Coolclub.it n 10 (Dicembre 2004)

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la copertina del decennio

A 4OCCHI CON IL ROCK accade che NON CI SONO AMORI FELICI

Buddy Holly Buddy Holly Geffen/universal 1958 (2004)

Elvis è il Re. Su questo non c’è dubbio alcuno. È stato lui a dare al rock ’n’ roll quella spinta e quella popolarità che lo hanno fatto diventare un fenomeno epocale. Questo dato di fatto non ci deve però far dimenticare che, come sempre accade quando un terremoto di quella portata investe la cultura di un intero paese, la responsabilità va distribuita tra una immensità di personaggi: cantanti e musicisti prima di tutto, ma anche autori, produttori, discografici, dj, presentatori di programmi televisivi e promoter più o meno potenti. Parlando di rock ‘n’ roll non si può proprio evitare di citare personaggi come Little Richard, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Bill Haley, Bo Diddley, Fats Domino e Buddy Holly. Ed è proprio su quest’ultimo che vogliamo puntare la nostra (e vostra) attenzione. Un po’ perché l’Universal, nell’ambito di una serie di ristampe celebrative dei 50 anni del rock ‘n’ roll, ha ripubblicato un album del 1958 che porta semplicemente il suo nome e comprende alcuni dei suoi successi più grandi, un po’ perché Holly, con la sua area da liceale studioso, era l’anti-Elvis per eccellenza. In questo cd – potete trovarlo oppure ordinarlo nel negozio sotto casa – ci sono 12 canzoni (e 3 bonus track) che trasmettono perfettamente l’atmosfera di quel periodo. La prima cosa che arriva è la voce: Holly canta in un mondo semplice e diretto. L’unica

concessione a un modo rock ’n’ roll che al momento in cui si tengono queste session si è già imposto è il suo famoso “singhiozzo”, un artificio di cui comunque non abusa mai. Poi ci sono le canzoni. Scorriamo i titoli più famosi…Peggy Sue, Ready Teddy, Words of love… sono versi e musiche che hanno fatto veramente la storia della popular music, brani immortali che vengono continuamente trasmessi, ascoltati o usati dai pubblicitari più astuti, quelli che attingono all’immensa memoria collettiva della civiltà occidentale. Peggy Sue e Words of love (quest’ultima fu ripresa anche dai Beatles) sono opera di questo ragazzo occhialuto che il destino ha voluto strapparci in un incidente aereo il 2 febbraio 1959. Buddy aveva appena 22 anni. Nel disastro morirono anche Ritchie Valens e The Big Bopper, aggravando ancor di più il già tragico bilancio di quel volo maledetto. Affidato alla sua musica e alla capacità di creare uno stile personale dalla fusione delle varie componenti del rock ’n’ roll, la memoria di Buddy è destinata a durare per sempre. Giancarlo Susanna

BREVESTORIA Il decennio in cui tutto ha inizio. Stockhausen cominciale sue prime sperimentazioni elettroniche, nasce il primo juke-box, più o meno in concomitanza con l’invenzione delle chitarre elettriche Les Paul e Fender Bill Haley forma i Comets, la prima band rock and roll. Il suono della musica cambia grazie a Chuck Berry e alla sua chitarra ma sarà solo l’irrompere dell’industria musicale che “ruba ai neri per dare ai bianchi” a fare esplodere il fenomeno. Con That’s all right di Elvis Presley quella che prima era musica fatta dai neri per i neri arriva al grande pubblico. Little Richards, Bo Diddley, Gene Vincent, Jerry Lee Lewis, Buddy Holly sono solo alcuni degli artisti che animano la scena di quegli anni. Un decennio prolifico per la musica che saluta la nascita del soul ad opera di Ray Charles, dello Ska in Jamaica e dell’Exotica, gli anni del Greenwich movement della beat generation e del jazz che avrebbe aperto la strada al flower power. E mentre l’america si prepara a ballare al ritmo del twist in Europa e in Francia la musica è affidata agli chansonnier come Leo Ferré, Jaques Brel, Edith Piaf, Gilbert Becaud, Brassens, Yves Montand, Moustaki.

George Brassens Le Parapluie 1954

3/1/’54 Prendono il via le trasmissioni televisive della RAI

30/9/’55 muore l’attore James Dean

Hanno comprato panettoni, vini col bicarbonato dentro, cassette di falso cognac, prosciutti chimicamente invecchiati, cavatappi artistici e poliglotti, mazzi di mungitopo (al prezzo di orchidee), abetini, televisori, e persino libri. (Luciano Bianciardi)

4/11/’58 Nominato Papa Giovanni XXIII

1/1/’59 Fidel Castro prende il potere a Cuba

Morto nel 1981, George Brassens è sepolto nel cimitero dei poveri. Questa sua “ultima volontà” rispecchia perfettamente il suo modo di vivere la vita e la chanson. Umile per origine e per ideologia, il cantautore francese, padre dei cantautori europei venuti dopo di lui era iscritto alla Federazione anarchica e interpretava al meglio lo spirito esistenzialisa della Prigi del secondo dopoguerra. Dall’inizio degli anni cinquanta Brassens, che aveva già pubblicato un romanzo e alcune raccolte di poesie, diventa popolarissimo in Francia con le sue canzoni popolate da personaggi strambi e provenienti dai bassifondi. Storie di emarginati e poco di buono, critiche dirette contro la società dell’epoca, tremendamente attuali e dissacranti ancora oggi. Alcuni dei suoi pezzi sono diventati immortali anche in Italia grazie alle traduzioni che ne fece Fabrizio De Andrè (Il gorilla, Morire per delle idee, Il testamento, e altre). Tra le sue canzoni c’erano molti testi della tradizione poetica francese, testi tratti da Villon o da Jammes, e

tutte, o quasi, offrivano una visione caustica della vita, uno sguardo disincantato e anticonformista che lo resero un guru per le generazioni degli anni cinquanta, sessanta e settanta. Incantevole e indimenticabile tra le altre è Il n’y a pas d’amour hereux, dal suo secondo album, Le Parapluie (1954), scelta da Froncois Ozon come sigla finale del suo Otto donne e un mistero. Dario

SENTITI QUESTI Songs for young lovers (1955) – Frank Sinatra Elvis (1956) - Elvis Presley Jerry Lee Lewis (1957) - Jerry Lee Lewis Here’s Little Richard (1957) - Little Richard With is hot and blue guitar (1957) - Jonny Cash Singin’ to my baby (1957) Eddie – Cochran After school session (1958) - Chuck Berry Blue train (1957) John Coltrane The genius of Ray Charles (1959) - Ray Charles


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CAPITAN CUORDIBUE accade che PAROLE E CANZONI Captain Beefheart and His Magic Band Trout Mask Replica 1969 La figura di Captain Beefaheart per la storia della musica è di un’importanza capitale. Il lavoro svolto dal Capitano dalla metà degli anni ’60 fino al ’69, anno che vede l’uscita del capolavoro assoluto Trout Mask Replica, avrebbe consegnato ai posteri una nuova codificazione della materia musicale, rompendo nettamente con il passato e le tradizioni melodiche, assolutamente privo di agganci con qualsivoglia esperienza musicale precedente. Certo, anche Cuordibue è figlio del blues di Robert Johnson, ma questo risultato finale è un suono senza precedenti nella storia della musica da tracciare un segno indelebile che fa da spartiacque con il passato. Da qui in poi qualcosa è cambiato. Donald Van Vliet (questo il vero nome), vero despota e tiranno di quella Magic Band che (soprattutto per quanto riguarda le chitarre) tanto apporto darà alle sue idee, canta con la sua voce roca inconfondibile che si immerge tra arpeggi sgangherati, voci in falsetto, sax e clarinetto free jazz suonati in maniera grezza e primordiale, in una festa sonora anarchica e dadaista. Eppure non deve ingannare lo spiazzante effetto che può dare un disco come Trout Mask Replica in quanto l’anarchia compositiva è solo apparente; c’è un lavoro di concetto

più profondo di quello che si possa pensare tra quella ridda di suoni “sgraziati”. E non sarà un caso se Vliet è stato fondamentale per la formazione di numerosi musicisti; senza il Capitano non avremmo avuto Birthday Party, la no wave, Pere Ubu, e in età moderna, la goliardia di Azita e le Scissors Girls, l’istinto primitivo degli Old Time Relijun, la commovente bellezza del canto di Al Johnson degli U.S.Maple. Come dire…una leggenda. Leggenda, come spesso accade, non capìta all’epoca. Troppo netto il divario, che lui stesso aveva creato con la storia della musica; troppo forte l’impatto dirompente del suo genio per la sua epoca. Ha preferito ritirarsi, nascondersi, dedicarsi alla pittura. “In molti hanno provato a farmi diventare una rockstar, ma sono sempre riuscito a fregarli”. Giampiero Chionna

Leonard Cohen Songs of Leonard Cohen Columbia 1968

3/6/’61 Incontro tra Kennedy e Kruscev

4/4/’68 Martin Luther King viene assassinato

“Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti,/ io simpatizzavo coi poliziotti!/ perché i poliziotti sono figli di poveri./ Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.” (P.P. Pasolini)

BREVESTORIA

Il vitalismo musicale degli anni 50 lascia il posto alla ribellione dei 60. Tanti i generi e le scene musicali che si affacciano in questo decennio in America e in Europa. L’evoluzione della musica rock prende forme e strade diverse a seconda della connotazione geografica in cui si radica e si sviluppa. In California diventa surf con i Beach Boys, acid rock o psichedelia con Jefferson Airplane, Grateful Dead, Frank Zappa fino ai Doors. Sull’altra costa il rock nuovo ha il suono di Velvet Undergound e Fugs. Il rock sposa anche l’impegno sociale del folk con Bob Dylan e diffonde il genere grazie ai Birds e a Simon and Garfunkel. Anche l’Europa, e in partiolare l’Inghilterra, è il teatro di grandi cambiamenti per il mondo della musica. I Beatles naturalmente sopra tutti che da Liverpool sono la risposta al circuito blues e mersey beat, che si era sviluppato a Londra quasi in opposizione al rock e che vede tra le sue fila gruppi come gli Animals, gli Yarbirds e i Rolling Stones. E se in Inghilterra i Kinks e gli Who irrobustiscono il suono in America Mc5 e Stooges già lo esapserano, senza dimenticare il grande ruolo di Jimi Hendrix. Ma gli anni 60 sono anche gli anni in cui il rock si europeizza grazie al suono della scena di Canterbury e di gruppi come i Soft Machine e di cantautori come Donovan e Nick Drake ma anche Cat Stevens e Van Morrison.

Se penso agli anni ‘60 e a Leonard Coehn penso a un’altra America. Se da una parte Joan Baez e Bob Dylan impregnano le loro canzoni di politica e di quella spinta rivoluzionaria caratteristica del decennio, dall’altra Leonard guarda all’uomo. Con uno stile che trae ispirazione dall’Europa e da cantautori come Jaques Brel e Brassens Leonard Cohen esordisce nella musica nel ’68 con Songs of Leonard Cohen. Il disco rappresenta l’arrivo alla musica di un artista con alle spalle già una carriera di poeta e scrittore di fama internazionale. Ed è infatti la parola la protagonista delle sue canzoni. Le tematiche sono l’amore e la religione, il peccato e l’allontanamento da esso: tutti contrasti tenuti in bilico da una voce inconfondibile e uno stile che influenzerà tantissimi artisti. La voce di Cohen è uno dei tratti distintivi di questo disco e della sua successiva produzione. Quel suo essere così discreta e malinconica, la sua profondità che arriva diretta al cuore senza stravaganze come gli arrangiamenti strumentali che pur affidandosi alla tradizione folk hanno all’interno sfumature che attingono da molto altro e rendono il disco diverso, una sorta di incontro tra letteratura e musica. Gli arrangiamenti (a volte

solo chitarra e voce) si arricchiscono di tanto in tanto di violini e accenni ritmici su cui comunque sono sempre la voce e il testo ad avere risalto. L’intimismo, la metafora, la solitudine, il cinismo (tematiche che segneranno la carriera di artisti come Jeff Buckley, Nick Cave, Tom Yorke, Morrisey) sono il lato romantico e introspettivo degli anni ’60. Nel disco troviamo in apertura Suzanne, omaggiata e reinterpretata da molti. Nel disco troviamo tanti altri episodi indimenticabili come Sister of mercy (adottato come nome da una band dark anni 80), The stranger song, Winter lady. In generale però in meno di cinquanta minuti Songs of Leonard Cohen racchiude un nuovo modo di fare la musica, uno stile che nasce in sordina, lontano dai riflettori e a suo modo rivoluzionario. Un disco che va ascoltato, ma anche letto, interpretato, sentito. Osvaldo

SENTITI QUESTI 20/7/’69 L’uomo sbarca sulla Luna

12/12/’69 La strage di Piazza Fontana

Revolver (1966) - Beatles Blonde on blonde (1966) – Bob Dylan Pet Sound (1966) – Beach Boys Velvet Underground and Nico (1967) – Velvet Underground Are you experienced (1967) – Jimy Hendrix The Doors (1967) – The Doors Tommy (1969)– The Who Beggars banquet (1969) - Rolling Stones Live dead (1969) - Gratefull dead Stooges (1969) - Stooges


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CE N’EST QUE LE DEBUT, CONTINUONS LE CONBAT di Piero Manni

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Gli esaltanti anni Quaranta, per la Resistenza e la ricostruzione materiale e morale (anche se si concludono con una vergognosa delega di potere agli USA); i fantastici anni Cinquanta, con il boom economico la Lambretta e la Seicento (e pur essi si chiudono con la Celere di Tambroni che spara in piazza a Genova sugli operai, lungo una tradizione inaugurata da Bava Beccaris nel ’98 -del secolo precedente); i mitici anni Sessanta, prima dei Settanta di piombo. Mitici: devo fare uno sforzo di memoria per ritrovarne l’eroicità, in questo primo scorcio di millennio dove tutto si omologa, tutte le vacche sono nere e i morti son tutti uguali, quelli della Resistenza e quelli di Salò, privati come siamo del diritto di giudicare e di parteggiare. Si aprono, gli anni Sessanta, con il culmine della guerra fredda e col massimo rischio di un nuovo conflitto mondiale, con John Kennedy che tenta l’invasione di Cuba sfidando l’Unione sovietica di Nikita Kruscev; già, proprio quel Kennedy che oggi la sinistra italiana celebra come il massimo riferimento per i propri discorsi di democrazia e di progresso, non fosse stato per il passo indietro, per il cedimento dell’orso ucraino che pure all’ONU batteva la scarpa sul tavolo, avrebbe portato ad un’altra guerra mondiale. In Italia la Confindustria e il terziario che avanzava avevano bisogno di orizzonti più vasti: ecco allora che la Democrazia cristiana scarica i fascisti del MSI ed apre ai socialisti, l’istruzione obbligatoria fino a 14 anni, lo statuto dei lavoratori e Mattei che mette in discussione l’oligopolio energetico delle sette sorelle rimettendoci le penne in un incidente aereo. Il contributo più potente allo svecchiamento lo danno proprio i cattolici: Giovanni XXIII promulga la Mater et magistra ed apre il Concilio Vaticano II che non soltanto smummifica la Chiesa ma soprattutto ammoderna il dibattito culturale tra i cattolici e consente la crescita di ampie fasce di cattolici progressisti e radicali che da quel momento avranno un marcato rilievo. Naturalmente la reazione non manca, non soltanto in termini di opposizione e di ostacolo ma addirittura di tentativi di colpi di stato attraverso i militari e i servizi segreti deviati (allora e dopo). Dall’altra parte si lanciano grande temi ideali, capaci di coagulare tante energie intellettuali di diversa estrazione: dalla solidarietà internazionale all’obiezione di coscienza (don Lorenzo Milani), dalla parità di diritti per la donna (Pietro Germi, Divorzio all’italiana) alla scuola di classe (di nuovo, il don Milani di Lettera a una professoressa, che nelle università italiane era ben più letto del Libretto rosso di Mao e dell’Uomo a una dimensione di Marcuse). Intorno a quest’ultimo tema nasce il movimento degli studenti, dapprima limitato a contestare la riforma proposta da Gui, ministro D.C. dell’istruzione (il d.d.l. 2314, studiato e discusso fino alla nausea) e poi, anche sulla spinta dei movimenti internazionali e delle loro elaborazioni, allargato al rifiuto generalizzato dei modelli culturali, politici economici delle civiltà euronordamericane, comprese quelle dei paesi allora sedicenti socialisti; su questo rifiuto generalizzato si costruisce un rapporto con grandi fasce del movimento sindacale (uno degli slogan più diffusi: “Studenti, operai, uniti nella lotta”). È il Sessantotto. Sembra la rivoluzione, in molti ci crediamo: diecine di università occupate, migliaia di scuole superiori, cortei e manifestazioni, assemblee a gogò e “controcorsi” tenuti dagli stessi docenti; insieme con gli operai a presidiare le fabbriche; per mesi le prime pagine dei giornali. Anche a livello internazionale gli eventi sembrano dar ragione a chi pronostica cambiamenti epocali: l’immagine dell’ambasciatore americano che fugge in elicottero ammainando la bandiera dal Vietnam (anche lì era stato il progressista John Kennedy ad iniziare l’intervento) sembra il simbolo della crisi dei potenti del mondo, mentre crescono le situazioni di opposizione radicale oltre che in Asia anche in Africa e in America Latina (dove l’uccisione del Che non aveva certo spento le lotte) E, secondo noi allora, “Ce n’est que le debut, continuons le conbat”. Poi i potenti prendono le misure, in Italia si studia a tavolino e si attua la strategia della tensione, a partire con la strage di Piazza Fontana, che è la rappresentazione della sconfitta dei movimenti di opposizione radicale e chiude i mitici anni Sessanta. Capita ogni tanto di incontrarsi tra “reduci”, e si parla: alcuni sono dirigenti di partito o hanno fatto carriera nelle istituzioni, parecchi all’Università, molti nella scuola media oramai lì lì per pensionarsi, qualche giornalista. Qui a Lecce di opposizione radicale ne son rimasti pochi: qualche cretino col look psicologico ancora del sessantottino, ed un altro paio, forse tre. La maggior parte dei reduci, forse con la cultura dei pentiti, dicono che non è servito a nulla, che le cose sono rimaste come prima e che anzi peggiorano. Io, a parte il rimpianto del reduce per quella stagione dove prevalevano la passione e gli ideali, credo invece che alcune conquiste siano diventate patrimonio generale: l’approccio critico alle questioni; la discussione delle autorità; il dibattito stravolgente in alcuni settori che sembravano intoccabili (psichiatria, giustizia); soprattutto è crollato il razzismo contro le donne. Per mettere in discussione queste acquisizioni ci vorrebbe almeno un ventennio di berlusconismo, e credo che questo non lo avremo.


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JOEY RAMONE PLACE accade che IL FUTURO CHE AVANZA Ramones Ramones Sire 1976 Flashback: avevo tredici anni, una celtica e i jeans strappati alle ginocchia. Accesi la radio e in concerto c’erano i Ramones e due pirla che li commentavano. E io che mi ascoltavo quei situazionisti dei Sex Pistols e la musica industriale. Capirete, miei amati, che la mia vita cambiò per sempre. I maggiori killer seriali della storia del pop intero, questo sono stati i Ramones. Graziati dall’ambiguità e da una confezione estetica unica, di inesorabile fascino. Quattro freaks sotto gli accecanti bagliori del rock che si faceva musica nuova: la sua ennesima trasfigurazione. Ma anche il punk rock, la techno, l’electro, tutto il moderno da lì a venire ne ha beneficiato. Joey, Johnny, Dee Dee e potremmo fermarci qui: tre supernova, tre stelle cadenti. Perfetti: Joey, il bimbo demente sballato, allampanato, movenze femminili e quella voce; Johnny, il folle, il nazista, basso, con quegli occhi teneri e feroci; Dee Dee, il manimal, lo showman, l’animale da party e da palco. Dovreste comprarvi Raw, il dvd appena uscito nei negozi, e guardarlo bene per capire l’inesplicabile potenza, l’enorme fascino di cui non si ammantavano, ma erano naturalmente dotati: baciati da Dio. Capirete che a questo punto parlare

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di anni ’70 non servirebbe a molto: i Ramones nascono in quel contesto ma ne appaiono già svincolati. E non potrebbe essere altrimenti. Giusto in tempo per il nuovo millennio, per i riconoscimenti ufficiali e cascano giù come birilli. Il primo ad andarsene è Joey, il mio preferito, il divino, e le luci dell’Empire State Building di New York si accendono quella notte e viene issata una bandiera in memoria. Tempo qualche mese e gli dedicano una intera piazza: Joey Ramone Place. Poi Dee Dee, overdose di eroina, un destino scritto, l’ultima botta. Infine Johnny, “Dio benedica l’America e George W. Bush” all’ingresso nella Hall of Fame di fronte a Eddie Veder e Michael Stipe. Morti quei tre, nonostante il rammarico enorme di non poterli vedere più dal vivo, non rimane quel senso di vuoto incolmabile, fateci caso. Quel vuoto da mitologia della dead star morta-martire non li sfiora neanche un po’. Solo elettricità nell’aria, scosse, luci… One, two, three, four! Sergio Chiari

Con gli anni ‘70 è come se la musica spingesse improvvisamente sull’accelleratore: il garage e il beat si trasformano nel punk, la psichedelia si evolve e diventa progressive, nasce l’hard rock che diventerà poi heavy metal. Tim Buckley, Lou Reed, Joni Mitchell, Neil Young, Tom Waits sono solo alcuni degli innovatori del genere cantautorale, primo fra tutti per fama Bruce Springsteen. La morte di icone come Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix provocano nei ‘70 una crisi del rock a cui in Inghilterra una delle reazioni è il Glam. Suo iniziatore fu Marc Bolan ma il massimo esponente fu sicuramente David Bowie. Nel frattempo in Germania si sviluppa una scena importantissima anche se sottovalutata. Una scena fatta di gruppi come Krafwerk e Can che anticipano elettronica e wave. Due generi comunque caratterizzano sicuramente il decennio più degli altri. Il punk con la sua carica distruttiva rivoluzionerà completamente il suono e l’approccio alla musica, una vera filosofia che vede oltre ai famosi Clash, Sex Pistols e Ramones un’infinità di gruppi ed etichette. L’altro, anche se non prettamente nell’ambito rock, è la disco music.

11/9/’73 Colpo di stato in Cile guidato da Pinochet

2/11/’75 La morte violenta di Pierpaolo Pasolini

“E dico con gli atri, ripetendo con gli altri, che bisogna uccidere il tiranno; e non uso questa sporca lingua, invece, per le mie caccole private o per celebrare le belle mani di una laurabeatrice, moglie, figlia o ganza di colonnello”. (Roberto Roversi)

9/5/’78 Trovato il cadavere di Aldo Moro ucciso dalle BR

16/10/’78 Karol Woityla è papa Giovanni Paolo II

Kraftwerk Autobahn Phliips 1974 Senza i Kraftwerk molto di quello che ascoltiamo oggi non esisterebbe. Padroni in musica di un concetto uomo macchina che trova corrispondenti letterari in gente come Pinchon e De Lillo i Kraftwerk sono una nuova filosofia della musica. Prima della new wave, prima dell’electro, prima del punk funk, prima di un certo tipo di pop, prima di tutto ci sono i Kraftwerk. La ricerca e lo studio di suoni freddi permutati da quelli caldi della black, la loro incredibile semplicità esecutiva e al contempo il loro spessore concettuale fanno dei quattro di Dussendorlf una miniera da cui tutti hanno attinto a piene mani. Padri indiscussi di quell’elettronica che arriva alla massa, massimalisti nell’uso delle parole e della voce come slogan, politici nel loro citazionismo, inventori di un’immagine fatta di divise dai colori che contrastano citando Hitler e Marx contemporaneamente. Basta guardare una loro copertina per capire da chi hanno scopiazzato i loro bei completini i Franz Ferdinand o ancora andando un po’ dietro gli stessi Devo. Quando si dice un gruppo fondamentale. Se poi si pensa che i Kraftwerk muovevano i loro primi passi nei 70 tutto assume dimensioni gigantesche. Discepoli di Stockausen i Kraftwerk dopo primi esperimenti arrivano a definire la

loro perfetta formula nel 74 con Autobahn. Dentro c’è tutto: il futuro che avanza, la metropoli, l’alienazione industriale, c’è il passato e il presente sintetizzato in uno stile e un suono che è già avanti. I campionamenti di motori e clacson fanno da contraltare a suoni più vellutati di tastiera e flauto e a una voce assolutamente atona e ironica, ritmiche serrate di drum machine si alternano ad atmosfere più liquide. Un’interazione uomo macchina quasi completa, la disumanizzazione della musica, renderla geometrica non solo in composizione ma anche nell’esecuzione. L’interazione tra schermi, proiezioni e musica nelle loro esibizioni, il loro muoversi rigido e robotico, l’abitudine che avevano di posizionare in platea manichini con le loro fattezze sono tutti elementi che fanno dei Kraftwerk un gruppo di avanguardia totale. Insieme a loro c’era tutta una scena tedesca definita Kraut rock in cui si muovevano gruppi come Can o Tangerine Dream con la loro visione più cosmica lisergica e dilatata della musica. Osvaldo

SENTITI QUESTI Pearl (1970)– Janis Joplin Weasels ripped my flesh (1970)- Frank Zappa Led Zeppelin IV (1971)- Led Zeppelin The rise and fall of Ziggy Stardust and the spiders from Mars (1972)- David Bowie Harvest (1972) - Neil Young Machine head (1972) - Deep Purple The dark side of the moon (1973)- Pink Floyd Horses (1975) - Patty Smith Never mind the bollocks (1977) - Sex Pistols London Calling (1979) - Clash


CoolClub .it   VENEZIA RADIO di Stefano Cristante

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Venezia, 1976. Quarta ginnasio. I miei genitori hanno scoperto da un mesetto circa che dal mio portafoglio occhieggia una tessera della Fgci. Sono un giovane comunista, dunque. Non è esattamente una condizione così speciale, replico. In fondo in classe mia siamo una diecina a condividere questo status. A loro non interessa, dicono. Che cosa mi sono messo in testa eccetera. A quindici anni eccetera. Iscriversi a un partito quando non hai nemmeno un pelo di barba eccetera. Punizione dunque? Punizione. Di quelle toste. Pomeriggi segregati in casa. Il vocabolario di greco da un lato della scrivania, quello di latino dall’altra. In mezzo, i libri delle versioni. È la disperazione. Mi chiudo in un mutismo ostile, mi aggiro per casa come uno spettro, attaccato a una letteratura adolescenziale che cerca ovunque segni di rivolta o, al limite, di profonda estraniazione (Orwell, Paul Nizan, Kafka). E poi Venezia, fuori dalle finestre. Venezia è “andare”, noi abbiamo i piedi come mezzo di trasporto, stare fuori casa (anche con la pioggia, il vento, la nebbia) è la nostra principale fonte di libertà. Mi attacco al telefono (mi sono informato: non esiste ancora lo scatto urbano, quindi non gravo sulle spese famigliari se parlo con gli amici per ore intere). Ai miei poi il telefono di pomeriggio praticamente non serve. Uno dei miei amici (figlio di progressisti, per lui la tessera della Fgci è poco più di un innocuo gadget) mi dice: “Hai mai sentito Radio Venezia International?” Sono un po’ perplesso. La radio la consideravo un oggetto parentale, si accendeva la domenica mattina per sentire Gran Varietà presentato da Johnny Dorelli, una specie di antipasto prima della tv (bianco e nero pedagogico). No no, mi fa l’amico, guarda che adesso ci sono le radio libere, prova un po’ a questa frequenza. Provo la frequenza. È vero, non sono le solite voci ingessate della Rai. Sono voci di ragazzi che dicono cose anche frivole e ridacchiano, mettono su valanghe di musica e chiacchierano, chiacchierano. Però di politica dicono poco o niente, mi pare. E c’è una produzione intera di spazi per messaggi e dediche, abbastanza scemette mi dico. Però intanto comincio ad ascoltare, prendo confidenza con certe voci, mi abituo alla musica del dj tale. Sento il mio amico, il quale mi spiega che un suo amico di Mestre gli ha assicurato che anche la Cgil sta pensando di aprire una radio e di affidarla a un’associazione giovanile doc, ma per ora niente, Radio Venezia è la prima e l’unica. Me ne faccio una ragione e mi abituo anche ai primi jingle che reclamizzano negozi, soprattutto di dischi. I miei genitori mi sembrano disposti a rinegoziare la punizione. La primavera è vicina. Uno degli ultimi giorni di prigionia. Il mio amico è venuto a trovarmi, la radio è in funzione e noi siamo a portata d’orecchio come al solito. A un certo punto Davide fa: “Adesso parte quella trasmissione di cui ti parlavo. Sei pronto?” La trasmissione consiste in uno spazio dedicato alla musica scelta dagli ascoltatori. I primi che telefonano in radio hanno il diritto di chiedere tre brani musicali e di commentarli più o meno per un quarto d’ora. Francamente non ho ancora capito cosa ha in mente Davide, ma rispetto la sua inventiva goliardico-ribellistica. Lo speaker sta dicendo: “Allora ragazzi, tra qualche istante parte il nostro nuovo spazio per la vostra musica preferita. Tra dieci secondi chi di voi ci chiamerà per primo avrà in premio la propria musica. Dieci, nove, otto…” Davide si è avvicinato al telefono. Ha composto l’intero numero e si è fermato con l’ultima cifra nel dito, pronto a mollarla (vi ricordate i vecchi telefoni a rotella?). Mi fa l’occhiolino. Io non so se credere all’efficacia del suo stratagemma. Invece funziona. Lo so perché sento la voce di Davide provenire non solo dalla sua bocca, ma anche dalla radio. “Salve, complimenti per la tempestività” – fa lo speaker – “Come ti chiami?” “Ernesto” – risponde impavido Davide. Io sono emozionatissimo. Siamo in onda. Cioè, almeno Davide è in onda. “Sono qui con il mio amico Emiliano” – prosegue Davide. “Molto bene ragazzi, siamo contenti di avervi con noi in radio. Che canzone volete sentire?” Davide mi passa inaspettatamente la cornetta, me la ritrovo tra le mani, devo dire qualcosa. Balbetto: “Inti-Illimani”. Erano quegli anni là, la musica andina era dappertutto, i musicisti scappati dal Cile di Pinochet erano approdati in Italia, non c’era festa dell’Unità dove non suonassero. Anche se il rock inglese quasi new wave era la nostra casa, era possibile che a uno come noi venissero prima in mente loro, gli andini, di tutti gli altri. “Ah” – replica lo speaker. Silenzio. “E quale brano?” Farfuglio: “Venceremos” (scontatissimo). Quando il funereo pezzo parte altisonante la voce al telefono ci spiega in tono confidenziale:”Mi raccomando ragazzi, niente politica. Radio Venezia è una radio apolitica”. Noi: “Sissì”. Io sussurro a Davide: “E le altre due canzoni? Non so nessun altro titolo…” Lui sembra molto tranquillo. Ma come, penso, nemmeno lui sa i nomi delle canzoni del disco. “Allora” – lo speaker – “siamo qui con Ernesto ed Emiliano e stiamo ascoltando della musica popolare sudamericana, gli IntiIllimani: è appena terminato il famoso brano Venceremos, adesso cosa volete sentire?” Quel genio di Davide: “La terza della seconda facciata” “La terza della seconda facciata, senz’altro, eccola qui, Ramis. Buon ascolto”. Riusciamo anche a dire due o tre banalità sulla musica tradizionale e sugli strumenti musicali andini, fino a che Davide richiede – con lo stesso sistema – l’ultimo brano. Siamo agli sgoccioli. “Abbiamo passato un piacevole quarto d’ora anche questo pomeriggio con il vostro spazio musicale, grazie a Ernesto ed Emiliano. Noi vi salutiamo ragazzi. Avete un’ultima cosa da dirci?” Davide prende brusco la cornetta e urla: “Viva Salvador Allende, viva il Cile, viva la libertà”. Riattacca esplodendo in una risata istrionica. Rido anch’io come uno scemo. La radio è rimasta zitta per qualche interminabile secondo. Poi il tipo fa: “Ci scusiamo con tutti i nostri ascoltatori, purtroppo esistono persone che non stanno ai patti e che scambiano la radio per un megafono per i loro proclami politici. Li invitiamo a rivolgersi altrove”. Arriva addirittura il direttore della radio, caccia fuori anche lui una paternale decisamente pietosa (ma di cosa hanno paura?). Nel frattempo qualcuno bussa alla porta. Trasaliamo. Mia madre regge un vassoietto, due bicchieri di coca e qualche merendina. Noi siamo bloccati, non respiriamo. Magari ha sentito tutto. No, non credo. Non sarebbe entrata con il vassoio. “Cosa state facendo? State studiando?” “Sì, stavamo cominciando – replico- “poi abbiamo sentito un programma alla radio e ci siamo fermati qualche minuto.” Lei butta l’orecchio. Quelli stanno ancora dicendo: “C’è gente che scambia la nostra radio per una tribuna politica”. Lei scuote la testa: “Almeno ascoltaste musica, lo capirei già di più”. E spegne la radio, e quindi si dissolve dopo un momento col vassoio vuoto. Io e Davide ci guardiamo. “Davide, mi hai fatto evadere via etere. Te ne sono grato”. Sorrido. “Ernesto – mi corregge lui - almeno per oggi chiamami Ernesto”.

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THIS IS POP! accade che PROVINCIA EPICA Xtc Drums and Wires Geffen 1979 Molti considerano gli anni ‘80 una sorta di medioevo dell’era moderna, un trionfo del trash in tutte le sue forme. Inutile sottolineare che siamo di fronte ad un falso storico, ad una visione distorta e riduttiva di un panorama più ampio e complesso. I grandi cambiamenti sociali e politici si traducono in campo artistico e musicale nella ricerca di strade compositive alternative e originali. Il movimento punk funge da spartiacque tra passato e futuro. All’interno di quella che oggi viene comunemente definita New Wave, si muovono le più disparate sperimentazioni musicali: i rumorismi degli Einsturzende Neubaten, i riff taglienti dei Gang of Four, il dark dei Bau Haus, il punk degli Husker Du, l’elettronica minimalista dei Cabaret Voltaire e quella accattivante dei Depeche Mode, senza considerare la poliedrica ecletticità dei Tuxedomoon e le originalissime dilatazioni sonore dei Jesus and Mary Chain. Non mancano poi quelle band che riscoprono la tradizione reinterpretandola in maniera moderna. Tra queste una menzione particolare spetta agli Xtc, che scelgono come riferimento il pop britannico, creando però un proprio stile unico e inconfondibile. Nel loro capolavoro Drums and Wires (1979), rappresentativo di tutta la

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loro produzione anni 80, gli Xtc inseriscono tutto il meglio del proprio repertorio: un pop graffiante, elegante e trasformista, ricco di cambi di tempo e soluzioni geniali, grande cura riservata all’aspetto strumentale con tastiere in primo piano che non soffocano le chitarre ma ne esaltano la ritmica e ne accompagnano le tante divagazioni verso il funky. La voce è incredibilmente policroma e mette in risalto con la stessa efficacia l’anima guascona del gruppo (Hellicopter, When you are near me) e la sua forte inclinazione malinconica. Outside world è trascinante ed esplosiva, Complicated Game un delirio straziante e visionario, con l’idea geniale del cantato balbettante e sorretto da echi crescenti e confusi, ma la palma di miglior brano spetta probabilmente a quella Making plans for Nigel, che apre il disco, facendone emergere subito tutti i tratti distintivi. La produzione è di Steve Lillywhite alle prese con uno dei suoi primi lavori ma destinato a diventare uno dei più noti produttori del mondo. Giacomo Rosato

Per alcuni la “morte” di un certo tipo di musica per altri il nascere di un nuovo modo di farla e concepirla. Gli anni ‘80 racchiudono in se un lato oscuro e un altro solare. Gli anni -80 prendono il punk e lo trasformano in new wave, gruppi come i Joy division, i Cure, Siouxe and Bunshees, Bauhaus, Dead Can Dance, i Wire (solo per citarne alcuni) prendono l’essenza del movimento punk, il suo approccio minimalista e lo dilatano, lo rallentano, gli danno un’ipnoticità che diventa oscura grazie a testi, linee melodiche e atmosfere debitrici del dark dei Black Sabbath, Van Der Graaf Generator, ma anche di Lou Reed e di alcuni episodi dei Pink Floyd. La wave come molta della musica dal punk in poi si baserà su un assunto fondamentale: non bisogna essere dei bravi musicisti per suonare. Partendo da questo la musica si libera e la neonata elettronica entra di prepotenza nelle composizioni delle canzoni. Mettendo da parte tutta l’esplosione del pop (Madonna, Micheal Jackson, Prince, Duran Duran e compagnia bella) non possiamo assolutamente dimenticare alcuni dei mostri sacri del rock come Rem, U2, The Smiths, Pixies, Guns and Roses, Queen, Sonic Youth e le gravi omissioni sono solo mancanza di spazio.

CCCP Affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi: del conseguimento della maggiore età Attack Punk 1985

12/7/’82 Camponi del mondo Campioni del mondo

4/8/’83 Craxi Presidente del Consiglio

“Se io posso cambiare e anche voi potete cambiare allora tutto il mondo può cambiare” (Rocky IV) “Questo film è dedicato al valoroso popolo afgano” (Rambo III) “Mi avete preso per un coglione. No, sei un eroe” (Oronzo Canà)

1985 Il mondo conosce l’Aids

1989 Cade il muro di Berlino

Quando esce il primo album dei CCCP, Affinità - divergenze fra il compagno Togliatti e noi: del conseguimento della maggiore età (Attack Punk, 1985), ci si accorge subito che era un piccolo capolavoro del rock europeo. Punk americano, cantautori italiani, musica industriale europea, dark britannico si mescolano per raggiungere uno stile assolutamente personale. La voce di Ferretti, costantemente sovratono, è la vera protagonista del disco. Ferretti dimostra una particolare attitudine ad adattare la propria lingua alle esigenze ritmiche e armoniche della musica. Il sarcasmo è il tono predominante del disco e si manifesta soprattutto in Curami, il cui ritmo è dettato dallo xilofono, e nei ritornelli idioti di Mi ami?, vero e proprio jingle da avanspettacolo erotico. Io sto bene è l’hit del gruppo, forte di uno dei ritornelli simbolo degli anni ottanta: “Non studio, non lavoro, non guardo la TV, non vado al cinema, non faccio sport”. Assieme al tango modernista di Allarme rappresenta l’ideale introduzione a Emilia Paranoica, il lungo brano che chiude l’opera, il vero capolavoro di questo disco e senza dubbio uno

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dei punti più alti del rock italiano degli ultimi vent’anni. È l’inno di una generazione annoiata e perduta tra droghe e psicofarmaci, l’epica della provincia italiana, racchiusa nella frase finale “Aspetto un’emozione sempre più indefinibile” ripetuta meccanicamente con l’accompagnamento indolente della musica. Una paralisi fisica e mentale, un punto di non ritorno del tipico nichilismo anni ottanta. I CCCP hanno rappresentato, con questo più che con tutti gli altri dischi, un momento veramente nuovo nella scena rock italiana, una sintesi felice di quello che veniva dalle altre parti del mondo, uno stato di grazia che forse neanche lo stesso Ferretti è più riuscito a raggiungere nel corso della sua ventennale carriera. Dopo la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento dell’Unione Sovietica Ferretti e Zamboni decidono di cambiare il nome del Gruppo in CSI, Consorzio Suonatori Indipendenti. Dario

SENTITI QUESTI Zenyatta Mondatta (1980) - Police Duran Duran (1981) - Duran Duran Speack and spell (1981) - Depeche Mode Power corruption and Lies (1983) - New Order Born in the Usa (1984) - Bruce Springsteen Purple Rain (1984) - Prince The Smiths (1984) – The Smiths Joshua Tree (1987) - U2 It takes a nation of milions to hold us back (1988) - Pubblic Enemy Disintegration ( 1989 ) - Cure


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PROFUMATI OTTANTA di Livio Romano

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Certo fa un effetto fastidioso riesumare adesso certi arnesi della voga degli Ottanta. Adesso che gli stilisti conciano le modelle con questi make-up che sanno di carnevale di Venezia e queste vestimenta mod che, al pari delle mise fricchettone che qualche anno fa agghindavano le pischerle manco fossero compagne di Joan Baez in procinto di manifestare per il ritiro delle truppe dal Vietnam, il solo scorgerle in maniera così decontestualizzata per le strade restituisce un’impressione straniante, di un già visto per nulla al mondo piacevole da rivedere. L’effetto di un rimosso che improvvisamente viene a visitarti senza che nessuno glielo abbia richiesto. Perché noi che abbiamo vissuto la teen-age negli ‘80 siamo l’unica generazione dopo la guerra la quale non vada neanche un po’ orgogliosa dello Spirito del tempo della propria adolescenza. La quale appena è stato possibile ha dismesso i maglioncini verde fosforescente e le camicie rosa e i dischi dei Tuxedo Moon per foderarsi il corpo di abiti minimalisti o etnici o militari giù fino alle zampe d’elefante e agli esquimo che, sull’incalzare della maturità, hanno defenestrato dagli armadi e dagli immaginari quel colore fucsia profondo con sottofondo di batteria elettronica che per tutti noi rappresenta il decennio di Craxi e di Reagan e della Tatcher. La musica popolare è il più potente evidenziatore di un’epoca, si sa. Sarebbe bello fare il gioco dei due commessi di Alta Fedeltà di Hornby. Arriva la Rivoluzione Musicale e porta via… Negli zaini conserviamo i dischi di… Ah, quanta paccottiglia ha portato via l’arrivo della nuova psichedelica americana, l’arrivo delle nuove minacciose nubi di fine secolo come se non fosse bastato l’incubo della bomba atomica intorno al quale argomentavamo nei nostri temi di italiano a settimane alterne (e quando non si parlava del Day After c’era sempre da inveire, al cospetto della prof marxista, contro il Riflusso Nel Privato e la Società Dell’Immagine salvo poi, in cameretta, ballare il mambo di Sergio Caputo "in attesa d’altre novità"). Ma andiamo con ordine. Lo scrisse Brian Eno nel 1982. È finita l’epoca dei grandi concerti, dei casini al Parco Lambro, del pur rivoltoso Lou Reed che scappa da Milano nauseato dalla violenza. È arrivato il momento di andarsene ciascuno nel suo club e, davanti ai clip proiettati contro il muro, coltivare la propria personale Nuova Onda. C’erano, nel calderone post-punk, gli istrici ossigenati con la fissa per quelle drum machine dell’epoca davvero tontolone se le si confronta con quelle di oggi, ma insomma suonavano. Ragazzo Selvaggio Portami Via, nei casi peggiori (Duran Duran). Eleganti canzoncine di miele e giuggiole negli esempi più raffinati (Roxy Music). E poi c’erano i club del metallo. Questi AC/DC con ancora sotto le scarpe il fango del punk. I Black Sabbath che, unica band occidentale, aveva accettato di suonare per il regime separatista sudafricano. Tutti quanti soporiferi e inutili, e i loro supporter dal giubbotto di jeans con le maniche lacerate e le maglie di sotto dai colori più scioccanti: buzzurroni del Fronte della Gioventù (fratelli maggiori dei personaggi scentrati e spersonalizzati di Aldo Nove) oppure Paninari in Timberland, piumino Moncler, maglione a trecce Stefanel. Imbarazzanti. I dark si riunivano nelle cantine ARCI più progredite. Avevano addosso spolverini da maniaco sessuale e rimmel e cerone e mascara a etti sul viso. Vagheggiavano suicidi nel deserto come con orgoglio proclamava d’aver tentato Robert Smith dei Cure. Si immalinconivano ascoltando l’altro Grande Suicida del dark: Ian Curtis degli insostenibili Joy Division. Ognuno a modo suo tentava di destrutturare il rock’n’roll e l’Occidente intero. Brian Eno con i suoi Ambient 1, 2, 3 ad libitum e con la fenomenale produzione degli U2 di Unforgettable Fire, insieme con i Talking Heads e con quell’altro depressone di Nick Cave espressero al meglio questi venti di goticismo che attraversavano l’Impero. Ad ascoltare oggigiorno i Siouxsie and the Banshees, invece, c’è da maledire di non essere nato negli anni Venti. Poi un altro club monomaniacale e di dimensioni planetarie si faceva sempre più frequentato: quello degli Ossessionati Dal Boss. Puoi dire peste e corna di Springsteen –soprattutto da quando ha assunto quest’atteggiamento ambiguo nei confronti dell’imperialismo di Bush. Ma, insomma, sì: Nebraska e Born to run ce li teniamo ben nascosti nello zaino quando la Polizia Musicale farà piazza pulita delle nefandezze Eighty. Poi sono arrivati i fresconi. Qualcuno ha cominciato a dire "E basta co’ ‘sti quattro quarti", "Sassofonisti e trombettisti avete smesso di fare la fame". Nacque la Cool Generation. Ballare, dobbiamo, amici minatori della Scozia. Ritmo swing e blues. Il compagno Paul Weller e i commilitoni Tracy Thorn e Ben Watt degli Everything but the girl (sopravvissuti fino ai nostri giorni con orripilanti quanto ben più remunerative produzioni techno). Gli eterei Cocteau Twins e quell’altra gran uggia di David Slylvian. Il parimenti tedioso e geniale Joe Jackson. Quell’altra gran ruffiana di Sade. Ma anche i Weekend e Van Morrison. Look ricercato, smoking, cravatte. "Giura che non credi che gocce di profumo possano dormire per forza in sacchi a pelo marron", ipotizzava Luca Carboni. Dallo swing alla melodia leccata il passo fu breve. L’esordio stucchevole dei Prefab Sprout (Germoglio Prefabbricato: il più brutto nome della storia del rock) ebbe cinque stelle sulle maggiori testate e noi lì ad ascoltare questi languidoni e a comprare rose alle fidanzate per contestare le sorelle maggiori e le loro sentenze comunarde –sorelle le quali, è noto, tempo dieci anni e son corse tutte a palestrarsi nonché a guarnirsi dei pizzi intimi più audaci. Allora allora, dunque, cosa resterà. Cosa è restato nei nostri cuori e nei nostri scaffali, dei terribili Ottanta? L’improfumarsi, è ovvio. Coccolarsi, staccare la spina, fare quattro salti per tirare fuori il veleno ("Citrosodina granulare, bevo per dimenticare il mal di mare che questa vita ci dà… mi fanno male i piedi a furia di ballare un pediluvio nel tuo cuore mi concederò"). Resteranno i grandissimi Smiths, checché ne dicano i detrattori. Quel miscuglio fatato d’ogni cosa buona fosse circolata nel decennio. La voce piagnucolosa e sensuale di Morrisey. I suoi tulipani offerti alla platea. I riff di Johnny Marr. Nella vecchia Europa per queste robe siamo, come dire?, sensibili. E resta la infinitive guitar di The Edge. Il suono psichedelico che verso l’85, e grazie sostanzialmente ai Rem e ai Dream Syndicate, cominciò a riaffiorare, in Europa, fra le corde dei chitarristi di Echo & the bunnymen e dei Big Country. Era il segno che la New Wave fosse finita. Che si fosse in procinto di inaugurare di nuovo Grandi Narrazioni nel rock e nella vita delle persone. Da Seattle stava per arrivare il ciclone Nirvana. Oltre all’altro ciclone che tutti sappiamo, e che ha spazzato via l’interregno barocco del Decennio del disimpegno.


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NON CHIAMARLO POST accade che UNA MATASSA NERA Slint Spiderland Touch&Go 1991 “Che senso ha fare musica quando c’è gente che suona così”. Queste le parole di un estasiato Jason Noble (futuro chitarrista di Rodan, Rachel’s e Shipping News) dopo aver assistito a un concerto degli Slint. Lousville, Kentucky, 1987: un gruppo di liceali di provenienza punk (Squirrel Bait) dà alla luce Tweez, disco che destruttura l’eredità hardcore fino a suonare come elettrico free rock. Brian McMahan e David Pajo, le menti insieme a Britt Walford ed Ethan Buckler, stabiliscono le coordinate del suono del prossimo decennio. Ma l’immortalità viene raggiunta solo quattro anni più tardi, quando nel ’91 la Touch&Go licenzia un capolavoro assoluto della musica: Spiderland. Distaccandosi dal suono degli esordi, gli Slint partono dalla tradizione del blues del delta, bilanciandola con la loro attitudine punk, rinunciando alla forma canzone e introducendo un sofferto parlato in alternativa ai lamenti dei padri ispiratori, intervallato da sprazzi di urla emo. Breadcumb Trail apre con una geniale combinazione di arpeggi e armonici fino all’esplosione finale; prosegue Nosferatu Man tesa e nervosa mentre è acustica e funerea Don, Aman; di assoluta derivazione blues è Washer mentre la strumentale For Dinner… è la quiete che preannuncia la tempesta. Chiude Good Morning, Captain con la sua struttura geometrica e le chitarre dal sapore arabeggiante. Il grido finale

…I’m sorry, I’ll miss you lacera le carni e il cuore. Poco dopo gli Slint si sciolgono, ufficiosamente in seguito a una grave crisi depressiva del cantante Brian. Ai loro arpeggi si ispirano i Tortoise di Chicago e i June of ’44. Ian Williams invece dà un calcio alla cultura rock con i suoi epilettici Strom&Stress destrutturando la materia. Steve Albini fonda nel ’94 gli Shellac con il loro suono tagliente e le geometrie nervose. Jim O’Rourke e i Gastr del Sol sdoganeranno la sperimentazione a un pubblico più vasto. In Scozia lo “young team” Mogwai stupisce con il primo album e si conferma poi con Cody. Ma cosa rimane oggi del post rock? Ammesso che sia esistito mai questo genere, sono pochi i gruppi significativi, troppo imitati dai loro successori che ripetono stancamente stilemi già codificati. Persino i mostri sacri come Noble, Mueller e i Tortoise sono ormai la cover band di loro stessi, avendo esaurito la vena innovativa. Forse solo i Radiohead con il coraggioso Kid A sono riusciti a superare i confini del rock andando oltre. Tra i pochi che davvero oggi possono vantare l’appellativo di post rocker. Gianpiero Chionna

BREVESTORIA Gli anni ‘90 sono gli anni del Grunge, del Trip hop, del Brit pop, del Post rock, della Techno, della Drum ‘n’Bass. Dopo il “buio” degli anni ‘80 il Grunge nato con i Mother love Bone crea un ponte tra punk e hard core risvegliando l’attenzione verso il rock grazie al fenomeno Nirvana. Il noise intanto è una realtà affermata che continua a muoversi nell’underground americano. Il Trip hop di Bristol e il Brit pop spopolano in Inghilterra. Da una parte un’elettronica jazzata (Portishead) dub-psichedelica (Massive Attack) dall’altra un suono decisamente più easy, un pop di matrice beatelsiana che esplode con una miriade di gruppi (La’s, Blur, Oasis, Suede, Supergrass, Shed Seven…). Accanto a questa svolta commerciale del Rock, gli Slint aprono una nuova strada: musica più angolare che sovverte in un certo senso i canoni della forma. La techno e la drum’m’bass che già da tempo esistevano esplodono in questi anni e saranno il collante con il secolo a venire, impazzeranno nelle discoteche scalzando la dance e la disco.

Trycki Maxinquaye Island 1995

13/9/’93 Rabin e Arafat si stringono la mano

1/5/’94 muore Ayrton Senna a Imola

Per la prima volta è stato chiaro che l’informazione è legata alla finzione in quanto sceneggiatura, costruzione drammaturgica dei fatti. [...] L’effetto guerra della CNN per la prima volta ha lasciato che si immaginasse il vero. (Link project, Netmage)

1998 Il caso Lewinsky è sulla bocca di tutti

24/3/’99 il comunista D’Alema va in Kossovo

Trip hop, ovvero l’hip hop che si tinge di suoni capaci di creare suggestioni vicine alla psichedelia. Da qui trip, letteralmente viaggio, e quindi musica capace di far spaziare la mente grazie alla confluenza di prestiti da altri generi che si fondono in un’unica formula per creare una nuova suggestione musicale. Il beat viene rallentato, il jazz si unisce ad arragiamenti orchestrali che convivono con lo scratch, voci vicine al blues si accostano a trovate pop, in cadenze a volte dub a volte più spezzate. Il Trip hop nasce a Bristol, Inghilterra, ad opera di un gruppo, i Massive Attack (ex Wild Bunch) che ancora oggi sono i massimi esponenti del genere. Il loro primo disco Blue Lines del ‘91 ha dentro di sé tutti gli ingredienti caratteristici del genere e che nel corso degli anni verrano ripresi e elaborati da altre formazioni (Portishead, Morcheeba, Lamb). Membro dei Massive Attack era anche Trycki, al secolo Adrian Thaws, un miscuglio di sangue giamaicano, africano e gallese, cresciuto nel ghetto nero di Bristol che intraprende presto una carriera solista. Nel ‘95 esce Maxinquaye, sicuramente il suo disco più commerciale (Hell is around the corner, brano contenuto nell’album, fu la sound track della pubblicità per la Superga) e per questo forse

quello che meglio riesce a farci entrare nel suo mondo. Un mondo decadente e oscuro dove la sua voce a volte afasica, stanca e monocorde contrasta con quella angelica dell’allora minorenne vocalist Martine. I samples catturati e macinati vengono impastati con armonie dissonanti creando atmosfere inquietanti. Era dai tempi del dark che non si respirava un’aria così pesante. Un disco fumato e fumoso di cui ti sembra di afferrare e di perdere in continuazione il filo. Tra i brani anche una cover stranissima di Black steel dei Pubblic Enemy. In Maxinquaye c’è un po’ di tutto quello che poi negli anni e nei dischi successivi sarà piano piano isolato e approfondito. Questo disco è come una matassa di blues, dub, hip hop, ritmi africani, breack beat, distorsioni, campionamenti che un po’ dipingono quegli anni di caos organizzato. Osvaldo

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SENTITI QUESTI Repeater (1990) - Fugazi Nevermind (1991) - Nirvana Dirty (1992) - Sonic Youth Slanted & Enchanted (1992) - Pavement Siamese Dream (1993) – The Smashing Pumpkins Defintely maybe (1994) - Oasis Worst case scenario (1994)Deus Grace (1995) - Jeff Buckley Murder Ballads (1996) - Nick Cave O-de-Lay (1996) - Beck Ok Computer (1997) - Radiohead


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Rave parties To rave, letteralmente andare in deliro. Ovvero il forte bisogno di trasformare un raduno pop, in uno spazio votato alla ‘libertà assoluta’. I rave party, fenomeno inglese degli anni ‘90, conseguenza ed esasperazione dell’ondata acid house, esplosa il decennio precedente tra Londra, San Francisco ed Ibiza, hanno definitivamente azzerato il club come luogo geografico, le pareti della discoteca, la musica come oggetto di consumo. Luoghi nascosti, inaccessibili, promozione sotterranea, per costruire, per una notte soltanto una ‘zona temporaneamente autonoma’ dove la sperimentazione sonora e la danza potessero convivere,vivere. House, techno, drum’n’bass, trance, al di là degli stili, i grandi rave inglesi hanno riportato al centro della scena l’amore per i free festival, momento essenziale nelle culture giovanili anglosassoni degli anni ‘60, facendo riscoprire a più di una generazione, il piacere del ballo e del ritmo elettronico, come strumento, finalmente, di socializzazione. Homelands, Creamfields, Glastonbury, tutti i grandi spettacoli dance contemporanei non sarebbero mai esistiti, se un manipolo di techno hippies non avessero deciso di ballare da qualche parte nella campagna inglese, sfidando le convenzioni con riti sciamanici e tribali che susciteranno l’interesse di antropologi, come il francese George Lapassade che se ne occuperà nel saggio essenziale, ‘Dallo Sciamano al rave’. A dieci anni dall’esplosione della scena acid house, il versante ultra lisergico della dance music, una agguerrita ondata di scrittori britannici celebra lo spirito psichedelico di quei giorni raccontando le storie di dj, rave illegali, suoni sintetici che attraversano veloci l’Inghilterra, imponendo al pianeta le avventure di una ‘chemical generation’ che ha in Irvine Welsh (Trainspotting, Acid House) il suo esponente più celebre. Lo strumento più efficace per una ‘immersione totale’ nei paradisi visionari e letterari di quelli anni, é la raccolta ‘Disco Biscuits’, curata dalla giornalista e dj Sarah Champion. Ci sono tutti i narratori di warehouse party dove lo spirito della dance univa gli hooligan di squadre di cacio rivali, tra storie di aerei che ospitano sound system dai bassi devastanti e di feste senza regole in qualche fabbrica abbandonata. Dallo stesso Welsh, il più famoso, grazie al successo di Trainspotting, uscito nel 1993 ad Alex Garland, che aveva appena pubblicato il bellissimo ‘The Beach’, da cui verrà tratto un film affascinante con Leonardo di Caprio, sino a Jeff Noon, Alan Warner e Gavin Hills. Ognuno con un frammento di scrittura che arriva, senza compromessi, dal cuore pulsante delle piste da ballo, divenute definitivamente il ‘luogo’ dove nascono, crescono caoticamente, e poi svaniscono, le più eccitanti subculture giovanili degli anni ‘90. Come avrebbe detto il poeta beat visionario Allen Ginsberg, ‘Accenditi, Sintonizzati, Scompari’.


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DETROIT CHIAMA MONDO accade che BENTORNATO FOLK

Dalla città dei motori, delle catene di montaggio, dell’alienazione da lavoro arriva la colonna sonora del terzo millennio. Con la caduta della Ford, Detroit diventa la città che meglio riesce a rappresentare l’era post-industriale e i suoi relativi disagi, legati ai licenziamenti di massa e alle conseguenti rivolte sociali. Da questo clima nasce una musica estrema come la Techno, una nuova corrente musicale destinata a sconvolgere i canoni della creazione e della fruizione artistica, che introdurrà un’emotività inedita e intensamente fisica, legata a una feroce urgenza del ballo, che non sarà più quello leggero e disinvolto della disco, bensì quello roboante e ben cadenzato dal suono delle macchine. Il “vuoto” di Detroit aveva reso “piena” la musica. Dopo la nascita negli anni ’80 si affaccia sulla scena una nuova scuderia di artisti che porta il nome di Underground resistance e se Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson sono i padri della Techno, gli U.R. non possono che rappresentarne i figli ribelli. Mike Banks, Jeff Mills e Robert Hood sono veramente incazzati! U.R. è techno militanza allo stato puro, è ideologia, è ribellione! U.R. sono i figli degli operai licenziati nelle fabbriche di Detroit, sono i ragazzi che occupano quelle maledette strutture abbandonate e vi organizzano i Techno party per farle rivivere un’ultima volta; sono quelli che sperano che il futuro

dei loro figli non sia come quello che è toccato loro. La techno ha inizio nel 1990 e amplia i progetti espressi dai “creatori” prima di loro e vede, per la prima volta, l’etichetta come protagonista del disco rispetto all’artista. U.R. non vuole far conoscere al mondo i suoi artisti, tanto che durante concerti e live-set essi si esibiscono con il volto coperto da passamontagna. La linea dura delle nuove leve di Detroit accompagna la Techno dal ‘90 ai giorni nostri in tutto il mondo, stravendendo singoli come X-101 oppure The vision o ancora Riot, classici ancora oggi stampati e suonati nei migliori club d’avanguardia. U.R. ha gettato un ponte fra Juan Atkins, l’iniziatore, e quelli che molti, in Europa chiamano impropriamente Techno: gli ultimi alfieri di questa musica così indefinibile eppure così saccheggiata. U.R. e Atkins assieme rappresentano oggi la techno, l’unica che può essere definita tale. Il resto sono solo fandonie da commercianti. Kosmik

BREVESTORIA L’ultimo decennio, quello in corso e ancora a metà chiude questo nostro piccolo excursus. Tra le tendenze musicali in voga in questi ultimi quattro anni sicuramente l’hip hop. Eminem su tutti sembra incarnare quel ruolo mediatico popolare e provocatorio paragonabile a chi il nostro viaggio ha fatto cominciare e cioè Elvis. Oltre che con il biondino l’America ha invaso il mondo con tutte le sue produzioni black che imperversano nelle radio e nelle tv tematiche. Sempre dall’America, questa volta da Detroit la techno si conferma genere nel futuro. Dopo i suoi esordi e il suo radicarsi nella cultura dei rave, techno ed electro sembrano i ritmi di questi anni. Accanto all’elettronica più aggressiva anche l’elettronica minimale attraversa un buon periodo grazie soprattutto alla nuova scuola nord europea. Sempre in tema di suoni e ritmi placidi il 2000 segna sicuramente un ritorno al folk delle origini, alla musica acustica in Inghilterra come in America. Anche il rock del nuovo millennio guarda al passato. Molte infatti sono le band che nascono ispirandosi a suoni delgi anni ‘60, ‘70, ‘80. L’impressione fino ad oggi, e per questo parziale, è che ancora non ci sia un gruppo o un genere a marchiare il decennio.

Goodbye Ben and Jason Fetanta 2003

13/5/’01 Berlusconi presidente del Consiglio

20/7/’01 muore assassinato Carlo Giuliani

L’ineguaglianza e l’esclusività non sono “cool”. L’opulenza del Primo mondo non è “cool”. Una cultura che continua a istigare la gente a consumare non è “cool”. L’AmericaTM non è “cool” E quelli che si fanno abbindolare sono la peggior specie di “non-cool”, sono degli sfigati. (Adbusters)

11/9/’01 Attentato alle Torri Gemelli di New York

1/1/’02 La notte dell’Euro

Capita. Ai precursori. A tutti gli artisti che anziché seguire le mode preferiscono battere strade difficili. Con questo album il duo formato da Ben Parcker e Jason Hazeley ha dato l’addio alle scene dopo aver anticipato il cosiddetto new acustic movement inglese. Quel che meraviglia di più, oltre tutto, è che Goodbye è il più riuscito dei dischi realizzati da Ben e Jason, quello in cui la loro identità di autori e interpreti è più definita e matura. Non che Emoticons (1999) o Ten songs about you (2001) fossero opere minori, tutt’altro, ma tra le canzoni di Goodbye si respira senz’altro un’aria più limpida e rarefatta. La sequenza iniziale è praticamente perfetta – da Mister America a Hollywood, passando per A Star in nobody’s picture e You’re the reason – e non c’è nulla che ne alteri la bellezza. A Ben basta soltanto una chitarra per creare dei piccoli capolavori mentre Jason si accontenta come sempre del suo ruolo di co-autore, arrangiatore e strumentista elegante e raffinato. Si può prendere come esempio Miracle, un piccolo e prezioso gioiello acustico che ci lascia immaginare come potrebbe essere il primo album da solo di Ben. Ma Miracle è seguito a ruota dalla splendida Orphans e da Sail on Heaven’s Seal, un dolce amaro tre quarti in cui emergono frammenti di noise, e sono altri due passi decisi verso la realizzazione di un capolavoro. E ancora: Window in/

window out, con il pianoforte di Jason in bella evidenza e un arrangiamento cameratistico beatlesiano e la conclusiva, magica When to laugh. La canzone d’autore inglese affonda le sue radici negli anni ’60 parte da Yesterday dei Beatles – voce e chitarra acustica (di Paul) più un quartetto acustico – e da Catch the wind di Donovan, per esplodere letteralmente con John Martyn, Nick Drake, Allan Taylor, Iain Matthews, Sandy Denny, Al Stewart, Ralph Mctell o Richard Thompson (per citare appena i più importanti). Gli anni successivi sono stati più oscuri, ma al tempo stesso hanno visto affermarsi cantautori come Boo Hewerdine (con i Bible e da solo), Andy White, Billy Bragg o David Gray. È a questa tradizione che si richiamavano Ben and Jason, tenetelo a mente quando frugate negli scaffali di un negozio di dischi: potrebbe capitarvi una copia di Goodbye dimenticata da tutti. Non lasciatevela sfuggire. E se la fortuna non vi assiste cercatene una viaggiando in rete. Chi ha mai detto che la musica migliore debba essere per forza conosciuta da tutti? Giancarlo Susanna

SENTITI QUESTI XTRMNTR (2000)– Primal Scream Hot rail (2000) - Calexico Marshall mathers (2000) - Eminem Yeah Yeah Yeahs (2001) Yeah Yeah Yeahs Is this it? (2001) – Strokes Here be monster (2001) – Ed Harcourt Neon golden (2002) - Notwist Turn on the bright lights (2002) – Interpol Elephant (2003) - White Stripes When it falls (2004) – Zero 7


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Dear heather Leonard Cohen Sony music/columbia

Emotive A perfect circle Virgin music/ emi

Nino Rojo Devendra Banhart Young God/ xl

This is Speedmeter Blow it harp|family affair

Italian playboys Link quartet Record kids

È uscito l’ultimo album del grande cantautore canadese. Fuori dal tempo, lontano dalle mode Cohen confeziona un disco fortemente legato alla sua tradizione. Impregnato di lettaratura, semplice, senza orpelli perché un grande vecchio della musica come lui non ha niente da dimostrare.

La cosa che piace di questo disco è il suo motivo ispiratore: la grande delusione per il risultato delle ultime elezioni americane. Questa si esprime in un disco composto quasi per intero da cover tra le quali spiccano Imagine di John Lennon e What’s going on di Marvin Gaye.

Il suo nuovo disco ha focalizzato, anche smodatamente, l’interesse verso questo nuovo folk americano legato alle radici, il cosiddetto prewar folk. Niente di nuovo anzi un ritorno alle origini. Il nuovo disco di Devendra è di una semplicità disarmante.

This is è il nuovo lavoro degli Speedmeter che rappresentano la reincarnazione ideale dei Meters. Undici tracce di indemoniati soluzioni hammond accompagnate da straripanti e folgoranti passaggi di fiati.

Finalmente una etichetta italiana produce uno dei gruppi più elettrizzanti del panorama hammond groove ed acid jazz mondiale. I Link quartet giungono alla loro terza prova mostrando maturità con composizioni fresche e godibili, difficilmente rintracciabili nei tanti gruppi italiani.

Hamletmachine Goodmornigboy Urtovox

di Osvaldo

Se avessi te H.E.R

di ST

Meg Meg Multiformis - Bmg

Non c’è niente di più buono delle cose fatte in casa, diceva mia nonna, ed aveva ragione, questo nuovo disco sfornato caldo caldo da Urtovox è pieno di ingredienti che fanno pensare all’Inghilterra e all’America ma è un prodotto italiano al 100%. Dietro il nome d’arte Goodmornigboy si nasconde in realtà Marco Iacampo, ex leader dei veneziani Elle, che con questa sua seconda prova da solista ha definitivamente lanciato l’indie italiano d’autore a livello internazionale. Un disco di una bellezza e una semplicità rare, una voce bellissima e tagliente, uno stile che sembra seguire l’eredità del folk americano di Neil Young ma che si sposa piacevolmente con il low-fi acustico di personaggi come Sparkleehorse. La scelta dell’inglese per esprimersi è puro suono che si intreccia con gli strumenti dosati sapientemente. Un disco da esportare che nulla ha da invidiare alle produzioni di Lou Barlow e soci, suonato e arrangiato con un’eleganza che impreziosisce le bellissime canzoni. Accanto a Marco che suona piano e chitarra hanno collaborato alla realizzazione di questo piccolo gioiello musicisti del calibro di Giovanni Ferrario e Alessandro Stefana. Da non perdere.

Dinamico e divertente è “Se avessi te”, l’EP dell’artista di origine foggiana H.E.R. (al secolo Erma Castriota) immesso sul mercato e accompagnato da una serie di performance live in set acustico che coinvolgeranno violino e pianoforte elettrici. I quattro brani contenuti nell’EP attraversano diversi generi musicali, in un caleidoscopico mescolarsi di suoni, colori e ritmi. Denominatore comune i due strumenti musicali dell’artista: la sua sorprendente voce dall’estensione stupefacente e il suo violino, mirabilmente suonato come voce cantante, quasi estensione delle sue già notevoli doti vocali, e per chi ha avuto piacere di assistere alle sue performance live, del suo stesso corpo. Completano il quadro gli arrangiamenti al pianoforte dal sapore acid jazz per rendere i brani unici e preziosi, e predisporli ad ascolti ripetuti per poterne scorgere tutte le venature e l’eleganza. H.E.R. nei sui brani canta d’amore: l’amore verso un partner che non c’è, o che è diverso da quello immaginato, e l’amore nei confronti di se stessa e del suo nome, nell’evoluzione personale ed artistica, in continuo cambiamento e miglioramento. Le precedenti collaborazioni (Nidi d’Arac, Teresa De Sio, Giovanni Lindo Ferretti) ci avevano abituati ad un lavoro di alta qualità ed ad un’artista completa: questo disco non tradisce le aspettative e apre la strada ad una carriera da solista che offrirà senza dubbio grandi sorprese. Disco d’esordio per la ventisettenne dei 99 Posse. Al primo omonimo lavoro da solista Meg (nella foto di Alice Pedroletti) è già un piccolo caso per la critica, divisa tra chi la considera la Bjork italiana e la accosta alla Vanoni e Mina, e chi invece abituato a vederla nei panni di donna d’assalto nei 99 Posse, non vede di buon occhio il suo tentativo di svestirsi della band che ha accompagnato in questi anni, per altro con un disco dallo stile piuttosto diverso, meno “aggressivo” e più poetico. Semplicemente Maria Di Donna in arte Meg non si sente vicina a nessuna delle artiste citate pur apprezzandole, ha voluto che questo disco nascesse così, senza mediazioni di sorta, e con particolare attenzione ai testi. Probabilmente i più resteranno indifferenti alle undici tracce della nuova Meg, ma ascoltandolo con attenzione difficilmente non le si potrà dare atto aver fatto un buon lavoro, passando tra la sua bellissima voce e le musiche curate dalla “mano elettronica” dei 99 Posse Marco Messina. Brani di sicuro impatto sono Puzzle e l’omaggio ai ritmi brasiliani di Senza Paura quest’ultima cantata con gli Elio e Le Storie Tese, senza dimenticare ovviamente il singolo promozionale Simbiosi.

di Augusto Maiorano

Lombroso Lombroso Mescal

di Osvaldo

Verrebbe subito da pensare: “Ah ecco i WhiteStripes italiani”. Effettivamente se pensi alla formazione (chitarra, batteria) e al suono (tipicamente anni 70) l’associazione nasce spontanea. Ma a ben ascoltare scopri subito che di ben altra materia si tratta. Il progetto Lombroso nasce per caso, frutto di una jam, e vede insieme Dario Ciffo, violinista storico degli Afterhours, alla chitarra e alla voce, e Agostino Nascimbeni alla batteria e ai cori. L’atmosfera generale è rock and roll con piacevoli svisate in soluzioni che fanno pensare a un Battisti (la ghost track del disco è una sua cover) accompagnato dalla Formula 3. Appassionati di anni 70 e 60, i due ne attingono a piene mani e passano agilmente da un pop and roll scanzonato a stacchi surf con tanto di coretti alla Beach boys. La mancanza di un ensemble classico viene risolta grazie all’uso di una sorta di loopmachine che cattura giri di chitarrabasso che diventano scheletro portante di brani dal groove tipicamente ed energicamente vintage. La voce a tratti graffia e a tratti sale ricordando un po’ Ivan Graziani. Un prodotto italiano dal sapor retrò con il suono e il gusto degli anni, forse migliori, della nostra tradizione rock.


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We were gladiators Theramin Guinea Pig Guinea Pig Psychotica records

di Gianpiero Chionna

Mountaineer Sleep and me Sommerweg/Wide

di Patrizio Longo

disco del mese Marianne Faithfull Before the poison Naive

Due nuove uscite in casa Psychotica Records. Segnaliamo Theramin e Guinea Pig. Il fatto che Catania sia una città piena di creatività musicale viene confermato (se ce ne fosse bisogno) dal buon lavoro dei Theramin che pur avendo come punto di riferimento il solito math rock albiniano, mescolano le carte con altre influenze. Così accanto alle squadrate geometrie degli Shellac si affianca un riffing di marca June of ’44, ma anche stasi di post rock più schietto con l’ottima To be away. Near by the Saint Leonard river invece abbina un chitarra acustica al recitato di Sacha Tilotta disegnando un bozzetto rurale e contemplativo. Sonorità facilmente riconoscibili, ma il risultato finale è di tutto rispetto. Inoltre una chicca per gli appassionati: Guinea Pig è un b-movie che con disinvoltura mostra una serie di torture gratuite e belluine; un finto snuff insomma. Sapete cosa attendervi dalla musica del gruppo omonimo quindi! Partendo da geometrie math rock di gran lunga più rabbiose di altri colleghi, i Guinea Pig si lanciano anche in sferzate di noise assassino e accordi che non dispiacerebbero per nulla alla Skin Graft. E in effetti non dispiace neanche a noi la loro musica lontana anni luce dalle acustiche finocchiate di questo periodo.

La voce di Henning Wandhoff riesce con le sue calde tonalità a creare ambienti dai toni soffici e raffinata. Alcuni la paragonano a quella del grande Lou Reed. Il nuovo cd di Mountaineer sembra essere il secondo tempo del precedente lavoro Sunny Day (Sommerweg – 2003). La struttura musicale di base folk con i suoni della chitarra immersa fra le culture che si incontrano dall’Arizona al Brasile. Possiamo ascoltare nei trentotto minuti circa dell’esecuzione del cd, folk tradizionale, samba latinoamericana il tutto con un tocco di pop contemporaneo. “Sleep and me” un disco sussurrato non cantato dove si predilige un’atmosfere soft creata da strumenti tradizionali, quali tastiere a pedale, chitarra folk, banjo, ritmi messi in loop. Per alcuni tratti ascoltando il disco si ricorda il grande JJ Cale. Fra le tracce che è giusto evidenziare troviamo “I live in your house” un cocktail di samba da proporre di fronte un tramonto in una location che farebbe risaltare questa ballata. Merita una nota anche “Glow” divisa nelle due sezioni. Per gli amanti del ritmo la traccia undici remix “La grande illusion”. Davvero un magnifico album, versatile nei suoni dai molteplici gli ascolti.

Ci sono voci che in poche battute riescono a evocare mille storie e un intero mondo di sensazioni e emozioni. Quella della Marianne Faithfull di oggi scura e sgranata, ha poco a che fare con la fragilità di un tempo, quando la cantante era la musa della Swinging London. Sembra che le esperienze, le traversie, le gioie e i dolori della sua esistenza si siano concentrati nella voce, un segno così forte e riconoscibile che le permette di muoversi a tutto campo nell’ambito della canzone d’autore. La Faithfull può collaborare con Angelo Badalamenti, con i Blur o con Beck, come ha fatto in un passato non troppo lontano, senza tenere di snaturare il suo approccio alla musica. Il rispetto e l’affetto che la circondano non fanno anzi che rafforzare e rendere ancora più incisiva e memorabile la sua musica. Ed è come se la forza espressiva di Brocken English, l’album che la riportò alla vita e alla ribalta sull’onda del punk nell’ultimo scorcio degli anni ’70, continuasse a spingerla in nuove e imprevedibili direzioni. Before the poison nasce dall’incontro della Faithfull e musicisti come Pj Harvey, Nick Cave, Damon Albarn e Jon Brion ed è senza dubbio uno dei suoi dischi più intensi e riusciti, oltre che uno dei migliori del 2004. Nell’opera precedente, Kissin’ time, aveva toni più calmi e rilassati, Before the poison recupera in modo magistrale il rock più oscuro ed ipnotico. Non è un caso che in apertura siano sistemate due canzoni scritte e prodotte da e con Pj Harvey, la cui sensibilità è evidentemente in sintonia con quella della Faithfull. Sono The mistery of love e My friend Have a stabilire la temperatura emotica di tutto l’album, un mood in cui entrare con la stessa naturalezza i contribuiti degli altri ospiti e amici. Si tratta dunque di un grande disco, che oltre a confermare la statura di autrice e interprete della Faithfull ci dice che è anche chi ha scelto il rock come modo di esprimersi può accogliere con grazia l’inevitabile arrivo delle rughe e dei capelli bianchi. Giancarlo Susanna


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Mondo la douce AA.VV. Irma Records

di Postman Ultrachic

Elegia Paolo Conte Warner

di Antonietta Rosato

What you waiting for? Gwen Stefani InterscopeRecords

di Davide Castrignanò

La compilazione prende il nome dal fatto che il materiale presente proviene da tutto il mondo: Giappone, Russia, Brasile e molti altri paesi. Un disco in cui sono presenti pezzi che spaziano dal loungecore alla digital bossa, i giapponesi “Deep” si cimentano in un doo wop futuristico con incursioni scat da brivido. Gli strafamossissimi “Kaledoscopio” ci offrono un morbidodrum bass con forti accenni po; i “Doing i Time” remixano con gusto i messicani OV7, autentica leggenda in patria; “Milky Laqres” rileggono in chiave lo fi Mas que nada dandogli quella follia che solo i russi in questo periodo sanno dare. Il pezzo più danzereccio Tv show ce lo regalano i “Schiffers”, con una straordinaria parte vocale che è un campione accelerato e corretto di un pezzo dei “Ridillo”, tra le cose migliori del disco. Troviamo anche delle anteprime come Tee tee coco di Robert Passera insieme a una delle voci più significative del regno unito Lorrainne Bowen. Mentre per gli amanti del cinema non bisogna lasciarsi scappare la versione di Capiozzo e Mecco con il tema della strana coppia di Jack Lemmon e Walter Matthau.

A nove anni da Una faccia in prestito e dopo la parentesi internazionale di Razmataz torna Paolo Conte ed è come se il tempo si fosse fermato. Elegia è quasi un’antologia della carriera artistica del cantautore. L’attenzione è tutta per la ricomparsa dell’uomo del Mocambo, storico eroe perdente, gestore di un bar di provincia che di sera, agghindato a festa, cerca in ogni donna quella del destino ma immancabilmente si ritrova sempre solo. Con La nostalgia del Mocambo si chiude la tetralogia dedicata a questo personaggio. Tranne qualche caso c’è ben poca ironia in questo album. Elegia si potrebbe dire che è il disco della nostalgia. Se c’è un momento allegro è un momento della memoria, il resto è citazione e rimpianto. Ma se frattura con il passato c’è, questa è nella grande assenza del jazz. I fiati sono quasi totalmente rimpiazzati dagli archi, non ci sono grandi arrangiamenti, non c’è il kazoo. Tredici pezzi, tutti in italiano, che al primo ascolto sembrano non lasciare traccia, qualche vago ricordo di già sentito ma poi ti girano in testa e ti fanno ricordare come ti sei sentito la prima volta che hai ascoltato Paolo Conte. Tutto questo è già in Elegia, l’overtoure che dà il titolo all’album e che era stata pensata per Celentano, come altre canzoni dell’album, ma che alla fine me le devo cantare da solo con questa brutta voce.

TickTock TickTock TickTock, il ticchettio mi frulla nella testa e mi sorprende la follia acida che invade una tranquilla canzone di provincia. Non ho mai sopportato i NoDoubt, ma ascolto il debut single della Stefani e inizio a canticchiare e saltellare. Decisamente piacevole la canzone (prodotta da Nellee Hooper) nel suo missaggio di icone pop (mi viene in mente Kylie Minogue, Madonna e la ruffianaggine della Spears); impastate di wave-house e tonificate da innocente sregolatezza. Starò forse invecchiando, ma anche il video (contenuto nel cd-single) risulta accattivante e se la canzone spopola in buona parte dei locali alternativi “istituzionalizzati” di mezza Italia, riempiendo dance-hall a iosa, allora forse c’è da pensare che sia un prodotto ben riuscito. Un buon biglietto da visita per l’album “Love.Angel.Music.Baby”, non c’è dubbio, fortemente raccomandato ai nottambuli e sfrenati danzatori isterici, di cui credo di poter fare parte. Non sono da meno neppure i due remix (in versione dub-light) del pezzo, orchestrati da Jacques Lu Cont e presenti nel cd-singolo; in totale rasentano i 18 minuti di musica, ma scorrono via con piacere e diletto dell’apparato uditivo. Non voglio istigare all’acquisto, ma preavviso i meno accondiscendenti che probabilmente il pezzo li tartasserà per i prossimi mesi invernali.


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Nicola Lagioia Occidente per principanti Einaudi

di Rossano Astremo

Marco Vichi Il nuovo venuto Guanda

di Bubu

il libro del mese T.C. Boyle Doctor Sex Einaudi

Dall’autore di Tre sistemi di sbarazzarsi di tolstoj (minimum fax, 2001) non te lo saresti mica aspettato un romanzo del genere. Attendevi con ansia questa seconda prova narrativa del barese Nicola Lagioia. In libreria si staglia in tutta la sua sublime bellezza la copertina raffigurante un’opera di Adrian Tranquilli, Until the end (tecnica mista, 2002). Imprechi contro il creato per il prezzo, 17 euro, ma in fondo sei felice che un autore pugliese a trent’anni pubblichi con la prestigiosa collana Supercoralli dell’Einaudi. Occidente per principianti è un romanzo che, come i cocktail che si rispettino, va bevuto tutto in un sorso. 297 pagine che rasentano la perfezione (tranne alcuni momenti della seconda parte un po’ rabberciate, quasi riempitive). Occidente per principianti è la storia di un giornalista fantasma sulle tracce della prima amante di Rodolfo Valentino. Ad accompagnarlo in questo viaggio un regista indipendente inseguito dai creditori e una studentessa di cinema bella e infedele. Occidente per principianti è il romanzo manifesto dei poveri cristi nati nei ’70, vittime di un precariato lavorativo che spezza le gambe. Occidente per principianti è un romanzo sulla spettacolarizzazione dell’informazione, una sorta di mondo sopra il mondo che tutto condiziona, che tutto genera. La letteratura pugliese è in buone mani. Altro che Carofiglio!

Con questo lavoro Marco Vichi ci regala la terza avventura del commissario Bordelli, il suo più noto personaggio e anche stavolta lo sfondo in cui si svolge la storia è la Firenze degli anni ’60. Un uomo viene trovato morto nel suo appartamento. Causa della morte: un paio di forbici piantate con inusuale forza nella nuca. Perché tanta ferocia? Perché la vittima era un usuraio e Bordelli quasi non vorrebbe trovare l’assassino, che, sebbene non abbia lasciato alcuna traccia, ha firmato inconsapevolmente l’omicidio. Ad accompagnarlo nell’indagine c’è l’amico di sempre, il medico legale Diotivede, ormai prossimo alla pensione ma più che mai appassionato del suo lavoro, che con una brillante intuizione metterà Bordelli sulle tracce del colpevole. Il Bordelli che incontriamo in questo terzo atto è lo stesso che ci è stato offerto nei due precedenti romanzi: cinico, disilluso ma dotato di un animo generoso che lo spinge ad aiutare gli stessi criminali che lui arresta, gente cui la vita ha riservato poche gioie e molta sfortuna. A completare la trama è il caso in parallelo condotto dal pupillo del commissario, l’agente Piras, che tornato in Sardegna per un periodo di convalescenza si imbatte nello strano suicidio di un vicino di casa… Unico appunto da fare: alcune soluzioni appaiono un po’ azzardate e ci sono momenti in cui la trama si perde in ricordi troppo lontani dal contesto narrativo.

Nel 1948 il dottor Alfgred Kinsey, professore di Zoologia in un piccolo college degli Stati Uniti pubblicò un libro destinato a diventare uno dei più discussi best seller di tutti i tempi: Il comportamento sessuale dell’uomo, seguito nel 1953 dal Comportamento sessuale della donna. In anni in cui l’America era stretta dalla morsa del perbenismo, il rock non aveva ancora mostrato le possibilità dell’amore libero, Alfred Kinsey provocò un vero e proprio scandalo pubblicando i risultati delle sue ricerche. In meno di dieci anni lui e il suo staff condussero oltre 18000 interviste a uomini e donne sul comportamento sessuale. Kinsey mostrò all’America che dietro al perbenismo di facciata si nascondeva un popolo in cui i rapporti prematrimoniali erano diffusissimi così come i rapporti extraconiugali, la masturbazione maschile e femminile e altre “aberrazioni” sessuali come rapporti con animali e comportamenti illegali. Boyle ha scritto un romanzo decisamente impeccabile, perfetto, bellissimo. L’espediente scelto dallo scrittore per raccontare la storia di Alfred Kinsey è un vecchio trucco che quando è usato bene come in questo caso produce degli effetti eccezionali: l’espediente del narratore inattendibile. Jhon Milk, il protagonista narratore del romanzo dichiara infatti di essere completamente soggiogato dal suo maestro e mentore, di imitarlo apertamente e di assecondarlo in tutto quello che gli chiedeva. Milk dichiara inoltre di non ricordare per niente bene alcuni dei fatti che riporta. E questo gli permette di dire tutto quello che vuole e a noi permette di crederli, perfettamente consapevoli che quello che racconta può essere del tutto falso. Ma che ci importa. Il bello del romanzo è che non si limita a raccontare la ricerca. Milk ripete infatti spesso che il suo vuole essere un racconto su Prok e non su di lui, ma quante volte invece Milk si dilunga nel raccontarci gli aspetti privati della sua vita, da single prima e da uomo sposato poi. E ci racconta il rapporto con gli altri membri della cerchia ristretta e con le loro mogli, e con le amiche e gli amici della ricerca come loro definivano le persone più generosamente disponibili ad aiutare i ricercatori nella loro impresa. E l’impresa dei ricercatori si spinge sempre più in là nella sperimentazione diretta di quello che vengono scoprendo nlle interviste, in un crescendo continuo di depravazione, amore e gelosia, il tutto all’insegna dell’amore libero e del sesso ridotto a puro scienza. Dario Goffredo


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Adam Fawer Improbable Feltrinelli

Carlo Lucarelli La mattanza Einaudi

Pete Dexter Train Einaudi

The Best of McSweeney’s a cura di: Dave Eggers Minimum Fax

One Ring Zero As smart as we are ganzi come siamo Minimum Fax

La storia di David Caine, un matematico che riesce a prevedere le probabilità e le conseguenze delle sue azioni nel futuro. Aiutato dal fratello gemello e da un’affascinante agente segreto doppiogiochista, Caine deve capire cosa gli sta succedendo prima che lo scoprano altri.

In DVD lo «speciale» di Blu notte. Misteri d’Italia andato in onda per la prima volta, con immenso successo, nell’estate 2003. Con un libro in cui Lucarelli racconta la mafia, come fosse un romanzo. Ma non lo è.

Un grande romanzo insieme cupo e luminoso, inciso da un Faulkner del nostro tempo. Un micidiale meccanismo a orologeria unito a una scrittura tesa e serrata che sa restituire, dietro il velo della normalità, la profondità dei sentimenti e la violenza brutale della vita.

McSweeney’s, la rivista letteraria fondata da Dave Eggers è il fenomeno più rivoluzionario della scena letteraria americana. Capace di diventare in pochi mesi punto di riferimento di un’intera generazione senza perdere il suo status di prodotto autogestito e autofinanziato.

In esclusiva per l’Italia sul sito di minimum fax è finalmente disponibile l’album As smart as we are del gruppo One Ring Zero, con diciassette canzoni scritte da Paul Auster, Rick Moody, Dave Eggers, A.M. Homes, Myla Goldberg, Margaret Atwood, Jonathan Lethem e tanti altri scrittori americani

Lu sule , lu mare, lu ientu Manni

di Pierpaolo Lala

Vincenzo Corraro Sahara Consilina Palomar Bari 2004

La domenica è il giorno della parola del Salento. La nuova e comoda agenda pubblicata da Manni Editore per il 2005 è scritta da salentini, da salentini acquistiti e soprattutto per tutti coloro che vogliono apprezzare qualcosa in più di questa terra. Non un libro, non una semplice agenda. Una via di mezzo che, attraverso lo snocciolarsi dei giorni e delle stagioni, presenta un campionario, raccolto da Agnese Manni e Giancarlo Greco, di appunti sulla terra del rimorso e degli ulivi, della tradizione e dei fichi d’India, del vino e della malinconia, dellu Sule, dellu mare e dellu ientu. Le composizioni originali per raccontare i tre elementi sono affidate a Edoardo Winspeare, Giovanni Lindo Ferretti e Livio Romano. Regista, cantautore e scrittore che descrivono il loro salento. Ma sfogliando le pagine ci si imbatte anche in Daniele Silvestri, Vinicio Capossela, Aldo Bello, Vittorio Pagano, Antonio Verri, Giovanni Pellegrino, Alda Merini, Maria Corti, Ernesto De Martino, Vittorio Bodini, Donato Valli, Kant e nei canti di tradizione, Salvatore Toma, Antonio Errico. Di quest’ultimo segnaliamo L’ultima caccia di Federico Re (sempre per Manni), che si muove tra realtà e finzione raccontando il grande Imperatore che con la sua cultura segnò un’era.

Dietro l’inquietudine di un gruppo di giovani universitari fuori sede, in Sahara Consilina si nasconde il dramma dello sradicamento dalla propria terra e la necessità di trovare le motivazioni per fare ritorno ai luoghi del sud. Il romanzo di Vincenzo Corraro, infatti, è la storia della nuova emigrazione italiana - giovanile, universitaria e intellettuale – che, a differenza di quella della manovalanza disperata, ha imparato a non piangersi addosso, a non sentirsi vittima, fino a trarre sofferente gioia da una condizione che diventa anche occasione di viaggio, conoscenza, scoperta e arricchimento. Sahara Consilina è un romanzo crudele, politico, ironico, musicale, è un romanzo d’amore e di morte, è un romanzo corale: tante storie che si intrecciano su un’unica tensione etica come una specie di lente d’ingrandimento delle tante sfaccettature umane. Le sue pagine coinvolgono il lettore con la ricerca famelica di una ragione di vita e il desiderio insopprimibile di riscattare la propria esistenza dandole memoria, identità ed appartenenza.


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2046 Wong Kar Wai

di Michele Pierri

Bride and prejudice: The Bollywood musical Gurinder Chadha

Nel 1966, ad Hong Kong, in una stanza d’albergo il giornalista Chow Mo Wan cerca di scrivere un libro sul futuro nel quale riversa tutte le sue esperienze passate. L’ultimo lavoro di Kar-Wai si distingue come un’opera indipendente e particolarissima, in cui la stanza d’albergo che da il nome al lungometraggio (2046 per l’appunto), rappresenta il crocevia della memoria del protagonista, delle donne che ha posseduto, dell’unica che ha amato. Un film sulla memoria ma anche sul rimpianto. A sottolineare l’impossibilità di rivivere pienamente il ricordo, il regista costruisce le sue inquadrature utilizzando solo metà dello schermo, lasciando a volte parte dell’inquadratura nera o lievemente sfocata perché nel ricordo l’immagine non risulta mai completamente nitida. Kar-Wai e il suo fedele direttore della fotografia Christopher Doyle riescono a fare quello che vogliono e rappresentano una “alternativa” al cinema americano da classifica. Un motivo in più per vedere un film che è stato tra i favoriti a Cannes e che racchiude mille pensieri, mille ricordi. 2046 è il luogo dove si affollano le contraddizioni e le illusioni della mente, uno spazio/tempo dal quale nessuno fa ritorno, alla ricerca delle proprie memorie perdute.

La signora Bakshi non vede l’ora di trovare un marito alle sue quattro figlie. Quando il giovane Balraj arriva in città la signora Bakshi farà tutto il possibile per presentargli le sue figlie. Una di queste sembra essere attratta dall’amico americano di Balraj. Di fronte a questo lavoro, uno spettatore occidentale può sentirsi quantomeno confuso. Può essere però un’ottima occasione per scoprire qualcosa in più di Bollywood e della tendenza indiana di questo periodo. Ad esempio, ogni film prodotto da quella straordinaria macchina (capace di sfornare 800- 900 film l’anno!) è caratterizzato da una serie di elaborate scene di canto e danza, che sublimano qualunque approccio fisico (perfino i baci sono vietati) e che prendono origine dal teatro classico indiano dei secoli scorsi. In più, tutti i film seguono la stessa formula narrativa: una storia d’amore tra due bellissimi giovani, ostacolata e contrastata da fraintendimenti, obiezioni ed altri problemi, le reciproche famiglie, che occupano sempre un ruolo centrale, e la comicità che sdrammatizza. Alla fine, si troverà sempre un compromesso tra i valori tradizionali e quelli moderni. Particolare e non facile da vedere nelle nostre sale.

di Michele Pierri

film del mese Kar/Wai Soderbergh Antonioni Eros

In programma fuori concorso alla 61ma Mostra del cinema di Venezia, “Eros” si divide in tre episodi che portano la firma di tre eccezionali cineasti. Diversi capitoli per diversi modi di raccontare l’erotismo e soprattutto quello che ne consegue. Il primo, intitolato “La mano”, è quello diretto da Kar-Wai ed è anche quello che offre gli spunti migliori e che come al solito si distingue per raffinatezza e maestria anche se appare abbastanza ripetitivo considerati i suoi lavori precedenti. Ripercorrendo i sentieri di “In the mood for love” e del più recente “2046”, il regista racconta di una Shangai degli anni ’30 dove il sarto Xiao Zhang (Chang Chen), divenuto il favorito di una prostituta d’alto bordo (Gong Li), le rimarrà fedele anche quando la sua bellezza appassirà. La seconda parte, firmata da Soderbergh, si intitola “Equilibrium” ed è quella che meno ci si aspetterebbe. Ambientata a New York negli anni ’50 parla di un pubblicitario (Robert Downey Jr.) che si rivolge a uno psicoanalista perché ossessionato da un sogno erotico ricorrente durante cui scorge una donna della quale, una volta sveglio, non ricorda l’identità. Ma durante la sua seduta di analisi, lo psicoanalista (Alan Arkin) è a sua volta distratto da una donna che vede dalla finestra dello studio. Girato alternativamente in bianco e nero e colore per separare i momenti di sogno da quelli reali, questo episodio non rappresenta certo un momento indimenticabile ma risulta se non altro il più originale e sperimentale. Il terzo ed ultimo mediometraggio, quello di Antonioni, ideatore di questo progetto, risulta quello meno riuscito e più banale. Basato su un tema ricorrente del regista ferrarese, quello dell’incomunicabilità della coppia, sorprende per una sceneggiatura e una recitazione talmente scadenti da compromettere inevitabilmente un episodio che già di per se non è entusiasmante. Intitolato “Il filo pericoloso delle cose” ci illustra le vicende in Toscana di una coppia in crisi (Christopher Buchholz e Regina Nemni) che si trova in vacanza. Lui incontra una giovane donna (Luisa Ranieri) con la quale si abbandona ad appassionato rapporto. Le due donne finiranno per incontrarsi misteriosamente su una spiaggia. A fare da anello di congiunzione tra gli episodi ci sono le tavole oniriche di Lorenzo Mattotti e la canzone “Michelangelo Antonioni” scritta e interpretata da Caetano Veloso, forse uniche vere note positive di un lavoro che, viste le premesse, poteva davvero essere ben altro. Michele Pierri


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Ocean’s twelve Steven Soderbergh

Birth Jonathan Glazer

La nina santa Lucrecia Martel

Closer Mike Nichols

Elvis has left the building Joel Zwick

Danny Ocean riunisce tutta la sua squadra di ladri per tre nuovi colpi, che questa volta si divideranno in tre città diverse: Roma, Londra ed Amsterdam. Nel frattempo Terry Benedict, il proprietario del casino di Las Vegas, che Ocean e il suo team hanno ripulito precedentemente medita vendetta...

Dieci anni dopo la prematura morte del marito, la bella Anna sta per risposarsi con Joseph. Ma proprio alla vigilia delle nozze, un misterioso ragazzino compare nella vita dei fidanzati: si chiama Sean, proprio come il defunto consorte di Anna, e dice di esserne la reincarnazione...

In una città di provincia un gruppo di adolescenti con inclinazioni mistiche si interroga sul proprio ruolo nel progetto divino. Un congresso di medici fa arrivare uno specialista famoso che casualmente incontra Amali, uno dei ragazzi. E’ Dio che l’ha chiamata per salvare quest’uomo?

Tratto dall’ omonima opera teatrale di Patrick Marber, racconta la storia di due coppie che vedono i loro equilibri incrinarsi quando l’ uomo della prima viene coinvolto emotivamente dalla donna della seconda. Per chi ama i sentimenti riveduti e sviscerati.

Una storiella carina (e forse anche vera!), Kim Basinger e John Corbett per raccontare la vicenda di una venditrice di cosmetici che per alcune incredibili circostanze entra in contatto con Elvis Presley. Intrecci e colpi di scena in una commedia divertente e senza pretese.

Ferro 3 – La casa vuota Kim Ki-Duk

di Michele Pierri

In dvd Spiderman 2 Sam Raimi

di Giampiero Chionna

Tae-suk è un ragazzo che passa il tempo alla ricerca di case altrui da abitare in assenza dei proprietari. Visitandone una si imbatte nella ricca Sun-hwa, maltrattata dal marito. I due sceglieranno di vivere ai margini, spostandosi di casa in casa, finché la scoperta di un cadavere negherà loro la promessa di libertà. Ennesimo gioiello del regista coreano che ci ha ormai abituato a veri e propri capolavori, affreschi di rara bellezza e intensità, vera poesia in movimento. Perché Ki-Duk è prima di tutto un pittore che è arrivato al cinema per vie traverse e che riesce non riesce a concepirlo se non come esperienza totale ed avvolgente. L’amore, la solitudine, l’identità e la libertà sono i temi portanti di un film retto su un equilibrio magico e poetico dove niente è scontato o prevedibile e dove il tocco dolce ed artistico di Ki-Duk rende un comune lavoro un’esperienza unica. Lavoro che ora più che mai fa da apripista a una nuova ondata (che per la verità non ha mai cessato di fluire) di film asiatici raffinati e fuori dall’ordinario. Un film sul disagio e sul mal di vivere che si cerca di contrastare a colpi di mazza da golf (il ferro 3 del titolo appunto) che costituisce il simbolo e la via per un temporaneo ed inerte riscatto che si chiama sopravvivenza.

“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. È con questo motto che Spiderman continua la sua avventura. E questa volta più che mai si nota la libertà di cui ha goduto il regista Sam Raimi nella direzione delle scene, tanto da concedersi un guizzo di follia nel momento della nascita di Octopus, ricalcando lo stile dei suoi primi film. Sullo sfondo resta invece lo scontro con il Dr. Octavius-Octopus, altra nemesi dalla personalità doppia che in certi punti rischia di clonare il Goblin del primo episodio. Sullo sfondo perché il personaggio è solo un espediente spettacolare per tenere occupato il nostro ragnetto. Il vero nemico di Peter Parker in questa seconda puntata è lui stesso: la sua doppia vita, la fatica e i sacrifici per preservarla. Il film è tutto qui: negli studi universitari tribolati, nella maniera di pagare il mutuo di zia May e nel commosso confronto con la stessa, nel desiderio legittimo di una vita normale, nei baci non dati a Mary Jane e nel loro amore negato; nel volo tra i palazzi, vero e proprio atto liberatorio e momento di evasione dal muro di responsabilità, eretto per una sorta di espiazione per la morte di zio Ben. E nessuna meraviglia se il nostro sembrerà capitolare, se vorrà assaporare quella vita spensierata che ogni ragazzo della sua età dovrebbe vivere. Ma l’umanità di Peter è davvero immensa e sa che lo sguardo pieno di riconoscenza di persone salvate da morte certa è linfa vitale. “Non mi abbandonare Peter!” grida una spaurita zia May durante l’assalto di Octopus alla banca. No, Peter Parker non ci abbandonerà mai.


ogni mercoledì Caffè Letterario - Lecce Sound and Vision for the club

23 dicembre Candle - Lecce Winter Party

25 dicembre - 8 gennaio Istanbul Café - Squinzano Postman Ultrachic

“Sound e Vision for the club” è il mercoledì del Caffè Letterario. Ogni settimana a partire dalle 22:00 in via Paladini una serata che fa bene ai sensi. I cangianti allestimenti visivi del Caffè letterario si incontrano con le selezioni dei dj che si susseguono settimana dopo settimana. Quattro mercoledì all’insegna della musica e delle nuove mostre.

Grande festa per presentare il primo numero a colori di CoolClub.it. In consolle tutti i dj di CoolClub: Sonic The tonic, Postman Ultrachic, Tobia Lamare, Dj Rosability, Scaccomatto, Sgt Pepe e tanti altri. Ingresso 1 euro. Inizio fissato per le 22.30.

L’Istanbul Café di Squinzano anche quest’anno festeggia il Natale con Postman Ultrachic e la sua Lounge against the machine. Una serata all’insegna dell’easy listening e della danza con il dj che ha fatto del vinile la sua vera ragione di vita. Inizio ore 23.00. Ingresso con consumazione.

26 dicembre Istanbul Cafè - Squinzano Mama Roots

28/30 dicembre Lecce/Gallipoli/Taranto Cucuwawa

28 dicembre Istanbul Café Ska Combat

Domenica 26 dicembre appuntamento live all’Istanbul Cafè con il reggae dei brindisini Mama Roots. La band parte dalle cover dei classici della musica proveniente dalla Jamaica, alle quali dà un’interpretazione molto personalistica colorata dai diversi stili reggae (roots, rock-steady, ska, ragga) e da spunti rock e soul. Inizio ore 22.30. Ingresso con consumazione.

Il 28, 29 e 30 dicembre il gruppo salentino Cucuwawa promuoverà il suo primo singolo “Sunshine” in tre negozi della Sisley a Taranto, Lecce e Gallipoli. I Cucuwawa consegneranno a tutti coloro che effettueranno un acquisto nel punto vendita una copia del singolo. La colonna sonora sarà curata dai dj Sonic The Tonic, Sgt Pepe e dj 13.

L’ultimo giovedì dell’anno all’Istanbul Cafè si festeggia con Ska Combat, una miscela esplosiva di generi musicali per una serata dal divertimento doppio. La mitica Ska in Town, la storica festa ska a cura del Dj Sonic the Tonic si unisce alle sonorità del rock, del punk, del soul e diventa Ska Combat. Ingresso con consumazione.

29 dicembre Istanbul Café Dj Rosability

29 dicembre Planet – Lequile General Levy + Sud Sound System

29 dicembre Lohengrin Pub – Tricase Bludinvidia

Serata all’insegna della musica da ballare all’Instanbul Cafè di Squinzano. In consolle la giovane promessa dj Rosability, conosciuto negli ambienti dei discotecari anche come dj Scaramuccia per la sua indole rissosa con i piatti. Ingresso con consumazione.

Il Salento si conferma terra di reggae anche a dicembre. Sonoria Promotion e CoolClub il 29 dicembre festeggiano l’anno che si chiude con un appuntamento imperdibile per gli amanti della musica in levare. In consolle al Planet di Lequile Sud Sound System e General Levy. Ingresso 10 euro.

Il 29 Dicembre i Blundinvidia saranno di scena al Lohengrin di Tricase in una particolarissima e suggestiva versione unplugged inaugurando così il nuovo tour promozionale che li porterà a suonare in tutta Italia dall’inizio del 2005.

Nino della Notte (1910-1979) a cura di Marina Pizzarelli - Allestimento Francesca Fiore Castello Carlo V – Lecce Fino al 6 febbraio di Rita Miglietta

L’Assessorato alla Cultura della città di Lecce ha inaugurato uno stimolante progetto culturale: tre retrospettive dedicate ai tre artisti: Lino Paolo Suppressa, Geremia Re e Nino della Notte, figure centrali della cultura salentina del primo e secondo novecento. Un viaggio a ritroso verso un lungo tempo culturale, dispiegato tra l’ultimo dopoguerra fino agli anni settanta ed entro il quale artisti, intellettuali e artigiani edificavano

una identità culturale salentina. Ad aprire questo viaggio: quadri, manifesti e disegni di Nino della Notte (1910-1979), esposti nel Castello Carlo V fino al prossimo febbraio. L’importanza di questa manifestazione che ci piace pensare come un progetto, scaturisce non solo dall’opportunità di vedere il lavoro degli artisti, ma anche dal fatto che, osservando le immagini salentine, ora di Nino della Notte, e scorgendone le influenze delle avanguardie artistiche del novecento, deve nascere l’opportunità per riflettere sul sud, sui luoghi geograficamente provinciali dove pure è stato ed è possibile sentirsi parte di uno spazio più vasto come l’Europa e dove, soprattutto, può risiedere la consapevolezza del rinnovamento, che non è maniera ma ricerca e tensione costante.


30 dicembre Chalet del mar - Gallipoli Boo Boo Vibration – Cucuwawa – Ska in town

30 dicembre Istanbul Cafè - Squinzano Insintesi

7 gennaio Istanbul Cafè - Squinzano Sylvain Chauveau

Sull’asse emiliano salentino il penultimo giorno dell’anno si vive a Gallipoli al suono del reggae e dello ska, del rock e della packanka. Sul palco i salentini Cucuwawa aprono il concerto dei bolognesi Boo Boo Vibration. A seguire le selezioni musicali dei dj di Ska in town. Ingresso 5 euro.

Serata dedicata agli appassionati dell’elettronica con Insintesi, un progetto nato nel ‘98 che partendo dal “drum’n’bass”, dal”dub” ed dal “trip-hop” ha dato una propria chiave di lettura. Checco e Pastic saranno in consolle. Ingresso con consumazione.

Grande appuntamento con la musica d’autore francese all’Istanbul cafè di Squinzano. Sul palco Sylvain Chauveau (piano and guitar solo set) preceduto da Arca e Angle. Ingresso con consumazione. Il 5 gennaio appuntamento con Tobia Lamare e la sua Montecarlo Night.

sino all’8 gennaio Spazio Dawn - Lecce ArteArchitetturaAmbiente

14 gennaio Istanbul Cafè - Squinzano The Juniper band

28 gennaio Cantieri Koreja – Lecce Via

Prosegue la mostra a cura di Anna Cerignola dal titolo ArteArchitetturaAmbiente. In esposizione i lavori di Hidetoshi Nagasawa, Toti Semerano e Xlavio. Lo Spazio Dawn è in via XXV Luglio 59 a Lecce.

Appuntamento live all’Istanbul café con The Jupiner Band. La loro musica è uno stato mentale, che attraversa il songwriting più intimista e caldo per dirigersi verso più duri territori space-pop, lungo una strada diretta ed emozionale, con una ruota nel fango e l’altra sulla strada. Inizio ore 22.30. Ingresso con consumazione.

I Cantieri Koreja ospitano per la rassegna Strade Maestre lo spettacolo Via di e con Fabrizio Saccomanno affiancato sul palco da Cristina Mileti. Partendo dai nomi delle strade di un qualsiasi paesino del basso Salento lo spettacolo racconta dei viaggi verso il nord Europa, del lavoro in miniera e della strage di Marcinelle in Belgio.

APPUNTAMENTI mercoledì 22 dicembre Raiz Family ai Cantieri Koreja - Lecce giovedì 23 dicembre Rave al Jazzy - S. Caterina (Nardò) Super Reverb all’Heineken green stage - Tricase sabato 25 dicembre Granma allo Zizò pub - Aradeo domenica 26 dicembre Appuntamento da non perdere al Barrueco di Santa Caterina con i dj di CoolClub Postman Ultrachic e Tobia Lamare martedì 28 dicembre Blood Sugar al Piper - Melendugno Super Reverb all’El Rojo - Alezio giovedì 30 dicembre Dinamo Rock al Jack’n’Jill - Cutrofiano Super Reverb al Mokà - Corsano Gianfranco Rizzo Soul Band al Morrison’s Pub - Martano venerdì 31 dicembre Dinamo Rock e Blood Sugar al Lohengrin - Tricase

domenica 2 gennaio Super Reverb al Lohengrin - Tricase mercoledì 5 gennaio Urla dal balcone ai Cantieri Koreja Lecce Montecarlo Night con Tobia Lamare all’Istanbul di Squinzano giovedì 6 gennaio Granma al Big Ben - Brindisi venerdì 7 gennaio Love or Confusion al Transilvania Lecce sabato 8 gennaio Coriolano con Alessandro Gassman al Politeama Greco - Lecce domenica 16 gennaio Il ritorno del Barone di Munchausen ai Cantieri Koreja - Lecce lunedì 17 gennaio Alti e bassi con Olcese e Margiotta al Cinema Elio – Calimera martedì 18 gennaio Alti e bassi con Olcese e Margiotta al teatro Fasano - Taviano

giovedì 20 gennaio Foredecapu Blues Band al Soirèe Castrignano dei Greci Venerdì 21 gennaio Edith Piaf - L’hymne à l’amour al Teatro Moderno - Maglie sabato 22 gennaio Caligola ai Cantieri Koreja – Lecce mercoledì 26 gennaio Bersagli di vetro al Teatro Illiria Poggiardo domenica 30 gennaio In volo ai Cantieri Koreja – Lecce per le vostre segnalazioni scrivete a redazione@coolclub.it tutti gli altri appuntamenti sul sito www.coolclub.it


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MILANO CSIDE 3_12_2004 INTERPOL LIVE Arriviamo presto al C-side, abbiamo venti minuti per fotografare gli Interpol, uno dei gruppi del momento, il concerto è già soldout e nel locale fervono i preparativi. Mentre Alice allestisce il set per il servizio gli Interpol fanno il soundcheck. Rilassati e divertiti improvvisano un paio di mazurche per provare i suoni, chi lo avrebbe mai detto da un gruppo paragonato ai Joy Division. Le premesse sembrano delle milgiori, un suono compatto e canzoni che suonate live acquistano maggior colore e spessore. Il primo a raggiungerci è il batterista Samuel, cordiale ci confida di essere molto provato da questo tour europeo che li vede in giro da settimane, è contento dice ma non vede l’ora di tornare a casa e riabbracciare la sua ragazza per Natale. Arrivano gli altri e senza alcun divismo si fanno fotografare, disponibili a seguire indicazioni, scherzano tra di loro mentre il cantante Daniel Kessler gioca con uno yo yo. A due ore dal concerto c’è già fila fuori dal locale. In circa duemila alla fine, stipati aspettiamo l’inizio che arriva con una travolgente Next exit l’accoglienza è un boato. Generosi alternano brani del primo album e del nuovo Antics con un suono avvolgente e un modo di suonare stilosissimo. C’è vigore più che nei dischi, la voce di Daniel è bellissima e la gente in estasi canta a memoria dalla prima all’ultima canzone. Acclamati si concedono anche nel rituale bis che lascia tutti soddisfatti, compreso il sottoscritto. Osvaldo

ph Alice Pedroletti

L’onda scura degli Interpol

Qualcuno ha detto che il secondo album è sempre il più difficile!! Perché lo avete chiamato “Antics”? Se non sbaglio significa scherzo, gioco, non vi prendete troppo sul serio? Sicuramente la stesura del nuovo album è stata più difficile perché c’erano molti più fattori che hanno condizionato la registrazione e la creazione del nuovo disco, sicuramente molte più pressioni e aspettative da parte di tutti! Pubblico, casa discografica e così via… lo abbiamo chiamato così... effettivamente significa gioco… lo abbiamo fatto per divertimento ma soprattutto perché volevamo essere più tranquilli, rilassati nell’approccio e non presuntuosi, abbiamo cercato di non prenderci troppo sul serio a dispetto della nostra immagine che lo è... non credi? Come è cambiato il vostro approccio alla musica tra la prima incisione e questo nuovo disco, intendo la vostra idea di musica, di suono rispetto all’aumentare delle aspettative In verità nulla è cambiato, il nostro modo di scrivere canzoni, di dedicare tempo alle incisioni e lo stesso vale per la nostra attitudine a lavorarci su; forse l’unica differenza è che ora siamo più bravi nello scrivere le canzoni perché abbiamo più esperienza rispetto a Turn on the bright light. Per quanto riguarda le aspettative eravamo un pò preoccupati perché dopo il successo del primo disco la pubblicità intorno al nuovo è stata molto forte...anzi troppo e questo ha sicuramente creato delle aspettative maggiori da parte del pubblico e se le aspettative su di un disco sono alte e poi questo disco quando esce non è bello… beh non ci fai una bella figura!!!!!! Noi però abbiamo cercato di restarne fuori il più possibile per non essere condizionati… almeno mentalmente… non ci sentiamo migliori rispetto al primo album ma siamo soddisfatti di come è stato fatto e di come suona… sarà poi la gente a decidere il resto!! Qualcosa però è cambiata in questo nuovo disco, dai testi alla musica che ha un suono più aperto Dei testi hanno detto che sono più romantici, ma non saprei dire con certezza… ma preferirei parlare del suono: nella registrazione del primo disco non avevamo un’idea di un album completo, suonavamo da un po’ di tempo, avevamo delle canzoni di cui forse non conoscevamo ancora il potenziale; in “Turn on the Bright light” ci sono varie registrazioni messe insieme, suona tutto un po’ uguale!! Per questo nuovo album invece avevamo questa idea e visione di LP completo ed i brani sono diversi tra loro…

è un disco molto più dinamico, volevamo trasmettere questo e credo che ci siamo riusciti! Siete ormai annoiati dalle continue analogie che si fanno con voi rispetto a gruppi del passato come Joy Division per citarne uno a caso? Assolutamente sì!!! Perché noi abbiamo il nostro suono e magari ci paragonano a band che non abbiamo mai (ndr !!?) ascoltato… e quindi preferirei non parlarne!!! Invece ultimamente che cosa state ascoltando, so che avete ascolti diversi all’interno del gruppo Sì è vero ognuno di noi ascolta cose diverse ma non stiamo ascoltando molto in questo periodo, siamo più interessati alla nostra musica ad ascoltarla e cerchiamo nel mentre delle soluzioni diverse rispetto alla creazione di qualche remix o versione da proporre dal vivo diversa ovviamente da quella originale; in verità passiamo molto più tempo a guardare film che comprare dischi e quindi se devo essere onesto con te non mi ricordo assolutamente per esempio l’ultimo disco che ho comprato!!! Ma avete al momento una band che stimate più di altre...oltre agli Interpol ovviamente!! I Cure sono al momento la mia band preferita anche se apprezzo altri gruppi come per esempio i Mogwai... che sono grandi!! Il vostro rapporto con il pubblico? Le vostre tinte “noir” hanno incuriosito la nuova generazione dark! A noi non interessa avere un pubblico stereotipato! Qualcuno ha voluto tirar fuori la questione del “ghothic”! ma l’essere dark è una cosa creata dalla stampa o dai continui accostamenti musicali che hanno fatto i media o anche dal nostro modo di vestire forse… ammetto che abbiamo ascolti in tal senso come Bauhaus o Cure ma non sono gli unici! Siamo un gruppo tendenzialmente rock, vogliamo piacere anche al popolo dell’indie rock, infatti in America il mondo “gotico” non ci segue, succede solo e unicamente in Europa ma non sappiamo il perché…lo trovo buffo!!!! New York al momento è un posto sicuramente vivo e stimolante per produrre musica soprattutto dopo il risveglio in questi ultimi anni di una nuova scena musicale...ma esiste veramente una nuova scena? È vero ci sono molte band che suonano e producono musica a New York, e non saprei dire come si sia svegliata la città, più o meno ci conosciamo tutti e anche se NY è grande ci incontriamo negli stessi luoghi e stiamo bene insieme e quindi alla fine non credo che si possa parlare di una vera e propria

scena musicale e artistica; esiste un rapporto di amicizia tra di noi come se fossimo una specie di comunità… se devo farti dei nomi mi piacciono molto gli Yeah Yeah Yeahs e Rapture, credo che siano molto interessanti, da non perdere dal vivo!! Qualcosa sulle imminenti elezioni? Anche se credo non siate molto interessati alla politica! È vero non siamo molto interessati alla politica ma le elezioni sono qualcosa che in modo diverso toccano un po’ tutti!! Tutta New York è assolutamente contro Bush!!! Speriamo che cambi qualcosa!!! Anche se dai sondaggi… e questo lo trovo molto strano... molti americani trovano Kerry poco fotogenico e divertente, e questo potrebbe essere un punto a suo sfavore…. (ndr: questa ultima domanda ovviamente è stata fatta prima delle elezioni presidenziali americane, tutto è stato già deciso e riguardo all’essere “fotogenico e simpatico” rispetto a dei crimini di guerra insanabili la dice lunga sul modo di pensare di questo popolo!!!!!!!) Carlo Chicco ph Alice Pedroletti


CoolClub .it   THE NEW COLORS OF COOLCLUB Il commiato del direttorex

… la tristezza poi ci avvolse come miele, per il tempo scivolato su noi due… è ascoltando Incontro di Guccini che scrivo le mie prime, tristi, righe da ex direttore di Coolclub.it. Concedetemi, cari lettori, e soprattutto lettrici, poche parole di un saluto che, benché già annunciato, mi lascia logicamente un pizzico di malinconia, attenuato per fortuna da qualche vantaggio di questa mio passaggio di consegne. Innanzi tutto mi rinfranca la contropartita offertami dal caro, bello e amabilissimo neo Direttore Piliego che, in cambio del mio “nulla osta”, si è impegnato fin da subito, vista la morigerata vita che il suo nuovo e autorevole ruolo gli impone, di dirottare su di me le costanti attenzioni del drappello di sue ammiratrici. Sollecitando loro di manifestare le grandi o nascoste doti consolatorie. Ma la tristezza del saluto è ancor di più attenuata dal fatto che, avendo tenuto a battesimo il primo numero ufficiale di Coolclub.it, da buon ex direttore ma sempiterno padrino, continuerò ad essere partecipe delle sue sorti, e di quelle dei lettori. Ma c’è dell’altro: come leggerete nella gerenza, il mio è solo un saluto parziale, è più un “declassamento” da direttore responsabile a piccolo, semplice, umile membro del collettivo redazionale. In quanto tale però, sarò in buona compagnia e spesso, mi auguro, partecipe sia di collettive luculliane abbuffate nonché di frivole e viziose riunioni redazionali, appuntamenti dai quali, la mia alta e autorevole veste di direttore, nel corso di questi mesi mi ha tenuto un po’ lontano. Un saluto cari lettori; a voi carissime lettrici, rinnovo l’invito ad alleviare la sottile malinconia, di prevenire i probabili futuri attacchi di tristezza e ansia e di riempire il vuoto lasciatomi dal fatto di non essere più Direttore Responsabile di Coolclub.it. Ciao, grazie e… sigh! Dario Quarta Come vi sarete accorti CoolClub.it è a colori. Non indugio sui contenuti, magistralmente snocciolati da Osvaldo il nuovo direttore, e sulle motivazioni che ci hanno condotto alla dolorosa scelta, commoventemente narrate dalla prima penna Dario. Consegno ai lettori nuovi e a tutti quelli che ci seguono da sempre, che fanno di CoolClub.it il giornale più letto nei bagni degli universitari leccesi, solo alcune riflessioni poco organiche e (per molti) inutili su questo territorio che ormai viene da tutti riconosciuto semplicemente come Salento. Non so bene come spiegare la mia perplessità ma più passano gli anni più mi accorgo che molti hanno giocato intorno ad una identità forse inesistente o esistente solo in parte. Così il Salento per alcuni salentini si trasforma nell’unica realtà possibile, nell’unico mondo autentico, nell’unica meta dei turisti di tutto il globo, nella terra più fertile, più ricca di ulivi e vite, nella sola donna pizzicata dalla taranta, nella patria di animali in via di estinzione. Tutti coloro che muovono

passi sono i primi. Primi editori, primi registi, primi organizzatori, primi tra i primi. Unici e soli. Il Salento è diventato luogo e si è identificato in una provincia che si muove, cresce, migliora, sfrutta le congiunzioni internazionali e nazionali positive per diventare qualcosa di importante. Ma il rischio è di avvilupparsi nella propria bellezza, di considerarsi troppo altri dagli altri e di non accettare più le diversità, le meravigliose novità che il confronto e lo scontro consegnano. Dall’altra parte invece c’è la necessità della fuga, della continua scontentezza rispetto alla mancanza di interessi, di cultura, di movimento. La terra del rimorso si trasforma nella terra del lamento. Troppo bello o troppo brutto. Non si sono vie di mezzo? Il Salento in realtà è come tutte le altre terre. E i salentini sono come tutte le altre persone. Bisogna solo lavorare per andare avanti e cercare di migliorare. Tutto il resto sono chiacchiere per cercare un turista in più…che scoperto l’inganno potrebbe non tornare! Pierpaolo

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“Si muore un po’ per poter vivere” cantava il caschetto d’oro negli anni sessanta. Avendo tra le mani questa nuova versione di Coolclub.it, forse molti penseranno che il giornale, e chi lo fa, non sono più gli stessi. Qualcuno penserà, è inutile negarlo, che il collettivo “ha fatto i soldi”, qualcun altro penserà che ha venduto l’anima al diavolo, altri ancora penseranno che semplicemente il giornale si è snaturato, che ha perso quell’aria “alternativa” che lo faceva distinguere nel mare dei giornali patinati e a colori e gratuiti che circolano nei nostri pub. Tutti pensieri leciti, per carità, ma come rispondeva Lenin a chi gli diceva “compagno permettici di criticarti” “ e voi compagni permettetemi di fucilarvi”, lasciate che io possa rispondere a chi storcerà il naso guardando la nuova veste di questo foglio. Parto intanto dalle novità più rilevanti. Da oggi Coolclub.it è a colori. La precedente scelta del bianco e nero era dettata da due motivi essenziali: uno, il più basso, ma purtroppo il più vitale era economico, l’altro era puramente stilistico. E fin qui siamo tutti d’accordo, il vecchio giornale piaceva, o almeno, è quello che ci avete sempre detto. Ma perché allora passare al colore? Il primo motivo, quello economico non è cambiato, e infatti questo mese il collettivo mangerà in bianco. Il secondo motivo, quello stilistico è stato modificato. Il tipo di grafica che ci piace è una grafica essenziale, minimalista quasi, e questo tipo di grafica predilige il bianco e nero. Ma è nostra natura esplorare l’inesplorato, vedere dove si può arrivare, offrire sempre qualcosa di nuovo, un prodotto di qualità crescente, sempre migliore, sia nei contenuti che nella veste tipografica. Cambia la carta, aumenta la tiratura, aumentano le pagine, aumentano i contributi esterni (sempre di altissima qualità, e ne approfitto ancora per ringraziare tutti gli amici che ogni mese fanno sì che questo giornale possa uscire con nuove recensioni, nuovi articoli e

nuove idee). Lo sforzo che abbiamo fatto per produrre questo giornale (che rimane gratuito, unica cosa che non cambierà mai) è stato notevole ma non ha prodotto i frutti sperati. Come è stato finora Coolclub.it è un’impresa a perdere. La mancanza di fondi fa sì che il giornale venga autofinanziato da chi lo fa. E qui altre due novità, una visibile l’altra no. Questo pezzo, lo sapete, nel vecchio giornale sarebbe stato in quarta di copertina. Come potete vedere la quarta di copertina adesso ospita della pubblicità. È stata una scelta dolorosa ma obbligata. Senza quei, pochi, soldi che i nostri sponsor ci mettono a disposizione questo giornale non vedrebbe la luce. E fra le due cose (vendere una pagina di pubblicità e non pubblicare il giornale) abbiamo scelto la prima e spero che sarete tutti d’accordo con me. La novità invisibile è che presto verrà lanciata una campagna associativa all’associazione culturale Coolclub. Siete tutti invitati a sostenere il nostro lavoro. I dettagli saranno resi noti in futuro, per ora basti sapere che saranno previste tre quote associative: socio tesserato, socio ordinario e socio sostenitore. Finora i soci di Coolclub erano pochi. È arrivato il momento di diventare tanti e condividere sempre di più questa esperienza, che speriamo vivamente, faccia parte della nostra vita collettiva. Un ultimo, doveroso, e essenziale, ringraziamento va a tutti voi che ci avete sostenuto, incoraggiato, criticato in maniera intelligente e costruttiva aiutandoci sempre a rendere migliore questo pccolo frutto della nostra fantasia e della nostra voglia di fare qualcosa di diverso in e per questa nostra città. dario



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