Coolclub.it n.23 (Marzo 2006)

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Amo queste quattro mura, questo confine confino in cui è il mondo a trovare casa. Annosa diatriba è il viaggio dell’abbandono che ignorare mi piace. Perché, a ben cercare, questa terra è piena di cose che non ti aspetti e invece ci sono. La sorpresa per chi ha orecchie e mani tese arriva come gli acquazzoni di marzo, all’improvviso, a cambiare i piani di una giornata. Già un anno è trascorso da quando, sempre in queste pagine, ci interrogammo sulla Puglia. Con la curiosità dei bambini più ci guardiamo intorno e più questo posto ci piace; testardi come i bambini ci incapricciamo e restiamo, e golosi come i bambini ne facciamo scorpacciata. È bello sentirsi a casa, ovunque essa sia. Le cose fatte in casa, diceva mia nonna, sono le più buone. In questo nuovo tour della regione ne abbiamo trovate di appetitose. Pugliesi senza il pallino dell’appartenenza, della cultura e della radicazione ma gente che vive e crea. La rivoluzione parte dal tacco, si potrebbe dire. Basta impugnare un tamburello, una chitarra o una penna per firmare la propria dichiarazione di libertà. Da questo ci siamo lasciati affascinare per questo nuovo numero di Coolclub.it. Da improbabili imprese, coraggiose scommesse, piccoli miracoli che la nostra terra ospita e che a questa appartengono anche se non lo diresti mai. Abbiamo scelto di dedicare la copertina a una band che sembra in vacanza dalle nostre parti, esule della terra di Albione, che ti aspetteresti di incontrare in un uggioso pomeriggio londinese e che invece trovi in un paesino a pochi chilometri da Lecce. Sono gli Studio Davoli, una delle band elette (e non da noi) tra le più interessanti del panorama indie nazionale. Loro che parlando di negramaro si riferiscono solo al vino, loro che vivono la pizzica come un brusio in sottofondo, arrivano al secondo episodio discografico edito dalla Recordkicks di Milano. Il disco è Decibel for Dummies ed esce in tutti i negozi in questi giorni. Contro altare doveroso è la nostra prima concessione alla musica tradizionale salentina. Abbiamo incontrato i Mascarimirì anche loro in uscita con il nuovo album Trìciu. Figli della tradizione, ma dall’appartenenza musicale apolide, i Mascarmirì sono Salento, Mahgreb, Francia, Africa. Sono la pizzica, sono il rock, sono la trans. Nel mare dei gruppi fotocopia dal repertorio striminzito addobbati come le attrazioni turistiche, i Mascarimirì rappresentano l’incontro tra tradizione e innovazione, la così tanto citata ma alla fine quasi mai realizzata contaminazione. Dal Salento poi su passando per Brindisi e al suo passato, neanche tanto remoto, custode di una scena che non si può dimenticare. Dalla Puglia che viene prodotta ed esportata nel mondo, alla Puglia che produce il mondo. Per la serie “forse non tutti sanno che”, esiste chi da noi produce, investe sull’arte e sulla musica. La risposta a chi crede che le cose si possano fare solo fuori sono due etichette discografiche che abbiamo scovato in Puglia. Perché a scavare a fondo l’underground offre frutti insperati. La Psychotica records di Taranto e la Small voices di Andria da anni si muovono nell’ambito della musica sperimentale, producendo dischi di band e artisti provenienti da ogni angolo del pianeta. Infine abbiamo colto l’occasione, forse anche motivo scatenante del tema scelto, per parlare di Arezzo Wave che, mentre scriviamo, si avvia alle battute finali delle prime fasi, quelle provinciali e regionali. Convinti ancora che ne valga la pena, siamo qui. Osvaldo

CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it redazione_bari@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno 3 Numero 23 marzo 2006 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844

STRANO MA QUI

Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Collaboratori: Giancarlo Susanna, Valentina Cataldo, Sergio Chiari, Davide Castrignanò, Rossano Astremo, Rita Miglietta, Daniele Lala, Fulvio Totaro, Federico Vaglio, Lorenzo Coppola, Nicola Pace, Giacomo Rosato, Nino D’Attis, Luca Greco, Emanuele Carrafa, Francesco Lefons, Camillo Fasulo, Federico Baglivi, Lorenzo Donvito, Gianpaolo Chiriacò, Livio Polini, Bob Sinisi, Eugenio Levi, Giancarlo Bruno, Davide Rufini, Loris Romano, Dario Quarta, Carlo Chicco, Anna Puricella, Antonio “Loveless” Olivieri, Papa Ciro, Giovanni Ottini, Massimo Ferrari, Claudia Attimonelli Ringraziamo Maurizio Buttazzo e le redazioni di Blackmailmag.com, RadioErre di Foggia, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le) e Pugliadinotte.net. In copertina Studio Davoli Progetto grafico dario Impaginazione Roberto Pasanisi Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione in un giorno bisestile ma solo per noi. Per inserzioni pubblicitarie: Antonietta Rosato T 3404722974 antonietta@coolclub.it

Nella foto Matilde De Rubertis

4-5 Studio Davoli

17 Bellini 18 La Crus

6-7 Small Voices 9 Keep Cool

23 Coolibrì 27 Isabella Santacroce 29 Be Cool

30 Johnny Cash 34 Mascarimirì

35 Appuntamenti 38 Fumetti

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MUSICA PER MINCHIONI, I NUOVI Distanti come gli alieni a cui sono stati paragonati da Alberto Campo sulle pagine di Rumore, vicinissimi perché amici di una vita e conterranei. Questo sono per me gli Studio Davoli, un asteroide atterrato nelle vicinanze di Lecce e carico di altri suoni. Nati quando il Salento era solo pizzica, reggae e un certo rock, gli Studio Davoli, ai tempi Valvole Davoli, sono arrivati da un giorno all’altro nel panorama italiano portando un suono nuovo e fresco. Lo hanno fatto con la semplicità del pop unita alla ruffianeria del lounge, ci hanno messo dentro una formazione classica, la passione per il brasile e il jazz, una Stereolabica partenza, le frenate malinconiche dei Blonde Redhead, la psichedelia dei Pink Floyd e degli Air, le impennate tra Komeda e Northern Soul. Il loro primo album Megalopolis è stato accolto da critica e pubblico con entusiasmo; i concerti in tutta Italia, gli incontri e le collaborazioni li hanno fatti crescere. Abbiamo incontrato i fratelli Gianluca e Matilde De Rubertis, per parlare con loro del nuovo album Decibel for Dummies. Abbiamo scelto gli Studio Davoli perché rappresentano un presenza deviante rispetto alla scena salentina, capostipiti, forse, di un nuovo filone. Una bellissima mosca bianca, un caso musicale che non riesci a localizzare: pugliesi, salentini, alieni, inglesi, poco importa. Quello che conta è la musica e in Decibel for Dummies ce n’è tanta e bellissima.

Parliamo un po’ della genesi degli Studio Davoli. Gianluca: Tutto comincia precisamente nel gennaio 2001, eravamo in tre io Matilde e Riccardo. All’inizio provavamo in maniera approssimativa, poi si aggiunse Giancarlo al basso. Era una specie di miscuglio, in parte era basato sul mio modo di suonare l’organo, una fascinazione per l’hammond groove, il lounge. Dall’altra, la nostra passione per i Blonde Redhead, i Portishead, i Pink Floyd. Due cose in netto contrasto, ma già c’era in nuce, un’ascendenza, un filo

conduttore con le ultime cose. Poi dopo un anno c’è stata la vittoria ad Arezzo Wave, una sorpresa, un successo inaspettato, anche arrivato prematuramente. Le selezioni provinciali sono state una specie di miracolo, suonavamo da poco, il mio organo a un certo punto si ruppe e loro tre si espressero come mai avevano fatto. Dopo una serie di concerti in cui abbiamo acquisito esperienza siamo arrivati alla registrazione. Il disco Megalopolis nasce come una demo, da un incontro casuale, un cd regalato che arriva alle orecchie di Nicolò della Recordkicks che decide di aprire le produzioni della sua neonata etichetta con noi. Megalopolis viene accolto molto bene, in Italia non c’era niente di simile e forse a tutt’oggi non c’è, siete accostati a una serie di gruppi, forse alcuni anche a voi sconosciuti. Beh si, in effetti il disco è piaciuto molto e da subito. Anche con questo disco succede di essere accostati a gruppi che non ci hanno influenzato, in un’intervista qualche giorno fa hanno detto che sicuramente siamo influenzati dai My Bloody Valentine. Io all’epoca avevo dodici anni e confesso, pur conoscendoli, di non averli mai ascoltati... Che approccio avete con il pop? L’effetto all’ascolto, la risultante della vostra musica è pop, ma se si scava si scopre che c’è molto di più, un approccio più colto. I nostri ascolti non sono prettamente pop, e questo penso influisca. Io ad esempio ho un background classico, Matilde ascolta molto jazz e bossanova anche se la cassa è in quattro e il pezzo è pop la struttura armonica dei suoi brani è fatto di accordi jazz... io come approccio sono più cervellotico, Giancarlo, anche lui impegnato nella scrittura, è ancora diverso. Questo disco in particolare arriva con un lavoro diverso alle spalle. Megalopolis è nato sui palchi, in sala prove, è composto di brani già rodati. Questa volta, tranne che per due canzoni che già facevamo dal vivo, ognuno di noi ha lavorato individualmente, arrivando in sala prove con un pezzo quasi finito, anche negli arrangiamenti degli altri strumenti. Questa fiducia, se così la possiamo chiamare, denota una personalità matura, un progetto nelle sue sfumature comunque omogeneo e nel disco si sente. Si, tranne un paio di canzoni, Decibel for Dummies è un lavoro molto omogeneo, frutto tra l’altro di una scrematura notevole. Considera che all’inizio, prima di entrare in studio, i brani erano circa il doppio. Nell’arco di un anno e mezzo abbiamo scritto una trentina di pezzi

nuovi. Rispetto a Megalopolis, che nasce come una demo fatta bene, senza quindi l’idea che sarebbe diventato un disco edito, e distribuito, nasce con la consapevolezza dello studio e dei mezzi a disposizione per realizzarlo. È un disco diverso, molto diverso dal primo, ragionevolmente dovrebbe essere un disco più difficile del precedente, però alla fine, come ascolto intendo, secondo me risulta più facile. In che senso? Nel senso che la struttura interna è più ragionata, articolata, però l’effetto finale ha più le sembianze di una canzone pop. In Megalopolis avevamo un’attitudine più stereolabica, l’attitudine stereolabica è quella di cominciare un pezzo con una struttura, di trovare a un certo punto un nuovo riff, una specie di punto fuga, non seguire più quello che si stava facendo all’inizio, non portarlo a termine e perdersi, smarrirsi in questo altro ramo in una sorta di scrittura episodica. In questo disco le canzoni iniziano e finiscono, sono canzoni dalla a alla z. Si nota, ascoltato i brani, che alcune frasi, siano esse musicali o cantate si ripetono quasi ipnoticamente... è voluto, fa parte del vostro stile o è assolutamente involontario? Si è vero, questa è una di quelle cose però che ascolti a posteriori, di cui ti accorgi dopo, ma non è ragionata. Credo sia


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I DECIBEL DEGLI STUDIO DAVOLI

una cosa spontanea che magari deriva dai nostri ascolti. Ad esempio, giusto una curiosità che serve per farti capire l’approccio alle canzoni. In un brano del disco il cantato insiste su una nota, il sol, gli accordi invece su cui si poggia quella nota cambiano continuamente, quindi è un gioco, vedere quella nota su quanti accordi può stare bene. C’è anche un altro brano che nel suo essere pop ha un effetto straniante, c’è un quattro quarti che insegue un sei quarti o qualcosa del genere, ci spieghi come nasce? La canzone è Stay on ed è uscita così quasi casualmente. Matilde aveva registrato il provino chitarra e voce e non c’era modo di arrangiarla, il riff era molto jazz, una chitarra bossa. Poi Riccardo ha avuto l’idea di metterci sotto una cassa in quattro, quasi house, che sfasa ma poi rientra nel giro, quindi poi il rientro sul giro non fa che spostarsi. La chitarra era ternaria, il giro in sei quarti, la batteria in quattro quarti, quindi alla fine tutto quadra. Ma tutto questo, questa cura negli arrangiamenti, sono seghe mentali, o cose che alle orecchie dell’ascoltatore medio arrivano? Beh tu te ne sei accorto, quindi sei un ascoltatore sopra la media, normale che non tutti se ne accorgeranno, non se ne fregano neanche niente. Questo è

il gioco, se prendo un giro, qualcosa di improponibile per il pop e lo riesco a far funzionare in uno schema pop... Questo è il vostro compromesso con il pop? Io personalmente non sono un amante del pop, della musica leggera in generale, io ascolto pochissime cose. Matilde e Riccardo ascoltano moltissima musica... grazie a Dio altrimenti saremmo un gruppo ignorante. Se devo esprimere una preferenza sulla composizione dei brani direi, che anche se parto da un’idea complessa preferisco che l’esito sia in un certo modo semplice, per gli altri ma anche per me stesso... che scivoli all’ascolto. Come il gioco della nota che ti raccontavo prima, se non te ne accorgi significa che ha funzionato, se te ne accorgi troppo è un artificio. E l’idea del titolo del disco... da dove viene? Il disco si doveva intitolare The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy, che è il titolo di un libro delle edizioni Urania divertentissimo. Dopo un anno uscì il film tratto dal romanzo e abbiamo dovuto cambiare. Decibel for dummies viene da un manuale per fonici che abbiamo sfogliato in studio. Decibel for dummies è qualcosa che riguarda la massimizzazione...o che ne so. Poi riguardo ai Dummies puoi dire quello che vuoi...il pubblico, dei pupazzi, dei minchioni, le interpretazioni sono tante...il fatto che ci sia questa massa informe che non capisce niente che ascolta il disco lo compra...poi magari il disco ha un discreto successo e capisci che in quella massa ci sei pure te.

Parliamo un po’ degli ospiti del disco. Matilde: Beh, sicuramente Andrea (Populous) ci ha aiutato molto in fase di mixaggio, poi ha realizzato la base ritmica di I prefer, ha seguito il lavoro in studio e a casa guidandoci in alcune scelte, poi sicuramente Stefano Manca che è stata parte integrante nella realizzazione del lavoro. Poi Marco Tuma che ha suonato il flauto in Crystal camp e poi un flicorno di Andrea Perrone????. È un album molto più acustico, c’è questo incontro tra chitarre soft e elettronica

minimale... É un po’ il risultato del lavoro di scrittura, usando il computer come sala prove ci è venuto spontaneo usare strumenti più acustici, lo stesso mood musicale si è creato in studio ed è il suono che cercheremo di riproporre nei live. Nel disco c’è veramente tanta roba, è pieno di sfumature, arrangiamenti, strumenti, suoni, addirittura orchestrazioni...come farete dal vivo? È un problema che stiamo affrontando, sicuramente i brani live saranno semplificati, altri probabilmente non potranno essere eseguiti perché se spogliati della loro particolarità finiscono per avere poco senso. Questo numero di Coolclub.it è dedicato alle cose che proprio non ti aspetteresti in Puglia e invece ci sono, il disco degli Studio Davoli è sicuramente la cosa più interessante e più bella (Matilde sorride nda) che sboccia in Puglia questo mese, quale è la tua idea della scena pugliese o salentina, cosa ti piace? A parte le mie diverse collaborazioni (Populous, Giorgio Tuma, Amerigo Verardi) ho tanti amici che suonano, ci sono i Superpartner...e tanti gruppi che fanno bella musica. Non sono molti anni che mi muovo nella scena, sono anche la più giovane del gruppo, diciamo che sono quattro anni che mi guardo intorno con più attenzione e noto che quando abbiamo cominciato c’erano più gruppi e si suonava di più. Secondo me la musica salentina, tranne pochi casi, sta attraversando un momento di crisi. Nel panorama indipendente italiano,qual è l’aspirazione per un gruppo come gli Studio Davoli? Per un gruppo come il nostro l’aspirazione è riuscire a mantenersi a fine mese, secondo me è una cosa possibile, magari lavorando solo in Italia no, ma se ci fosse l’opportunità di aprirsi all’estero... per il momento non è in previsione ma si vedrà. Qualche nostro pezzo è già stato suonato da radio inglesi. Una cosa che mi piacerebbe molto fare, anche per far crescere la qualità delle produzioni, è creare un gruppo di persone, amici che fanno musica, cosa che in parte già succede, che si alimentano a vicenda, che sono in stretto contatto. Un po’ come succede tra gruppi come Broadcast e Stereolab, creare una scena che diventi con il tempo di riferimento e che ruoti intorno al Sud est studio di Stefano Manca. Tre dischi che consigli ai lettori di Coolclub.it. Kind of blue di Miles davis, Phanerothyme dei Motorpsycho, l’ultimo disco di Madonna e le bosse di Jobim e Gilberto. Osvaldo Piliego


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PICCOLE VOCI IN UN POSTO SILENZIOSO Anche il deserto più spietato può nascondere nelle sue lande impietose oasi generose e benefiche per il corpo e l’anima di ogni buono e timorato esploratore musicale. È così che mi sono imbattuto con sommo sbigottimento nella Small Voices, questo sotterraneo antro del piacere sonico, del vizio fonico, della libidine auricolare. Una fucina della rumorosità in piena terra arida, alimentata da due loschi figuri dalle strane perversioni musicali ben camuffati da ordinari bacchettoni dell’entroterra. Non classico e innocuo rock indipendente, nè astruso noise o jazz-core o now wave, ma sonorità estreme, putride, maledette che potremmo accostare a definizioni quali: crudità industriali, sperimentazioni spinte, follie strumentali, destrutturazioni digitali, minimalismo dronizzato. Il turbamento che mi ha lasciato per mesi insonne mi ha costretto a pensare assiduamente a quale deviazione dello sviluppo eticosociale possa aver dato vita a tanto fanatismo satanico del suono. La mia risposta, che mi ha riportato infine a un salutare stato di lucidità mentale, è che, proprio condizioni socio-culturali così estreme (nel senso di estremamente elementari, banali, meschine) possono provocare in taluni soggetti più sensibili delle reazioni drastiche: qualcuno si inizia a fare, qualcun altro si fa villette, poste e tabaccai, e qualcun’altro, più soggetto alle pulsioni dello spirito che del corpo, si inizia a dedicare alla produzione di strumenti di alienazione psichica. È chiaro che in certi posti del sano r’n’r può attecchire: quel che serve qui è qualcosa di definitivamente altro rispetto alle leggi ordinarie della società che ci circonda. Pertanto, gli stessi suoni che si ricercano devono appartenere a mondi così lontani da non permettere in alcun modo alla nostra mente di ricordare alcunché della quotidianità che ci è avversa e ostile. Ma, non ancora del tutto soddisfatto del mio ragionare solitario, ho deciso di affrontare di petto la situazione e chieder conto direttamente a questi spiriti inquieti del perchè di cotanto sublime orrore. Quale mostruosa mutazione genetica ha prodotto due menti deviate amanti delle

zozzure sonore di cui vi siete fatti promotori? e i vinili sono perlopiù dei picture disc. In altre parole: come è possibile che ad Inoltre ogni nuovo articolo è quasi sempre Andria si possano incontrare due scoppiati realizzato in diverse edizioni a tirature che perdono la testa appresso a ‘ste cose limitatissime. L’ultima, l’album dei My cat is così estranee al loro ambiente sociale? an alien, ha addirittura tre diverse edizioni (Ehi, a chi scoppiati?!?!?!) Le motivazioni di cui una in sole 19 copie. Credete sono molteplici... prima di tutto c’è la pas- che, nella catastrofe delle produzioni sione per la musica e per il caro vinile, poi discografiche commerciali dovuta al appunto c’è la voglia di evadere dalla trionfo del downloading, queste scelte realtà “sociale” contingente. La musica siano le uniche vincenti? (e tutti gli altri nostri Sì infatti, paradosinteressi) come sfosalmente stiamo go, come alternativa riscontrando che è a quella quotidianità più vendibile il caro schiacciante di una e vecchio vinile ricittà di cui non riusciaspetto al cd. Il mermo a scorgere lati pocato è comunque sitivi. subissato di produSembra incredibile, zioni su cd e cd-r e ma so che, sebbene l’appassionato non sconosciuta ai vostri riesce a districarsi. conterranei, la vostra Ecco perché la noetichetta è nota un stra scelta editoriapo’ in tutti gli angoli le è stata quella di del globo. A quanto lavorare molto con ( J enni F er gentle ) pare, quando si tratta il vinile e con microdi produzioni così di nicchia, cambia edizioni dal forte impatto artistico (giustatotalmente il target a cui puntare: non una mente citi il box in 19 copie dei My Cat Is determinata area geografica ma punti An Alien: questo lavoro infatti contiene un dispersi nei meandri delle differenti realtà dipinto di Roberto Opalio/MCIAA). Non sociali di tutto il mondo. Quanto è stato sappiamo se le nostre scelte siano vincenti difficile crearsi un pubblico così nascosto e in maniera assoluta..., ma per il momento sparso? Mi viene da pensare che prima di ci stanno soddisfacendo. internet voi non avreste avuto vita facile. Ho visto che nel vostro catalogo ci sono Sì la nostra etichetta è pressoché alcune produzioni di Ivan Iusco della sconosciuta dalle nostre parti (direi Minus Habens, l’altra storica etichetta fondamentalmente in Italia), ma non nostrana di musica di ricerca. Ultimamente è un grosso problema; le motivazioni però questa si sta dedicando sempre possono essere molteplici (ad esempio più a produzioni di più facile consumo fondamentalmente in Italia la tendenza è (commerciali è un po’ troppo). Come la l’esterofilia, sai l’erba del vicino e sempre vedete voi questa sua scelta, e da cosa, più verde) per questo motivo il prodotto secondo voi, è stata dettata? Avete mai che proponiamo è di nicchia; materiale avvertito il brivido di terrore per il rischio di per collezionisti (come noi), gente sempre finire a produrre cose pop? alla ricerca del nuovo. Sì internet è un Per nostra buona (e sana) abitudine non grosso canale e una grossissima fonte di entriamo nel merito delle scelte editoriali contatti e possibilità, ma allo stesso tempo di altre etichette, figurarsi quelle del nell’era di internet è sempre più difficile caro amico Ivan, con il quale abbiamo vendere dischi. appunto prodotto un paio di 7” sotto i La specificità dei vostri prodotti non è solo suoi due moniker storici (Nightmare Lodge nei contenuti musicali, ma anche nelle e it). Ivan è sulla scena da più di 15 anni, ricercate vesti grafiche dei supporti. I cd quando produrre il vinile era la regola ed sono spesso chiusi in speciali confezioni, il CD solo una novità...la sua etichetta è


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( M Y cat is an alien , in basso aidan ba K er )

cresciuta in un periodo di forte crescita e grande cambiamento tecnologico (vi ricordate il Virtual Reality Hand Book?). Ivan non ha mai nascosto la sua propensione in tal senso e non ci stupiremmo se più in la dovesse abbandonare definitivamente i supporti analogici in favore del “digitale totale”...noi ci limitiamo ad andare esattamente in direzione opposta! E forse, proprio per questo motivo, lo spettro delle produzioni “pop” non ci spaventa affatto... più semplicemente pubblichiamo ciò che ci piace! Non contenti delle già radicali e specifiche produzioni della S.V., avete deciso di tirar su una mini-etichetta sussidiaria, la “A silent place”, dedita esclusivamente a suoni tendenti a certo psich-folk contaminato. Che nomi inserirete e vorreste inserire in questo nuovo contenitore? Per la A Silent Place sono appena usciti i primi due album. Un LP dei My Cat is an Alien (Different shades of Blue) di cui sopra e un CD del poliedrico

artista canadese (musicista, scrittore, etc.) Aidan Baker, in trio con altri due suoi connazionali, in una formazione nata spontaneamente durante un festival a Toronto e diventata gruppo qualche tempo dopo... Le prossime uscite sono davvero interessanti. Siamo riusciti a “strappare” una licenza all’americana Sub-Pop (l’etichetta dei Nirvana, Soundgarden, etc., per intenderci) che ha sotto contratto gli italianissimi Jennifer Gentle (duo padovano di ispirazione Barrettiana). Con i Jennifer è in uscita un vinile dal titolo Sacramento Session registrato dal vivo durante una session in radio negli states (appunto a Sacramento). In seguito uscirà un CD di brani inediti...a seguire Tom Carter, Acid Mothers Temple, Makoto Kawabata, Aidan Baker (solo), Fear Falls Burning, e tante altre belle sorprese. Potrete iniziare ad approcciare (ma con sospetto) con questi due loschi figuri durante i concerti che Kawabata Makoto (il mitico leader del gruppo cult giapponese Acid Mother Temple) terrà in sud Italia (a Bari il 1 marzo e a Squinzano il 3 marzo) in occasione dell’imminente uscita di un suo album per la SmallVoices. www.smallvoices.it Davide Rufini

LA PUGLIA ALLA CONQUISTA DI AREZZO WAVE

La Puglia in questi anni ha lanciato musicisti e gruppi interessanti da molti punti di vista e per tutti i generi. Questo numero di Coolclub.it indaga sulle cose che non ti aspetteresti in un territorio come il nostro ma esiste tutto un brulicare di situazioni diverse che sarebbe stato troppo lungo elencare ed analizzare: dai Negramaro (ai quali dedicammo la copertina nel marzo 2005) a Caparezza, dai Sud Sound System ai Folkabbestia, dai Radiodervish ai Bludinvidia, da Fido Guido ai Lotus. Arezzo Wave rappresenta per molti di questi gruppi (tra cui gli Studio Davoli ai quali dedichiamo la copertina) il primo confronto con un vero palco, un pubblico esigente, una giuria e una opportunità di emergere. In venti anni di attività sono stati più di 20.000 le band e gli artisti emergenti che hanno partecipato alle selezioni. E anche quest’anno, dopo la prima selezione su demo e le finali provinciali, il festival gratuito italiano più importante e seguito giunge alle finali regionali dalle quali usciranno i gruppi che aproderranno nella settimana del festival di Arezzo (11 16 Luglio 2006). La Puglia parteciperà con due band selezionate nel corso della finale di Bari (10 e 11 marzo allo Zenzero Club) che vedrà alternarsi dieci gruppi giunti dalle varie province. Lecce sarà rappresentata da Crifiu, Manigold e Shank. A Bari le selezioni hanno premiato Jolaurlo, Compagni di Merengue e The carling. A Foggia la vittoria è andata ai Contrada Capiroska. Le province di Brindisi e Taranto decideranno i propri finalisti nei primi giorni di marzo (putroppo a giornale già in stampa ndr). Tra i premi di Arezzo Wave 2 giorni di registrazione gratuiti negli studi convenzionati con fAWI e la possibilità di far parte del cast di Arezzo Wave On The Rocks 2006, la tournée italiana delle band di Arezzo Wave. Inoltre le migliori 10 faranno parte della Compilation ufficiale del festival e le migliori 5 si esibiranno sul Main Stage, il palco principale della manifestazione. Infine tra tutti i gruppi regionali la fondazione Arezzo Wave Italia assegnerà uno speciale premio di merito consistente in una borsa di studio di 1.000 Euro come sostegno alla carriera artistica delle nostre giovani formazioni musicali.


CoolClub .it DALLA NEW WAVE ALLA NEW NEW WAVE Venti anni di storia del rock brindisino - Prima puntata L’idea di scrivere una breve storia della musica a Brindisi era già in cantiere da tempo, poi, l’invito di CoolClub.it mi ha dato lo stimolo per raccontare un fenomeno affascinante, come del resto lo è il rock ormai da 50 anni. Forse non sono la persona più adatta a raccontare una vicenda che è più vecchia di me. Per questo mi sono rivolto agli “storici” del rock brindisino come Roberto D’Ambrosio, fondatore dei Birdy Hop che in questa prima puntata racconta il passato, il presente e anche il futuro del caso Brindisi, una città industriale che nasce come porto di mare verso l’oriente e nei tempi contemporanei vive all’ombra del contrabbando di bionde e di una centrale elettrica scomoda. Come Napoli anche Brindisi, negli anni, ha risentito delle influenze musicali portate dagli Americani (fino ad un decennio fa era attiva una base Nato a San Vito dei Normanni). Nel corso della nostra chiacchierata Roberto parte da un anno, il 1984, che secondo lui segna l’inizio della scena rock. Un anno nel corso del quale un bel numero di gruppi, con diversa tipologia musicale (dal gruppo dark al gruppo progressivo,dal gruppo punk a quello rock’n roll), calcavano i palchi della città. In quel periodo insieme a Davide Miccoli e Nanni Surace, Roberto fonda i Birdy Hop. Alla base del loro sound c’era del buon rock’n roll, del pop beatlesiano e tanta voglia di avvicinarsi a gruppi già collaudati come i Blackboard Jungle di Vincenzo Assante. Interessante come a quei tempi ci fosse grande collaborazione tra i gruppi che a partire dalla seconda metà degli anni 90 fino ai nostri giorni si è trasformato in una sorta di individualismo collettivo, ad eccezione di alcuni casi. Negli anni ’80 un grande contributo alla scena musicale brindisina è stato apportato da Marco Greco con il suo programma ra-

diofonico che andava in onda sulle frequenze di Canale 94 e che ospitava i gruppi locali. La grande svolta per tutta la scena musicale brindisina si è avuta però con l’apertura del Centro Sociale in Piazza Duomo. Uno spazio fondamentale, una fucina d’arte dove le energie diventavano sinergie, un centro dove ci si poteva confrontare con le realtà musicali europee e non. Da non dimenticare che agli albori degli anni ’90 anche Mr. Mark Lanegan e i suoi Screaming Trees calcarono il palco del Centro Sociale. Il “centro” fu fondamentale per le band brindisine perché offriva anche una sala prove a tutti i gruppi della città. In quegli anni la scena musicale crebbe molto. Nel 1989 i Birdy Hop pubblicano un mini Lp, due anni dopo gli Allison Run di Amerigo Verardi, escono con la High Rise di Federico Guglielmi, redattore del Mucchio Selvaggio. Nello stesso anno anche gli amici Blackboard Jungle pubblicano il loro primo mini lp per la stessa etichetta dei Birdy hop (alla batteria c’era un altro nostro amico: Maurizio Vierucci). Intanto la stampa musicale (Rockerilla, il Mucchio Selvaggio e altre riviste) parla di una vera scena brindisina. Ma nella prima metà degli anni 90 qualcosa cambia, gli spiriti, un tempo vivaci, si affievoliscono, inizia l’emigrazione verso il Nord di questa generazione che ha sicuramente lasciato il segno in una città che funge da passaggio tra il Salento e il Barese, tra l’Albania e il resto d’Italia. Il Centro Sociale perde la lucentezza di un tempo, soprattutto dopo l’incendio del capannone dei concerti nel 94 e la partenza di Joe Banana (una delle menti del centro sociale) verso le capitali europee. Un anno prima nel 1993 Nanni Surace esce dai Birdy Hop e fonda i Gleba; prende il suo posto Claudia Stella che sarà cantante e bassista fino al 2000, anno in cui la band si esibisce sul palco di Arezzo Wave. Lo stesso Nanni Surace riprende un po’ quel concetto di fucina artistica che era prerogativa del Centro Sociale aprendo uno studio di registrazione e sala prove. Dal suo studio sono passati i Miele June, gli Psycho Sun, i Negramaro, i Mon Ame, Amerigo Verardi, gli Ulisse Zero di Ennio Ciotta, gli Scriba dei fratelli Leoci ora produttori e musicisti di musica elettronica con il progetto Fantasmagramma, gli

Hasting, i Prometeo, 05 di Contrabbando e molti altri. Sicuramente ce ne saranno altri che io non conosco, ma l’importante è non dimenticare che il Pure rock studio è stato un punto di sviluppo e informazione per tutte le band degli anni 90, non solo della provincia di Brindisi ma anche del territorio leccese. Anche un’altra corrente musicale si è sviluppata a Brindisi negli anni ’90: quella della scena hip-hop. Brindisi ha dato i natali a Wany uno dei maggiori graffitisti italiani ed europei. A lui si affianca un altro writer di nome Buz; ora produttore di un progetto dancehall style, che vanta grandi collaborazioni. Nel 1999 i Birdy Hop pubblicano Papier Mais, un disco in italiano, ben accolto dalla critica. Nel 2001 Claudia Stella esce dalla band e rientra nella linea-up Nanni Surace con il quale esce Invisibile. Attualmente a Brindisi c’è un nuovo fermento musicale. Gruppi come Petri (vincitori di Arezzo Wave Puglia nel 2005) e Mamaroots sono pronti a pubblicare un nuovo disco. Lo stesso Creme, al secolo Maurizio Vierucci, gli Accanito Fun e Amerigo Verardi insieme a Silvio Trisciuzzi (Lotus) lavorano a un nuovo album. In provincia gli Scamnum e la Piccola Compagnia Instabile sono in studio di registrazione. Dovrebbe uscire a breve anche il nuovo album dei Lova. Intanto Roberto d’Ambrosio ha concluso nel 2002 la sua esperienza Birdy hop, ha aperto una sala prove con negozio di strumenti annesso e sta preparando il suo disco da solista. (To be continued...) Giuseppe Scarciglia


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la musica secondo coolcub

Mogwai Mr. Beast Matador ****1/2

Qualcosa di interessante sta accadendo nelle rigogliose lande musicali in terra di Scozia. Lo si percepiva già da un bel po’. È come se il suffragio nazionale dello scorso anno, che decretava i Belle and Sebastian miglior gruppo scozzese di sempre, abbia risvegliato una nuova e più forte coscienza nazional-musicale, un istinto primaverile a cambiar pelle, uno stimolante pretesto da “anno zero” per rimettersi un po’ in discussione. Lo si legge tra le pagine dell’“ultimo romanzo” degli Arab Strap che suona sorprendentemente rock e lo si nota dall’audacia che permea lo sbarazzino nuovo album dei succitati Belle and Sebastian. Ovviamente non sfuggono alla regola i Mogwai che, con i dovuti distinguo stilistici, hanno molto da spartire proprio con gli eroi nazionali. Non è solo il condividere lo stesso produttore (Tony Doogan) o respirare la stessa aria di fermento in città (Glasgow),

parliamo di due gruppi che al giro di boa dei dieci anni di carriera decidono di scrollarsi di dosso quella patina di iperproduzione e compiaciuta autoreferenza che avvolgeva (e un po’ soffocava) i loro rispettivi ultimi lavori. A detta dello stesso leader Stuart Braitwaite, l’istinto principale che ha spinto la realizzazione di Mr. Beast è stato di creare delle canzoni che riducessero la differenza tra i loro dischi e le relative esecuzioni dal vivo, canzoni che suonassero “louder”. Perciò via quasi completamente archi e fronzoli elettronici per lasciar spazio a suoni più concreti e tangibili, inequivocabilmente più rock. Le atmosfere oniriche rimangono ma si tingono di colori più vividi e contrastati, come nell’iniziale Auto Rock, che si apre in un magico ed intenso crescendo di pianoforte scandito da un drumming ossessivo. Il disco si piega subito dopo sotto il peso del muro di chitarre della seguente Glasgow Mega-

Snake, forse il pezzo-manifesto dei “nuovi” Mogwai, quello in linea d’aria più distante dalle diluite Happy Songs For Happy People di tre anni fa. Fanno seguito i due unici pezzi cantati del lotto: una quieta ballata dal gusto acido con tanto di slide guitar bucolica in chiusura (Acid Food) ed una Travel Is Dangerous dal notevole impatto emotivosonoro. Si alternano poi il sobrio chiaro/scuro del bel singolo Friends of the Night a episodi di vigoroso rumore (Folk Death 95, We’re No Here), in mezzo il meglio del registro Mogwai senza però i tipici crescendo apocalittici da cattedrale sonora, marchio di fabbrica dei loro primi dischi. Tutto è più organico: fragore chitarristico e introspezione melodica sono uniti in nuovi ed affascinanti amalgami sonori. Ancora una volta i cinque di Glasgow regalano intense emozioni evitando, non senza sforzo, di ripetere se stessi. Giovanni Ottini


KeepCool

10

Clap Your Hands Say Yeah Clap Your Hands Say Yeah Wichita-V2/Edel

Indie rock / *** Sono bastate poche entusiastiche chiacchiere volate di blog in blog, il passaparola della rete, insomma, per trasformare questa band nel caso dell’anno, e tutto senza godere assolutamente di appoggi discografici. Poi il contratto è arrivato (ovvio!), ma a questo punto una domanda sorge spontanea: tanto rumore per cosa? La risposta è tutta in queste 12 songs che fanno parte dell’omonimo album dei Clap Your Hands Say Yeah. Qui dentro c’è tutta la Big Apple: dalla disperazione dei Velvet Underground alla beata indolenza degli Strokes, c’è tutta la freschezza di chi parte dalle idee per arrivare allo scopo, ci sono canzoni, energia, sfrontatezza, ingenuità. In un mondo di finti maledetti senza talento sembra quasi un miracolo tutto questo. Entusiasmo eccessivo? Può darsi! Resta il fatto che adesso c’è un precedente con cui fare i conti. (E già si fa un gran parlare degli inglesi Arctic Monkeys, altro fenomeno alimentato dal web… Ma questa è un’altra storia…). Ci troviamo di fronte ad un debutto che ha fatto saltare dalla sedia gli addetti ai lavori più disincantati. Salutiamo allora anche noi questa opera prima dei Clap your hands say yeah con tutto l’onore che meritano. I requisiti non mancano. Intanto c’è padronanza strumentale e un solido background forgiato nei sempreverdi eighties di gruppi seminali come i Talking Heads e i Violent Femmes, ma soprattutto c’è una freschezza di idee e un’irriverenza naif che fa di questi folletti metropolitani una rivelazione quantomeno elettrizzante. Un debutto che ha portato una ventata di novità su questa triste palude culturale in cui ci si dibatte da un po’ di tempo a questa parte. Camillo Fasulo

Ryan Adams

29 Mercury Country Folk / **

Quando il troppo stroppia. Afflitto da iperprolificità Ryan Adams sforna, a brevissima distanza dal precedente, il disco che dovrebbe concludere un ciclo di album dedicati dall’autore alla riscoperta delle radici del sound americano. E 29 è un disco classico in cui il blues più rurale e il country vengono passati e ripassati in rassegna. Ci sono brani che non possono non piacere, ancorati a vibrazioni che non possono non emozionare o suggestionare (vedi la travolgente tiltle track, il guizzo latineggiante di The Sadness). Ma sulla lunga distanza ci si comincia ad affaticare. Sembra,

soprattutto nei momenti più riflessivi, mancare un po’ di quella ispirazione che ha sempre contraddistinto Adams. Il problema quando si imbraccia una chitarra e si sfida la storia è di cadere al confronto con i mostri sacri. (O.P.)

Midaircondo

Shopping for images Type/Wide Elettropop / ***

Shopping for images è il frutto di un anno di performance live. Concerto dopo concerto tre giovani ragazze svedesi hanno “strutturato” ciò che prima erano suoni astratti e sperimentazioni strumentali, giungendo alla registrazione di questo disco dagli originali pezzi elettroacustici. Midaircondo rimane comunque una band dal forte impatto live - come piace sottolineare alle stesse artiste - e durante i loro show le componenti visive, creative sperimentazioni video da loro prodotte, giocano un ruolo di fondamentale importanza. Un mix di synth, laptop e strumenti acustici voce, sassofono e flauto - avvicinano l’elettronica al pop arrivando ad una suggestiva combinazione di melodie tradizionali e musiche sperimentali. Se l’improvvisazione rimane il punto di forza del trio svedese, come dimostrato al Kals’Art di Palermo dove hanno suonato insieme ai dEUS, queste undici tracce registrate rappresentano una buona prova discografica. Aspettando di vederle dal vivo, una canzone su tutte: Serenade. Valentina Cataldo

Ant

Footprints Trough the Snow Homesleep Acustic Pop / *****

Antony “ANT” Harding a lungo è stato il batterista di una delle band che meglio ha saputo unire negli ultimi anni sonorità indie a gusto pop: gli Hefner (poco conosciuti nella nostra terra ma apprezzatissimi in ambito indie). Dopo il primo disco da solista Fortune & Glory ecco che arriva questo Footprints Trough the Snow per l’italiana (e lungimirante) Homesleep. Tredici tracce in cui l’autore si cimenta con tutti gli strumenti e lo fa in modo egregio. Fin dal primo ascolto il disco mi colpisce per la sincerità con cui è stato scritto e prodotto. Un piccolo capolavoro, maturo, essenziale, minimale ma che giunge dritto al cuore di chi lo ascolta. E lo fa in modo mai scontato, riuscendo a creare atmosfere malinconiche in cui si scorge una fantastica alba. Cesare Liaci

The Spinto Band

Nice and Nicely Done Bar/None Records Indie Rock / ***

Hanno dai 19 ai 23 anni e prendono il nome dal nonno del cantante, tale Roy Spinto chitarrista. Sanno di aria fresca e fondono insieme - seppur conservando grande originalità - le parti migliori di Shins, The Flaming Lips e qualcosa dei Pavement, senza voler troppo esagerare. Sono sette giovanissimi statunitensi provenienti dal Delaware che, senza prendersi troppo sul serio, hanno sfornato un album energico e pungente. Piccole canzoni dai giri semplici e disinvolti, ripetuti più volte e facilmente memorizzabili. Chitarre morbide, tastiere e persino mandolini, come in Oh Mandy che potrebbe far pensare ad una cover di Barry Manilow, ma che è invece un originalissimo pezzo dai passaggi molto personali, con delicati e timidi picchi vocali e divertenti e stuzzicanti coretti. Niente da ridire su questo bel disco, debutto della band per una major. Radiante, scanzonato e senza dubbio ben fatto. Valentina Cataldo

Hypocrisy

Virus NuclearBlast/Audioglobe Death-Metal/****

Ritorno della band deathmetal Hypocrisy, con il loro decimo lavoro: Virus. Ogni volta che ritornano sul mercato è una sorpresa, infatti non si sa mai come suoneranno, se più brutali, oppure proponendo un album ricco di mid-tempo e quindi più melodici. Questa volta il risultato è una sintesi delle varie soluzioni stilistiche. Inoltre, aiutati dall’ingresso in formazione del nuovo batterista, hanno schiacciato il piede sull’acceleratore delle loro esecuzioni, scrivendo alcuni fra i brani più brutali, avventurandosi in territori blak-metal. Quindi un lavoro che alla cattiveria di molti brani contrasta la voglia di episodi melodici. Per quanto riguarda le liriche, oltre a parlare delle solite invasioni aliene, i nostri riprendono tematiche tanto care al death.metal della prima ora, ossia: mutilazioni, trasfigurazioni ed autopsie, in una parola “splatter”. Virus è un album compiuto dal punto di vista musicale, concettuale e soprattutto della produzione. Consiglio l’ascolto a tutti gli amanti del death-metal, esclusi i soli estimatori della scuola americana. Nicola Pace


KeepCool

11

Sea Dweller Sea Dweller Autoprodotto Pop / ***

Due brani, entrambi molto belli ed intensi, per il debutto su demo di questo giovane trio romano con lo sguardo rivolto all’Inghilterra dei primi ‘90. She whispers e Sister of my dreams ci riportano alla mente il dreampop di Slowdive, My Bloody Valentine e Ride. Melodie sussurrate immerse in un mare di chitarre avvolgenti e liquide, ma anche capaci di esplosioni improvvise alla maniera dei Catherine Wheel e malinconiche fughe psichedeliche da sogno; sezione ritmica pulsante. Se soffrite di cuore o se almeno avete un debole per le più romantiche produzioni della Creation non fateveli scappare. Antonio Olivieri

Gogol Bordello

Gipsy Punks: Underdog World Strike Side One Dummy Klezmerindieskapunk / ****

Fanatico del pogo selvaggio? Frikkettone all’ultimo stadio? Ecco il tuo gruppo!!! I Gogol Bordello (dal nome dello scrittore ucraino Nikolai Gogol e dalla semplice parola Bordello con il suo significato letterale) sembrano essere la nuova “way of entertainment” in fase di lancio nel panorama festaiolo festivaliero estivo. Nati qualche anno fa da un’idea di Eugene Hutz cantante ucraino trasferitosi nel 1996 a New York (anno anche di fondazione del gruppo), questa strampalata band propone nel suo terzo disco una serie impressionante di generi e soluzioni musicali vicine ad artisti come Bregovic, alla musica klezmer, a certe sonorità nordafricane, ma anche a furiose scorribande punk, indie (stile Pixies) e ska… incredibile ma vero. Somiglia al brodo che mia nonna fa il sabato… non manca davvero nulla. Il risultato (come il brodo di mia nonna) è più che buono, anche perché, dall’ascolto viene subito fuori una verve ludico-zingaresca (a quanto pare sottolineata negli infuocati live della band) che rende tutto molto piacevole e di semplice ascolto. Non mancano testi raffinati, altri di protesta (in puro stile combat, folk, rock) e colorito linguaggio carico di parolacce e bestemmie (che nella canzone Santa Marinella sono anche in italiano!!!). Insomma, antipasto dell’estate prossima ventura che li vedrà protagonisti su numerosi e importanti palchi europei. Italia compresa. Cesare Liaci

Wolfmother

Wolfmother Modular/Universal Hard Rock / ***

Ogni volta mi lascio fregare. Lo so che non dovrei, ma ogni volta ci casco. Appena sento quelle chitarre, quel ritmo, quella voce non resisto. Sono drogato di anni ’70, sono un fan dei Led Zeppelin e questo disco mi piace. Vengono dall’Australia, terra non nuova a questo genere di band (vedi Datsun e Jet) e sono sintesi ed espressione di quello che Black Sabbath, Led Zeppelin, Deep Purple, un po’ gli Yes, e, giusto per arrivare alla nostra decade, i Mars Volta ci hanno gentilmente regalato. Granitici, compatti, tirati ma al contempo capaci di impennate emozionali dai picchi vocali a tratti imbarazzanti i Wolfmother hanno confezionato un disco che potrebbe sembrare scolastico ma che non dà il tempo di pensarci. Hard rock, un po’ heavy, decisamente classic, i Wolfmother non scrivono niente di nuovo ma lo fanno benissimo. Per i nostalgici un po’ tamarri come me. Rock and roll. (O.P.)

Oceansize

Everyone Into Position Beggars Banquet/Self Rock / ****

Arrivano da Manchester, ma sono in giro già da qualche anno. Hanno sempre usato dilatate dosi di melodia all’interno però di notevoli porzioni di rumore. Nel 2003 le esplosioni drammatiche di Effloresce, prima uscita ufficiale per Oceansize, trac-

ciarono il solco che portò al mini album Music For Nurses dell’anno dopo. Due episodi questi, che, con il più recente Everyone Into Position, confermano gli Oceansize tra i più ispirati testimoni di un rock convulso e fiammeggiante, che prende forma dalle intuizioni più illuminate della scuola post punk e poi post rock anglosassone. Rock che si nutre di chitarre allucinate, voce profonda, ritmiche secche e nevrotiche e fiumi di melodie narcolettiche. Un po’ schizofrenici e difficilmente adattabili ad una qualche scena, gli Oceansize confessano candidamente che le loro band favorite di tutti i tempi rispondono ai nomi di Aerogramme, Elbow, Pink Floyd, Black Sabbath, Can, Jane’s Addiction, Verve, Beach Boys, Nine Inch Nails, Gong, Talk Talk e Mogwai … tutte influenze più o meno affioranti in Everyone Into Position che alla fine resta, comunque, uno straordinario delirio di romantica psichedelia che solo a Manchester sanno creare. È l’estrazione proletaria di tutti e cinque i componenti degli Oceansize la miccia che fa esplodere la visione disincantata che la band ha della realtà che la circonda. Ma non c’è solo rabbia e potenza in questo album. C’è spazio anche per ballate stellari, che ti fanno tremare lo stomaco nell’attesa della devastante esplosione che puntualmente arriva fracassandoti il cuore in mille piccolissimi fiammeggianti frammenti. Camillo Fasulo

Satellite inn

Inthe land of the sun Urtovox Alternative country / ****

Si apre come se i Calexico si recassero in vacanza a casa dei Mogway. Tra folk sottile, sognante psichedelia alla Hope of the state, articolato come Bonnie Prince Billy in coppia con i Tortoise, il nuovo disco dei Satellite Inn è un viaggio nell’alternative country che passa dalle parti dei Wilco per poi farsi rock. In the land of the Sun è un disco pensato come un’unica opera, un concept dei nostri giorni. Un disco come una corsa in macchina, una lunga strada, paesaggi mutevoli che scorrono fuori dal finestrino, e storie, una per


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12 ogni canzone. Le trame fragili, ricche di arrangiamenti e strumenti, mai invadenti ma suadenti, avvolgenti a tratti struggenti sono il trampolino per un volo planato lungo e piacevolissimo. Tra le note della band si legge di un glorioso passato. Quello che è sicuro è che dinanzi a loro c’è un grande futuro. Osvaldo Piliego

The Shadow line

You ain’t nothing but a lot of talk and a badge Autoprodotto Rock / ***

Partono convinti fin dal primo riff gli Shadow line. Apertura con chitarrone quasi surf che dirompe in un rock and roll che trascina e decolla tra chitarre graffianti, sinth e una voce chiusa in una scatola troppo stretta. E il disco corre via veloce tra rimembranze punk anni 80, suggestioni sixties, il tutto tenuto insieme da una propensione indie figlia dei nostri giorni. Gli Shadow Line sembrano aver imparato bene la lezione e studiato a fondo prima di riuscire a sintetizzare le svariate influenze che emergono qua e là in un disco che tra momenti più ruvidi e concessioni pop che ricordano i primi Oasis rivela una band che scrive e suona la musica con la passione di chi vive per il rock. Senza fronzoli o troppi effetti speciali, ci regalano un disco che è come una dichiarazione d’amore a quello che è stato. Sette brani ricchi di sana energia suonati con la marcia giusta. Cesare Liaci

Liars

Drum’s Not Dead Mute avanguardia / **** Indubbiamente sono una delle più interessanti band newyorkesi, i Liars, trio capitanato dal frontman Angus Andrew. Dopo due lunghi ed estenuanti anni di tour e dopo un eccellente secondo disco (They Were Wrong So We Drowned), inquietante e psicotico quanto affascinante, giungono ad un nuovo e terzo capitolo, un concept album intitolato Drum’s Not Dead, da molti critici già definito un capolavoro. Per registrarlo la band ha deciso questa volta di spostarsi nel cuore d’Europa, a Berlino, culla di cultura non solo musicale, una scelta decisiva per il loro sound, ancora più lontano dagli schemi, dai generi tradizionali e dalle mode, dalle strade già segnate. I Liars sono pura sperimentazione, cupa, visionaria, a tratti violentemente psichedelica, sono un pugno nello stomaco creato al fine di dar sollievo, un dolore lancinante di cui non puoi fare a meno, sono gli incubi che non

sapevi di possedere nella tua mente, nei tuoi ricordi. I pochi fortunati che hanno avuto il piacere di vederli all’ultimo Arezzo Wave sanno di cosa sto parlando, la loro energia è trascinante dal vivo, un’esperienza onirica, un viaggio. Un messaggio per gli amanti della musica dagli approcci tenebrosi, provate ad ascoltare, non vi pentirete. Livio Polini

Beth Orton

Comfort Of Strangers Astralwerks Folk / *** Sono passati ben quattro anni da Daybreaker, forse l’album più rap pres e n t a t i v o della carriera di Beth Orton, cantautrice folk londinese. Il nuovo album, il quarto in ordine discografico, Comfort Of Strangers, manifesta delle importanti differenze nel suono, si può notare immediatamente la voglia di un ritorno al classico, segnato dall’abbandono della chiave elettronica che aveva arricchito e contraddistinto in passato lo stile delle composizioni. Se prima si poteva tranquillamente parlare di folktronic, grazie ad importanti collaborazioni di artisti come ad esempio William Orbit, adesso non più. La produzione di questo disco è assegnata a Jim O’Rourke, molto bravo nel suo ruolo, equilibrato nelle scelte. Questa volta, dicevamo, siamo di fronte ad uno spettacolo dove protagonista principale è la voce. È una splendida interpretazione quella di Beth, che ancora una volta ci regala gioielli di mirabile finezza. Qualcuno non sarà contento di questa “nuova” veste musicale, ad un ascolto superficiale certi passaggi possono sembrare ripetitivi. Pian piano, invece, ci si rende conto che lo scenario creato è di buon spessore, le punte di qualità molto alte. Lo spirito malinconico e gioioso a seconda dei momenti, la natura richiamante il pop, tutto entra in contatto senza difficoltà. Livio Polini

Burning Seas Sweet Coma Autoprodotto Metal / ****

Trovare oggi una metal band che sia quantomeno interessante nella marea dei demo e promo che ormai ci travolge è diventata un’impresa ardua. Ma se il genere è suonato con intelligenza e se al suo interno s’incorporano elementi che potrebbero definirsi, perché no, anche antitetici fra loro, allora le possibilità

di trovarsi di fronte ad un gruppo interessante e maturo potrebbero aumentare. Prendete i Burning Seas ad esempio. Sweet Coma è figlio diretto del nu metal di scuola Korn e dei suoni più estremi provenienti dal nord Europa (In Flames, Dark Tranquillity, Anathema), ma con un’attitudine sottilmente influenzata dalla melodia tanto cara alla vecchia scuola hard rock (Black Sabbath su tutti). La componente “nu” tradisce però anche una radice strettamente metal più vicina al thrash evoluto, un po’ sulla scia di Pantera, Sepultura e Machine Head, se vogliamo. Per farla breve: antico e moderno si fondono perfettamente nel “dolce coma” dei pugliesi Burning Seas. Avrete capito che ci troviamo di fronte ad un prodotto di qualità superiore alla media, ma che lascia anche spazio ad un ulteriore margine di miglioramento. Contatti: www.burningseas.it Camillo Fasulo

Julie’s Haircut

After Dark, My Sweet Homesleep Indierock/ ****

Da Sassuolo con una valigia carica di energia e stimoli ritornano in scena i Julie’s Haircut per il loro quarto album. In questa occasione troviamo nel gruppo un nuovo membro, Andrea Scarfone, specializzato in chitarra ed effetti. Cresce in questo modo indubbiamente il livello qualitativo, sembra davvero raggiunta la cercata maturità. Passati in questi anni dal garage rock al noise ad esperimenti di varia natura indierock, i Julie’s Haircut virano in questa occasione ancor di più verso la strada psichedelica, strada per certi tratti già incontrata. La particolarità di questo disco è data dal fatto che gran parte dei brani sono di lunga durata, soltanto quattro brani su undici sono cantati e cinque sono registrati in take 1 (traduzione: buona la prima!), in questo modo si può percepire amplificata l’emozione e la forte potenza del gruppo, le sfumature, l’improvvisazione. Si possono notare certi richiami in alcuni brani al post-rock anni ’90 e al kraut-rock seconda metà ’70. La parola d’ordine che contraddistingueva questi generi, come sappiamo, ancora una volta è sperimentazione, ma è il richiamo psichedelico degli anni ‘60 il richiamo più forte, quello dominante. Davvero una piacevole sorpresa, un buon disco. Livio Polini


KeepCool

13

Sarah Jane Morris After All These Year Irma Non solo jazz / ****

Tiga

Sexor Pias belgium Tunz tunz/**1/2

E così Tiga, il canadese che, dopo gli innumerevoli trascorsi techno djistici, con Sunglasses At Night aveva fortemente contribuito a far bruciare (e riportare) in club una generazione, taglia un nuovo traguardo, quello dell’album. E delude, parzialmente. Sì, perché di fronte a un remixatore di cotanta classe ci si attendeva qualcosa di più. Anzitutto una produzione più a fuoco. E poi a fronte anche dei soli singoli che avevano anticipato questo lp (qui tutti presenti per altro) non si può dire che gli altri pezzi che lo costituiscono sortiscano gli stessi eccitanti effetti. E allora succede che: Far From Home bazzichi il pop facilone con una filastrocca un po’ deboluccia, da sottoscala british. Capita di imbattersi in Down In It, cover piuttosto imbarazzante, come da una compila di trip hoppers versione demo che omaggiano NIN. Per fortuna You Gonna Want Me ci riporta ai fasti dell’electroclash più houseggiante. Neanche tanto tempo fa. High As School rappresenta l’urgenza del disco. Se avessi ancora 15 anni…Un’urgenza, come dicevamo, che a volte si tramuta in pasticcio, come la cover (l’ennesima!) di Burnin Down The House, che tanto spaccherà sul dancefloor quanto poco influirà nell’economia del disco. O 3 Weeks, molto Marc Almond via Punx Soundcheck, che se pasticcio non è, suona comunque scivolata via. Si riscatta con il protagonista del dramma, l’infame Sexor cantata con piglio sumneriano, il pezzo più “New Order”, quello più commovente, uno sguardo finalmente obliquo, senza pilota automatico da singolo boombastico scuoti-le-chiappe alla Pleasure From The Bass (che tanti mostri ha creato), e con Good As Gold, inquietante e notturna. Forse il problema ha a che fare con le aspettative che si nutrivano di fronte a un disco come questo. Verrebbe da dire “lasciatelo lavorare”. Pressioni da parte delle case discografiche? Ma Tiga non è Mr. Hollywood. E i dischi costano.. Sergio Chiari

Lo stile di Sarah Jane Morris è incondizionatamente poliedrico. Partendo dal canto jazz, si è presto allontanato dalla tradizione alta, quella che annovera Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Sarah Vaughan e poche altre tra le stelle incontrastate e un numero imbarazzante di seguaci dalla personalità miserella. Con una curiosità bulimica, e un occhio alla classifica, la vocalist inglese si è così rivolta al rhythm & blues, al rock, alla musica leggera – con una vittoria al festival di Sanremo al fianco di Cocciante – e finanche alla disco music. L’energia e la grinta vocale, il timbro scuro e la pronuncia sempre intelligibile, poi, trovano nelle esibizioni live un punto di fusione tale da accattivarsi sempre il pubblico, sciogliendo tutte le possibili riserve nei confronti delle scalette eterodosse. Il doppio After All These Years ripercorre abilmente il percorso sghembo e tortuoso condotto dalla cantante: si tratta infatti di una raccolta che mette insieme le sue diverse anime. E ci riesce piuttosto bene, proprio perché evidenzia il carisma sul palco e la capacità di affrontare un imbarazzante ventaglio di cover, da Piece Of My Heart (registrata lo scorso anno nel memorabile concerto a Villa Celimontana) e Mercy, Mercy Me a River Man (un pezzo di Nick Drake molto amato dalle vocalist moderne) e Chelsea Hotel. Gianpaolo Chiriacò

Projecto Heleda

Roma – New York – Baires Club Records Tango / ***

Roma è la città di partenza per questi musicisti, New York è la metropoli di passaggio per antonomasia, e Baires rappresenta il porto d’attracco, quello di Buenos Aires. L’estetica del Projecto Heleda è incentrata sul tango, e su tutte le diramazioni, intrise di passionalità drammatica, della musica argentina, inquinate poi da un approccio quasi jazzistico e una distensione tipicamente lounge. L’uso esclusivo di strumenti “tradizionali”, con la fisarmonica e il Rhodes in grande evidenza, si inserisce tra le elaborazioni del Gotan Project e le evoluzioni di Javier Girotto e i suoi Aires Tango. Il sound generale è godibile, con una predilezione per la corposità dei timbri. Minimi sebbene ben mirati, gli interventi in produzione lasciano spazio al flusso disinvolto dei piccoli assoli, sorretti dalla pulsazione costante (a tratti pure troppo costante) di basso e batteria. Nei

pezzi più attraenti fanno capolino anche altre voci strumentali – come la tromba in My Noche Tango e il bel solo di chitarra in Ocho – in grado di colorare i quadri sonori senza denaturarli. Un disco in fondo onesto, senza orpelli né ricami, ma dagli ampi orizzonti. Gianpaolo Chiriacò

Tosca

Souvernirs G-Stone Down tempo – Chill out / ***

Il ricordo di quel che è stato, filtra ed è cangiante, si ripropone in nuova forma quando riaffiora. Questi sono i Souvenirs di Tosca, sedici tracce affidate ad una manciata di manipolatori che gli hanno dato nuova vita. E si passa dall’effetto quasi cut up dell’apertura per avventurarsi in escursioni nel dub, momenti più chill out, altri più groovy quasi funk e un delirio chachacha virato samba a cura di Senor Coconut. Non mancano morbide casse dritte accarezzate da acustiche quasi ambient, ritmiche più tribal, altre più trans. Nel complesso la raccolta è ben calibrata, non manca di varietà e qualità, si lascia ascoltare con grande godimento, e, verso la fine, invoglia alla danza morbida. Vestire di nuovo pezzi di per se belli non ha fatto altro, in questo caso, che impreziosirli. (O.P.)

Fat Freddys Drop

Based On A True Story Self Dub-reggae / ****

La “true story” del titolo del disco potrebbe benissimo essere la loro: un allegro e ben assortito collettivo di sette musicisti provenienti da contesti stilistici differenti che dopo essersi costruiti una solida reputazione da live band, passano dalla carboneria della discografia underground al primo posto della classifica nazionale (doppio platino incluso) con una produzione indipendente dub/reggae oriented. Aggiungeteci che i nostri vengono da Wellington, Nuova Zelanda, e la storia, oltre che vera, diventa esemplare. Le dieci succulentissime tracce del loro disco d’esordio sono un abile miscuglio di suoni e stili diversi. In ognuna di esse convivono le influenze portate in dote dai singoli musicisti in un ideale somma algebrica di roots reggae, elettronica, funk, jazz e dub. Denominatore comune è la suadente voce soul di Dallas Tamaira (al secolo Joe Dukie) che ammalia e ipnotizza in ogni episodio, sia esso il down tempo dal sapore rnb di Ray Ray, il ritmo in levare con battuta funk di Roady o la


KeepCool

14 ballabilissima Wondering Eye. Le canzoni si sviluppano, crescono e si evolvono più volte nella loro lunga durata media, si dilatano, rallentano, si caricano di tensione, implodono per poi ricostruirsi e cambiare direzione senza mai uscire dal seminato. L’atmosfera generale è di raccolta intimità con quei ritmi rilassati e dilatati e quell’attitudine da sound system montato in salotto. Il tutto è stato minuziosamente creato e assemblato nella casa/studio del Dj Fitchie (capo della banda e attualmente il produttore più osannato in patria) nonché quartier generale del gruppo, chiamato affettuosamente “the beach” perché a pochi passi dal mare. Bella storia (vera). Giovanni Ottini

Gomo

Best of Gomo Santeria/Homesleep Pop elettronico / ***

Dopo il grandissimo successo ottenuto in casa, il portoghese Gomo dilaga anche in Italia. Tormentone bombardato a raffica da Mtv Gomo non può non piantarsi nel cervello. Pop elettronico sbarazzino, ritmo preso in prestito dal cugino americano Beck a cui molti lo paragonano. Ma tolta una certa attitudine in bilico tra indie e dancefloor poco accomuna i due. La formula che compone questo best of Gomo è semplice ma efficace: 12 brani, 12 singoli. L’apripista e riempi pista Feeling Live con tanto di vocine strecciatissime non può non invitare alla danza felice. Sempre in equilibrio tra quello che può piacere all’appassionato e quello che può sponsorizzare una macchina o una compagnia telefonica. Alla fine Gomo è un compromesso, un Bignami per approcciare senza approfondire la materia. Ma nel pop, tutto questo, va più che bene. (O.P.)

Bassi maestro

Hate Saifam Hip-hop / *** 1/2

Nuovo disco e nuova etichetta per uno dei pionieri del rap made in Italy: Bassi Maestro. Abbandonata la Vibrarecords propone il suo ultimo lavoro, Hate, dopo

aver resistito alle lusinghe di cambiare il suo flow a favore di ricchi contratti e passaggi televisivi. Ognuno fa delle scelte e Davide Bassi nel suo ottavo album fa la scelta di tornare alle origini con un soundnostalgia che tanto ricorda i suoi primi lavori, come lo splendido Foto di gruppo (1997). In questo disco, che spazia dalla emozionante Dedicated, atto d’amore verso il rap, alla amara protesta di Knock ‘em out in cui prende alla berlina il mondo della musica commerciale, Bassi dimostra di non essere finito e di avere ancora tanto da dire. Con delle riserve. Perché se è vero che la sua capacità di denunciare senza remore o censure non viene mai meno, è altrettanto evidente in lui il bisogno di rinnovarsi, almeno nelle tematiche sempre agganciate al microcosmo milanese e a una sorta di disfattismo. Non un capolavoro quindi, ma un disco onesto e come sempre appassionato, per uno degli interpreti più sinceri e longevi del panorama italiano. Per appassionati. Papa Ciro

Mondo marcio Solo un uomo Virgin Hip-hop / ****

Diciannove anni, tre dischi alle spalle e un futuro da star. Queste le credenziali di Gianmarco Marcello, in arte Mondo marcio, nuovo fenomeno dell’hip-hop italiano proveniente dai bassifondi milanesi e da qualche settimana in cima alle classifiche italiane con il singolo Dentro alla scatola. Un’infanzia difficile alle spalle, una famiglia poco unita, la droga, gli assistenti sociali. E la musica. Già, la musica, senza la quale la sua vita avrebbe preso una piega diversa. Ed è di questo che racconta Solo un uomo, urlo di dolore e al momento stesso di riscatto, piccolo fiore cresciuto fra le macerie di una periferia troppo grande per poter essere ascoltata. Temi duri dunque, ma anche reali, così come il talento di questo ragazzo che riesce ad unire sonorità

americane tipiche di 50 cent e Jay-Z al racconto appassionato di una realtà che ci è vicina. Singolo a parte, l’anima di questo disco passa da pezzi commerciali come Segui la stella a motivi interessanti come Purple weed, che rendono d’un colpo solo l’idea di un lavoro variegato e di sicuro successo. Che ha riscritto le regole dell’hip-hop italiano. Papa Ciro

Niccolò Fabi

Novo Mesto Virgin/Emi Pop Italiano / ****

Dopo dieci anni di carriera e molti singoli di successo (forse meno di quanto meritasse) alle spalle, Niccolò Fabi esce con Novo mesto e entra subito in classifica a ridosso dei primi dieci posti della classifica: miglior risultato di sempre (per usare una espressione sportiva) per il cantautore cresciuto nella “scuola romana” con Daniele Silvestri, Max Gazzé, Federico Zampaglione, Riccardo Sinigallia e molti altri. I dieci brani, registrati nella località slovena di Novo mesto (appunto) ripercorrono, in maniera delicata e musicalmente raffinata, il tema del viaggio. Novo mesto (l’aria intorno), Oriente, Mettere le ali, il bel singolo Costruire (dove forse i vocalizzi indugiano un po’ troppo nel finale), Dentro mettono in evidenza la capacità di scrittura tra dolci ballate e sonorità jazz, tenue rock e pop d’autore, sempre e comunque disegnate per la inconfondibile voce. Mai banale, mai scontato, nelle linee melodiche come nei testi, Novo Mesto è, (come si dice retoricamente) il lavoro della maturità di Fabi. Sandro Lattes


KeepCool Francesco De Gregori Calypsos Caravan Melodia italiana / **1/2

Neanche un anno dal già deludente (almeno per me) Pezzi e il mio cantautore preferito – butto le mani avanti per sottolineare il mio dolore sforna un nuovo album alquanto zoppicante. Sulla poetica del principe nulla da dire ma nei nove nuovi brani fatico a trovare quello indimenticabile. Rispetto al precedente, Calypsos è un album che parla d’amore, di sentimenti, lontano da qualsiasi riferimento alla politica e alla cronaca. Un rifugio nell’attuale marasma elettorale, un ritorno alla poesia e alle canzoni d’amore tra piani e ritmi più blandi, poco rock, poche chitarre elettriche, molti coretti, voce meno dylanizzata, melodia italiana. Impossibile non citare la prima volta per De Gregori della frase “ti amo” (presente nel primo singolo Cardiologia) che un po’ spiazza considerata la voce di chi pronuncia la frase. L’album prosegue con il terzinato de La linea della vita, con la costruzione de La Casa, con ritmi vagamente hawaiani de L’angelo (che richiama Matilda di Harry Bellafonte), con cantilene un po’ esagerate di In onda, con le sonorità alla Dire Straits di Mayday, con il bluesettino di Per le strade di Roma, con il lento oscillare de L’amore comunque, e con l’avvio stile Una donna per amico di Tre stelle. Calypsos non girerà spesso nel mio stereo. Pierpaolo Lala

Marco Notari

Oltre lo specchio Artes/Mescal Rock italiano/**

Opera prima acerba e poco a fuoco quella del giovane Marco Notari che, supportato nella produzione artistica da Giulio Casale (Estra), non va oltre un pallido indie-pop fortemente imparentato a quelle esperienze nazionali che in epoche più o meno recenti hanno costituito la via italiana al rock indipendente. Poco personale e con una voce che fa il verso a Marlene Kunz e Verdena, senza avere l’afflato poetico dei primi e la compattezza stilistica dei secondi, Oltre lo Specchio ha dalla sua comunque delle

15 discrete intuizioni pop, come il radiofonico singolo apripista Ninfee e la titletrack forse l’episodio più riuscito - ma i pregi si fermano qui: il resto è un indistinto calderone caratterizzato da un sound vecchio di dieci anni, con accenti grunge e pop, senza particolari illuminazioni. Anche a livello di liriche, il cantautore non sorprende, cantando storie piuttosto comuni prive di quel guizzo poetico che ci si aspetterebbe da un’opera prima dal siffatto codice genetico. Gli arrangiamenti, piuttosto piatti, non aiutano a diversificare l’offerta generale, rendendo Oltre lo Specchio un esordio da dimenticare. Ilario Galati

Masoko

Bubù7te Snowdonia Pop wave/***

Debutto ufficiale per i romani Masoko. Dal ’99 ad oggi tantissimi concerti e varie autoproduzioni promettenti, tra cui l’ottimo “Notanga”. I quattro guardano alla wave nervosa (quando non proprio schizoide) di Talking Heads (dai quali mutuano anche l’attitudine “arty” poco seriosa e mai troppo snob) Gang of four, Polyrock, Sound, ma anche -in tempi recenti- Art Brut (cui i nostri hanno avuto l’onere di fare da opening act). Un immaginario sintetizzato dal casermone in copertina da cui sbucano Diana Ross e Britney Spears versione zombie: storielle suburbane raccontate per assurdità nonsense; discoteche, storie brevi, l’ennesimo stupido party, “un porno da finire e un altro da iniziare”,etc. Nel lotto:“ Cool”, “Alfonso”, (canzoncina punk su un transessuale) “Comfort” (la cosa più vicina a un hit single che abbiano mai fatto) e una vecchia chicca,“Prima colazione” tirata a lucido (intro praticamente Strokes). Riffs di chitarra tesi ed essenziali rincorrono le geometrie di una formidabile sezione ritmica frullando discodance, funky danzereccio, pop anni ’80 (colto e nazionalpopolare). Simone è una scheggia e picchia sui tamburi con stile fantasioso ed energico, trovando un partner perfetto nel basso dinamico ed incessante della bella Ivana , Davide è nevrotico e sprezzante, e Alessandro si conferma come uno dei

nostri chitarristi più inventivi, senza strafare mai. Spruzzate di elettronica vintage e attitudine punkeggiante che esplode nei trascinanti live in giacche e cravattine. Da non perdere il 31 marzo allo Zenzero di Bari e/o il 1 aprile all’Istanbul di Squinzano. Antonio Olivieri

Gianna Nannini

Grazie Polydor/Universal Rock italiano / ****

Primo nelle classifiche degli album più venduti in Italia, più in su di Capossela, c’è il nuovo disco di G i a n n a N a n n i n i , G r a z i e , uscito nei negozi il 27 Gennaio per l’etichetta Polydor. Oltre a una produzione attenta e meticolosa, oltre ad arrangiamenti intensi e impeccabili, c’è tutta la Nannini in questo lavoro. Un’esplosione di sentimenti ed emozioni che fa quasi male al cuore. Perché lei è una donna forte, innamorata, arrabbiata e la sua forza, il suo amore, la sua rabbia sono tutte qui. Urlate come urla chi ha urgenza di dire tante cose, un mondo intero. Sputa la sua dolcezza la Nannini e nonostante quel suo aspetto che sa di anima sicura e grintosa anche lei ha le sue debolezze, che svela in questi testi. Parla del rapporto contrastato col babbino caro per cui accenderebbe il sole, degli amori che si allontanano o da cui ti strappi senza sapere perché. Addii e confessioni, schiaffi e carezze, il fuoco malinconico di una Nannini donna e bambina. I pezzi di questo disco sono belli come i pezzi più belli della sua carriera. C’è un po’ di quell’Amandoti che era un inno all’amore. A chi è innamorato, a chi lo è ma non vorrebbe esserlo più, a chi non sa amare. C’è la poesia delle Notti senza cuore e la dolcezza di quella Sorridi che chiunque vorrebbe sentirsi dedicata. Dopo l’autobiografia Io in cui l’artista si raccontava, esce questo disco che è più di un racconto. Pezzi lucenti di malinconia ed esplosivi come l’amore. Variano i toni nelle diverse canzoni, slanci grintosi e atmosfere più melodiche grazie all’inserimento di


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16 archi e pianoforti, ma rimane un album deliziosamente rock. E non basta fermarsi al singolo o alla titletrack per sentirlo davvero. Il lavoro, prodotto insieme a Wil Malone, già al fianco di Skin e Verve, vanta collaborazioni illustri (Mesolella alla chitarra, la pianista Ani Martirosyan, Isabella Santacroce alla stesura dei testi, con la quale la Nannini aveva già lavorato in passato). Valentina

Fido Guido

Terra di nessuno Zuingo communication Reggae/****

Dopo quindici anni vissuti pericolosamente - dietro i tamburi dei So Fuckin Confused, hardcore band tarantina che ha calcato anche palchi internazionali e suonato con

gente di tutto rispetto - Fido Guido sembra aver trovato la sua vera dimensione. I ritmi in levare hanno preso il posto dello sconquasso sonoro, ma la voglia di denunciare soprusi, di cantare storie di marginalità sociale e antagonismo politico resta la stessa. Terra di Nessuno è il vero esordio del nuovo corso di Fido Guido, anche se è doveroso menzionare il demo che lo ha preceduto, Patrune e Sotte, che ha fatto da apripista facendo di Guido un vero e proprio caso nella scena musicale tarantina (dove invero, si continua a sonnecchiare). Un pugno di canzoni ‘oneste’, dirette, semplici, che usano il veicolo del dialetto e intessono trame sonore profondamente roots: questa la formula che pare abbia rapito una buona parte dell’audience reggae nazionale, se è vero che anche i grossi network commerciali si sono accorti di questa opera prima. Canzoni immediate,

dicevamo, ma che spesso mostrano scampoli di vera e propria poesia urbana, raccontando la vita dura di chi tira a campare nei quartieri dormitorio delle nostre città, dove regna la malavita e dove un posto di lavoro ed un riscatto sono solo chimere, a meno che non si voglia lasciare la propria terra e tentare la fortuna altrove. Fido Guido è portatore di “buone vibrazioni”, senza che però questo passi necessariamente per il politicamente corretto o l’edulcorato, a cominciare dalla intro nel quale si palesa con energia la rabbia contro l’occupazione del territorio da parte della marina militare e della Nato. Totalmente fatto in casa, Terra di Nessuno è un bel cazzotto nello stomaco che nasconde, dietro ritmi gentili, una ‘voce contro’ credibile e coerente. Ilario Galati

SONGS FOR ULAN: LA NUOVA VOCE DELL’INDIE È il disco italiano rivelazione del 2006. You Must stay out (recensione sul numero 22 di Coolclub.it) è il secondo album di Songs For Ulan, al secolo Pietro De Cristofaro, un cantautore napoletano ma con il Mississipi nel sangue e il cuore in America. Abbiamo scambiato qualche battuta con lui. Innanzitutto complimenti. Il nuovo album è intenso, maturo, ha un sapore spesso, ci parli un po’ della sua genesi, quali sentimenti lo hanno popolato, ispirato? Grazie dei complimenti, davvero. You must stay out, in realtà, è ben più vicino, nonostante li separino circa due anni, al precedente Songs for Ulan di quanto si possa immaginare. Quest’ultimo venne di getto, ideale scrematura fatta in studio con quanti ne presero parte (Francesco Cantone, Tazio Iacobacci e Cesare Basile) del materiale scritto al termine della mia prima e finora ultima esperienza discografica “major”, in italiano. Sette brani in inglese, uno scheletro chitarra e voce che Cesare ha vestito per bene. Di qui in poi, sin dalle stesse registrazioni, continuai a scrivere canzoni e, qua e là, suonarle. Dalla pasta cresciuta grazie alla collaborazione dei miei musicisti (Fulvio Di Nocera al basso, Floro Pappalardo alla batteria ed Enzo Mirone alla chitarra nonché all’organetto) ed al medesimo team, è nato l’album. Per me i due si completano, anche se questo ha più spigoli, in tutti i sensi. Circa i sentimenti, beh, direi quelli forti. Conditi da una grande dose di autoironia e, soprattutto, distacco. Dal bene quanto dal male. Parlando di te si sprecano paragoni, da chi o da cosa ti senti realmente ispirato? Da ciò che vedo tutti i giorni, proibito sognare. Da quanto mi accade allo stomaco ed al cuore. Ogni volta che tocco le corde e canto. Dalle storie che ascolto e quelle che vorrei raccontare. Come, in un artista come te, presente e

passato si conciliano, la tua storia a un certo punto ha subito una brusca svolta...ce ne parli? In breve: circa 18 anni di R’n Roll, sottoboschi stravissuti. Un bel giorno la proposta di fare un disco vero, la richiesta di cantare in lingua Italiana. Poi la fine di una storia, un compromesso voluto e pagato abbastanza. Infine, mettere su disco ciò che sono realmente. Perché Songs for Ulan e non Pietro De Cristofaro? Ulan era il mio cane. È stata la prima volta che ho desiderato qualcuno in maniera ossessiva. E di perderla. Credo di essermi ripreso qualcosa. L’indie italiano, quello fatto in inglese, ha acquistato in questi ultimi anni sempre più dignità, un prodotto da esportazione che nulla ha invidiare alle produzioni estere. Cosa ne pensi? A nome di tutti: vorremmo suonare di più. E, piuttosto che perdere tempo a sentirsi descrivere simili a Laneghan, Buckley o che so io, qualcuno ci esportasse davvero, se lo meritiamo. Qual è il tuo rapporto con il blues, il folk, il rock e come questi suoni o generi entrano nella tua musica? Ho ascoltato ed ascolto di tutto. Ciò che è fondamentale sono le Canzoni!!! Sangue e Pancia. Niente pippe. Forse questo è il Blues… Consiglia tre dischi ai lettori di Coolclub.it. Difficile quanto odiosa. Sparo: Violent Femmes, Harvest ed una bella raccolta di Piero Ciampi. Osvaldo Piliego


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IL RITORNO DEI BELLINI

Sono di nuovo in carreggiata i Bellini, dopo un periodo non proprio facile: nel 2002, la defezione di Demon Che (già con i Don Caballero) e le tante date cancellate a causa dell’uragano Lily, avrebbero potuto spingere la band a gettare la spugna. In un momento davvero nero però Agostino Tilotta e Giovanna Cacciola, già animatori degli Uzeda da più parti indicati come uno dei momenti più alti del nostro rock, hanno trovato la forza di reagire. Imbarcato il nuovo batterista, Alexis Fleisig (Girls Against Boys, Soulside), hanno dato alle stampe il loro miglior lavoro, questo Small Stones (Temporary Residence Limited), un disco potente e variegato che vede ancora una volta Steve Albini dietro la consolle. Di questo e di altro abbiamo parlato con Giovanna, affabile e cortese portavoce del combo siculo-americano. Questo disco arriva dopo un periodo non proprio sereno per i Bellini e credo che in qualche modo rappresenti un ritorno importante dopo una serie di situazioni che potremmo definire rocambolesche ma che ormai avete superato. Già. Questa comunque credo che sia una caratteristica comune alle persone del Sud. Siamo abituati a non avere vita facile soprattutto quando ci occupiamo di creatività e arte ma non abbiamo mollato perché siamo stati fortunati nell’incontrare una nuova persona, splendida, alla quale vogliamo molto bene e con la quale ci troviamo benissimo. I Bellini sono una band che proviene da Catania-Sicilia, Austin-Texas e New York-New York City e mi pare che gli spostamenti geografici non siano finiti. Si è vero perché Alexis vive a Los Angeles, Matthew adesso vive ad AlbuquerqueNew Mexico, e noi siamo ancora qui, a Catania (ride). Avete fatto una serie di date negli Usa, toccando città molto importanti. Che tipo di risposta avete raccolto negli States?

Ottima. Abbiamo girato per la maggior parte del tour come opening act dei Mono, che in Usa sono molto amati, per cui abbiamo usufruito della loro audience ma, nonostante la nostra musica sia piuttosto diversa dalla loro, abbiamo avuto una risposta davvero notevole. Le ultime quattro date le abbiamo fatte da soli, ed è stato quindi il banco di prova più importante. Devo dire che siamo davvero sorpresi e soddisfatti perché ci siamo accorti che il nostro pubblico è cresciuto tantissimo. Sono passati diversi anni dai dischi della prima vostra creatura musicale, quegli Uzeda che hanno aperto più di una breccia nel rock nostrano. Volevo chiederti se ci vedi un filo rosso che collega i dischi degli Uzeda a quelli dei Bellini ed in particolare a quest’ultimo Small Stones. Ti confesso che ho un po’ di difficoltà a risponderti, perché è chiaro che sia negli Uzeda che nei Bellini ci siamo io e Agostino, e la mia voce resta la stessa. Però sento che si tratta di due situazioni diverse, anche per quanto riguarda le relazioni interpersonali. Ti trovi più a tuo agio con dei pezzi tirati e ruvidi, oppure con quei pezzi ariosi, melodici, lirici, presenti anche questi in Small Stones? Dipende dal mio stato d’animo, a volte ho voglia di urlare e di sfogarmi, altre volte mi sento molto più riflessiva e quindi preferisco le canzoni più intime. Il disco è stato anticipato dal singolo Buffalo Song. Come mai la scelta è caduta su questo pezzo? Ci sarà un video? Buffalo Song credo sia la canzone che meglio lega i vecchi Bellini ai nuovi, perché è stata l’ultima che abbiamo scritto quando c’era ancora Demon e quindi ci sembrava abbastanza rappresentativa di questo passaggio cruciale. Per quanto riguarda il video, ti rispondo sinceramente che non possiamo permettercelo ma

abbiamo coinvolto un po’ di persone alle quali abbiamo fatto una specie di appello: se vi sentite di fare un video di una nostra canzone fate pure, scegliete la vostra preferita e fateci sapere. Anche perché ci interessa capire che punto di vista hanno gli altri delle nostre canzoni. Un modo curioso di lavorare, non trovi? Decisamente. Cambiando argomento, qui in Italia i vostri fan cominciano a recriminarvi, sia come Uzeda che come Bellini, e questo lo evinco chiaramente da blog e forum. Avete in previsione dei tour nel bel Paese? Anzitutto grazie per quello che mi dici perché ogni tanto anche noi abbiamo bisogno di conferme (ride). La risposta è sì perché Uzeda non è certo una storia chiusa, abbiamo in cantiere un disco per il prossimo anno. Per quanto riguarda i Bellini, andremo in tour a marzo e cercheremo di suonare il più possibile. Small Stones ha una cover di quelle che, per qualche strana ragione, ti fanno intuire la materia musicale che ci troverai dentro. Cosa rappresenta e chi è l’autore di questo strano patchwork che campeggia in copertina? Il lavoro è di Agostino, che passa giornate intere a comporre questi strani quadri per poi regalarli agli amici. Uno di questi rappresentava proprio il periodo difficile che abbiamo passato. Ci sembrava andasse bene, lo abbiamo adattato alle dimensioni della cover e ci ha subito soddisfatto. Domanda obbligata: dietro la consolle di Small Stones c’è Steve Albini. Che persona è Steve? Una splendida persona, onesta, limpida. Non nasconde quello che pensa e forse per questo viene spesso criticato. Noi ci troviamo benissimo perché rispetta il lavoro degli altri e non offusca il nostro sound. Ilario Galati


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LE INFINITE POSSIBILITA’ DEI LA CRUS

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Intervista con Joe “L’inizio della lavorazione di un nuovo disco è un momento sempre pieno di dubbi e di aspettative. È un po’ come una stazione ferroviaria, se vogliamo. Si arriva lì e nessuno è sicuro di niente, tutti ci arrivano sperando in qualcosa, e soprattutto in qualcosa che sia ancora meglio del percorso che è alle spalle”. Mauro Joe Giovanardi racconta così la nascita di Infinite Possibilità, l’ultimo cd dei La Crus. È un disco molto denso, un lavoro che sembra fatto per appagare più sensi, ci spieghi l’idea? Innanzitutto abbiamo da subito coinvolto nella co-produzione artistica di questo lavoro anche Luca Lagash e Leziero Rescigno, già da anni al nostro fianco nella line-up dal vivo. Questo ha voluto dire brani provati e suonati già da una band in fase di composizione, quindi un uso minore dell’elettronica, un suono elettrico più caldo e ha voluto dire anche molti più stimoli, più spunti e di conseguenza la difficoltà a dare una identità forte a questo disco attraverso un concept che lo legasse da cima a fondo come era stato per i lavori precedenti. Perchè l’arrivo delle idee compositive e di scrittura era talmente magmatico che si è imposta in modo molto naturale una molteplicità che poi riguardava anche arrangiamenti, struttura dei pezzi, scrittura dei testi, addirittura il mio modo di interpretare la voce. Quindi a quel punto è stato bello e stimolante andare a cercare i modi per esaltare questa molteplicità. L’idea decisiva è venuta a Cesare che, un bel giorno, ha pensato di chiamare i tipi del Milano Film Festival (due anni fa avevamo fatto parte della loro giuria per le colonne sonore) e chiedere di farci vedere un po’ dei cortometraggi che

hanno in catalogo. Abbiamo visionato, credo, qualche centinaio di corti, e ne abbiamo individuato una dozzina che potevano prestarsi ad essere rimontati sulle canzoni. Alcuni erano pazzeschi per quanto sembravano fatti apposta per funzionare insieme ai pezzi. Fatta questa cernita abbiamo contattato i registi e le loro case di produzione per chiedere l’autorizzazione a togliere il sonoro originale e ri-montare i film sul ritmo e sulla lunghezza delle canzoni. E questo è stato un vero viaggio intorno al mondo perché, come potrete vedere dalle note sul retro della confezione, davvero tutto il mondo è rappresentato nei corti che abbiamo scelto. Quindi Francesco Frongia, regista video del teatro dell’Elfo si è accollato il lavoro di rimontaggio dei film sulle nostre canzoni. La molla iniziale che ci ha fatto scattare l’entusiasmo per questa operazione e che ci ha fatto intravedere la possibilità di realizzarlo è stato il primo accoppiamento film-canzone che abbiamo trovato. Ed era quello per Mondo sii buono che è poi anche il primo singolo tratto da questo disco. Ho trovato due titoli interessanti scorrendo il libretto, Buongiorno tristezza (è il titolo di un libro di Francoise Sagan) e Ho ucciso Thurston Moore( il chitarrista dei Sonic youth) me li vuoi spiegare? Buongiorno Tristezza è stata anche una canzone – interpretata da Claudio Villa e da Tullio Pane – che vinse nel 1955 il festival di Sanremo. In quella edizione, per la prima volta, le telecamere della RAI portarono le immagini dei cantanti nelle case e nei bar italiani. Curiosamente anche il nostro progetto rappresenta allo stesso modo – per come lega canzoni e immagini - qualcosa di inedito nel panorama musicale italiano. Venendo al “giovane sonico”: in quanto simbolo

di scelte radicali e coerenti, uccidiamo (metaforicamente) Thurston Moore ogni volta che rinunciamo ad una scelta coraggiosa (ogni volta che rinunciamo ai nostri ideali). L’invito implicito della canzone è quindi non ad uccidere Thurston Moore, ma al contrario a tenerlo ben vivo! È un’autocritica sulla nostra bravura (non come La Crus, come esseri umani) a trovare buone scuse per non fare niente per gli altri, per chi è ultimo nel mondo. Hai mai pensato a quanti privilegi abbiamo senza averne nessun merito?: Sono nato maschio, bianco, a Milano/ Italia/Europa, in una famiglia che non è sotto la soglia di povertà. Credo che siamo chiamati a dare conto di come avremo fatto fruttare questi privilegi… Ho sempre considerato i la Crus come la perfetta sintesi tra il passato e il futuro, il nuovo cantautorato possibile, come la vedi? Ma, l’idea originaria è stata sicuramente quella. Far convivere due mondi che sulla carta erano distantissimi. Il recupero della tradizione della canzone d’autore e la nostra cultura musicale, il nostro background, le nostre influenze, che partivano da un’esperienza punk e new wave, e che si erano modificate con il mutamento che questo stesso movimento musicale e sociale aveva avuto. Sicuramente, non tutto quello che abbiamo prodotto, è sempre stato a fuoco, ma si sbaglia più facilmente quando si cercano strade poco battute. Credo, però senza falsa modestia, che il lavoro di recupero e di ricerca che abbiamo fatto in questi anni, il seme che abbiamo gettato coi primi dischi, sia stato abbastanza importante. Nei Tiromancino, nei Baustelle, nei Perturbazione, un pochino dei La Crus, ci trovo … o no? Osvaldo Piliego


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IL SALTO NELL’INDIE: TROVAROBATO Continua il nostro viaggio alla scoperta delle etichette indipendenti italiane. Questo mese è il turno della Trovarobato, giovane realtà che si muove a Bologna e nasce dalla lucida follia di un gruppo come i Mariposa. Abbiamo parlato con Michele. Allora, ci parli della vostra famosa etichetta? Dove nascete, agite, volete arrivare? Da sempre noi Mariposa siamo stati onnivori e mammiferi. Onnivori di tutto ciò che concerneva la parte parallela al semplice esibirsi su un palco, ovvero, ci siamo da sempre autogestiti il booking, la promozione, il web, la grafica. E, nel corso degli anni, abbiamo approfondito questi aspetti, sperimentandoli costantemente nell’operato dei Mariposa. A un certo punto abbiamo pensato di applicare tutto questo anche ad altri artisti, e così sono nate le nostre collaborazioni con Addamanera, Timet, Alessandro Grazian. E questo è Trovarobato: una piccolissima realtà discografica, un booking, un “crogiuolo” di menti malate e creative (soprattutto malate) che provano a produrre eventi artistici. Il nostro campo base è a Bologna, città nella quale alcuni di noi vivono e che è sede del nostro quartier generale soprannominato “Magazzeno”: auspichiamo che in breve tempo “Magazzeno” diventi sinonimo di warholiana “Factory”. Nel frattempo facciamo debiti. Quali sono le vostre produzioni? Con che criterio, se ce n’è uno, scegliete chi produrre? Siamo veramente un piccolissima realtà discografica. Ci siamo però accorti come ci siano attorno a noi molte realtà di talento; e ce ne siamo accorti in maniera del tutto casuale, così come accadono quasi tutte le cose a questo mondo. Parto con gli esempi. Un giorno, come Mariposa, eravamo a suonare al “Banale” di Padova e il fonico della serata, il nostro amico e tecnico del suono Max Trisotto, aveva organizzato un’apertura al nostro concerto col cantautore Alessandro Grazian. Lo abbiamo ascoltato e ci è piaciuto molto: così siamo venuti in contatto con Alessandro, contatto che mesi dopo ha dato vita al suo disco Caduto, che abbiamo prodotto assieme alla Macaco. Gli Addamanera sono invece piovuti dal cielo, dalla ionosfera, nella quale abitano loro e la loro psichedelica musica. Oppure,

molto più terra-terra, li abbiamo conosciuti tramite il nostro batterista Enzo, che è di Messina come loro. Ma gli incontri fortuiti comunque continuano. Suonando al concorso Omaggio a Demetrio Stratos siamo entrati in contatto coi Trabant Mobil, che, più veraci di un porcino schietto, ci hanno fatto sentire il loro My favourite pelo, uno dei dischi più freschi, articolati e intelligenti che abbiamo mai ascoltato in tutto lo scorso 2005. Oppure, a Bologna, vive e opera un geniale performer, percussionista di formazione e musicista elettronico per studi, dal nome di Davide Tidoni, vincitore del Premio Iceberg 2003, iconoclasta e sottile al tempo stesso, produttore di atmosfere irreali tramite object trouvè e manipolazioni digitali. Ci sono i Transgender, il più interessante gruppo rock italiano, già noto per il primo disco prodotto da Snowdonia, col quale vorremmo incrociare le strade per una loro seconda ufficiale produzione. E li abbiamo incontrati per la prima volta suonandoci assieme alla Festa dell’Unità di Imola, e quella sera piovve. E c’è Dario Buccino, compositore e cantante da strada, che da anni propone private performance casalinghe a base di lamiere percosse/abbracciate/ combattute coll’intero corpo, fiati e voci graffiate. Tutti nomi che ci piace segnalarvi perché “cose notevoli” a parere nostro, e perché vorremmo fossero future produzioni di marca Trovarobato. Ho letto di un vostro progetto parallelo, Magazzeno Bis, una sorta di talk show concerto in cui la Trovarobato sta spendendo molte energie. Ci spieghi di cosa si tratta? Magazzeno bis è la cosa che stiamo seguendo con più attenzione in questo periodo. Si tratta di un “talk-show concerto” ideato e prodotto da noi di Trovarobato, in onda sulle frequenze di quello che noi definiamo un “network inconsapevole”, che per adesso coinvolge 25 emittenti radiofoniche sparse per tutta l’Italia. Alcuni artisti e gruppi musicali si alternano ogni due settimane sul palco di Magazzeno bis(questo il nome dello “studio 2” della Trovarobato), producendosi in eventi live che vanno dalla presentazione del loro nuovo disco alla vera e propria

performance. All’evento partecipa un piccolo pubblico, invitato o presente perché ne ha fatto richiesta, che con le sue domande, le sue critiche e provocazioni, fornisce le coordinate dell’evento. Un contenitore aperto agli imprevisti, all’happening, all’improvvisazione e al “ciò-che-non-avresti-mai-fatto”, vivo e non più appiattito solo su dinamiche del tipo “pezzo dal vivo - domanda sul disco - progetti per il futuro”. Intento parallelo ma non secondario è quello di coinvolgere anche l’etichetta che sta dietro all’artista per una piccola retrospettiva in forma di chiacchierata. Ci piacerebbe avere, alla fine del ciclo di trasmissioni, un numero sufficiente di testimonianze per fornire anche un piccolo servizio “enciclopedico” alle generazioni future (!), una fotografia dello stato della musica di oggi. Il tutto sotto la mia guida, sulle orme di Arbore & Boncompagni (prima che rincoglionissero) e, con infinito rispetto e senza offesa, di John Peel. A Lecce si ascolta dalle frequenze di Primaveraradio sui 95.100, ogni due mercoledì alle 20.00. È facile -e con questo chiudo e vi salutobarcamenarsi nel mondo della discografia o avete incontrato e incontrate delle difficoltà? È una passione o un lavoro per voi? Se non sbaglio fate anche altro nella vita e la musica occupa sempre un posto d’onore… Questa domanda e la sua risposta potrebbero chiudere con mestizia quest’intervista iniziata invece sotto il segno del gioco. Perché, molti esempi a noi vicini ci porterebbero a dire che di musica, adesso in Italia, non si può vivere. Chi fa musica, oggi, all’interno di questo nostro microcosmo indipendente, raramente riesce a vivere dei propri proventi. Noi adesso stiamo lavorando con molta passione a questi progetti e questo è per noi quello che potremmo definire “un grande hobby”, senza trovare più di tante difficoltà, anche perché l’autarchia è forse il miglior modo di lavorare, non dovendo dipendere da nessun altro se non noi stessi, potendosi guardare negli occhi e offendere (facendo pace subito dopo) quando si vuole. Valentina Cataldo


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LE EMOZIONI CON IL FIATO DI ANDREA SABATINO “Lo stile sarà quello degli anni ’50, del cosiddetto hard bop, con pezzi miei originali più qualche standard riarrangiato facente parte del repertorio jazzistico del passato”. Andrea Sabatino, astro nascente del panorama jazz pugliese, ha sicuramente le idee chiare per quello che sarà il suo primo lavoro discografico interamente dedicato alla memoria del fratello Alessandro, scomparso appena l’anno scorso. Mentre parla della sua prima “improvvisazione” in studio, è leggibile negli occhi del ventiquattrenne di Salice Salentino quell’emozione che, tuttavia, non basta certo a fargli trattenere il respiro: guai, per un trombettista, perdere il fiato. E ormai l’enfant prodige, diplomato al conservatorio Tito Schipa di Lecce e premiato come miglior talento dei corsi estivi di Umbria Jazz 2001, ha appunto il fiato giusto per esordire. Il jazz-man sarà supportato non soltanto da colui che considera il suo padre musicale, quel Fabrizio Bosso pronto a mettere il proprio timbro, non solo sonoro, sul cd dell’Andrea Sabatino Quintet, ma anche dai più quotati musicisti del panorama jazzistico

pugliese, ossia i baresi Giuseppe Bassi al contrabbasso e Mimmo Campanale alla batteria, il tarantino Ettore Carucci al piano e, infine, il brindisino Vincenzo Presta al sax tenore e soprano. Ma sentiamo Sabatino, e cosa ci anticipa del lavoro che porterà nel titolo il suo stesso nome. Andrea, secondo te, nel Salento e in Puglia come e quanto è seguito il jazz? “Qui a Lecce c’è un certo fermento, ma questo è ancora flebile, o quanto meno non è quello che si respira a Bari o nel resto della Puglia. Già pensando ai musicisti che mi accompagneranno sul disco, posso dire che è quanto di meglio la nostra regione possa offrire: Bassi, Campanale, Carucci, Presta. E non solo. Potrei citare ancora diversi talenti, come ad esempio il mio carissimo collega e amico sassofonista Raffaele Casarano, anch’egli reduce dal suo primo stupendo lavoro discografico. E ancora: il bassista Marco Bardoscia o il pianista Nicola Andrioli. Ad ogni modo, anche qui nel Salento le cose stanno cambiando. La nostra terra è ormai tappa di professionisti del settore che suonano sempre più spesso in locali e teatri”.

Per la presentazione in Puglia del film Ma quando arrivano le ragazze?, sei stato chiamato a Bari sul palco a suonare alcuni pezzi. Questi erano interpretati nella pellicola da Flavio Boltro, uno dei più apprezzati trombettisti italiani, fra i curatori delle musiche del lungometraggio di Pupi Avati. Nel film, il poco più che ventenne Nick Cialfi ama come te Clifford Brown e ha come prima esperienza i corsi di Umbria Jazz. È inutile dire che meglio di te nessuno in Puglia poteva interpretare quei brani. Ma, a parte questi parallelismi che possono solo essere di buon auspicio, a tuo giudizio quanto jazz e cinema in Italia possono andare d’accordo? “Suonare parte dei pezzi che stavano nel film di Pupi Avati è stata per me un’esperienza bellissima. Salire su un palco davanti ad un regista di quello spessore, per un film dedicato alla musica che amo, non è certo cosa di tutti i giorni. Riguardo all’accostamento cinema-jazz, negli ultimi anni nel nostro paese le cose stanno andando nel verso giusto. La cultura jazzistica, pur essendo propria della tradizione americana, sta prendendo piede anche nella produzione cinematografica nostrana, e la cosa può giovare tanto al cinema quanto alla diffusione del jazz”. A livello di registrazioni hai già inciso per conto di diversi jazzisti italiani, tuttavia è questo il tuo vero esordio. Hai anticipato che ti rifarai all’hard bop statunitense: Clifford Brown su ogni altro, il tuo autore preferito. Ma a parte questo? “Sul disco sarà ospite Fabrizio Bosso, che mi ha cresciuto musicalmente e non solo. Ho iniziato a studiare jazz con lui. I suoi insegnamenti, l’averlo ascoltato, mi hanno sicuramente consentito di stare qui ora. Se oggi sono arrivato ad uscire con un mio primo lavoro, il merito è anche suo. Non so ancora su quante tracce suonerà Bosso, ma so di sicuro che ci sarà in un pezzo che ho dedicato a lui. Il brano, Learning to fly, già nel titolo ha un aneddoto un po’ curioso, perché ho preso spunto dal primo disco di Fabrizio, Fast flight, che significa volo veloce. Io il pezzo l’ho chiamato Imparando a volare, nel senso che comunque grazie a lui sto imparando a suonare questo tipo di jazz”. Le fasi di registrazione del lavoro di Sabatino sono state programmate per la primavera, mentre l’uscita del cd, pubblicato dalla Dodicilune, è prevista per l’estate. E una cosa è certa: se Sabatino non potrà mai trattenere il fiato, nessuno potrà trattenere l’emozione nell’ascoltarlo. Massimo Ferrari


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NEL NOME DEL... JAZZ Le pulsazioni beat di Fabrizio Bosso

All’esordio in sala d’incisione di Andrea Sabatino, non vuole mancare il “maestro-ispiratore” del jazzista in erba di Salice. Fabrizio Bosso è pronto a soffiare non solo nella propria tromba, ma anche sulla piattaforma di lancio di chi ha voglia di “imparare a volare” individuando la rotta migliore. “È giusto che Andrea – afferma il musicista torinese - muova i suoi primi passi facendo cose importanti”. Bosso, ad ogni modo, conosce bene le difficoltà insite nel mestiere del trombettista: a lui questa passione è stata trasmessa dal padre. Seguendo l’insegnamento dettato da ogni buon genitore, Bosso, oltre ad incoraggiare, mette in guardia il proprio ragazzo: “Nel caso di Andrea sicuramente il talento c’è e tutto andrà bene. Però dovrà tener presente che la maturazione nel jazz è molto lenta e bisognerà applicarsi parecchio per ottenere grandi risultati. È fondamentale il saper improvvisare, perché è l’essenza del jazz, ma ci vuole anche tanta preparazione tecnica”. Bosso, oltre ad incitare il suo allievo, parla anche di jazz in generale, del rapporto tra musica e cinema, della diffusione delle note blue in Italia, una terra che, nonostante il confine con la Francia del Round midnigth raccontato sul grande schermo da Bertrand Tavernier, ha avuto sempre delle difficoltà ad accendere i riflettori in quei locali dove, a mezzanotte circa, i sax e i contrabbassi, le trombe e i pianoforti, si concedono all’estemporaneità propria del beat. “In Italia è difficile far conciliare la tradizione cinematografica con una cultura jazzistica che non ci appartiene”, argomenta un Bosso consapevole deel fatto che le colonne sonore dei film nostrani sono più famose per Nicola Piovani ed Ennio Morricone e non per maestri jazz come Massimo Urbani o Enrico Rava. “Ci sono stati casi – puntualizza però Bosso – in cui ci siamo saputi distinguere, come con Paolo Fresu, che ha musicato egregiamente il film sulla storia di Ilaria Alpi, oppure lo stesso Pupi Avati, che nelle sue pellicole ha sempre introdotto il jazz, anche perché lui ne è un grande appassionato. Certo non sarà mai una costante ascoltare jazz nei film italiani. Sarà più facile trovare dei cantautori o chi si occupa proprio di colonne sonore. Però sicuramente potrà esserci un incremento nel nostro cinema dell’uso del jazz, visto che comunque è molto più ascoltato rispetto a prima, non solo in Italia ma in tutta Europa, e questo grazie anche a quei nuovi crooner come Diana Kroll o Michael Bublè. Loro hanno portato il jazz alla massa, a gente che prima non lo conosceva affatto”. Sugli spazi dedicati alla musica a lui cara, Bosso rileva come “ormai il jazz non si suona solo nelle taverne, ma anche nei teatri, nei club e soprattutto nelle piazze, e questo è sicuramente un bel passo in avanti rispetto al passato”. E osserva: “Certo si creano atmosfere diverse secondo i posti in cui si suona. Nel jazz-club il contatto col pubblico è quasi fisico, nei teatri e nelle piazze si

può affrontare la performance con maggiore concentrazione e anche gli ascoltatori seguono con più attenzione. Tuttavia, qualsiasi sia il posto dove si suoni, il jazz conserva sempre il suo fascino”. Bosso, che di recente ha inciso un disco con Flavio Boltro per il mercato giapponese (il cd è prossimo all’uscita in Italia), ha chiuso ricordando le sue prossime apparizioni in Puglia: “Martedì 7 marzo sarò con Sergio Cammariere a Bari, nel concerto che si terrà presso l’auditorium della Guardia di Finanza; a maggio, infine, dovrò recuperare una data a Gioia Del Colle”. L’augurio, però, è anche di rivederlo presto su un palco salentino. (MF)


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DONNE E TECNOLOGIA: “RE-PUNK ELECTRONIC MUSIC di Claudia Attimonelli Ellen Allien, dj, produttrice e fondatrice della Bpitch Control, intervistata sul tema donne e musica elettronica ha detto: “Hmm, non saprei, la techno è stato il primo momento della dance music, nel quale il gender non sembrava essere più importante. [...] Quello che sembra più significativo per un* dj, più che essere uomo o donna, è la sua abilità a sentire la musica e a sentire la gente. Naturalmente poi il djing è un mestiere: solo con una buona tecnica puoi essere un* brav* dj”. La dj tedesca accenna a due elementi importanti della questione del genere nella musica elettronica: il primo è legato alla techno, vista fin dagli inizi come musica postgender, al di là, cioè, del binarismo maschile/femminile perchè incentrata sulla musica piuttosto che sul genere sessuale; l’altro è connesso al tratto distintivo di questa musica, che per sua natura, nomen omen, è strettamente legata alla tecnologia e ai suoi sviluppi - proprio attraverso questi si sono determinati nel tempo sottogeneri legati ai sound provenienti da specifiche macchine, un esempio per tutte, la Roland TB303, 808, TR909. Il fattore tecnologia, da ostacolo e freno per molte musiciste, si rivela sempre più uno strumento strategico di ridefinizione dei ruoli. Nondimeno va fatto notare come proprio la macchina, intesa come lo strumento, sia la prima fondamentale discriminante nell’approccio femminile alla pratica del djing nonchè alla composizione vera e propria. Dj Elektra, intervistata sulla sua posizione circa l’espressione female-dj, ritiene che il djing sia: “tutta una questione di tempo e di sincronizzazione con il tempo. Disco di destra, disco di sinistra, due beats che vanno allo stesso tempo”. Ebbene, a questo punto, sarei curiosa di chiedere a tutti voi, amanti della musica elettronica, dj, critici musicali, artisti e artiste, esperti e instancabili frequentatori di club, qual è il primo nome femminile che vi affiora alle labbra pensando ad una dj o ad una musicista elettronica. Da un sondaggio home made fatto un paio di anni fa, quando iniziai ad investigare questo tema, tra amiche e amici musicisti e non, oltre che sbirciando i commenti in articoli sparsi, vi riferisco che il nome più frequente, pronunciato talvolta con un certo imbarazzo dovuto alla fama non da tutti riconosciutale, sia quello di Miss Kittin (nella foto). E non perchè non ve ne siano altri, ma perchè se Miss Kittin ricorda certamente qualcosa a tutti, se non altro per la sua collaborazione di qualche anno fa con Felix Da Hauscat, non si può dire lo stesso di dj meno mainstream ma che infiammano il dancefloor, quali Magda, M.I.A., Mistress Barbara, Gudrun Gut, Punisher, Ellen Allien, Miss Djax, Acid Maria, Electrig Indigo. Non intendo omettervi il particolare che più spesso di quanto s’immagini ha accompagnato il commento riguardante Miss Kittin, secondo il quale, chi l’aveva per la prima volta vista in un set, ha ritenuto

opportuno esternare un certo stupore nel verificare quanto la Kittin apparisse più in carne di quello che uno si sarebbe potuto immaginare! E già, perchè le turntabliste devono essere in forma per suonare i dischi! Il tema, come è facile evincere, è complesso, ma può essere sufficiente invece di chiedersi dove siano le donne nella musica elettronica (quesito che nel ’93 John Savage, nel suo noto saggio dal titolo: Machine Soul, a History of Techno, pose fortemente), interrogarsi sul suo opposto ideologico e di gender: perchè così tanti uomini? È storicamente noto che le donne, nella musica come in altre arti, siano state scoraggiate dall’intraprendere e seguire passioni musicali, artistiche, financo letterarie, tanto da dover pubblicare per lungo tempo sotto pseudonimi maschili. Questo ha inevitabilmente fatto emergere durante gli anni del punk e della riflessione femminista, la necessità di creare generi separati che andavano sotto il nome di musica al femminile, Girrrls Power, Riot Girrl etc. Naturalmente una forma di separatismo di questo tipo non poteva che riprodurre e rafforzare lo stereotipo secondo il quale le donne non sono capaci di produrre musica bensì di ideologizzarla attravero una musica al femminile. Per questa ragione molte dj oggi aborrono l’epiteto di donna-dj, che risulta un’etichetta stretta, poco incentrata sulla qualità del prodotto musicale e volta al marketing della proposta promozionale. A questo proposito, Mistress Barbara, dj techno italo-canadese, afferma: “Io sono profondamente contraria a sottolineare la differenza, non sostengo nel modo più assoluto chi lo fa. Talvolta mi chiedono di suonare a party per sole donne e dico di no, esattamente perchè non voglio promuovere la mentalità della distinzione del genere”. Concludendo sembra che la metafora cyborgfemminista proposta da Donna Haraway nel suo celebre Manifesto Cyborg sia la visione più appropriata per guardare alle icone moderne alla consolle. Il cyborg, per la studiosa, descrive quello che la techno si era posta alle origini: andare dove non si è mai andati prima, nella fattispecie, praticare una strategia che pensi in-between il codice binario 0/1, maschile/femminile, capace di descrivere e rendere visibile stati ibridi, instabili, inaspettati. Adoperando un’attitudine punk che sovverta e decostruisca i clichés del gender nella musica.

M.I.A. il 18 marzo allo Zenzeroclub di Bari La serata c.lab.night di lab080, frammenti di cultura urbana, vedrà in consolle la dj tedesca M.I.A. Attiva a Berlino attraverso le sue etichette, Substatic e Karloff, M.I.A. coniuga sperimentazione sonora e attitudine al dancefloor, le sue tracce, dalle influenze techno e house, sono suonate da Richie Hawtin e Ricardo Villalobos. La voce nella techno: M.: “La techno non ha bisogno della voce, essa prende vita già con le armonie: bisogna lavorare sul sound. La struttura fondamentale sulla quale lavorare è la base ritmica minimale. Ma poi la si veste, come una bambola, con dei vestitini con centinaia di piccoli accessori. Per me questo vestito è fondamentale, perchè porta tutto ad un livello più alto”. Le donne nella techno: M.: “Le cose vanno sempre in questo modo: devo mostrare qualcosa di più perchè si suppone sempre che la musica sia prodotta da Falko (Brocksieper) e che io mi limiti, come la maggioranza delle altre artiste donne, solo ad un viso e ad una voce. È un peccato che se ne debba parlare sempre, ma io credo sia importante. La maggiorparte delle donne ha ancora troppo poca coscienza di sé per imporsi nel mondo della techno e perciò non inizia neppure a produrre le proprie cose”. “Ci sono sempre un paio di idioti che credono di dover classificare il sound femminile con l’armonia. Forse anche io spesso mi oppongo alla melodia per evitare di essere incasellata in questo modo”. “Ne parlo e spesso dò delle risposte di tenore femminista, perchè la questione mi tocca e prendo il mio ruolo seriamente”. Claudia Attimonelli. Traduzione dell’intervista dal tedesco: Arcangelo Licinio. Info su M.I.A.: Fabrizio Ippolito. c.lab.night @ Zenzero, 18 Marzo, con M.I.A. e dj arpino è una coproduzione zenzeroclub e l’alternativa. News: www.lablog080.blogspot.com


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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale

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la letteratura secondo coolcub

BOLOGNA F.C. foRMaZIonE IDEalE DI TUTTI I TEMPI

TRaTTa Dal SITo WWW . QUoTIDIano . nET

Le avventure di Zio Savoldi Gianluca Morozzi Fernandel

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L’autore di questo libro è quasi un “ospite fisso” della nostra rivista. Gianluca Morozzi, trentacinquenne scrittore bolognese, da qualche anno a questa parte è uno degli autori più prolifici della letteratura italiana. Dal 2004 pubblica con due case editrici: la ravennate Fernandel, che lo ha lanciato nel 2001 con Despero, e la Guanda con la quale ha pubblicato Blackout e L’era del porco. Dopo il racconto del mondo dei fan di Bruce Spingesteen in Accecati dalla luce in questo ultimo Le avventure di Zio Savoldi Morozzi narra tra episodi incredibili e sensazioni da libro cuore il frastagliato mondo dei tifosi di calcio. Anzi, per essere ancora più precisi, la realtà non molto facile dei tifosi del Bologna. Una squadra nata nel 1908, che dopo sette scudetti e una gloriosa storia alle spalle, negli ultimi vent’anni ha dovuto sopportare retrocessioni in serie C, l’onta del fallimento, il ritorno in A e la nuova caduta in B nella passata stagione dopo lo spareggio con i cugini del Parma. Un amante del calcio, soprattutto un

famelico consumatore di almanacchi e album panini degli anni ’80 e dei primi ’90, non può che apprezzare la ricostruzione di quegli anni bolognesi: il Mitico Villa, ad esempio, è un personaggio appunto mitico giunto nella squadra rossoblu nel 1987 con “credenziali non propriamente sfavillanti” che aveva giocato in squadre impresentabili e che diventerà invece una bandiera e un pilastro della squadra allenata da Gigi Maifredi. Morozzi attraverso racconti personali, risultati, storie d’amore, calciatori che sbagliano rigori e reti a due passi dalla porta, la curva Andrea Costa e i piccoli stadi di provincia, narra un po’ della sua vita e ricostruisce quello che l’Italia ci ha regalato in questi anni. Ma soprattutto tira fuori una carrellata di personaggi improponibili a partire proprio dallo Zio Savoldi e passando per Rain Man, la Betty, l’Orrido, Lobo, il Lama, Carlotta la biologica, l’editore Ubermensch Belasco, l’Oriella, e i calciatori e gli allenatori Lajos Detari, Domenico Marocchino, Gianluca

Luppi, Eraldo Pecci, Loris Pradella, Beppe Signori, Roberto Baggio, Carlo Mazzone, Renzo Ulivieri e molti altri. L’amore per il calcio è qualcosa che va oltre le classe sociali, oltre le letture fatte e le musiche ascoltate. La bellezza e la bruttezza di uno sport bistrattato e considerato troppo ricco, anche dagli atleti delle altre discipline, ma che conserva intatta tutto il suo fascino. “Mi è bastato andare la prima volta in curva col papà, BolognaMilan zero a uno, gol di Maldera, nel ’78, per innamorarmi di quelle casacche rosso e blu. Il resto quando t’innamori dei colori, poco importa. Serie B, serie C, dirigenze da galera, trasferte agghiaccianti, giocatori sciavdi, insipidi, non contano niente. Nulla e nessuno ti tengono in casa, la domenica pomeriggio”. In questo periodo complicato per il “giuoco del calcio” tra diritti televisivi, assenza di pubblico, polemiche arbitrali e doping amministrativo, è bello leggere e divertirsi con il buon vecchio football. Pedroso


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Tre sono le cose misteriose Tullio Avoledo Einaudi *****

Un bambino solo e malinconico comincia ad avere paura della morte, e non solo: teme i ragni e la sporcizia, non sopporta di svegliarsi in una casa vuota, e si nasconde nell’armadio perché glielo ordina un essere mostruoso che non sa descrivere. Una donna bellissima è moglie stanca, rassegnata e ormai irraggiungibile: un corpo da adolescente nasconde l’età e la maternità, i capelli biondi e gli occhi grigi l’origine italiana, l’armadietto colmo di creme e cosmetici un’imprevedibile insicurezza. Un uomo è padre e marito; vive sotto scorta in una Svizzera asettica ed indifferente, circondato da guardie del corpo preparate a proteggere il sostituto procuratore del più importante processo internazionale per crimini di guerra ed incapace di accettare fino in fondo il ruolo che si è ritrovato all’indomani di uno spaventoso attentato. Questa la famiglia dell’ultimo romanzo di Tullio Avoledo, importante come poche e fragile come tante, di fronte all’evento insostenibile che è la convivenza, non fisica ma ugualmente pesante e avvertita, con l’imputato colpevole, potente ed eccellente che tutto il mondo aspetta di condannare. Accadono intanto strani episodi che toccano persone care e amate e aprono spiragli sempre più vasti all’ansia ed alla paura, se non all’orrore con fatica respinto. Il mostro in attesa di dibattito, invece, cammina come un soldato lungo le pareti di uno spazio ristretto, durante il suo quarto d’ora d’aria che dovrebbe essere un’ora, impettito ed elegante nel soprabito con collo di astrakan, e con catene proibite a polsi e caviglie frutto di un’urgenza punitiva stupida ed inutile. Inizia così una guerra annunciata alle minacce reali e presunte, che non si sa bene quanto riguardino davvero il teatro politico globale di là fuori, e quanto invece l’animo scosso e colpito di un uomo profondamente solo. Dalla penna di Tullio Avoledo un romanzo energico e frenetico, che non lascia attimi di respiro al lettore, esausto eppure ipnotizzato da una carica emotiva pesante. Una prima parte, ricchissima di dialoghi svelti ed esaustivi, rende il ritmo e il consumo delle esistenze in gioco; una seconda parte, principalmente narrativa, e indirizzata verso una frenesia più lenta e misurata, costruisce per gradi una conclusione voluta e provocatoria. Ennesimo esempio, insieme a Sabato di Ian McEwan e La regina dei sogni di Chitra Banerjee Divakaruni, per citarne solo alcuni, dell’attenzione che molti narratori contemporanei iniziano a porre al rapporto sempre esistente tra gli eventi della scena mondiale e il quotidiano

intimo, privato e violato, dalla storia del tempo attuale come di quello passato. Per non dimenticare che la memoria è l’unica via possibile, e sola contiene quanto occorre salvare, perché “col tempo gli occhi si adattano, col tempo riescono a vedere anche nella notte più fonda”. Il passo del Cammello

Duro come l’amore Rossana Campo Feltrinelli ***

Potremmo considerare banale la storia che si sviluppa nell’ultimo romanzo di Rossana Campo, un tradimento coniugale che ormai non interesserebbe più nessuno. Ma sarebbe troppo semplice, e certamente sminuirebbe una voce originale, sempre fresca ed ironica, della letteratura contemporanea. Ché la storia poi sarebbe questa: lei è sposata ad uno psicologo gelido e troppo obiettivo, e si lascia intrigare da Felix, un fotografo spiantato che è l’esatto contrario del marito. Imprevedibile, fuori di testa, paranoico, complessato da una infanzia triste, fuori moda, coi vestiti sempre troppo lisi, padre disattento e marito stufo, ma amante supremo. E lei ha proprio bisogno di lui, perché le assomiglia così tanto, perché le fa dimenticare le sue paranoie durante i loro incontri furtivi ed estremi, perché loro due non potrebbero esistere se non nella clandestinità. Il bello viene quando la nostra protagonista comincia ad accumulare sospetti sul suo Felix, perché nel quinto arrondissement dove lei vive (la storia è ambientata a Parigi, dove la Campo vive nella realtà) si aggira negli ultimi tempi un maniaco che ama fare a pezzi le donne e strappa gli orecchini dai loro lobi. Donne che sembra aver conosciuto o amato prima di uccidere. E il comportamento di Felix non sembra poi essere dei più normali, e la passione che li unisce sembra non voler conoscere limiti. Se a ciò si aggiunge l’universo colorato e surreale delle amiche di lei (un trans, un’attrice sull’orlo di una crisi di nervi, una madre single che sta con una poliziotta), i discorsi strampalati fatti davanti alle bottiglie di vino, la piccola scorta di vodka sempre in frigo, gli allarmismi delle donne, le crisi, il “vorrei essere come Madonna ma anche lei sembra aver gettato la spugna”, si dimentica la linearità della trama, e ci si immerge ancora una volta, e con estremo piacere, in un romanzo divertente, leggero, in una scrittura che si lascia sopraffare spesso da incasinati dialoghi a più voci, da neologismi spassosi e dallo smadonnare e sfanculare di Rossana Campo che tanto mi piace, e che sempre la caratterizza, fin dai tempi di In principio erano le mutande. Anna Puricella

Brina Maurer

Claudia Manuela Turco Bastogi Editrice Italiana *****

Il romanzo psicologico Brina Maurer è un’opera controcorrente, di questi tempi eretica come lo è la morale, in cui la pornografia viene indagata negli anfratti della finzione patologica che ammorba la psiche. Tra l’irriverenza dello slang giovanile si scopre una forte critica alla “pornificazione” contemporanea (dal neologismo di Pamela Paul, autrice del saggio Pornified). Brina è la figlia adolescente di una pornostar, sua madre una stella del cinema senza vincoli censori e da subito si evince chiaro il nodo narrativo: torture psicologiche e violenze morali cui la giovane sarà esposta suo malgrado, da parte di coetanei, parenti e conoscenti sedotti dal fascino brutale della sessualità sfrenatamente esibita, tutti pronti a tacciare d’insulso moralismo la sua sensibilità offesa dall’ambiente in cui è costretta. Il senso di solitudine promana dal nido familiare, che si squarcia a baratro quando, pur di giustificare ogni crimine, i protagonisti della vicenda tenteranno di metterle il bavaglio marchiandola a fuoco con la lettera scarlatta della schizofrenia e della paranoia. Brina avrebbe di che duellare con Betty Friedan (leader del movimento femminista americano, autrice de La mistica della femminilità) o con Wendy McElroy autrice di XXX, a woman’s right to pornography. Par di sentirla sbottare: “I volgari non sono quelli come me”, “Solo che a noi viene messo il bavaglio, perché non favoriamo l’economia. Né la politica. Né la religione. Noi siamo le vere femministe, non quelle che proclamano il sesso libero e tante libere fognate”. L’amore per i cani salverà Brina, l’amore per Trudy, Candida e Nebbiolina, sparite un giorno senza lasciare traccia per la cattiveria di qualcuno che non ha voluto darle spiegazioni, traumatizzandola e facendole perdere la fiducia nel genere umano. Marco Baiotto

D’un tratto nel folto del bosco Amos Oz Feltrinelli ***

Il “nitrillo” è una strana malattia. Si manifesta con l’emissione del verso tipico del cavallo, il nitrito, e l’impossibilità assoluta di parlare. Colpisce tutti quei bambini capaci ancora di credere all’impossibile, se questo significa una maestra appassionata che continua a raccontare storie di animali, in un villaggio senza altri esseri umani fatta eccezione per gli uomini. E colpisce, questo morbo


Coolibrì bizzarro, proprio un bambino che, più degli altri, ascolta i racconti di un tempo ormai andato, in cui, al silenzio assordante di un mondo senza animali, si sostituisce una natura colma di suoni felici ed odori pregnanti. È questa la natura che viene a fargli visita ogni notte in sogno, e lo emoziona ed entusiasma talmente tanto, da portarlo a narrare ogni mattina, ai suoi increduli compagni, l’esistenza di un’altra dimensione, così diversa e così rumorosa rispetto a quella che loro conoscono e subiscono, ignari di altra bellezza. Ma i sogni ad un certo punto non bastano a colmare i vuoti pesanti, e Nimi, questo il nome del piccolo esploratore di verità, sente sempre di più di dover accertarsi che stormi di anatre selvatiche e gruppi di rane gracchianti abitino realmente una parte di mondo. E parte, Nimi, alla ricerca di una natura che gli è stata negata; alla scoperta del tragico segreto che ha condannato un intero villaggio al silenzio animale; verso la soluzione di tutte quelle risposte che genitori rabbuiati si rifiutano puntualmente di dare, e di tutte quelle memorie antiche che gli anziani hanno, con troppa facilità, rimosso. E scappa di casa Nimi, e va nel bosco, tornando, tre settimane dopo, affaticato, sconvolto e affetto da quel nitrillo che è insieme malattia e salvezza. Con il sottofondo costante e prezioso dello scorrere lento di un fiume, che ha visto e forse maledetto, e che solo rimane, a ricordare col suo flusso, la felicità conosciuta, l’abbandono poi subito, la speranza di un ritorno. Una scrittura chiara e netta sostiene un linguaggio dedicato all’infanzia, la narrazione è semplice e precisa, senza lasciare spazio a finezze e ricerca sulle parole, come per i dialoghi, pochi, necessari, toccati come il resto dall’obiettivo profondo di una comunicazione diretta. Per una fiaba lenta e triste, creata con dolcezza infinita dal grande scrittore israeliano, e tradotta dall’ebraico da una penna pulita ed essenziale come Elena Loewenthal. Il passo del Cammello

Ya no sufro por amor Lucía Etxebarria Martínez Roca ***

È considerata da molti la miglior scrittrice spagnola della sua generazione. Con i suoi libri - e in particolare con il pluripremiato Beatrice e i corpi celesti - ha fatto a lungo parlare di sé, amata e odiata in parti uguali, ha scritto romanzi, libri di racconti, saggi, poesie, copioni per il cinema. Con Ya no sufro por amor inaugura la collana editoriale da lei curata, Astarté. Lo fa con questo libro particolarmente difficile da definire. Psicanalisi, filosofia, narrativa sono chiamate in causa per affrontare il tema dell’amore, e tutti i problemi ad esso correlato. Non un trattato psico-

25 sociologico da leggere con precisa attenzione però. Piuttosto un libro da divorare, per riflettere sulle proprie pene d’amore ed eventualmente riderci su. Per capire un po’ di più gli altrui - ignobili! - comportamenti e imparare a sopportarli e imitarli. Per analizzare le nostre passate relazioni amorose - di qualunque tipo siano, sottolinea lei - e realizzare che se qualche problema c’è stato - e c’è stato! - dipende anche e soprattutto dal modo in cui ci poniamo noi, oltre alla sfiga che sempre, blasfema, invochiamo. Con la dovuta ironia, per non prendere troppo sul serio quella che ci pare essere la questione più seria della nostra vita, proviamo con l’aiuto di queste pagine a guardarci un po’ dentro e a vederci da fuori, per “smettere – finalmente - di soffrire per amore”. Composto da tre parti e suddiviso in paragrafi quasi fosse un libro di testo, è correlato da divertentissimi disegni di Álvarez Rabo e da test di autoanalisi che fa molto rivista femminile. Completo, insomma, in ogni dettaglio. Peccato che, pubblicato in Spagna lo scorso ottobre, non è stato ancora tradotto in altre lingue. C’è da aspettare ancora un po’, dunque, per ridere dei nostri infiniti problemi di cuore, invece di tagliarci le vene. Valentina Cataldo

La Betissa

Antonio Verri Kurumuny Edizioni ****

Continua il lavoro di ripubblicazione dell’opera di Antonio Verri, lo scrittore di Caprarica scomparso prematuramente nel maggio del 1993, che ha lasciato un vuoto incolmabile nel panorama della letteratura salentina contemporanea. Da poco è presente nelle librerie La Betissa, Storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora, pubblicato da Kurumuny. La Betissa è un testo poetico uscito una prima volta nel marzo 1987 su Apulia. È un testo che segna una svolta nel percorso creativo dello scrittore di Caprarica. Con La Betissa Verri uccide letterariamente i propri padri putativi, aderendo totalmente ad un immaginario materno. L’adesione al materno per Verri rappresenta la voglia di oltrepassare le forme chiuse della letteratura dei padri, rappresenta il tentativo di violentare l’immacolata forma chiusa del dire passatista, introducendo il passo sovversivo della sua scrittura poetica, il taglio rivoluzionario della sua progettualità stilistica onnivora. Rispetto alle precedenti opere ciò che emerge con ostinata evidenza è la volontà dell’autore di fare della sua scrittura un calderone dalle immense proporzioni simboliche. L’abbandono del gioco metonimico rappresenta il propendere dell’autore verso uno slancio metaforico,

profondamente poetico. La Betissa è un testo costituito da diciotto capitoli in versi. Esiste una microstoria che diviene esile filo conduttore del testo, quella del tentativo da parte di una delle voci narranti, un giovane dai capelli rossi, di costruire un trabiccolo, un macchinario rudimentale, in grado di tendere verso il cielo. Il trabiccolo, fuor di metafora, altro non è che il tentativo dello scrittore di dominare lo strumento linguistico dentro il quale molto spesso si immerge, senza riuscire a dominarlo. Per Verri le parole sono ossessione incontenibile, sono passione dalla quale trarre infinito piacere, sono codice astratto nel quale insinuarsi per dare un senso alla struttura dell’esistere. Una sorta di chiara manifestazione del rapporto dell’autore con il caotico vorticare del linguaggio, prima dell’approdo alla scrittura in prosa che darà vita non solo a I trofei della città di Guisnes, del quale si è fatto cenno sopra, ma anche a Il naviglio innocente e al postumo Bucherer l’orologiaio, che per l’autore di Caprarica non rappresenta l’abbandono della poesia, ma la sua accettazione totale e onnicomprensiva. Rossano Astremo

Resurrectum

Gianfranco Nerozzi Dario Flaccovio Editore ****

Dopo l’attesa finalmente il secondo capitolo della saga partorita dalla mente di questo brillante autore e iniziata nel 2004 con Genia; e le aspettative non sono state deluse. Leggendo il primo libro si rimane a bocca aperta davanti alla fantasia sfrenata di Nerozzi, che mette sul piatto del lettore una gran quantità di situazioni che vanno dalle immagini splatter di crimini efferati e apparentemente incomprensibili, ad atmosfere inquietanti legate alla presenza del diavolo. Tutti pezzi di un puzzle che non è facile comporre. Con questo libro il puzzle prende forma, ed è avvincente quello che l’autore riesce a segnare sulle pagine; ciò che era oscuro nel primo capitolo diventa chiaro, ma subito ci si trova di fronte a nuovi sconcertanti eventi che sembrano slegati fra loro. Un bambino solo davanti a un parete di televisori che cresce velocemente; chi è? Perché ogni quattro mesi e per due anni vengono uccisi i bambini nati il suo stesso giorno e nella stessa clinica? Come mai i bambini assassinati hanno una parte di DNA in comune con una ragazza vittima di uno stupro? A queste domande cerca di dare una risposta un agente dell’Interpool, ostacolato da un killer albino che cambia aspetto ogni volta che deve uccidere. Un gran bel libro, un finale sconvolgente. Bubu


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Jack Kerouac. Il violentatore della prosa Rossano Astremo Libreria Icaro Editore

Scrittura sperimentale, totale, rivoluzionaria: “Jack Kerouac ha violentato a tal punto la nostra immacolata prosa, che essa non potrà più rifarsi una verginità”. Queste parole sono pronunciate da Henry Miller, padre indiscusso di quella generazione che negli anni cinquanta ha determinato la messa in discussione del militarismo, del denaro, dell’ideologia del successo, di tutti quei temi centrali della ribellione giovanile del secondo novecento. La Beat Generation di Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Neal Cassady, William Burroughs, però, non è stata solamente uno dei miti più affascinati dell’America contemporanea. Il testo di Rossano Astremo, infatti, ricostruisce le tappe più importanti dell’esperienza scritturale di Jack Kerouac, capostipite del movimento beat: “Kerouac parte da un abbozzo, da un’idea centrale, per poi lasciarsi andare, per poi scrivere sino allo sfinimento, seguendo le leggi dell’orgasmo, senza coscienza, tirando fuori quello che abbiamo di più nascosto, di più intimo e carnale, che una scrittura cosciente e razionale non potrebbe creare, ma solo censurare, obliare, cancellare”. Un viaggio che passa attraverso la sua vita, la sua poetica, la sua scrittura, nell’intento di illustrare l’originalità e la tipicità dell’esperienza letteraria del Proust d’America.

Critica al giudizio psichiatrico Giorgio Antonucci Edizioni Sensibili alle foglie ****

La psichiatria si propone di curare l’anima, il pensiero, la parola con le sempre attuali tecniche del controllo coatto, ed agisce ovunque non viga la normalità. L’istituzione psichiatrica ed ancor di più il giudizio psichiatrico, impongono il disagio agli esseri umani, con la repressione della diversità, con l’elettroshock, il coma insulinico, la violenza psicologica, l’uso smodato di psicofarmaci; le nuove accoglienti camicie di forza per la mente. L’essere umano, costretto sempre più a sentirsi “malato” attraverso una diagnosi scelta tra decine con un raggio d’azione applicato all’intero corso della vita. È così che il bambino attraverso una diagnosi viene psichiatrizzato perchè troppo vivace così come l’anziano ansioso ed improduttivo sedato per garantirgli sere-

nità nei suoi grigi anni. Uomini e donne annullati senza diritti e senza possibilità di scelta, quello che dicono, fanno e percepiscono non ha senso poiché “malati”. Pubblicato nei primi anni ‘90 e riproposto aggiornato, il testo di Giorgio Antonucci si afferma in quel campo di critica radicale alle istituzioni totali che, pur cambiando nome, non cambiano i modi d’intervento. In particolare la psichiatria, che attraverso i trattamenti sanitari obbligatori e le diagnosi a vita, condanna il paziente di turno ad un limbo eterno tra vita e non vita in un villaggio globale dormiente dove la disobbedienza e la fuga , finanche mentali, non sono ammesse. Simone

Poeta Pugile

Arthur Cravan Edizioni Le Nubi ****

Sono gli anni che precedono la grande guerra a rendere Arthur Cravan il misterioso Poeta Pugile da cui prende il nome quest’ottimo lavoro edito in Italia dalle giovani edizioni Le Nubi. Amico di Apollinaire di Duchamp e di numerosi artisti parigini Cravan vuole diventare noto a tutti i costi. È così che dirige e scrive la rivista letteraria Maintenant vendendola per le strade di Parigi con un carretto da fruttivendolo, l’autoproclamatosi inventore del prosopoema colpisce il pubblico come in un incontro di boxe, e fonde con piacevole raffinatezza la prosa e la poesia. La sua prosa è divertente, spesso volgare, eppure disseminata di frammenti poetici ai limiti dell’allucinazione. Cravan non si limita a scrivere, ha una personalità poliedrica, è irrequieto, usa nove pseudonimi, è un performer, l’avanguardia dell’avanguardia o un precursore dei Dadà come lo definirà in seguito Breton. La vita intensa di Arthur Cravan scorre fino all’incontro di boxe truccato con il campione del mondo di pugilato Jack Johnson. È l’ultima apparizione del “...poeta pugile,

cantore di versi e rompitore di mascelle...” che svanirà nelle acque del golfo del Messico su una piccola imbarcazione direzione Buenos Aires per sfuggire alla chiamata alle armi. Simone

Ammazzate Beppe Alfano. Il caso del giornalista sconosciuto Valeria Scafetta L’Unità

Valeria Scafetta è una giovane e coraggiosa giornalista romana e questo è il suo secondo libro. Dopo aver pubblicato nel 2003 U baruni di Partanna Mondello, storia di Mutolo Gaspare, mafioso pentito (Editori Riuniti) e dopo aver collaborato a Le mafie nel Lazio non abbandona il tema scottante della criminalità organizzata e ricostruisce dettagliatamente la vita e l’opera di un giornalista impertinente e indipendente (neanche iscritto all’ordine), uno di quei “morti che cammina”. Beppe Alfano fu freddato l’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto. Nel libro la Scafetta racconta gli esordi di Alfano, le inchieste, le difficoltà incontrate sino ai colpi mortali. Un libro per non dimenticare un giornalista onesto e coraggioso.

Humour nero

Angelo Mainardi Barbieri editore ****

La Barbieri editore di Manduria, storica casa votata a pubblicazioni lontane dal nostro target, esce con un libro che ci ha sorpreso e conquistato subito. Un volume, è il caso di dirlo, che si propone come antologia dello Humour Nero. A cura di Angelo Mainardi, il libro ripercorre nelle sue sfaccettature la storia, l’evoluzione, la trattazione di questo tema. Un viaggio intriso di intrighi, riso amaro, raccontato, illustrato, riportato, raccolto con cura e dovizia di spiegazioni. Due parole


Coolibrì che accostate evocano una serie di sfumature, il riso amaro, l’ironia, la paura. Dal comico al grottesco, dal classico al moderno. Humour nero è l’occasione per scoprire frammenti di autori, molti dei quali già abbiamo letto, ma tutti sotto la stessa scura penombra. Il libro è curatissimo in tutte le fasi, il lavoro di ricerca e selezione imponente, la lettura gradevole e interessante. Un libro dalla doppia funzione: il piacere della lettura quando fuori piove, la voglia di approfondire una passione, di concentrarsi e riflettere. (O. P. )

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LA FAMIGLIA SECONDO ISABELLA SANTACROCE

Post-Porn Modernist Annie Sprinkle Venerea edizioni ****

Ci sono libri che servono. Ci sono persone senza le quali il presente non sarebbe così. Vale per tutto. E il sesso nel tutto è un elemento fondamentale. La libertà che oggi viviamo è il risultato di uomini e donne che in un modo o nell’altro hanno combattuto e sfidato le convenzioni. Annie Sprinkle nel suo mondo è un’eroina, una pioniera. Una puttana o una femminista? Un donna che vive il sesso in tutte le sue forme, anche le più estreme con la positività di chi lo vede come potere e non come sottomissione. Un corpo che percorre un pezzo di storia dell’America, raccontata nelle sue più intime debolezze e perversioni con la semplicità di un diario e con la gioia di un gioco. Post-Porn Modernist è una biografia illustrata, uno spaccato divertente ed eccitante, campionario di pratiche oggi diffuse ma al tempo taboo come il pissing, i fistfucking, il piercing di un certo tipo. Il porno non solo collegato ai film o alle riviste, ma anche il sesso visto come forma d’arte e come performance. Tra le chicche all’interno: per la serie l’abito fa il monaco una galleria di persone assolutamente normali trasformate in stelle del sesso, le regole per essere una puttana perfetta, indicazioni e controindicazioni per gli amanti del sesso. C’è tanto in questo bel libro edito dalla coraggiosa Venerea edizioni, una realtà editoriale che vale la pena di cercare e sostenere. Osvaldo Piliego

Chiusi in un mondo a parte, in un recinto domestico che oscilla tra lo Zoo di Tennessee Williams e un set di Ingmar Bergman, tre personaggi senza nome, il padre romantico e fragile, la madre onnipotente e manipolatrice, e la dolce “innocua figlia” non poi così candida, si amano lungo gli anni di un amore malato e claustrofobico, sfidandosi a colpi di seduzioni, ricatti, tentazioni morbose, ambizioni frustrate, fino ad annientarsi l’un l’altro in un rituale di umiliazione, mutilazione, eliminazione prima emotiva e poi carnale. Il romanzo si presenta come un monologo ossessivo, un dramma della memoria raccontato dalla figlia che ricorda in un lungo flashback. Questa in sintesi la storia di Zoo (Fazi, euro 12,50), nuovo romanzo di Isabella Santacroce, dark lady della letteratura italiana, autrice di romanzi cult, quali Destroy, Luminal, Lovers, che hanno infettato come un virus inestirpabile la crescita di migliaia di adolescenti. Zoo è il tuo primo romanzo che sposta l’attenzione sulla necessità di narrare un’esperienza familiare. Come è nata l’idea e come si è sviluppata? Zoo racconta una storia veramente accaduta, ho conosciuto la protagonista, è stata lei stessa a chiedermi di scriverla. Le famiglie sono per me delle grandi macchie che nascondono del buio dentro, con Zoo sono andata a prenderlo, l’ho portato nella luce. Zoo è il primo libro che scrivo senza ascoltare musica, volevo ci fosse silenzio per sentire la voce della protagonista della storia, mentre lo scrivevo la sua voce diventava la mia. L’ho scritto di notte, quando nel palazzo in cui vivo andavano tutti a dormire, quando c’erano pochi rumori per strada.

In quel silenzio ho trovato la dolcezza feroce che mi serviva per raccontare ciò che è successo. Come mai la scelta di passare da una grande casa editrice come Mondadori ad una piccola e agguerrita realtà come quella di Fazi? Avevo bisogno di una casa editrice che avesse il cuore che ho messo dentro il libro. Quando ho finito di scriverlo l’ho mandato alla Fazi, sentivo che era il posto giusto dove lasciare questo mio nuovo figlio. La tua prosa, hanno scritto, “è una mina antiuomo che esplode schegge di violenza e lirismo, sete d’amore e bisogno di fare e farsi male, gocce di passionalità e neurolettici”. Ti ritrovi in questa definizione? Per me la scrittura è rivolta, io mi sento una rivoltosa, una strana guerriera spaventata e coraggiosa, da questo nasce l’idea di farmi fotografare con una maschera. L’inchiostro è la mia arma. Si, violenza e lirismo, amore e rabbia, dolcezza e morte. Quali libri hanno scandito la tua formazione? Non lo so, la vita mi è servita tanto, ciò che più ho letto è la vita. Ho letto anche libri, alcuni di questi sono stati importanti, ora non lo sono più, per questo non mi piace ricordarli. Il libro che più ho amato e amo è una fotografia di Diane Arbus, ritrae tre sorelle gemelle sedute sopra a un letto, in loro ho visto moltissime parole, è il più bel libro che ho letto sulla solitudine. Un libro di un autore italiano che consiglieresti ai nostri lettori? Parassiti di Massimiliano Governi, è come una fotografia di Diane Arbus. Rossano Astremo


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IL PRECARIO-STAR ALL’OLIO D’OLIVA 1 febbraio 2006: si può dire che il mio ingresso nel mondo della televisione coincida con il mio ingresso nella prima classe dell’Eurostar. È un’emozione anche quella. Sono su un Milano-Roma, seduto in un vagone che trasporta la classe dirigente del mio paese. Per darmi un contegno, mi sono messo il vestito di capodanno. Ci provo. Passa il carrello dei giornali, mi fotto Repubblica, Corriere, Foglio e Sole 24ore. Con l’avidità del parvenue gusto le mie letture gratuite. È tanta roba. Arrivo. Scendo dal treno, alla fine del mio binario c’è un uomo con quell’eleganza tipica del mondo degli autisti che regge un cartello patinato con su scritto: Maurizio costanzo show. Me presento (dopo 0,2 minuti a Roma parlo già romano). Superamo le panchine dove ce stanno li zingari der servizzio bborseggio e arrivamo alla piazzola der servizzio taxi. Non ho esitazioni a salire sul retro della Lancia Libra, cosciente del mio ruolo istituzionale. Teatro Parioli. Entro circospetto sotto la scritta “Ingresso artisti”; ce stanno un popo’ de sbirri; un inserviente me chiede: e tu cchissei? Cazzo, sono Tony Ruc...ehm Antonio Sansonetti, fateme largo, devo entrà ner monno dello spettacolo. Certo, s’accomodasse. Dove sta er cammerino, chiedo a una fica invereconda che risponde al nome che non ve lo dico se no m’aa fregate. De qua, signor Sansonetti, ma prima me deve da firmà trecentosettanta libberatorie si no nun se fa nulla. Firmo. Senta siamo in anticipo, che vuole magnà? (ore 12). Che ffai, me cojoni? Nun m’hai visto? Vojo sempre magnà, speciarmente a scrocco, che già ho capito come funziona er monno qua...e mi ritrovo dolcemente seduto nel ristorante da Fauro, in via Fauro, quella dell’attentato a Costanzo. Mentre combatto la fame del mondo divorando tonnarelli alla ricetta complicata, una signora nordica (oltre Brindisi ndr) si siede dietro al mio tavolo lamentandosi della trasmissione che è andata bene ma Morelli voleva sempre parlare lui. Poi nell’altra sala inizia a gracchiare la voce di Tonon, che parla di quanto è bella e piena la sua nuova vita co le guardie der corpo de Costanzo. Torno ar Parioli; dietro le quinte se aggitano Demo Morselli, Laura Freddi e n’artra che ho visto alla tv quarche notte (Chiara Gamberale, a ri ndr). Io per parte mia nun sto a capì un cazzo, me sembra de stà ar circo e quanno me porteno addrentro ar camerino sbrilluccicante de Costanzio Maurizzio allora veramente nun me sento più le gambe, me sento come Pinocchio davanti a Mangiafuoco, etc. Lui per parte me borbotta: Pamponeppi, benvenuto...lei debe rappomparci la pua ptoria, mi rappomamdo, prapap patap. E vabbè. Me spazzolano la giacca, me microfonano e sono il primo in pista. Mi siedo su una poltroncina bianca bloccata

pe’ nno fa li stronzi che la telecammera te deve da inquadrà. Davanti ciò la platea der Parioli vuota, accanto se siedono e se presentano nell’ordine Raffaello Tonon, Laura Freddi, Chiara Gamberale e un nerd co la scrima che sarebbe er ggiovane presidente della provincia di Firenze in quota democristi appetalati. “Demo attacca la sigla”. Pronti, via e Pottampio me presenta pe’ pprimo e mostra la copertina der libbro (Tu, quando scadi? ndr vol. 3) alle telecammere, ché tutti e 39 gli spettatori der diggitale terestre possano vedè. Ma io all’inizio c’ho quer panico che ti prenne gìa quanno devi fare una presentazzione allo Zei co 20 persone e le telecammere de Telerama, figuriammoci si tte lascia solo ar Teatro Parioli in Roma. Er fregnone democristo domina la scena colla sicumera tipica dei politici: ha portato una genialata di libro dal titolo Fra De Gasperi e gli U2, che parlerebbe der problema de li ggiovani nerd dei felpati anni ‘80/90 che se vojono avvicinà alla politica senza staccare le cuffie dar Walkman. Ma poi siccome er tema de la puntata è li trentenni e i sordi, e tutti gli ospiti tranne er sottoscritto sono sfonnati de sordi senza aver mai fatto un cazzo, allora superPrecario viene fuori alla distanza fino a monopolizzà la scena: parla de li trecento lavoretti demmerda che ha fatto, de la ggente che è pieno così - che nun cià un cazzo de sordi e se sbatte ar coll-sente e artre amenità filosocialpopolari der gennere. Allora Pottanzio quasi se commove ricordandose quanno era ggiovane e nun c’aveva nna lira e nemmanco la moje cammionista. Allora Pottanzio me dice: lei troverà sempre lavoro, e io lo guardo, sorido emozzionato, ma cor penziero me gratto forte forte laddove comincia l’omo e finiscono le puttanate. Tony Rucola

Manni non scade mai Tu quando scadi? è una interessante raccolta di racconti sul lavoro precario visto dai precari che ha incuriosito molto i lettori e le testate locali e nazionali, sia per il tema trattato sia per la diversità dei generi usati dai vari autori. Della raccolta fanno parte anche i testi dei coolclubbini Dario Goffredo e Dario Quarta (e questo è un altro merito del volume). Prendendo spunto da questo libro (e dalle presentazioni televisive di Antonio Sansonetti in arte Tony Rucola) abbiamo deciso, in un numero dedicato alle nuove uscite discografiche pugliesi, di segnalare nella sezione dedicata alle piccole case editrici italiane una delle migliori realtà del panorama regionale. La casa editrice Manni è nata nel 1984 attorno alla rivista di letteratura L’immaginazione e oggi ha un catalogo di oltre 1000 titoli. Da una produzione inizialmente orientata alla poesia ed alla narrativa si è passati ad un ventaglio di interessi più ampio che vede collane di saggistica, saggistica socio-politica, filosofia, attualità, archeologia, nonché un segmento importante dedicato alla letteratura per ragazzi. “In un mercato del libro calibrato sui grandi numeri, sul sistema delle grandi concentrazioni editoriali-distributive-librarie, le piccole case editrici svolgono una funzione di pluralismo politico, garantiscono l’espressione di voci di dissenso o semplicemente di non assuefazione al sistema”, sottolinea Agnese Manni, direttrice editoriale dei volumi fuori collana e dei libri per ragazzi. La Manni è una grande famiglia che ruota attorno ai fondatori Piero Manni e Anna Grazia Doria, alle figlie Agnese, Grazia e a tanti collaboratori che sono entrati in contatto con questa realtà. Tra le nuove attività è anche partito un esperimento di copyleft che consente di scaricare gratuitamente un intero libro dalla home page del sito www.mannieditori.it. Manni Editori Via Umberto I, 49 73016 San Cesario di Lecce (Le)


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La terra Sergio Rubini Medusa **** 1/2

Sergio Rubini e Domenico Procacci si ritrovano dopo 12 anni e lo fanno con La terra, film prodotto da una delle più importanti e vivaci case di produzione italiane, la Fandango, con la quale anni fa il regista-attore aveva intrapreso il suo percorso. Rubini, nato a Grumo Appula (BA) nel 1959 arriva così al suo ottavo film da regista (sei dei quali girati in Puglia) dopo aver esordito nel 1990 con l’intenso La stazione e dopo il recente successo de L’amore ritorna (2003), forse uno dei suoi lavori più riusciti. Il nuovo film di Sergio Rubini è un viaggio ai confini del Sud. Un Sud per molti versi stereotipato ma che esprime una serie di considerazioni più o meno valide sul valore della famiglia e di tutto ciò che gli ruota attorno, proprietà, memorie, legami. Un po’ dramma, un po’ noir quest’ultimo lavoro del regista pugliese convince e lo fa nella maniera più limpida, raccontando una storia,

Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico

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il cinema secondo coolcub

sempre sospesa tra sogno e realtà. Ambientato a Mesagne, il film racconta la storia recente di quattro fratelli dall’animo e dal futuro profondamente diversi che si ritrovano dopo svariati anni per discutere la vendita di una masseria di proprietà del padre. Questo innescherà una serie di reazioni devastanti che avranno il potere di smuovere situazioni e coscienze e di riportare alla luce vecchi traumi e contrasti sopiti. Bentivoglio, Solfrizzi, Venturiello e Briguglia, oltre che quattro fratelli rappresentano altrettante stagioni della vita, nelle quali tutti siamo costretti a fare i conti con un legame così sottile da spezzarsi col primo alito di vento. Interessante è anche il lavoro tecnico che Rubini riesce a sviluppare, che va da una efficace commistione di generi a un mix sapiente di movimenti di macchina che caratterizza il cinema d’autore tanto quanto il B-movie. Nel

cast anche Claudia Gerini, compagna di uno degli interpreti e lo stesso regista, che si è cimentato con l’ambiguo ruolo di uno strozzino che vede il suo destino legato alla famiglia. Prima di uno sconvolgente finale a sorpresa che lascia tutti a bocca aperta. Ed è proprio dove tutto è cominciato, nella masseria, che si concludono le vicende dei quattro fratelli-protagonisti, finalmente riuniti anche dopo una importante “perdita”. A dimostrazione del fatto che c’è una dimensione ematica delle cose, che ci rende più sensibili e aggressivi, scriteriati e capaci d’amare. Senza mezzi termini. Un film magico e senza ordine di tempo in cui ritorna il tema delle radici, forse filo conduttore di tutta la carriera di uno dei più straordinari interpreti attuali della vita da “emigrante”, che contraddistingue nel bene e nel male ogni storia del Sud. Michele C. Pierri


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JOHNNY CASH THE MAN IN BLACK È difficile pensare a un artista che, come Johnny Cash, racchiuda nella sua vicenda personale tutte le traversie, le contraddizioni e gli aspetti positivi della popular music americana. Chiamato affettuosamente “l’uomo in nero” portava sempre abiti di questo colore per distinguersi, come spiegò lui stesso, da quelli che si vestivano da cowboys John R. Cash nasce il 26 febbraio 1932 a Kingsland, Arkansas, in una famiglia di contadini e nelle sue vene scorrono anche gocce di sangue Cherokee. Nel 1935 i Cash si spostano dalle colline del sud dell’Arkansas a Dyess, nell’area del Delta del Mississippi. I Cash vengono inseriti in un programma governativo che prevede per loro un prestito, una casa e alcuni acri di terra per coltivare il cotone. Johnny lavora nei campi con i genitori, ma ascolta anche molta musica - prima dalla madre, che canta accompagnandosi con la chitarra, poi dalla radio e da un vicino di casa. Nel 1944 una tragedia colpisce la famiglia Cash: Jack, il fratello quattordicenne di John, si ferisce con una sega circolare mentre sta tagliando dei pali per una staccionata e muore dopo un’agonia di otto giorni. Finite le scuole nel 1950, Johnny si trasferisce a Detroit, dove lavora finché non decide di arruolarsi in aviazione. Presta una parte del servizio militare in Germania e lì riesce finalmente ad acquistare una chitarra tutta sua:

“Costava venti marchi ed era così economica che non aveva neppure una marca, ma ai miei occhi era una Martin D-45”, ricordava lui stesso nelle note di uno dei suoi ultimi dischi. In quel periodo scrive una delle sue canzoni più famose, Folsom Prison Blues. Nel 1954, tornato civile, si sposa con Vivian Liberto e si stabilisce a Memphis, in Tennessee. Per mantenere la famiglia fa il piazzista, ma frequentando Luther Perkins (chitarra) e Marshall Grant (basso), due musicisti dilettanti, ritorna ad appassionarsi alla musica. La prima audizione con Sam Phillips, il proprietario della Sun Records che ha da poco scoperto Elvis Presley, va abbastanza male, ma Cash non molla e ci riprova finché non riesce a convincere Phillips a fargli incidere un disco. Il primo singolo, Hey Porter/Cry Cry cry, esce nel giugno 1955, ma solo a novembre entra nei Top 20 delle classifiche country nazionali. Meglio ancora va il secondo, Folsom Prison Blues/So Doggone Lonesome. E siccome nel frattempo Elvis Presley ha deciso di prendere il volo e di firmare con la Rca, Phillips ha più tempo da dedicare a lui e un altro asso della Sun, Carl Perkins. Nel maggio del ‘56 Get Rhythm/I Walk The Line sbanca non solo le classifiche country, ma anche quelle pop, totalizzando un milione di copie vendute. Nel 1958, dopo aver collezionato altri successi, Cash si trasferisce in California

e passa alla Columbia, la casa discografica con cui resta per molti anni e con cui realizza i suoi dischi più famosi, successi che sono ormai parte essenziale della storia della popular music come Ring Of Fire (1963) e gli album At Folsom Prison (1969) e At San Quentin (1970). Nello stesso periodo hanno inizio i suoi problemi con l’alcool e le droghe - alla fine del ‘65 viene arrestato mentre tenta di attraversare la frontiera con il Messico con delle anfetamine nascoste nella custodia della chitarra. Dopo un incidente d’auto e un’overdose quasi fatale, sua moglie chiede e ottiene il divorzio. Dopo essersi stabilito a Nashville, nel 1968 sposa June Carter, componente della celebre Carter Family, che lo aiuta a uscire dal tunnel della tossicodipendenza. Un anno dopo partecipa alle session di Nasville Skyline di Bob Dylan, provocando un certo scalpore tra gli estimatori di quest’ultimo. Sull’album viene pubblicata soltanto la versione in duo di un classico dylaniano, Girl From The North Country, ma i due registrano altre canzoni e Dylan viene invitato allo show televisivo di Cash. Con il passar del tempo la sua produzione si fa più sporadica e anche per questo sono particolarmente degni di nota i suoi album degli anni ‘90 prodotti da Rick Rubin: American Recordings (1994), per sola voce e chitarra acustica, e Unchained (1996), in cui il vecchio “uomo in nero” viene accompagnato da Tom Petty e dai suoi Heartbreakers con la partecipazione di insospettabili fans come Flea dei Red Hot Chili Peppers. Cash si spegne in un ospedale di Nashville nel settembre del 2003 a causa di complicazioni causate dal diabete. A maggio dello stesso anno era morta l’adorata moglie June Carter Cash, cui Johnny avrebbe voluto dedicare una nuova raccolta di canzoni. Sempre discusso per le sue posizioni politiche conservatrici - nel 1970 aveva cantato alla Casa Bianca per Richard Nixon, uno dei peggiori presidenti della storia degli Stati Uniti - Johnny Cash è uno dei simboli della country music, ma non può essere compreso e apprezzato senza conoscere il rapporto profondo che lega questa musica, il blues dei bianchi, alla vita della parte più povera ed emarginata della popolazione americana. Giancarlo Susanna


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SEGNALAZIONI

WALK THE LINE

Il cinema e la TV lo hanno sempre corteggiato - lo ricordiamo ad esempio in A Gunfight, un western un po’ cupo del 1970 diretto da Lamont Johnson con Kirk Douglas e Raf Vallone, in un episodio della serie del Tenente Colombo in cui interpretava proprio un cantante country o come protagonista di un suo show televisivo - ma è sicuro che Johnny Cash sarà ricordato soprattutto per la sua musica. Per quei suoni e quelle parole semplici, diretti e immediati con cui si rivolgeva direttamente al cuore del suo pubblico. Gli stessi che sono in fondo il nodo centrale di Walk The Line. Per T Bone Burnett, il musicista e produttore che ne ha curato la colonna sonora, questo film ha rappresentato un’incredibile opportunità professionale, ma ha indubbiamente gravato su di lui come un’immensa responsabilità: “Negli anni ‘50 Johnny Cash, allora appena venticinquenne, rappresentava già una figura mitica - ha dichiarato Burnett

- Un uomo combattuto tra l’amore per Dio e la smania di scatenare l’inferno. Distruttivo, pericoloso. Un uomo che celava un lato ancora più oscuro degli stessi abiti neri che indossava. Joaquin Phoenix sembrava perfetto per recitare in questo ruolo. La prima volta che ci siamo incontrati per parlare del progetto ha dipinto Johnny Cash con toni molto profondi. E’ riuscito ad evocarlo senza imitarlo. Joaquin é un vero artista ed altrettanto posso dire di Reese Witherspoon nel ruolo di June Carter”. Impegnato nell’elaborazione di questo soggetto per un periodo di sette anni con il supporto iniziale dello stesso Cash e di June Carter Cash (fino al 2003, anno della loro scomparsa), James Mangold, regista del film e autore della sceneggiatura, ha deciso di collocare Walk The Line a metà degli anni ‘50. “E’ stato proprio allora che il rock’n’roll ha travolto il mondo con la sua forza esplosiva”, ricorda. Il film ripercorre la fulminea scalata al successo di Cash, che raggiunge il culmine con lo storico concerto tenuto nel 1968 nella prigione di Folsom. Lasciamo ad altri una valutazione del film - sul mensile inglese Uncut il critico Simon Goddard lo ha definito una mediocre biografia di taglio televisivo, ma in Italia le lodi si sono sprecate - e soffermiamoci sulla musica. La produzione di T Bone Burnett è ineccepibile e d’altra parte non potevamo aspettarci di meno dall’artefice del soundtrack di O Brother Where Art Thou? dei fratelli Cohen, ma l’aderenza alle canzoni originali e le performance vocali di Joaquin Phoenix sono addirittura sorprendenti. Non ci ha stupito più di tanto scoprire che alla fine delle riprese l’attore americano ha dovuto fare ricorso a una terapia psicanalitica per uscire indenne dal ruolo di Cash e tornare ad essere se stesso. La bella colonna sonora comprende brani tratti dal repertorio di Cash come I Walk The Line, Ring of Fire, Folsom Prison Blues, Cry Cry Cry e It Ain’t Me Babe, interpretati da Phoenix e Witherspoon. Il disco include inoltre brani di Shooter Jennings, figlio del leggendario Waylon Jennings, che interpreta il padre sulla scena del film, del cantautore Jonathan Rice nel ruolo di Roy Orbison e del cantante Tyler Hilton in quello di Elvis Presley. (G.S.)

Il caimano

Nanni Moretti

Polemiche e accuse per il girotondino Nanni Moretti che alla vigilia delle elezioni torna con Il caimano, film liberamente ispirato alla figura del premier uscente Silvio Berlusconi. Il cast è composto da Silvio Orlando, Margherita Buy, Michele Placido e l’emergente Jasmine Trinca. Nelle sale dal 24 marzo.

Inside man Spike Lee

Nuovo film drammatico per Spike Lee che nel suo Inside man vede la presenza di stelle come Denzel Washington, Clive Owen e Jodie Foster. Semplice l’intreccio in cui un rapinatore durante un colpo, perde il controllo della situazione e si vede costretto a prendere un ostaggio. Su di lui il fiato di un detective.

L’enfer

Denis Tanovic

Dalla Francia arriva L’enfer, per la regia di Denis Tanovic. Tre sorelle ormai adulte si sono allontanate, ma rimangono legate da uno sconvolgente episodio legato alla loro giovinezza. Fino al giorno in cui non emerge una nuova verità del passato.

Berlinale 2006

Il cinema incontra l’impegno civile. Questo il filo conduttore del 56mo Festival internazionale di Berlino che ha visto assegnare l’Orso d’oro al bosniaco Grbavica di Jasmila Zbanic al centro del quale viene posta la questione degli stupri etnici subiti dalle donne nel decennio scorso nella guerra nei Balcani. Largo consenso anche per i britannici Michael Winterbottom e Mat Whitecross che si sono aggiudicati il premio per la Miglior Regia per The road to Guantanamo, drammatico resoconto dell’insensato conflitto in Iraq. Grande attenzione anche per l’impegno produttivo tedesco, presente in quasi tutti i film premiati e segno evidente di una cinematografia che pone al primo posto la qualità. Ma questo è stato anche il festival delle delusioni che ha visto a bocca asciutta non solo Michele Placido (presente con Romanzo criminale), ma anche maestri del calibro di Claude Chabrol, Robert Altman e Sidney Lumet. In queste decisioni, forse non condivisibili, è possibile leggere un chiaro riferimento politico in un momento storico delicato e quella sensibilità femminile che una donna come Charlotte Rampling, presidente della Giuria, ha saputo apportare alla rassegna. Da segnalare lo show di Roberto Benigni, protagonista fuori concorso con il suo ultimo lavoro, La tigre e la neve, applaudito da pubblico e critica.


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CoolClub.it

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LA VOGLIA DI FARE TUTTO CON POCHI MEZZI Il nostro viaggio nelle realtà indipendenti italiane continua e questo mese, in linea con il tema del giornale, arriva in Puglia. Abbiamo incontrato Michele della Psychotica records etichetta che si muove e si sbatte per promuovere e produrre altri suoni. Parlaci un po’ dell’idea da cui nasce la Psychotica, l’orientamento il suo impatto con il territorio, quello tarantino... La Psychotica nasce dalla mia mente malata, dalla voglia di pubblicare e diffondere musica aliena, musica rumorosa o in ogni caso musica che come attitudine e volontà si distacca dai canoni classici del comune sentire. L’impatto con il territorio non è stato dei migliori, mi ci è voluto tempo per dimostrare e far capire che indipendenti non significa “sfigati”, cioè che non si sono prodotti dei dischi “indipendenti” perché non si trovava la major di turno…. I dischi sono stati realizzati proprio per sfuggire in qualche modo alle logiche del mercato major, si tratta quindi di scelte derivanti da idee politiche e attitudini corrette. Questo numero parla di Puglia, di musica in Puglia, una mappatura delle realtà più interessanti. Da addetto ai lavori, ci racconti un po’ la scena di Taranto, il suo passato, il suo presente, il suo possibile futuro. Qui a Taranto non c’è una vera è propria scena, esistono miriadi di gruppi nella provincia e in città, soltanto che ce ne sono pochissimi che hanno qualcosa in comune tra loro, la maggior parte (il calderone) fanno cover, blues, progressive e metal. Poi ci sono alcune band che ritengo interessanti, ma si contano sulle dita di una mano…. Cioè Logan, Beirut, But God Created Woman, ci sono un paio di amici che fanno musica elettronica, davvero notevole come fAb e Mark Hamn. Le considero le migliori espressioni musicali della zona proprio per il discorso che facevo prima riguardo alla voglia di realizzare qualcosa di diverso dai soliti standard e dal comune sentire. Questo si potrebbe definire il presente,

il passato non era poi tanto diverso, qualche gruppo che cercava di farsi conoscere per attitudine e voglia di sperimentare (Veronika Voss, Mind Vortex, Ain’t, Zero Tolerance for Silente). Il futuro e tutto da vedere, certo che sarebbe una bella soddisfazione vedere altre persone interessate a intraprendere strade diverse (musicalmente parlando) magari proprio perché sono state ad un concerto di uno dei gruppi sopra citati, in fondo così sono nati i Beirut….. Sul vostro catalogo ci sono gruppi provenienti da tutta Italia e non solo, come vi muovete e quale è il vostro indirizzo in questo senso. I gruppi Psychotica pugliesi te li ho elencati prima (vedi sopra) ho fatto un disco in collaborazione con fAb (è in free dowload sul sito) e mi piacerebbe realizzare qualcos’altro con Mark Hamn, ma al momento non ne ho parlato nemmeno con lui…. Si vedrà …. Al momento ci sono gli italiani Logan, Beirut, Lillayell, Edible Woman, Guinea Pig, Beirut, Comfort, Zu, Theramin, fAb e i But God Created Woman e gli stranieri Ex Models, Velma, Dalek, Daemien Frost e Giraffe Running. Molto probabilmente sto per iniziare a lavorare con i Moesgaard (una band francese incredibile). Tutti questi gruppi sono stati contattati (perché li conoscevo come gli Ex Models) o mi hanno contattato perché conoscevano l’etichetta e il mio lavoro come i Moesgaard. È motivo di orgoglio per me sapere che gli echi di Psychotica arrivano fino in Francia!! Ma non c’è una reale idea nella selezione delle band, ce ne sono altre centinaia che mi piacerebbe produrre, ma le mie risorse sono limitate e faccio tutto quello

che posso….. Parlaci un po’ delle vostre ultime produzioni. Sono usciti proprio in questi giorni due dischi, che rispetto al resto del materiale psychotica si diversificano parecchio per la scelta dei suoni e per l’approccio alla materia musicale, si tratta dello split Lillayell/Velma e del disco dei Comfort Eclipse. Psychotica, un’etichetta indipendente in genere, è un lavoro o può essere solo un hobby, qualcosa da fare nei ritagli di tempo. Con scelte (artistiche) come le mie non potrà mai diventare un lavoro, se ci aggiungi il mercato discografico (tutto, indipendente e non) in crisi per la musica in download gratis, la vedo dura, secondo me il futuro è il vinile, quindi gli appassionati. Osvaldo Piliego


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B A L L A T I I lettori affezionati di Coolclub.it si sorprenderanno nel leggere una pagina dedicata alla musica tradizionale salentina. Nel numero disegnato sulle “strane” novità del mercato musicale pugliese abbiamo deciso di dare spazio ad un musicista e operatore culturale del sud del Salento, al suo gruppo e al loro centro musicale. Claudio “Cavallo” Giagnotti è il fondatore dei Mascarimirì e del Centro Dilinò di Muro leccese. La sua sagoma è assolutamente inconfondibile tanto che nel 2003 quando sul palco di Melpignano per il concertone della Taranta, per la prima volta dalla nascita della manifestazione nel 1998, non si scrutò la sua “coda” e non si udì il suo urlo di battaglia – BALLATI – molti si chiesero che fine avesse fatto. “Negli ultimi anni ho deciso di defilarmi dalla Notte della Taranta perché sono in disaccordo con alcune scelte dei direttori artistici”, sottolinea Cavallo. “In generale nel Salento negli ultimi anni, al di là di alcune operazioni editoriali e discografiche interessanti, si è fatta pochissima ricerca. I Mascarimirì sin dalla nascita e nonostante numerosi cambi di formazione, hanno invece sempre cercato di portare avanti un discorso di ricerca tralasciando i pezzi facili (quelli che tutti sanno fare) e puntando invece su brani mai incisi o inediti. È un errore secondo me insistere sempre sullo stesso patrimonio di dieci canzoni quando se ne potrebbero portare alla luce nuove. Sono anche contento che i pezzi firmati Mascarimirì come Bendirì, La ballata di Santa Marina, Occhi turchini siano diventati quasi patrimonio tradizionale”. La curiosità che mi viene è quella di capire come non ora (che il movimento è inflazionato e che è più facile da queste parti fare il “pizzicarolo” che il “rockettaro”), ma una quindicina di anni fa un ventenne potesse sentire la necessità di “riprendere” un tamburello in mano. Nel caso di Cavallo ha influenzato e condizionato questa scelta anche la riscoperta delle sue origini zingare. In molte zone del Salento la comunità di famiglie

C O N

Rom è molto forte. La madre di Claudio è stata la prima rom a sposarsi con un italiano. “Questo aspetto delle mie radici”, racconta Claudio, “è venuto fuori intorno ai 23 anni, dovuto soprattutto al rapporto conflittuale con l’attività commerciale della mia famiglia. Ad un certo punto ho lasciato tutto e sono andato in giro per l’Italia, tra Napoli, Bologna e altre città del nord per fare il musicista”. Il primo gruppo di Cavallo sono i Terra De Menzu, nati nel 1993/94 sotto l’influenza del fotografo Fernando Bevilacqua, che coinvolge numerosi giovani musicisti rock. La mia posizione, faccio notare a Cavallo, è molto critica. Ritengo, fuori dai moralismi e dalle banalità (nelle quale già lo so che cadrò) che la salentinità sia stata un po’ costruita, che bisogna stare attenti a certi manifesti di localismo, che la musica in questa splendida zona di Italia non sia solo quella tradizionale (come a volte pare essere), che certe manifestazioni rischiano di trasformarsi in fenomeni da baraccone o addirittura di perdere la propria natura (vedi San Rocco a Torrepaduli). A questo punto parte una lunga discussione che è difficile riportare sulla carta per questioni di spazio e per questioni di lingua: entrambi iniziamo infatti a discutere in dialetto. “La situazione attuale del panorama musicale è abbastanza tragica”, sottolinea Claudio. “C’è un forte appiattimento sulle idee ma, ed è questa la cosa più preoccupante, non dei gruppi minori ma in quelli maggiori, quelli più importanti. Per i ragazzi è ancora più semplice. Perché ti incontri, fai un gruppo, cinque concerti, un cd...ma hanno tutti lo stesso repertorio. Ci sono poi gruppi che scelgono di fare cose più contaminate ma poi tornare indietro. Secondo me è fondamentale avere un progetto artistico ben definito. I Mascarimirì fanno tradinnovazione ma possiamo farla solo perché conosciamo la tradizione. Ma non quella acquisita per sentito dire o quella letta sui libri. Il nostro progetto è nato dal confronto con musicisti seri come Daniele Sepe, Dupain, Massillia Sound System, Piero Milesi (maestro concertatore di alcune

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M A S C A

edizioni della Notte della Taranta). Da questi incontri nascono novità sonore, idee. Nel Salento attualmente esistono circa centodieci gruppi e sono quasi tutti fermi alle feste di piazza”. Nonostante queste perplessità Cavallo è convinto che la musica salentina non sia un fenomeno da baraccone. “Quello che tutti devono capire è che in questa zona c’è una coscienza tradizionale e politica del territorio che in pochi hanno. Il Salento insieme a poche altre regioni come l’Occitania, il Maghreb, l’Andalusia, l’Irlanda ha una musica quasi primordiale”. Un ritmo “innato”, una primitività sonora che deve essere mantenuta attraverso due elementi essenziali: la voce e il tamburello. “Purtroppo si sta perdendo il suono tradizionale. Molti musicisti utilizzano tamburelli di plastica, molto più spettacolari e suonabili ma che non danno le stesse sensazioni di una volta. La pelle, la forma, la disposizione dei sonagli: tutto aveva un senso e tutto deve essere recuperato”. Una riscoperta della


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tradizione che dà anche senso al titolo di questo nuovo lavoro. “Trìciu è un quartiere di Muro Leccese dove sorgono un Menhir e la chiesetta di Santa Marina (IX-XI sec)”. Il disco è una produzione artistica di Dilinò. “La struttura è nata nel 2003 e cura produzioni musicali legate alla world music, alla musica etnica. Attualmente le nostre band sono i Mascarimirì, i Crifiu (che parteciperanno alle finali regionali di Arezzo Wave e che stanno lavorando al nuovo disco), e P 40, un giovane cantattore. Ma Dilinò è anche un centro con centinaia di cd da ascoltare, un luogo di incontro e una sala prove. Da un po’ di tempo curiamo su una emittente locale un programma radiofonico sulla world music ogni lunedì dalle 21 alle 22”. Trìciu, prodotto da Radio Popolare e Sensible Records per la collana discografica Arpa, distribuito dalla Family Affaire sarà in vendita nei negozi di tutta Italia a partire dal 25 marzo. La presentazione ufficiale si terrà il 31 marzo e il 1 aprile. Pierpaolo Lala

MUSICA

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tutti i lunedì/ Karaoke al Caledonia di Lecce ogni martedì/ Jam sassion jazz al Willy Nilly di Squinzano (Le) ogni mercoledì/ High fidelity al Caffé Letterario di Lecce Il nuovo appuntamento in musica del Caffé Letterario si chiama High Fidelity. Ogni settimana un dj diverso si alternerà in consolle per selezionare un personale percorso alla scoperta di un genere musicale, un periodo, una etichetta o un gruppo. ogni venerdì/ Cinemusic con music bar, happy hour e borsa delle consumazioni al Prosit di Lecce ogni sabato/ Open bar sino alle 00.30 al Willy Nilly di Squinzano (Le) tutte le domeniche/ Happy Hour dalle 20 alle 24 con drink e buffet al Prosit di Lecce giovedì 2 e venerdì 3/ Selezioni provinciali brindisi Arezzo wave a Villa Leta di Mesagne(br) Ingresso gratuito - start ore 21:00. Info:3406093497 giovedì 2/ Sergio Laccone a Le Signorie di Casarano (Le) Prende il via La voce del cuore, una rassegna della canzone cantautoriale pugliese dal retrogusto rock, swing e qualche ‘condimento’ jazz. La voce del cuore ospiterà il barese Sergio Laccone, Daniele Dall’Omo e Ivana Fortuna. La rassegna sarà anche l’occasione ideale per presentare il nuovo cd di Martino de Cesare, L’ultimo bivio (tra sogno e realtà), edito da Rai-Trade: un sogno fatto vent’anni fa, scritto di botto su un foglio, il mattino dopo, e riposto in un cassetto in attesa di trasformarsi in una sceneggiatura per la realizzazione di un film e colonna sonora ideale per tale adattamento cinematografico. La voce del cuore è una rassegna curata da Madmanagment di Copertino (Le) ed è ospitata da vari locali tra i quali il Prosit di Lecce (il 28 marzo e il 4 e 11 aprile). giovedì 2/ Sublime Follia all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) venerdì 3/ Kawabato Makoto + Piggy DJSet all’Istanbul Café di Squinzano (Le) venerdì 3/ Sergio Laccone al Teatro l’Acquario di Rutigliano (Ba)

venerdì 3/ Carlo atti quartet con Carlo atti (Sax Tenore), Ettore Carucci (Piano), Giuseppe Bassi (basso), Marcello Nisi (batteria) al Bakayokò di Parabita (Le) venerdì 3/ Black Groove al Caledonia di Lecce venerdì 3/ Client allo ZenzeroClub di Bari sabato 4/ Zenzerology indie anteprima Arezzo Wave allo ZenzeroClub di Bari sabato 4/ Death Disco con Dr. Kiko & Calamity Jane from UK all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 4/ Vialka ai Sotterranei di Copertino (Le) domenica 5/ Lincastro, duo falk da Roma al London Tavern di Lecce mercoledì 8/ Festa della donna al Caledonia di Lecce mercoledì 8/ Festa della donna al Road 66 di Lecce mercoledì 8/ Happy mimosa con Mimosa cocktail per le donne al Prosit di Lecce mercoledì 8/ Gianfranco Rizzo soul trio al London tavern di Lecce giovedì 9/ Titty Sister all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) Il repertorio live comprende sia brani originali sia classici rock’n’roll, swing, surf e sfrenato rockabilly. venerdì 10/ Ushuaia al Caledonia di Lecce venerdì 10/ Burning seas + Kronium al Csa Zona 167 di Parabita (Le) venerdì 10/ Samba de saulito (Tributo a Santana) al Bakayokò di Parabita (Le) venerdì 10/ Camera 237 + Herozero all’Istanbul Café di Squinzano (Le) venerdì 10/ Carvin Jones al Teatro l’Acquario di Rutigliano (Ba) venerdì 10/ Hazy Brain al Blue Blood di Oria (Br) venerdì 10/ Ushuaia al Caledonia di Lecce venerdì 10/ Finali regionali Arezzo Wave allo ZenzeroClub di Bari sabato 11/ Finali regionali Arezzo Wave allo ZenzeroClub di Bari sabato 11/ Offside allo Zei di Lecce sabato 11/ Pleo (live set) + Populous (Dj Set) all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 11/ Pensierinvolgare (pro Amref) ai Sotterranei di Copertino (Le) sabato 11/ La banda dei falsari alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)


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domenica 12/ Nena’s Polla ai Sotterranei di Copertino (Le) domenica 12/ Burning seas all’Arci Ragazzi di Francavilla Fontana (Br) domenica 12/ Dinamo Rock al Lowenbrau di Poggiardo (Le) mercoledì 15/ Fiumi di assenzio e fiumi di parole al London Tavern di Lecce Degustazione di assenzio e lettura di versi scritti nel corso della serata. giovedì 16/ Biomechanical + Warchild al Nord Wind Disco Pub di Bari (Info e prevendite 333 65 99 784 - vivomanagement@hotmail. com) giovedì 16/ Violante Placido (aka VIOLA) allo ZenzeroClub di Bari giovedì 16/ Zippo jazz trio con Marcello Zappatore, Marco Bardoscia e Dario Congedo al London Tavern di Lecce giovedì 16/ Adel’s all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) Uno show fatto di composizioni originali che non stancano assolutamente, e di cover di estrazione tanto assurda quanto geniale (come le rivisitazioni in chiave Rock and Roll di brani di Buscaglione, Carosone, Modugno, Dean Martin, Louis Prima, o pezzi di musica classica o balcanica)! Il tutto con un sound caldo e frizzante! venerdì 17/ Violets & swear in concerto - zenzerology uk dj set allo ZenzeroClub di Bari venerdì 17/ Ariel (Meccanica Cubana) al Caledonia di Lecce venerdì 17/ Fabio morgera quartet: Fabio Morgera (Tromba), Norberto Tamborrino (Piano), Giuseppe Bassi (Basso), Marcello Nisi (Batteria) al Bakayokò di Parabita (Le) venerdì 17/ Twin dragons al Teatro l’Acquario di Rutigliano (Ba) venerdì 17/ Dinamo Rock al Morrison’s pub di Martano (Le) venerdì 17/ Prove a Distanza al Red Moon di Mesagne (Br) sabato 18/ M.i.a. dj set allo ZenzeroClub di Bari (vedi pag. 22) sabato 18/ Dinamo Rock all’El Royo di Alezio (Le) sabato 18/ The Boozers all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 18/ Dragma + The Gemm (pro Amref) ai Sotterranei di Copertino (Le) sabato 18/ Andrea Chimenti alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) domenica 19/ San Giuseppe Folk Festival con Zimbaria presso Contrada Ferrari, vic. Campo Sportivo di Erchie (Br) martedì 21/ SublimeFollia al Mulligan’s Pub

di Maglie (Le) giovedì 23/ Fluid to gas ai Sotterranei di Copertino (Le) giovedì 23/ Daniele Dall’Omo a Le Signorie di Casarano (Le) giovedì 23/ Foredecapu blues band all’Heineken green stage di Tricase (Le) venerdì 24/ Blu Cianfano al Caledonia di Lecce venerdì 24/ Opera (rock progressive) al Bakayokò di Parabita (Le) venerdì 24/ Daniele Dall’Omo al Teatro l’Acquario di Rutigliano (Ba) venerdì 24/ Stonecutters all’Arci di Galatone (Le) venerdì 24/ Prove a Distanza al The Church di Brindisi sabato 25/ Tabulè alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) sabato 25/ Daniele Dall’Omo a La Grange di Cosenza (Cs) sabato 25/ The Adels all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 25/ Derelict Carillon (pro Amref) ai Sotterranei di Copertino (Le) sabato 25/ Alessandro Coppola ai Cantieri Koreja di Lecce martedì 28/ Daniele Dall’Omo al Prosit di Lecce martedì 28/ Dinamo Rock al Mulligan’s di Maglie (Le) giovedì 30/ Martino De Cesare a Le Signorie di Casarano (Le) giovedì 30/ Shade out all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) venerdì 31/ Martino De Cesare guest Lucariello al Teatro l’Acquario di Rutigliano (BA) venerdì 31/ Cuori di Cane al Caledonia di Lecce venerdì 31/ Ivano Fortuna all’Osteria Quattro venti di Fragagnano (Ta) venerdì 31/ Ray Band (pop funk con contaminazioni jazz): Raimondo Campa (voce), Enrico Duma (chitarre), Fernando Fattizzo (tastiere), Alessio Borgia (batteria) al Bakayokò di Parabita (Le) venerdì 31/ Psychosun + Masoko allo ZenzeroClub di Bari sabato 1 aprile/ Masoko all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 1/ Roberto Angelini in Pong Moon alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) sabato 1/ Offside all’Arci di Francavilla Fontana (Br) lunedì 3/ Demolition Doll rods (Keep Cool) all’Istanbul Café di Squinzano (Le) Dopo la prima edizione dello scorso anno

torna la rassegna Keep Cool organizzata da Coolclub. Il programma prenderà il via lunedì 3 aprile con il concerto delle Demolition Doll Rods, due signorine ed un maschietto provenienti da Detroit che rincorrono la semplicità del rock’n’roll tingendola di blues quando occorre. Il 13 aprile spazio ai Settlefish, band bolognese con un piede negli Stati Uniti, che combina trame postrock con un “emo-core” che nulla ha da invidiare alle formazioni d’oltre oceano. Sabato 22 aprile arrivano nel Salento i londinesi Art Brut, uno dei fenomeni musicali d’oltremanica. Il quintetto propone un rock divertente e irriverente. Lunedì 24 aprile direttamente dagli Stati Uniti i Red Elvis, che prendono il nome dal famoso quadro che nel 1962 Andy Warhol dedicò all’inventore del rock. Keep Cool chiude i battenti sabato 29 aprile con il concerto del duo francese Chevreuil che presenterà i brani del nuovo lavoro Capoeira. Gli appuntamenti sono all’Istanbul Café di Squinzano (Le). Info www.coolclub.it; 0832303707.

TEATRO/ARTE

sabato 4/ Lenta-mente ai Cantieri Koreja di Lecce Alle ore 19.30 si inaugura la mostra di Enza Mastria che proseguirà nel foyer dei Cantieri Koreja sino al 31 marzo. sabato 5/ Perchè ora affondo nel mio petto

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CoolClub.it ai Cantieri Koreja di Lecce Un bluff teatrale sull’amore (l’amore è un bluff teatrale) messo in scena da Roberto Corradino. Il monologo, che parte dalle suggestioni dalla Pentesilea di Von Kleist, ‘riscrive’ la vicenda dell’amazzone innamorata dell’eroe Achille. Lo spettacolo rientra nella rassegna Strade Maestre. L’appuntamento è ai Cantieri Koreja di Lecce. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info 0832242000 martedì 8/ Lezioni di piano (teatro Kismet opera) al Teatro Verdi di Martina Franca mercoledì 9/ Alessandro Bergonzoni in Predisporsi al micidiale al Teatro del Fuoco di Foggia Giovedì 10/ Alessandro Bergonzoni in Predisporsi al micidiale al Teatro Sala Margherita di Putignano Venerdì 10/ Alessandro Bergonzoni in Predisporsi al micidiale al Teatro Curci di Barletta martedì 14/ Romeo e Giulietta al Teatro Paisiello di Lecce martedì 14/ Dario Vergassola e David Riondino in Todos caballeros - ballate per don chisciotte al Teatro del Fuoco di Foggia sino al 15 marzo Al Caffé Letterario di Lecce prosegue (fuori scena) una presentazione di paesaggi urbani di Raffaele Quida, artista Gallipolino. L’arte non ha bisogno della realtà esterna per esistere, ma dell’oggetto in essa contenuto, oggetto che manipolato con azione segnica, sovrapposizione di materiale avverso, materiale industriale, grumi di colore e a volte con il semplice non colore, diviene arte. giovedì 16-venerdì 17 marzo/ Il deficiente ai Cantieri Koreja di Lecce Lo spettacolo, scritto diretto e interpretato da Gaetano Colella e Gianfranco Berardi, ha conquistato il Premio Scenario 2005. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info 0832242000. giovedì 16/ Lezioni di piano (teatro Kismet opera) al Teatro Supercinema di Trinitapoli venerdì 17/ Lezioni di piano (teatro Kismet

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opera) al Teatro Impero di Brindisi da venerdì 17 a lunedì 20/ Concha Bonita al Teatro Curci di Barletta sabato 18/ Lezioni di piano (teatro Kismet opera) al Teatro Astra di Andria venerdì 24/ Muratori al Teatro del Fuoco di Foggia venerdì 24-sabato 25/ Lezioni di piano (teatro Kismet opera) al Teatro Ariston di Foggia giovedì 30 / Le serve al Teatro Politeama Greco di Lecce venerdì 31 / Radiodervish e Giuseppe Battiston al Teatro Moderno di Tricase (Le) Sul palco una formazione che unisce la dimensione più acustica e rarefatta del concerto con le ritmiche percussive. Nabil e Michele Lobaccaro, sono accompagnati da Alessandro Pipino, Giovanna Buccarella , Rita Paglionico, Anila Bodini, Arash Khalatbari, iraniano. Giuseppe Battiston (Pane e Tulipani, Agata e la tempesta), leggerà alcuni testi cui sono ispirate molte delle canzoni del gruppo. sabato 1 aprile/ Lourdes ai Cantieri Koreja

di Lecce Lourdes è il debutto alla regia di Tonio De Nitto del Teatro Stabile Koreja. Il lavoro cerca di ripercorrere in quadri i momenti fondamentali di un pellegrinaggio. Sul palco Federico De Giorgi, Carlo Durante, Emanuela Gabrieli, Federica Leone, Silvia Marchi, Antonio Nicolardi. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Info 0832242000. sabato 1/ Radiodervish e Giuseppe battiston al Teatro Garibaldi di Bisceglie domenica 2/ Radiodervish e Giuseppe battiston al Teatro Mercadante di Cerignola

CINEMA

La redazione di CoolClub.it non è responsabile di eventuali variazioni o annullamenti. Gli altri appuntamenti su www.coolclub.it Per segnalazioni: redazione@coolclub.it

martedì 7/ Me and everyone we know al Cinema Elio di Calimera (Le) martedì 7/ La damigella d’onore al Cinema Santalucia di Lecce venerdì 10/ Segnale di corto Filmfestival al Flatus Vitae Pub – Erchie (Br) Serata finale per la prima edizione di Segnale di Corto, festival di cortometraggi indipendenti, organizzata da L.A.I.T.Project e Flatus Vitae Pub con il contributo del Comune di Erchie. Le prime due serate hanno visto sfilare in proiezione i quindici cortometraggi in concorso tra la partecipazione e l’entusiasmo di un pubblico attento e divertito. La giuria, composta da Gino Cesaria, Michele Pierri, Francesco Di Lauro, e Mimmo Pesare ha valutato i corti e ha decretato cinque finalisti che si contenderanno la vittoria. Durante la serata saranno proiettati Due bravi ragazzi di Tony Palazzo, Chora di Lorenzo Adorisio, 24.Eh? (ouch!) di Lucas M. Figueroa, La nuova era di Niccolò Vannetti e Daniel Bertacche, Keep silent di Francesco Arcuri. Ingresso gratuito. Info 3495825399/3403984556 martedì 14/ Shangai dreams al Cinema Elio di Calimera (Le) martedì 14/ Texas al Cinema Santalucia di Lecce martedì 21/ L’enfant al Cinema Elio di Calimera (Le) martedì 21/ Habana Blues al Cinema Santalucia di Lecce martedì 28/ Memorie di una geisha al Cinema Elio di Calimera (Le) martedì 28/ L’enfant al Cinema Santalucia di Lecce.

CIBO & LETTERATURA

Il ristorante La luna dei Borboni – nello spirito della cultura che la anima – ha pensato di promuovere una iniziativa letterariogastronomica volta a conservare esperienze e ricordi legati al cibo. Per partecipare basterà inviare all’indirizzo di via Dante Alighieri, 59 – 73016 San Cesario di Lecce, un racconto di circa 60 – 90 righi dattiloscritti. Tali racconti saranno letti da attori nel corso di alcune serate conviviali e saranno votati dai commensali. Tra i più votati saranno poi scelti da una giuria competente quelli da destinare alla pubblicazione. L’iniziativa parte da subito ed è aperta a chiunque voglia partecipare.


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PERSEPOLIS: UNA DIFFERENTE CHIAVE DI LETTURA DELLA STORIA

Parigi, due donne iraniane conversano in un caffè: una vive da tempo nella capitale francese, l’altra, benestante, è in vacanza lontano da casa e, ad un certo punto della conversazione, dichiara di volere che Bush e soci attacchino l’Iran per sovvertire l’attuale regime politico. Quando l’altra si mostra scandalizzata da tali affermazioni, le risponde: “Tu vivi a Parigi… È facile parlare di civiltà quando si vive a Parigi… È un lusso!” lasciandola senza parole, incapace di ribattere. Questo dialogo, inserito in una vignetta, è una prova esemplare del talento di Marjane Satrapi, giovane fumettista iraniana trapiantata a Parigi: attraverso un’esperienza personale (è lei la protagonista della vignetta), traccia un veloce ritratto di due differenti visioni del mondo, impietoso ma, allo stesso tempo, brillante. Con lo stesso stile ha scritto e disegnato Persepolis (edito in Italia da Sperling e Kupler), uno dei fumetti più interessanti degli ultimi anni, che l’ha resa nota a livello internazionale. In Persepolis la Satrapi ci racconta la propria storia dai dieci ai ventitré anni, intrecciandola con quella dell’Iran della rivoluzione islamica; la vicenda, infatti, si apre nel 1980, l’anno dell’avvento dell’ayatollah Khomeini, con la piccola Marjane costretta a portare il velo a

scuola. Attraverso il racconto della propria infanzia e dell’adolescenza, l’autrice ci conduce nel passato recente del suo Paese senza semplificazioni ideologiche o facili stereotipi. L’Iran della Satrapi è un luogo denso di contraddizioni: eventi tremendi (le stragi dei manifestanti nelle piazze; il tragico destino dei dissidenti) si incrociano con i piccoli eventi quotidiani, incentrati sull’adattamento delle persone ai cambiamenti che stanno avvenendo (il velo nei luoghi pubblici imposto alle donne, il rapporto con l’Occidente e con la religione). In Persepolis gli Iraniani non sono, semplicemente, dei fanatici religiosi o delle povere vittime di tale fanatismo, bensì persone, esseri umani, costretti a vivere una situazione politica oppressiva, che hanno ancora voglia di perdersi nelle proprie faccende personali. Con ironia e con un’innata grazia la Satrapi ci fa amare il suo sé più giovane, intento al continuo confronto con una società differente dai suoi valori ed ideali. Ciò che manca è un inutile vittimismo: alla Satrapi interessa capire e comunicare le proprie sensazioni ed i meccanismi scattati in uno Stato, che fu un’illuminata democrazia ed ora è qualcos’altro, rendendoli intelligibili ai lettori d’ogni dove. Attraverso il racconto per immagini, strutturato in capitoli tematici, la fumettista costruisce un ponte ideale tra due mondi, divenendo ella stessa il tramite fra queste due realtà affatto inconciliabili, ed utilizza la propria biografia per alleggerire i toni, consegnandoci un’opera che spazia dalle lacrime al sorriso, come l’esistenza di ogni essere umano. I disegni, essenziali, quasi geometrici, sono funzionali alla storia, mentre ci restituiscono, attraverso il bianco e nero, le emozioni che l’autrice ha provato. Il risultato è un’opera, fin troppo, attuale in un momento di assurdi schematismi e di timore verso “l’altro da

sé”. La Satrapi ci ha fatto penetrare nei pensieri e nei sentimenti di una ragazza di fronte alla propria storia, a noi tocca il compito arduo: fare nostra tale lezione e tentare di comprendere il presente per cambiare il corso degli eventi futuri. La fumettista iraniana è l’erede di una tradizione dei comics ormai consolidata che vide un giovanissimo Spiegelman vincere il premio Pulitzer (il massimo riconoscimento letterario assegnato negli Stati Uniti) nel 1978 con il celebre Maus (edito in Italia da Einaudi). Spiegelman affrontò il tema dell’Olocausto usando la propria vicenda familiare: l’internamento del padre ad Auschwitz nel passato ed il suo rapporto contrastato con lui nel presente. L’opera ebbe un enorme successo di critica e pubblico, travalicando i pregiudizi sul fumetto ed entrando a pieno diritto tra i capolavori della letteratura del ’900. Dunque, nel caso della Satrapi e di Spiegelman, il medium fumettistico assurge a vette altissime, proponendosi di “mettere in scena” e di interpretare gli eventi umani, macroscopici o individuali che siano; i due autori hanno in comune la volontà di narrare la Storia (con la “esse” maiuscola) sviscerandone tuttavia un aspetto poco discusso: la vita delle persone comuni e l’impatto che quella Storia ha avuto su di loro. Roberto Cesano

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