Susanna
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IL DOLORE NELLA PROSA NITIDA DI GABRIELE DADATI Sorvegliato dai fantasmi, questo il titolo scelto da Gabriele Dadati per la sua ultima fatica, una raccolta di nove racconti più una lunga dedica finale alla madre, edita da peQuod. Le storie narrate da Dadati non appartengono a un unico universo. In questo libro si incontrano scenari di vita quotidiana: una madre e il suo delicato rapporto di amore e gelosia con il figlio, il ricordo amaro e sarcastico di un amico scomparso, la lenta agonia di un vecchio narrata da un giovane medico, la struggente elegia dell’amore materno di una giovane donna con l’illusione di una vita migliore. Ma ci si imbatte anche nel lucido delirio di una dottoressa italiana in un panopticon su un’isola greca, nelle disarmanti dissertazioni teologiche di un carcerato, nella vera arringa di difesa di Charles Manson dopo il massacro di Cielo Drive. Mille altre storie potevano emergere dalla penna dello scrittore. Quel che unisce i frammenti è la mirabile capacità narrativa di Dadati di scavare senza remore nelle profondità dell’animo umano. Quello di Dadati è talento innato nel comporre ritratti nitidi e implacabili. Vita e morte, sentimenti, desideri, illusioni, ipocrisie sono mostrati con un’evidenza che atterrisce, grazie a una scrittura dominata da una cruda e gelida eleganza. Nella successione delle storie, in cui si alternano il tema della nascita, della famiglia, della morte, il dolore è una costante che sembra ritmare lo scorrere delle pagine… Sì, c’è il dolore di cui parli, certamente. È un dolore simile a quello che prova chi ha avuto una gamba ingessata e poi deve tornare ad usarla. Prova un dolore sordo e costante, non lancinante e improvviso, ma prova dolore ogni volta che appoggia il piede. Questo dolore è “positivo”, perché diventa il tramite per raggiungere un risultato. È il dolore della “crisi”, che significa prima di tutto “cambiamento”. Cambiare stato significa affrontare fratture e ricomposizione, quindi dolore, ma può portare a una “vittoria”, a un traguardo. I personaggi del mio libro sono identici a città che siano state assediate per anni: a un certo punto riescono a rompere l’assedio, spalancano le porte e sentono una forte vertigine. L’aria fresca li stordisce. S’era persa l’abitudine. E questo è doloroso. Ma quando riescono a riprendersi, quando la città impara a usare i propri polmoni, non c’è niente di più bello. Per i miei personaggi è così: anche se non sempre “vincono”, sempre ci provano, nonostante il dolore. La loro cifra non è il nichilismo, ma una vitalità irriducibile. Un altro elemento davvero gradevole della tua raccolta di racconti è la semplicità e chiarezza stilistica. Mai un periodo che stona, tutto sembra sempre essere calibrato alla perfezione. Come si raggiunge un livello di scrittura così razionale? Per quel che riguarda questo libro ti dirò: volevo affrontare delle cose difficili come il processo Manson, il manicomio dell’isola di Leros, la vita di coppia, la morte dopo una lunga malattia ecc. e sapevo di poter essere in ogni momento contestato. Parlare
del rifiuto di una madre per il figlio o della difesa che Manson si sarebbe meritato in tribunale è molto contestatibile. Allora ho cercato una lingua lenta, che procedesse per successive variazioni, passettini in avanti e non slanci improvvisi, in modo da creare una maglia dove anche gli anelli deboli del ragionamento venissero nascosti. La lingua è la mia corazza. Ho rivisto la prosa mille volte: dovevo essere inappuntabile per far valere le mie ragioni. La scrittura per me è un fatto etico e civile insieme, oltre che artistico. Nel libro c’è un racconto che è una sorta di riscrittura di L’avventura di due sposi. Quanto conta Calvino nella tua formazione e quali sono i maestri nei confronti dei quali ti senti debitore? A parte il Calvino resistenziale, il resto non mi appassiona. Amo tanti altri scrittori. Diciamo Cechov e Dostoevskij (e chi non li ama?), Dagerman e Bernhard, fino ad arrivare a Dino Buzzati per esempio. Tra le cose che ho letto di recente mi sembra bello l’ultimo Bret Eston Ellis, Lunar Park. Detto questo, non so se sono i miei maestri. Perché nella mia testa saranno annidati anche i mille libri che non ho amato, oppure i mille che ho trovato onesti ma non eccellenti, e quando devo scrivere magari agiscono anche quelli, e in maniera determinante. Del resto come chiunque ho letto molti più libri superflui che libri determinanti nella mia vita e tutto questo è il mio patrimonio. Stai già lavorando ad altri libri? Sto scrivendo un romanzo. Per adesso si chiama Falsopiano, è ambientato nel dicembre di un imprecisato anno dopo il 2000 e parla di cinema, rapporti di coppia e apocalissi imminenti. A un certo punto piovono anche delle rane. Rossano Astremo
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I FUGAZI MI HANNO SALVATO DALLA CALVIZIE Ebbene si, lo devo ammettere, credo proprio che siano stati Ian MacKaye e soci a salvarmi da una prematura caduta dei capelli…vi spiego come: musicalmente la fine della beata fase dell’infanzia, subito dopo le prime grosse pulsioni ormonali gentilmente concesse da Madonna, aveva un solo nome: metal! In fondo, chi di noi non è mai stato metallaro, almeno per un giorno? Dai su… Io si, io lo sono stato, e di conseguenza i miei capelli erano lunghi e selvaggi (e tanti…). L’opera era ovviamente completata da tutto ciò che serve ad un metallaro per potersi identificare come tale: giubbotto chiodo, vestiti neri, toppe ovunque e magliette con scritte allucinanti. La mia t-shirt dei Napalm Death era come una continuazione della mia pelle, semplicemente un ultimo strato epidermico superficiale di cotone, ormai in grado di sudare e puzzare. Le scritte sulle maglie erano enormi, un metallaro lo riconosci anche da un elicottero in volo… Anche il logo Godflesh sulla mia maglia era impressionante: una volta mi apparve Dio in sogno e mi disse: “Ennio! Perché hai il mio nome stampato così in grande sulla maglia?” Vaglielo a spiegare. Ma torniamo ai capelli. I capelli lunghi rimangono il marchio di fabbrica dei metallari (superficialmente come la cresta per il punk old school, il pitbull per il punkabbestia, l’aria scazzata per il nerd indie rocker, i vestiti 16 volte più larghi per i b-boys, ecc…): più sono lunghi più sei metal! Inoltre, a seconda di come li acconci,
puoi far capire la tua reale inclinazione: lunghissimi incontaminati per death metal e grind core, frangettone per glam rock e street rock, doppio taglio interno per metal core tecnologico, ecc… Agitare testa e capelli al ritmo di musica metal (head banging) diventa la tua occupazione principale, il reale motivo per cui li hai cresciuti, ed eccoti pronto ad agitare la testa ai concerti, in casa con lo stereo alto, in autobus, in classe durante la lezione, in fila alla cassa al discount… Anche per me tutto questo è stato bello ed avvincente. Però purtroppo questa non è una storia a lieto fine, agitare i capelli conduce a dei risvolti tragici: il cuoio capelluto si indebolisce, il capello si sfibra e le prime timide stempiature lasciano spazio a danni irrecuperabili per i capelli (per non parlare dei muscoli della cervicale, i miei ad esempio sono stati totalmente compromessi dall’uscita del doppio Lp dei Metallica: And Justice for All). I primi rimedi sono quelli più immediati: un uso smodato della bandana alla Axl Rose, convincendo gli amici che il rock dei Guns’n Roses non è mai morto e che tu sei li in attesa dell’uscita del nuovo album; indossare occhiali da sole giganteschi alla Slayer, alti fino alla fronte, un po’ perché in fondo il trash metal lo hanno inventato loro, e poi perché il sole, nonostante siano le 23, vi da fastidio. In ultimo arrivano drastiche pelate a zero dei capelli, accompagnate da scuse terribili: “sai…ho trovato lavoro, così con questi soldi mi seguo tutta la tournee cilena degli Iron Maiden…e quindi li ho dovuti tagliare…”, oppure patetiche arrampicate dal sapore moralista: “…nonostante io sia rasato mi sento metallaro dentro!”, oppure: “…non sono i capelli lunghi che ti rendono metallaro”, frase con la quale nei paesi Nord europei, ad alta densità di metallo, si rischia una denuncia! L’ultima fase, in ogni senso, è quella del cappellino: i capelli cadono? Io indosso sempre un berretto! Precisamente un berretto di lana nero d’inverno ed un berretto con la visiera in primavera-estate, cappello che nasconde e maschera la caduta lasciando fieramente uscire i capelli (ancora) lunghi da dietro (alla Hulk Hogan, per intenderci). E quindi ti ritrovi in spiaggia amici metallari (sempre bianchi, il vero metallaro
( sopra i F ugazi , in basso a sinistra axl roses )
respinge i raggi del sole) che indossano cappellini con visiera degli Impaled Nazarene anche per tuffarsi dagli scogli, oppure in giro durante splendide giornate primaverili che indossano per sbaglio il cappello di lana nero (“quando sono uscito da casa faceva freddo…”) e sudano come Galeazzi + Iggy Pop + Paolo Bonolis. Ma io no. Io non ho ceduto a tutto questo, la mia curiosità mi ha spinto oltre. Il perché è scritto nelle note e nei testi dei Fugazi, di 100% dei Negazione, nei dischi degli Agnostic Front e non solo. Ancora diciottenne e vagamente votato al metal core tecnologico industriale, e soprattutto capellone, mi spingo verso la gloriosa scena Hard Core Do It Yourself legata alla masseria Maizza di Fasano, dove incontro gente con tagli di capelli regolarissimi che ascolta musica molto più interessante di quella che mi sorbivo allora quotidianamente. Lo stesso anno ho la fortuna di conoscere di persona a Roma l’assoluto Mick Harris, ex batterista tornado dei Napalm Death, e mi stupisco di trovarlo totalmente disincantato e con un taglio di capelli regolare. Basta! Taglio tutto! Ed oggi, quando con i vecchi amici metallari (praticamente una fase della vita) ricordiamo i concerti visti insieme di Metallica, Sepultura, Confessor e molti altri sono uno dei pochi a pettinarsi un po’ prima di uscire da casa e puntualmente strizzo l’occhio specchiandomi nell’ingresso del mio appartamento sussurrando con un ghigno allegro: “Grazie di tutto Ian!”. Ennio Ciotta
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Il caimano Nanni Moretti Sacher Film **** 1/2
Il caimano è un animale simile al coccodrillo, di dimensioni inferiori ma al pari di esso vorace e lesto. Spietato e dalla stretta mortale il caimano non mangia, divora. E non si sazia mai. Ci sono film che vedono nascere il loro titolo ancor prima della sceneggiatura e di sicuro l’ultimo lavoro di Moretti è uno di questi. A distanza di ben cinque anni dall’intimo La stanza del figlio, Il caimano invade le sale e fa subito centro. A prescindere dalla propria fede politica. Notoriamente Moretti non è uno dei più stretti amici del Premier, ma al di là dell’aspetto propagandistico, il film è un piccolo gioiello per forza evocativa e livelli di lettura. Tanto che definirlo schierato sarebbe umiliante, sia per il film stesso oltre che per la propria coscienza critica. Il caimano è un lavoro che riesce nello stesso momento a parlare spedi-
Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico
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il cinema secondo coolcub
tamente più lingue, a riflettere su una nazione allo sbando come sul cinema, passando per una vicenda come tante. La storia da cui si dipana il tutto è quella di Bruno Bonomo (uno straordinario Silvio Orlando), produttore in crisi che negli anni ’70 aveva regalato al cinema italiano film di genere come Cataratte, Mocassini assassini e Maciste contro Freud. La sua vita va a rotoli e in poco tempo perde una moglie da cui si separa (Margherita Buy, che nei panni di Aidra è anche interprete di uno dei suoi film) e due figli da cui deve gioco-forza allontanarsi. Un giorno alla sua porta bussa la giovane regista Teresa (Jasmine Trinca) che gli sottopone una sceneggiatura, che però lui vede a suo modo. Come fosse uno dei film da lui prodotti. Se ne appassiona fino al momento in cui scopre che quello è un film su Berlusconi.
Per giunta proposto proprio a lui, che l’ha pure votato. Comincia così una interminabile sequela di sintomatici problemi che va dal rifiuto della RAI alle defezioni dell’attore Marco Pulich (Michele Placido), attore-sindacalista rivelatosi poi un abile calcolatore, e del produttore polacco Sturowsky, acerrimo critico e occhio straniero di un’Italietta divisa tra “orrore e folklore”. Come se non bastasse le banche premono e decidono la fine del tanto amato teatro di posa. Non rimane che rimboccarsi le maniche. E se non si può girare il film, c’è almeno tempo per riprenderne una di scena, quella finale. Che esprimerà si un verdetto, ma anche l’amara verità. Quella di un Paese allo sfascio che è talmente intontito da sogni e promesse, da non accorgersi delle proprie miserie. Michele C. Pierri
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Transamerica Duncan Tucker DNC
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Bisogna essere per forza una brava attrice per interpretare il ruolo di un uomo che cerca disperatamente di sembrare una donna. È il caso di Felicity Huffmann in Transamerica (debutto cinematografico del regista Duncan Tucker) grazie alla cui interpretazione, lo spettatore, troppo impegnato ad osservare il suo curioso personaggio, non soffre troppo una trama, e soprattutto una sceneggiatura, alquanto scontate. Il tema, la transessualità, è decisamente di quelli delicati, che il regista riesce comunque a trattare con la dovuta attenzione alle relative problematiche. È la storia di Bree (un tempo Stanley), a un passo dall’operazione di redifinizione sessuale (ovvero l’eliminazione dell’odiato attributo che gli impedisce di sentirsi completamente donna) che qualche giorno prima scopre di avere un figlio nato dalla sua unica relazione eterosessuale. Recuperare il rapporto con il figlio Toby, dopo averlo prelevato dal carcere minorile di New York, è la condizione necessaria per ottenere il consenso all’operazione dalla sua psicanalista. Spacciandosi per una missionaria della chiesa del “Padre potenziale”, Bree accompagnerà Toby a Los Angeles in cerca del padre. Si dipana così il classico “road moovie” che da New York a Los Angeles vedrà passare i due protagonisti dagli iniziali contrasti alla reciproca e profonda conoscenza di se stessi chiudendo i conti con il passato che, per Bree, consistono in una pittoresca madre che ha sempre condannato la sua “vergognosa scelta” con la classica frase “perchè ci hai fatto questo?” e per Toby nell’incontro-scontro con il patrigno, origine e causa della sua attività di marchettaro per mantenersi nella grande mela. Maniacalmente ossessivo il ritocco di Bree al suo mack up, sotto i cui centimetri di fondotinta e cipria c’è ancora uno Stanley che affiora solo in una frazione di secondo, quando ad una scandalosa affermazione del figlio, vinta dallo sconforto, cade a sedere sul letto in “stile camionista” mandando a quel paese la donna colta e raffinatissima frutto di un lungo autoammaestramento alla femminilità. Alla fine la morale è sempre quella; forse siamo il prodotto della nostra famiglia (o di quello che ci ha fatto, la nostra famiglia) e che bisogna accettare gli altri per quello che sono, così, nel finale è possibile impachettare il ritorno alla quotidianità in un grottesco, paradossale e tuttavia sereno: va bene che quello che era tuo padre adesso è una donna, va bene pure che tuo figlio ha finalmente realizzato il sogno di entrare nel mondo del cinema porno, ma i piedi sul tavolino proprio no. Cinzia Dilauro
Come a Cassano Pippo Mezzapesa ITC Movie ****
Sono circa le 21 al cinema Kursaal Santalucia di Bari. È il 9 marzo e fuori fa un freddo che ti entra nelle ossa, ma non importa. La sala è gremita. Si aspetta Cassano. Almeno idealmente. Già perché Cassano, il talento di Bari Vecchia almeno per questa volta non verrà. È in Spagna a rincorrere sogni più grandi di chi come me ricorda ancora il suo gol all’Inter che gli ha aperto le porte del calcio che conta. Quello dei miliardi e delle veline. E non basteranno pochi fischi a un Antonio Matarrese appassionato a rovinare una serata che serve più a celebrare una città che un giovane campione. Che di crescere c’è sempre tempo. Calano le luci in sala, dove va in scena il cortometraggio Come a Cassano, mossa azzeccata del venticinquenne regista bitontino Pippo Mezzapesa (vincitore due anni fa del David di Donatello con il corto Zinanà) che decide di raccontare la storia del fuoriclasse barese vista dagli occhi di chi, malgrado la passione, fuoriclasse non sarà mai. Tra un vicolo e una lattina calciata, la musica degli Officina Zoè fa da giusto contorno a un Sud raccontato in maniera vivace ma malinconica e interpretato da Vincenzo De Benedictis (nel ruolo di Cassano), Alberto Rubini, Dino Abbrescia e Lia Cellamare. Si riaccendono le luci e gli applausi scrosciano. E a tutti piace pensare che Cassano sia lì a godersi quel momento. A scambiare due passaggi con tutti quelli che lo amano e coi ragazzini che in lui si immedesimano. Perché se il talento non si trova per strada, è lì che spesso nasce e si alimenta. Come nel caso di questo campione tanto discusso quanto amato che nel buio di un vicolo ha saputo trovare la sua croce, ma anche la sua delizia.
V per Vendetta James McTeigue Warner Bros ****
Ispirato all’omonimo fumetto di Alan Moore e David Lloyd, V per Vendetta è la nuova produzione dei fratelli Wachowski, autori della famosa trilogia di Matrix. Nonostante rispecchi il suo originale cartaceo, il film è stato disconosciuto da Moore. V per Vendetta è ambientato in una Inghilterra che, in seguito a gravi eventi di livello mondiale, è ormai sotto un regime totalitario e dove un solo uomo decide il bello ed il cattivo tempo arrogandosi anche il diritto di trattare i cosiddetti “diversi” come pure e semplici cavie da laboratorio. Ma è proprio in una di queste prigioni/lager che nascerà il nemico del cancelliere Satler, ovvero V. Un misto tra un eroe che si erge a difensore della giustizia e della
libertà e un terrorista che non sdegna l’uso della violenza estrema; questa è l’impressione che dà l’uomo nascosto dietro la maschera di Guy Fawkes, ma a voi la scelta di considerarlo l’uno piuttosto che l’altro. Ottimo il cast con la perfetta interpretazione del tiranno da parte di John Hurt (il cancelliere Satler) e quella di Stephen Fry (il Comandante Deitrich); Nathalie Portman dà passione alla sua “eroina per caso” (Evey Hammond) e come non definire fantastico il ruolo di Hugo Weaving, alias l’Agente Smith in Matrix e Re Elrond ne Il Signore degli Anelli, che, costretto a recitare con il volto nascosto dietro una maschera, riesce comunque a dare carattere e forza al suo personaggio. Ricordandovi quindi che nel frattempo è in produzione un’altra opera di Moore, il fumetto cult Watchmen, non mi resta che dirvi: “Remember, remember the fifth of November”. Roberto Pasanisi
Radio America Robert Altman
Un grande maestro, quest’anno Oscar alla carriera, continua a raccontare i suoi Stati Uniti. Nel film un programma radiofonico, arrivato ormai all’ultima puntata, si appresta a regalare l’ultimo show. Nel cast Woody Harrelson, Tommy Lee Jones, Meryl Streep e Kevin Kline.
Le particelle elementari Oskar Roehler
Arriva dalla Germania Le particelle elementari, interessante lavoro di Oskar Roehler. Michael e Bruno, due fratellastri, sono completamente diversi. L’unica cosa che hanno in comune è la madre. Con Franka Potente, salita alla ribalta con Lola corre.
Mater natura
Massimo Andrei
Desiderio é un transessuale napoletano, non troppo fortunato in amore, che insieme ad un gruppo di suoi amici travestiti da vita ad un centro di agricoltura biologico e un consultorio psicologico per aiutare uomini con diversi problemi. Con il neocandidato in quota rifondazione Wladimir Luxuria.
Il grande nord Nicolas Vernier
Dopo l’acclamato premio Oscar La marcia dei pinguini arriva nelle sale un nuovo documentario francese diretto questa volta da Nicolas Vernier. Norman Winther è uno degli ultimi cacciatori a conservare un rapporto con la Natura. Ci conduce alla scoperta di un mondo ritmato dal respiro delle stagioni e immerso in scenari di una bellezza celestiale.
CoolClub .it NUOVE E VECCHIE STELLE DI NAPOLI 33
Intervista a Francesco Di Bella dei 24 Grana In occasione del suo ritorno sui palchi con Napoli All Stars abbiamo incontrato Francesco di Bella, voce e anima dei 24 Grana, band napoletana che ha segnato la nascita di una seconda generazione del rock partenopeo. Da sempre avvezzi ai mutamenti e agli spostamenti i 24 grana sono stati i lucidi testimoni, con parole e musica di una stagione della musica italiana. Abbiamo chiacchierato di musica, luoghi, della scena napoletana, di progetti e Posse. È da un po’ che non si sente parlare di 24 Grana discograficamente parlando, credo la vostra ultima uscita sia la ristampa di Metaversus. Cosa bolle in pentola? Esattamente, in realtà al momento siamo un po’ abbottonati sull’argomento, e anche un po’ scaramantici, quando c’hai il colpo in canna aspetti il momento buono per spararlo. C’è qualcosa che sta nascendo e prendendo forma ma è presto per parlarne. I 24 grana comunque non si sono mai fermati, i live continuano. Ci parli un po’ del senso di questo super tour? Napoli All stars è un progetto a cui stiamo partecipando insieme a Zulù, Almamegretta, Bisca, Daniele Sepe e molti altri. Siamo in tour tutti insieme, sullo stesso palco. È molto divertente, nasce dall’idea di fare session; al momento i vari set live sono separati con delle incursioni ( io ad esempio canto una canzone con gli Alma). L’idea è che questo mescolarsi di formazioni prenda sempre più forma, che ci sia più scambio tra i vari progetti. La cosa bella è che oltre a ritrovarci tutti sotto la stessa agenzia, siamo comunque in sintonia, sulla stessa lunghezza d’onda. La formula sta avendo molto successo, è bello poter suonare davanti a molte persone, il pubblico è la somma di quello che segue i vari artisti, e c’è una grande risposta. È come se sul palco ci fossero almeno due generazioni della scena napoletana. Si hai ragione, è proprio così, ma la cosa che ci accomuna è lo spirito che ci spinge a fare quello che facciamo, quello non è cambiato nel corso degli anni. I 24 grana nascono all’incirca nel ’95
( F ran C ees C o anno in cui il sodalizio 99 Posse e Bisca si scioglie, cosa ricordi di quegli anni, del centro sociale officina 99? Se ripenso a quegli anni mi rivedo assorbito da quel tipo di stile. Era molto forte politicamente. C’era un’energia speciale, era un luogo dove convergevano identità diverse, un ambiente da cui prendevi molto per poi partire per la tua strada. Poi è stato un luogo che per una serie di motivi ebbe una grande visibilità (il tour dei Bisca con i 99 Posse ebbe un successo incredibile). In questo senso per noi proprio l’album Metaversus è stato il momento di frattura musicale e non solo, in un periodo forse simile a quello dei primi 90 dal punto di vista politico. Quali altri gruppi e movimenti ci sono a Napoli, c’è una scena o quel fermento degli anni 90 non esiste più? La situazione è a macchia di leopardo, ci sono una serie di realtà anche interessanti ma slegate tra di loro. Poi la città è molto cambiata nel corso degli anni, è decisamente meno accogliente. Tutto alla fine nasce come reazione agli spazi che ti sono stati privati, spazi in cui stare insieme, confrontarsi, creare. Questo numero del giornale è dedicato ai luoghi e ai non luoghi, credi che i luoghi di Napoli i centri sociali abbiamo ispirato e influenzato il suono tipico di molte delle cose che vengono dalla tua città? Beh si ... considera che i centri sociali
di bella ) sorgono quasi sempre in fabbriche in disuso, vecchie scuole. Questo tipo di ambiente ha il più delle volte un suono metallico, grandi riverberi. Chi suona in questi luoghi non può non essere influenzato da questo design sonoro, da questi paesaggi. Il centro sociale è di per sé spoglio e fu molto impegnativo per noi concepire, creare un suono che lo rendesse bello che lo arredasse, che ci stesse bene. E i luoghi in genere credi abbiamo un’influenza sulla musica? Con il tempo cominci a prendere confidenza con i luoghi in cui fai musica. Io ad esempio vedo il palco, il luogo fisico in cui ci muoviamo quando facciamo musica, come un’astronave, una navicella. Da qui osserviamo il mondo, la nostra città, l’altrove che è sempre diverso, reagisce e ti influenza. Molte cose si capiscono quando si cambia luogo, c’è una necessità di spostarsi. Una nostra canzone recita “la strada giusta è quella che non si ferma mai in una casa”. Quando sarete di nuovo dalle nostre parti? Per il momento non abbiamo date giù nel Salento, la tappa più vicina è quella a Bitritto del 22 Aprile. Poi sarò in giro anche con un altro progetto che porta il mio nome. Una cosa più acustica, una sorta di rallentamento della narrazione, una nuova formula che sto portando in giro con altri musicisti. Osvaldo Piliego
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ARCTIC MONKEYS: LA FORZA DELLA RETE Nati e “cresciuti” nella rete, il nuovo luogo e frontiera della comunicazione e della musica, gli Arctic Monkeys, come i Claps your hands say yeah (di cui abbiamo parlato nel numero di marzo), sono diventati famosi ancor prima di aver pubblicato il loro disco di esordio. Il passaparola degli internauti, il file sharing, siti come myspace hanno decretato un successo clamoroso. Segno che i tempi sono maturi per tralasciare il tanto amato supporto e per ragionare di mercato internazionale e slegato dal potere del marketing e della comunicazione tradizionale, delle radio e delle tv musicali? Un nuovo luogo dove anche le più piccole band, senza alcun “lancio” possano incontrare il loro pubblico? Carlo Chicco ha incontrato il gruppo e ha posto ai quattro ragazzi alcune domande. Il vostro primo disco è uscito a cavallo tra il 2005 e il 2006. È stato strano essere inseriti nelle statistiche come rivelazione del 2005 e poi subito dopo come promessa del 2006? È strano, lo so! Perché ufficialmente siamo una band del 2005 ma allo stesso tempo anche una band del 2006… perché no, non mi dispiace. Credi che aver avuto così successo sul web abbia influito sulla vostra diffusione o credi che la gente si sia interessata più alle canzoni che avete scritto? Credo che sia qualcosa più legato alle nostre canzoni, in effetti internet ci ha aiutato molto perché siamo stati la band più scaricata in Inghilterra nel 2005 e questo è servito a livello di immagine, però questa giustificazione è stata data una settimana dopo che eravamo arrivati al primo posto in classifica, per giustificare il nostro successo, siamo stati citati persino in magazine come l’Economist che parlavano del nostro fenomeno “come 4 sconosciuti avessero toccato il top delle charts” e questo lo relegavano alla potenza divulgativa di internet... ma non penso sia proprio così, anche i testi
( arti C monkeys )
delle nostre canzoni credo siano molto vicini alla vita dei nostri fan, parlano di vita quotidiana... di questo poi abbiamo parlato a lungo con i nostri amici su vari forum. Normalmente siamo soliti chattare con i nostri fan e li incoraggiamo a scegliere i nostri singoli su internet. Come vi sentite quando vi paragonano ad artisti come Jarvis Cocker (Pulp) oppure Morrissey per la vostra capacità di catturare l’attenzione degli inglesi? Non saprei, ovviamente questo è molto carino ma in verità non mi sono interessato molto a loro... cioè conosco i gruppi so come sono nati ma non sono mai stato un loro fan, so come sono partiti gli Smiths e ho molto rispetto anche dei Pulp ma non più di questo. Whatever people say i am, thats what i’m not (Non sono quello che crede la gente!)? Il titolo del disco è tratto dal film Saturday night sunday morning, solo una citazione dal tema principale che noi abbiamo preso in prestito... la classica situazione in cui lui è il tuo vicino di casa e tu lo giudichi senza conoscerlo e ovviamente non ti piace... ecco il perché del titolo. Inizialmente avevamo l’idea di dare al disco lo stesso titolo del film, ma quello che abbiamo scelto ci soddisfa di più, ha più un senso di rispetto nei riguardi di quello che accade intorno a noi, di quello che le persone dicono di noi o
viceversa... e di quanto questo giudizio sia sbagliato. L’album non è un concept, è una collezione di canzoni messe insieme in un disco. Tutto questo però non è fatto a casaccio perché la sequenza delle canzoni è stata pensata, ragionata. Quali sono i vostri ascolti? Ci sono dei gruppi ad oggi che vi interessano in modo particolare, che stuzzicano la vostra fantasia? Ci sono molte band che stanno per uscire, gruppi locali intendo, soprattutto da Sheffield. Delle “vecchie” band mi piacciono i Clash, gli Smiths, Led Zeppelin per quanto riguarda la ritmica, in generale c’è una vasta gamma di band che ci interessano, che hanno attitudini diverse e allo stesso tempo sono accattivanti nel loro genere, dai Roots Manuva ai Queens of the stone age oppure i System of a down, e in questa gamma di proposte tu hai input differenti in modo particolare da questi singoli individui come non succede però per altri. Metti insieme tutti questi input e così hai una canzone degli Arctic Monkeys influenze diverse, un groove come un basso come un bit funky e una chitarra heavy per intenderci…potrei ancora citare Dizzy Rascal Deftones Cipress Hyll…a noi piacciono i The Streets ovviamente, The Strokes, Kings of leon e il nostro gruppo preferito sono stati per un po’ i Black keys. Carlo Chicco
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CoolClub.it domenica 3/ Abbattimento di Punta Perotti sul lungomare di Bari “Una mattina, mentre passeggiavamo sul lungomare, ci siamo accorti all’improvviso che ne stavano murando un lato”. Così il sociologo Franco Cassano, fondatore del movimento Città Plurale, ha descritto la sua indignazione per la costruzione di Punta Perotti. Per un giovane barese Punta Perotti è (era) un monumento della città. Come la Basilica, come la Cattedrale, come tutto il borgo antico. Come il San Nicola, lo stadio-astronave progettato da Renzo Piano. Come la Fiera del Levante e come i chioschi pane-e-merda diffusissimi in città (io preferisco quello di Maria la Chiattona, sul lungomare di fronte al circolo Barion: i suoi panini con porchetta-patatineinsalata-carotine-ketchup-e-maionese sono fenomenali). Un monumento, dunque, come il teatro Petruzzelli ancora distrutto e il teatro Margherita abbandonato da vent’anni. “Ma sono davvero così brutti? E poi che cosa coprono, dato che il lungomare dopo Punta Perotti è una schifezza?”. Sono anni che me lo domando. Al secondo quesito è facile trovare una risposta: il paesaggio coperto dall’ecomostro può essere tranquillamente riqualificato. Alla prima domanda non credo, però, si potrà mai rispondere. La bellezza è relativa. E il complesso di Punta Perotti è stato confiscato non perché brutto, ma perché fuorilegge: è stato costruito troppo vicino al mare. Oddio, a Bari anche il Palazzo di Giustizia è abusivo. Di ecomostri la città è piena. E mica sono stati tutti abbattuti. Punta Perotti però è stato uno schiaffo troppo grande da accettare. È stato il pretesto per far nascere la protesta contro la Bari che non va. Che va abbattuta e ricostruita. “È da lì, da quell’enormità di cemento”, ha scritto ancora Cassano, “che è iniziata a nascere, goccia dopo goccia, un’opinione pubblica in questa città”. Insomma, è grazie a Punta Perotti che i cittadini hanno alzato la testa, hanno detto basta. Almeno è questa l’opinione di una parte dei baresi. Perché non tutti sono d’accordo sull’argomento. C’è chi sostiene che l’abbattimento è stato inutile, che i palazzi potevano essere
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MUSICA
(aCQuista il tuo appartamento virtuale su WWW.perottipoint.it) conservati. Proprio il lunedì precedente il 2 aprile la neonata associazione Euroliberali ha organizzato una tavola rotonda sul tema, in cui è stata messa in discussione l’utilità dell’abbattimento. Al di là della dialettica, però, restano i fatti: i palazzoni sono andati giù perché fuorilegge. E qui non ci piove, anche se i legali della famiglia Matarrese, che ha costruito il complesso, hanno già annunciato la richiesta di un mega-risarcimento danni. Ma alla fine Punta Perotti è andata lo stesso giù. Ma cosa rimarrà, oltre le macerie? Un immenso spazio vuoto. Per il momento. Le proposte di riqualificazione sono tantissime, ma l’iter sarà inevitabilmente lento. Così come tutto è lento, in questa città: basti pensare che il Petruzzelli è stato incendiato nel 1991 e ad oggi non si sa ancora quando riaprirà. Ma il solo fatto che Punta Perotti sia stata abbattuta rappresenta una vittoria. Il Bello potrà anche aspettare, l’importante è che il Brutto non ci sia più. Per ora, ci teniamo stretti un non-luogo. Ludovico Fontana
tutti i lunedì/ Karaoke al Caledonia di Lecce ogni lunedì e mercoledì/ Serata universitaria con prezzi ridotti e imperdibili offerte al Corto Maltese di Lecce ogni martedì/ Jam sassion jazz al Cagliostro di Lecce ogni martedì/ Tour de pub al London tavern di Lecce ogni martedì/ Doctor Why al Jack ‘n’ Jill di Cutrofiano (Le) ogni mercoledì/ High fidelity al Caffé Letterario di Lecce Il nuovo appuntamento in musica del Caffé Letterario si chiama High Fidelity. Ogni settimana un dj diverso si alternerà in consolle per selezionare un personale percorso alla scoperta di un genere musicale, un periodo, una etichetta o un gruppo. ogni mercoledì/ Live al Wallace pub di Lecce ogni giovedì/ Live jazz e bossa al Godot di Lecce ogni giovedì/ Festa house con cocktail a 3 euro al Prosit di Lecce ogni giovedì/ Rutta del rum al Corto Maltese di Lecce ogni venerdì/ House e divertentismo al Corto Maltese di Lecce ogni venerdì/ Dj set al Wallace Pub di Lecce ogni sabato/ Open bar sino alle 00.30 al Willy Nilly di Squinzano (Le) tutte le domeniche/ Happy hour dalle 20 alle 24 con drink e buffet al Prosit di Lecce venerdì 7/ Ossian e Shide al Nord Wind Disco Pub di Bari venerdì 7/ At olimpio’s ai Sotterranei di Copertino (Le) sabato 8/ Stonecutters al Circolo ZEI di Lecce sabato 8/ Dinamo Rock al Mirror di Martano (Le) sabato 8/ Postman Ultrachic all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 8/ That Noise from the cellar ai Sotterranei di Copertino (Le) domenica 9/ Afterhours al Palazzetto dello Sport di Conversano (Ba) domenica 9 e lunedì 10/ Elezioni per il rinnovo del Parlamento in tutta Italia
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martedì 11/ U2 tribute al Mulligan’s di Maglie (Le) mercoledì 12/ Soul Bossa Quintet a L’acchiatura di Racale (Le) giovedì 13/ Foredecapu Blues Band al Mulligan’s di Maglie (Le) giovedì 13/ Giò Vescovi Blues Band al Jack ‘n’ Jill di Cutrofiano (Le) giovedì 13/ Settlefish all’Istanbul Café di Squinzano (Le) La rassegna Keep Cool prosegue con l’emocore dei Settlefish, un giovane quintetto bolognese di nascita ma statunitense di adozione. Attiva da circa cinque anni, la band ha nel corso degli ultimi tre anni suonato in oltre 200 concerti in giro per il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e in Canada. Inizio ore 23.00. Ingresso 5 euro. Info 0832303707. giovedì 13/ Pantera Vulgar Tribute Night From Hell al Nord Wind Disco Pub di Bari venerdì 14/ Dodo Stop al Vivaldi Club di Valenzano (Ba) venerdì 14/ Fiamma Fumana allo Zenzero di Bari venerdì 14/ Mr Jack all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) venerdì 14/ C.F.F. e il Nomade Venerabile al Kirby disco-pub di Matera venerdì 14/ Electric Voodoo Company al Sinatra Hall di Ugento (Le) sabato 15/ Dinamo Rock al Mythos di Salve (Le) sabato 15/ Tob Lamare all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) sabato 15/ Africa Unite alla Palestra Ex Gil di Bari domenica 16/ Pshycho sun all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) lunedì 17/ Teatro delle terrazze ai Cantieri Culturali Sierro di Ponente sulla str.prov. Villa Castelli - Martina Franca lunedì 17/ Africa Unite/Caparezza all’Arena delle Cave di Cavallino (Le) lunedì 17/ Pasquetta salentina a Muro Leccese Folk, pizzica, rock e metal saranno protagonisti della quarta edizione della Pasquetta salentina a Muro Leccese. Sul palco del Parco del SS. Crocefisso si alterneranno Mascarimirì, Crifiu, Shank, P40. L’inizio dei concerti è previsto per le ore 16.00. Ingresso libero. Info 0836/341153 – 348/0442053 ; centro@dilino.com centrodilino@virgilio.it. lunedì 17/ Madreperla al Goblin’s di Brindisi mercoledì 19/ C.F.F. e il Nomade Venerabile al Green Elf pub di Santeramo in Colle (Ba)
giovedì 20/ Niente insetti su Wilma (cover band dei Denovo) al Jack ‘n’ Jill di Cutrofiano (Le) giovedì 20/ Psycho Sun all’Heineken Green Stage di Tricase giovedì 20/ Rain al Nord Wind Pub di Bari venerdì 21/ None of Us alla Taverna Vecchia del Maltese di Bari venerdì 21/ Superpartner all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) venerdì 21/ England duo a L’acchiatura di Racale (Le) venerdì 21/ Psycho Sun al Goblins di Brindisi venerdì 21/ 24 Grana, Almamegretta, Bisca, Zulù al PalaTour di Bitritto (Ba) sabato 22/ Sonic the tonic e The boozers all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) sabato 22/ Marco Ongaro alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) La rassegna Tele e ragnatele della Saletta della Cultura di Novoli (Le) prosegue la sua programmazione di musica d’autore con Marco Ongaro. Il suo esordio risale al 1987 con “AI” che gli vale la Targa Tenco per la migliore Opera Prima. Il suo ultimo lavoro “Archivio Postumia” è uscito circa un anno fa. Ingresso 5 euro. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it sabato 22/ None of Us al One Mile Club di Martano (Le) sabato 22/ 24 Grana, Almamegretta, Bisca, Zulù al PalaTour di Bitritto (Ba) domenica 23/ Agatha ai Sotterranei di Copertino (Le) domenica 23/ Municipale Balcanica alla Festa Patronale di Terlizzi (Ba) domenica 23/ Chuck Fender & the Living Fire Band (Jamaica) + Chop Chop Band (Italia) al New Demodè di Bari/Modugno domenica 23/ Scientist and Cinic all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) lunedì 24/ Aspettando la Liberazione a Taviano (Le) lunedì 24/ Non Toccate Miranda a Palazzo De Donno di Cursi (LE) lunedì 24/ Red Elvises all’ Istanbul Café di Squinzano (LE) lunedì 24/ Petra Magoni & Ferruccio Spinetti all’Auditorium di Bari martedì 25/ Non Toccate Miranda al Circolo Arci di Francavilla Fontana (BR) martedì 25/ Tommy Emmanuel alla Cantina a Sud di Gioia del Colle (BA) mercoledì 26/ Tommy Emmanuel alla Cantina a Sud di Gioia del Colle (BA) giovedì 27/ Duff all’Heineken di Tricase (LE) giovedì 27/ Missiva al Jack ‘n’ Jill di Cutrofiano (Le)
giovedì 27/ Irreverence + motherly sin Nord Wind Pub di Bari venerdì 28/ Malgarbo al Sinatra Hall Ugento (Le) venerdì 28/ Fulvio Palese Jazz Trio L’acchiatura di Racale (Le) sabato 29/ Foredecapu Blues Band Sinatra Hall di Ugento (Le) sabato 29/ Chevreuil all’Istanbul Cafè Squinzano (Le)
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al di a al di
La rassegna Keep Cool si chiude con l’art rock dei francesi Chevreuil. Dal vivo la musica del duo composto da Tony C. (chitarra su 4 amplificatori) e Julien F. (batteria) diventa tanto ‘art’ quanto ‘rock’, una musica che si guarda e si ascolta sbalorditi. Capoeira è il loro ultimo album. Una nuova dimensione e un campo d’azione inedito alla batteria, alla chitarra e alla tastiera, come per inaugurare un’estranea forma di musica: la tastiera si mescola ai riff della chitarra provocandone una sorta di mutazione. Inizio ore 23.00. Ingresso 5 euro. domenica 30/ Gay day al Living di Maglie (Le) lunedì 1 maggio/ UDE Woodstock con The jains e Meganoidi a Ugento (Le) lunedì 1/ Cantacunti alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) I Cantacunti saranno i protagonisti della
CoolClub.it Festa dei lavoratori presso la Saletta di Novoli. La rassegna Tele e ragnatele ospita infatti questo progetto musicale di Gianni Vico, cantastorie di Manduria, e della sua chitarra. Ingresso 5 euro. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it lunedì 1 maggio/ Tying Tiffany Dj Set allo Zenzero di Bari venerdì 5/ Gardenya al Santo Graal Pub di Trani (Ba) venerdì 5/ Latin Four a L’acchiatura di Racale (Le) sabato 6/ Angelo Ruggiero alla Saletta della Cultura Gregorio Vetrugno di Novoli (LE)
TEATRO/ARTE
sabato 8/ Tràgos ai Cantieri Teatrli Koreja di Lecce
La compagnia pisana I Sacchi di Sabbia presenta Tràgos atto unico con comica finale ideato da Giovanni Guerrieri con la collaborazione di Giulia Gallo, Enzo Illiano, Gabriele Carli, Andrea Lancioni. La vita e i suoi scricchiolii, i suoi piccoli affanni, la sua pesantezza, la sua involontaria comicità. La vita come in un film di Jacques Tati. L’appuntamento, al teatro Koreja di Lecce, rientra nella rassegna Strade Maestre. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info 0832242000. sabato 8 e domenica 9/ Paesaggio uno: fango che diventa luce al Teatro Kismet di Bari martedì 11/ Piccoli Crimini Coniugali al Teatro Odeon di Molfetta (Ba)
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martedì 11/ Ferdinando al Teatro Politeama Greco di Lecce Isa Danieli, Luisa Amatucci, Giuliano Amatucci e Adriano Mottola mettono in scena “Ferdinando” scritto e diretto da Annibale Ruccello. Sipario ore 20.45. Poltronissime e I ordine: € 20,00. Poltrone e II ordine: € 17,00. Ridotto poltrone e II ordine: € 10,00. Info 0832.242000 mercoledì 12/ Quando fai sesso con gli elefanti non stare mai sotto, un recital di Jacopo Fo al Teatro Rossini di Gioia del colle (Ba) mercoledì 12/ Daniele Luttazzi al Teatro Politeama Greco di Lecce mercoledì 19/ La Forza dell’Abitudine al Teatro impero di Brindisi domenica 23/ La Forza dell’Abitudine al Teatro Verdi di San Severo (Fg) lunedì 24/ La Forza dell’Abitudine al Politeama Greco, Lecce Alessandro Gassman dirige e interpreta, con Sergio Meogrossi, Paolo Fossi e i Clown della famiglia Colombaioni, “La Forza dell’abitudine”. Lo spettacolo, scritto dall’autore olandese Thomas Bernhard è una meravigliosa metafora della vita e dell’incapacità degli artisti a veder realizzata compiutamente la propria arte. Sipario ore 20.45. Ingresso poltronissime e I ordine 20 euro, poltrone e II ordine 17 euro, ridotto poltrone e II ordine 10 euro. Info 0832242000. mercoledì 26/ Oreste Lionello in Two man Show al Teatro Socrate di Castellana Grotte (Ba) giovedì 27/ Isa Danieli in Ferdinando al Teatro Ideal di Manduria (Ta) da venerdì 28 a domenica 30/ Elettra al Teatro Kismet di Bari sabato 29/ Pilobus al Teatro Curci di Barletta (Ba)
CINEMA
dal 25 al 30 aprile/ VII festival del cinema europeo al Santalucia di Lecce La VII edizione del Festival, diretto come ogni anno da Alberto La Monica, conta questa volta su nomi di prestigio come lo svizzero Moritz De Hadeln, presidente di giuria e già direttore di Festival come Locarno, Berlino e Venezia e la direzione artistica di Cristina Soldano che ha ben chiaro l’obiettivo a cui puntare. Tra le sezioni, le consuete retrospettive dedicate a due personaggi del cinema italiano ed europeo e la rassegna di corti Puglia Show. Info su www.
europecinefestival. org
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Imaginaria Film Festival Sino al 30 aprile 2006 sarà possibile presentare opere per partecipare alla quarta edizione dell’IFF (Imaginaria Film Festival), che si terrà a Conversano dal 01 al 07 agosto 2006. Tutte le informazioni per iscriversi e il bando sono presenti sul sito http://www. imaginariafilmfestival.org
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UNO, NESSUNO, CENTOMILA MONDI DI CARTA Un ragazzo, Killy, si muove in una struttura verticale composta da numerosi piani per adempiere alla propria missione; ogni piano è una sorta di mondo, abitato da esseri umani e da creature biomeccaniche, tuttavia nulla è come appare. L’unica certezza è che protagonista assoluto di Blame (edito in Italia da Panini Comics), il manga fantascientifico di Tsutomu Nihei, è il (non) luogo in cui è ambientata la storia; la struttura, spesso disegnata a pagina intera, che è indefinitamente vasta e labirintica. “Maybe on earth. Maybe in the future” (“Forse sulla terra. Forse nel futuro”) recita lo strillone in copertina, riassumendo in sé il dubbio in cui Nihei ha lasciato il lettore per tutta l’edizione di Blame: l’autore ha prediletto l’aspetto visivo, accantonando lo sviluppo d’una trama in favore di tavole mastodontiche dedicate quasi completamente agli ambienti. I (pochi!) personaggi hanno tra loro brevi dialoghi, che forniscono esigue informazioni su ciò che stiamo leggendo, dandoci un’ulteriore prova della scelta estrema compiuta da Nihei, ovvero creare un’opera che scardinasse le regole narrative del genere, ponendo l’attenzione sull’ambiente e non su vicenda e personaggi. Il tratto del fumettista è preciso ma “grezzo” nelle strutture, mentre diviene molto stilizzato nel rappresentare le creature antropomorfe che popolano il cosmo di Blame. Terminati i dieci volumi dell’edizione italiana, si rimane confusi e storditi quanto lo si era al termine del primo volume, ma estasiati dalla potenza visiva dello stile di Nihei, accresciuto dalla sua competenza in architettura, nella quale si è diplomato. Un altro giovane fumettista nipponico: Makoto Yukimura, ha sceneggiato e disegnato un altro manga fantascientifico, Planetes (edito anch’esso da Panini Comics), in cui a farla da padrone è lo Spazio, il non-luogo per eccellenza. Planetes parte narrando l’esistenza di tre spazzini cosmici, Yuri, Fee e l’aspirante astronauta Hackimaki, il cui compito consiste nel raccogliere la spazzatura
(BLAME)
spaziale che gravita intorno alla Terra. Attraverso i suoi personaggi Yukimura propone l’eterno confronto tra l’uomo (nella sua condizione di mortale finitezza) e l’universo, che non è semplicemente uno spazio fisico ma la rappresentazione dei nostri più profondi desideri ed interrogativi. In Ghost in the Shell ManMachina Interface di Shirow Masomune, séguito di Ghost in the Shell (editi entrambi dalla Star Comics), è la versione umana del cosmo, il cyber-spazio (l’universo costituito da un’imperitura rete di informazioni), a dominare il fumetto. Shirow, capostipite del “cyber-punk” fumettistico, ha estremizzato il ruolo della rete rispetto al primo capitolo, cancellando quasi totalmente dalla narrazione i luoghi fisici: nel suo futuro le lotte tra corporations, nazioni sovrane e terroristi non si combattono nel mondo reale ma nel non-luogo informatico generato dall’uomo. Da una parte il cosmo con tutti i suoi quesiti esistenziali e fisici, dall’altra il flusso irrefrenabile del sapere umano concettualizzato in uno spazio metafisico.
Altrettanto metafisico è il luogo in cui si dipana La locanda alla fine dei mondi (edito da Magic Press), terzultimo volume della saga di Sandman di Neil Gaiman. Una serie eterogenea di persone si ritrova in un’antica locanda per ripararsi da una tempesta estremamente violenta e, nell’attesa che essa cessi, si diletta nel più antico rito umano: la narrazione orale d’una storia. Soltanto al termine di tutti i racconti, alcuni di loro si renderanno conto che la locanda è un crocevia spaziotemporale tra molteplici dimensioni, nel quale s’incontrano creature d’ogni dove. Gaiman, forse in omaggio ad Italo Calvino, ha costruito tale vicenda come una scatola cinese, poiché la Locanda alla fine dei mondi è un fumetto in cui è narrata una storia nella quale ne sono raccontate delle altre, sino a giungere al ruolo stesso dello scrittore, ovvero a fabulatore. La locanda è una piega fra i mondi, lontana seppur vicinissima ad essi, ne contiene l’essenza più profonda: il loro essere un insieme sterminato di storie, quali sono le vite umane. Roberto Cesano
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