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“Il mondo è pieno di uomini saggi inascoltati, pensò Luisa, tornando alla fermata dell’autobus. In alcuni punti della città, forse ogni giorno, spuntavano idee geniali che tutte insieme avrebbero cambiato il mondo.” da Luisa e il silenzio di C. Piersanti- Feltrinelli 1999
txt Elisabetta Liguori
PARALLELISMI VITALI Aveva detto: questa volta non rinuncio alle ferie per nessuna ragione al mondo. Ma quando non è in ufficio, il silenzio le si posa sulle spalle, scottante e grezzo come un plaid. Si posa e separa i pensieri dalle cose. Lei ricorda che il silenzio esiste in colpevole ritardo, quando fa caldo, quando quel che è stato detto poco prima già non conta più. Sarà anche questo un agosto da blusa di lino e pantalone con la piega, avendo deciso di revocare le due settimane di mare, come tutti gli anni. Non sapeva che il lavoro potesse essere così diverso dal silenzio, così discorde per consistenza. Si cerca lavoro per soldi, solitamente, per autonomia, per tradizione. Nasce questo bisogno come fame, intorno ai venticinque anni. Alla fine degli anni 80 c’era un percorso obbligato che portava dritto da giurisprudenza ai pubblici concorsi. Questi erano ancora su gazzetta ufficiale. Se ne trovava notizia in edicola e ne conseguivano alacri e ottimistici programmi di studio. Si banchettava in collettive ipotesi di futuro.
Quando aveva fatto gli orali a Roma, in un giugno d’oppressione respiratoria, lei aveva avuto netta l’impressione di essere divenuta parte di un disegno, una cosa del tipo: l’ombra di Dio che passava sulla sua testa, segnando il nesso tra un evento e il suo passaggio sul pianeta. Per festeggiare, aveva vomitato cappuccino e cornetto in un angolo poco distante dalle rive del Tevere, presso una parallela di via Arenula. Poi aveva telefonato a casa e urlato: lavoro sicuro. L’ombra di Dio le era capitata sotto le ciglia anche durante il parto. Lo stesso sforzo sovrumano non equivoco. Durante la spinta finale, si era tirata su a fatica, e, con le mani, aveva tentato di toccare l’epicentro di sé, lì, tra le gambe, per sentire meglio, ma il ginecologo si era arrabbiato e lei aveva rinunciato. Al successivo passaggio delle infermiere in corsia, con carrello, bacinella e ovatta, lo stupore l’aveva proiettata nel progetto, come se l’ostetrica le avesse portato una lettera di sangue e
coolibrì agosto-settembre 2006 muco, su cui era scritto: sei qui per questo. Aveva dormito bene e a lungo, dopo. Quel parto era stato molto simile al primo giorno in ufficio, per lei. A pensarci bene, era accaduto anche la volta che aveva amato o creduto di amare. Giorgio, per esempio, quantunque Elisabetta Liguori è nata a Lecce in quel caso l’illusione nel 1968 e lì risiede da sempre. È fosse stata imposta laureata in giurisprudenza e lavora dalle sue chiacchiere presso la Cancelleria Civile del da imbonitore. Giorgio Tribunale per i Minori della sua città. avrebbe dovuto vendere Ha due figli, un solo marito ed una piatti e padelle in tv, grande passione per i narrati brevi, invece di continuare che scrive ormai da tempo. Ha vinto a studiare, studiare, numerosi premi letterari nazionali e studiare. Se lo avesse locali. Collabora alla realizzazione fatto, chissà oggi quante di riviste letterarie on line (www. batterie avrebbe già dato musicaos.it e www.bibliosofia.it) e via, quanti soldi, quante da qualche tempo con “Il Paese volte Dio sarebbe passato Nuovo”. Il credito dell’Imbianchino sulle loro teste in aereo, edito da Argo è il suo primo a lanciare messaggi romanzo. rassicuranti e convincenti. Quindi amore, maternità e lavoro erano, per lei, circostanze similmente distanti dal silenzio. C’era il giusto movimento in queste, la naturalità, il dubbio e l’assenza di fraintendimento. Ciò che le serviva. Quand’anche si trattasse di abbagli, la difendevano comunque, mescolandosi alla terra. In ufficio, d’estate, la luce cade ficcante da destra, schiacciandosi sulla sua tenda a listarelle color latte; è un riverbero che volge ad altro molto, molto lentamente. Gli oggetti sul tavolo aspettano le sue mani ogni mattina e restano intimamente suoi, sebbene a termine. Lei ha con il parquet consunto, la striscia antiscivolo delle scale, il fischio dell’ascensore, una consuetudine fisica che lascia spazio all’armonia e alla sorpresa in modo inspiegabilmente equilibrato. Si chiede però cosa faccia la luce in sua assenza, quale sia il colore della notte quando l’ambiente non è di sua competenza. Cosa c’è quando lei non c’è. Tutto e tutti si fidano di lei, nonostante
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certe domande: hanno cominciato ad affidarle incarichi di alta responsabilità. Lei tiene ordine, raccoglie, istruisce, sciorina, praticamente tiene ricche relazioni con il pubblico, da quando l’hanno nominata responsabile del settore. Un po’ inventa, ma ogni nuovo articolo di legge appreso, diventa dna da riutilizzare. Nei corridoi, la gente va e viene, vociando: è bellissimo possederla, per il tempo necessario che dura un incontro. Conquistare attraverso l’esistenza altrui, la certezza del proprio esistere. Le parole di tu ti, vorticando, non salgono in alto come aria calda, ma si depositano in basso, livello scrivania; con la saliva in pezzi incrostano i fogli uso bollo, scarabocchiano sigle di penna nera e tremula, distolgono dal tempo che passa i bambini lacrimosi in sala d’attesa, con la loro piccola bocca sulla pelle delle sedie ancorate al suolo. La gente, che passa rapida nelle sue sei ore lavorative giornaliere, le fa vento sul viso: lei sa dove va, perché, quando tornerà, su quali gambe, tra quali pensieri. La fine è certa grazie all’esperienza: un incrociarsi di dettagli noti a cui lei può imprimere il giusto movimento. Lavoro, maternità, e, a volte, amore, nell’attimo breve che lo contiene. La gente ha molto da dire. Giorgio, per esempio. Non andrà in ferie neppure quest’anno, quindi, per non opporre alcuna interruzione alla perfezione del cerchio. In ufficio c’è l’aria condizionata. Giorgio per esempio, lui era andato via un giugno, spezzando il disegno. Questo non le era piaciuto; avrebbe voluto farlo lei; prevedere, anticipare. Si era detta: qualcuno lo vuole, e quel qualcuno avrebbe voluto essere lei. E poi, a dirla tutta, in questa solfa del parallelismo necessario a smussare le asperità cardiache, non è che il parto, neppure, fosse stata quella gran fatale passeggiata. Meglio dunque mostrarsi subito molto disponibile ai piani alti, elaborare piani estivi di smaltimento dell’arretrato, scrivere un paio di relazioni amministrative. Sorridendo, insistere.
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“Mi ci volle un’ora solo per montare la macchinetta per fare la sfoglia, un aggeggio infernale, ho visto in giro dei nuovi modelli con il motorino dentro, una dinamo che ti evita di girare la manovella”
txt Eva Clesis
NON DOVRESTI VEDERMI COSI' Eva Clesis è nata nel 1980 a Bari, dove attualmente vive e lavora. A ventun’anni inizia a scrivere prosa e nel 2004 pubblica sotto pseudonimo sulle riviste “Verso Arts et Lettres” e “Nuova Prosa”. A cena con Lolita (Pendragon) è il suo primo romanzo.
Detesto la domenica e ciononostante non credo di essere, come il fiero che lo asserisce, una dei pochi a provare questo sentimento di ripulsa. Col tempo e l’orecchio prestato alle conversazioni degli altri, ci si accorge che è diventata una cosa sempre meno originale e più normale. Ti svegli troppo tardi, t’attardi a farti il bagno, vorresti dormire ancora ma i tuoi occhi montano la guardia alle sette precise, la stessa ora in cui dovresti alzarti nei giorni lavorativi, senza poter incolpare il suono della sveglia, muta, perché in realtà il tuo orologio biologico è come il tuo gatto, non capisce mai quando puoi dormire e non deve venire a scassarti le balle. Il resto delle tre ore lo passi a letto in giri e rigiri sperando di vincere l’impulso d’andare a far pipì, tragico errore, la volontà di dominare il nostro io fisiologico impedisce di riaddormentarci. Alle undici ti risveglia l’odore del sugo di carne, del ragù della vicina. Tu di tuo non hai ancora fatto un cazzo, la casa è semplicemente un disastro, tua madre che è l’esse-esse di tutte le massaie del mondo t’ha cresciuta fin da bambina con il gusto della bolognese e delle polpette fritte, delle lasagne al forno e della torta di mele ancora calda. Se solo sapesse. Ma tu già sai che lei sa. In fondo. E che sempre e comunque, nella tua vita da donna single, ti biasima. Diversa ti sembra la domenica degli altri, le levate mattutine per fare il bucato e lucidare l’argenteria, gli uomini a
spasso coi propri figli, e c’è chi va a fare colazione e poi sosta in piazza fino all’ora di pranzo, accompagnato da più della metà del paese in cui vivi. Per farti forza e non pensare ai tuoi occhi iniettati di sangue, bevi il primo caffè e intanto accendi la televisione, che programmi orrendi, solo saghe famigliari, cuochi in odor di risotto e revival di vecchie canzoni sulla bocca di ventenni soubrette. Ti rassegni e ti forsenni fino al tuo restauro e all’abbuffata del gran pranzo, per fortuna ti invitano i tuoi, il resto del giorno è già morto, sei satolla e timorosa di esserlo, ti imponi una dieta disintossicante dal successivo lunedì. Così il morale si alza e già che ci stai guardi Colombo. Poi si va al cinema e si lavora il giorno dopo. Stop. Tutto daccapo per una settimana. È proprio un gran riposo. Non avendo concluso niente, ti riprometti che la domenica successiva sarà diverso. Lo giurasti, la vincerai. E magari ce la fai davvero. Come me che una domenica mi alzai alle sei del mattino per preparare i ravioloni ricotta e funghi (stavolta avevo invitato io i miei a pranzo. Messa in funzione la lavatrice con dentro un paio di mutande, e solo per far contenta mia madre. Figlia prodigio, con il resto della roba sporca stivata dentro gli armadi che ho la massima cura di non farle aprire, questo PER NESSUNA RAGIONE AL MONDO!). Mi ci volle un’ora solo per montare la macchinetta per fare la sfoglia, un aggeggio infernale, ho visto in giro dei nuovi modelli con il
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motorino dentro, una dinamo che ti evita di girare la manovella (che, nel vetusto modello a mano, cade in continuazione con un rumore pesante). Giuro, una volta riuscì a scheggiare una piastrella del pavimento della cucina. In quella occasione vivevo ancora dai miei, perciò quella non era propriamente la mia cucina. Mia madre iniziò a urlare, le dirimpettaie si sporsero dai rispettivi balconi fiorati per capire se c’era o no scappato il morto), ma diffido di questi funzionamenti e ogni volta mi rassegno all’olio di gomito e al gomito del tennista. Montata la macchinetta, iniziai a occuparmi del ripieno. Giunta all’operazione clou dell’adesso-dabrave-facciamo-la-pasta, ero così conciata: capelli rossi tenuti su con forcine e un fazzolettone a quadretti che uso quando cucino, sistemato a paracadute, stile cuffietta della nonna; pigiamone (che volete, sono un tipo freddoloso) rosa a trapuntina, taglia extralarge (ma io, piccoletta, ci sparisco dentro), con ricamato sul petto l’idillio di due topini gigi in atteggiamento amoroso sulla panchina; grembiule bianco sul pigiamone, rigorosamente macchiato ancor prima di cominciare a cucinare; calze di lana e le babbucce pelose con i conigli, che stoici subiscono gli attacchi sensuali del mio gatto, e uno dei due nella battaglia una volta ci ha rimesso un occhio di plastica e un pezzo di orecchio, a nulla sono valse le mie cure, del resto con ago e filo sono un’autentica schiappa. Ero lì, palmo aperto a prendere la sfoglia sottile man mano che questa usciva dalla macchinetta infernale (che, dimenticavo, è stata d’ispirazione per un romanzo di Stephen King…) per poi adagiarla su ripiano di legno, quando d’un tratto sentii suonare alla porta. Chi cacchio è adesso, il genitore, la genitrice e il fratello della suddetta, noo, non può essere, controllai l’orologio, già le dieci, troppo presto per loro, troppo tardi per i testimoni di geova… Preoccupata, andai ad aprire, dimentica del mio stato, le mani sporche di uova e farina. Era un mio vicino di casa, il bellissimo ragazzo del piano di sotto: sua madre l’aveva mandato a chiedermi una busta di panedegliangeli, doveva fare il ciambellone e se n’era dimenticata. So che voleva dirmi questo, che avrebbe voluto, se solo avesse smesso
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di ridere. Beh, che c’è? Perché? Sto così male? Vuoi dirmi che non sono sexy? Lo so, puzzo di funghi… Ma non dovevamo uscire una di queste sere, io e te, eh? Non mi avevi detto che mi dovevi far sapere? Non ho il coraggio di chiedergli queste cose, certo che se lui m’avesse invitato in quella circostanza, beh, era fatta, peggio di così non avrei potuto essere, solo meglio. Invece niente, finisce di sghignazzare e io gli do il lievito, ho il cuore in frantumi, il vicino mi piaceva, avevo una mezza cotta, era uno dei motivi per cui continuavo a vivere in quel quartiere, a pagare quell’affitto salato. Cosa stai facendo, cucinavi, scusami, mmh… ti ho disturbata? Grugnisco che non è niente, stavo solo facendo i ravioli… Lui non pare sorpreso, si gira e se ne va, prima mi lascia con un ci vediamo pochissimo convincente, un ci vediamo che puzza di formale, di tanto per dire che ci vediamo. Vedi che la domenica è un giorno detestabile, che se il vicino fosse passato da me un altro giorno non mi avrebbe mai vista così. Chiusa la porta, raccattai la manovella, scrutai il pavimento e mi rimisi al duro lavoro.
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FERRAGOSTO
"Mi dico che se resterò in silenzio non sapranno che sono davanti al condizionatore. Che sono bloccato davanti al panorama più bello che abbia mai visto. Mi dico che se smetterò di muovermi, anche solo di pensare, andrà tutto bene. Poi sento dei passi e non riesco a fare a meno di tossire".
txt Flavia Piccinni Flavia Piccinni nasce nel 1986 a Fasano. Vive per dieci anni a Taranto, poi si trasferisce a Lucca. Ha vinto il Premio Campiello Giovani nel 2005 con il racconto Non c’è tutto nei romanzi. Una ragazza difende la propria autonomia nei confronti della famiglia, degli adulti, del richiamo delle nuove tecnologie che la assediano. Smarrimento, fragilità e determinazione nei confronti della vita sono i sentimenti che il racconto presenta attraverso le reazioni e le riflessioni che le vicende narrate provocano nell’animo della protagonista.
L’acqua dal condizionatore cade. Si lancia nel secchio azzurro che mia madre ha messo ieri sera sotto la perdita. Fa un rumore che appena sento e che mi dà fastidio solo se mi concentro. Tengo la finestra chiusa con la serranda sbarrata. Se entra il sole penso che potrei morire, da un momento all’altro. Fuori fa troppo caldo, quel caldo che ti entra sottopelle e ti che ti travolge, quasi volesse ucciderti. Guardo l’acqua che cade dal condizionatore e arriva dritta nel secchio. So che non ci sono variazioni di traiettoria. Mai. Rimango imbambolato davanti alla pioggia artificiale per alcuni minuti che mi sembrano ore, perché non mi diverto, perché mi sento straniato. Penso che vorrei che la mia vita fosse come una di quelle gocce. E mi rendo conto che alcuni punti in comune ci sono, e non sono neanche pochi.Non so da dove vengo, come le gocce. Non so dove andrò, almeno a lungo termine, come le gocce. Io, però, non so neanche dove sto andando questo martedì di ferragosto che tutti stanno a mare a prendere il sole, a soffocare, a cuocere, a godersi quello che è il giorno più
coolibrì agosto-settembre 2006 indimenticabile. Quello che è ferragosto. Mi convinco che, se solo mi concentrassi, riuscirei a sentire perfino le urla della gente che corre sulla spiaggia e che si diverte e che si ricorre e che. Io, però, rimango davanti al condizionatore che perde, con la finestra chiusa e la serranda sbarrata. Rimango in silenzio e penso che quello che è stato è un anno di merda. Con il lavoro che non l’ho mai trovato, quindi neanche dire che lo avevo e l’ho perso. Con la fidanzata che non ce l’ho da ormai un paio di mesi, diciamo di anni. Con mia madre che si lamenta perché sono un sassolino, come mi definisce lei, e un debosciato fallito, per dirla a modo di mio padre. Ma, a me, di quello che pensano non mi interessa. Mi interessa sapere altre cose. Come, per esempio, dove andrà quest’acqua che cade. Da dove viene. Chiudo gli occhi e poi mi viene voglia di fumare, anche se ho smesso da tre mesi. Le sigarette costavano troppo e mi ero scocciato di elemosinare i soldi da quel pensionato di mio padre, che per far tornare i conti tiene tutte le spese su un quaderno. Il quaderno a quadretti con la copertina verde acqua, quello che sta sopra la televisione. Scrive tutto e non mi stupirò, già lo so, se fra poco inizieranno a rinfacciarmi anche la luce del comò o la cartaigienica che consumo in quantità industriale. Il cibo, quello, già da un paio di anni è oggetto di contenzioso. Il fatto è che io non riesco ad uscire di casa. Non ce la faccio. Ogni momento mi viene da piangere e ho paura degli altri. Io ho bisogno della mia stanza, buia, e del silenzio. Ho bisogno di sapere che va tutto bene e che io sto bene e se sto bene io va tutto bene. Ho bisogno di sapere che posso fare quello che voglio. Che non devo lavorare e non devo rendere conto a nessuno. “Giuseppe c’è Zia Maria vieni a salutarla”. Mia madre mi chiama e io chiudo gli occhi. Non mi voglio alzare, Voglio guardare come l’acqua cade nel secchio. Voglio immaginare cosa c’è fuori. Voglio vedere il mare e le ragazze in bikini, pure quella un po’ più chiatta, che si avvolge nell’asciugamano per non far vedere la panza. E gli ombrelloni sbiaditi, che un tempo erano verdi e adesso sono un bianco a tratti macchiato, e che c’hanno tutti i vestiti appesi sotto. E i bambini che urlano e si tirano la sabbia negli occhi. E le mamme che si toccano i pancioni e i mariti che guardano le ragazze che sculettano nei loro tanga. E voglio vedere anche i vecchi che mangiano parmigiana e caprese, più parmigiana che caprese, sotto l’ombrellone mentre giocano a carte. Voglio vedere tutte queste cose, non Zia Maria. “Giuseppe?” Mi dico che se resterò in silenzio non sapranno che
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sono davanti al condizionatore. Che sono bloccato davanti al panorama più bello che abbia mai visto. Mi dico che se smetterò di muovermi, anche solo di pensare, andrà tutto bene. Poi sento dei passi e non riesco a fare a meno di tossire. Mia madre entra nella stanza e con lei arriva Zia Maria che si avvicina e mi abbraccia. Mia madre dice che mi devo alzare, ma non ce la faccio. Riesco solo a vedere due ragazzi che giocano a biliardino dietro le cabine, dei bambini che si tirano la palla sulla spiaggia e fanno arrabbiare delle signore che leggono il giornale, una ragazza che si fa la doccia e mi sembra bella. “Giuseppe, ma non la saluti a Zia Maria?” Rimango in silenzio e vedo davanti a me la sabbia e il sole e il mare e le onde. E vedo davanti a me le voci delle persone, che sono solo voci ma per me sono qualcosa di più. Per me sono vita. L’unico modo di conoscere. “Giuseppe, allora, come stai?” Questa volta è Zia Maria che parla. La sua voce stridula rimbalza sulle pareti e copre perfino il rumore della goccia che muore nel secchio. Che si perde, come mi perdo io. Dico bene e dico che voglio stare solo. Che casomai dopo esco per prendere un po’ di sole. Loro, quando sentono sole, rimangono in silenzio. E immobili, me ne rendo conto dal fatto che respirano più lentamente e che il loro fiato quasi si perde nell’aria fredda. “Tesoro, oggi sta diluviando”. Non capisco. Non capisco come faccia a diluviare il giorno di ferragosto, quando i bambini fanno a gavettoni sulla spiaggia mentre i genitori tagliano le angurie sotto i gazebo. “Mamma, ma oggi è ferragosto come fa a piovere?” Lei mi dice che siamo a gennaio. Che è il venticinque gennaio. “E allora perché hai acceso il condizionatore?” Risponde che il freddo c’è da solo e che, quel rumore, era la pioggia contro la finestra. Le chiedo della serranda, se è aperta o meno. Se il sole arriva a cuocermi le mani. Se il secchio sotto il condizionatore è pieno. Lei dice che non entrano colori, che la stanza è buia, se non fosse per la luce del comò. Io strizzo gli occhi e spero che vadano via. Quando escono mi sento come una goccia. Una goccia che si scaraventa contro la finestra perché non vede e non sa. Poi continuo a vedere oltre la serranda chiusa e vedo le onde che bagnano la sabbia e la sabbia che diventa ocra e poi marrone e poi sempre più scura. Fino a confondersi con il nero.
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PIU' PULITO DEL VERO
coolibrì agosto-settembre 2006 Un mattino di luglio, dopo una notte afosa passata a tormentarmi senza riuscire a prendere sonno, mi sono ritrovato nel letto, trasformato in un desktop pc. All’inizio non riuscivo a crederci, non capivo come mai sentivo più caldo del solito. Tutto è incominciato con la fastidiosa sensazione di tutta l’afa presente nella camera da letto. Le cose peggiori succedono sempre in condizioni atmosferiche sfavorevoli, il troppo caldo o il troppo freddo sono segnali, è la norma. Io sentivo caldo perché la mia superficie metallica, il case, era battuto dai primi raggi di sole che filtravano nella stanza. Quel giorno di luglio inoltrato non dovevo andare a lavorare, sarei rimasto a dormire fino a mezzogiorno, avrei lasciato acceso il ventilatore appeso al soffitto e mi sarei rinfrescato il cervello, ma adesso, come avrei potuto? Per accendere il ventilatore avrei dovuto tirare la cordicella che pendeva dal muro, mi resi conto di non avere braccia, ero un desktop
dalla superficie grigia, rettangolare, senza fori d’areazione. D’improvviso capii tutto. Nella notte che precedeva il disastro mi ero lamentato del mio computer, un pentium III che faceva acqua da ogni dove, la ventola del sistema non raffreddava a sufficienza, l’hard-disk era troppo poco capiente, il clock troppo lento, nemmeno cinquecento megahertz, e adesso il caldo, ci mancava questa goccia di sudore a far traboccare una brocca oramai colma. Un giorno sì e uno no mi toccava spegnere e riavviare il sistema per via del surriscaldamento quasi istantaneo della scheda madre, il segnale d’allarme era un bip intermittente, lo stesso delle casse nei supermercati, ascoltare quel sibilo e sobbalzare pensando alla perdita dei dati era un tuttuno. Ieri notte dovevo fare l’upload del sito, il sistema non ha retto allo sforzo, prima di spegnere tutto ho masterizzato i dati più importanti. Cazzo. Hanno suonato il citofono, deve essere arrivato
“Le cose peggiori succedono sempre in condizioni atmosferiche sfavorevoli, il troppo caldo o il troppo freddo sono segnali, è la norma. Io sentivo caldo perché la mia superficie metallica, il case, era battuto dai primi raggi di sole che filtravano nella stanza”.
txt Luciano Pagano
l’uomo delle scale. Una volta alla settimana viene a pulire le scale del condominio, cinque euro al mese per ogni condomino. L’uomo delle scale ha l’abitudine di citofonare alle sette del mattino, quando i condomini dormono, qui per lavorare escono alle nove, penso al profumo di limone che ognuno degli inquilini sentirà quando uscirà dall’appartamento girando la chiave nella toppa. Come posso aprire all’uomo delle scale? Penserà che non voglio aprire la porta perché non voglio pagare i soldi del mese, è un vecchietto silenzioso, mi ricorda uno sciamano fuggito da un x-files. Qualcuno dovrà pure accorgersi di me! L’uomo delle scale inizia a pulire dal piano dove abito, suona sempre il campanello di casa, io apro, mi porge il secchio vuoto e mi chiede con gentilezza se posso riempirlo di acqua del rubinetto. Eccolo, ha suonato e io sono un computer spento, abbandonato sulle lenzuola e non posso muovermi, è una sensazione terribile. Clack. La porta che si apre, è lei. Lei c’è. Cazzo. Lei è a casa. Deve essersi svegliata prima di me senza accorgersi che mi ero trasformato durante la notte, sarà andata in bagno senza nemmeno aprire gli occhi. Deve essere stanca, la sento che striscia fino alla porta, va ad aprire, si sposta in cucina, deve aver riempito il secchio, la porta si chiude. L’uomo delle scale saluta. Sono salvo, lei può aiutarmi, dobbiamo capire se posso tornare uomo, almeno potrà accendere il ventilatore sul soffitto finché non scopriremo assieme che cos’è successo durante la notte. La porta oscilla, una brezza improvvisa sembra sbatterla, invece no, la porta resta ferma a metà. La mia ragazza ha chiuso la porta e sta per entrare nella stanza, finalmente, sono salvo. “Cosa ci fai ancora a letto, alzati, devo pulire!”. La voce secca del comando proviene da una fessura nel manico di una imetec-piuma-800w a sacchetto riciclabile. Cazzo. Si è trasformata anche lei. “Allora… cosa aspetti…vuoi alzarti o no?!? Vuoi alzarti o noooooooooo”. Mi risveglio nel letto, sudato, mi tocco le braccia con le mani, ci sono, sono io, sono un corpo. Prometto di non passare più le nottate a lavorare davanti ad un computer, a patto che lei non passi più i miei giorni liberi ad aspirare la polvere dagli angoli invisibili.
IL MATTINO
HA IL METALLO IN GOLA txt Rossano Astremo
Il mattino, con il suo metallo in gola, è l’ora più incerta e mesta della giornata, l’ora in cui cominciano a subodorarsi i frutti dell’acidità di stomaco, della mancanza di tabacco, del mal di testa carsico che s’intirizzisce facendosi schermo lisergico per lo sbuffo dei pensieri, l’ora in cui milioni di burocrati ordiscono i loro piani di morte, alcuni in modo consapevole, in combutta progressiva con le cartelle dei loro pc sempre abulici e vacillanti, l’ora in cui molti si sono già fatti un paio di caffè o di sambuca, il che conferisce all’appiattirsi degli attimi un senso sordido di accavallamento potenziale e tossico, l’ora dello sciorinare di corpi dalla mollezza variabile lungo le strade fluorescenti che innervano la struttura cittadina, l’ora del tutto possibile in un centimetro quadro di noia, l’ora dello scorbutico affastellarsi di arti lungo le linee immaginarie di uno spazio lucido e irreale, l’ora migliore per conferire all’esistenza una certa aura di disperazione. Carlo, però, lungo il percorso che lo conduce verso la Libreria Babele, è insensibile a tutto questo, preso com’è a passare mentalmente tutti gli schemi che ha catalogato all’interno della scatola cranica sulle sue smodate motivazioni lavorative, perché, questa volta, il colloquio sembra essere una formalità dovuta alla prassi consuetudinaria dello scambiarsi quattro cazzate prima dell’inizio di una reciproca e fruttuosa collaborazione, perché, questa volta, l’incontro risolutivo non è conseguenza di uno scambio di e-mail tra ricercatore disperato di lavoro e datore sconsiderato di lavoro, qui c’è di mezzo una raccomandazione bella grossa, allora, porca puttana, Carlo è consapevole che si tratta della sua grande occasione e il sudore s’insinua tra le trame oblique della sua barba anche per questo motivo, accavalla il mignolo della mano sinistra sul vicino anulare in modo ossessivo e perdurante preso da un tic irrisoluto anche per questo motivo, muove in alternanza ritmica il piede sinistro e quello destro senza oltrepassare le griglie quadrate che sezionano il marciapiede anche per questo motivo. Carlo sprigiona nervosismo da ogni centimetro quadro del suo corpo floscio, ma questa volta non è come le altre, questa volta respira a pieni polmoni l’evenienza del successo.
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OCCASIONI txt Massimiliano Zambetta
“Questo gioco mi dà la sensazione che il tempo stia passando come quando ascolto una canzone dietro l’altra allo stereo, mi faccio del bene e non controllo l’orologio”.
Dario spegne la fiamma della candela profumata alla lavanda con i polpastrelli, passandoseli prima sulla lingua, qualche volta senza nemmeno bagnarli, dando importanza al gesto. Mi dà l’impressione che non facendo in questo modo si scotterebbe, dandomene poi la colpa. Dario, quando sbaglia, mi dà la colpa dei suoi errori. Quando Alberto era Dario, non pensava mai di farmi un rimprovero, per nessuna ragione al mondo. Ho sempre cercato di interrompere i suoi silenzi troppo lunghi invece, era come se lui evitasse di parlare di proposito per sbagliare meno possibile. Quando Alberto era Dario spegneva la candela soffiando direttamente sulla fiamma, prendendo in mano la bugia, e rischiando di colare la cera sul pavimento. Facevo finta di non vedere, e invece ridevo e lui se ne accorgeva. Devo ancora capire perché
proseguiva la serata preso da quei sensi di colpa, non mi sentivo libera di comportarmi istintivamente, di questo continuo a fargliene una colpa. Oggi mi hanno trattenuta in ufficio per sistemare una pratica in scadenza, il computer si è bloccato e non ho salvato il mio file aggiornato, qualcuno ha parlato di virus, ma l’ho ascoltato distrattamente. Mi sono lasciata alle spalle due colleghi che in tutti i modi hanno cercato di rimediare al problema per simpatia, non li ringrazierò comunque e non l’avrei fatto anche se non portassero le loro fedine al dito. Non ho visto nessun cliente al supermercato e non sono entrata per non disturbare le cassiere. Lo yogurt nel frigorifero scade oggi, non ho fame, mangio per abitudine. Ho appena finito di spiegare a Dario, al telefono, che sono al secondo giorno di mestruazioni. Mi ha creduto subito e non mi ha fatto pesare che non l’avessi più
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richiamato subito dopo aver sentito i suoi due messaggi e leccare la sua pelle troppo amara di deodorante nella segreteria telefonica. Ora non avrei voluto più e dopobarba, prima che mi facesse salire su di lui, dirgli questa bugia e pensandoci mi sarebbe piaciuto accompagnando con troppi sospiri e mezze frasi ogni andare, non sapeva neanche lui a vedere cosa mio movimento. oggi pomeriggio, al cinema. Mi immagino seduta Le eccessive attenzioni di Alberto quando era sul divano con l’accappatoio addosso, prendendo Dario dopo che avevamo fatto l’amore, e non mi freddo alla testa con i capelli bagnati, ma il pensiero permetteva di addormentarmi, non mi causavano di fare qualcosa che preveda una certa preparazione, crisi di nervosismo solo perché il giorno dopo Dario fosse solo il fatto di togliere questi vestiti e di decidere si sarebbe addormentato senza dirmi neanche la temperatura giusta dell’acqua per il bagno o la buonanotte. doccia, mi blocca. Quando Alberto era Dario lo ritrovavo sempre vicino a Ora ho chiuso la porta di casa. Incisi sul nastro della me quando mi risvegliavo. segreteria ci sono altri messaggi che ho sentito senza Per strada c’è uno strano fracasso, sento una serie di ascoltarli, penso di aver capito che Alessia verrà qui rumori che non sono normali, è successo qualcosa domani, se mi troverà in casa le darò o mi prenderò che però non mi riguarda e non mi può coinvolgere. tutto quello che vorrà prendersi o portarmi. Non Mi credo particolarmente egoista perché non esiste importa. nessuno a cui chiedere un consiglio o semplicemente Mi tolgo il cappotto, adesso posso pensare che riuscirei un giudizio, anche negativo, riguardo a questa storia. a dormire solo con questi vestiti addosso. Anche se mi aiuterebbe veramente, ma non posso Quando Alberto era Dario passava il primo quarto spiegare, senza passare per pazza, che vorrei che d’ora con me a ricordare la mia serata precedente qui con me ci fosse Dario con l’unica condizione che con Dario, senza mai approfondire, solo qualche domani ci sarà il suo gemello. E non posso sapere in rapido accenno. Era troppo teso per la paura di una anticipo cosa succederebbe se glielo dicessi a tutti e gaffe imperdonabile, non da me, ma ostinato a voler due per una sola volta insieme. comunque concludere la frase che si era preparato Solo che ha fatto male Dario a innamorarsi di me al magari in macchina, prima di incontrarmi. punto di volermi solo per sé, o magari ha sbagliato Non ho mai voluto mettere di fatto Alberto in difficoltà, Alberto a volermi bene al punto di farmi vivere una neanche quando il comportamento esattamente storia regolare e di lasciarmi solo a suo fratello, che mi opposto a quello di Dario mi offendeva, e per la sua ha conosciuto per primo. sicurezza del fatto che io non potessi avere neanche Vorrei tanto che entrambi intuiscano il mio stato un sospetto e, quindi, non fosse necessario il minimo d’animo, ma forse chiedo troppo. accorgimento. Non glielo perdono. Qualche sera fa telefonai a casa loro. Rispose Alberto Mi sento sola, e stranamente non sono più stanca, forse “Dario rientrerà tra poco,” si limitò a dirmi, “ti faccio sarebbe sufficiente accennare il minimo movimento. richiamare?” Mi chiese, senza tradire la minima Resto ferma e ho caldo, sudo, basterebbe che mi emozione, come se sentirmi al telefono non gli facesse togliessi veramente il cappotto di dosso. Ho in mente nessun effetto. due tre canzoni, le strofe di una si confondono con “No,” gli risposi, “non è importante.” quelle dell’altra e dell’altra ancora, non è un pensiero E invece era importante, molto importante. Avrei sempre uguale, accelero e rallento di continuo il ritmo: voluto presentarmi in quella casa senza essere invitata, un po’ è automatico e non riesco a fermarlo del tutto. lasciarmi andare al primo gesto sconsiderato che Questo gioco mi dà la sensazione che il tempo stia mi fosse venuto in mente, senza riflettere, non so passando come quando ascolto una canzone dietro neanch’io cosa avrei mai potuto fare, forse niente. In l’altra allo stereo, mi faccio del bene e non controllo quel momento avrei voluto piangere, per sfogarmi, ma, l’orologio. da un po’ di giorni, non sono in grado di fare neanche Sarebbe il caso, forse, che parlassi chiaramente con quello. Rimasi a osservare il soffitto, come faccio in Dario: ho sbagliato a pensare che, con qualche questo momento. frase di circostanza detta nel momento giusto, lui mi Fuori adesso non si sente più niente, un’auto ogni tanto, raccontasse tutto con naturalezza. è normale, del tempo deve essere comunque trascorso. Dovrei riuscire a dirgli che la nostra Ora vorrei volermi più bene, non ho storia continuerebbe solo se fosse più sonno, magari potrei farmi un vero, e purtroppo è vero, quello bagno, molto lungo, con i sali, la che sospetto dal principio. E Dario schiuma, la cremina sulla faccia e la dovrebbe accettare il mio ruolo musica a volume bassissimo dall’altra dominante in tutta la faccenda, da stanza di un cd molto lungo. quando è cominciata, rinunciando al Sono innamorata, dovrei essere suo, che con me, almeno, non è mai felice. esistito. La totale mancanza di profumo sulla pelle di Alberto quando era Dario, l’odore forte del suo sudore mentre, completamente in silenzio, mi bloccava le mani con tutta la gentilezza che gli era Massimiliano Zambetta è nato nel 1970 a Bari. possibile e naturale quando mi Dal 2000 vive a Milano dove studia Ingegneria. penetrava con una lentezza da Il suo posto preferito sono gli areoporti di Palese stordimento, non aveva senso e Linate. Le distanze è il suo romanzo di esordio se non il giorno dopo che Dario che ha come tema il precariato lavorativo. completamente immobile sul mio letto si lasciava baciare
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L’UTILITA’ E IL DANNO DELLA STORIA PER LA VITA txt Nicola Lagioia
Il 18 aprile 1820, mentre Silvio Pellico viene alle mani con la polizia austriaca e il poeta John Keats trova nella tubercolosi un magnifico espediente per morire a Roma, lontano da tutto, nel cuore dell’Atlantico, l’imperatore dei francesi, dopo avere trascorso un’intera giornata tra cielo e mare nell’ostinata contemplazione della linea dell’orizzonte, consumato dal cancro e reso folle dalle emorroidi concepisce il progetto di una festa grandiosa da tenersi proprio lì, sul suolo infame di Sant’Elena, protettorato inglese e suo
Nicola Lagioia è nato a Bari nel 1973, ha collaborato con diverse case editrici, lavorato come ghost-writer, scritto sceneggiature. È autore di Poesia on-line, volumetto allegato all’Annuario della poesia italiana curato da Giorgio Manacorda (Castelvecchi, 2001). Per minimum fax ha pubblicato nel 2001 il suo primo romanzo, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi). Un suo racconto è comparso nell’antologia Patrie impure di Rizzoli e nel 2004 ha pubblicato per Einaudi Occidente per principianti. Attualmente dirige Nichel, la collana di narrativa ialiana di minimum fax, collabora con la rivista “Accattone”, scopre talenti, scrive reportage e organizza traslochi.
ultimo rifugio terreno. Ogni mattina, da almeno cinque anni, Napoleone convoca il fido Las Cases per dettargli le sue memorie. Nell’atto di evocare la Campagna d’Italia, le spedizioni in Egitto, la battaglia di Austerlitz, il vecchio generale non riesce a ritrovarsi nelle proprie parole. Come è possibile che un solo uomo abbia potuto tanto? A fronte del silenzio e della solitudine dell’isola, come è possibile che ventimila bocche abbiano urlato in una sola voce Vive l’Empereur!, che a Waterloo il sole sia tramontato sulla carcassa di centomila soldati, che il code civil abbia tracciato il solco in cui il pensiero giuridico occidentale è destinato a confluire, che la battaglia di Marengo, definitivamente persa la mattina, fu vinta poi nel pomeriggio? Piegato in due dalla gotta, dalla tosse, dal misterioso riaccendersi della sifilide, Napoleone detta a Las Cases: “Il 14 novembre 1805 giungemmo a Vienna” e sente spalancarsi un vuoto insanabile tra i protagonisti delle imprese raccontate e la sua attuale persona. Nello stesso tempo, la circostanza che quelle mani gonfie e tremanti abbiano un giorno davvero sollevato la corona di Francia lo riempie di un
Giocando d’anticipo sulla follia di milioni di uomini Napoleone Bonaparte, il 18 aprile 1820, arriva a credersi se stesso. È allora che immagina di convocare la sua piccola schiera di fedelissimi allo scopo di organizzare, a poco più di un anno dalla morte, la più colorata, sfarzosa, disinibita festa che l’isola di Sant’Elena abbia mai visto.
orgoglio sempre più vuoto e degenere. Tali vertiginose sensazioni – incredulità di se stesso rispetto al mondo e del mondo rispetto a se stesso – gli intaccano definitivamente la ragione. Giocando d’anticipo sulla follia di milioni di uomini Napoleone Bonaparte, il 18 aprile 1820, arriva a credersi se stesso. È allora che immagina di convocare la sua piccola schiera di fedelissimi allo scopo di organizzare, a poco più di un anno dalla morte, la più colorata, sfarzosa, disinibita festa che l’isola di Sant’Elena abbia mai visto. Una festa volgare, eccessiva, la temporanea rivincita dell’uomo sulla noia agghiacciante della natura incontaminata. Una sagra della primavera rovesciata di significato. Una musica che si diffonde e brilla dalle finestre aperte – violini dalle corde d’argento, bicchieri scagliati continuamente sul pavimento, vecchi ammiragli occupatissimi a intonare Smanie implacabili e donne in veste di tenore –, un brulicare di lanterne nella notte, scambi di anelli, di misteriose scatole con doppio e triplo fondo, di frasi oscene, giri di valzer, di mazurka, improvvise esplosioni di danze ungheresi mentre il più loquace cuoco della Compagnia delle Indie intrattiene
coolibrì agosto-settembre 2006 gli ospiti con deliziosi aneddoti sul papavero da oppio e la baronessa de Crècy, già Klossowski, già Romanov, allontanata dalle corti di mezza Europa e approdata anche lei ai margini della civiltà, accetta continuamente inviti alla toilette e allunga lo champagne col frutto prestigioso della propria natura. Una festa in maschera insomma, religiosa e blasfema, alla maniera del vecchio Settecento veneziano in cui Napoleone, vestito da Napoleone, torni a indossare per un’ultima volta l’uniforme da generale. E le urla, le risate, non supererebbero il raggio
di un chilometro. Inghiottite dal buio della notte, non giungerebbero all’orecchio degli odiati carcerieri. Non varcherebbero l’Oceano. Non toccherebbero l’Europa, dove la macchina della noia e del risentimento trasformerebbe la singola testimonianza in uno sciame di dicerie, riverserebbe le dicerie in una cronaca del tempo, e poi in un saggio storico, e in una biografia, e avanti, ancora avanti, nero su bianco, ad uso delle future generazioni. Invece no. Non resterà nulla di questa farsa, considera Napoleone in una curva mostruosa degli occhi, sarà la prima azione della mia vita a non produrre alcun
Mare e Rame Un’aiuola in mezzo al deserto, Mare si stropiccia gli occhi ma la visione resta, resiste a pochi passi. E un bambino, con le mani mischiate alla terra. Mare e la sua voce che trema ma il bambino ha gli occhi spalancati, e ridono. Non le resta che mettersi lì vicino. Il bambino parla. Poi raccoglie le fragole e riempie le mani di Mare.“Il villaggio è ad un solo giorno di cammino”. Mare porta con sé il profumo delle fragole. La strada del villaggio è deserta e le luci si assomigliano, al colore dell’alba. La casa di Zia Rame è poco distante dal centro, ed ha le finestre verdi. Mare fa un gran respiro e bussa, i passi di Zia Rame sono già sulla porta. Mare apre le mani ed un sorriso ma due braccia la spingono dentro.“Dove hai preso le fragole?”Mare inizia il suo racconto semplice ma “Hai parlato con qualcuno del piccolo mago?” Poi le racconta di un bambino che molti anni prima è arrivato al villaggio, e della sua maledizione. Non crescono più le fragole, solo lui conosce il modo, la formula magica. Lui conosce il segreto.“Gli uomini provarono a mandarlo via. Non si vide per molto tempo. Poi iniziò ad apparire nei luoghi più strani, lui e la sua aiuola”. Mare è sorpresa, ma non ha paura. Ci mette una notte intera, poi al mattino è già sulla via del deserto. Il profumo delle fragole la raggiunge, e Mare sente il cuore parlare. Il bambino risponde alle domande, a tutte le domande. Non resta che la strada del villaggio a convincere gli uomini, dopo le donne, di un errore grande quanto il pezzo di cielo che guardano, dagli occhi. Zia Rame l’ha avvertita e Mare spera. Bussa quasi ad ogni porta e sente lo sguardo ostile. Zia Rame appare dal tramonto e la spinge in casa.“Ti prenderanno per pazza, o peggio ancora, per una
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effetto sulla Storia. Ed ecco. Nello spazio angusto di un simile ragionamento Napoleone riuscirebbe a salvarsi. Stanco, malato, fuori di sé, sfigurato dal travestimento, al centro di una festa di cui nessuno verrebbe mai a sapere niente, l’imperatore dei francesi sarebbe definitivamente perdonato. Bianchi come un agnello. Lisci e perfetti come una biglia di porcellana. Sono soltanto gli eventi ammazzati sul nascere – ciò che è successo senza lasciare dietro di sé memoria o conseguenze – a presentarsi già assolti davanti al tribunale del Tempo.
txt Mauro Scarpa complice del piccolo mago”. Mare non capisce. Per molti giorni si fa finta di niente. Poi gli uomini studiano un piano; seguono Mare. Il bambino non ha ancora esaurito le domande e gli uomini gli sono già addosso e altri distruggono l’aiuola delle fragole. Sembra una storia conclusa e il bambino non si vede più, Mare non sa dove cercarlo, Zia Rame cerca parole di conforto. Scompare il ricordo delle fragole. Mare aspetta un segno, per anni, e un segno non arriva senza passato. Mare decide di dimenticare ed è una questione di tempo, il ritorno. Allora succede, un uomo da sposare, una casa da abitare, il suo profumo, un’altra storia. Poi un giorno raggiunge il giardino e non può non fermarsi. E non torna che una parola, lì tra le mani mischiate alla terra. Sta nascendo qualcosa.
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Anch’io mi sono comprato il cellulare. Mi hanno convinto a comprarlo perché, mi hanno detto, quando uno fa uno squillo sai che ti sta pensando. Così adesso so per certo che nessuno mi caga.
MAI SVEGLIARSI CON GLI OCCHI APERTI txt Tony Sozzo
Questa mattina mi sono alzato che mi faceva male la testa. Non avevo passato una bella notte. Avevo avuto un incubo dopo l’altro. Ad uno ero un ragazzo noglobal che era stato scoperto dal resto del gruppo con un hamburger comprato da McDonald’s. Certi no-global hanno anche ragione, ma uno non ha il tempo di dirgli in faccia qualcosa di ingiusto socialmente che gli hanno già fatto diventare la macchina di un altro modello. Una volta mi sono trovato in uno scontro tra no-global violenti e poliziotti. I poliziotti che mi hanno portato in caserma si sono tanto arrabbiati che io avessi il naso già rotto che mi hanno sbattuto in cella con un tale che non faceva sesso da cinque anni. Non ho potuto sedermi per due mesi. Quando mi alzo la mattina è sempre una tragedia. Sarebbe meglio alzarsi quando uno ne ha voglia. Non ci sono forse degli animali che dormono tutto l’inverno? Io vorrei dormire tutti i giorni feriali. Sono andato in bagno a lavarmi la faccia, ma nel guardarmela ho pensato che stavo usando troppi riguardi. Una volta ho vinto un concorso di bellezza, ma era per cani. Ed in più nella giuria avevo due zii ed un cugino. Il mio profilo migliore è quello dalle parti della nuca. Non sono nato bellissimo. Ho fatto anche la comparsa in un film horror, ma sono stato buttato fuori perché rubavo la scena a chi interpretava il mostro. E per i cani sono sempre stato una pietanza prelibata. Avevo un cane che fui costretto ad allontanare perché all’ora di mangiare invece della scodella guardava me. Ho accesso la televisione come faccio ogni mattina. Che volete: c’è gente che appena alzata va in bagno a fare i suoi bisogni, a me piace guardare le cagate che fanno gli altri. Alla tv c’era un tipo che parlava di chirurgia estetica. Diceva che uno ha il diritto di modellarsi il corpo come meglio crede. Io non sono d’accordo: c’è pure chi ha il diritto nel vedere una
bella donna di complimentarsi con la madre senza fare una gaffe colossale. Ormai con tutte queste operazioni non si capisce più dove finisce la carne e dove inizia la plastica. Ho avuto spesso delle discussioni su questo argomento. Tutte le mie amiche si farebbero operare, se avessero i soldi. Ad una ho dato tutti i miei risparmi per un’operazione, ma sono bastati solo a farsi togliere le pellicine di una mano. Per un’operazione di chirurgia plastica ci vogliono un sacco di soldi. E non è detto che le cose migliorino. Magari ti raddrizzano il naso e scopri che avevi storti anche gli occhi. E così via fino a capire che avevi solo il vizio di tenere la testa di lato. La conduttrice del programma televisivo rideva e sembrava d’accordo col suo ospite. Il suo voluminoso seno non doveva essere suo. I suoi figli avranno ciucciato da lei per poi passare al biberon senza notare grandi differenze. Avevo dubbi anche sul suo ombelico. Sembrava il tappo del mio canotto preferito. Mia madre ha trovato il modo di sgridarmi perché non mi ero rifatto il letto. Le ragazze invece di solito avevano da ridire perché non mi ero ancora rifatto il setto. In effetti avevo un naso che m’avrebbe invidiato anche Picasso. Era fatto in modo che da qualsiasi punto lo si vedesse sembrava un disadattato. Le donne in un uomo apprezzano la bellezza, il potere e il portafoglio. Il portafoglio non ce l’ho. Sarebbe come avere un garage per la macchina senza avere la patente. Molte donne amano gli uomini autoritari, decisi, forti, che le fanno sentire delle schiave. Io al massimo le faccio sentire delle infermiere. Sono uscito un po’ nel mio cortile. C’era il mio gatto che era incazzato perché il suo cellulare non mandava mms. Gli ho detto che non era importante. Per risposta mi ha graffiato così tanto la faccia che sembravo l’Uomo Ragno. Ormai tutti vanno pazzi per i cellulari. Anche la Madonna prima di comparire a qualcuno fa
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ECOLOGICOLOR txt Livi(d)o
Tony Sozzo è un trentaduenne di Carmiano, laureato in lettere moderne, ama la letteratura e quelli che considera i suoi massimi livelli (Svevo, Cèline Sartre, Kafka). Adora Woody Allen (anche come musicista) e Sergio Caputo (anche come scrittore) e ama la musica nera nelle sue forme più espressive dal jazz al funky. In primavera è uscito L’eterna cosa peggiore il suo primo romanzo pubblicato da Lupo Editore.
uno squillo. Anch’io mi sono comprato il cellulare. Mi hanno convinto a comprarlo perché, mi hanno detto, quando uno fa uno squillo sai che ti sta pensando. Così adesso so per certo che nessuno mi caga. Le mie giornate passano in maniera monotona. I giorni sono tutti uguali. Ad un certo orario c’è il tramonto e mi viene la congiuntivite a guardare tutti quei colori. Ad un certo orario ci si alza, ad un certo orario si mangia, ad un certo orario si va a dormire. Qualche volta si vota, qualche volta ci si sposa, con la persona che pare quella giusta, ma che non può essere quella giusta, se è tua moglie. Dicono che la vita senza passioni non vale la pena di essere vissuta. Così mi sono comprato un surf, ma in una caduta sono andato in acqua con la bocca aperta ed una medusa mi è arrivata in gola. Per tutto l’inverno quando parlavo la gente credeva che ci fosse una mosca nella stanza. Così ho venduto il surf ed ho comprato dei pattini. Ma sono stato bloccato dal sindaco perché in un mese con la fronte avevo finito tutto l’asfalto del paese. Nella mia famiglia non abbiamo mai avuto molta fortuna con i nostri hobby. Quando a mio padre venne l’hobby del giardinaggio comprò una pianta carnivora che mangiava due chili di carne al giorno. Non durò molto perché le venne il colesterolo alto. Mia madre invece trova soddisfazione a cucinare. Prova un sacco di ricette. Ed io devo dimostrarle se sono commestibili. A volte prepara dei piatti che non so mai se mangiare o vendere come arma batteriologica al primo paese che mi telefona. Però davanti a lei non posso fare delle smorfie che la farebbero rimanere male. Così quando lei non se ne accorge butto tutto al mio gatto, che da quando ho l’abitudine di fare così non mi saluta più.
Mentre il tuo corpo pensava se riattivarsi per l’ennesima volta o fare sciopero come i metalmeccanici in piazza per il rinnovo del contratto costruivo un brano indietronic dedicato alla natura. I sorrisi distribuiti dai politici dovrebbero vietarli, sono diseducativi. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro (interinale). Vi ricordate quando gli spaghetti al pomodoro rendevano felici le persone? Il bianco e nero c’era al cinema e serviva per sognare. Si crescevano i figli senza chiedersi perché e si faceva l’amore per amore più di adesso che spesso è sesso e basta. Poi cambiò il clima e venne l’apatia a congelare gli animi. Forse il materialismo, forse la superficialità, qualcosa è cambiato. La depressione si diffonde neanche fosse contagiosa. Secondo alcuni dovremmo tornare a cercare un contatto con la natura, uscire fuori da queste foreste di cemento e riscoprire il verde, gli animali, l’orto, le cose semplici. Dovremmo rispettare l’ambiente. Nel medioevo il cavaliere quando arrivava in città parcheggiava il cavallo fuori le mura e proseguiva a piedi. Qualcuno oggi assume un comportamento simile. Lasciare l’auto nei parcheggi periferici della città per poi spostarsi in autobus. Cavalieri moderni? Non credo, i veri cavalieri usano solo mezzi pubblici, privati ecologici o le proprie gambe. E pensare che oggi c’è gente che prende la macchina anche solo per fare pochi metri…. L’occidente come in un vaso di terra, le radici morte per la troppa abbondanza, la ribellione e la crisi internazionale, la guerriglia. Mangia cereali sennò t’ammali. Leggi le notizie, ingiustizie. Aiuta chi non ha. È un orologio senza lancette, sento il rumore degli ingranaggi, centosettanta battute al minuto, acqua pulita piace, acqua dura spaccherà la vita degli elettrodomestici e dei reni. È un campo da golf, ettolitri sprecati per l’irrigazione dei suoi splendidi prati, è una fabbrica che svuota bidoni di rifiuti tossici nei canali, è una manciata di detersivo in più per fare il bucato, è una petroliera che affonda, dei tubi che perdono, un ghiacciaio che si scioglie, un buco che si allarga, una combustione, un litro d’olio per frittura usato svuotato nel lavello, un rubinetto lasciato aperto per lavarsi i denti o far la barba, un’inciviltà.
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H.B. Un delirio di Nino G. D'Attis
Dice che adesso non dipinge più, non fa sculture, preferisce mescolarsi con una mondanità selettiva, visitare le migliori spiagge del pianeta in cerca dell’abbronzatura perfetta.
Giovedì sera cena da Marco, foto dell’Amazzonia, grossi culi brasiliani, devastazione con vodka lemon, gin lemon, condizioni critiche al momento di trovare le chiavi della macchina sotto una pioggia fitta e gelida. Acqua a secchiate. Niente ombrello. Appartieni Nino G. D’Attis è nato nel alla razza di coglioni 1966 e vive attualmente che l’ombrello non tra Roma e il Salento. se lo portano mai Ha pubblicato articoli dietro, figuriamoci a e racconti su numerose metà giugno. riviste. È tra i fondatori Hai avuto la tua della web-zine www. vita. Hai avuto le blackmailmag.com. La tue occasioni. Hai Marsilio ha pubblicato avuto un cazzo di Montezuma airbag your ombrello comprato pardon, il suo romanzo da un cingalese alla d’esordio. stazione Tiburtina e Sesso. Alcolici. Codici adesso chissà dove a barre. Carrelli della sarà finito. spesa pieni di merce. Marco ti ha Eva Henger e Miss presentato il tipo in Pomodoro. Cani feroci. maglietta da skater, Questa è la storia di un capelli blu elettrico, uomo che cade a pezzi. tatuaggio maori sul Spietata e feroce satira bicipite destro: «Mio sociale Montezuma padre Julian.» airbag your pardon Cinquantanove parte comico, diventa anni, daiquiri e grottesco e finisce in sigarette o daiquiri, dramma, allucinazione sigarette e fegato dopo allucinazione. gonfio, arterie intasate, pressione
alta. Vive a San Paolo con la sua nuova fichetta poco più che adolescente che somiglia all’attrice Halle Berry e ha un nome lungo e sdrucciolo impossibile da ricordare. Julian dice che nel suo vecchio studio in via Gioberti adesso ci abita una famiglia di arabi. Dice che in venticinque anni a Roma ha fatto un sacco di soldi vendendo croste infami copiate da un informale milanese. Dice che adesso non dipinge più, non fa sculture, preferisce mescolarsi con una mondanità selettiva, visitare le migliori spiagge del pianeta in cerca dell’abbronzatura perfetta. Ti svegli nudo, il pene che torreggia sotto le lenzuola. Ti svegli con gli avanzi di un sogno in cui Halle Berry, vestita d’oro dalla testa ai piedi, è in ginocchio su un pavimento d’erba sintetica nella suite all’ultimo piano di un albergo di lusso. La sua faccia truccata come quella di Gene Simmons dei Kiss. In filodiffusione, le note di I was made for lovin’ you. Halle Berry sbatte le palpebre e mormora qualcosa mentre
bussano alla porta. Una voce fuori campo dice: «Bisogna muoversi con cautela.» E: «Prima di leccargliela, dovresti perfezionare le tecniche del baciamano.» La voce è quella di Julian, il padre di Marco. Padre e figlio hanno la stessa voce chioccia, priva di inflessioni. Marco usa la sua per condurre dal lunedì al venerdì un programma televisivo di salute e bellezza che quest’anno ha raggiunto punte del 23% di share. Marco è quello che ti ha accolto con un: «Tu ed io faremo una squadra invincibile!» Quello che ti ha ammesso nel suo team redazionale dopo che eri stato carino con lui negli spogliatoi di un golf club per nomi più o meno blasonati. Giovedì sera ha detto: «Sei forte e giovane, hai questi occhi neri che ti porteranno lontano.» Espressione estatica, brutto mix di vodka e coca. «Sul serio, Livio: questi tuoi occhi da cafone meridionale ti porteranno lontano.» Ha tentato di baciarti sulla bocca, mentre andavi via. Suo padre ha assistito alla scena ma ha fatto finta di
coolibrì agosto-settembre 2006 niente. Fuori, la pioggia ha inzuppato il tuo completo grigio preso coi saldi a 95 euro. Memo per il giorno dopo: collegamento in diretta con l’ex modella quarantenne che ha deciso di darsi all’artigianato artistico fabbricando lampade con materiali
riciclati. Tra gli ospiti in studio, la rappresentante di una nuova associazione femminile che vuole aiutare le donne a ristabilire il giusto rapporto fra capacità professionale e valore. Tre minuti e quaranta secondi per l’oroscopo. Altri quaranta secondi per parlare di un libro sulla terapia ayurvedica. I consigli del dietologo.
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Un servizio sull’insulina spray. La ricetta delle albicocche farcite con le mandorle e messe in miele di acacia sceltissimo. Sei sveglio da dieci minuti, il cazzo si sta ammosciando. Halle Berry sorride e dice: «Chiama la segretaria, dille che sei malato, prenditi un altro giorno di libertà.»
txt Marco Montanaro
Let’s WorK together Ricordo bene la rapina. Sangue dappertutto. Eravamo dei dilettanti, o meglio, dei veri idioti. Io non sapevo fare il caffè, figuriamoci maneggiare una pistola e guidare un’auto in fuga con la polizia alle calcagna. Il mio “socio”, così ci chiamavamo tra di noi, era un semplice sbruffone, un bullo di quartiere, però mi faceva ridere. Per questo diventammo amici e in seguito realizzammo che dovevamo inventarci un mestiere perché non sapevamo fare davvero nulla, né avevamo voglia di imparare uno di quei lavori che servono a mantenersi all’università. Provammo prima a fondare un gruppo punk-teatrale. Volevamo recitare alcune nostre cose mentre, in sottofondo, sostanzialmente, facevamo casino (un bel casino, a me piaceva), usando una drum machine per le percussioni, una chitarra e un basso. Ma siccome io non riuscivo a fare nient’altro mentre suonavo il basso e il mio “socio” voleva solo suonare e non aveva idea di cosa scrivere, cercammo qualche attore di teatro, abbondantemente minchione e disperato come noi, per il recitato. Fu così che conoscemmo Andy. Il problema stava nel fatto che Andy era albanese e al mio “socio” gli albanesi non piacevano. Per di più detestava gli albanesi omosessuali, ed Andy era omosessuale. Per me il problema era un altro: col tempo Andy cominciò a recitare testi suoi, che a me facevano schifo, così lo cacciammo dal gruppo. In verità, fui io a cacciarlo, giacché alla fine Andy e il mio “socio” divennero grandi amici. Intanto però le basi che componevamo non erano male, così registrammo un cd interamente strumentale, lo inviammo a una di quelle riviste indipendenti che trattano di musica e ricevemmo una bella recensione. Decisi che potevamo concederci una pausa, nonostante
non ci fosse un quattrino, così cercai di finire l’università, perdendo le tracce del mio “socio” per qualche mese. Qualche tempo dopo sentii di nuovo puzza di lavoro: non mi ero -ovviamente- ancora laureato e i miei genitori non volevano più saperne di sociologie ed antropologie varie; così decisi che era arrivato il momento di fare soldi con la musica. Per alcune settimane cercai invano il mio “socio”, fin quando non mi decisi ad andare a chiedere ad Andy. Non ci fu nemmeno bisogno di salire a casa del tipo albanese: travolti da irrefrenabile passione appulobalcanica lui e il mio “socio” stavano facendo l’amore nelle scale del condominio dove abitava Andy. A due settimane da quella terribile visione, Andy e il mio “socio” si lasciarono(Andy aveva un altro), sicché il mio vecchio amico non ne volle più sapere di musica e di tutto ciò che poteva ricordagli l’albanese. Gli chiesi: “E ora?Tu hai idee?O soldi?”. La banca era piena di sangue e pensai che, fosse stato un film, avrei vomitato per lo schifo. Invece, dato che stavo vivendo in prima persona la rapina, mi veniva da ridere ripensando a ciò che ci aveva portato lì; per un attimo pensai addirittura che fare il muratore non doveva essere male. Non prendemmo nemmeno i soldi. Non ricordo nemmeno chi sparò, perché,e a chi. Ricordo la fuga in macchina, conclusa dopo 2 minuti e 36 secondi contro l’ambulanza, che non so se fosse diretta alla banca, ma di sicuro era divertente pensarlo. In tutto questo il mio “socio” ebbe un ottimo pensiero:”Erano gli Spacemen 3! Erano gli Spacemen 3 che stavamo ascoltando quando Andy venne a casa tua per la prima volta !”
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Resto immobile. Spingo di nuovo la porta anche se so che non si aprirà. Butto lo sguardo all’insù per vedere se c’è una qualche botola per scappare. Non c’è. Dimenticavo che non è un film di Hollywood, io non sono un attore miliardario, questa qui non è una bond-girl e non c’è un cazzo di regista fuori da poter chiamare.
Buon anno! txt Marco Chiffi
Avete presente nelle riviste settimanali, quelle descrizioni minimaliste dei film in programma che in non più di tre righe vi devono convincere a vedere il filmone del giorno? Bene, io di lavoro faccio quello. Da bravo novellino in redazione mi hanno rifilato questo compito come “un ottimo inizio”. Sarà anche un ottimo inizio ma prendevo di più quando passavo le mie giornate ad aggiustare fotocopiatrici nell’azienda di mio zio. In tutti i modi, dopo sei mesi di duro lavoro eccomi ad aspettare il salto di qualità con l’anno nuovo. Notte di capodanno. “Andrea, sei pronto o no?” “Si due minuti devo solo sistemarmi la cravatta.” Convivo da soli due mesi con Stella. E già facciamo i coniugi in certi momenti. A volte penso che forse sto con lei perché ha un bel visino e mi piace il suo nome. Bah!. comunque se finirà mi dispiacerebbe. Soprattutto per non poter accarezzare più la copertina del vinile originale di London Calling dei Clash, comprato su ebay con i suoi soldi. “Dai, su, sbrigati. Ti aspetto o vado avanti con gli altri?” “Vai vai. Io tra una decina di minuti vi raggiungo.” La sera di capodanno, quando ancora manca qualche ora al gran finale, passeggiando per le strade sembra di essere nel bel mezzo di una guerra civile. Le strade sono deserte, gli impazienti iniziano timidamente a sparare i primi colpi e piccole nubi di polvere da sparo residua coprono tutto come un lenzuolo sporco. Stasera sarò di scena ad una festa tra giovani imprenditori rampanti della città. Ci saranno aneddoti da raccontare, drink da inghiottire per evitare di concedere eccessiva attenzione agli altri e tanti tanti sorrisi alla extreme makeover. Quanto ci mette st’ascensore? Mi ricordo quello del palazzo dove abitavo da piccolo. Mi divertivo a salire e scendere dal piano terra al quarto, mentre gli altri inquilini a cui serviva realmente l’ascensore,
prima urlavano e poi si facevano le otto rampe di scale. “Salve.” “…” appena entro nell’ascensore un profumo fortissimo mi prende a pugni il naso. Nell’ascensore c’è già una signora sui cinquanta (portati malissimo) con lo sguardo un po’ perso che risponde al mio saluto con un gesto buttato lì. Dovrebbe essere l’esaurita del quinto piano. Cerco stranamente un approccio mentre la cabina scende diretta verso il piano terra. “Allora? Dove va di bello stasera?” “Faccio una passeggiata” “Eh, ma deve tornare in tempo a casa per festeggiare con i suoi parenti immagino.” “No, nessun parente.” “Amici?” “Nessun amico.” Che bella vita sociale signora! “E mi scusi se mi permetto ma ha intenzione di passare da sola la notte di capodanno?” Appena finisco la frase ecco che uno scossone attraversa la piccola cabina dell’ascensore. La luce normale si spegne. Al suo posto si accende quella di emergenza. Tento di aprire la porta: chiusa. Notte di capodanno. Bloccato in ascensore. Lei resta impassibile a fissare un punto della parete verde acqua dell’ascensore. “Mi sa che è saltato l’interruttore generale.” Tento invano di dire qualcosa di intelligente. Panico. Fiondo la mano in
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tasca. Afferro il cellulare. Niente campo. A quanto pare questa cabina di merda sembra schermata. Nemmeno fosse un rifugio antiatomico. “Per caso a lei prende il cellulare?” “Non ho nessun cellulare” Resto immobile. Spingo di nuovo la porta anche se so che non si aprirà. Butto lo sguardo all’insù per vedere se c’è una qualche botola per scappare. Non c’è. Dimenticavo che non è un film di Hollywood, io non sono un attore miliardario, questa qui non è una bond-girl e non c’è un cazzo di regista fuori da poter chiamare. Suono il tasto dell’allarme. Mi esce dalla bocca un imbarazzante “aiuto!” Pronunciato male e soffocato. Realizzo quello che mi è successo. Mi viene quasi da scoppiare in lacrime e lo farei se non ci fosse questo manichino con le rughe che continua a rimanere impassibile. Inizio ad odiarla. Lei si siede. Ha iniziato a sudare. Lo sguardo è sempre più perso. Non ci faccio caso. In questi momenti ti rendi conto che quei 400 euro che ti chiesero per il corso di yoga e autocontrollo magari potevano essere un buon investimento e non una “inutile stronzata”. Inizio anche io a sudare. Ripeto nella mia testa merdamerdamerdamerdamerda. Sarà passata una mezz’ora ormai, forse anche di più. E la mia inutile ragazza che non mi cerca nemmeno. Forse sarà occupata a fare pubbliche relazioni a quella festa. Giro lo sguardo verso la signora. Ha un aspetto sempre peggiore. “Signora, si sente bene?”
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“Forse sto morendo.” “…” “Prima di uscire da casa ho mischiato un po’ di medicine e ho bevuto tutto.” “…” “Non è male farla finita in compagnia di un anno che se ne va…e con tutta la gente che festeggia poi è anche meno triste.” “…” “Lei sta scherzando, vero?” “Assolutamente.” Cazzo vuol dire ‘assolutamente’ brutta stronza! Ma dovevi venire a morire proprio nel mio ascensore? “Sarebbe?” “No, assolutamente no…non scherzo.” “…” “Mi dispiace per la tua serata. forse non l’avresti mai immaginato..” Cosa? Di trovarmi bloccato in un ascensore del cazzo la sera di capodanno con una matta che vuole suicidarsi? Certo che non l’avrei mai immaginato! “Ma…non è possibile…Lei avrà qualcosa per…non può certo…” “Mi rendo conto della situazione…hai da scrivere?” “Che?” “Hai da scrivere?!” Ti pare il momento brutta matta? “…si…credo in tasca…una penna…” “Prendi questo pezzetto di carta.” “Perché?” “Io non ne ho la forza…quando ti libereranno dovrai spiegare che ci fa una morta con te…ti detto un messaggio e poi lo firmo.” “…” per venire da un mezzo cadavere è una buona idea. “Allora, scrivi…” In poche righe indirizzate alle autorità mi detta le motivazioni del suo gesto, sottolineando che io non c’entro nulla e concludendo con un geniale ‘buon anno a voi’. mentre prende la penna per firmare, il suo corpo è tutto un tremolio di carne appassita. Posata la penna si affloscia su un fianco poggiandosi sulla parete verde acqua. Continuo a fissarla. Mi prende un senso curioso di vedere com’è che si muore. I muscoli che cedono, il corpo che si distende. Penso ‘cavolo…è morta…’. Però poi si muove ancora. Da fuori arriva casino, urla, musica. Mi sa che è iniziato l’anno nuovo. Volta lo sguardo verso di me. “buon anno ragazzo” con l’ultimo fiato in corpo. Io resto in silenzio. Notte di capodanno. Bloccato in ascensore. Signora morta suicida. Buon anno!
Marco Chiffi. Nato a Nardò il 08.04.1986. Scrivo per necessità. Non ho mai pubblicato nulla (per ora). Ho partecipato a piccoli laboratori teatrali stagionali negli ultimi anni. Sono uno degli autori dei testi, nonché batterista, dei ventunogrammi. La mia grande passione è la musica. Mi piacerebbe iniziare a scrivere su un qualche tipo di canale divulgativo. Sono iscritto alla facoltà di scienze politiche a Lecce.
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B ubhuradol
txt Dario Quarta (tratto da un sogno di Daniele "Bubu" Lala) Luna, alle tre. Fui sorpreso e un po’ intimorito, ma non sconvolto nel veder spuntare dalla mia tasca quella lama, lunga, sottile e insanguinata. Mi accorsi di lei dal suo luccichio, da uno strano riflesso intravisto mentre, guidando, svoltavo a destra. Era spiovuto da poco, il cielo si era pulito improvvisamente, le nuvole rimaste erano d’un grigio chiaro, con sfumature rosa, colori tenui che alle nuvole di sera danno comunque quel senso di pesantezza. Le nubi cupe del pomeriggio però si erano diradate, lasciando apparire la luna in tutto il suo splendore, come se fosse stata lavata dalla pioggia. Quella che aveva lavato la mia auto; il parabrezza, e anche la carrozzeria, grigia e costellata di macchie e patacche, era ormai uno specchio, che rifletteva pure la luna. Erano le tre, o giù di lì, e non ricordavo né l’impugnatura di quei venti
centimetri insanguinati, tantomeno di chi fosse il sangue, quasi raffermo e decisamente gelido. Tirai fuori con un po’ di ribrezzo la lama, ancora in preda ad uno stato confusionale. Il primo ricordo a riaffiorare era l’orrore, e poi il sorriso di quel tipo, simpatico e smunto, mentre un po’ goffamente, e con tanta ansia gli iniettai la dose di “Bubhùradol”. Avevo solo un vago ricordo dell’enorme sforzo dovuto compiere per acquietarlo prima dell’iniezione. La tasca insanguinata mi inquietava, il ricordo del sorriso invece mi incuriosiva. A tal punto che non riuscivo ad eliminare l’immediata idea di sperimentare ancora il farmaco del sorriso. Già, il Bubhùradol, il mio farmaco del sorriso! Non ci volle poi tanto a ricordare quello che era avvenuto, nonostante lo stato di disordine dei miei pensieri, e le molte mie funzioni
vitali che parevano come intorpidite. Quella sera ero uscito perché convinto di mettere a frutto anni e anni di sperimentazioni, e della mia passione per la chimica, coltivata in un angolo del garage. Dove mi ero attrezzato a mo’ di piccolo chimico, iniziando a sperimentare, provare e sperimentare. Con la pazienza datami da anni di covata cattiveria; o di malcelata bontà. Ed è per questo che dopo quel sabato notte, così diverso da tutti i miei sabati, ripiombato nella lucidità, mi si era rafforzata l’idea di ripetere l’esperimento, idea consolidata dalla strana sensazione avuta mentre impugnavo quella vecchia balestra, trovata su una bancarella del mercatino dell’antiquariato, un giorno qualunque di un mese qualunque, volato via più degli altri, ma che nell’incauto acquisto di quella balestra aveva il suo unico
coolibrì agosto-settembre 2006 ricordo. Non mi era successo niente in quel mese, non mi ero neanche innamorato. Balestra e quattro frecce, robuste, mica di quelle giocattolo; tutto a trentacinque euro. Il rigattiere ne voleva cinquanta, ma sono riuscito a tirare sul prezzo convinto di non dover mai tirare con quell’arma. A dire il vero non credo di aver insistito particolarmente per uno sconto, me l’ha concesso senza esitazione, tant’è che mi è venuto pure il sospetto che lo strumento fosse difettoso. Ma io non la dovevo usare. Ricordavo di averla comprata senza un motivo, non mi piacevano le cose d’antiquariato, tutti quegli oggetti e ninnoli sulle bancarelle, se andavo a spasso per il mercatino era per vedere la gente; mi ha sempre incuriosito la gente che va ai mercatini dell’antiquariato, e poi io non avevo mai visto prima di allora una balestra, capii qualche ora dopo il “significato” del mio impulsivo acquisto. Lo capii quando, fermo ad un incrocio di un viale buio e alberato della città, parcheggiai per rollare e fumare una sigaretta su una panchina umida, e caricai la balestra. Non notai lo sguardo di orrore negli occhi di quella ragazza che si vide, o forse no, arrivare la freccia in mezzo al petto. Passava lì per caso, la sensazione che mi venne in mente subito è che fosse una delle poche persone interessanti incontrate al mercatino, tra vecchi comodini tristissimi e inutili pezzi di lampadari. Si, era lei, ed era un caso che ora si trovata lì, stesa a terra, ormai in fase di trapasso, con il collo coperto in parte da una sciarpetta, stile etnico, color arancio, con frange e cuciture rosse e gialle. Doveva essere un tessuto leggero visto che non tardò molto ad impregnarsi di sangue, come il volto. Un viso carino, che si ravvivò, rasserenò e sorrise, dopo la mia ansiosa iniezione. Un gesto che anticipò il truce recupero della freccia. Un altro sorriso senza vita rafforzava
tutti i miei sforzi e ricerche; donare un ultimo sorriso, vero, vivo, a chi è appena morto era una grande conquista. Purtroppo l’efficacia del mio farmaco era sperimentata solo in caso di sua somministrazione immediata, dopo la morte. Comunque decisi di pulire il dardo inzuppato e metterlo nell’auto. Poggiai la balestra sul sedile posteriore. La rividi solo quando, per fare retromarcia, mi accorsi di trovarmi, stranito in un parcheggio davanti al mare... “La rabbia e l’amore, si imparano gratis, se proprio non c’è niente da dividersi, e noi, immobili nel cielo lucidochimico di una fotografia perché niente è come niente niente è un’orgia dolorosa è tempo squadernato e via...” ...canticchiavo, quando mi trovai dietro ad una bella ragazza, stavolta mai vista. Ero lontano dal bersaglio della mia balestra, a chilometri di distanza, davanti al mare. L’unica cosa in comune dei due momenti era forse la luna, la luna delle tre, bella e pulita. Che ci facesse lì a quell’ora una ragazza da sola non me lo sono chiesto, passeggiava tranquilla come di pomeriggio in città. Bel culo, messo in evidenza da jeans a vita bassa, da un giubbottino scuro e corto. Fatto di una strana fibra che non cambiò subito colore quando presi la lama e la ficcai nella schiena, all’altezza delle tette, che per un attimo mi venne di voglia di vedere. Ma l’operazione di accoltellamento cancellò subito quel desiderio. Un’atroce fine, lenta, che mi stancò. Era faticoso, ma lei non gridò neanche. Una faticaccia attenuata solo dalla bellezza del suo fondoschiena, dettaglio dal quale il mio sguardo non riuscì ad allontanarsi molto, almeno fino a quando non
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vidi cambiar colore il giubbino, zuppo di sangue, e iniziai ad avvertire il suo calore sul dorso della mia mano. La girai allora, per iniettarle la fiala, e lo feci canticchiando e chiacchierando con me stesso; parole e canti che uscivano contestualmente dai pensieri miei e dalla bocca della ragazza, lì stesa a terra che pappagallescamente sembrava ripetere quello che dicevo, o che pensavo. Incredibile. Ripeteva sillabando i miei pensieri prima che, finalmente, apparisse sul suo bel visino l’incantevole sorriso. Più dei suoi jeans, un sorriso totale, negli occhi e sulla bocca, sorrideva con ogni centimetro del volto. Era bellissima, anche da morta. Me ne andai, la lasciai, innamorato e triste. Tornai a casa col proposito di andare a smontare dall’angolo del garage l’occorrente del piccolo chimico, stanco del gioco, e triste per l’epilogo. Mi sembrava poca cosa l’aver ammazzato tre persone, non ricordavo nulla se non quell’ultimo sorriso, e quei jeans. Sono l’unico ricordo vero che mi rimane, insieme alla voce di mia madre che, quel sabato pomeriggio uggioso, si preoccupò di svegliarmi da una profonda pennichella, interrompendo così le scorribande omicide, e il mio innamoramento. Era appena spiovuto, il cielo era libero, e la luna pulitissima, come il vetro della mia auto. Uscii la sera, sereno, incuriosito dal sogno, con un velato sorriso sulle labbra, ma disarmato.
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Un anno nel fine del mondo TXT Philippe Fusaro
Da Strasburgo all’Italia passando per il Salento. È la storia neanche tanto singolare di Philippe Fusaro, 35 anni, girovago per passione, scrittore per vocazione. Nato in Lorena da padre italiano (per la precisione pugliese, di Corato, Bari) e da madre francese, Philippe è a Lecce da un anno dove ha appena terminato di scrivere il suo nuovo libro grazie ad una borsa di studio letteraria dopo il successo ottenuto con Il gigante d’argilla. Ispirato alla storia del pugile Primo Carnera il libro è edito in Francia dalla lionese La fosse aux ours.
Subito, sono rimasto impressionato dalle palme. Quelle che conoscevo in Francia erano piccole, da appartamento. E poi, che strano caso, il romanzo che ho scritto qui si svolge in gran parte nel Grand Hotel et des Palmes di Palermo. Per un’altra parte qui, a Lecce. Subito, ho adorato la piazza del duomo con le sue dolci luci la notte e ricorderò sempre il mio vecchio cane che mi sono portato dalla Francia, correndo le prime sere, libero e pazzo e sordo ed io, tranquillo, che non poteva fuggire da un’altra parte della piazza. Ho sofferto in autunno perché pioveva tanto e certi giorni, credevo di vivere a Londra. Odio la pioggia. Odio l’inverno troppo freddo e la mia casa troppo fredda ed io che scrivevo con tre pullover. Ho mangiato troppo in questa zona dove tutti parlano sempre del mangiare, di come si fa e come tu fai perché io faccio così e perché tu non fai come me? Mi porterò la ciccia e le guance rotonde a Lione. Mi porterò il ricordo dei sapori della cucina di Ines, mia vicina di casa, che quando sono arrivato, bussava ogni giorno alla porta con un piatto pronto perché non pensava, lei, una donna di 88 anni, che un uomo potesse cucinare da solo. Ho imparato un sacco di ricette con Ines e me le sono scritte in un quaderno. Un quaderno scolastico italiano degli anni 50. Ho anche le foto di questo pomeriggio quando mi ha insegnato a fare le orecchiette e i cavatelli, queste orecchiette della mia infanzia, quelle che faceva mia nonna di Corato e che nessuno, oggi, nella mia famiglia sa
fare e sono felice di avere riacquistato questi gesti. A Lecce, ho capito che potevo rimanere da solo, vivere nella mia fantasia e scrivere tutti i giorni senza provare la mancanza di un lavoro più socievole. A Lecce, ho vissuto con i miei personaggi e mi sono innamorato di quella che assomiglia ad Ava Gardner e se l’ho amata, è perché ho imparato di nuovo ad amare e forse più della prima volta. A Lecce, ho sognato di quella donna francese, con origini spagnole, che mettevo nelle mie tasche e dove andavo, era sempre con me. A Lecce – un altro caso strano – i miei amici più vicini, Isabel e Carlos, sono di Barcelona e con loro, ho cominciato ad imparare la lingua di quel pazzo furioso di Quichotte. Quest’ anno, le mie emozioni artistiche più forti, le ho provate ai Cantieri Koreja. In assoluto. Sono rimasto a terra dopo la performance dell’attore Fabrizio Saccomanno nella sua opera teatrale Via e sogno di fargli recitare un giorno un testo mio. Alcune volte, l’ho incontrato per strada ma non ho mai osato parlargli, dirgli quanto l’ho amato questa sera. Ho adorato Cesko di Après la Classe e ho adorato l’opera di Emma Dante e anche tutti gli spettacoli di danza, soprattutto quel duo di ragazze sulla spiaggia, come viste dall’alto. A Lecce, mi mancavano tutti i concerti che vedevo a Strasburgo. Dobbiamo dirlo al comune: MANCA UNA SALA ROCK !!! Per fortuna, esisteva – uso l’imperfetto perché ormai, non esiste più – il Candle Pub ma i Baustelle mi hanno rotto le palle. Invece, sono
stato sorpreso dalla qualità dei piccoli gruppi durante la selezione per il festival Arezzo Wave. Per fortuna, c’è l’estate e così, potrò vedere Carmen Consoli che adoro da anni, l’avevo scoperta a Roma mentre scrivevo il romanzo su Carnera, e potrò vedere Vinicio Capossela. Ho scoperto un bel po’ di musica italiana e il ragazzo del Pick-up ha saputo subito cosa cercavo, cosa mi piaceva e lo devo ringraziare per Anna Clementi, Cristina Dona, Caterina Caselli, quel fantastico disco di Nada e Zamboni ma il mio shock, l’ho vissuto con la scoperta di Cesare Basile e il suo capolavoro Hellequin Song e così, si capisce perché Baustelle può andare a spasso e che la lezione di rock, la fa Basile. Adesso, sto vivendo la fine di un anno eccezionale e sto vivendo il mare in cui mi diluisco. Ho finito il romanzo che sono venuto a scrivere qui apposta ed ho anche trovato il titolo pochi giorni fa. Si chiamerà De Luxe Amore e spero che sarà una bella e grande storia d’amore. Ho subito l’influenza del mio grande idolo Nick Cave che ho sentito dire una volta in un’intervista che ha provato sempre a scrivere la più bella canzone d’amore. Per finire, vorrei dedicare questo primo tentativo di scrittura in italiano a mio amico Simone della libreria Ergot perché è un grande libraio ed è sempre stato vicino e di gran conforto durante quest’anno nel fine del mondo. Lecce, luglio ’06.
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A DAY IN THE LIFE Txt Dario Goffredo
“Woke up, fell out of bed, Dragged a comb across my head Found my way downstairs and drank a cup, And looking up I noticed I was late”. (The Beatles, A day in the life)
Ore 7.00 a.m. Infilò la mano nella tasca della giacca. Prese il suo i-Pod. Mise le cuffie. Schiacciò play. Cominciò a scendere le scale. Roberta ovviamente dormiva ancora mentre lui si vestiva. Lui era abituato a tre o quattro ore di sonno. Si era svegliato alle sette in punto. Era andato in bagno. Si era lavato velocemente e altrettanto velocemente aveva fatto la pipì. Era tornato in camera da letto. Aveva guardato Roberta. Il lenzuolo verde acqua le copriva lo stomaco fino all’ombelico lasciandole scoperte le tette con i capezzoli piccolissimi e scuri. Le sue tette. Quasi uno sbaglio in quel corpo magrissimo, quasi venute fuori controvoglia, come se proprio non potendone fare a meno fossero dovute crescere, ma il minimo indispensabile. Quasi un ragazzo al mare, lei, con quei capelli cortissimi e il solo pezzo di sotto del costume. Aveva sorriso. Aveva cominciato a vestirsi. Sarebbe andato in ufficio con quello che aveva addosso la sera prima: poco male, era uscito vestito bene ieri. Pantaloni neri, camicia grigio scura e giacca nera. Amava il nero nei vestiti come poche altre cose al mondo. A day in the life riempiva le sue orecchie. Si diceva che in quella canzone ci fosse un verso dove John cantava la morte di Paul. Fesserie ovviamente. Paul era vivo e vegeto e non sarebbe stato lui il primo scarrafone beat a morire. E nemmeno il secondo. Roberta abitava in un complesso di case popolari in un quartiere popolare. Architettura dozzinale anni cinquanta: unità abitative uguali le une alle altre e buone a raccontare storie di degrado e puzza di fagioli che sarebbero piaciute a Pasolini o Celine. Non a Marco. Dalle finestre pendevano panni stesi ad asciugare e si sentivano le prime voci del mattino: bambini che strillavano e piangevano e mamme che urlavano per farli tacere. Sullo sfondo le sigle dei programmi della mattina. L’aroma del caffé riempiva l’aria, il cielo era sereno. Sarebbe stata una buona giornata, di sicuro. Nel cortile erano ammassate macchine e motorini adatti ad uno sfasciacarrozze. Tra queste spiccava una Maserati, e soprattutto spiccava l’omaccione in canottiera bianca che la lavava. Squadrò Marco a lungo, seguendolo con lo sguardo mentre usciva dal cortile delimitato da un alto
colonnato. Marco non aveva una macchina. Aveva uno scooter ma spesso usciva a piedi la sera. Quando non dormiva a casa, come stasera, andava a piedi al lavoro. Sarebbe arrivato un po’ in ritardo, ma poco male. Oltre tutto sulla strada c’era un bar che faceva un ottimo caffé. Sì fermò, ne ordinò uno ristretto e una brioche e comprò un pacchetto di Dianablu. Bevve il caffé amaro, si fece mettere la brioche in carta e uscì a fumare al sole. Decise di attardarsi qualche minuto. Voleva sentire la fine della canzone che aveva dovuto mettere in pausa entrando nel bar. Si sedette su una panchina lì vicino e accese la sua prima sigaretta. Schiacciò di nuovo play e la voce di John Lennon lo fece rilassare immediatamente. Passò una ragazza col cane davanti a lui. La ragazza era vestita di rosso ed era molto carina, il cane si fermò proprio davanti alla panchina dove era seduto Marco e fece la cacca. La ragazza vestita di rosso lo tirava imbarazzata, Marco le sorrise. Lei annuì, poi andò via. La guardò allontanarsi, lei si voltò e disse ciao, sorridendo ancora. Marco chiuse gli occhi godendosi il sole, aspirò a fondo dalla sigaretta e pensò che di sicuro sarebbe stata una buona giornata. E cominciò a sognare. Found my way upstairs and had a smoke,/Somebody spoke and I went into a dream. Ore 5.40 p.m. “Allungare il passo per vedere che sensazione si prova ad arrivare un po’ prima. Ammazzare il tempo, facendo finta che poi lui non si prenda la sua rivincita. Bere in silenzio sino a cadere sotto la sedia. Bruciare l’arrosto, bestemmiare. Bucare una gomma sotto il sole in un pomeriggio d’estate. Correre sotto la pioggia estiva. Fare di tutto perché qualcosa cambi, almeno un po’. Gli amici sul sagrato di una chiesa, e tu sei il protagonista assoluto. Il momento in cui una donna si sfila la maglietta. Il prosciutto tagliato sottile. Il sale. Il teatro della Valdoca. La curva tra i fianchi e il seno. La vecchia giacca dello scorso anno. Le notti di insonnia passate a giocare al computer.
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Le poesie di Montale”. Percorse tutta via Ferdinando d’Aragona, con i pub ancora chiusi, silenziosa, pulita e quasi deserta. Attraversò piazza Sant’Oronzo, con il Sedile e l’Anfiteatro romano, i brutti palazzi di epoca fascista, e si ritrovò di fronte a Santa Croce, il fiore all’occhiello del barocco leccese, trionfo del cattivo gusto, brutta, sproporzionata, ma dal colpo d’occhio incredibilmente emozionante. Passeggiava con estrema calma, fumando, e pensando ad una bella birra ghiacciata. Lei non aveva il cane questa volta, ma era vestita ancora di rosso. Gli veniva incontro guardando per aria. Abbassò lo sguardo, lo riconobbe. Lui sorrise e disse ciao. Lei si fermò. «Niente cane?» le chiese. «Per oggi ha già fatto quello doveva fare» rispose lei, e rise. Rise anche Marco, si sorprese a ridere, ad essere emozionato di averla incontrata. «Che fai?» chiese lei. «Niente di eccezionale – le rispose Marco – semplicemente stavo facendo passare un altro giorno della mia vita. E pensavo ad una birra fresca, ti va di farmi compagnia?» L’aveva chiesto così, tanto per chiedere. Gli era sembrato che ci fosse un’intesa tra lui e la ragazza del cane. Aveva pensato a lei per tutto il giorno, forse senza farci caso, ma l’aveva desiderata e ora lei era di nuovo di fronte a lui. «Accetto - disse lei – dove?» «Vediamo... – disse Marco – sei meno un quarto... forse in piazza c’è un pub già aperto!» «Andiamoci, non ho niente da fare per un’oretta!» “Mangiare pesce in riva al mare, al tramonto. Non fare nulla per cambiare le cose. Non sapere mai che cosa si desidera realmente. Passare una notte intera a leggere un libro, che non puoi fare a meno di lasciare. Passeggiare di notte in una città diversa dalla propria. Passeggiare di notte nella propria città. Perdersi. Portare un segno, sconosciuto ai più. Preparare una cena per qualcuno che si ama davvero. Qualche volta piangere, qualche volta ridere, senza motivi apparenti. Qualcuno che non sappia sempre trovare le parole giuste date le circostanze. Ridere fino alle lacrime. Ritrovarsi. Sapere di essere nel giusto. Sapere di essere nel torto. Sognare ad occhi aperti.
Sorridere sempre a chiunque. Stappare una buona bottiglia di vino e sentirne l’odore che ti sale su per le narici. Trovare un buon motivo per fare festa. Un disco triste, in un pomeriggio di pioggia e pensare di farsi un tatuaggio. Un ristorante in una piccola città, dove ti trattano bene. Una birra il pomeriggio con un amico, il sole negli occhi e l’anfiteatro di fronte. Una giacca nuova”.