Coolclub.it n 11 (Gennaio 2005)

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Chi fa il mestiere del musicista è semplicemente un artigiano, delle volte un’artista, nei casi più fortunati un poeta. Quasi mai, tranne casi patologici, un musicista si investe della carica di maestro, più spesso è un effige che gli viene attribuita da chi le parole dovrebbe pesarle. Succede poi che intorno a lui i semplici ammiratori finiscono per trasformarsi in adepti di una religione che nessuno ha scritto, l’uomo supera l’uomo e diventa un’icona, la rappresentazione di qualcosa che non è più musica ma fanatismo musicale. Lo stesso fanatismo che si trasforma in sciacallaggio ai danni dei musicisti prematuramente scomparsi, i primi a diventare miti perché aiutati da quest’aura di maledizione, questo velo di mistero che tanto piace. Per chi rimane e diventa volente o nolente un maestro non è vita facile oppure lo è troppo, a seconda dei casi. Recentemente in una sua autobiografia Bob Dylan ha preso le distanze da chi per anni gli ha forzatamente fatto indossare i panni del cantante politico, altri, diciamo, vivono di rendita. Difficile spiegarsi allora strane parabole compiute da artisti che a un certo punto sembrano aver perso la bussola in balia di questa onda lunga di successo. Forse il problema non è dell’artista in sé ma nostro, del pubblico, siamo noi che alimentiamo con la nostra cecità e sordità sogni che forse sarebbe stato meglio interrompere molti anni fa. Considerando che l’autocombustione è un fenomeno raro in natura dovremmo almeno cercare di conquistare quella che alcuni chiamano onestà intellettuale. Prendere le distanze dalle cose alle volte te le fa vedere meglio, nella loro interezza. E allora sentendo cantare De Gregori in coppia con Venditti “sono Antonello e questo è mio fratello” non si può non pensare ai loro duetti in Theorius Campus senza un pizzico di nostalgia. Tutto cambia, guai se non fosse così, legittimo è sperare che sia sempre in meglio. Con una punta di ironia abbiamo deciso sotto il mordace stimolo del nostro amico romano Antonio di esaminare in questo nuovo numero del giornale alcuni personaggi considerati dai più maestri del loro genere. Spaziando tra sacro, profano e faceto abbiamo messo in mezzo un po’ tutti. Si è ingaggiata tra collaboratori e amici una sorta di gara al rilancio, una specie di toto sopravvalutati che ha dato esiti inaspettati. Partendo dal presupposto che se ne parliamo è perché si tratta di artisti comunque di altissimo livello ci siamo divertiti a decostruire carriere, a criticare comportamenti o cambiamenti, a scherzare sull’immunità di alcuni, sulla mascherata decadenza di altri, sull’immeritato entusiasmo suscitato da qualcuno. Speriamo che questo non offenda nessuno ma sia solamente un modo per pizzicare alcune corde e fare magari discutere in amicizia. Da criticoni quali abbiamo deciso di essere accettiamo, come sempre, risposte in tutti i sensi. L’evento del mese è il concerto dei Karate, storica formazione di Boston tra le più rappresentative della scena alternativa americana. Maestri anche loro, ma a nostro avviso inattaccabili perché mai messi in cattedra da nessuno. I Karate saranno in concerto l’8 febbraio al Chlorò di Calimera. Un concerto che Coolclub è felice e orgogliosa di organizzare e presentare. Questo ed altri concerti fanno parte della rassegna alternativa Keep Cool che ha già esaurito i suoi primi appuntamenti riscontrando un buon successo di pubblico e un entusiasmo generale ma che si è anche scontrata con problemi che possiamo definire strutturali. La crescita di una realtà rock, fatta di concerti, band locali e in questo caso straniere che suonano nella nostra terra incontrano un ostacolo che altre realtà o semplicemente altri generi non conoscono. Parlo di spazi, luoghi in cui un gusto diverso di fare e ascoltare non trova accoglienza. Tante come al solito sarebbero le proposte, moltissime le idee ma poche e purtroppo vaghe le risposte. Noi non vogliamo assumere il ruolo del meridionale insoddisfatto ma semplicemente, e questo giornale ne è la dimostrazione, far vedere che le cose qui si fanno, si possono fare. La speranza è che questi sforzi trovino presto altre braccia su cui poter contare, nuove energie e magari una casa nella quale crescere. Osvaldo

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CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno 2 Numero 11 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, Dario Quarta, C. Michele Pierri, Gianpiero Chionna Collaboratori: Giancarlo Susanna, Valentina Cataldo, Cesare Liaci, Sergio Chiari, Maurizia Calò, Marcello Zappatore, Davide Castrignanò, Amedeo Savino, Patrizio Longo, Augusto Maiorano, Antonio Iovane, Rossano Astremo, Rita Miglietta, Marta Vignola, Daniele Lala, Elisa De Portu, Daniele Rollo, Marco Daretti, Marco Leone, Fulvio Totaro, Stefano Toma, Federico Vaglio, Lorenzo Coppola, Paola Volante, Nicola Pace, Giacomo Rosato, Antonietta Rosato, Nino D’Attis, Luca Greco, Luisa Cotardo, Rakelman, Antonella Lippo, Livio Romano, Pierfrancesco Pacoda, Stefano Cristante, Carlo Chicco, Antonino De Blasi, Fabio Rossi, Marcello Aprile, Annalisa Serpilli, Nicola Pace, Massimo Muci, Francesco Lefons, Alfredo Borsetti, Fabio Striani. Per le foto si ringrazia Alice Pedroletti Progetto grafico dario Stampa Lupo Editore - Copertino Chiuso in redazione all’1 e 35 circa del 26 gennaio 2005 Per inserzioni pubblicitarie: ufficiostampa@coolclub.it

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l’anima del maestro

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«Il maestro è nell’anima/ e dentro l’anima per sempre resterà». Il maestro Paolo Conte la spiega così, e mi sembra un eccellente riassunto. Significa, bene o male, che tutte le verità che ci sembrano provenire da fuori, ce le avevamo già dentro. Chi è stato a mostrarcele? I maestri, of course. I maestri ti dicono chi sei. Ti indicano una via. Socrate era un maestro. Gesù era un maestro. Buddha era un maestro. (Tanto per volare bassi). Erano maestri. Con la loro personale visione della realtà e un metodo convincente per leggerla; con la loro semplicità affabulatoria e la loro abilità retorica; con la loro capacità di spiegarti chi sei. Non è che alla fine te lo spiegassero letteralmente, chi eri. Sempre ad alludere, a parlar per metafore, perché la verità non è che si lascia cogliere tanto facilmente, perché la verità è selettiva. Ma è certo che - nel loro magistero - ci trovavi quello di cui avevi bisogno per «conoscere te stesso». Sono psicanalisti, i maestri. La tua natura - la natura umana - te la mostrano chiaramente. Ma non si impongono: lasciano che tu venga travolto da te stesso. Il maestro non fa uso di coercizione. Socrate non ha mai dato un cazzotto, Buddha non aveva nemmeno il fisico, Gesù era già più irritabile, ma poi anche lui peace & love. Non avevano eserciti. Ma erano dei grandi affabulatori, giganti della comunicazione. E poi avevano saggezza: conoscenza più esperienza. Ciascuno, tuttavia, il suo maestro se lo sceglie. E

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non è che debba trattarsi per forza di un supereroe di quelli succitati. Puoi anche decidere che il tuo maestro sia un santo minore, un assessore circoscrizionale o un pubblicitario. Poi, però, ti ci voglio vedere a citare davanti a tutti «Conti perché non sei solo un conto» o «Italia uno!». Puoi scegliere che il tuo maestro sia Pietro Pacciani. Però, magari, tiettelo per te. Abbasso i maestri. Ti convinci che il maestro non potrà sbagliare. E, insomma, da adolescente ci cresci con questa tensione, e se Jim Morrison o Jean-Paul Sartre hanno scritto sul sussidiario dei loro cinque anni che «il senso del non agire è nell’agire» tu non pensi che possa essere una stronzata. Pensi che abbiano ragione. Pensi che posseggano la chiave della verità. E non perché sei un cretino. Ma perché una struttura ancora non ce l’hai, perché sei ancora uno spettatore e devi stare a guardare. Ma poi arriva l’anno del Signore 2000 e diventi un attore. E allora devi comprendere. E per comprendere devi abbattere gli idoli. Devi criticare i maestri, ammettere di averli sopravvalutati. L’identità, la personalità, si forma innanzitutto per negazione. Così noi ci proviamo, a

L’ANIMA DEL MAESTRO

Non abbattiamo i miti. Non distruggiamo carriere. Non cerchiamo di fermare i carri armati della sapienza con ulteriore sapienza. Non saliamo in cattedra alla ricerca dell’affermazione personale. Abbasso i maestri, come vi hanno già spiegato il direttore Osvaldo e il promotore (del tema) Antonio, è un riassunto di una società, la fotografia delle nostre camerette ma anche la rabbia covata da tempo, le antipatie personali. Abbasso i maestri è nato via mail e poi è cresciuto sul sito, per telefono, in alcuni baretti nelle fredde e inutilI giornate di festa, sulle scale dell’ateneo e sui tavoli del caffè. Abbasso i maestri è un piccolo sondaggio, un’opera collettiva dalla quale sono usciti molti nomi e molti sentimenti contrastanti. Il risultato, assolutamente non attendibile e assolutamente non scientifico (anche se in televisione campioni ben più infimi e taroccati vengono considerati bocche della verità e decidono delle sorti di persone) ci consegna molte e variegate riflessioni. I maestri che abbiamo considerato sono diversi tra loro giacché non abbiamo tralasciato nessun campo, dal calcio alla televisione, dalla letteratura alla musica. Tutto può essere toccato e nulla è stato intoccabile. Le motivazioni sono state le più svariate e abbiamo accettato quasi tutto. Alla fine abbiamo deciso per comodità e per pigrizia di molti collaboratori (compresi noi) di dedicare schede personali a pochi eletti e di

dire cosa non siamo e non vogliamo. Perché non vogliamo fare la fine di chi non critica i maestri: quella di diventare cattivi allievi. Ed eccola qui, la nostra identità. Un necessario saluto, un forzato addio a chi ci ha spiegato chi siamo. Ciao, Nietzsche; grazie Dante; è stato un piacere, Berlinguer, belle canzonette, De Gregori. «Abbasso i maestri». Chiaramente, nel senso di «abbattere». Chi abbiamo criticato? Naturalmente un’opera di demolizione è tanto più valida quanto più colpisce personaggi intoccabili. Insomma, se nell’elenco non troverete Adolf Hitler, non è perché non ci siamo azzardati a metterlo in discussione, ma perché riteniamo che sia già stato abbondantemente redarguito per il suo non proprio edificante magistero. Tutto questo senza, però, evocare la gabbia anagrafica della generazione, che servirebbe solo ad addomesticarci. Ci siamo spesi tanto per non sentirci gregge, non mi sembra il caso di cominciare nel 2005. Ma allora cosa siamo, se non una generazione? Semplice. Siamo un progetto complesso. Demolire i propri maestri è come procurarsi una ferita. Fa male. Perché i maestri sono una parte di te. La stessa discussione attorno agli idoli da abbattere ha sollevato più di un dissapore. Ci siamo tirati addosso i maestri, ci siamo gridati contro al sacrilegio! Giù le mani dal mio maestro, che è stato come dire: giù le mani da me. Perché criticare quello in cui ci specchiavamo non è stata impresa facile. È perché sarebbe stato fin troppo facile fare l’incendiario coi maestri degli altri. Comincia coi tuoi, se ci riesci. Alla fine ci abbiamo provato. Antonio

trattare tutti gli altri in questo calderone, pastone, pezzone che ho avuto la sventura e l’avventura di scrivere (e all’interno del quale non sono entrati i molti e con gli esclusi ci scusiamo). Partiamo dalla musica e come il testone di Super classifica show inizio con gli schiaffi in faccia alla vostra e alla mia coscienza. Gettonatissimi nella classifica dei sopravvalutati sono quasi tutti i cantautori italiani. C’è chi drasticamente ha stroncato tutta la musica italiana (maledetta operetta!) c’è chi si è limitato a indicare solo alcuni nomi: Francesco De Gregori, Franco Battiato, Vinicio Capossela, Roberto Vecchioni e molti altri. Del principe romano non parlo perché troverete una fenomenale opera di demolizione firmata da Fabio. Quanto a Franco Battiato dagli esordi di sperimentazione al cinema attuale, passando per i fiori e le messe arcaiche, a molti sembra che il suo ruolo sia profondamente cambiato e che Battiato (con il fido Sgalambro) si sia trasformato in un santone un po’ troppo cervellotico. I militanti di base non gli perdonano quella apparizione alla Festa Tricolore di Alleanza Nazionale anche se il siciliano rispondendo alle polemiche sul suo presunto schieramento da quella parte disse in un’intervista “A me non interessa essere di destra o di sinistra. Nella vita pubblica certe cose non puoi dirle. Anche a me, quando guardo la televisione, capita di dare giudizi piuttosto pungenti su personaggi che non mi piacciono: ma questo resta nel privato”. Insomma, sul ponte sventola bandiera bianca. Altro bersaglio della canzone italica è certamente l’avvinazzato Vinicio Capossela. Idolatrato da una generazione di beoni praticamente sconosciuto a una metà del cielo l’autore del Ballo di San Vito si fa notare anche per la somiglianza continua


CoolClub .it   “CICCIO” DEI PEZZI DI VETRO

Criticare un maestro, per me, significa criticare Francesco De Gregori. Sì, proprio lui, il mio cantautore preferito. Uno di quelli che, con buoni compagni come Nanni Moretti, contribuisce in modo decisivo ai successi dei Berluscones. Funziona così: uno che non segue la politica lo sente parlare per qualche minuto; poi chiede: “ma questo è di sinistra?”; e quindi vota inevitabilmente Forza Italia. Sperando che il Cavaliere, sorridendo, lo mandi in esilio. Per carità, Francesco si tenga pur cari i suoi atteggiamenti, snobisticamente puerili o realisticamente misantropici che si vogliano considerare.

Padronissimo di non volere che si parli di lui. Ma abbia almeno la decenza di ritirarsi a vita privata, pubblicare i suoi album (anche in versione Live, come un Venditti qualsiasi) e non propinarci più quei concerti da Bob Dylan de noantri. Ai quali puntualmente andiamo, fedeli e devoti, uscendone con frasi tipo “è l’ultima volta che mi frega”. Una cosa è fare karaoke, neanche fossimo al Festivalbar, un’altra è impedire al pubblico di cantare, mostrando fastidio quando qualcuno tenta di accennare il ritornello della Donna cannone. O rimproverare il pubblico di Napoli che lo chiama affettuosamente “Ciccio”. Ammettiamolo, quelli di destra sono più simpatici. Magari meno colti, ma purtroppo l’Italia è questa: e i voti di “quelli che hanno letto un milione di libri” valgono quanto le preferenze di “quelli che non sanno nemmeno parlare”. Fabio Biglondoner

vocale e compositiva con il ben più famoso Tom Waits. Fallimentare (secondo quelli che se lo sono goduto) anche l’esordio letterario. Solo autore (non dite paroliere altrimenti si incazza) è Mogol che con la sua scuola è il vero maestro della canzone italiana e tutti vanno in pellegrinaggio da lui (compreso Sanremo) per cercare ispirazione. Tra i giovani (???) musicisti “un po’ così e così” ma considerati enormi ho sentito molte volte il nome di Sergio Cammariere (etichettato come “loffione”), Marlene Kuntz (odiati soprattutto per i mostri che hanno generato), Daniele Silvestri (con i suoi atteggiamenti da comunista inviperito contro tutto e contro tutti ma poi capace di andare a Sanremo con Salirò e un ballerino), Nicola Conte (ma qui molti diranno “e maestro de che”), Morgan e i Bluvertigo, i Subsonica. Non mi dilungo sul tarantolato Giovanni Lindo Ferretti che da queste parti può anche fare un ruttino e si urla al miracolo artistico e Francesco Guccini che ci ha regalato una serie di perline colorate da custodire gelosamente e varie versioni della stessa canzone, quasi sempre tristissima. Non dimenticherò i pomeriggi di mio fratello trascorsi ad ascoltare “Quando il mio ultimo giorno verrà dopo il mio ultimo sguardo sul mondo, non voglio pietra su questo mio corpo, perché pesante mi sembrerà”. Se trovate Guccini e le sue osterie in questa lista prendetevela con Bubu. Qualcuno ha bestemmiato arrivando a intaccare la stella luminosissima di Vasco Rossi (anch’egli logorò le mie orecchie). Ma io lascerei il blasco e mi concentrerei su chi ha esordito o quasi inneggiando al cantante emiliano. Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, si è fatto notare prima come vj e dj e con idioti canzonette poi come cantante maturo e innovatore e infine come salvatore delle patrie e cancellatore di debiti (che avrebbe tranquillamente cancellato solo con i suoi vertiginosi cachet). E qui mi fermo con gli italiani anche

CHE PUFFONATA!

Nel 1958 Pierre Cuillford, detto Peyo, ideò la tribù di piccole creature azzurre che tante generazioni hanno affascinato e tanto inchiostro hanno fatto sprecare a sociologi e fans. Trasposizione della vita politica staliniana: Grande puffo uguale a Stalin, Quattrocchi Trotskij e così via. Manifesto propagandistico dell’assunzione di allucinogeni: i funghi bianchi e rossi, il blu della loro pelle come il colore che più comunemente viene percepito nelle allucinazioni da LSD. Utopia di una comune gay: Sciccoso, Vanitoso, Forzuto,Quattrocchi, Grande Puffo, Jhon, Gargamella e la sua gatta e tutti gli altri sono degli stereotipi dell’omosessualità; inoltre non hanno donne all’infuori di Puffetta, l’unico esemplare femmina di Puffo creato dalla magia del loro acerrimo nemico. Particolare da non trascurare: le creature sono sprovviste di apparato genitale, infatti, le loro tutine

non presentano rigonfiamenti o altra manifestazione della loro presenza. La storia, le avventure, i personaggi e il modo di vivere dei fascinosi “ometti blu” sono direttamente proporzionali alla povertà e alla pochezza del proprio vocabolario (in ciò

ricordano Simona Ventura): incapaci di esprimersi, usano il verbo “puffare” praticamente per tutto. Decisamente sopravvalutati! Antonino De Blasi

perché dovrei citare tanti autori, cantautori e musicisti che hanno venduto l’anima al dio commerciale della canzonetta sole, cuore e amore (e non fatemi parlare). Molto complicato (anche perché il campo sarebbe sconfinato) buttare dalla torre gli artisti stranieri. E qui lo so lettori che inizierete con quella espressione da “questi sono pazzi e presuntuosi” a esclamare in coro NOOOOO. Io riprendo e vi assicuro che da qui alla fine sarà una escalation di sorprese. Partiamo con l’impensabile e l’inarrivabile. Marcello stronca i Beatles. Detta così sembra impossibile e invece un fondo di verità c’è. E tanto per non farci mancare niente qualcuno ci ha infangato pure i Rolling Stones, soprattutto gli ultimi considerati come vecchie cariatidi con chitarre al collo. Le pietre rotolanti, che, lo sanno tutti, prendono il nome dalla canzone di Bob Dylan (e chi si permette di dire qualcosa contro Bob alzi la mano che diverrà il nuovo Muzio Scevola), pagano la non immortalità per la propria longevità. John Lennon, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Curt Cobain, Bob Marley sono entrati nel mito e nella leggenda grazie alle loro opere ma anche grazie alle loro morti (più o meno cruente). È meglio essere sparato da un pazzo fanatico che legge Il giovane Holden (sopravvaluto anch’esso) che diventare un placido vecchietto che si atteggia a giovane rockettaro? E vuoi mettere una bella morte suicida (in Italia purtroppo è toccato a Luigi Tenco) con una placida fine in casa di riposo? Elvis Presley (quello che rubava ai neri per dare ai bianchi) è morto gonfio di molte cose e soprattutto pieno del suo successo tanto straordinario quanto costruito da chi ha intravisto in lui la possibilità di vivere alla grande. Tra i morti sopravvalutati secondo il nostro Gianpiero c’è anche Jeff Buckley (al quale, lo ricordo, abbiamo dedicato la copertina di ottobre e una manifestazione con concerto continua

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A FETTE I BARONETTI

È arduo etichettare come sopravvalutati i Beatles, soprattutto per chi, come me, è invaghito della loro musica; ma trovo che non abbiano inventato niente, e che arrivassero sempre in ritardo alle innovazioni tecniche e musicali: non hanno inventato il feedback con I Feel Fine e non sono stati i primi ad usare il sitar (ci avevano già pensato gli Yardbirds); le loro armonie vocali erano mutuate dalle Shirelles e dai Beach Boys, eppure oggi si parla di “coretto a la Beatles” e non di “coretto a la Shirelles”; prima di Helter Skelter, già i Troggs o i più celebri Cream avevano lanciato dei segnali ai futuri gruppi heavy-metal; i timidi approcci alla forma della suite di Abbey Road erano poca cosa se confrontati con quanto già realizzato da gente come Frank Zappa o i Pink Floyd. Però della portata rivoluzionaria della musica degli anni Sessanta probabilmente ci sarebbe poca traccia

oggi, se non fosse stato per la loro abilità di edulcorare ogni novità adattandola alla forma della canzone, rendendola tollerabile anche a quella middle class cui faceva paura sia la schiera di sudati rocker neri degli anni Cinquanta sia gli artisti che erano espressione della contestazione studentesca. Si può discutere di quanto

ciò possa essere un merito, di quanto poi questo merito sia da attribuire ai quattro Baronetti anziché al manager Epstein o al produttore George Martin, ma non si discute la magica alchimia che fa sì che, dopo tanti anni, i quattro ‘sopravvalutati’ di Liverpool continuino ad essere il mio gruppo preferito. Marcello Zappatore

per i dieci anni di Grace) che con un solo album alle spalle è entrato nell’alveo degli intoccabili. Impossibile sfiorare anche Freddy Mercury e i Queen. D’altronde il cantante del gruppo inglese si è trasformato nei primi anni ’90 nel testimonial più efficace della lotta all’Aids con il cestista del Dream Team statunitense Magic Johnson (se dite qualcosa contro di lui vi schiaccio in faccia). Quasi tutti mi hanno nominato anche con la faccia disgustata i Dire Straits, qualcuno ha toccato i Pink Floyd e moltissimi sono stati concordi nell’affermare la propria negazione totale ai Genesis. Per non parlare delle facce viste in giro toccando il discorso progressive. Degni di sopravvalutazione anche U2 (ci ha pensato per noi Davide), Nora Jones (secondo molti soporifera se non mortale), Oasis, Blur, Sonic Youth, Clash, Nick Cave, Pink Floyd, Depeche Mode, Rem (con gli ultimi album e soprattutto gli ultimi considerati tremendi) e molti molti altri (e mi scuso con quelli che non sono stati nominati). Parlando di Michael Stipe e compagni entro dritto in un tema molto caro agli italiani. I sopravvalutati molto spesso diventano beniamini del pubblico grazie alla propria faziosità politica. Qui pericolosamente mi addentro in un altro motivo portante di questa spietata analisi. Il mito viene alimentato dal pubblico, dalle idee, dalle ideologie, dalla strada, dalla piazza, dai cortei. Pensare che

Caro lettore, voglio fare un esempio banale della differenza tra la secca linearità di chi ha qualcosa da dire e chi si contorce dandosi arie da intellettuale senza titolo. In Schindler’s List di Spielberg, a un certo punto, Oskar Schindler (“gli piacciono le donne. Gli piacciono tutte le donne di bell’aspetto”, dice di lui un ufficiale tedesco che cerca di giustificarlo) riceve la visita della moglie nella città polacca in cui vive. Passa un giorno o forse più, e i due parlano a letto prima di addormentarsi. Lei lo guarda e gli dice “Oskar, dimmi solo una parola, e io rimango qui”. Alla scena seguente si vede la moglie alla stazione, che parte. Oskar: un grande. Spielberg: un grande. Ecco una finezza che non ha neanche bisogno delle parole, tanto è secca, essenziale. Ecco una finezza a cui uno come Nanni Moretti non arriverà mai, e non si vede neanche come mai potrebbe visto

che fa film in cui si vedono famiglie meravigliose e inesistenti senza cellulare senza litigi senza protagonismi senza squilibri senza amanti senza ufficio senza parenti senza una figlia che voglia fare la velina o almeno la giornalista di punta senza rivolte adolescenziali senza un cazzo di problema che sia uno e poi il figlio muore e tutti piangono come quando c’era un film di Mario Merola il cui sottotitolo era “Io stongo carcerato e mamma more”. Tutti piangono e si scaricano e sono felici, che bello. Sinceramente, il sospetto che quelli che espongono i film di Moretti sul tavolo del DVD in realtà abbiano da qualche parte Terminator e Natale in India (tanto il livello di approfondimento è uguale) è troppo forte; solo che non lo confessano mai, i bastardi. Marcello Aprile

il regista del Maurizio Costanzo Show sia colui che cantava “Compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce e portate il martello / scendete giù in piazza e picchiate con quello / scendete giù in piazza e affossate il sistema” provoca scompensi ormonali e svenimenti ripetuti. Eppure Paolo Pietrangeli, maestro per quella generazione sessantottina (pre e post) che cantava oltre a Contessa anche Karl Marx Strasse e Mio caro padrone domani ti sparo ha solo continuato e proseguito il suo lavoro di regista. Niente di male (???). Comunque tornando alla politica i Rem sono stati tra i promotori della campagna anti Bush che da un punto di vista cinematografico è stata guidata invece da Michael Moore che in un paio di anni si è trasformato nel megafono della sinistra (???) americana e, di riflesso, mondiale. La vittoria a Cannes con un documentario contro il presidente è stata ritenuta da molti scandalosa. E sempre a Cannes è maturata la beatificazione cinematografica di un altro idolo della sinistra (soprattutto italiana). Nanni Moretti è passato di generazione in generazione ma le frasi dei suoi film sono diventate icone di molti sinistrorsi. Moretti è considerato (secondo i miscredenti) più come attore sociale e politico che come vero regista. E adesso si appresta a scrivere un lungometraggio contro il premier Berlusconi. Da Moore a Mo(o)retti il passo è breve. continua


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Prima di sproloquiare su quello che nella mia adolescenza ha rappresentato un punto di riferimento, faccio partire il cd di “Boy” e con le prime note di ‘I will follow’ mi dico: “Toh!, mi ricorda qu alcosa...mhm..assomiglia a Vertigo!!?!” e raggiungo l’assunto (apocalittico per la mia psiche di fan) che il gruppo di cui solo 15 anni fa avevo la massima stima in realtà ha talmente riciclato tutto il possibile riciclabile alla portata delle sue possibilità cognitive (riuscendo comunque a creare un suo stile) da essere ormai costretto a riciclare se stesso! Affranto mi rendo conto che forse è giunto il momento di riunire in una colletta globale tutti i fans sparsi nel mondo del planetario rappresentante del rock made in Ireland per una raccolta fondi senza precedenti grazie alla quale

consentire un restyling, almeno di ‘facciata’, alla dignità di un gruppo che resta, credo!, comunque importante nella

storia della musica del rock ...popolare. I fondi saranno raccolti e gestiti dal “Fans of disappeared” Foundation e serviranno soprattutto al leader

carismatico del gruppo, Paul Hewson (aka Bono Vox), per l’acquisto di caramelle balsamiche, con cui restituirgli almeno in parte la voce, e per l’acquisto di una fornitura di libri, opere creative e idee politiche grazie alle quali risvegliare quella che una volta era la vena, seppur riciclatoria, ma creativa del signor Hewson. I fondi finanziari necessari saranno immensi e richiederanno grandi rinunce a tutti i fans in quanto si dovranno sostenere

anche lunghissime sedute psicanalitiche per il leader Vox. I trattamenti serviranno a far comprendere a messer Bono che Gesù Cristo non è risorto il 10 maggio del 1960 a Dublino grazie a papà “SanGiuseppe” Bobby Hewson e a sua moglie “madonna” Iris. Infine, se avanzeranno risorse finanziarie, la mia proposta è di investire in un gruppo di consulenti finanziari ad hoc, grazie ai quali Bono, TheEdge, Larry Muller e Adam Clayton forse potranno dormire sonni più tranquilli sul loro futuro economico e non saranno costretti a sfornare da qualsiasi orifizio utile degli insignificanti concentrati di pseudocanzonette spagnoleggianti. Detto ciò a fini di buon auspicio faccio partire “The Unforgettable fire”, sperando che “The Joshua tree” non diventi “The Judas tree”. Davide Castrignanò

Qualcosa da ridire anche contro la schiera dei comiciattori che ad un certo punto della carriera abbandonano il ruolo di “buffone di corte” per entrare nell’alveo dei poeti. Così Roberto Benigni (quello del mitico Inno del Corpo Sciolto) dopo capolavori di comicità (quasi sempre) si è ritagliato con La vita è bella e Pinocchio un ruolo di cantore delle coscienze italiche. Eppure il suo travestimento da piccolo burattino è stato quasi imbarazzante e la sua Divina Commedia in tv è stata didascalica in alcuni punti ed eccessivamente comica in altri (grandiosità dicono alcuni – du palle rispondono gli altri). Lontani i tempi in cui prendeva in braccio Berlinguer e sfotteva il Papa. Negli ultimi anni ha raccolto sicuramente più di quanto meritasse. La trasformista Sabina Guzzanti ha preso una deriva populista che a molti non piace. Decisamente meglio e più geniale il fratello Corrado. E come comico non dispiace neanche il padre Paolo. Non ci soffermiamo anche in questo caso sui comici (che fanno ridere solo perché il

comico deve fare ridere). Abbandoniamo la politica (o la comicità) e rituffiamoci nel cinema. Il più votato nel nostro misero sondaggio (e qui abbiamo difficoltà ma ascriviamo il giovane regista nel club dei maestri) è Gabriele Muccino che dopo L’ultimo bacio è diventato la coscienza critica della generazione dei trentenni insoddisfatti e sfigati con problemi di impotenza o di erotomania. Secondo alcuni le sue pellicole sono pugni nello stomaco al perbenismo dell’italietta da seconda repubblica secondo molti altri i suoi film sono girati all’americana ma le sue storie sono assolutamente banali e inutili. Un altro “maestro” un po’ troppo osannato è l’italoturco Ferzan Ozpetek che ha fatto delle tematiche omosessuali il suo cavallo di battaglia. La Finestra di fronte, però, è veramente un polpettone insipido con velleità da capolavoro (mentre scrivo è in uscita il nuovo film, vedremo). Eroe comune di alcuni episodi dei due registi è l’ex prete dei gelati Stefano Accorsi abbastanza sopravvalutato perché ha poche facce e troppi sorrisi. Ma sugli attori sorvoliamo perché in molti casi bisognerebbe offendere direttamente le capacità

espressive di ciocchi di legno spacciati per attori e teatranti. Giacché il germe della sopravvalutazione nei campi in cui anche l’occhio vuole la sua parte è sempre pronto ad insinuarsi nei cervelli più enormi e funzionanti. Tra gli altri registi un po’ per antipatia, un po’ per i film sono stati segnalati Woody Allen, Sophia Coppola, che secondo molti gode del nome del padre, le ultime uscite cinematografiche del maestro Michelangelo Antonioni oppure lo scandinavo Las Von Trier che in alcuni momenti è veramente irritante per la sua saccenza. La scandinavia portò fortuna all’italiano Dario Fo che nel 1997 volò in Svezia per ritirare il Premio Nobel per la Letteratura che sembrò (anche ad alcuni suoi fan) troppo grande per un giullare come lui. Tralasciando le accuse di essere stato un repubblichino negli ultimi spettacoli (l’età passa per tutti) Fo e Franca Rame sembrano più Raimondo e Sandra in Casa Vianello con che noia, che barba. Ci spostiamo nel campo della letteratura

che è, secondo il collettivo redazionale, il più difficile da affrontare. Un film lo sopporti, una canzone la ascolti (anche per caso), la televisione prima o poi ti capita sotto gli occhi ma un libro lo scegli, lo annusi, lo divori o lo odi, lo ami o lo butti nel cesso e non c’è nessuno che ti obbliga e ti costringe a prendere quell’autore in mano. Il discorso va bene per tutto ma con la letteratura funziona particolarmente. Chiunque avrebbe potuto segnalare gli autori studiati a scuola ma come fai a dire che Dante era sopravvalutato (anche se è bene sapere che nella Divina Commedia entra molta tradizione medievale e non solo la sua inventiva), oppure che Manzoni ha scritto per quarant’anni lo stesso romanzo mentre in Russia e in Francia venivano prodotti dei capolavori assoluti, oppure che D’Annunzio era un trombone? Infatti i nostri cari amici non lo hanno fatto e ci hanno segnalato soprattutto due autori italiani contemporanei (molto fighi e molto televisivi): Andrea continua

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SUA MAESTA’ LA SOLIDARIETA’

È la nuova grande «indulgenza» dell’uomo occidentale. È il settimo potere (dopo quello legislativo, esecutivo, giudiziario, dopo il giornalismo, la televisione, la pubblicità), la grande truffa ai danni dei paesi in via di sviluppo, il grande business. Il volontariato, la solidarietà, l’elemosina: purificano la coscienza dell’uomo occidentale; generando sensi di colpa verso chi non è solidale, spostano i termini dei grandi problemi che riguardano la forbice ricchipoveri dalla necessità di interrompere lo sfruttamento di Stati e multinazionali alla creazione di una grande ed effimera rete di solidarietà. Ci convincono quindi che sono i singoli cittadini, e non gli Stati, a dovere intervenire. Che gli sforzi encomiabili di Medici senza frontiere e delle altre ong sono l’unico modo per trarre quei Paesi fuori dal guado. Chi

è solidale non crede più nello Stato e nella possibilità che possa farsi carico dei problemi legati a sviluppo e povertà. Ho creduto nella solidarietà finché non l’ho vista corrompersi, diventare elemosina e non avere più niente a che vedere col sentimento di fratellanza dalla quale era nata. Ci stiamo purificando nello Tsunami. I popoli dell’est asiatico ci saranno grati per lungo tempo, ed è certo che sapremo trarre profitto dalla loro gratitudine. La ricostruzione - in Iraq come in Indonesia - è l’ideale, per l’uomo solidale. «Stiamo costruendo qualcosa per voi», fanno sapere gli uomini della solidarietà. Macché. L’imperialismo, direbbe Lenin, resta ancora la fase suprema del capitalismo. E il carburante della solidarietà resta la cattiva coscienza occidentale. Antonio

De Carlo (due di due, di noi tre e prossimamente Quattro per quattro) e Alessandro Baricco (Seta, City, Sety, Cita). Molte preferenze anche per Isabelle Allende (de mienzu) con un cognome troppo pesante per la leggerezza dei suoi scritti, Paulo Coehlo e gran parte della letteratura sudamericana che c’è sempre qualcosa di magico nella vita di ognuno di noi. Udite udite una pazza scriteriata mi ha citato anche la Susanna Tamaro (ti prego tienimi stretta al cuore tutta la notte). Tra i giovani forse troppo considerati guru Giuseppe Culicchia (quello di Tutti giù per terra), Enrico Brizzi (che mi sa è già uscito dal gruppo, degli scrittori), Paolo Nori (quello che scrive come mangia, non mangia tanto bene e quando mangia si sporca). Metto la parola fine alla scrittura e passo con disinvoltura allo sport e in particolare al calcio. Sopravvalutiamo senza problemi Alex Del Piero, dalle polemiche sul doping e dall’infortunio il Pinturicchio si è trasformato in un imbianchino, è da anni un campione da ritrovare, e Antonio Cassano, uno dei massimi sopravvalutati della storia del calcio. Settanta miliardi (nel 2001) per un ragazzo di 18 anni sembravano troppi. Il campioncino ha fatto vedere molte cose e molte cassanate ma il calcio con queste cifre rischiava il collasso e infatti è collassato. Senza parlare delle braccia tese di Paolo Di Canio e delle rapine di Pippo Inzaghi. Tra gli allenatori nello scorso decennio è stato sopravvalutato Arrigo Sacchi, che avrà anche rivoluzionato il calcio ma lo ha fatto con Gullit e Van Basten e con la nazionale è arrivato secondo ai mondiali facendo il catenaccio, mentre tra gli attuali tecnici sembra sovrastimato Roberto Mancini. Bacchettata sulla mano anche per il pluricampione del mondo di Formula 1 Michael Schumacher: è in Italia da una vita prima o poi imparerà una parola della nostra bella lingua? Lo spazio è poco e i maestri tanti quindi passo subito alla televisione dove spiccano in classifica i nomi di Simona Ventura (tanto brava quanto povera nel vocabolario), Antonio Ricci ed Ezio Greggio (ma andiamo andiamo), Fabio Fazio (se è l’unica cosa di sinistra della tv italiana stiamo freschi) e molti martiri della destra. Tra le schede troverete anche la solidarietà e,

Entrare nella storia della musica con poco più di un album all’attivo. Ad essere cinici verrebbe da dire: baciato dalla fortuna nonostante la disgrazia. Perché la morte deve aver contribuito non poco al processo di beatificazione che rende sacri e intoccabili agli occhi dei fan (e non solo). Ma è davvero così capitale l’opera di Jeff Buckley per la storia del rock? Un ep e un album, quel Grace benedetto dai più come imprescindibile opera degli anni ’90, se vogliamo escludere tutta la pletora di uscite postume (spesso di rara bruttezza), outtakes, registrazioni sparse, live in ogni buco di culo del mondo, in una “festosa” corsa

CON GRAZIA, VOSTRO jeff alla speculazione sulla pelle del caro estinto. Quello di Buckley è un cantautoratofolk a tratti sinfonico che affonda le radici nei classici dell’America fondendosi in più di un’occasione con il gospel e supportato da una band dalle doti tecniche non indifferenti. Le canzoni di Grace vorrebbero però avere un ampio respiro, ma sono frenate dalle trame sonore barocche dell’autore che perdono spesso il senso dell’orientamento, smarrendosi in arzigogoli che le rendono involute. Francamente ricordiamo con piacere solo Grace e il lamento doloroso di So real. Infine la voce, a cui Buckley dà molto rilievo nell’economia del pezzo, sebbene più cristallina ricalca in maniera alquanto evidente lo stile del padre Tim, uno che forse, i facili santificatori dovrebbero riscoprire. Uno che sapeva scrivere canzoni e che ha scritto una pagina di storia della musica. Gianpiero Chionna

anche se molti si scandalizzeranno, tra i sopravvalutati dobbiamo aggiungere anche alcuni esponenti religiosi. Non mi dilungo sui santoni e sui curatori vado dritto versi i santi. In tema di solidarietà ci è stato fatto il nome di Madre Teresa di Calcutta (beata a tempo di record). Il giornalista Christopher Hitchens (anche nel libro “La posizione del missionario”) racconta le contraddizioni della suora e la sua scalata alla santità. E a proposito di nuovi santi spendiamo una parola nei confronti dell’attuale pontefice Papa Giovanni Paolo II (per il quale una scheda non basterebbe) che ha fatto più santi e beati della precedente storia cattolica. Santo da fiction e da merchandising è San Padre Pio da Pietrelcina. Non ho nulla contro di lui (semmai era la chiesa che ne pensava male prima di adottarlo) ma contro chi ha speculato sulla sua figura. Stessa operazione provata a Copertino dove però San Giuseppe non ha spiccato il volo. Dai santi veri torniamo rapidamente ai santi della politica: ai nostri amici sembrano sopravvalutati John Kennedy (che in fondo avviò la guerra in Vietman e si intrattenne simpaticamente con la Monroe), soprattutto perché idolatrato dalla sinistra che non c’è (tutta sopravvalutata), e (ma non per colpa sua) Ernesto Che Guevara. Partendo dall’argentino cubano l’ultima considerazione, quella finale lo giuro a tutti, è proprio sulla ricaduta che i maestri hanno sulla società. Non è sempre colpa loro se salgono in cattedra. Non sempre è merito loro se diventano facce sulle magliette. Insomma ognuno ha il maestro che si merita e quando ci si rende conto che il maestro è un uomo o una donna come noi allora iniziamo a criticarlo e a distruggerlo. Forse oggi ci siamo accorti che quei maestri (in tutte le discipline) sono corrotti e corruttori come la maggior parte di noi, che le nostre facce potrebbero essere tranquillamente issate su bandiere o su felpe, che le nostre parole e le nostre azioni sono pericolose come le loro. Dare contro i maestri è un po’ darsi addosso. Insomma I sopravvalutati siamo anche noi di CoolClub e le nostre firme. Insomma abbasso i maestri e abbasso noi. Pierpaolo


CoolClub .it   Disincanto Ginevra Di Marco On the Road music factory 2005

di Francesco Lefons

Deliranti analisi di costruzioni moderne Violle Made in Globe 2004

di Osvaldo

libro del mese secret T.C.The Boyle migration Mercury rev Doctor Sex V2 - 2004 Einaudi

Cogliere il continuo fluire delle cose, racchiuse in immagini, suoni e pensieri in continua evoluzione, senza mai fermare il fervore della scoperta. La coscienza di non sentirsi mai arrivati per avere la forza di ripartire da zero e rinascere ogni volta con occhi nuovi e vogliosi per andare al di là del comune e rassicurante vedere. Sembra che Ginevra Di Marco con Disincanto, l’ultimo splendido lavoro, voglia lasciarsi cantare, rinascere con e nella musica, ribadire la bellezza di attingere da più verità, con la sana freschezza di arrangiamenti fluidi e calorosi, espressione pura di sensazioni e immagini che la Di Marco disegna con la voce. Disincanto, che esce a cinque anni di distanza dall’ultimo lavoro Trama Tenue, risulta un buon lavoro soprattutto perché appare un disco genuino, pura espressione, che segna la maturazione di un’artista che sa emozionarsi, accompagnata da una sapienza musicale, “disincantata”, libera da schemi melodici e compositivi troppo soffocanti (il disco continua il sodalizio artistico con Max Gazzè). Disincanto è, insomma, un disco che sa prenderti per mano e portarti a spasso, un disco che di sicuro non lascia indifferenti e questo è il miglior complimento che si possa fare a un’artista. I Violle sono un pezzo di storia del salento rock. Da sempre poco inclini alle definizioni e alle mode, i tre portano avanti da sempre un discorso assolutamente personale. A voler scavare meticolosi qualche riferimento lo si trova pure ma svanisce presto abbattuto da una dicotomia interna al gruppo, una precisa ripartizione che sembra fargli intraprendere due strade che deviano e si ricongiungono all’interno di questo Deliranti analisi di costruzioni moderne. Da un lato la musica, dall’altra, le liriche. Unire parole con un peso specifico, per lo più in italiano, a strutture musicali violentemente rock è un’operazione ad alto rischio. In prima battuta per il rischio di apparire derivativi, in seconda e consequenziale per la facilità con cui si può sembrare banali. In questo Violle sono abili ad aggirare l’ostacolo, mantenendo musica e voce su piani collimanti ma mai perfettamente coincidenti. Questo mette in evidenza trame strumentali a tratti noise, a tratti math, a tratti psichedeliche dall’impatto potente e monolitico che creano tempesta intorno a una voce che è libera espressione del sentire e quasi mai linea vocale fine a se stessa. Molto carino infine il particolarissimo packaging con le splendide foto dell’artista Franco G. Livera.

Era dal 2001 che aspettavamo un nuovo disco dei Mercury Rev. Donahue e soci ci avevano lasciato con All is dream, sbalorditiva e orchestrale consacrazione di questa band che già con album come Deserter’s songs e il precedente Boces si erano candidati al titolo di nuovi pionieri della psichedelia. Oggi arriva The secret migration, nuovo capitolo, nuovo viaggio musicale. Il territorio musicale dei Mercury Rev è un caleidoscopio psichedelico in cui ormai da anni si muovono con estrema scioltezza riuscendo album dopo album a descriverne nuovi colori e sfumature. Ogni loro album è un piccolo evento per chi di musica si nutre. I più entusiasti sostengono addirittura che i Mercury Rev hanno cominciato lì dove i Pink Floyd si sono fermati. Questo nuovo album non tradisce assolutamente le aspettative di chi li ha sempre amati. Onirico anche questo The secret migration nasconde perle di una bellezza talmente esotica da non essere terrena. Sempre più su se è possibile, con un disco che più che una “migrazione” sembra un’ascesi. La voce tagliente di Donahue sottile e sognante funge quasi sempre da introduzione ad aperture che tra orchestrazioni, riverberoni ed estreme dilatazioni riempiono tutto lo spazio disponibile e a volerla sbucciare, una volta matura, ogni loro canzone è una continua sorpresa, una matrioska di note. Sembra possiedano sempre la chiave per aprire porte che custodiscono il segreto per una canzone perfetta (secret for a song brano di apertura del disco). Bellissimo il ponte di Across Yer Ocean che cadenzata e armoniosa ci prepara a Diamonds che con tanto di campane e marcetta intreccia carion, moog a una bellissima melodia vocale. E più in là della romanticissima Black Forest (Loreley) le trame si infittiscono e il ritmo aumenta con la bellissima doppietta Vermillion e In the Wilderness. In a Funny Way sembra prendere in prestito l’attacco da Be my baby per continuare sul filo dei sessanta. My love gronda sentimento sorretta da un piano e un arpeggio struggenti. La corale Moving on prepara l’atterraggio che arriva morbido con Down poured the heavens. Alla fine l’impressione è quella di un volo, magari sulle ali della farfalla che campeggia in copertina. La bellezza di questo disco è arricchita anche dalla produzione certosina di Dave Friedmann, tastierista della band. Una cosa è certa: i Mercury Rev sono unici nel loro modo di fare musica, si potrebbe accusare di essere un po’ eccessivi, barocchi forse nell’imbastire le loro trame ma alla fine di ogni loro disco non cambieresti una singola nota, non vorresti finisse mai come il più bel sogno che puoi fare, di quelli che sai non si avvereranno mai. Osvaldo

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CoolClub .it   Strikes like lightning Hellacopters Universal Solo sei brani ma abbastanza per dimostrare a tutti di saper maneggiare il rock and roll con la padronanza e l’esperienza di chi sa mescolare hard rock, punk e garage creando un suono riconoscibile che fa degli svedesi una delle migliori band sulla scena.

All Harm ends here Early day miners Talitres / Wide Un disco dalle tinte cupe e intimiste, dal vago sapore anni 80, avvolge e coinvolge questo All Harm ends here che conferma Dan Burton come uno dei nuovi decadenti della musica. Questo disco vi porterà verso atmosfere slo-core a tratti post e a tratti folk.

Togheter we’re heavy Polyphonic spree Hollywood – 2004

di Rakelman

Pressure Chief Cake Columbia – 2004

di Rakelman

Emoh Lou Barlow Domino - 2004

di Osvaldo

How To Dismantle An Atomic Bomb U2 Universal – 2004

di Fabio Striani

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I’m Wide Awake, It’s morning/Digital Ash in a digital Um Bright Eyes Saddle Creek/ Wide Due dischi usciti contemporaneamente sul mercato che hanno conquistato primo e secondo posto nelle classifiche di Billboards. Pop ispirato e supportato da amici importanti per questi due dischi carini come il bel visino di Conor Oberst.

Silent Alarm Bloc Party Wichita I Bloc Party sembrano aver assorbito ed elaborato il tema musicale di band come i Gang of Four. Compatti, potenti, spingono forte riuscendo a sperimentare soluzioni diverse con cambi repentini, incursioni noise, stacchi e stop and go. La produzione di Rich Costey è un sigillo di garanzia.

Un arpeggio celestiale rotto da un’interferenza elettrica subito seguita da una dolce melodia eseguita al piano e da una voce delicata ci introducono in questo secondo splendido viaggio psichedelico dell’ensemble di Dallas, a metà tra il cast di Jesus Christ Superstar e un coro battista (con tanto di camicioni), che merita decisamente una posizione “celestiale” tra gli album più belli del 2004-2005. Gioia di vivere e (attento Gianni) ottimismo sembrano essere le parole chiave per entrare in quest’opera. Questi del gruppo, dietro l’aria da sempliciotti ancora rivolti ai tempi della generazione chimica (fatto innegabile), ci propongono un sound del tutto nuovo per i nostri tempi: cornamuse, trombe, arpe, fischietti, zufoli e tutto quanto fa parte di un buon corredo musicale bucolico (coretti compresi) si mescolano a frammenti di elettronica e ad un linguaggio decisamente indie per generare un frullato di energia assolutamente affascinante. In questo viaggio tra i suoni, impossibile scegliere quale “capitolo” musicale è più meritevole degli altri; bisogna rilassarsi e lasciarsi andare, seguire il racconto e viverlo come un viaggio del sole. Imperdibile il ricchissimo e coloratissimo sito ufficiale: www.thepolyphonics pree.com

Quinto album per la band di Sacramento capitanata da John McCrea, questo Pressure chief convince solo a metà, soprattutto se paragonato al suo predecessore, Comfort eagle (2001). Qui, infatti, di nuovo c’è ben poco rispetto al passato; nonostante la qualità compositiva del gruppo sia sempre sopra la media, quello che manca è un pezzo (o più d’uno) che realmente “spacchi”, emerga, piaccia un ciccinin in più del normale. Sonorità tipicamente “iu.es.ei”, che sanno d’oceano e di deserto (End of the movie su tutte) accompagnano atmosfere che oscillano tra la malinconia romantica e la gioia contenuta. Il resto è pop rock “gentile”, facilmente digeribile, involontariamente lo-fi (almeno a quanto dicono loro stessi, con modestia più o meno falsa), condito con una moderata spruzzata di rumorini elettronici alla Grandaddy (Waiting). Si segnalano comunque Wheel, perfetta filastrocca rock con ritornello appiccicoso, No phone, l’orecchiabilissimo singolo, e Take it all away, forse il pezzo forte su tutti. Guitar man è la cover dei Bread. Sito ufficiale: www.cakemusic.com Per chi non lo conosce Lou Barlow è uno che di cose ne ha fatte. Prima di tutto con i Dinosaur Junior, poi con i Sebadoh, poi con folk implosion, sempre alla ricerca del suono imperfetto, sempre manipolando la bassa fedeltà con maestria confezionando canzoni agrodolci di una bellezza a metà tra pop e indie. Il suo debutto solista ci offre il lato più intimista di questo indiscusso talento il cui merito confermato in questa manciata di brani è quello di non essere mai banale nell’esprimersi nel modo più semplice e diretto possibile. Il minimalismo a cui ci aveva abituato con i Folk Implosion diventa in questo Emoh più raffinato, affidandosi ad arrangiamenti di archi, pianoforte e a strutture in cui una chitarra acustica e una voce, bellissima e malinconicamente romantica, dipingono atmosfere che niente hanno a che vedere con le mode del momento. Pur rimanendo legato al suo stile inconfondibile Lou si permette alcune svisate più classiche, ammiccanti il folk americano, il country per certi versi. Sicuramente non è tra le cose migliori partorite in casa Barlow ma almeno due o tre episodi sono canzoni che tutti dovremmo ascoltare. Il nuovo disco degli U2 suona molto rock anni ’80, dopo le esperienze più orientate verso l’elettronica e il facile ascolto degli scorsi anni. Piacerà a chi ha ascoltato prove come War, o The Unforgettable Fire, o The Joshua Tree, esperienze felici per un gruppo che, dopo oltre vent’anni di carriera, è ai vertici delle classifiche di vendita . How To Dismantle an atomic bomb sembra essere molto vicino ai temi di Unforgettable Fire, che provava a raccontare gli effetti di una bomba atomica e i rischi di un’ulteriore guerra planetaria. Il disco esprime già nel titolo l’intento di fornire una guida, quanto mai desiderabile per chi (v. Stati Uniti) si trova ad essere disorientato. Le canzoni scelte per una maggiore diffusione sono state finora Vertigo (singolo in cui “anche se l’anima non si vende, la mente può vagare”) e Sometimes you can’t make it on your own, dedicata al padre recentemente scomparso. Maestri che hanno ancora molto da imparare, questi U2: take this heart, and make it break, questo disco si chiude così.


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Call my name Joe bataan Vampi soul\ Goodfellas – 2005

di Postman Ultrachic

Italian bossanova extravaganza Filati pregiati (m.o.d.a fashion )

di Luca

Italian playboys Link quartet Record kids 2004

di P.U.

Tekitoi Rachid taha Aniversal rec.

di Postman Ultrachic

Avere tra le mani questo autentico gioiello, due mesi prima della sua uscita ufficiale, mi commuove spudoratamente. La Vampi soul inizia il 2005 nel migliore dei modi possibili, con una produzione tutta propria (dopo un po’ di anni incentrati esclusivamente sulla ricerca di materiale oscuro finito in naftalina), riuscendo a catturare il nome più importante della scena latin soul funk mondiale. Di origine afrofilippina, Joe Bataan, dopo 20 anni di assenza, mette in piedi un album entusiasmante grazie anche all’apporto del produttore e arrangiatore Daniel Callas. Call my name è un disco pieno di calore, una vertigine di suoni latini, sapientemente miscelati con r&b, soul, funk, jazz. Il disco inizia con il brano che dà il titolo al cd, un incontro tra Steve Wonder di Superstition, alcune partiture vocali di Jimmy castor bunch e la sensibilità esotica di Joe Bataan. Chick a boom è un pezzo pieno di pulsazioni funkstreets acide, con una carica micidiale, dove i riff chitarristici vengono incastrati divinamente in una base ritmica irresistibile: ideale per qualsiasi dancefloor. Disco consigliatissimo.

Filati Pregiati, elegantissima e morbidissima selezione curata da dj Robert Passera, assembla con un gusto sopraffino e una pungente dolcezza le migliori produzioni uscite negli ultimi tre anni in chiave bossanova lounge: ideale per muovere 4 passi sulla moquette o per accompagnare nuovi gracili orgasmi. Molti i nomi da tenere sottocchio da Paul Derrek a Dynamic 4 sino a nomi già consolidati come Montefiori Cocktail o il vulcanico Sam Paglia

(qui presente con Room 26, una cover di Lalo Schifrin; un pezzo super lounge strappalacrime). A proposito Sam, particolare attenzione meritano due ep usciti per la Cinedelic records, a tiratura limitata (500 copie). Il primo Stripped girl è proprio dell’hammondista, un lavoro, reso più avvincente dalla presenza di un remix (versione dilata coronarie di Pop Ensemble) che dimostra come la generazione cocktail abbia ancora molto da

dire. Il secondo Ep è dei Settebello Unlimited, un progetto che vede impegnati anche Checco Montefiori e Doktor zoil con Charango, un pezzo frizzantissimo, tra le cose latine migliori uscite negli ultimi anni, con un energia capace di muovere i malleoli più ostici (non è un caso che il pezzo sia presente nella nuova compilation curata da Ursula 1000 Ursudelica, per l’Eighteenth Street Lounge , etichetta dei Thievery Corporation).

Ottimo colpo per la Record kids, che è riuscita finalmente a far pubblicare per una etichetta italiana uno dei gruppi più elettrizzanti e supercool del panorama hammond groove ed acid jazz mondiale. I Link quartet giungono alla loro terza prova discografica, mostrando maturità con composizioni fresche e godibili, difficilmente rintracciabili in tanti gruppi italiani. Confermarsi dopo 2 album non è certamente facile, ma i Link Quartet superano brillantemente questa prova. Il disco parte con una cover dei maestri della library music, A.Hawkshaw & A.Parker dal titolo Move move move: una straordinaria rielaborazione piena di hammond groove supersonico con un ritmo scoppiettante e sublime. Il cd continua con una canzoncina pop Janine, delicatissima e sporca (che farà piacere ai francofili), e con la sensualissima Portofino vespa rider. Insomma Italian playboys è una incantevole tentazione stracarica di motivi accattivanti. Consigliato per chi vuole raggiungere un elevato livello di appagamento psicofisico.

Giunto alla quinta fatica come solista, Rachild Taha ci regala un album dove il filo conduttore prioritario è un eclettismo genuino e spontaneo. Rachid taha è stato per un pò di tempo il fulcro dei Carte de sejour (permesso di soggiorno), gruppo notissimo oltralpe, soprattutto per la versione arabizzata di uno dei pezzi più famosi di Charles Trenet: ”Douce Franc”. Franco algerino, che mal sopporta la riduttiva, ma efficace etichetta di “Rocker di

origine araba”. Tekitoi presenta forti componenti di musica tradizionale nordafricana, intrisa di elementi elettronici ed industriali e una buona dose di sano rock. Un album che riesce senza fatica a coniugare il nord Africa con l’Europa. Tra i pezzi più riusciti c’è “tekitoi”, eccitante ed esaltante dotato di un’alta carica ipnotica; “winta”, una dilatata ballata agrodolce; ”shuf”, deliziosa e ipnotica”;

“rock el casbah” un omaggio a Joe Strummer trasformandola in electro algerin clash (il pezzo è presente anche nella compilazione dedicata a strummer, della capitol, con James Brown, Cheb Mami, Asian Dub Fondation etc). Un buon album per iniziare il 2005, che mette in evidenza come la forza del rock sia ancora la contaminazione.


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Falene Giancarlo Onorato Lilium - 2004

di Osvaldo

Andrea Chimenti Vietato Morire Santeria/ Audioglobe 2004

di Scipione

Pace e male Têtes de bois L’amore e la rivolta/il Manifesto CD - 2004

di Valentina Cataldo

Falbo Fausto Balbo Snowdonia/ Audioglobe – 2005

di Davide Castrignanò

Accogliamo sempre con piacere dischi come questo, dischi che testimoniano un rinnovamento della musica italiana. Giancarlo Onorato insieme a pochi altri alimenta il cantautorato italiano con nuova linfa e soluzioni che, restando fedeli alla tradizione, osano e spingono un po’ più in là il limite, gli schemi che per anni hanno trattenuto la nostra musica ancorata a suoni

e schemi. Basta guardare alle sue collaborazioni all’interno del disco (Paolo Benvegnù, Mario Congiu) per capire in quale landa sonora ci muoviamo. È la canzone d’autore, quella che fa eco ad artisti come Tenco e De Andrè, a intridere i brani di Falene. Un disco che non ha un genere pilota ma che si posa funzionalmente su arrangiamenti orchestrali o più rock senza disturbare un senso

di continuità stilistica e di umore che comunque il disco conserva. Il testo e la parola sempre in primo piano intessono storie che spesso incotrano la poesia di Anna Lamberti Bocconi che coofirma alcune tracce. Malinconico, notturno come l’habitat della falena, il nuovo album di Giancarlo Onorato conferma lo spessore di uno dei più apprezzati cantautori italiani.

Visto il successo di critica sembra quasi un dovere scrivere di questo particolare e interessante lavoro solista di Andrea Chimenti, ex leader del gruppo rock Moda. Invece è un piacere ascoltare e riascoltare Vietato Morire: undici poesie musicate e sussurrate dal cantante che giunge alla sua quarta opera solista. Un cd che parte piano, non da primo ascolto, che nulla cede alla commercializzazione di suoni e sensazioni. Sembra difficile ma poi resta, penetra con le note e con le parole scandite dalla voce roca di Chimenti. Prima della Cenere, Limpido, Il gioco, Cuore di Carne, il momento del passo, Tra la terra e il cielo sono tutti episodi diversamente interessanti che donano equilibrio al lavoro seppur in una atmosfera di globale malinconia. Molte belle canzoni che, come spiega l’autore “sono un po’ come le persone, ognuna è unica e irripetibile”. Le collaborazioni (più o meno celebri) sono numerose: Matteo Buzzanca, Massimo Fantoni, Steve Jansen (batteria) ad Alessandro Fiori e Enrico Gabrielli (violino e ance dei Mariposa), Gianni Maroccolo e Patrizia Laquidara.

Sul retro del corposo libretto che accompagna i due cd c’è scritto: “Pace e male è uno scatto in curva”. Ed è vero, non ci sono parole migliori per spiegare brevemente la nuova, ultima produzione dei Têtes de bois. Proprio come lo scatto in curva su una bici, quello più difficile, e il più importante anche, questo lavoro è altrettanto complicato e fondamentale per la carriera delle note teste di legno. Complicato perché quando te lo

trovi in mano non sai da che parte iniziare, ci sono canzoni e rivisitazioni, ci sono gli ospiti e le partecipazioni, c’è il video, le tracce audio, le interferenze vocali, le radiocronache, le previsioni del tempo, i rumori. Ci sono le poesie, le immagini, i racconti, le foto che fanno da contorno, e poi non tanto da contorno, forse, meglio, da co-protagonisti della loro bella musica. È complicato perché non puoi far altro che pensare a quanto sia

stato difficile assemblare il tutto in un lavoro che non sia troppo e non sia niente, ma che sia completo al punto giusto. Fondamentale, perché dopo ben dieci anni di attività e tre produzioni all’attivo questo cd rappresenta un gran punto d’arrivo. O di una nuova partenza. A cosa è dedicato questo disco? Agli anni ’60, alla lotta politica, “agli amori che nascono nonostante e ovunque”, al coraggio, “alla forza di partire, alla fortuna di arrivare”, agli scatti in curva.

Suoni e rumori, spesso a-ritmici, in un ‘taglia/cuci-copia/incolla’ di effetti acustici, timbri e segnali manipolati, riprodotti, remiscelati e rigettati al fine di dare nuove possibili movenze allo spazio sensitivo-musicale. Questo è “falbo”, nuovo lavoro del piemontese Fausto Balbo per Snowdonia. Sono 9 raccolte di frammenti sonanti tra anima e corpo, macchine e materia, ritmo e ossessione, vita e morte, razionalità e inconscio; sempre alla ricerca di un percorso da intraprendere per poi repentinamente interrompersi e calarsi schizofrenicamente su un nuovo ‘viadotto’ musicale. É ricerca, dite pure addio a velleitari fabbisogni di melodia; spesso è solo sequenza di diapositive sonore che spaziano (e spiazzano) tra campionamenti, sketch di filmati, frammenti di vita ed un riciclaggio inverosimile di sistemi e mezze capaci di produrre suono. Non per tutti, chiaramente, ma non fa male sapere che c’è e magari ascoltarlo. Alcune menzioni speciali: “Dubito” diverte, “Frammenti di un incubo” ti centrifuga la psiche (da evitare se si torna a casa ubriachi); “a volte i togni t’avvelenano” credo gliel’abbia suggerita ‘nu carcaluru’; “Crepuscolo” ti trascina in un incubo fantasy-hardcore dai forti accenti anarko-epici prima di lanciarsi nell’interessante “Scherzi da schermo” e nella psicotica “Insonne”.


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13 piccoli singoli radiofonici Aidoru Snowdonia/ Audioglobe - 2004

di Davide Castrignanò Zoo Psychology Ex Models cd French Kiss/ Lp Psychotica

di Gianpiero Chionna Cuckoo Boohoo A Toy Orchestra Urtovox – 2004

di Gianpiero Chionna

Superwolf Bonnie Prince Billy & Matt Sweeney Domino/Drag City – 2004

di Gianpiero Chionna

La traccia iniziale a base di progressive-elettronico (deliziosa) depista decisamente l’ascoltatore. I pezzi che seguono, infatti, procedono lungo percorso musicale con venature decisamente diverse, farcite di melodia, armonia e atmosfera, seppur mantenendosi su un campo pop-elettronico di fine (nuovo?) millennio. Nei vari “singoli radiofonici” si avverte la speziatura del punk, da cui sembra gli Aidoru traggano origine, la collaborazione con il teatro Valdoca, che emana influssi scenici in molte tracce (Io guardo spesso il cielo), il riverbero dei testi della scrittrice Mariangela Gualtieri e della voce di John De Leo (voce dei QuintoRigo) e Morena Tamborrino (attrice del teatro Valdoca). Il risultato finale è un lavoro che non dispiace, ricco di spunti musicali piacevoli ed interessanti, ma che, nella sua ricerca di nuove forme musicali, rischia di impelagarsi in strade già ampiamente tracciate e che risentono forti influenze di quel post-rock minimal-chic che va dai Sigur Ros agli Scisma. Le tracce migliori credo siano l’incalzante post-rockettara “Phase-difference”, l’epica straziante “Fas 3 bis” e la eclettica “Ni-roku”, anche se in quest’ultima, come per “Se dormi” e “Ossicine”, avrei sperato in una virata psichedelica (come avviene nella quasi lancinante “Fas 3 bis”) ben più ampia (ahimè, sono insaziabile!)). assolutamente interessante la rilettura del Preludio op.28 n.2 di Chopin, “Angelo-gnomo, che sembra un divertente jingle cantato da menestrelli e il bizzarro e surreale finale pop-swing di “Se la parola amore”. Gli Ex Models sono un gruppo di enorme grandezza, cotinuatori della no wave (o now (!)wave per i contemporanei...come vi pare) più estrema, provenienti tra l’altro da quella New York che ha dato i natali al genere e che sicuramente ha fornito ai nostri un’ottimo background. Ma gli Ex Models sono anche abili architetti di geometrie monolitiche, quasi dalle parti di certo math rock più d’impatto (Dazzling Killmen? Passatemela questa…), nonché giullari ironici e iconoclasti (e titoli come Fuck to the music ne sono la testimonianza). Chitarre affilate e penetranti come un trapano nel cervello fin dall’apertura di Fuck to the music, che travolgono ogni cosa come un rullo compressore ma al contempo talmente taglienti da arrecare “danni” ben più devastanti; reiterazioni spietate (Intro), voce chioccia alla Melt Banana in versione più “ragionata” e con un testo da urlare al posto dei deliri vocali dei nipponici; accordi dissonanti e atonali alla maniera della politica Skin Graft, sprazzi folli tribali (The password is pelican) e schizoidi in stile Naked City (Rip this Joint) e schegge di delirio noise che spingono a calci in culo gli Arab on Radar nei territori del grind. Di questi tempi un disco di rara bellezza. Salutati come una delle ultime rivelazioni dell’indie italiano, i A.T.O., già membri del gruppo post punk Mesulid, licenziano per Urtovox questo Cuckoo Boohoo, in cui si possono ritrovare tutti gli elementi cardine del genere. Aprono gli effetti sonori e le onde radio dell’intro Radio Tsunami e subito dopo le prime note di “Peter Pan Sindrome” fissano le coordinate: tocchi di pianoforte ed accordi di chitarre acustiche

si alternano a sferzate elettriche, in una miscela che troppo spesso ricorda le melodie degli Yuppie Flu (“Peter Pan Syndrome” e “Modern Lucky Man” sono imbarazzanti, sembrano quasi uscite da “Days bifore the Day”); ma ancora ballate romantiche ed acustiche (“Hengie: queen of the borderline” o “Elephant Man” con solo piano e voce o ancor la lenta bellezza di “ 3 minutes older”), piccoli accorgimenti di elettronica

(“Panic Attack #1”), e un’altra grande ombra che aleggia per il disco: i Blondredhead (sentire “Loco motive”). Certo un buon disco, fresco e malinconico allo stesso tempo, compagno ideale per un ritorno in auto dopo aver ballato tutta la serata, ma rimanendo intrappolati alla lunga in questi schemi che castrano l’originalità, dubito che possano diventare un punto di riferimento per le waves italiane.

L’ultimo dei crooner , Will Holdam, ci colpisce ancora con questa uscita in collaborazione con Matt Sweeney, frontman dei Chavez e chitarrista degli Zwan di Billy Corgan. A Sweeney il non facile compito di scrivere la musica per il nuovo re del folk, mentre Holdam si occupa dei testi. Compito non facile per Sweeney, si diceva, perché non è da tutti reggere il confronto con il genio del suo collega. Ma il buon Matt se la cava

egregiamente disegnando un folk scarno e rurale che si colloca a metà strada degli ultimi lavori di Holdam: tra l’attitudine più roots di Easy down the road e il romanticismo (e non romanticume badate bene!) di Masters and everyone riprendendo in buona parte proprio da quest’ultimo la linea melodica del cantato. Minimale la struttura dei pezzi con arpeggi di chitarra elettrica e accenni di fingerpicking, e qua e la rintocchi di piatti, timidi

organetti, e assoli in delay che riempiono i silenzi e avvolgono le note sparute e solo in casi più rari il folk si tramuta in rock venando di elettricità le chitarre. E a chiudere la voce di Holdam che pure discreta, sovrasta i pezzi, incerta e dalla sgraziata bellezza. Non chiamatelo il Jhonny Cash del 2000; Will Holdam è Will Holdam; punto. Uno degli ultimi raccontastorie, depositari dei sentimenti di tutti. Uno degli ultimi eroi.


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Paradiso Metamorfosi Progressivamente - 2004

di Nicola Pace

Exposures Dark Tranquillity Century Media / Self

di Nicola Pace Nigredo Diary Of Dreams Accession Records - 2004

Erano trentuno anni che non si sentiva parlare dei Metamorfosi. Nel 2004, con la collaborazione dell’etichetta romana Progressivamente, riprendono la loro attività artistica con Paradiso. Le composizioni sono un compromesso fra musica classica e rock, che incentrano il suono su voce, tastiere, basso e batteria con l’aggiunta sporadica di chitarra acustica, e prendono spunto concettuale dai versi della Divina Commedia (come nel 1973 con Inferno). L’opera rappresenta la salita di Dante al mondo celeste e attraverso la voce teatrale del cantante Jimmy Spilaterici ci racconta le sensazioni che il poeta prova nel vedere e sentire la beatitudine di quelle stelle. Si parte con l’intro, in cui vengono recitati i versi iniziali del Paradiso con in sottofondo un tappeto tastieristico etereo e cristallino, per poi passare a Sfera di fuoco dove la scura natura dell’uomo è aggredita dalla lucentezza paradisiaca dei raggi del fuoco. In Cielo di Marte il gruppo si scaglia contro la Chiesa per le crociate e per lo spargimento di sangue innocente in nome di Cristo. In Stelle fisse ed Empireo, ormai il viaggio è compiuto, dopo aver condannato i potenti ed essere passati per tutte le stelle, i Metamorfosi insieme a Dante arrivano al cospetto di Dio, rinascendo come nuovi uomini in un mondo pieno di speranze. Paradiso è un’opera magnifica, perfetta, senza nessuna sbavatura. I Dark Tranquillity festeggiano i quindici anni di carriera con un doppio cd e un dvd che vogliono rappresentare una retrospettiva del lavoro svolto in questo lungo periodo. Si tratta di un vero e proprio regalo per i fan. Nel primo cd sono presenti tracce rare appartenenti alle session di registrazione di diversi album (Projector, Haven e Damage Done). Tutti brani ricchi di sfuriate chitarristiche ( in pieno death-metal style), arpeggi melanconici, aperture melodiche di synth e clean vocals struggenti e suggestive. Proseguendo nell’ascolto troviamo i due brani di A Moonclad Reflection (EP del 1992) che ci riporta ad atmosfere più vicine al deathmetal old school. In conclusione una chicca: la ristampa rimasterizzata di Trail of life Decayed, demo del 1991, sintesi di estremismo sonoro, tipico dei primi anni novanta. Il secondo cd è la registrazione di un concerto tenuto a Krakovia, in Polonia, il 7 Ottobre 2002, da cui è stato prodotto anche un DVD. La scaletta è interessante e contiene i maggiori successi tratti da tutti gli album escluso Skydancer. Nel dvd (uscito per la stessa etichetta) oltre al concerto di Cracovia sono presenti altri tre mini concerti (Atene, Parigi ed Essen), inoltre interviste, video clip, biografia, discografia, foto gallery, art gallery. A due anni dal loro ultimo lavoro I D.o.D. tornano con questa nuova monumentale opera. Ho fra le mani il limited box ed. e vi assicuro che l’impatto è di grande effetto: artwork e musica si fondono in un tutt’uno dando la dimensione di questo lavoro. Il concept-album si snoda attraverso atmosfere intense, potenti, malinconiche, a volte claustrofobiche sfiorando gli angoli più profondi dell’animo di Adrian Hates (leader della band) e coinvolgendo sin da subito l’ascoltatore. Apre l’eccezionale Dead Letter, e brano migliore non poteva essere per introdurre a ciò che Nigredo è! Segue Giftraum che è il primo singolo tratto dall’album e probabilmente anche la traccia meno valida, nonostante la melodia accattivante e l’impatto da club-hit. Per il resto Nigredo è un lavoro oscuro, ricco di feeling dove la voce di Hates domina; da segnalare Reign of Chaos, Charma Sleeper, Portrait of a Cynic tra i migliori pezzi; con Psycho-logic e The Witching Hour, poi, la band sembra non dimenticare del tutto l’attitudine dance-floor. Un disco di ottima fattura in un momento di saturazione e superficialità del settore che, a mio giudizio, allarga il confine per le prossime produzioni. Consigliato!


CoolClub .it   Giulietto Chiesa Vauro Tutti i crimini del Comunismo Piemme 2004

di Pierpaolo

Federico Rampini San Francisco – Milano Laterza – 2004

di Fulvio Totaro

librodeldelmese mese libro T.C. Boyle Doctor Sex Einaudi

Il premier Silvio Berlusconi parla spesso, nelle sue filippiche formali e informali, del pericolo scampato in Italia nel 1994. Quando decise di candidarsi, fondando il movimento di Forza Italia, i comunisti avrebbero potuto prendere il potere mettendo in discussione la democrazia del nostro paese. Una delle cose sottolineate spesso dall’uomo di Arcore e dai suoi sono i crimini del comunismo. Il giornalista Giulietto Chiesa (quello con i baffi da bolscevico) e il vignettista Vauro (quello comunista che illustra e impreziosisce il Manifesto) tentano di analizzare questi crimini. La scelta ricade su dodici personaggi che hanno, come dire, cambiato casacca allontanandosi progressivamente dalle idee comuniste e riformiste e approdando nel fantastico modo del liberalismo di destra. Il padre di tutti i trasformisti è sicuramente Giuliano Ferrara, ex PCI ed ex informatore della Cia (così dicono gli autori), giornalista di varie testate (anche televisive) fino a diventare direttore della sua creatura “Il foglio”, ministro del primo governo Berlusconi e molto altro. Tra gli altri ribaltonisti il giornalista e padre d’arte Paolo Guzzanti, l’ex magistrato Tiziana Maiolo, l’ex presidente Rai Antonio Baldassarre, l’ex maoista Aldo Brandirali, la giornalista Rosanna Cancellieri, il mago dei sondaggi Gianni Pilo, l’ex direttore dell’Unità Renzo Foa, il comico Enrico Montesano, la giornalista Maria Giovanna Maglie e gli intellettuali Ferdinando Adornato e Sandro Bondi. Un volume divertente, irriverente e (per quelli di sinistra) deprimente. Forse non esiste il paese delle meraviglie, ma c’è una famosa città della California che sembra approssimarlo. Detta così è un po’ esagerata, ma l’immagine di San Francisco che viene fuori dalle descrizioni di Federico Rampini, inviato di Repubblica, è quella di una città modello: panorami mozzafiato, clima primaverile, senso civico, ricchezza e tecnologia. Leggendo le pagine del diario di Rampini si scopre che esiste ancora un’America progressista, civile e trasgressiva, severa e tollerante. Il libro è il racconto di una delle città americane più all’avanguardia in tutti i campi e in tutti i sensi (talvolta, sostiene l’autore, fino all’eccesso). A San Francisco sono nati il movimento per i diritti civili negli anni Sessanta e Google; i computer e Critical Mass. È qui che le donne sono al potere da un pezzo, è qui che sono stati celebrati i primi matrimoni fra gay degli Stati Uniti. Attraversando la sua breve esperienza di giornalista, professore e cittadino, Rampini ci racconta gli esami di guida, le lezioni universitarie, le regole di convivenza della città. Sembra quasi un invito al viaggio. Si intravede una morale nel paragone continuo con la città di Milano, presente anche nel titolo. Peccato per Rampini che il suo quotidiano l’abbia appena trasferito nel nuovo ufficio di corrispondenza a Pechino. Forse lì non troverà tutti i confort della West Coast.

David Foster Wallace è lo scrittore totale e massimalista per eccellenza. La sua prosa è raccolta organica delle situazioni di vita più disparate, è folle viaggio nel cuore di un’America erosa, moralmente bitume da dare in pasto a vacche sgozzate. David Foster Wallace è talento spropositato, è il superamento dei limiti imposti alle logiche contemporanee di produzione di intrecci, è finzione narrativa moltiplicata all’ennesima potenza e sparata nelle vene a centottanta all’ora. La conferma del suo talento smarginato viene dal suo ultimo testo, Oblio, otto superbi romanzi brevi, un libro, cito la quarta di copertina, che ci mette davanti agli occhi il corpo martoriato, eppure incredibilmente normale, della nostra società. Scrive il The New York Times: “Wallace è uno dei grandi talenti della sua generazione: uno scrittore capace di qualsiasi virtuosismo”. O, ancora, il San Francisco Chronicle: “David Foster Wallace non è mai compiaciuto delle proprie capacità letterarie… Alza la posta continuamente e quando la spunta il risultato è una prosa sorprendente e visionaria”. I titoli degli otto racconti, Mister Squishy, L’anima non è una fucina, Incarnazioni di bambini bruciati, Un altro pioniere, Caro vecchio neon, La filosofia e lo specchio della natura, Oblio, Il canale del dolore. Cito l’incipit di uno degli otto racconti. La filosofia e lo specchio della natura comincia così: “Poi proprio quando venivo messo in libertà alla fine del 1996 mia madre vinse una piccola causa per un prodotto difettoso e si affrettò a usare il denaro del risarcimento per un intervento di chirurgia plastica alle zampe di gallina che aveva intorno agli occhi. Solo che il chirurgo plastico combinò un pasticcio e la muscolatura del viso assunse un’espressione che la faceva sembrare sempre follemente spaventata. Saprete senz’altro che aria può avere il viso di un individuo nella frazione di secondo che precede l’urlo. Adesso mia madre era così”. Mister Squishy ha come tema centrale una merendina, e Wallace riesce a parlarne per 80 pagine filate e ben fitte, L’anima non è una fucina racconta la storia di una classe presa in ostaggio da un folle maestro, il quale sulla lavagna incideva con il gesso la sua volontà di ammazzare tutti i suoi alunni, Il canale del dolore si sofferma sulle capacità artistica di un uomo, il quale ha la fortuna di produrre merda che assume le forme di opere d’arte. Da qui l’interessamento massiccio e smodato dei mass media. Storie grottesche, surreali, raccapriccianti, tanto più stomachevoli perché ritratto fedele della nostra società alla deriva (e non mi sembra di esagerare). Rossano Astremo

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CoolClub .it   Marco Archetti Vent’anni che non dormo Feltrinelli Febbraio 2005 Marco ha studiato filosofia e ha smesso. Ha lavorato nelle toilette di un autogrill e ha smesso. Ha convissuto con una ragazza e ha smesso. Ha voluto una famiglia e ha smesso di volerla.

Andrea D’Agostino Mi mangiassero i grilli Fernandel Marzo 2005 Vinicio ha vent’anni, è siciliano cresce coi nonni. La nonna ha la tendenza a chiudere a chiave la porta della cucina. Il nonno, stanco dei digiuni scappa di casa e si rifugia da un cugino, nell’Oltrepò pavese.

Wu Ming 1 New Thing, Einaudi, Stile Libero Big

di Rossano Astremo

Camilla Corsellini La banda della Uno Bianca. Fratelli di sangue Bevivino Editore – 2004

di Pierpaolo

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Resistenza60 Fernandel Febbraio 2005 Nel 2005 si celebra il sessantesimo anniversario della Resistenza. Un’antologia in cui scrittori nati dopo il 1945 si confrontano con i valori e con il concetto di Resistenza.

Porti a termine la lettura di un romanzo scritto dal collettivo Wu Ming (Q, 54, Asce di Guerra) e senti attraversare nel tuo corpo un surplus di adrenalina che si attacca alle pareti dello stomaco generandoti dei giramenti di testa che non sai spiegare. Fai mente locale e ti rendi conto che è una sensazione che provi solamente quando ascolti un cd dei Raw Power, hardcore punk che devasta la psiche, quando rivedi in loop Jackie Brown di Tarantino, o quando scopi (è solo vaga immaginazione?) con

Giuliano Scabia Le foreste sorelle Einaudi Febbraio 2005 È l’aurora di un nuovo giorno: suor Gabriella passeggia nella campagna quando viene risucchiata in un letamaio e precipitata nel “mondo oscuro”. I suoi amici indagano sulla sua scomparsa.

qualche ragazza di diciotto anni tipo Martina Stella nel film di Muccino (come cazzo si chiama il film?), incontrata in un pub e conquistata con le tue menate sull’importanza nella poesia di oggi della performance, dell’unione tra il declamare versi e l’incursione di suoni. Poi ti capita tra le mani New Thing di Wu Ming 1 e comprendi che tutte le tue convinzioni sulla letteratura e su quello che gravita attorno necessitano di una nuova taratura. New Thing è ambientato a New York. Primavera del ’67. Dopo le

morti violente di alcuni musicisti dell’avanguardia jazz, la vox populi afroamericana diffonde la storia di uno sfuggente assassino, il “Figlio di Whiteman”. Quarant’anni dopo, nell’America della “War on Terror”, una compagnia di reduci racconta la storia della giovane cronista Sonia Langmut, scomparsa poche settimane dopo i fatti. Un narrazione corale avvolgente e piena di suspense. Un romanzo necessario. Da fare leggere agli accademici boriosi rinsecchiti tra le pareti caduche dei loro istituti.

Seppur a distanza di più di un decennio dalla famosa banda che insanguinò Bologna e la costa romagnola ancora oggi quando mi chiedono “che macchina hai” e io rispondo “una uno bianca” tutti fanno sorrisini ammiccanti fantasticando sulla presenza nel portabagagli di una ungherese o rumena. Insomma “La banda della Uno Bianca” di Camilla Corsellini (Bevivino editore) è un libro quanto mai di attualità. Dal 1987 e dalle prime rapine ai caselli autostradali, dal tiro a segno sugli immigrati alle rapine in banca, dalla strage del Pilastro (un quartiere di Bologna) agli assalti ai portavalori fino ai misterioso arresto il volume racconta la inquietante e incredibile storia dei fratelli Savi. Due poliziotti che trovano un pericoloso secondo lavoro. Omicidi e assalti misteriosi che costano la vita a 24 innocenti (e una novantina di feriti). Rapine fallite per non curanza e gente sparata alle spalle come in un tragico tiro al piattello. Sulla fine di questa tragica avventura malavitosa aleggia anche il sospetto dei servizi segreti. Come dire il solito mistero all’italiana. Questo è il primo volume di una nuova collana Wanted (il secondo titolo è Fra Diavolo di Simone Greco) della giovane casa editrice milanese Bevivino.


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Marco Paolini Teatro Civico (libro + dvd) Einaudi Stile Libero – 2004

di Francesco Lefons

Gianfranco Nerozzi Genia Dario Flaccovio Editore – 2004

di Bubu

A cura di Alessandra Chiappano e Fabio Minazzi Anno Domini 1968. L’immaginazione che voleva il potere Manni – 2004

di Pierpaolo

Adam Fawer Improbable Feltrinelli 2004

di Dario Goffredo

Quando il teatro esce dal teatro per diventare pungente realtà e si intreccia con nodi della dimenticanza di storie cancellate e di vittime sepolte da strati di tacita indifferenza, allora trapela la luce di vita delle parole che diventano fatti, personaggi, situazioni o forse solo azioni. Il teatro altro di Marco Paolini è tutto questo e “Teatro Civico”, (due DVD e libro) è un ottimo contenitore per apprezzarlo. Contenente la registrazione di cinque

monologhi (cinque storie vere di guerra, fame, velocità e menzogne) realizzati in teatro per la televisione pubblica (Report su Raitre), Teatro Civico racchiude in se tutta la semplicità della realtà di storie umane, vere, raccontate con straordinaria eleganza da Paolini, che fonde la dimensione intimistica del teatro con la forza della denuncia tipica del documentario. I monologhi, scritti dall’attore con Andrea Purgatori

e Francesco Piccolini, sono cinque bombe ad orologeria che scoppiano nelle coscienze di chi assiste, una carrellata di parole che diventano immagini, parole autentiche che riassorbono tutto il significato dei loro suoni, parole che rendono inquieti, zittiscono le retoriche dei se e dei forse, rendono la realtà al suo legittimo proprietario e svuotano l’inventario della superficialità per arrivare a grattare il fondo della verità.

Un esorcista serial killer uccide con agghiacciante ferocia membri del clero che stanno per recarsi al Convegno Eucaristico di Bologna presieduto dal Papa; una serie di efferati omicidi paralleli; un virus che attacca le vie respiratorie e distrugge le menti e le anime; le oscure manovre delle Opere Vigilanti, i servizi segreti vaticani; una sette segreta chiamata Superiori Sconosciuti. Pezzi di un intricato mosaico la cui soluzione risiede nella mente di un pericoloso assassino, il Conservatore, internato in un manicomio criminale. Su questi misteri è chiamato ad indagare il capitano dei carabinieri Michele Santonero, un uomo tormentato dai dubbi di fede e dal dolore per la sua compagna malata di cancro, cui spetta il compito di ricomporre il mosaico e scoprire la natura dei Lamenti, i demoni portatori di dolore di cui parla un antichissimo vangelo apocrifo. La trama, un sapiente mix tra horror e thriller, è una sorta di moderna apocalisse in cui dolore e orrore dettano legge. Leggere questo libro è come vedere un film horror anni settanta, comodamente seduto davanti allo schermo a guardare Lucio Fulci o il primo Pupi Avati (La casa delle finestre che ridono, da vedere assolutamente). Chi è delicato di stomaco si astenga dalla lettura. La salentina Manni propone una interessante rilettura dell’anno che cambiò (o rovinò) l’Italia e il mondo. “L’immaginazione che voleva il potere” attraverso gli articoli introduttivi di Fabio Minazzi (“Sul sessantotto e sul suo significato storico”) e Sergio Dalmasso (“Quegli indimenticabili anni ’60”, che consiglio a chi vuole leggere un rapido ma puntuale bignami di un decennio) e le testimonianze

di alcuni personaggi di quegli anni dona un quadro abbastanza esaustivo (nel limite di circa 130 pagine) dell’anno considerato meraviglioso o orribile, a seconda dei punti di vista. I testimoni sono la folk singer americana Joan Baez (che lancia qualche strale anche sull’attuale politica “assistiamo alla svalutazione di tutto ciò che è cultura. Bush si gloria di non leggere”), il leader del

movimento milanese Mario Capanna, il giornalista e direttore de l’Unità Furio Colombo (che parla de “L’America dei Kennedy negli anni sessanta”), il cantautore Francesco Guccini e la giornalista turca Zeynep Oral. Molto utili anche la cronologia e la bibliografia (entrambe su sessantotto e dintorni). Il volume è una versione ridotta del libro pubblicato dalla rivista “Il protagora”.

Feltrinelli si lancia nel mondo dei best sellers, e lo fa in grande stile presentando in anteprima mondiale questo romanzo d’esordio per un professore di statistica americano. E Improbable le carte in regola per diventare campione di vendite ce le ha tutte: una trama affascinante, un protagonista con un buon appeal, coprotagonisti interessanti e variegati, colpi di scena che si susseguono a creare un vortice di avvenimenti che

è quasi difficile seguire. il filone è quello del thriller classico alla Grisham e soci, la storia si può riassumere così: giovane studioso di statistica, affetto da epilessia e con il vizio del gioco d’azzardo, debitore della mafia russa, si trova invischiato in giro di spionaggio e controspionaggio internazionale, esperimenti medici su cavie umane e un dono inspiegabile di premonizione. C’è però qualche appunto da fare. La trama presenta

qualche deja vu un po’ fastidioso se ci si fa caso. La partita di poker iniziale, la bisca tenuta dal mafioso russo, lo stesso mafioso russo, ricordano in modo preoccupante un film di qualche anno fa: Rounders con Matt Damon. Certo il libro poi si sviluppa in maniera del tutto autonoma, ma rimane un po’ l’amaro in bocca. Nel complesso un libro piacevole da leggere scritto decisamente bene. Un’ottima opera prima.


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Massimo Carlotto Niente, più niente al mondo Edizioni e/o – 2004

di Gazza

Javier Cercas Il Movente Guanda Editore - 2004

di Annalisa Serpilli

Giambattista Avellino Il cono di luce del futuro dell’evento Instar Libri - 2004

di Bubu

Marco Pedone GRI. Galvanoplastiche Ramature Imola Fernandel

di Dario Goffredo

I giornalisti spesso quando vogliono calcare la penna sull’incredulità provocata da una notizia sconvolgente titolano “Una storia di ordinaria follia” (ripescando dal romanzo di Bukowski, dai film di Marco Ferreri o Richard Shenkman) o “giorno di ordinaria follia” (dal film di Joel Shumacher). Modi di dire per esprimere la sorpresa nei confronti di una soluzione finale che spesso conduce all’uccisione di mogli, mariti, figli, suocere. Eppure la spiegazione mentale (che all’apparenza non esiste) c’è quasi sempre: storie difficili, esaurimenti e depressioni, infelicità e passati inconfessabili. “Niente, più niente al mondo”, sottotitolo monologo per un delitto, di Massimo Carlotto racconta una famiglia italiana che viene sconvolta da un delitto (appunto) inaspettato. Una donna delusa dalla sua stessa vita, dal marito operaio (poi licenziato) a Torino e dalla figlia che la madre vorrebbe velina o comunque nel giro che conta. La spesa al discount, le difficoltà a tirare fino alla fine del mese, i figli da accontentare, la televisione e i personaggi da reality, il viagra e un amore bloccato fanno da cornice a una storia che si chiude tristemente. Un nuovo lavoro per uno degli scrittori italiani più prolifici degli ultimi anni che passa con disinvoltura dai romanzi alla sceneggiatura per cinema e teatro. Una racconto ironico e straziante di tutta la società italiana dilaniata dal consumismo e abbagliata da modelli sbagliati. È il secondo caso letterario per Javier Cercas dopo “Soldati a Salamina”. II titolo del nuovo romanzo breve è “Il Movente”. È un meta-romanzo, o meglio un romanzo che racconta se stesso. Il protagonista si chiama Alvaro, un avvocato col pallino della letteratura. Appassionato di romanzi e poesie decide di scrivere un libro. Così inizia la sua indagine tra gli inquilini del suo palazzo. Seduce la portinaia, apposta registratori per spiare le conversazioni altrui e impara a giocare a scacchi. Tutto solo per trovare spunti e situazioni reali da poter descrivere nel racconto. Il protagonista diventa un deus ex machina delle vite dei suoi vicini di casa. Li mette alla prova, li usa, li avvicina e li allontana come un burattinaio con le sue marionette. “Alvaro prendeva seriamente il suo lavoro. Si alzava ogni giorno alle otto in punto”. Così inizia e così si conclude questo racconto. La narrazione si confonde con l’evento narrato e chi dovrebbe essere descritto descrive a sua volta. Realtà e finzione si confondono. “Il flusso dell’ispirazione letteraria” e “il rigore del piano generale che un’opera impone” sono gli assi su cui Alvaro costruisce la sua opera e sono i cardini de “Il Movente” di Cercas. Nel romanzo che descrive se stesso, il racconto, spiega l’autore, e ciò di cui parla Alvaro in realtà sono il libretto di cento pagine che il lettore tiene in mano. Acromatopsia: difetto della vista che impedisce di distinguere i colori e che causa intolleranza alla luce. Per questo motivo un uomo solitario e misantropo, incapace di intrattenere qualsiasi relazione con chiunque, accetta un posto di guardiano notturno in una fabbrica ipertecnologica con il compito di sorvegliarla dal silenzio della sua garitta attraverso le telecamere del circuito interno, registrando ogni movimento sospetto. La regolarità assoluta che impone alle giornate, scandite dalla successione sempre uguale delle immagini sui monitor di controllo, e la fuga dalla luce acuiscono i suoi problemi. Poi qualcosa cambia; prima un’ombra irrompe nella sua vita e lo spiazza, poi una donna sensuale ed enigmatica penetra nell’isolamento notturno della fabbrica e rompe l’apatia emotiva del guardiano rendendolo complice quasi inconsapevole di un duplice omicidio. L’uomo va in cerca di questa donna inafferrabile, che compare e scompare a suo piacimento e gioca con lui al gatto e al topo; ma seguendo piste improbabili e imponendosi di relazionarsi con gli altri l’uomo riuscirà a scoprire chi, come e perché. Un buon esordio che la postfazione di Giancarlo De Cataldo ci induce a leggere.

Piccole storie per un piccolo paesino del nostro meridione, al limite tra la realtà e la pura fantasia, come tutte le storie che corrono di bocca in bocca. Storie legate a casalinghe contarbbandiere dal passato torbido e misterioso, a case che non si sa che cosa nascondano perché chi lo sa non ne parla, a mariti e amanti, a lunghi viaggi e uomini venuti da molto lontano. E sopra a tutto e a tutti

l’ombra di un delitto. Tutto questo, unito al linguaggio frammisto di italiano e dialetto salentino fanno del libro un lungo viaggio alla riscoperta delle radici, lì dove il contatto con la realtà quasi si perde nel fumo dei ricordi, delle dicerie, di vecchie foto sbiadite e ritrovate in soffitta. L’autore, romano, ma di origini salentine, compie un’operazione linguistica che ricorda un po’ Camilleri, un po’ Livio

Romano, per rimanere a casa nostra, ma riesce a mantenere un taglio originale e a raccontare storie che sembrano uscire dalla bocca del nonno di fronte al camino. L’unica cosa che mi chiedo, come al solito quando leggo libri in cui gli inserti dialettali sono così forti, è come faccia a leggerli chi questi dialetti non gli conosce almeno un po’.


CoolClub .it   Alla luce del sole Roberto Faenza Mikado - 2005

di C. Michele Pierri

Alexander Oliver Stone Warner Bros - 2005

di C. Michele Pierri

libro del mese Ray Taylor Hackford T.C. Uip -Boyle 2005 Doctor Sex Einaudi

La vera storia di don Giuseppe Puglisi, che nel 1990 fu chiamato dal vescovo di Palermo perché si occupasse di una parrocchia nel quartiere Brancaccio di Palermo e che in due anni riuscì a costruire un centro di accoglienza, attraverso il quale dare una mano ad un sacco di ragazzini che vivevano di criminalità. Tre anni dopo il suo arrivo al quartiere Brancaccio, il prete fu ucciso il giorno del suo compleanno, perché togliendo i bambini dalle strade, li toglieva ai boss, che li sfruttavano per i loro loschi affari. Questa la storia di un film che ha incontrato notevoli difficoltà e che tuttavia, nonostante una certa approssimazione, è un prodotto ben accetto per le tematiche che affronta. Pino Puglisi è un martire, e Faenza rende il suo martirio un atto di ribellione contro un ordine precostituito apparentemente immutabile, ma anche una testimonianza di fede, grazie anche all’intensa interpretazione di Luca Zingaretti. Il regista non ha alcuna indulgenza per i cosiddetti uomini d’onore, che anzi vengono mostrati come uomini bestiali, portatori solo di violenza. In definitiva non bisogna mai distogliere lo sguardo da un problema sociale che ci riguarda tutti e che meriterebbe costantemente più attenzione.

La vita del mitico Alessandro Magno, vista dall’occhio affascinato e controcorrente di Oliver Stone e mediata dagli studi dello specialista Robin Fox Lane, professore a Oxford. Arriva finalmente in Europa e prova a rifarsi del flop statunitense questo peplum dalle tinte chiaroscure che ci offre una nuova immagine del conquistatore, molto più “classica” a partire dai tanto discussi accenni omosessuali. Persi nell’enfasi dell’onnipresente colonna sonora di Vangelis, si muovono gli attori: Colin Farrell, promosso a star, offre ad Alessandro la giusta carica spirituale; Val Kilmer è un Filippo orbo di un occhio feroce e grezzo, Angelina Jolie è un Olimpia bellissima, esotica ed ambigua (anche se per metà del film paradossalmente più giovane del figlio), mentre Anthony Hopkins finalmente smette di fare se stesso per ricominciare a recitare nelle vesti di Tolomeo. Forse sarà per i tempi limitati della produzione ( solo 94 giorni ), ma a differenza del Re Macedone, mai sconfitto in battaglia, Stone perde invece la sua sfida cinematografica e non riesce a raccontarci, forse come avrebbe voluto, il genio militare, la rivoluzionaria carica e la sfida all’impossibile del suo protagonista. Grande, troppo grande anche per lui.

La vita di un uomo che ha cambiato la musica. Così si potrebbe riassumere Ray, ultima fatica di Taylor Hackford, musicologo ed appassionato, prima ancora che cineasta e ritrattista di talento. Girato con l’aiuto di Charles, che non ha dovuto aspettare di morire per creare attorno a sé l’alone del mito, questo film si presenta come un’opera senza dubbio limitata, come non può che essere il racconto di una vita, ma certamente riuscita. Riuscita per tanti motivi, un po’ perché descrive alti e bassi di un’esistenza segnata da miseria ed eroina, un po’ perché non ha mai la pretesa di essere esaustivo e perbenista, cosa abbastanza frequente. Tuttavia non riesce a scampare dalle grinfie di una certa accademia, alla quale si concede di tanto in tanto e che rappresenta l’unica concessione alla Universal, madrina monetaria del progetto. Inutile dire che le note più azzeccate sono di sicuro quelle delle stesso Ray Charles, di una colonna sonora eccezionale che contiene pezzi storici ed immortali, anch’essi diversi per periodo e tematiche e scelti accuratamente. Di ottimo stampo anche l’interpretazione del protagonista Jamie Foxx (Collateral), che si dimostra all’altezza del compito, così come il resto del cast, e indossa i panni, la passione ed il sorriso di chi seppe fondere il blues, il gospel, il jazz ed il rock’n roll in un’unica melodia capace di infiammare un’intera nazione Difficile raccontare adeguatamente (un altro dei limiti) una storia con forti salti temporali come questa, segnata anche da grandi incontri come quello con Aretha Franklin e Quincy Jones e che spazia dall’infanzia in Georgia alle leggi razziali e l’impegno politico. Ancora più arduo disegnare con precisione scenografie che raccontino un’America profondamente mutata negli anni. Detto ciò ci si può soffermare su quella che è la vera essenza del film che riesce a trasmettere emozioni vere e che scampa dal ripetere l’ennesimo lungometraggio musicale, evitando di lasciare quel brutto sapore di “già visto”. Perché Ray si caratterizza per essere un’opera fatta col cuore, depositaria del messaggio che lo stesso Charles con la sua presenza ci ha lasciato. Un messaggio di passione ancora prima che di successo, di voglia e di talento vero, messo al servizio degli altri attraverso la sua “missione”, malgrado il suo handicap. In fondo anch’egli non ha mai smesso di ironizzare su quelli che erano il suo compito e la sua attitudine. Ed è così che sarebbe bello ricordarlo, come un uomo a cui in fondo la vita ha dato tutto, ma ha tolto la vista per impedirgli di sbagliare strada. Michele Pierri

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CoolClub .it   Ingannevole è il cuore più di ogni cosa Asia Argento Tratto dal best-seller autobiografico di J.T. Leroy, è la storia di un’infanzia rovesciata, vista dagli occhi di un bambino, Jeremiah, e di sua madre, Sarah, una giovane donna che si prostituisce ai camionisti nel sud degli Stati Uniti. In questi ambienti Jeremiah impara e cresce.

The resurrection Sun-Woo Jang Ju, appassionato di videogiochi, seguendo il volo di una farfalla, viene catapultato in un gioco tratto da “La piccola fiammiferaia”. Il limite fra realtà e gioco è sempre più labile e il giovane si ritrova innamorato della fiammiferaia che dovrà salvare, combattendo il sistema.

Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio (DVD) Daniele Ciprì e Franco Maresco Lucky Red/ Istituto Luce – 2004

di Pedroso

Un bacio appassionato Ken Loach

di Dario Quarta

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36 Quai des orfevres Olivier Marchal Il capo della polizia di Parigi, Robert Mancini ha promesso ai suoi due più stretti collaboratori, Leo Vrinks e Denis Klein che chi riuscirà a sgominare una banda di malviventi che semina il terrore a Parigi da mesi, prenderà il suo posto diventando il grande capo del 36 Quai des Orfevres.

Il successo di pubblico e l’insuccesso di critica di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia è forse tutto nella frase, un po’ maliconica e un po’ orgogliosa, di Franco “nel 1964 girammo insieme 17 film”. Più che lungometraggi erano fiction, più che film erano recite con un canovaccio. La carriera dei due palermitani sin dagli esordi in strada e nei piccoli teatri da avanspettacolo viene ripercorsa da due registi conterranei, che per estrazione ed

Nicotina – La vita senza filtro Hugo Rodriguez L’azione si svolge in tempo reale tra le 21,17 e le 22,50 di un giorno d’autunno. Lolo è un hacker esperto, ma un giorno commette un errore. Scoppia così il caos a Città del Messico, le strade diventano un campo di battaglia dove cinque personaggi si scontrano per trovare 20 diamanti scomparsi.

esiti cinematografici sono quanto di più lontano dalla coppia di comici. Ciprì e Maresco omaggiano Franco e Ciccio con un documentario godibile, ricco di notizie e di immagini di repertorio, raccontano lati positivi (i successi al cinema e in tv, il sodalizio vincente) ma anche quelli negativi (le crisi, le divisioni, i problemi economici). Una particolare e doverosa attenzione viene riservata alla vicenda giudiziaria che coinvolse e sconvolse Franchi tirato

in ballo per questioni di mafia e poi scarcerato. Quella vicenda però lo turbò profondamente e fu sicuramente una delle cause della morte prematura nel 1992. Una carriera che passa da parodie come l’Esorciccio, Ultimo tango a Zagarolo, Il bello, il brutto e il cretino e Indovina chi viene a merenda e si chiude cinematograficamente con la Giara di Pirandello nel film Kaos dei fratelli Taviani. Due validi comici sacrificati sull’altare della quantità.

Per essere in tema con il numero del giornale dovrei dire che il film del maestro Ken Loach è davvero banale, scontato, una semplice (solo un po’ tormentata) storia d’amore, condita da un paio di normali scene erotiche. Anche il titolo è irrilevante. Ma da ex direttore, utilizzo quel poco di autorità rimastami per “non sparare” sul maestro. È un Loach anomalo, “in amore”, in questo suo Un bacio appassionato. Ma questo era già da tempo annunciato. Intanto, di mio, ho da dire che c’è una scena di eros che mi ha particolarmente coinvolto nella vicenda amorosa tra il bel pakistano Casim e la bionda irlandese Roisin. Attorno a loro il cuore del film; i loro mondi, tormentati “per colpa” del loro amore. È una storia vera, in cui i vincoli familiari, razziali, attanagliano l’uomo più che la donna; complicando un po’ le dinamiche di coppia. Problemi di vita interrazziale a Glasgow, tutto qui. Ma... è tutta qui la grandezza di Loach: quella di mettere tanta realtà in un film. Una realtà meno amara di altre “sue”, senza vero disagio sociale e con un “solo caso difficile”: l’amore. Un amore autentico, tra personaggi veri, che Loach ci fa vedere nella loro autenticità, nella loro essenza ed essenzialità. Senza fronzoli, e addobbi vari.


Ogni giovedì London Tavern – Lecce Appuntamenti dal vivo La musica dal vivo è protagonista nel giovedì del London Tavern, English Wine Pub di via dei Verardi a Lecce. Da qui passano i migliori musicisti salentini tra jazz e blues, rock e musica d’autore. Inizio ore 21.30. Ingresso gratuito. Info 347-1030913

Sabato 5 febbraio Istanbul Café – Squinzano Carnival Super Party Il Carnevale arriva con la sua carica di divertimento. All’Istanbul Café si balla in maschera con le selezioni di Tobia Lamare e Sonic The Tonic con una sfida all’ultimo disco e all’ultima mascherina. Ingresso con consumazione.

8 febbraio Fondo Verri – Lecce Pelle Sporca

11 febbraio Istabul Cafè – Squinzano Robert Passera

19 febbraio Istabul Cafè – Squinzano Postman Ultrachic

Al Fondo Verri di Lecce Rossano Astremo presenta Pelle Sporca di Manila Benedetto, nuova uscita della collana di poesia Poet/Bar a cura di Mauro Marino per la casa editrice Besa di Nardò. La raccolta è introdotta da un saggio di Lello Voce (nella foto).

L’Istanbul Café avvia la sua programmazione dedicata alla musica nera. Apre il Soul Club con un ospite molto interessante. In consolle sarà infatti il dj parmense Robert Passera. Ingresso con consumazione

Il sabato dell’Istanbul Café ospita il re salentino del lounge e dell’easy listening. In consolle dj Postman Ultrachic e le sue evoluzioni musicali. Ingresso con consumazione.

17 febbraio Aula Magna Ateneo - Lecce Daniele Luttazzi Unione degli Universitari e circolo Arci di Lecce Zei presentano l’ultimo spettacolo di Daniele Luttazzi Bollito Misto con Mostarda, un viaggio satirico tra politica e scottante attualità che non risparmia davvero nessuno. Info 0832296060

Africa Unite Omaggio a Bob Marley Addis Abeba - Etiopia 6 febbraio 2005 di Michele Traversa

Africa Unite è il nome del Festival, voluto dalla Bob Marley Foundation e dalla Rita Marley Foundation con il concorso del Governo Etiopico e dall´Africa Union in rappresentanza di 53 paesi. L´evento si

8 febbraio Chlorò – Calimera Karate Martedì grasso imperdibile al Chlorò di Calimera. Sul palco gli statunitensi Karate e i baresi Skills. A seguire selezione musicale a cura dei dj CoolClub. Inizio del concerto ore 22.30. Ingresso 10 euro.

18/19 febbraio Cantieri Koreja - Lecce Zavattini

22 febbraio Candle - Lecce Bassholes

Di scena uno spettacolo dedicato a Cesare Zavattini, giornalista, scrittore, pittore, sceneggiatore, considerato uno dei fondatori del neorealismo. Sipario ore 20.45. Ingresso € 10,00 - Ridotto (under 25 over 60) € 7,00. Info: tel.0832.242000 -info@teatrokoreja.com

Sul palco del Candle di Lecce saliranno gli statunitensi BassHoles. Suono infuocato ed irresistibile garage Rock n Roll nella tradizionale formula chitarre e batteria. Ingresso con consumazione. Inizio fissato per le 22.30. Info 0832303707 – www.coolclub.i

terrà ad Addis Abeba, la “terra promessa” di Bob, per tutto il mese di febbraio 2005 per celebrare il 60° anniversario della sua nascita. Un mese ricco di avvenimenti con un nutrito programma di manifestazioni, mostre fotografiche, di pittura, di artigianato e gastronomia, conferenze, dibattiti e film festival, voluti al fine di creare un dialogo sereno e corretto per la promozione di reali soluzioni politiche e sociali che possano portare alla realizzazione del sogno che fu di Bob

Marley e non solo: un´AFRICA finalmente UNITA. Momento clou delle celebrazioni: un indimenticabile concerto che si terrà nella piazza centrale “Maskel Square” di Addis Abeba, il 6 febbraio 2005, nel giorno del sessantesimo anniversario della nascita di Robert Nesta Marley, occasione in cui la salma del re del reggae verrà trasferita dalla Jamaica alla sua amata Africa. Info: www. africanexplorer.com; www.bobmarley.com/africaunite; www.oneloveafrica.it


24/27 febbraio Lecce L’arte di Pippo Delbono

4 marzo Istanbul Café – Squinzano Cesare Basile

5 marzo Candle – Lecce Giorgio Canali

Residenza artistica di quattro giorni con il commediografo Pippo Delbono. In scena Gente di Plastica, Barboni e Il tempo degli assassini. Venerdì spazio al cinema con Guerra. Info: 0832/242000.

“Gran Calavera Elettrica” è il titolo del quarto capitolo solistico di Cesare Basile ed il primo suo disco pubblicato su etichetta Mescal. Ingresso con consumazione. Inizio ore 22.30. Info 0832/303707.

Il nuovo progetto del chitarrista ex Csi Giorgio Canali, Rossofuoco, torna nel Salento. L’appuntamento con il graffiante rock della band è al Candle di Lecce. Il giorno prima il gruppo sarà di scena al circolo Arci Agorà di Bari.

martedì 1 febbraio - teatro Servo di scena al Teatro Moderno – Tricase (Le) dal 3 al 5 febbraio - teatro La bisbetica domata ai Cantieri Koreja – Lecce giovedì 3 febbraio - musica Offside al Wallace Pub - Lecce Blek Aut al Jack & Jill – Cutrofiano (Le) Gianfranco Rizzo Soul Band al Soirèe Castrignano dei Greci (Le) Nada e Massimo Zamboni al Politeama di Bisceglie (Ba) Diaframma e Cadabra a Gioia del Colle venerdì 4 febbraio - musica Gilas Experience all’Estrò café Maglie(LE)

giovedì 10 febbraio- musica SublimeFollia all’Heineken Green Stage - Tricase giovedì 10 febbraio – cinema La mala education di Pedro Almodovar al Cinema Elio - Calimera (Le) Giovedì 10 febbraio - teatro Sette contro Tebe, Teatro Schipa, Gallipoli venerdì 11 febbraio – musica Gilas Experience al Transilvania Horror Rock Cafè - Lecce Dinamo Rock Caledonian pub - Lecce sabato 12 febbraio – musica Montecarlo Night all’Istanbul Squinzano (Le) Franklin Delano all’Agorà – Bari

Dinamo Rock al Calaluna - Marina di Andrano (LE) Nada e Massimo Zamboni allo Zenzero – Bari Diaframma e Cadabra a Carovigno (Br) Kalibandulu + Shapeka all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) venerdì 4 febbraio - teatro Morte tua, vita mea al Teatro Illiria – Poggiardo sabato 5 febbraio – musica Francesco Renga al PalaAndria di Andria (Ba) Martedì 8 febbraio – cinema La vita che vorrei al Santalucia - Lecce dal 9 al 12 febbraio -teatro Molto rumore per nulla ai Cantieri Koreja - lecce

domenica 13 febbraio – musica Chiaroscuro a Tuglie lunedì 14 Febbraio - teatro Tartufo ovvero l’impostore, Teatro Fasano, Taviano Martedì 15 febbraio - cinema Ferro 3 al Santalucia - Lecce mercoledì 16 febbraio – musica Andrea Pozza Trio (JazzLe) al Teatro Paisiello - Lecce Mercoledì 16 Febbraio – teatro Nannarella, Teatro Elio, Calimera Molto rumore per nulla, Teatro Moderno, Maglie giovedì 17 febbraio - musica Blood Sugar all’Heineken Green Stage - Tricase (LE) Lisergica al Wallace - Lecce Selezioni provinciali Arezzo Wave al

Candle - Lecce giovedì 17 febbraio – cinema Il segreto di Nora Drake di Mike Leigh al Cinema Elio – Calimera (Le) giovedì 17 Febbraio - teatro Nannarella, Teatro Moderno, Tricase Le follie del monsignore, Tetro Fondazione Filigrana, Casarano venerdì 18 febbraio – musica Dinamo Rock al Phoenix - Zollino (Le) Selezioni provinciali Arezzo Wave al Candle - Lecce Sabato 19 febbraio – musica Gotan project Dj set feat. Philip Cohen Solal allo Zenzero (Ba) giovedì 24 febbraio – musica Crusca al Jack’n Jill – Cutrofiano Sergio Cammariere al Teatro Team (Ba) giovedì 24 febbraio – cinema 2046 di Wong Kar-wai Cinema Elio – Calimera (Le) giovedì 24 Febbraio - teatro La Mandragola, Teatro Fasano, Taviano venerdì 25 febbraio - musica Petra Magoni e Ferruccio Spinetti allo Zenzero - Bari Sergio Cammariere al Teatro Impero – Brindisi Soul Club all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) sabato 26 Febbraio - teatro Tartufo ovvero l’impostore, Teatro Illiria, Poggiardo Sabato 26 febbraio - musica Skapace all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) domenica 27 febbraio – musica Talea a Tuglie domenica 27 febbraio - teatro Nati sotto contraria stella, Teatro Fondazione Filigrana, Casarano martedì 1 marzo - teatro Tina fai presto, Teatro Elio, Calimera Martedì 1 marzo – cinema Camminando sull’acqua al Santalucia - Lecce

Ripartono i corsi di Zei Dal 14 febbraio parte nella nuova sede del circolo Arci Zei di Lecce un corso di Illustrazione e fumetto che durerà una settimana ed avrà un carattere intensivo (circa 8 ore di lezione al giorno). Oltre a questo corso sono previsti corsi di Capoeira, teatro, e altri ancora per proseguire il lavoro svolto da Zei lo scorso anno. Per informazioni sul corso: frigidaire1975@libero.it. Per informazioni sulle iscrizioni: zei@zei.le.it


CoolClub .it   CUI JIAN: IL

KEEP COOL.

PADRINO DEL ROCK CINESE Quella dell’estremo oriente è una realtà musicale che riusciamo a malapena a percepire e che ovviamente non riusciamo a comprendere (e non solo a causa della lingua), ma in Cina da più di vent’anni vive un autentico artista. Sono passate più di due decadi da quando nel 1983 Cui Jian (si legge Zuè Jièn) ha fatto ascoltare il rock alla sua nazione, f a c e n d o tremare i potenti spesso costretti a dover censurare la sua voce, forte e dolorosa allo stesso tempo. Nella Cina dei primi anni 80 era possibile ascoltare esclusivamente musica popolare, gli album rock sotto il regime erano banditi e i ragazzi potevano entrarne in possesso solo duplicando le cassette che gli studenti stranieri portavano con loro. Cui Jian ha cominciato la sua carriera suonando la tromba nell’Orchestra Filarmonica di Pechino ma appena ascoltati i nastri di “cattivi ragazzi” come Beatles, Rolling Stones e Police ha iniziato, ed è stato il primo, a fare del rock. Ha cominciato così a suonare nei locali pechinesi facendosi conoscere e apprezzare, e nel 1986 ha partecipato all’Year of the World Peace Concert durante il quale eseguendo la sua canzone tuttora più famosa “Nothing to my Name” (non inganni il nome inglese, è tutta in mandarino), è divenuto l’idolo dei giovani cinesi. Oggi è una grande star acclamata da milioni di persone in tutta l’Asia orientale, la sua è una carriera costellata di grandi traguardi: concerti alla Knitting Factory e al Roskilde Festival , apparizioni su MTV e CNN, concerti con i Rolling Stones e i Deep Purple. Eppure lui stesso non crede di aver raggiunto l’apice: “ho molti progetti, molte cose ancora da fare”. In effetti ad aprile il quarantenne cantante cinese è stato ancora una volta in tournee in America ed ha suonato su rinomati palcoscenici come il Fillmore di San Francisco e il Moore Theatre di Seattle. Cui Jian attacca l’easy listening e propone un rock eclettico, i suoi album sono molto diversi tra loro e all’interno di uno stesso cd ogni canzone segue un proprio percorso musicale che va dal jazz allo ska, dalla fusion all’hip hop all’elettronica non senza un tocco di musica popolare cinese; esempio lampante di tale varietà è il suo quarto cd “The power of the powerless”. Ogni album è fortemente voluto e studiato in modo quasi maniacale per garantire la qualità della musica ma anche dei testi, costantemente limati poiché come lui stesso asserisce: “la musica non deve solo divertire ma anche occuparsi di cose serie”. Questa attenzione ai particolari ha come risultato soli quattro album in vent’anni di carriera. Alla maniera dei più grandi Cui Jian è un artista che si reinventa, che cerca continuamente stimoli anche fuori dal pop rock canonico, non fa infatti mistero della sua attuale passione per l’hip pop: “hip pop is like a big wave”, mi ha confidato durante un’intervista a Berlino. Rock made in China, suona strano, ma suona bene, ed è forse l’unico risvolto positivo della tanto discussa e discutibile globalizzazione. Alfredo Borsetti

Nell’Impero Celeste oltre all’economia cresce anche la musica.

DAGLI STATI UNITI KARATE E BASSHOLES

Rock, punk, folk, noise, elettronica, indie, lo-fi, beat sono gli ingredienti fondamentali della prima edizione della rassegna Keep Cool organizzata dalla Cooperativa CoolClub, con la direzione artistica di Cesare Liaci. Cinque concerti per tentare, con una programmazione interessante ma non eclatante, di mettere al centro dell’attenzione progetti e artisti (lontani dalla pizzica e dal reggae) che possono donare nuova linfa ai musicisti (soprattutto quelli più giovani) che in questa terra crescono. Un ritorno ai suoni più duri del garage e del punk, senza disdegnare folk e sperimentazione per riportare la calma in un mondo musicale che sembra impazzire dietro cifre

astronomiche e successi meteora. La rassegna internazionale, dopo il prologo francese con Angle, Sylvain Chauveau e Arca, prosegue martedì 8 febbraio al Chlorò di Calimera con il concerto dei Karate. La storia dei Karate comincia a Boston circa dieci anni fa, musicisti usciti freschi dal conservatorio jazz mettono su questa band che in cinque album registrati negli ultimi otto anni è riuscita a fondere generi e stagioni musicali accostando a una grande padronanza tecnica un’eleganza e un’intensità espressiva rare nell’ambiente alternative. Capitanati dal cantante, chitarrista Geoff Farina arrivano al loro primo album nel 96. Il disco omonimo ha già dentro tanto di quello che i Karate avrebbero portato avanti e sviluppato e anche tanto altro che la maturità gli avrebbe fatto mettere da parte. Innanzitutto una struttura libera nella scrittura dei brani, mai vincolata agli schemi classici della canzone che sorprende all’ascolto, capace di prenderti alla sprovvista. Poi c’è l’essenzialità di alcune tessiture strumentali asciutte e precise, le grandi aperture, la voce inconfondibile di Geoff che tante ne ha ispirate, una tendenza in linea di massima emo ma anche altro, molto di più. Gli anni e i dischi passano. Il 97 è l’anno in cui la band raddrizza il tiro con un nuovo disco In Place of Real Insight e in cui si riassetta la formazione passando all’odierno trio. La vena più rock si ammorbidisce lasciando intravedere sfumature più jazzy e lounge [Unsolved (2000), Cancel/Sing (2002)]. Oggi questo Pockets. I toni si smorzano ma si fanno allo stesso tempo più spessi. La chitarra di Farina adesso corre tra i confini della melodia e si poggia leggera su parole pesanti che mai come prima guardano ai contenuti. Basso e batteria sono un orologio che scandisce uno di quei dischi che non si fatica a definire “della maturità”. È qui che tutto l’ascoltato, l’assorbito in anni di esperienza diventa

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CoolClub .it   utile, strumento espressivo a 360° gradi. Conservando le caratteristiche scalate in minore o le aritmie perfette, quel circolo vizioso che da dispari torna pari i Karate sfoderano un suono nuovo. A tratti sembra di riconoscerli (Concrete) ma poi ti sfuggono (Water) in una semi bossa. I chitarroni di un tempo lasciano il posto a reverberi a molla, a cadenze quasi blues. Pockets dimostra come si può essere pesanti senza necessariamente pestare su corde e pedali e lo fa semplicemente in fondo, senza tanti orpelli. Tow truck riesce a condensare spirito easy, istinto Jazz (sentite le scale di basso), attitudine rumoristica. Una continua fucina di spunti per una nuova ricerca musicale, forse questo sono oggi i Karate. Se vi aspettate un disco rock forse non rimarrete pienamente soddisfatti ma se avete orecchie e mente aperta non potrete non rimanere sorpresi. La rassegna ospiterà ancora un gruppo statunitense. Al Candle di Lecce il 22 febbraio spazio alla carica esplosiva degli statunitensi BassHoles. Suono infuocato ed irresistibile garage Rock ‘n’ Roll nella tradizionale formula chitarre & batteria. Osvaldo

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THE NEW YEAR OF COOLCLUB

Il primo numero del 2005 di Coolclub.it. Il secondo numero a colori e con più pagine. Un argomento che richiama la ribellione dei figli contro i nostri padri. Un argomento che mi trova d’accordo a metà. D’accordo per la mia innata e continua inclinazione alla ribellione (non al ribellismo) e non d’accordo per una semplice constatazione anagrafica. Di quale generazione faccio parte io? Non sono pochi i miei amici con prole e quelli coniugati, di cui faccio parte anch’io del resto. Quindi sono o non sono io stesso un rappresentante della generazione dei padri? Sono tra i più vecchi che scrivono su queste pagine e quindi probabilmente i miei amici non condivideranno queste considerazioni. E un’altra cosa mi viene da dire. Sì è vero faccio parte della generazione dei padri. Ma che generazione è la mia? L’hanno definita in tanti modi, da generazione x a generazione shampoo eccetera. Ma in realtà sembra essere una generazione che sfugge a tutte le definizioni, compresa quella di generazione stessa. Sui trentenni di oggi hanno fatto un sacco di film, scritto libri e romanzi, pubblicato dati di sondaggi vari, ma niente da fare, continua a sfuggire un comune denominatore. Tranne uno forse: la mancanza di fiducia e di prospettive. Quanti sono

i miei amici che sono sicuri di percepire una pensione quando sarà il momento? Non più di tre o quattro. Quanti sono quelli che possono sperare di vedersi concedere un mutuo per l’acquisto di una casa? Non più di tre o quattro. E quelli che affrontano l’idea di fare figli con serenità? Pochi, anche loro. Mio padre sta per andare in pensione, è soddisfatto, ha lavorato una vita per arrivare a questo momento, per avere la sicurezza di potere affrontare gli anni a venire con serenità. Lo invidio molto, lo confesso. Invidio le sue certezze conquistate con la fatica. E odio la sua generazione. Che ha fatto in modo che la mia di certezze non ne potesse avere, decostruendo con leggi e leggine decenni di lotte sindacali e popolari, gettando nel dimenticatoio pubblico le notti in carcere, le morti di chi ha lottato perché i nostri padri, almeno loro, potessero andare in pace in pensione. E così si apre il 2005, che speriamo sinceramente si apra con dei segnali più positivi rispetto a quelli con cui si è chiuso il 2004. Ma, l’ho già detto, geneticamente mi manca l’ottimismo e la fiducia e quindi, sinceramente non credo che le cose cambieranno, né per i precari italiani come me, né tanto mano per le sorti delle popolazioni “svantaggiate”, usando uno dei tanti

eufemismi che cancellano le disparità e le asperità. Eufemismi che servono a dirci che va tutto bene, non c’è nessun problema, come direbbe Antonio Albanese. Per noi il 2005 sarà un anno importante. Alcune novità già le conoscete, come il giornale a colori e il nuovo sito che vsitate sempre più numerosi; altre novità ve le abbiamo annunciate, come la campagna associativa a Coolclub, nella quale abbiamo molta fiducia. Da oggi è possibile infatti diventare membri dell’associazione culturale CoolClub. Abbiamo pensato a tutte le tasche e a tutti gli amici. Con 10 euro avrete la possibilità di ricevere questo giornale comodamente a casa vostra e di usufruire di sconti per i nostri concerti. Con 20 e 50 euro avrete inoltre la nostra maglietta e vari piccoli regali nel corso dell’anno. Speriamo che altre novità arrivino ancora, speriamo che qualcosa succeda in questo Paese e in questo Sud e in questa città. Gli spazi per l’agibilità delle nostre vite sono ancora ampi, ci sono ancora dei margini entro cui muoversi. Altri spazi invece ci sono negati come sempre. Non disperiamo, prima o poi qualcuno si accorgerà che a Lecce e in provincia mancano spazi pubblici per gli eventi indipendenti. dario



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