Coolclub.it - Marzo 2016

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GRATUITO Anno XIII Numero 80 Marzo 2016

Ogni mese un mondo di cultura in Puglia


sabato Officine Cantelmo 12 marzo


SOMMARIO EDITORIALE - 4/5

CINEMA/TEATRO - 40/45

Riportando tutto in Puglia

Davide Barletti - Orazio Guarino Fabrizio Saccomanno

INTERVISTA - 6/11 Franco Ungaro

MUSICA - 12/31 Mama Marjas - Toa Mata Band Antonella Chionna - Giorgio Tuma Ivan Iusco - Sofia Brunetta - I Respiro Luprano - La Rocha - Gianluca Longo Dario Muci - Massimo Pinca - DiscoRing Phil Manzanera - BlogFoolk

LIBRI - 32/39 Luciano Funetta - Guido Catalano Francesca Malerba - Paolo La Peruta Mauro Bortone - Valentina Perrone Andrea Ferreri - Andrea Martina Daniela Palmieri - Adelmo Monachese Gabriele Palumbo

Piazza Giorgio Baglivi 10 73100 Lecce Telefono: 0832303707 Cell: 3394313397 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno XIII Numero 80 - Marzo 2016 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Collettivo redazionale Pierpaolo Lala (Direttore responsabile), Osvaldo Piliego, Dario Goffredo, Chiara Melendugno, Antonietta Rosato, Toni Nisi, Cesare Liaci

ARTE - 46/49 Massimo Pasca - Michele Guido Hidetoshi Nagasawa - Capo d’arte

BLOG - 50/55 Food Sound System - Vaffancool Brodo di frutta - Affreschi&Rinfreschi Stanza 105 - I Quaderni del senno di poi

EVENTI - 56/62 Dimartino - Negrita - Daniele Silvestri Il Club dell’Ascolto - Lezioni di Rock Tre allegri ragazzi morti - Francesco De Gregori - Rapporto Annuale Amnesty International - Eugenio Finardi - BluBird Bukowski - Nada&Mesolella Balducci&Maurogiovanni Hanno collaborato a questo numero Red Vibes, Eleonora L. Moscara, la redazione di BlogFoolk (Salvatore Esposito, Guido De Rosa, Ciro de Rosa, Daniele Cestellini), Giulia Maria Falzea, Lucio Lussi, Federica Nastasia, Francesca Santoro, Jenne Marasco, Giuseppe Amedeo Arnesano, Lorenzo Madaro, Donpasta, Daniele De Luca, Adelmo Monachese, Mauro Marino, Mino Pica, Francesco Cuna In copertina Daniele Silvestri (Foto Daniele Coricciati) Progetto grafica e impaginazione Mr. Scipione Stampa Colazzo Srl - Corigliano d’Otranto (Le) www.colazzo.it Chiuso in redazione nel giorno che tornerà tra quattro anni...


EDITORIALE

Foto Giacomo Rosato

RIPORTANDO TUTTO IN PUGLIA «Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina» «Perché non lo interna?» «E poi a me le uova chi me le fa?». L’ironia e la sagacia di Woody Allen sono perfette per sintetizzare e fotografare questo momento. L’ultima volta che abbiamo mandato in stampa Coolclub.it era l’estate di quasi cinque anni fa. L’editoria era in crisi, gli inserzionisti erano sempre meno, l’idea di produrre un giornale cartaceo sembrava ormai una follìa. La situazione non è migliorata, anzi. Eppure, nel mezzo della peggiore crisi dell’editoria locale, italiana e internazionale, abbiamo deciso di riprendere le pubblicazioni.

A cosa serve la carta se tutti si informano sul web, sui social, guardando video, se vengono invitati agli eventi tramite facebook, sms - nel frattempo diventati WhatsApp gratuiti - mailing list o app varie? E soprattutto a cosa serve un giornale culturale quando tutto è agevolmente a portata di clic? A nulla. Questa sarebbe la risposta “normale”. Eppure la carta, che è data per spacciata da molti anni, resiste ancora. Con enormi difficoltà. Resiste. Anche la nostra Cooperativa resiste imperterrita da oltre dieci anni. Anzi prova a crescere. Chi ci conosce sa che ideiamo, organizziamo e comunichiamo eventi culturali e musicali nel Salento e in Puglia.


Sin dalle origini, però, la passione per la scrittura ci ha spinto verso l’editoria e a fondare anche un giornale. Un mensile dedicato alla musica, ai libri e alla cultura in generale. Dal 2003 al 2011 è andato in stampa quasi ogni mese. Prima come semplice fanzine e poi, pian piano, come testata vera e propria con varie formule e dimensioni. Dal 2011 al 2015 il nostro lavoro si è trasferito sul web senza grande convinzione e, a dire il vero, con scarsi risultati. A dicembre abbiamo lanciato una nuova versione pdf che, nel giro di pochi mesi e grazie al sostegno e all’incoraggiamento di molti, si è subito trasformata nelle pagine che adesso sfogliate. Questa lunga premessa per spiegare a vecchi e nuovi lettori che, per noi, i fogli che avete tra le mani sono davvero molto preziosi. Leggere presuppone attenzione e concentrazione. Per questo chiediamo di prendervi tutto il tempo che serve per assaporare pian piano gli articoli che compongono Coolclub.it. Ogni mese cercatelo, leggetelo, prestatelo, conservatelo. Perché, come sospirano in molti scrollando le spalle, la carta è sempre la carta. “Riportando tutto in Puglia”, prendendo in prestito e modificando il titolo di un romanzo del Premio Strega Nicola Lagioia, è la sintesi perfetta di quello che faremo. La nostra idea è quella di costruire un giornale tutto dedicato alla cultura che si muove dalla e nella nostra regione, con qualche piccola “divagazione”. Negli ultimi dieci anni da queste parti, cultura e turismo hanno vissuto un ottimo momento. Grazie ad alcune scelte pubbliche e all’impegno delle associazioni e delle imprese del “distretto creativo”, realtà come le nostre (e sono davvero tante) non sarebbero cresciute. La nostra prima copertina è dedicata al cantautore romano Daniele Silvestri. Proprio perché qui ha registrato parte del suo nuo-

vo disco “Acrobati” (tra lo studio di Roy Paci e la Masseria Ospitale), ha girato il videoclip del singolo “Quali Alibi” (ringraziamo Daniele Coricciati per la sua foto scattata sul set diretto da Fernando Luceri e prodotto dagli amici della Passo Uno) e tornerà con il nuovo tour teatrale (appuntamento il 23 marzo al Teatro Politeama Greco di Lecce). Dentro queste 64 pagine troverete musica, libri, cinema, teatro, arte, alcuni “blog”, uno spazio dedicato alle illustrazioni dell’artista Francesco Cuna e tanti eventi. Rispetto alle precedenti edizioni abbiamo modificato l’apertura. Non un argomento monotematico ma una lunga intervista partendo da uno spunto, una riflessione. Il primo ospite è Franco Ungaro, operatore culturale, per circa 30 anni direttore organizzativo dei Cantieri Teatrali Koreja, che pochi mesi fa ha pubblicato “Io vado a Lecce” (Kurumuny), un complesso affresco del capoluogo salentino tratteggiato grazie a testi letterari dal ‘900 ad oggi. Inoltre sul nostro sito (completamente rinnovato grazie alla collaborazione con il giovanissimo Antonio Scarnera) ogni giorno troverete altri contenuti, interviste, novità discografiche e videoclip. La distribuzione sarà gratuita ma, oltre ai pochi sponsor che ci aiuteranno, lanceremo una campagna di “crowdfunding” per sostenere questa esperienza. Come ricompensa avrete i nostri ringraziamenti, le nostre parole, qualche concerto, magliette, tazze e tanta simpatia. Carta, sito, video, social e prossimamente una “radio live”. Coolclub.it, dopo cinque anni, sceglie di ripartire e provarci nuovamente. Noi continueremo a fare le uova. Sperando ci sia sempre qualcuno pronto a raccoglierle e gustarle. Buona lettura


INTERVISTA

VADO A LECCE Nel suo ultimo libro l’operatore culturale Franco Ungaro torna a parlare del capoluogo salentino a cura di OSVALDO PILIEGO foto di Gabriele Spedicato Identificarsi, trovare un luogo a cui sentiamo di appartenere, un paesaggio familiare dove riconoscersi è forse oggi più di ieri la direzione per non perdere definitivamente la propria cultura. Riscoprirsi abitanti, e non solo, proclamarsi cittadini del mondo è necessario per costruire la memoria e la storia di un luogo, per sentirsi parte di una comunità di cui essere membro attivo. Raccontare i luoghi è da sempre compito della letteratura, di quella scrittura urbana, spesso in conflitto con la città, indagatrice non solo del bello. Un rapporto passionale, una relazione amorosa, a volte fatta anche di tradimenti. Qualche anno fa Franco Ungaro (operatore culturale, ex direttore organizzativo dei Cantieri Teatrali Koreja, fondatore del progetto AMA e da poche settimane direttore artistico del Teatro San Domenico di Crema) approcciò questo argomento con “Lecce Sbarocca” (Besa) una narrazione autobiografica declinata fra ricordi e suggestioni in una prospettiva nuova. Un libro che ha generato un dibattito che ha aiutato ad animare e ravvivare il pensiero sulla città. Da qualche mese è uscito “Vado a Lecce” (Kurumuny) che raccoglie una selezione di testi letterari che parlano della capitale del barocco dal Novecento ai nostri giorni. Ne abbiamo approfittato per divagare sul tema con il suo ideatore e curatore.


“Non solo non c’è identità culturale senza conflitto ma non c’è vita senza conflitto. Il conflitto è il motore della storia”


“Vivere nel perenne risentimento non aiuta, ci svuota delle energie giuste e ci condanna all’attesa di un futuro che non arriva mai o alla nostalgia di tempi ormai passati�


Da anni ormai lavori sul concetto di identità del territorio attraverso la cultura. Credi che la scrittura di un popolo sia l’identità da cui partire? Se esiste una identità culturale del Salento essa sta nella sua negazione, nel non averne una sempre identica a se stessa, nel non essere autosufficiente a se stessa, nel non essere (stata) sempre la stessa. Cerco invece di capire la diversità culturale del territorio, le diversità culturali del Salento, e quindi una identità che si costruisce attraverso ciò che è differente e diverso, che non si costruisce per affinità, per ciò che è familiare, domestico, omologo. Dal mosaico di Otranto al barocco leccese, da Bodini a Pagano a Rina Durante, da De Martino a Nando Popu, dai nostri ulivi alla nostra cucina, la narrazione che emerge è quella non di una identità culturale ma di trame identitarie, di un ricamo di fili, storie e memorie che si intrecciano, impastate come sono di molteplicità e complessità, antropologica e culturale. Qui, Mediterraneo ed Europa, indigeno e straniero, mare e terra si incontrano e si fondono. Mi piace il Salento di Carmelo Bene, metà fuori (metafora) e metà dentro la storia (metastoria), differente persino a se stesso, un Salento che si contraddice nel suo straniamento e incanto, nel suo essere periferia estrema e cuore del Mediterraneo. C’è il nero dei costumi contadini e ci sono i fregi orientali di Santa Cesarea. Chi vuole raccontare il Salento oggi non può non fare i conti con una realtà complessa, in divenire; deve essere capace di seguire e interpretare il percorso non rettilineo delle nostre radici che non sono solo immerse sotto terra o in fondo alla Storia, in fondo al passato ma sono radici che si muovono, si dilatano, a volte emergono e si intrecciano ad altre radici e culture.

ci ha fatto vedere un suo video in cui un bambino giocava da solo girando continuamente e vorticosamente attorno al tappeto situato al centro della sua stanza, il suo movimento era ripetuto e ripetitivo, senza mai fermarsi e senza una musica che lo accompagnasse, una vera e propria danza sufi che sfociava nella transe. Era quello il suo mondo, il suo modo quotidiano di giocare nella stanza di un appartamento qualunque in una qualunque periferia di città europea. Quella danza era emblematica del rapporto che noi abbiamo con i codici genetici e culturali che ereditiamo dai nostri genitori e i nuovi codici del tempo e dello spazio che viviamo. Non possiamo non essere contemporanei, non possiamo sottrarci al destino della contemporaneità, alle sue sfide e alle sue contraddizioni, non possiamo sottrarci alla possibilità che ci è data di cambiare, magari in meglio, le condizioni di vita, l’ambiente e il corso della storia. Nel percorso che ho tracciato con il mio ultimo libro “Vado a Lecce” ho voluto mostrare la molteplicità di punti di vista, di racconti, di approcci, di visioni che dagli anni quaranta e cinquanta ad oggi hanno fatto i conti con la storia e la geografia della nostra città. La mia opinione è che le ultime generazioni di scrittori salentini post-bodiniani, da Carmelo Bene in poi, sono costretti a fare i conti con i processi di globalizzazione e la conseguente omologazione culturale che hanno comunque toccato le nostre città. C’è chi non vuole uscire dalle prigioni della globalizzazione, raccontando la città come il migliore dei modi possibili e c’è chi abbandona nostalgie e retoriche e fa della scrittura un gesto necessario e radicale di cambiamento, c’è chi si aggrappa alle rovine di un mondo che sta scomparendo e c’è chi usa il bisturi.

Il tuo è un lavoro sulla memoria e sulla costruzione di una nuova memoria collettiva. Ma anche sulla ricerca del contemporaneo, su quello che un giorno sarà il nostro patrimonio culturale. Come credi si sia evoluto il racconto di questa terra e il racconto dei luoghi in generale? Poche settimane fa a Lione sentivo parlare un artista siriano che lavora sulla relazione fra memoria vivente e memoria trasmessa,

Il conflitto è una parte fondamentale per la creazione di un’identità culturale. Molta della scrittura “delle città” parte dal contrasto tra lo scrittore e i luoghi in cui vive. Spesso è la scintilla. Non parlo di denuncia ma di partecipazione, di cognizione in qualche misura del male, di osservazione non superficiale. Cosa ne pensi? Che lo vogliamo o no, che lo diciamo o no, non solo non c’è identità culturale senza

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conflitto ma non c’è vita senza conflitto e il conflitto è il motore della storia. Bene e male, odio e amore, bello e brutto sono aspetti imprescindibili della condizione umana. Ogni persona vive dentro e fuori di sé questi contrasti e queste contraddizioni. Persino le chiese cattoliche e barocche della nostra città sono state costruite per contrastare e dare un colpo definitivo al protestantesimo. Solo il marketing territoriale racconta la città perfetta, dove tutto è bello e buono, accogliente e suggestivo, fantastico e armonico. Che narrazione sarebbe stata quella dei Sud Sound System o di Aban se non avessero lanciato gli sguardi sulla mafia, sulla droga, sul degrado morale delle nostre periferie? Che santo sarebbe San Giuseppe da Copertino senza la sua beata idiozia? Che voli avrebbe potuto fare senza le sue tante cadute e ferite? Nel tuo romanzo “La città verticale” non si racconta la bellezza del centro storico che già conosciamo e amiamo ma le ‘Vele’ di Lecce, periferia urbana e periferia dell’anima, il buco nero, i tanti buchi neri di una città che ancora oggi, come diceva Rina Durante, nasconde i propri drammi sotto i veli di una cortesia secentesca. “Lecce Sbarocca” è un lavoro che oscilla tra diario e narrazione, “Vado a Lecce” è invece un lavoro di raccolta di autori che di Lecce hanno scritto e scrivono. Da dove parte e dove si dirige questo tuo lavoro di ricerca sul territorio? Fatta eccezione per “Mine vaganti” di Ozpetek la cui narrazione oleografica e da cartolina ha amplificato e perpetuato luoghi comuni, stereotipi e convenzioni della leccesità e fatta eccezione per Raffaele Gorgoni che ha stimolato con “L’oratorio della peste” una riflessione sull’identità barocca della città, Lecce non ha avuto molti artisti che ne abbiano raccontato vizi e virtù con sguardi nuovi e profondi. Bari ha Carofiglio e Lagioia, Napoli ha La Capria e Saviano, Roma ha De Cataldo, giusto per fare qualche esempio. Anche il Salento e la provincia sono stati raccontati più e meglio di Lecce, se pensiamo a “L’ora di tutti” di Maria Corti o

al recente “Lascia stare la gallina” di Daniele Rielli. L’elemento che accomuna i miei due libri è quello di mostrare il conflitto e la doppiezza che pervade la città e che non viene mai fuori, se non nelle pagine di cronaca dei quotidiani locali. Il mio desiderio è quello di liberare la narrazione della città dai luoghi comuni, di de-ideologizzare le rappresentazioni della città. Sprechiamo fiumi di parole per cantare la bellezza del barocco e della pietra leccese (cosa abbiamo da aggiungere ancora alle splendide pagine di Brandi, Piovene, Praz, Bodini etc?) e indaghiamo ancora poco le reali miserie e virtù, le storie e le ossessioni dei leccesi di oggi. A me piacerebbe che sempre più giovani cominciassero a raccontare questa nostra città. A loro modo e con i mezzi a loro più congeniali. Leggendo il tuo libro si nota la latitanza di una generazione, la mia per la precisione (i nati tra gli anni 70 e gli 80). Molti dei testi scelti appartengono ad autori ormai scomparsi o comunque a vecchi intellettuali del territorio. Credi sia l’ammutinamento di una generazione di pensatori? La mancanza di una produzione letteraria interessante? Oppure il mancato riconoscimento di questa generazione di scrittori? Lecce è una città per vecchi? Scusatemi se vi rimbalzo le domande. Ma di chi è la responsabilità? è responsabilità dei politici, degli editori, di chi? In questi anni nella nostra regione e in città sono stati spesi milioni e milioni di soldi pubblici per i giovani, dobbiamo forse concludere che la tanto osannata creatività giovanile non è stata stimolata e promossa nella maniera giusta? Ci sono concorsi letterari e case editrici in ogni angolo di contrada, dobbiamo forse concludere che si va in cerca del successo facile e immediato? Oggi siamo di fronte a cambiamenti epocali con la crisi delle grandi istituzioni e dei media tradizionali (le università, le riviste letterarie, i partiti, gli assessorati alla cultura tutti in cerca di clienti ossequiosi e ossequianti e con scarsa vocazione e capacità di selezionare competenze e promuovere talenti): lo scrittore, l’artista


non può attendersi più niente da loro. Non smettere mai di coltivare le proprie passioni è il mio consiglio, non scoraggiamoci di fronte alle prime delusioni. Se e dove c’è del talento, prima o poi emerge. Vivere nel perenne risentimento non aiuta, ci svuota delle energie giuste e ci condanna all’attesa di un futuro che non arriva mai o alla nostalgia di tempi ormai passati. In questi anni sembra ci sia il ritorno al concetto di appartenenza. Nella globale esplosione di confini e limiti improvvisamente si sente il bisogno di appartenere a qualcosa (un luogo, una setta, un partito, una squadra). Cosa ne pensi? Anche quando siamo o lavoriamo da soli c’è sempre un filo che ci lega agli altri, alla società, alla comunità. Non siamo davvero mai soli, siamo sempre parte di un luogo, di un contesto, di una comunità, siano essi la famiglia, la scuola, il gruppo musicale o teatrale, il gruppo d’ascolto o il gruppo d’acquisto. L’appartenenza non può essere considerata una tendenza, una moda. Credo sia, piuttosto, una necessità, un bisogno. Sentiamo tutti il bisogno di identificarci in un luogo o in gruppo sociale, avvertiamo tutti la necessità di costruire il nostro profilo in relazione ad altri. Koreja è stata per me il tentativo di costruire una vera comunità d’arte, un luogo di condivisione di idee e pratiche, luogo di formazione a uno spirito cooperativo. Purtroppo rimane un ‘tentativo’ abortito, purtroppo al di là della propaganda autocelebrativa prevalgono oggi disegni personalistici e interessi privati, incoerenze artistiche e progettuali, scarsa percezione di ciò che ci succede attorno, prevale un camaleontismo di principi e di valori che ne garantisce la sopravvivenza ma ne oscura la diversità e l’innovatività culturale e sociale e rende poco incisive le sue azioni. Qui appartenenza diventa apparato. Invece appartenenza dovrebbe far da pendant a partigianeria, una parola nobile che in tempi di conformismo e omologazione rimuoviamo, ma che è il collante delle comunità virtuose.

L’orgoglio salentino, la grande ribalta pugliese di questi ultimi anni. Come vedi questi fenomeni. Questo improvviso “sentimentalismo territoriale”? Dove volete portarmi con queste domande? Siete partiti dall’identità per arrivare all’appartenenza. Ora mi chiedete persino dell’orgoglio salentino? Non vi sembra che stiamo imboccando una parabola pericolosa? Io amo questa terra e questa città, amo le mie radici e la cultura del Salento, ma amo tutto ciò indipendentemente dalla retorica, dalle rappresentazioni folcloristiche, dai luoghi comuni, dai sentimentalismi che ci circondano. A me interessa capire sino a quale profondità arrivano queste nostre radici e a quale altezza arrivano le foglie, provo a non fermarmi alle apparenze, alle superfici, all’evidenza. L’orgoglio non mi aiuta per scendere in profondità o salire in altezza. Quasi sempre le persone orgogliose si sentono arrivate, non avvertono la necessità della ricerca e della scoperta, si sentono autosufficienti, si autocelebrano. Le mie origini da una famiglia povera e modesta sono geneticamente refrattarie a qualsiasi manifestazione di ‘orgoglio a prescindere’, in famiglia avevamo poco o nulla di concreto, di materiale di cui andare orgogliosi, se non la tenacia e lo spirito di sacrificio e di dedizione. Ma vi renderete conto che scivoliamo verso discorsi un po’ vintage e nostalgici. E come vedi il futuro? Il futuro dipende dall’ampiezza degli orizzonti, dagli squarci che siamo in grado di aprire affinchè il nuovo, l’inatteso, l’invisibile appaia e si concretizzi. Lo diceva meglio di me un filosofo e scienziato oggi quasi dimenticato, Karl Popper: «Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte»

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MAMA MARJAS

Un disco “africano” in lingua italiana Mama Marjas è una delle voci femminili più intriganti del reggae italiano. Le dodici tracce del suo ultimo lavoro discografico “Mama” (Love University Records, promosso con il sostegno di Puglia Sounds Record) fanno subito pensare, però, che la Jamaica le vada proprio stretta. Un’esplosione di stili e ritmi allargati a tutti i Caraibi, al Sud America e soprattutto a “Mama” Africa.

sofferenza una bellezza incredibile.

è il completamento di un percorso o un nuovo punto di partenza? In effetti, è più un nuovo inizio. “Mama” è stato un disco in cui mi sono messa alla prova proprio perchè amo il reggae ma sin da piccola, in famiglia, sono stata educata a non ascoltare sempre la stessa musica. Questa curiosità musicale in me è cresciuta negli anni. Anche il prossimo disco ruoterà intorno a tutti quei generi che comunque partono dalla musica africana, dalla musica degli schiavi, dalla musica della sofferenza. L’Africa per me è un punto di riferimento, un modo di vivere, un’attitudine. Noi occidentali non possiamo che imparare dagli africani che sono riusciti a tirare fuori dalla

Questa aspetto è evidentissimo in “Mai”, che musicalmente è un blues maliano. Ma anche in “Più guardo lei”: ero fortemente spinta a scrivere un pezzo in italiano come fosse in spagnolo. è stata una difficoltà grande che, non a caso, mi ha impegnato per diversi anni. Mi sono scrollata di dosso tante paure: pensavo di non ruscire a farlo ma, dall’altra parte, sapevo di esser pronta. Finora ho fatto dischi con produttori che mi mettevano a disposizione la musica e io dovevo aggiungervi solo le parole e la melodia. è stato Ciro “Prince Vibe” (Michelangelo Buonarrori band) con cui ho tanto collaborato in questi anni, a spronarmi nel cercare la “mia” musica. E in questo disco ho sentito

Dopo tante canzoni in dialetto, le tracce di “Mama” sono tutte cantate in italiano… La sfida è stata quella di fare un disco “africano” in lingua italiana. All’inizio non avrei creduto nemmeno io che sarei riuscita ad esprimere su ritmi e suoni africani quello che sono riuscita ad esprimere in italiano.


proprio l’esigenza di trovare la musica da sola, ovviamente sempre coinvolgendo professionisti straordinari e gente che conosce il mestiere. Infatti, in “Mama” ci sono Antonio “Dema” alla batteria, i fiati della Banda Bassotti, Vodoo Rebel della Numa Crew, Niam dei Dot Vibes. Quando ho fatto il disco con Adrian Sherdwood (“We ladies”) ho avuto l’onore di lavorare con Skip McDonald (Little Axe), anche se l’ho scoperto a fine registrazione... (ride). E lui mi ha detto proprio questa frase che porto scolpita nella testa: “La musica di oggi non funziona perché in passato si metteva insieme prima il team di musicisti, ci si chiudeva nello studio a cercare il groove e poi si partiva con il disco e dal vivo non c’erano sorprese”. Oggi tutti si credono “king”, autosufficienti: creare la sinergia con persone diverse che si impegnano per lo stesso obiettivo non è la stessa cosa che registrare tracce separate e tentare di mettere insieme un disco. E proprio in questi tempi in cui la musica main stream viene così tanto svalutata, noi dell’underground abbiamo la responsabilità di mantenere la musica alla bellezza originaria, a quella passione, quell’originalità, quella purezza che ogni artista si porta dietro. Lo studio ed il palco: due dimensioni diverse della musica. Conoscendoti, ho come l’impressione che non faresti mai la scelta di Mina e che difficilmente rinunceresti alle esibizioni live. Al momento sto combattendo con i mille paletti che in Italia disincentivano i concerti: chi viene dai talent show è privilegiato rispetto a chi viene dalla gavetta. Da un po’ di tempo mi sono stancata dei dj set; il mio sogno è di fare un disco in stile “african reggae” e di portarlo in giro con una big band come Alpha Blondy. Dopo 12 anni di Mama Marjas, il reggae italiano mi va stretto; la gente si è un po’ arruginita, si è impigrita. Io sono la prima a non andare più ad una dancehall perché i pezzi che girano sono sempre gli stessi. Ai tempi di “We ladies” volevo andare in tour con le Sista Woman In Reggae ma i costi erano proibitivi. Se dovessi tornare a fare solo dj set, piuttosto farei la scelta di Mina (ride).

Ovviamete non ci credo: voglio proprio vederla questa Mama Marjas che scende dal palco. Ecco, nonostante la crisi nel settore musicale…. Più che crisi direi pigrizia musicale. Nonostante questa pigrizia, per la musica pugliese è un momento d’oro. Dalla Puglia sono usciti, e continuano ad uscire, tantissimi talenti: nel reggae forse ci siamo un pò impigriti ma certamente da Caparezza ad Erica Mou in Puglia ce n’è veramente per tutti i gusti: dal jazz alla musica elettronica alla musica popolare. Io sono fiera di essere pugliese; ci sono poche Regioni che investono sui talenti musicali. Certo oggi c’è una tale facilità nel produrre musica che chiunque si può cimentare anche con il computer di casa. Ovviamente ciò va a scapito della qualità: quello che importa, tanto, sono le visualizzazioni su youtube. Dal tour con i 99 Posse al nuovo album, alla Carmen dell’Orchestra di Piazza Vittorio, si è chiuso un anno ricchissimo per Mama Marjas. Cosa ti aspetta in questo 2016? Tu cosa ti aspetti? Beh, prima parlavi di un album nuovo... Certo ma non immediatamente. Sento di dover fare le cose con calma, pensando alla qualità senza l’ansia di dovere uscire con un album all’anno. La gente vuole la musica “a blocco di cemento”, come dico io, quella che sente alla radio, tutta uguale. Ma la musica ha mille colori, mille sfaccecttature e io voglio arricchire la mia musica sia nei dischi che sul palco. Già nelle prove della Carmen con l’Orchestra di Piazza Vittorio sono venuti fuori mille spunti per fare cose nuove. Sono sempre Mama Marjas ma sono diventata più esigente, anche verso me stessa. Ovviamente sempre nel segno dell’Africa. a cura di R&D VIBES trasmissione di cultura e musica roots & dub


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TOA MATA BAND

Giuseppe Acito dirige un’orchestra meccatronica composta da otto piccoli musicisti della Lego Giuseppe Acito, tarantino classe 1967, da oltre 25 anni vive e lavora a Bologna. La sua passione per gli strumenti musicali elettronici e la computer music lo ha portato a diventare un esperto di MIDI, sintesi sonora ed elaborazione digitale del suono applicate alle arti interattive. La sua Toa Mata Band - che si è esibita anche al Medimex di Bari - è un’orchestra meccatronica composta da otto piccoli personaggi della serie Lego Bionicle, programmati per suonare drum-synth, percussioni acustiche e smartphones. Ogni “membro” della band è animato attraverso un semplice quanto ingegnoso sistema di motori, pulegge ed elastici, da un MIDI sequencer e controllato da Aurduino Uno. Non si può non chiedere subito. Perché? Qual è stata la scintilla? L’ispirazione principale proviene dalle visioni del futuro della musica che ci hanno regalato i Kraftwerk dalla metà degli anni ‘70 e anche se può sembrare scontato, il tributo che devo a questi artisti è molto alto. Lavoravo da tempo al progetto di un’orchestra

meccanica che avesse un taglio decisamente “electro”. L’idea era di rendere visibile un beat elettronico che solitamente prende vita all’interno di una macchina o un software, attraverso l’utilizzo di vecchi drum synth “suonati” realmente da un sistema meccatronico. Quando ho capito che i Lego Bionicle, opportunamente modificati, potevano diventare i miei musicisti perfetti, ho pensato “eureka”. Vorrei ricordare però che gli studi di meccanica applicata alla musica si perdono nella notte dei tempi fino al 1400 quando Leonardo da Vinci progettò quello che è considerato il primo strumento musicale meccanizzato della storia, il “tamburo meccanico” appunto; o dei progetti del gesuita tedesco Athanasius Kircher che nella metà del XVII secolo realizzò una serie di macchine musicali alimentate a vapore dove comparivano già delle figure antropomorfe chiamate “automa” che mimavano movimenti ritmici. Oltre l’aspetto coreografico e l’impatto visivo, c’è un lavoro di progettazione mol-


to importante. Ce lo racconti? Il cuore del sistema è il microcontroller Arduino Uno che trasforma le sequenze MIDI (il linguaggio informatico degli strumenti musicali) in impulsi elettrici che “attuano” i motori dei robot. Detta così potrebbe sembrare una cosa semplice, ma i problemi nascono nell’allineamento delle macchine tra di loro e rispetto al resto del sistema affinché il tutto abbia un senso musicale. L’orchestra è fatta di leve, ingranaggi ed elastici che nascono per essere dei giocattoli, non macchine di precisione.

da parte dei produttori di creare strumenti musicali “pocket”, mi è stata davvero d’aiuto! Tutto il mondo di app musicali scritte per smartphones fa il resto…

L’aspetto “orchestrale” o comunque da band ti influenza nella scrittura? Nella scomposizione della traccia? Devo dire a proposito di questo, che l’esperienza più bella è stata quella durante la preparazione dell’Episodio3 (“Everythings counts” tributo ai Depeche Mode). Infatti, sebbene fosse una cover, ho utilizzato al top le potenzialità di Toa Mata Band perché ho potuto creare un beat quasi esclusivamente utilizzando percussioni non convenzionali, create cioè con confezioni ed imballi alimentari opportunamente microfonati e processati in tempo reale.

Come si inserisce Toa Mata Band nel contesto elettronico? È una performance? Un concerto? È musica da vedere o anche da ballare? Come reagisce il pubblico? è un live set di elettronica a tutti gli effetti dove una parte delle sequenze è prodotta in studio ed una parte creata dal vivo attraverso la mia interazione, che in futuro sarà sempre più presente. La reazione del pubblico è molto divertente anche dal mio punto di vista, perché appena parte la prima ritmica mi godo le espressioni di stupore senza limite di genere ed età dei presenti, al quale segue l’accensione dei telefonini che illuminano il set fino alla fine. Sicuramente in questo momento prevale la curiosità e lo stupore di fronte ad un’orchestra di giocattoli che suona, ma vorrei che in futuro si apprezzasse anche il lavoro musicale che c’è dietro al fenomeno nerd. (O.P.)

Come scegli gli strumenti che fai suonare ai tuoi robot? Il primo requisito sono ovviamente le dimensioni, scelgo principalmente strumenti “alla loro altezza” ma la recente tendenza

Ci parli di Opificio Sonico? è un luogo fisico, il mio laboratorio dove nascono le idee, ma anche un marchio con cui produco installazioni ed altre interazioni tra gesto, suono e luce (vedi Cubled) con un approccio da artigianato digitale. Ci sono altri progetti in cantiere che presto prenderanno vita.

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ANTONELLA CHIONNA

La cantante tarantina e il chitarrista Andrea Musci propongono un tributo a Billy Strayhorn Dopo l’esordio con Adiafora la venticinquenne cantante e scrittrice tarantina Antonella Chionna torna con Halfway to Dawn (Sing a Song of Strayhorn), prodotto dall’etichetta Dodicilune e distribuito da IRD, affiancata dal chitarrista Andrea Musci. Nel centenario della nascita di Billy Strayhorn (1915-1967), la cantante ha deciso, infatti, di approfondire la figura dell’arrangiatore, compositore e pianista statunitense, noto per la sua trentennale collaborazione con Duke Ellington, per il quale compose e arrangiò molti dei brani che resero famosa la sua orchestra. Dopo un esordio con brani inediti, torni con un omaggio a Billy Strayhorn. Come mai hai scelto di lavorare sui brani del compositore statunitense? Strayhorn è un compositore inesplorato e, per certi versi, poco cantato; in parte la sua fama vive, storicamente parlando, di luce riflessa: Duke Ellington è ingombrante, in tal senso. Tuttavia, il motivo principale per cui ho scelto di cantare Billy Strayhorn è legato al fatto che, d’impatto, la sua musica è molto

vicina al mio modo di vivere, pensare e cantare: assodato ciò, ho cominciato a frequentarlo esclusivamente. Gli ultimi due anni della mia vita sono stati decisivi, sotto il profilo artistico e personale: Billy Strayhorn parla prevalentemente del luogo d’ombra come sublimazione dell’amore impossibile. La scrittura di questo disco è molto particolare. Alle musiche di Strayhorn hai affiancato tuoi testi originali. Come hai scelto i brani da inserire e qual è stata la genesi dei tuoi testi? La scelta del repertorio è stata molto oculata: lentissima. Il mio parametro di scelta non è mai tecnico, né prettamente musicale: è emotivo. Ho fatto quello che faccio di solito quando m’interessa sul serio qualcosa: mi “chiudo” in casa e parte la maratona introspettiva sui percome e perché, esco di casa e cerco un confronto, ritorno a casa e lascio che la musica faccia il resto. Generalmente i miei testi sono collaudati sulla mia voce e sul mio modo di parlare; prima che ciò avvenga, un grande lavoro lo fanno l’impatto con la


composizione e il fatto che nel tempo libero io sia una fanatica delle traduzioni: leggo abitualmente in tre/quattro lingue differenti, prevalentemente poesia (anche prosa, in verità). Il mio è un approccio fonetico, anzitutto: più che linguistico. Non era sicuramente facile proporre brani scritti da un direttore d’orchestra così famoso in una versione per chitarra e voce. Come vi siete approcciati agli arrangiamenti? In un album come questo, non parlerei di arrangiamento in senso canonico. Andrea ed io siamo due improvvisatori ben collaudati con un’idea chiara dei contenuti: di base esiste il concetto d’interazione tra due voci, su livelli diversi ovviamente, che è espanso secondo dei criteri vocalmente fondamentali e che riguardano estremi, dinamica e spazializzazione del suono. Fondamentalmente, il preesistente lavoro di ricostruzione dei pezzi e delle liriche mi ha aiutato a definire la direzione: non secondaria la reciprocità tra due personalità forti, ma molto diverse. Andrea è la parte equilibrata, analitica e poetica: dunque, proponendogli un’idea “tematica” sul canovaccio della composizione provavo a cantare ciò che avrei desiderato ascoltare concettualmente e musicalmente; definiti gli estremi mi sono assicurata che potessero essere infranti, a rischio e pericolo, secondo la sensibilità di entrambi. Esistono poi, pezzi in cui Andrea ha preso completamente il comando (“Something to live for”, “Duke Ellington’s sound of love”, “Beautiful Clown”); mi ha presa e ha detto canta questa cosa, quest’altra e quell’altra. Pezzi, infine in cui prevale la parte squilibrata, illogica ed emotiva (“Lush life”, “Count Blood”, “Johnny Come lately”): ricordo chiaramente lo sguardo che mi rivolse Andrea (seduto in regia) subito dopo avermi sentito incidere “Lush Life” e “Count Blood”, a metà tra il disorientamento e l’accondiscendenza che si riserva ai matti da legare. Come dargli torto… Tra i brani anche il vostro “Beautiful Clown”. Ce ne vuoi parlare? “Beautiful clown” è un pezzo di Andrea che ho cantato, con un testo mio, in concomitanza con una tappa importante sotto il profi-

lo accademico di entrambi. L’ho sentito, mi è piaciuto e ho fatto la brava allieva, l’ho studiato: con una serie di difficoltà legate a come poterlo intonare, senza snaturarlo poiché con uno strumento come il mio è facilissimo cadere fragorosamente. Mi piaceva moltissimo la costruzione melodica e la descrizione emotiva che ne faceva Andrea accostando il pezzo all’immagine triste di un clown che vive ossimoricamente la sua condizione: far ridere, sanguinando dentro. Il caso vuole che nello stesso periodo io fossi impegnata nella scrittura di un saggio critico, mai pubblicato, che s’intitola “Reciproche compresenze tra lo Sprechtgesang del Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg e il concetto di phonè nel Macbeth di Carmelo Bene” e che contiene tutti gli elementi concettuali di “Beautiful Clown”. Macbeth e Pierrot, sono due figure a me care: la prima figura è al centro di una suite, (Filigrana del risveglio: suite per Macbeth) selezionata da Maurizio Cucchi e inserita nell’Almanacco di Poesia Contemporanea pubblicato da Lietocolle nel 2015, che ho scritto quattro anni fa e che verte principalmente sull’isolamento dell’uomo rispetto alla sua reale condizione, la seconda figura, il Pierrot è per me archetipica, tragica e vocalmente significativa: non a caso, Schönberg colloca il clown al di là del cantato e quasi in prossimità della scena. Beautiful Clown non può che parlare di questo, è un lamento contemporaneo che di Shakespeariano perde l’azione del soggetto e il libero arbitrio, che di archetipico mantiene la maschera, che nel canto parlato resta meno preponderante (non c’è un legame melodico tra gli intervalli), a differenza del Pierrot lunaire che è deformato dai raggi lunari. Qual è il tuo prossimo progetto? Concluderò a marzo il mio percorso accademico e sto lavorando a tre progetti: il primo riguarda l’assemblaggio di tutti i miei scritti in lingua inglese e francese, il secondo riguarda l’esplorazione degli standard con un pianista americano col quale sto avendo la piacevole possibilità di confrontarmi, il terzo ha già un focus potente sul mio prossimo disco da solista di cui conosco titolo, organico e contenuto ma che, per ovvie ragioni, non posso svelare.

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GIORGIO TUMA

“This life denied me your love” è il nuovo album del cantautore. Un approfondimento e una immersione nella sua galassia musicale Giorgio Tuma è un artista d’altri tempi, di quelli lontani, per scelta, dai riflettori, periferici rispetto al glamour e alle mode del momento. Un innamorato cronico della bellezza, un ricercatore appassionato, un visionario. I suoi dischi sono da sempre oggetto di culto per gli amanti del pop orchestrale, delle colonne sonore, dei grandi compositori. Esce in questi giorni il suo ultimo album: si intitola “This life denied me your love” (Elefant Records, promosso con il sostegno di Puglia Sounds), ha lo stile che lo ha reso, per tanti, un autore di culto ed è allo stesso tempo un approfondimento, una immersione nella sua galassia musicale. La cosa che trovo da sempre interessante nella tua musica è la tua figura quasi romantica, di compositore puro, liquido all’interno dei brani, sei dappertutto, non scegli uno strumento, non canti sempre, quasi mai da solo. Ci spieghi il tuo approccio alla scrittura? Sono molto insicuro e quindi cerco di stare sempre un po’ in disparte anche nelle mie canzoni. Però alla fine, per fortuna, è come se riuscissi ad esprimere compiutamente le idee di partenza, anche stando un po’ ai margini della canzone. L’impalcatura musicale dei tuoi album è imponente, densa, tutto è nel posto giusto, anche la più piccola ballata nasconde trame affascinanti. Merito di una visione complessiva e complessa della musica, coerente all’interno di ogni disco. È vero, è sempre un rompicapo registrare dischi così grossi, complessi, con tanti arran-

giamenti, strumenti e musicisti. E forse è anche un po’ fuori da questo momento storico (in Italia, ovvio) ma la musica non è un calcolo e quindi l’unica cosa da fare è cercare di farla fluire nel migliore dei modi possibili. E comunque potessi scegliere vorrei essere Pharrell o Sufjan Stevens. Questo disco come gli altri, è un lavoro che coinvolge tantissimi amici, da tutto il mondo. La tua musica viaggia tantissimo. Come riesci imbastire queste trame? Come nascono i tuoi incontri? È un lavoro a distanza o esiste un luogo in cui tutto converge? Servono moltissimo tempo e tanta pazienza. Le canzoni sono state registrate per il 60% al Sudestudio di Guagnano con Stefano Manca e il restante 40% finalizzato attraverso lo scambio di file da ogni parte del mondo (o quasi): Inghilterra, Norvegia, America, Canada. Ma ti assicuro che la gioia che si prova quando ti arrivano le canzoni completate e le ascolti per la prima volta è unica, ti ripaga di tutto lo sbattimento. Aggiungo che senza Michael Andrews, Laetitia Sadier, Matilde Davoli e Matias Tellez sarebbe stato un altro disco, meno bello sicuro. Questo disco, più di altri è fatto meno di “corde” e più di “tasti”. Ha un suono nuovo, una nuova suggestione di partenza. Ce la racconti? Sicuramente è merito di Matilde Davoli, che ha prodotto e mixato metà delle canzoni svecchiandole non poco. Senza Matilde questo disco sarebbe stato molto più classico e meno attuale.


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Foto Charlie Davoli

È affascinante la non riproducibilità live dei tuoi dischi. Mi fa pensare agli ultimi Beatles, a Brian Wilson. È una scelta a priori o un “incidente” di percorso? Incidente di percorso... ahah. Vero quello che affermi, è praticamente impossibile riprodurlo live ma vorrei tanto portarlo dal vivo. L’unico modo per farlo è di cogliere l’essenza delle canzoni, la pura melodia. L’amore è un tema che caratterizza molto le tue produzione, questo sembra uno dei tuoi lavori più intimisti (a partire dal

titolo). Cosa racconta “This life denied me your love”? È un disco molto più inquieto di “In the morning we’ll meet”, forse anche irrisolto ma va bene così. “Tldmyl” è venire a patti con la fragilità del proprio animo, è il sentimento di sconfitta che affiora dal basso ventre e non ti fa respirare, è qualcosa che molti di noi hanno pensato nella loro vita almeno una volta e, non ultimo, è un sentito omaggio al padre dei cuori sensibili e infelici, Giacomo Leopardi. (O.P.)


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IVAN IUSCO

Il compositore barese e le sue musiche di confine

“Transients” è il secondo album di Ivan Iusco, poliedrico compositore barese, esploratore delle musiche di confine con la sua etichetta discografica Minus Habens. Una colonna sonora possibile, incontro tra visioni sinfoniche e tessiture elettroniche. Un disco – promosso con il sostegno di Puglia Sounds Record – che è estraneo alle precise classificazioni o alla datazione. Un’opera complessa ed emozionante. «Mi piace pensare al tempo come ad un insieme di dimensioni non distanti fra loro e continuamente sondabili. Presenti differenti senza un passato e un futuro. La mia musica incorpora questo concetto che trovo estremamente familiare, naturale. Nel titolo “Transients” ho cercato di sintetizzare un susseguirsi di eventi che trapassano il tempo stesso», sottolinea Iusco. «Quando la musica genera o risveglia immagini, costruisce mondi piccoli o grandi, suggerisce colori, odori, attiva energie concrete in chi l’ascolta, ecco allora che davvero svolge la sua missione, direi magica nel senso più misterioso del termine. Ascoltare infatti ha una connotazione tutt’altro che passiva. Attraverso e grazie all’ascolto, l’uomo si evolve», prosegue il musicista. «La lavorazione di “Transients” è durata poco più di un anno, con un rush molto intenso fra aprile e agosto del 2015, periodo in cui

ho seguito anche le registrazioni delle parti orchestrali. Il modus operandi è da sempre ibrido. È proprio dall’interazione delle mie partiture con le sconfinate possibilità offerte dal mondo analogico e digitale che prendono forma tutti i miei brani. Ho immaginato un clash dimensionale di elementi che cercano un nuovo ordine. Probabilmente si tratta di una mia rielaborazione incosciente del tempo in cui viviamo. La ricerca di nuovi equilibri nella nostra epoca è ben più che tangibile. “Unconquered”, ultimo brano dell’album, è un inno all’armonia possibile». Come sempre i dischi di Iusco accolgono numerosi ospiti. «In “Trasnsients” oltre alla presenza di Leo Gadaleta, straordinario violinista e membro stabile dell’Utopia Symphony Orchestra, c’è Tying Tiffany». Il disco è vibrante, cresce fino quasi a esplodere, esplora tensioni emotive molto forti. «Quando compongo non sono alla ricerca di un mood. Cerco di fotografare processi e stati mentali. Ecco il motivo per cui i miei lavori sono sempre diversi fra loro. Il carattere emozionale derivante è strettamente legato e connesso a quelle “immagini”. Quando la musica viene colta come materia viva pronta ad esplodere, la cosa si fa molto eccitante». (O.P.)


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SOFIA BRUNETTA Former Piccola Bottega Popolare

I RESPIRO A forma di ali Autoproduzione

LUPRANO Sognavo Sempre Libellula/Audioglobe

Si chiama “Former” il disco con il quale Sofia Brunetta dichiara il suo amore per quelle melodie che fino ad ora ci aveva tenuto nascoste, tutta colpa di Giovanni “Sonda” Ottini che ha prodotto ma anche arrangiato il disco portando con sé delle inflessioni molto black e funk. Il loro non è un incontro che viaggia solo su sperimentazioni musicali. è qualcosa di più. Insieme hanno prodotto un disco che va come un treno, che viaggia da un binario all’altro senza farti mai sentire un brusco “atterraggio”, ma solo quel salto nello stomaco che sa di rischio finito alla grande. Dopo l’esperienza con Lola and the Lovers e un periodo in Canada, Sofia decide di cimentarsi in un album da solista e sfruttare al massimo la sua voce e il suo background musicale. Sonda è un eclettico selezionatore di musica che spazia dall’elettronica al funk, al soul e alla disco. Giovanni e Sofia studiano insieme melodie, brani tenuti in soffitta, demo scartate e così nasce “Former”. Un disco che vale la pena ascoltare. Eleonora L. Moscara

I Respiro sono un interessante progetto musicale composto da due artisti completi. Lara Ingrosso (voce) e Francesco Del Prete (violino, loop machine e pedaliera multieffetto) lavorano insieme dal 2012. «I brani che compongono “A forma di ali” sono nostri compagni sin dai primi passi del progetto. Sono le canzoni che hanno popolato i nostri concerti, che hanno decretato la nostra vittoria fino ad ora in dieci festival nazionali», sottolinea Del Prete. Sia nella formazione a due che in quella più recente – nella quale si aggiungono le percussioni di Claudio Del Prete – I Respiro riescono a portare sul palco un live unico, sempre nuovo. «Sia io che Lara utilizziamo loop-machine e pedaliere multieffetto, le quali ci aiutano a costruire il nostro repertorio solo con voce e violino. Le percussioni ci aiutano a sviluppare nuove contingenze creative: incastri ritmici, sonorità inesplorate, una nuova tipologia d’interplay». Chiara Melendugno

Il sottobosco musicale salentino vive di luoghi che sono incubatori musicali che generano scene musicali, piccole comunità capaci di alimentarsi e crescere grazie allo scambio reciproco, all’amicizia. In uno di questi microclimi nasce e cresce Ivan Luprano. Dopo anni di ascolti e febbrile ricerca e l’esperienza con La Teoria Dei Giochi, esce il suo primo cd “Sognavo sempre”. Un disco “indie pop” se ancora ha un senso parlarne. Un disco - che ospita, tra gli altri, Lucia Manca e Matilde Davoli - musicalmente denso, sognante, vibrante che nei testi esplora invece l’intimo, e si concede come un confessione. «Tema predominante è il non amore, è l’amore non vissuto, è la paura di amare ciò che non si deve amare per convenzione ma è anche quell’amore sognato o che ormai non sogni più. La consapevolezza che tutto ciò comporti qualcosa, dagli atteggiamenti delle persone alle azioni che queste compiono». (O.P.)


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LA ROCHA La rocha Kurumuny

GIANLUCA LONGO Aubergine Autoprodotto

DARIO MUCI Barberia e canti del Salento (Vol. II) Anima Mundi

Il fuoco non si è spento, la passione, l’impegno, la voglia di cantare e quella di gridare arde ancora nel petto di La Rocha, più che una band una comunità, luogo di incontro di musicisti. Percorsi diversi che convergono in un meltin-pot musicale, una mescla di generi (rock, folk, punk) che superano quello che un tempo era definito “combat”. E invece resta il senso politico, l’attivismo musicale, la voglia di fare delle canzoni strumento per scuotere le coscienze, di trasformarle, se possibile in un messaggio, in uno slogan. E queste sono storie che racconta La Rocha, le loro “cause” riguardano gli ultimi, riflettono sui mali della società e li denuncia. Impegno senza rinunciare alla funzione catartica della musica. Il sound di La Rocha è anche un invito al ballo, è ritmo, è melodia, è musica come monito a unirsi, a stare insieme. È infatti il live la dimensione in cui si consuma il rito collettivo, in cui la loro musica si completa. Buona la prima. (O.P.)

Da anni protagonista nell’Orchestra della Notte della Taranta, Gianluca Longo è uno dei principali interpreti pugliesi e italiani della mandola, strumento di orgine cinquecentesca della famiglia dei liuti, discendenti dall’oud arabo. Dopo numerose apparizioni in lavori discografici, la militanza in formazioni con le quali ha suonato nei principali festival in giro per il mondo, alcune colonne sonore per cinema e nel teatro, il musicista di Torchiarolo, in provincia di Brindisi, propone “Aubergine”, un disco solista molto intenso che include dieci inediti di sua composizione eseguiti esclusivamente con mandola e chitarra. «I brani sviluppano molto bene le potenzialità della mandola, sia nella parte ritmica che in quella lirica», sottolinea Ludovico Einaudi nel booklet che accompagna il disco. Brani che (grazie alla curiosità e allo studio di Longo) variano tra una rumba e tango, valzer e musica cortigiana, ambient e minimalismo contemporaneo.

“Barberia e canti del Salento” è un progetto che parte da lontano. Tre anni dopo il primo volume “Rutulì”, il musicista, cantante e ricercatore salentino Dario Muci (discepolo del maestro Luigi Stifani e collaboratore, tra gli altri, di Officina Zoè, Uccio Aloisi, Salentorkestra) torna con dieci tracce che indagano la vecchia tradizione della barberia. Fino alla metà degli anni ’50 molti barbieri erano anche musicisti e il salone si trasformava in un importante luogo di musica. Muci, che da anni lavora al recupero di questo antico stile, propone alcuni brani strumentali, altri pezzi meno popolari e qualche melodia tradizionale affiancato da alcuni antichi cantori e ottimi musicisti. Il cd - prodotto da Anima Mundi e promosso da Puglia Sounds Record - è affiancato da un documentario, diretto da Mattia Soranzo, centrato sulla storia del Maestro Antonio Calsolaro, mandolinista, compositore che ha appreso questa tradizione direttamente dal padre Vincenzo, e arrangiatore del disco.


MASSIMO PINCA

Frères de voyage fotografa la carriera “itinerante” del contrabbassista leccese Dalla fine degli anni ’90, dopo varie militanze in band rock e jazz, Massimo Pinca si è dedicato allo studio del contrabbasso prima a Lecce e poi in Toscana. Da alcuni anni vive e lavora a Ginevra. Nel maggio 2015, grazie ad una cartes blanches dell’Association pour la Musique impRovisée della città svizzera ha realizzato il progetto “Frères de voyage”. Dai due concerti è nato l’omonimo disco prodotto dall’etichetta milanese “Lampyridae – Dasè Sound Lab”, disponibile in ascolto gratuito e in vendita sul sito bandcamp.com. «L’AMR, che è un po’ il luogo di riferimento per il jazz a Ginevra e nella regione, dà ogni anno tre o quattro cartes blanches cioè la possibilità di creare un progetto artistico inedito e di presentarlo in due concerti nella sala dell’associazione. Per questo progetto, il beneficiario ha a disposizione un budget relativamente elevato, che permette di affrontare un lavoro importante di composizione, o di avere un gruppo ampio, o di invitare un solista celebre. Io ho deciso di impiegare questo budget per invitare alcune tra le persone che mi sono più care, guarda caso tutti straordinari musicisti», ci racconta Massimo. Suoi “fratelli di viaggio” sono i pugliesi Antonio Loderini (fisarmonica), Fausto Alimeni (batteria), Vincenzo Presta (sax soprano), il pianista siciliano Antonio Figura, il sassofonista e clarinettista toscano Nicola Orioli, il chitarrista sloveno Bor Zuljan.

Tra gli ospiti anche Vincenzo Deluci, un trombettista che è tornato a suonare dopo un gravissimo incidente. Una storia incredibile di forza di volontà e amore per la musica. «Dopo il suo incidente non ci siamo visti spesso soprattutto perché io per ragioni familiari sono ritornato in Puglia abbastanza raramente, e non avevamo mai suonato insieme dopo la sua “rinascita” musicale alle Grotte di Castellana. Nutro per Vincenzo un’ammirazione senza confini, e desideravo fortemente coinvolgerlo in qualche modo nella mia “carte blanche”, ma ero convinto che non avrebbe potuto affrontare un viaggio così lungo. Avevo pensato quindi di chiedergli di preparare e spedirmi delle basi di musica elettronica da impiegare poi dal vivo nel concerto e averlo con noi “virtualmente”. Poi un giorno ho visto su internet le sue foto in viaggio per un concerto a Venezia, allora gli ho subito telefonato per chiedergli se pensasse fosse fattibile di venire a suonare anche lui a Ginevra. E col suo indistruttibile sorriso, che si percepisce anche attraverso il telefono, mi ha risposto : “Certo, perché, che problema c’è?”». Il live - fotografato nel disco “al naturale” senza alcun intervento di editing all’interno dei brani - presenta un’alternanza di soli strumentali improvvisati dai singoli musicisti e di composizioni di Pinca, più un brano del pianista barese Jacopo Raffaele. (pila)


DISCORING - Dall’Italia e dal mondo Kula shaker K 2.0 Strangefolk Records Il misticismo rock che portò una ventata lisergica nel britpop degli anni 90 è tornato. Sono passati tanti anni, una manciata di album, lunghe attese. Il marchio di fabbrica che ha contraddistinto la band fin dalle origini, resta. L’oriente, l’india, il rock anni 70 sono elementi che permeano la cornice sonora della band. Al suo interno canzoni nuove, più pacate e classiche, mature direbbe qualcuno. Ben tornati.

I CANI Aurora 42 records Mettono da parte il citazionismo facile e le storie di città, abbandonano finalmente l’isteria sonora dei primi episodi e si convertono al bello. Questo disco de I Cani è diverso, è un album fatto di canzoni che non cercano il consenso fuori ma l’assoluzione dentro. Resta la visione neorealista, il linguaggio permutato dalla strada ma liricizzato, simbolizzato. E ci troviamo di fronte a una nuova strada “convincente” della canzone italiana.

Ty Segall Emotional Mugger Drag City Mentre gruppi come Black Keys e soci smussano da tempo gli spigoli per entrare sempre più nelle radio, l’ipertrofico Ty Segall continua, nel suo continuo laboratorio, il suo viaggio psichedelico e lo-fi, un po’ glam, un po’ garage, pop, hard e tutto quello che gli va. Un sound frantumato e tenuto su da un fuzz vintage. A ben ascoltare ci ritroviamo dentro un abecedario dei sixties più sperimentatori, rinnovati da una penna vivace e geniale.


a cura di OSVALDO PILIEGO

Massive Attack Ritual Spirit Emi Non è un disco, è un ep, ma vale la pena segnalarlo come vale la pena parlarne. Perché i Massive Attack hanno costruito letteralmente il suono del nuovo millennio, hanno tradotto il circostante in un genere solo loro. Padri fondatori, pionieri del trip hop mantengono fede al loro mood inconfondibile. Nelle quattro tracce tra i vari featuring c’è un grande ritorno, quello del figliol prodigo Tricky. Cercate su youtube i primi video tratti da questo “Ritual Spirit”.

The Winstons The Winstons AMS Qui si gioca a fare sul serio. All’apparenza sembrava l’ennesimo side-project della scena milanese, da sempre “scambista” e vivace nelle collaborazioni. E invece i The Winstons sono tra le cose più intriganti in circolazione. Il disco di esordio di questo super trio (Roberto Dell’Era, Lino Gitto, Enrico Gabrielli) è un trip nelle strade di Canterbury, un flash che ci proietta al centro di un magma di psichedelia, beat, prog, garage suonato e architettato egregiamente. Un’esperienza musicale da provare.

David Bowie Blackstar Rca Non si può dare alle stampe un giornale senza parlarne. Sarebbe profanare la storia della musica stessa. Il lascito di Bowie non poteva che essere l’ennesimo e riuscito superamento del confine precedentemente marcato. E lo fa con un album denso di messaggi, di tristi presagi, e con un commovente omaggio alle sue origini. Suona in qualche modo jazz questo disco, ma lo fa destrutturando la materia per plasmarne di nuova e brillante, come una stella.


PHIL MANZANERA Dai Roxy Music alla Notte della Taranta Figura centrale del Concertone della Notte della Taranta, il Maestro Concertatore è l’artista che dirige l’orchestra popolare e firma gli arrangiamenti originali, caratterizzando i brani della tradizione musicale salentina con la sua personale cifra stilistica. A partire dalla prima edizione del 1998 diretta da Daniele Sepe, moltissimi sono stati gli artisti nazionali ed internazionali che si sono avvicendati in questo ruolo dall’indimenticato Piero Milesi all’ex batterista dei Police Stewart Copeland, da Ambrogio Sparagna a Mauro Pagani fino ad arrivare alle più recenti edizioni in cui sono stati protagonisti Ludovico Einaudi, Goran Bregovic e Giovanni Sollima. Maestro Concertatore dell’edizione 2015 del Concertone è stato Phil Manzanera, chitarrista e produttore inglese ben noto per i suoi trascorsi con i Roxy Music di Bryan Ferry e più di recente al fianco di David Gil-

mour. Lo abbiamo intervistato in occasione della pubblicazione di “Viva La Taranta”, disco che raccoglie una selezione di dodici brani estratti dal concertone tenutosi a Melpignano lo scorso 22 agosto, ed insieme a lui abbiamo ripercorso la sua esperienza nel Salento, soffermandoci sul suo approccio alla musica tradizionale e sulla scelta degli ospiti internazionali. Puoi raccontarci del tuo primo contatto con la musica tradizionale salentina? Nella mia storia musicale ho sempre apprezzato le sfide per le nuove esperienze musicali, soprattutto se si tratta di lavorare con musicisti di altri paesi, al di fuori dell’Inghilterra e dell’America. Quando mi hanno proposto di andare a Melpignano a vedere l'Orchestra, e a provare a scoprire la pizzica, ero interessato ma onestamente non mi


rendevo conto di quanto lavoro ci sarebbe voluto, e quante sfide avrei dovuto affrontare. Quando sono arrivato alle prove ed ho sentito il beat del “tamburello”, mi è piaciuto subito il groove. Sono cresciuto in America del Sud, e anche allora con i Roxy Music ho sempre amato la musica con un forte aspetto ritmico. Il “tamburello” da solo è stato sufficiente per me, e mi sono sentito subito preso da questo ritmo, poi ho capito di dover fare molto lavoro di ricerca. Non conoscevo niente della pizzica, non ero mai stato in Puglia, così come non sapevo niente del tarantismo. Ho imparato tanto da questo progetto. Non mi è stato subito chiaro quanto difficile sarebbe stato. Dopo aver accettato, l’allora direttore artistico Sergio Torsello, purtroppo scomparso prematuramente lo scorso anno, era molto contento e subito ho chiesto se avevano mai avuto a che fare con un groove sudamericano. Lui mi ha chiesto che cosa potessi portare nel gruppo e gli sono piaciute le idee su cui intendevo lavorare. Mi diede le registrazioni sul campo del 1953 di Alan Lomax, dicendomi che potevo basare il lavoro su quelle. Wow, è stata una delle cose più difficili che abbia mai dovuto fare. Sono stato preoccupato a lungo. Ho iniziato a studiare, a sperimentare da solo a casa al computer, e a pensare come avrei potuto fare. E poi alla fine sono arrivato al punto di dire: “Bene penso di aver capito come procedere”.

solo i cantori che cantano a capella. Quando ho cercato di inserire degli accordi al di sotto, ho provato a pensare qual fosse il tempo o il beat primario del tamburello. E mi sono reso conto che normalmente è un tempo ternario, tra 89 e 98 battiti al minuto. Ogni volta che percuotono il tamburello, anche se è un tempo in 12/8, è quasi come se suonassero una batteria sul tamburello. Una battuta in quattro sulla grancassa, la fanno sul tamburello. Analizzando il ritmo, ho capito che il groove era il legame tra rock, disco, house e tutta la musica cha si ascolta e la battuta sul tamburello. Cercavo indizi e modi per trovare la via. Ho messo giù un beat e ho suonato gli accordi sotto il canto a cappella. Da lì, gradualmente, tutto si è evoluto. Ho fatto ascoltare qualcosa a Sergio Torsello, chiedendogli: “Va bene? È nella direzione giusta?”. Poi ho parlato con Mauro Durante, chiedendogli consigli e anche lui è stato molto d’aiuto. E poi ancora Matteo Saggese, che vive a Salerno, che è diventato il mio complice musicale. In tutte le registrazioni che ho fatto, siano esse con David Gilmour, i Roxy Music o gli 801 c’è sempre un team di persone che ti aiuta. È quello che mi piace. Quando ho fatto ascoltare gli arrangiamenti all’Orchestra anche loro hanno dato suggerimenti. Questo significa unire le persone, è un evento culturale, sono conversazioni musicali tra persone di diverse culture per ragioni positive.

Questo approccio musicale è presente anche nel tuo nuovo album “Out of Blue” ed in particolare in “Tramuntana”. “Tramuntana” è legata all’esperienza sui Pirenei vicino Figueras, in uno studio fuori dal quale si sentiva un forte vento di tramontana. Il lavoro con gli spagnoli, i ricordi, il mio stato d’animo del mio ritorno in albergo dove ascoltavo il vento soffiare e scuotere. Mi piace mischiare le cose, sperimentare (ride).

Com’è stato suonare con i musicisti dell’Orchestra de La Notte della Taranta? Non c’è stato alcun problema. Ho suonato con musicisti di tutto il mondo, musicisti sudafricani dall’Argentina, dal Brasile, dal Messico, da Cuba: suono sempre allo stesso modo. Perfino con Gilmour o i Roxy Music suono allo stesso modo, ma ciò che cambia è il contesto. Fortunatamente, ho trovato il modo di inserire la mia chitarra con i musicisti con cui suono. È una questione di ascoltare ciò che suonano loro, e trovare lo spazio. Se il groove è buono, è come per il jazz: ascolti le altre persone, provando a conversare con gli altri musicisti per creare qualcosa insieme, qualcosa di speciale.

Quali sono state le difficoltà che hai incontrato lavorando agli arrangiamenti? Guarda, mi sono reso conto di due cose: molte registrazioni sul campo non hanno accompagnamento musicale ma presentano

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Vedendo dal vivo il Concertone, la prima sensazione avuta, è stata quella di essere di fronte a strutture musicali che valorizzavano molto le voci. Come si è indirizzato il lavoro in questo senso? Enza Pagliara si è presa l’incarico di occuparsi dei cantanti. Sapeva quali voci erano adatte a un particolare canto e non ho dovuto scegliere. Non avrei potuto farcela senza il suo aiuto. Passando agli ospiti, con quale criterio li hai scelti? All’inizio ho pensato ai molti italiani che sono emigrati nell’America del Sud nell’Ottocento e Novecento e che hanno influenzato la musica argentina e di altri Paesi latinomaericani. Volevo riportare qualche influenza sudamericana. Ho provato con diverse persone, che erano disponibili e con cui avevano lavorato, come Andrea Echeverri, che è colombiana, è moderna, rock, matta, amabile e talentuosa: è considerata da alcuni la Annie Lennox del Sud America e un modello per le donne. Volevo una cantante sudamericana che non fosse prevedi-


bile, e lei ha portato la percussionista Catalina Ávila. Poi ci sono Paul Simonon e Tony Allen. Volevo qualcuno dall’Africa e sapevo che Tony Allen aveva lavorato con Damon Albarn in The Good, the Bad & the Queen, dove suonava anche Paul Simonon. Poi tutti hanno amato i Clash, sarebbe stato interessante collocarlo in un contesto differente. Inoltre, ho pensato ai tanti popoli che nei secoli hanno invaso quella parte d’Italia, e tra di loro ci sono stati gli spagnoli. Volevo qualcuno che rappresentasse l’influenza della musica spagnola. La grande cosa di Raúl Rodríguez è che suona uno strumento cubano, ma è davvero unico per come lo fa in stile flamenco. Loro hanno fornito tutti gli ingredienti per la zuppa. Poi ho aggiunto al mix la violinista Anna Phoebe, che molti volevano vedere suonare perché è una grande performer. Come hai selezionato i brani per la tracklist? L’intero concerto sarebbe stato troppo lungo: tre ore e mezza, con questo disco volevo dare un assaggio. Ci sono le pizziche che rappresentano le nuove versioni di questa danza, e ho voluto che ci fossero i brani che mostravano l’influenza latina. Non ho voluto che ci fossero i brani degli artisti ospiti, che ci riserviamo per il prossimo album. È un po’ un assaggio da far uscire subito prima di Natale. Verrà poi pubblicato un libro, per chi interessato, con tutto il concerto e con documenti sulla storia del tarantismo e sulla pizzica. Concludendo, sarai ancora tu il Maestro Concertatore il prossimo anno? No! Anche se mi piacerebbe. Ho accettato di far parte del tour mondiale con David Gilmour. Non sono mai stato disponibile per un secondo anno. Inoltre, pensandoci, non so cosa potrei fare di diverso. È tempo per qualcun altro di accettare la sfida. In nove mesi ci ho messo tanto tempo e impegno, non penso potrei tirare fuori qualcosa di più rispetto a quanto ho fatto. Salvatore Esposito Traduzione, revisione ed adattamento Ciro De Rosa (Foto ufficiali “La Notte della Taranta”)

MARCO BARDOSCIA è “TUTTI SOLO” CON IL SUO CONTRABBASSO

“Mi piaceva da morire il brano di Monk, ‘Round Midnight’ e volevo imparare a suonarlo. Così ogni sera, dopo averlo suonato, andavo da Monk e gli chiedevo: ‘Come l’ho fatto stasera?’ E lui, tutto serio: ‘Non bene’. La sera successiva uguale, e quella dopo uguale ancora, per diverse sere mi diceva: ‘Non si suona così’, a volte con un’aria esasperata e maligna”. Basterebbe questo racconto, contenuto nell’autobiografia del grande Miles Davis, per dissuadere ogni musicista dal cimentarsi in quello che paradossalmente è invece uno degli standard assoluti del jazz con oltre 200 interpretazioni (registrate). A questa nutrita schiera si è aggiunto recentemente anche il contrabbassista salentino Marco Bardoscia. Nella sua ultima fatica discografica propone un’insolita versione per contrabbasso solo di questo brano già di per sé armonicamente complicato e scorbutico, ma dalla sensuale linea melodica. Nell’album “Tutti solo” (Off) trovano posto anche dodici brani inediti a sua firma, un’altra cover di prestigio (“Hallelujah, I love her so” di Ray Charles) e un tradizionale della sua terra (“Damme nu ricciu”). Decidere di chiudersi in sala di registrazione in compagnia solamente del proprio strumento non è semplice, specialmente se questo non è il tradizionale e autosufficiente pianoforte o l’emancipata chitarra, ma il bisbetico contrabbasso. Un disco fatto unicamente del “suono nudo del contrabbasso, il mio respiro, il rumore e tutti i suoni dello strumento” - come ama sottolineare Bardoscia -, è una bella sfida, un po’ come quella che animava Miles Davis davanti al capolavoro di Monk. Guido De Rosa


Foto Talos Festival

RACHELE ANDRIOLI ROCCO NIGRO Maldimè Dodicilune LIVIO MINAFRA LOUIS MoHOLO-MOHOLO Born Free Incipit Records Non poteva esserci un titolo migliore di “Born Free” per il disco nato dalla collaborazione tra il giovane e talentuoso pianista pugliese Livio Minafra e il leggendario batterista sudafricano Louis Moholo-Moholo. In esso è racchiuso tutto il senso di questo incontro in musica, nel quale si riflettono le storie di due popoli, quello sudafricano e quello dell’Italia Meridionale, solo in apparenza lontani, ma accomunati dallo stesso desiderio di libertà. Registrato dal vivo tra il 2014 e il 2015 nel corso dei concerti tenuti dal duo tra il Talos Festival, l’Internationales Jazz festival di Munster e il Bielefield Bunker Ulmenwall, il disco raccoglie sei brani che nel loro insieme fotografano in modo vivo ed efficacissimo l’esplosivo dialogo tra i due musicisti. Il risultato è una conversazione musicale sul filo dell’improvvisazione e

sul continuo scambio reciproco di suggestioni, con Minafra che danza tra i tasti bianchi e neri esplorando sorprendenti spaccati melodici densi di lirismo, e il drumming impeccabile del sudafricano a tessere la trama ritmica tra increspature timbriche, cambi di tempo ed incalzanti accelerazioni. Sorprendente è la capacità di questi due strumentisti di spostare continuamente più avanti il confine della ricerca sonora con i rispettivi strumenti di elezione, superando ogni limite generazionale, stilistico e sonoro. A fare da compendio all’album è un prezioso Dvd della dura di 22 minuti per la regia di Giuseppe Magrone e le immagini di Paolo Paparella e Nicolò Giancaspero, nel quale si alternano spezzoni tratti dai concerti del duo e i commenti di Livio Minafra su questa esperienza. Salvatore Esposito

Dopo “Maliè”, il fortunato percorso intrapreso dalla cantante Rachele Andrioli e dal fisarmonicista Rocco Nigro prosegue con “Maldimè”. Tredici brani attraverso i quali ci regalano un sorprendente spaccato della poesia legata al canto popolare dal Gargano alla Sicilia, da Domenico Modugno a Nino Rota ed Ennio Morricone. Realizzato grazie al sostegno di Puglia Sounds Record e registrato presso i Chora Studi Musicali sotto l’attenta guida di Valerio Daniele, con la produzione artistica di Eraldo Martucci e Gabriele Rampino per l’etichetta Dodicilune, il disco vede il duo affiancato da un eccellente gruppo di musicisti salentini. Ciò che colpisce in modo particolare è la versatilità con cui la Andrioli approccia le interpretazioni dei vari brani, spaziando con disinvoltura attraverso tradizioni musicali differenti, segno evidente di una ricerca rigorosa compiuta sul corpus della musica popolare italiana. (S.E.)


MUSICA

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OPA CUPA Baluardo 11/8 Records

CRIAMU Chrià Autoproduzione

Ecovanavoce La luna dei borboni Kurumuny

Sin dalla loro nascita gli Opa Cupa - band salentina guidata dal trombettista Cesare Dell’Anna - propongono la traslazione in musica di un progetto e di una visione che tirano dentro, oltre alla rappresentazione artistica, la politica e le espressioni più coerenti con la vita vissuta. Espressioni popolari e contemporanee, colte, vive che parlano, che significano e che non si innervano solo intorno a un raccontare, cioè a una cronaca posticcia delle idee o degli accadimenti. “Baluardo” quarto album della band - è un segno netto su un volto multiforme che innanzitutto guarda all’area salentina da dentro, e non da sopra, evitando così di contribuire a cristallizzarne i suoni e, in generale, l’immagine ma che soprattutto guarda intorno. In particolare all’area balcanica, con la preminenza dei fiati e dei venti ritmici e melodici del fronte opposto al Salento adriatico e alle voci che si affacciano, da prospettive diverse, sul Mediterraneo. Daniele Cestellini

Nell’arco di quindici anni di attività artistica l’approccio alla tradizione musicale salentina dei Criamu è stato caratterizzato non solo dalla riproposta dei canti e dei ritmi della loro terra, ma anche da composizioni originali, nate da un’accurata ricerca sulle liriche e sulle melodie popolari. “Chrià” amplia il raggio della loro azione, proponendo undici brani inediti, nelle cui trame gli stilemi della tradizione si intrecciano ad esplorazioni sonore nei territori della world music e dell’elettronica, riflettendo la continua e inevitabile trasformazione dell’identità territoriale, senza perdere il contatto con la radice. Tutto ciò è racchiuso anche nel titolo del disco che in greco vuol dire suono, e rimandando direttamente al nome del gruppo, evoca il desiderio di dare un seguito innovando a quanto lasciatoci dagli anziani cantori. La musica dei Criamu conserva, così, la memoria ritmica e pulsante della tradizione salentina che si sostanzia in arrangiamenti dal tratto contemporaneo. (S.E.)

La compagnia musicale Ecovanavoce nasce nel 2004 con l’intento di proporre un originale incontro tra musica antica, tradizione popolare e sonorità contemporanee. “La Luna Dei Borboni” - evoluzione dello spettacolo portato in scena negli ultimi anni - è ispirato dall’omonima raccolta di poesie del 1952 del poeta salentino Vittorio Bodini (Lecce 1914 – Roma 1970), uno dei maggiori traduttori italiani della letteratura spagnola. Si tratta di un disco che raccoglie undici liriche di Bodini, intercalate da citazioni del poeta spagnolo Federico García Lorca, e musicate da Paolo Fontana, Fabio Lorenzi, Lucrezio De Seta e Alessandro Patti. L’ensemble sposta il confine della ricerca musicale più avanti proponendo arrangiamenti eleganti ed evocativi, in cui spicca la voce intensa di Gabriella Aiello. “La Luna Dei Borboni” è un disco prezioso, perché attraverso la musica, rafforza il disincanto e la speranza di cui sono intrisi i versi del poeta. (S.E.)


LIBRI

LUCIANO FUNETTA

“Bisogna credere a tutto perché tutto è vero” Ci sono letture che sono in grado di disturbare, ancora, per fortuna. Scenari della narrativa italiana capaci di esplorare il non detto. In questo filone si inserisce l’opera prima del pugliese Luciano Funetta. “Dalle rovine” (Tunuè) è un romanzo poderoso, che indaga l’ennesimo tramonto dell’Occidente, il degrado e il limite. È il racconto impietoso della ricerca di un segnale vitalistico dove solo la morte alberga e trionfa. Un uomo e il rapporto carnale con i suoi serpenti è l’inizio di una discesa a capofitto negli abissi della pornografia e dell’umanità, un viaggio al termine della vita.

“Dalle rovine” ha qualcosa di fiabesco ma nero, una sorta di realismo magico, dove la magia è piuttosto una maledizione. È una rappresentazione per simboli di ciò che siamo ma traslata in una dimensione neutra, un ovunque pericolosamente verosimile ma volutamente iperbolico… Ogni potere magico è una maledizione, in un certo senso. Lo sapeva benissimo Theodore Sturgeon e questo è il motivo per cui tutti dovremmo rileggerlo. Anche la lingua scritta, a suo modo, è una magia. Per questo non esiste iperbole dove c’è l’urgenza di utilizzare il linguaggio in tutto il suo potenziale. Il


potenziale dell’invenzione letteraria su cui è costruito “Dalle rovine” è il potenziale di Rivera, il santo, il mite, il disumano che ammansisce le bestie e gli uomini. Così come davanti a un fuoco non si può fare a meno di ascoltare con attenzione ciò che ci viene raccontato, così davanti a Rivera ogni complessità viene ridotta alla sua essenza. Al suo cospetto anche grandi uomini dal grande passato ammutoliscono, vengono colti dalla malinconia, aprono gli occhi e scoprono che una notte senza fine li circonda. Il tema della pornografia, del corpo è qualcosa che ha a che fare con il concetto di confine, di limite. In una contemporaneità ipersessualizzata il corpo e il suo utilizzo estremo resta forse l’ultima forma di sperimentazione. Il superamento della normalità, come distinzione dalla specie… Non sono convinto che l’uso estremo del corpo sia l’unica forma di sperimentazione, anche perché qualsiasi forma di sperimentazione attraverso il corpo che possiamo immaginare oggi è già stata messa in pratica trenta, cinquanta o mille anni fa. La sperimentazione massima che riusciamo a concepire ha già avuto luogo nella notte dei tempi. Rivera non usa il suo corpo per sperimentare un allontanamento dalla sua specie. Non ne ha bisogno, perché è già un animale diverso. Per il resto ho cercato di trattare i corpi dei miei personaggi come trionfi della morte. La morte, nel libro, è un’alba che riempie gli occhi; la morte è la Rothko Chapel. In quanto all’idea che il romanzo sia pervaso da una sensazione di attraversamento, come se tutto abbia luogo su una soglia, hai ragione. Ma si tratta di una soglia metafisica. Camus la chiamerebbe “rivolta contro la creazione”. Gli ultimi, la periferia, il vivere nascosti, all’ombra, questo libro indaga i sotterranei, è una sorta di viaggio al termine di qualcosa… Un viaggio dentro molte ossessioni, soprattutto. Non posso dire di essere arrivato a esaurirle. Nell’Uomo che ride Hugo scrive: “Tu sei in un sotterraneo dove si è impigliata

una stella. Quella povera stella è tua”. Cerco di tenere sempre a mente questa frase quando scrivo. Nel caso del mio libro, quello che ho voluto mettere in atto è stato un tentativo di romanzo in cui si procedesse insieme verso l’inizio di tutto e verso la fine. Questo è stato il viaggio e questo resta il viaggio, per nostra fortuna e nonostante la cattività, l’esilio, l’ombra e il nostro essere marginali, almeno finché siamo vivi. Sembra strano dirlo ma trovo nel libro un senso di fede, di devozione. Quale religione, quale credo, se c’è, anima i personaggi? Nessuna religione. Ma il sacro, il sacro ovunque. Impossibile non interrogarsi sui simbolismi, le metafore che si celano tra le righe. A volte si avverte un senso di pudore nel riconoscersi in questi nuovi mostri. È su questo limite che volevi muoverti? Il mio coinvolgimento personale nella nascita della storia di questi individui inseguiti dalle furie è stato totale. Ho avuto la fortuna di poter contare sulla guida di coloro che sono diventati i narratori del libro, quel “noi” su cui in molti continuano a chiedere spiegazioni e su cui ho già detto che non potrò mai essere più chiaro di quanto non lo sia stato nel libro stesso. Che il lettore si senta suo malgrado coinvolto è qualcosa che va oltre le mie aspettative e che mi rende felice, a patto che non si tratti di un coinvolgimento morale, perché non credo sia questo il punto, ma di un coinvolgimento che superi il senso morale e vada a sedersi nella conchiglia della pietà, ovvero della devozione e del timore. Questi pornomani, assassini, incantatori, guardiani di tombe vuote hanno bisogno di non essere guardati dall’alto o dall’esterno. Bisogna sedersi alla loro tavola, partecipare alle loro riunioni, ai loro cenacoli, immaginare i loro crimini e prendervi parte, farsi contagiare dalla malinconia che tiene i loro cuori, restare con loro sulla soglia, esplorare insieme a loro la città di Fortezza. Bisogna credere a tutto perché tutto è vero. (O.P.)


GUIDO CATALANO “Io scrivo molto d’amore perché non so di cosa sto parlando”

Si autodefinisce poeta professionista vivente. Guido Catalano fa un mestiere fuori moda, ma è tremendamente e meritatamente di moda. Parla soprattutto d’amore. Un amore cinico, masochista, romantico e molto fisico. Immagina e scrive dialoghi auspicabili, dice di non avere una fidanzata da quattro anni e un gatto da quindici. Collabora con Smemoranda, Il Fatto Quotidiano, Caterpillar su Radio 2. Ha scritto sei libri di poesie. Gli ultimi due (“Ti amo ma posso spiegarti” e “Piuttosto che morire m’ammazzo”, editi da Miraggi Edizioni) hanno venduto circa 20.000 copie. Poche settimane fa è uscito il suo primo romanzo “D’amore si muore ma io no” (Rizzoli). È uno Jedi, ma, come tutti gli altri Jedi, non può mostrare la sua spada laser. Domenica 6 marzo sarà all’Arci Rubik di Guagnano, in provincia di Lecce.

E chi sono gli esperti dell’amore se non i poeti? Non esistono. Io fingo, anzi no, io scrivo molto d’amore perché non so di cosa sto parlando. Sono alla ricerca della risposta, il modo che io utilizzo è scriverne molto. Al posto di pensarci ne scrivo anche. Questo magari un giorno mi farà scoprire qualcosa.

Cos’è l’amore? È quella domanda che si fanno gli uomini da alcuni secoli e non è ancora arrivato nessuno a dare risposte certe. È un sentimento che cambia negli anni. A vent’anni è una cosa completamente diversa che a quaranta. Non ho ancora capito se viene dal cervello o da altre parti del corpo. Vorrei chiedere a un esperto da che parte scaturisce l’amore.

Ma come fai ad amare così incondizionatamente anche se il mondo fa schifo? Io non amo il mondo. Non lo amo particolarmente. Mi innamoro delle persone e una alla volta. E non solo delle persone, anche di quello che si fa, o di un gatto. Questo può aiutare a sopportare le brutture del mondo circostante. È un’ottima arma di salvezza l’innamoramento.

Perché d’amore si muore ma tu no? Ho sofferto abbastanza per amore, come molti. Sono una cintura nera di sofferenza amorosa. Quando soffri tanto per amore c’è un momento in cui pensi che non ce la farai, non uscirai dal tunnel della sofferenza amorosa. Però poi si esce quasi sempre. E poi lo hanno già detto artisti superiori tipo Mogol. D’amore si muore è anche una canzone di Milva con Ennio Morricone del 1972, quindi roba forte.


L’amore vince sempre sull’infamia e sull’odio? No. Cioè nei film americani quasi sempre sì. Mentre nella realtà purtroppo no. L’odio, la cattiveria e l’infamia vincono. Silvio si sbagliava anche su quello. Una cosa abbastanza interessante e anche spaventosa è che l’amore spesso si trasforma in infamia e odio. È un sentimento talmente potente l’amore che può corrompersi. È come il lato oscuro della forza.

Cosa invidi ai sessantenni e ai ventenni? Io odio l’idea di invecchiare e dei sessantenni non invidio nulla. L’esperienza è una cosa fondamentale, la potrei invidiare a quelli più grandi di me. Ma non è detto che le persone più anziane abbiano avuto l’intelligenza di accumulare esperienza. Ma l’esperienza è una cosa fondamentale. Se penso a me ventenne, ero in balia, non si capiscono le cose. Sarebbe bello che i quarantenni spiegassero ai ventenni, ma spesso i ventenni non accettano nulla di quello che li viene detto. Invidio i ventenni, d’altra parte se io penso a me a vent’anni non mi invidio per niente. A quel me di vent’anni vorrei dare una pacca sulla spalle e dirgli: “Non ti preoccupare, che poi lei cose migliorano”. Qual è la poesia d’amore più bella mai scritta? Non lo so. Ce ne sono un paio di Prévert che sono tra le più belle mai scritte. Ma non saprei, io poi dimentico tutto quello che leggo. Il dialogo auspicabile che vorresti avere? Mi piacerebbe avere un dialogo con Charles Schulz o Stephen King. A lui vorrei dire un sacco di cose.

Tu fai radio, scrivi romanzi, fai reading da tutto esaurito e sei anche una web star.. E poi sono uno Jedi. Questo lo sanno in pochi. Ho la spada laser ma non la posso far vedere in giro. Riesco a conciliare tutte queste cose che faccio perché sono uno Jedi, quindi ho dei super poteri. Mi piace molto variare e provare nuove esperienze. Comunque ho l’ansia. Quindi faccio fatica all’inizio perché mi mette ansia andare in radio, scrivere su un giornale, però mi piace perché così non mi annoio e la noia è una delle mie nemiche. Non mi annoio e sono felice. La noia è quindi la tua paura più grande? La morte lo è. Poi deve essere una cosa noiossisima la morte. La morte è lunghissima. E la noia è una cugina di secondo grado della morte. E quindi la noia ad alti livelli è una cosa abbastanza spaventosa. A quale domanda che non ti hanno fatto vorresti rispondere? Spesso le domande son sempre le stesse, quindi dopo un po’ uno c’ha la risposta automatica e in più il lettore legge sempre la stessa risposta. Ma non ho una domanda ideale alla quale rispondere. Quale epitaffio vorresti fosse scritto sulla tua tomba? Per essere un poeta ero troppo di buon umore. Mi piacerebbe, spero tra molti anni. A meno che io non riesca a diventare immortale, ci sto provando. Giulia Maria Falzea

LIBRI

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FRANCESCA MALERBA La memoria è un atto di giustizia

«Il mio è un romanzo di resistenza contro la rimozione collettiva di ricordi fastidiosi, ritenuti inutili. La memoria è un atto di giustizia». Francesca Malerba sintetizza così il senso di “Salento Rock, andati via senza salutare”, un romanzo di formazione, di denuncia, di riscatto, uscito per la casa editrice Kurumuny. Gli anni ottanta sono un buco nero nella memoria della Puglia e non solo. Età di passaggio, vuoto assoluto, punto di non ritorno per molti, punto di fuga per altri. L’eroina sembrava la soluzione, o per lo meno l’anestetico perfetto per i dolori di una generazione. Tra fiction e cronaca, questo libro è il frutto di un lavoro lungo fatto di suggestioni, ricordi, documentazione. «Tre anni fa, su per giù, mi sono imbattuta per caso in storie che riguardavano il mio paese, Galatina», racconta l’autrice. «Storie per niente allegre in un momento difficile, alla fine degli anni ’80, quando nella meravigliosa periferia che era il Salento, c’era solo il mare, come dicevamo noi allora. Né lavoro, né occasioni, e chi poteva, faceva la valigia, e chi no, si lasciava lusingare dall’eroina. Arrivò anche l’AIDS ben presto, e c’era un reparto Infettivi nuovo di zecca, costruito con i finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno, chiuso. Mai attivato. E gli oltre 200 sieropositivi più i malati di AIDS conclamati curati in un’ala seminterrata dell’ospedale. Io ero adolescente», prosegue, «ho recuperato i miei ricordi un po’ sfocati, fatto ricerche d’archivio, parlato con la gente. È stato soprattutto ascoltare

quelle storie dalla voce viva delle persone, che mi ha convinto, anzi costretto, a scrivere». Fin dal titolo si comprende l’importanza della musica. «Accompagna i personaggi nelle loro azioni, indica loro la strada oppure al contrario, li fa perdere, perché serve anche perdersi, ogni tanto. E se ci si perde nella musica è meglio. Anche il rock è una forma di dipendenza, a volte sostituisce a volte accompagna l’uso di sostanze». Nel libro c’è molta cura nell’uso della lingua, preziosa nell’alleviare anche le vicende più crude e precisa nell’utilizzare il dialetto lì dove serve. «Ho plasmato la lingua sulle mie intenzioni e sulla mia sensibilità. Volevo realismo, ma al tempo stesso desideravo conservare il pudore e il rispetto che ho provato ascoltando i racconti dei testimoni. Volevo avvicinarmi abbastanza per osservare e cercare di comprendere, provarci almeno, ma non troppo da essere invadente. Diversamente mi sarebbe sembrato di profanare tutto quel dolore. Certe storie sono già drammatiche, non occorreva sottolinearlo, anzi forse il contrario, serviva un carezza». Solitamente la letteratura tossica o quella che racconta i tossici non contempla la speranza. Salento Rock invece ha una morale, ha un profondo senso politico. «È un libro che denuncia. Che alza la voce, che ti sbatte in faccia le utopie, gli ideali, i sogni realizzati e quelli mancati. Ti dice che la vita bisogna mangiarla “come una mela, a morsi”, e che abbiamo sempre una seconda possibilità». (O.P.)


LIBRI

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PAOLO LA PERUTA Senza Pace Manni Editori

MAURO BORTONE Ti vedo Lupo Editore

Valentina Perrone Un caffè in ghiaccio con latte di mandorla Edizioni Esperidi

Per Giove, quante sfumature può avere il Salento. Quello di “Senza Pace”, il secondo romanzo di Paolo La Peruta (Manni Editori) è una terra invernale, piovosa e grigia. Piero Sicuro si aggira in una gangster story dove si mischiano eventi drammatici e tanta comicità. E non manca un’immagine del mare fuori dall’ordinario salentino. Il mare di La Peruta incute timore e reclama rispetto ed è ritratto nel momento in cui “non entra nessuno”. Non siamo in estate e non ci sono spiagge assolate. Sicuro si trova davanti una banda di criminali, oltre ai soliti guai sentimentali con Elisa. Il Salento si è fatto noir ma il Caffè Letterario è sempre lì a rappresentare una fucina di facce, storie, musiche e colpi di scena che fanno da sfondo alle avventure di Piero Sicuro. Anzi… il Caffè è il luogo ideale in cui realtà e finzione si incontrano. E i personaggi dei romanzi di La Peruta si siedono ai tavolini ad ascoltare musica e sorseggiare cocktail. Provare per credere. Lucio Lussi

Storie di vite che s’intrecciano, uomini che si raccontano nel bel mezzo dei difficili cambiamenti in divenire, che mal si adeguano alle risposte mancate e ai forti dubbi davanti a cui l’esistenza ci mette dinanzi. Il tutto percorre la storia moderna di un Salento che l’autore, da buon cronista e appassionato della costa, conosce in profondità. Riccardo, Marco, Arturo e Dario sono quattro volti diversi del mondo, quattro modi diversi di affrontare la vita nella sua complessità fatta di errori, ricordi, amicizie, amori e passioni. “Ti vedo” (Lupo Editore) è il primo libro scritto da Mauro Bortone. Otrantino, confessa la sua provenienza grazie alla stesura di questo primo romanzo, l’amore per la sua città si legge nel mare descritto come terapia e collante per le ferite aperte. La costa e i paesaggi a volte duri e a volte immensi fanno da specchio alle vite vissute dai protagonisti, quando andare oltre l’orizzonte sembra l’unica chiave per sopravvivere. Eleonora L. Moscara

“Una donna è se stessa e molte altre insieme”. Valentina Perrone, in poche pagine, ci guida attraverso questo carnevale di donne che amano, creano, attendono di fronte a un caffè. Undici brevi racconti in cui si affacciano vite, speranze e paure di undici donne molto diverse tra loro ma accomunate dall’amore per il Salento e per il piacere intimo che si prova solo di fronte a una tazzina di caffè. I ricordi sono un filo conduttore che corre veloce attraverso le pagine del libro, ma coniugati in modo differente. Il caffè diviene espressione del tempo, di un tempo minimo, rubato alla quotidianità, in cui si costruiscono e capovolgono i destini di queste undici donne. Un destino amaro, come il gusto del caffè, che si tempra attraverso i ricordi e il legame con la propria terra. Consigliato sorseggiando caffè, ovviamente. Federica Nastasia


ANDREA MARTINA C’è chi dice no Lupo Editore

Andrea FERRERI A sud di Maradona Edizioni Bepress «Il calcio per la gente non era semplicemente un momento di svago domenicale ma rappresentava un collante umano, sociale, in un territorio grande quasi quanto una regione, con 98 comuni più frazioni e circa un milione di abitanti». Nonostante il titolo e la copertina, “A Sud di Maradona” di Andrea Ferreri, studioso di subculture e controculture, non è un libro che parla solo di calcio. Le vicissitudini sportive dell’Unione Sportiva Lecce fra gli anni ‘80 e ‘90 sono solo il pretesto per raccontare la rinascita e lo sviluppo di un territorio che, fino a quel momento, era stato relegato a sconosciuta e sperduta periferia ai “confini dell’impero”. L’autore, grazie anche alle testimonianze dei calciatori che hanno fatto la storia dei giallorossi in quel periodo (come gli argentini Beto Barbas e Pedro Pablo Pasculli, Campione del Mondo nel 1986), ci restituisce le emozioni che hanno caratterizzato l’approdo in Serie A della squadra salentina e

le succcessive altalenanti vicende tra continue retrocessioni e promozioni. Ferreri, in uno stile tra il saggio e il romanzo di formazione, racconta episodi, imprese epiche (su tutte la clamorosa vittoria per 3 a 2 a Roma che costò alla squadra guidata dal compassato allenatore svedese Eriksson e dal vulcanico presidente Viola, lo scudetto nella stagione 1985/86), storie di allenatori (dalle stelle alle stalle), di “eroi” capaci di trascinare allo stadio oltre 50mila persone. Ma soprattutto delinea i cambiamenti socio politici che subì il Salento grazie anche al calcio. L’attaccamento alla maglia come attaccamento al territorio, una grande novità che creò i presupposti per quella che lo stesso autore definisce “Rinascita Salentina”. Un libro non solo per tifosi, dunque, che ci racconta come la “terra del rimorso” sia diventata un fenomeno turistico e socioculturale. Cesare Liaci

Francesco è un militante dei Servizi Segreti. Un uomo intelligente, carismatico, all’apparenza cinico: in realtà crede davvero nella giustizia, tanto da rischiare la vita più volte per permetterle di trionfare. “C’è chi dice no” di Andrea Martina, appena uscito per Lupo Editore, è un giallo che attraversa l’Italia e il mondo della criminalità con una scrittura precisa, dettagliata quanto basta, veloce quanto le azioni del protagonista. Martina dà ritmo alla narrazione con una punteggiatura enfatica, ripetizioni, input e sbalzi temporali, che tengono viva l’attenzione del lettore permettendogli di cogliere la verità un attimo prima di leggerla. Riferimenti e citazioni rendono evidente che a scrivere è un ragazzo venticinquenne: elemento di forza di un romanzo che propone un approccio diverso a un mondo spietato che è a due passi da noi. Francesca Santoro


LIBRI

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Daniela Palmieri Parole in prestito I quaderni del bardo

ADELMO MONACHESE I cuochi Tv sono puttane Rogas Edizioni

GABRIELE PALUMBO Ci siamo solo persi di vista Vj Edizioni

Raccontare un dolore personale è difficile, catartico forse, ma complicato. Anche dal punto di vista prettamente narrativo si rischia di fare confessione, operazione per pochi, qualcosa di egoista e comunque autoreferenziale. Non è questo il caso,. “Parole in prestito” di Daniela Palmieri è una dichiarazione d’amore, ai libri prima di tutto e alle parole poi, carezzevoli, preziose, misurate e precise nella manciata di pagine che raccontano questa storia. Un’elegia della famiglia, storia semplice e monumentale di un uomo, un pioniere che ha fatto la storia di una città o almeno quella che ha a che fare con i libri. E così diventa la storia di un luogo, di un modo ostinato e romantico di vivere i luoghi, posti che assumono un valore simbolico, nostalgico e caldo. Un mondo fatto di persone e di quotidianità. Un ricordo che è come un regalo alla comunità di lettori “forti” e resistenti. Osvaldo PIliego

Quasi un anno fa invitai Adelmo Monachese a Lecce per parlare di satira e per presentare “Un anno Lercio”, la raccolta delle esilaranti trovate del collettivo che da qualche anno imperversa sul web. Adelmo è foggiano, ex giocatore di rugby, con la passione per la scrittura. è stato tra i concorrenti della (non troppo fortunata) trasmissione MasterPiece. Dopo l’esperienza con AcidoLattico.org attualmente è tra i quaranta autori di Lercio.it. Da qualche mese è uscito il suo libro d’esordio come “solista” dal titolo che è tutto un programma. “I Cuochi tv sono Puttane” (Rogas Edizioni) è una raccolta di articoli, racconti, monologhi satirici apparsi negli ultimi anni su Libero. Perché, incontrando Adelmo, ho scoperto che il più incazzato dei giornali italiani ha anche una rubrica satirica. Il libro è già diventato uno spettacolo di “stand up comedy” (come la chiamano gli americani) che vi farà ridere. Davvero. Pierpaolo Lala

“Ci siamo solo persi di vista” è l’esordio letterario del venticinquenne grottagliese Gabriele Palumbo. Un romanzo in versi semplice ma intenso. Nessun nome, nessuna descrizione che permetta una raffigurazione mentale: solo un lui che parla di una lei fino a farlo diventare un noi. Anche la dimensione spazio-temporale è indefinita, l’unico riferimento è dato dal passare delle stagioni. Dall’autunno all’estate più un epilogo, per narrare momenti comuni nella vita di ognuno, ma con un linguaggio poetico che passa dal sublime al parlato, dal classico al moderno, in un viaggio che alterna sogno e realtà. Il titolo (citazione di un brano della band italiana “Ministri”) e la narrazione tutta al passato lasciano presagire un finale infelice, ma la storia cattura il lettore tanto da far sperare che le cose vadano diversamente. Un romanzo per tutti che, come l’amore, è bello anche se fa male. Francesca Santoro


CINEMA -TEATRO

IL PAESE DOVE GLI ALBERI VOLANO

Davide Barletti e il “suo” Eugenio Barba Dopo essere stato presentato in anteprima mondiale nel 2015 alla Mostra del cinema di Venezia esce in Italia (distribuito da Wanted) “Il paese dove gli alberi volano. Eugenio Barba e i giorni dell’Odin” di Jacopo Quadri e Davide Barletti. Prodotto da Fluid e realizzato con il sostegno di MiBACT, Apulia Film Commission, Creative Europe/Programma Media in collaborazione con Sky Arte, il film racconta la storia e le vicende dell’Odin Teatret attraverso la figura del suo fondatore. Nel 1964 il salentino Barba fonda a Holstebro, in Danimarca, l’Odin Teatret. Nel 2014 si festeggiano i 50 anni di vita nei giorni della Festuge che, in danese, significa Settimana della Festa, ovvero 7 giorni di celebrazioni e spettacoli con le istituzioni e con squadre di bambini, ragazzi e artisti provenienti da tutto il mondo (Kenia, Bali, Brasile, India, Europa) chiamati a dare energia con acrobazie, musiche e voci a un evento corale dando vita ad un grande melting-pot di culture, lingue e tradizioni che si combinano e lavorano insieme per la realizzazione

del gran spettacolo finale in cui la musica e la danza fanno da collante sociale in quanto linguaggi universali. Nel film emerge l’autenticità di Barba, “seguito” e ripreso nella sua quotidianità di regista e di uomo. È un film che arriva alla coscienza dello spettatore perché incentrato su valori universali di pace, di accoglienza e di convivenza tra popoli, valori uniti nel nome dell’arte intesa come universale umano e ovunque condivisi dalla maggior parte delle persone senza limiti territoriali e temporali. Ne abbiamo parlato con Davide Barletti. Il tuo è un film che racconta la realtà e la vita quotidiana del protagonista senza filtri, senza artifici e senza regole manipolatorie, narrando le vicende allo stato puro e quasi come se fosse in presa diretta o “in one take”. Quanto è durata la lavorazione? Le riprese sono durate ”soltanto” due settimane ma posso dire che per quanto siano state intense, faticose, spaesanti, incredibilmente straordinarie la loro durata si è dila-


tata in un tempo a se. Seguire Eugenio Barba al lavoro è stata un esperienza unica che ci ha permesso di raccontare quello che poi durante il montaggio è diventato il cuore del film ovvero il processo creativo di un artista . Non volevamo fare un film sulla biografia di Barba o sull’Odin Teatret ma ci interessava vedere un grande maestro all’opera nella quotidianità, nel momento della creazione, nel momento in cui un’idea prende forma e nel rigore della sua metodologia. Per questo anche noi siamo stati rigorosi nell’evitare le interviste classiche, nell’eliminare una qualsiasi voce off lasciando che il film prendesse vita da quello che accadeva in quei giorni di festa. Non c’era bisogno di nessun artificio dato che tutto accadeva in diretta e più si andava avanti e più la materia intima del racconto si svelava. Eugenio Barba ha costruito insieme ai suoi attori e tutto l’Odin Teatret un’utopia galleggiante con delle fondamenta solide che ha trasformato una piccola cittadina della provincia danese in un approdo per centinaia di persone, che negli anni l’hanno eletta dimora e luogo di scambio e di creazione. Il lavoro tra la compagnia e il territorio, le scuole, la comunità sono gli altri elementi di questo film, elementi preziosi che hanno una carica narrativa unica. Quanto è stato prezioso l’apporto di un maestro del montaggio come Jacopo Quadri che, ricordiamo è stato il montatore dei film di Mario Martone, altro mostro sacro dei teatri di guerra. Jacopo è uno straordinario montatore, rigoroso e appassionato del suo lavoro ma c’è anche un’altra ragione che ha dato forma e concretezza al nostro film: il suo amore per il teatro. Jacopo è figlio di Franco Quadri uno dei più grandi critici teatrali italiani. Dal momento in cui Franco è venuto a mancare Jacopo ha intrapreso un suo personalissimo viaggio intorno alle figure che in qualche modo suo padre aveva incontrato nella sua vita. Da questo viaggio sono nati il primo film di Jacopo (come regista) su Luca Ronconi e quest’ultimo su Eugenio Barba. È bello che il nostro film nasca da due volontà e visioni diverse: quella mia e quella di Jaco-

po, penso che la ricchezza del lavoro risieda anche in queste due esigenze di racconto diverse. Parlando invece della fotografia curata da te insieme a Nicolò Tettamanti, in tutto il documentario mi sembra che sia usata la luce naturale, anche a rischio delle sottoesposizioni, perché questa scelta stilistica? C’è una ragione molto semplice che spiega perché non abbiamo mai usato luce artificiale: non c’era tempo… quello che accadeva, accadeva in tempi rapidissimi, gli spostamenti di Eugenio, le prove, gli incontri, i momenti di intimità. Non potevamo mica chiedere a Eugenio “Scusi maestro può rifare quello che ha appena fatto?”. Penso che ci avrebbe mandato a quel paese. Inoltre sono contento così, la luce naturale danese è incredibilmente vivida e dona a tutto il film una cornice cromatica per me unica. Nel finale Barba da regista ritorna a lavorare come operaio boscaiolo. È un voler ritornare con i piedi sulla terra dopo aver volato facendo il regista? Credo che qui sia racchiuso tutto il senso del film. Potresti spiegarci meglio? Puoi vedere la sequenza finale in vari modi, può racchiudere tanti significati ed è per questo che l’abbiamo girata e abbiamo deciso di chiudere il film così. Posso solo dirti che è l’unica sequenza che abbiamo messo in scena e che abbiamo girato in inverno (tutto il resto del film è girato nel giugno del 2014). Una cosa ci aveva colpito molto durante le riprese: Eugenio non si fermava mai, aveva sempre un momento per chiunque, generoso, attento e preoccupato che le 500 persone che erano arrivate a Holstebro per celebrare con lui e la sua compagnia il cinquantenario si sentissero a proprio agio. Gli abbiamo chiesto durante una pausa “Ma tu cosa fai nella tua vita privata, quando sei solo?”. Lui ha guardato in aria e come se fosse totalmente normale ha risposto: “Taglio alberi”. Non potevamo lasciare passare una risposta così. Abbiamo voluto costruire il finale su questa frase. Jenne Marasco


SP1RAL

Il film di Orazio Guarino racconta il “mal di vivere” del presente senza possibilità di redenzione

“No redemption”: sono due le parole con cui il regista esordiente Orazio Guarino tende a riassumere “Sp1ral”. Si riferisce all’incapacità di Matteo di sfuggire alle proprie debolezze e al proprio destino. Interpretato da un profondo quanto inquieto Marco Cocci (“Ovosodo”, “L’ultimo bacio”, “Rosso come il cielo”), il film girato tra la Puglia e New York, ha vinto il Premio del Pubblico al Terra di Siena International Film festival 2015. Prodotto e distribuito da Naffintusi giovane casa di produzione indipendente - a marzo arriverà anche in alcune sale pugliesi (Lecce, a Brindisi, Sava, Oria, Barletta). La storia, come ci racconta il regista tarantino nell’intervista, narra le difficoltà esistenziali di Matteo, un ragazzo in perenne conflitto con se stesso, che da New York, dove vive e lavora, viene richiamato in Italia, catapultato nella casa a mare di famiglia dove viene risucchiato in una spirale di ricordi di infanzia e ombre del passato e dove incontra Alice. Il film scritto insieme a Giuseppe D’Oria, presenta nei dialoghi citazioni letterarie di Cechov, Edgar Morin, Stig Dagerman, De Sade, che rimandano all’intricato profilo psicologico del protagonista, pericolosamente dedito a vizi capitali quali solitudine, masochismo, manie di autodistruzione – dipendenze, fatalismo, fragilità consapevole, ossessione di se stessi, immobilismo, amore malato, bisogno di quiete. Guarino ci racconta il “mal di vivere” del presente senza possibilità di redenzione. Come falene “In girum imus nocte et consumimur igni” (andiamo in

giro di notte ed ecco siamo consumati dal fuoco), ovvero siamo così istintivamente attratti dai bagliori della luce e dall’ebbrezza del pericolo, che finiamo per ucciderci consumando così le nostre stesse esistenze. Com’è stato lavorare con un attore all’altezza del ruolo come Marco Cocci? Come vi siete conosciuti? E com’è nata l’idea del film? Lavorare con Marco è stata un’esperienza formativa per me. Lui è un attore con un bel pò di esperieza cinematografica ed è un artista poliedrico. L’incontro è stato più che casuale. Abitiamo entrambi nello stesso quartiere a Roma ed io - assieme a Marco Santoro (produttore del film) e ad altre persone - avevo un negozio proprio di fronte casa sua. Chiaramente già lo conoscevo sia come attore che come musicista. Pian piano ci siamo conosciuti, abbiamo preso confidenza, ci siamo confrontati sui nostri gusti cinematografici e ho iniziato a parlargli di questo progetto che avevo in mente già da un pò di tempo. Ho iniziato ad immaginarlo nelle vesti del personaggio e pian piano le cose hanno cominiciato a prendere la loro forma. Da li in poi le cose sono venute molto spontaneamente. Le riprese sono state realizzate in parte a New York. Descrivici la tua personale esperienza nella Grande Mela. New York è un posto che mi piace moltissimo. Un po’ di tempo fa ho deciso di viverci


per qualche mese e proprio in quel periodo ho iniziato a scrivere le prime idee su “Sp1ral”. è stata un esperienza fantastica. Mi piacciono i suoi rumori, la sua elettricità, le possibilità che può offrirti da un momento all’altro. Ma New York è anche un posto molto duro. Un posto che di certo non ti regala nulla, dove sei costretto a metterti in gioco ogni istante. Guardando il tuo lavoro mi sono venuti in mente Gaspar Noé, “La prima notte di quiete” di Zurlini, la nouvelle vague di Godard, ma anche Philippe Garrel e i suoi Les amants réguliers. Quali sono i tuoi registi di riferimento? Io adoro letteralmente Godard, la mia tesi di laurea è stata proprio su di lui. Adoro quasi tutti i suoi film, come il suo stesso personaggio che è assolutamente inseparabile dal suo lavoro. Mi piace tantissimo anche Noè, il suo primo film “Seul contre tous” è sicuramente un riferimento per me. Conosco poco purtroppo Zurlini, un po’ meglio Garrel, e il film che hai citato è un capolavoro. Un particolare apprezzamento va fatto alla scelta dell’imponente colonna sonora dal taglio elettronico, scritta e prodotta da Rocco Cavalera. Considerando l’importanza assoluta di questo particolare per un film, soprattutto durante la fase di montaggio, quanto ha influito nella resa finale del film la scelta musicale?

Tantissimo. Volevo sin dall’inizio una colonna sonora molto potente. Ascolto molta musica elettronica e conosco Rocco da un po’ di anni e mi sono semrpe piaciute le sue produzioni. Abbiamo gusti musicali in comune. Ad entrambi piacciono i suoni molto scuri ed è stato subito molto semplice capirci su quello che volevo per “Sp1ral”. Sono assolutamente d’accordo con te riguardo al fatto che la muscia ricopra in questo film un ruolo fondamentale. Nei tuoi campi lunghi di mari sempre agitati, pagliare abbandonate, oscure scogliere, litoranee desolate, e negli interni di fredde ville di fortuna e neutre angolazioni di ripresa, ci descrivi una Puglia rarefatta, nuda e cruda, mai da cartolina. è stata una precisa scelta stilistica o, più semplicemente, era inverno e faceva freddo? Queste scelte che tu elenchi sono tutte assolutamente volute. Abbiamo girato le scene in Puglia in pieno inverno (tranne quelle con i bambini) e faceva molto freddo, ma era fondamentale per me avere una scenografia naturale adatta al personaggio. Volevo che Marco recitasse il meno possibile. Quando lo vediamo tremare per il freddo, sta tremando “realmente” per il freddo. Così anche per quanto riguarda alcune scelte stilistiche. Volevo una macchina che si muovesse solo lo stretto necessario per permetterci di osservare Marco nelle sue azioni. Jenne Marasco


FABRIZIO SACCOMANNO

La storia e le storie dalla Shoah a Gramsci

Attore/narratore, regista e pedagogo, Fabrizio Saccomanno è un sarto: con la parola ricuce storie e memoria, crea abiti che non hanno spessore fisico ma solo una voce e un racconto, poi li porta in scena e li fa ballare attraverso le sue mani. Seduto in punta di sedia osserva e riscrive il mondo, riducendolo in narrazione pura, in momenti piccoli, privati, profondamente umani. “Shoah, frammenti di una ballata” ha esordito a gennaio ai Cantieri Teatrali Koreja mentre prosegue la tournée dello spettacolo dedicato a Gramsci.

Come nasce Shoah? Mi è stato commissionato dalla Regione Puglia per le scuole superiori per il Giorno della Memoria. Ho studiato la storia, all’inizio volevo spiegare la Shoah come parte di una temperie culturale e non ridurla a un contrasto tedeschi contro ebrei. Per un mese e mezzo ho solo letto libri sulla Shoah e mi sono ammalato, è stato distruttivo. Poi ho trovato la chiave nell’essere padre di un bambino di sette anni: un bambino può dire le cose più terribili nella maniera più semplice, senza accumulo di retorica. Ho ca-


pito anche che avevo bisogno della musica di Redi. Quello che accomuna questi modi di comunicare è la frammentazione. La realtà non la puoi mai contenere, né nel teatro né nei libri, puoi solo dare un’idea di frammentazione. I bambini non ricordano i nomi dei luoghi, delle persone, hanno solo ricordi confusi, ma questo fa sì che il dramma sia più potente, perché non lo capiscono, non cercano di capire, sono caduti in un limbo e ci restano per tutta la vita. Sono quattro quadri, quattro squarci meglio, perché non esiste la Shoah, esistono milioni di Shoah, infinite storie. Il mio è un atto poetico, non una ricostruzione storica. Perché è ancora importante la Giornata della memoria? Vuol dire ricordarci chi siamo, che in quella barbarie c’erano tutti. È una riflessione sull’animo umano. Serve per ricordare la miseria umana, e la Shoah è l’esempio più grande. E invece in “Gramsci, Antonio detto Nino“ che storia vuoi raccontare? È stata un’esigenza personale: leggevo a mio figlio le favole dei Grimm che Gramsci aveva tradotto dal carcere per i suoi figli, e ho capito che un padre deve trovare la sua pedagogia, che tutti abbiamo bisogno di un padre e la dirittura morale e le parole di Gramsci sono per me una pedagogia meravigliosa per questo millennio. Per lo spettacolo ho letto tutti i quaderni del carcere e ho voluto fare un atto di restituzione delle sue parole e delle sue lettere: è un personaggio storicamente schiacciato sulla figura del fondatore del Partito Comunista, con un’immagine stereotipata, io ho ricercato una dimensione privata. Come usi il tuo corpo in scena? Gramsci era povero, nano, con la gobba e sardo: era incazzato nero, è diventato una bestia. Non faccio nessun rimando all’im-

magine stereotipata di Gramsci, perché da quando lo mettono in galera lo inchiodano in un icona laica di lui a diciassette anni. Io attraverso le sue parole, ma non divento lui. È una chiusura fisica che mi aiuta. Asciugo il più possibile, i miei gesti servono per andare avanti. Se potessi stare immobile sarebbe meglio. Nella scelta dei linguaggi usi spesso il dialetto, perché? È la mia lingua, la scelgo quando ci sono io in prima persona, quando sono Fabrizio, quando devo raccontare storie che parlano di me o delle persone a me care. A cosa serve il teatro? È una necessità personale: io non faccio nulla per essere bravo in scena. Il teatro non mi interessa mai quando è fatto bene, è bello, mi interessa quando è semplice ma ha un senso. Se ha senso per te, arriva anche agli altri, lascia qualcosa. Più vado avanti e meno voglio mostrarmi. È una questione di ricerca, di risoluzione dei problemi, l’ultimo mio problema è recitare. Infatti vorrei fare più regie, stare fuori mi interessa di più. Quale epitaffio vorresti fosse scritto sulla tua tomba? Nessuno. Non ho il culto dei morti, voglio essere cremato. Non porto i fiori ai miei cari. Il vero culto dei morti è in noi: l’unico modo di essere immortali è parlarne. Quando smetterò di parlarne saranno morti davvero, questo è il mio culto laico. Custodire i morti vuol dire ricordarli. Io faccio teatro per i morti, perché loro sono il patrimonio più profondo che abbiamo. Il mio tipo di letteratura è un pensiero per i morti. L’atto stesso del teatro, del parlare di un mondo che non esiste più, è culto dei morti. Credo che non si possa fare letteratura del futuro. Il nostro dramma è che noi abbiamo paura del futuro, in salentino non esiste neppure il tempo futuro. Giulia Maria Falzea

CINEMA-TEATRO

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ARTE

MASSIMO PASCA

Le opere dell’artista approdano in Francia Da sempre in giro per l’Italia tra esposizioni, concerti e live painting, Massimo Pasca, artista poliedrico di lungo corso, dal tratto pittorico pop e irriverente, approda in Francia con la mostra “La lutte contro le signe”. Dal 4 al 31 Marzo esporrà, infatti, nell’ambito della decima edizione del Festival Italiart contemporain et tradititionnel di Dijon, capoluogo della Borgogna. All’interno dello storico mercato cittadino l’artista pugliese, che realizza per l’occasione dieci grandi opere su allumino, si confronterà con il tema

dello scorrere del tempo in luogo dove le relazioni sociali ed economiche sono scandite dalle lancette della modernità. Cosa ci racconti della partecipazione al Festival? La direzione artistica del festival mi ha proposto di esporre nello storico mercato di Dijon, quello tutto in ferro, disegnato da Gustave Eiffel e questo, a livello di prestigio poteva già bastare, ma il vero motivo per il quale ho mosso pennelli e pennarelli


A sinistra “Carmelo, Gilles e la clessidra”. Sopra “Il paradosso del paradosso di Zenone”

è stato quello di poter esporre in un luogo affollato, dove la gente corre, fa affari, urla, si affretta e sceglie. Una grande occasione per parlare del concetto di tempo. Un argomento che mi appassiona da tantissimi anni. Qual è stata la tua riflessione? Nei lavori ho messo tutte le mie conoscenze e ho affrontato tutto con la solita ironia, ho rivisitato l’immagine classica del paradosso di Zenone (dove Achille e la tartaruga non corrono più come prima), ho messo in bocca a Kronos i soldi al posto dei figli, e ho fatto ferire Kairos con la lama su cui tiene in bilico la bilancia, c’è anche un omaggio a Carmelo Bene e Gilles Deleuze. Tutte immagini folgoranti che descrivere a parole è forse riduttivo. La sfida è quella di bloccare per qualche minuto chi passa da questo storico mercato, e fare riflettere sul concetto di tempo, sulla loro fretta, distrarli dall’acquisto di pain d’épices, ed escargots (proprio loro, così lente), sperando di catturarli magari con l’icona dell’uroboro, che rappresenta la natura ciclica delle cose. Non sei nuovo alla sperimentazioni. Dalle pitture su tela all’alluminio, come è andata questa sfida tecnica? Il direttore artistico del festival, Vincenzo Cirillo, mi ha fatto notare che per le Hellas sarebbe servito un materiale che si adattasse alla struttura e chiacchierando siamo giunti alla conclusione che avrei lavorato sull’alluminio, anche per una questione cromatica e di insieme. La mia preoccupazione è sempre

quella di avere un segno nitido, netto, simile a quello che si ottiene con una stampa di alta qualità, lavorare sull’alluminio è stato più difficile, soprattutto perché come sai raramente uso i disegni preparatori e lavoro di getto (per non tradire il mio amore per la scrittura automatica, che oramai ho ribattezzato in segnatura automatica), l’alluminio è un brutto “cliente” ma con una serie di piccoli accorgimenti tecnici ci sono riuscito. Sei sempre in giro per lavoro, in che modo sta cambiando la scena artistica in questo Paese e in particolare in Puglia? Non so dirti ma per far crescere un artista e un territorio servono i talenti (e qui in Puglia ne ho visti tanti), ma anche le strutture adatte e i buoni allenatori, non bastano gli sponsor. Mi capita spesso di vedere cose già viste fatte da artisti e promotori culturali, che non aggiungono nulla all’evolversi del nostro linguaggio, ma sono fatte per piacere e basta, la logica dell’evento, del contenitore senza contenuto; la mia sfida è diversa voglio evolvere piacendo o evolvere per essere criticato. Naturalmente ci sono le eccezioni e sono quelle che hanno una visione di insieme più ampia, non relativa solo all’arte. Tempo al tempo, appunto. A proposito grazie di questo spazio, la prima volta che vidi la rivista cartacea di CoolClub facevo un live painting al MEI di Faenza e incontrai Cesare Liaci che me la regalò, credo fosse il 2009. Bentornati! Giuseppe Amedeo Arnesano


DIARIO CRITICO

a cura di Lorenzo Madaro

Veduta della mostra di Michele Guido e Hidetoshi Nagasawa da Sara Zanin a Roma, ph. Sebastiano Luciano. Courtesy gli artisti e z20, Roma.

MICHELE GUIDO E HIDETOSHI NAGASAWA Un dialogo a due. Due pugliesi, anche se per ragioni diverse: Michele Guido e Hidetoshi Nagasawa. Di Aradeo, in Salento, il primo, giovane artista con già alle spalle un percorso solido di ricerca e di collaborazioni (da anni lavora con Lia Rumma, tra le più autorevoli galleriste italiane, donna intelligente e collezionista sofisticata); giapponese l’altro, maestro indiscusso della scultura contemporanea, ma milanese da quasi mezzo secolo e anche un po’ pugliese, visto che da molti anni è un assiduo ospite di questa terra. Entrambi – sono accomunati da una tacita sintonia – sono stati protagonisti nell’autunno scorso di una doppia persona-

le nella galleria z20 Sara Zanin di Roma. Due artisti diversi, ma con interessi convergenti, seppur dissimili per impostazioni e metodi, verso l’architettura e la natura, si sono incontrati di recente in un unico spazio espositivo, senza sovrapposizioni o antagonismi, ma con un approccio dialettico e insieme complice, da maestro a ideale allievo. D’altronde sono artisti che hanno un dialogo alle spalle, una sintonia nata anni fa durante gli studi di Michele all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sotto la guida della storica dell’arte Jole De Sanna (storica dell’arte originaria di Martina Franca che la Puglia ha dimenticato, a torto) scrisse una tesi pro-


prio su Nagasawa, e poi in seguito in diversi workshop e progetti, anche in Puglia. Ma è la prima volta che si sono incontrati, da soli, su un pacifico ring espositivo, grazie all’intuizione e alla progettualità della gallerista Sara Zanin, la quale ha accolto questo dialogo che sin dal primo ambiente della galleria ha rivelato una positiva tensione tra forma e progettualità, riflessione dilatata sul mondo botanico e sulla leggerezza dei materiali. Il tutto grazie all’ossessiva precisione formale e concettuale delle opere di Guido e alla semplicità studiata e zen delle forme di Nagasawa. Zen sono anche le due carte recenti di Nagasawa appese sulla parete d’ingresso dello spazio di via della Vetrina al civico 21; sulla parete di fronte vsm_05.08. 14_01.07_andricus quercuscalicis project del 2014, sintetizza il pensiero di Guido, la sua riflessiva rielaborazione delle tracce botaniche che diventano tridimensione, scultura a muro, in una complessa dialettica tra natura e geometria, architettura e matematica, mai scontata e che proprio per questo merita ulteriori e più calzanti attenzioni critiche ed espositive. Nel secondo spazio – il percorso espositivo è stato strutturato come un vero e proprio percorso di conoscenza – Guido ha rielaborato attraverso un assemblaggio il giardino di palazzo Spada del Borromini, altro suo punto di riferimento nella storia dell’architettura, indagata con l’attenzione che gli è propria per indole e formazione. Il percorso si è concluso con la grande sala in cui Guido ha concepito un’ideale serra che ingloba l’installazione di Nagasawa e la sua opera. All’interno si è svolto l’ultimo – quello primario e definitivo – atto di questo dialogo a due cuori e quattro mani. La compenetrazione di cubi di Nagasawa e un grande lavoro dedicato da Guido a Villa Farnese di Caprarola, in cui punta l’attenzione – nuovamente – sulle relazioni tra architettura e giardino, da decodificare con attenzione. Due artisti che hanno saputo dialogare, all’insegna di un genius loci diffuso, ma di un luogo etereo e universale, quello in cui l’architettura avvia un dialogo dialettico con la natura, la filosofia si incontra con la razionalità. In attesa, magari, di poterli vedere – insieme – in Puglia, nel loro Salento.

GAGLIANO PORTA BENE “Capo d’arte” è un progetto d’arte contemporanea a cui guardare con attenzione. Nasce oltre sei anni fa a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce, grazie alla lungimiranza di Francesco Petrucci – salentino ma globetrotter con una passione sofisticata per l’arte – e Francesca Bonomo, barese e con un esperienze un po’ in tutto il mondo. Insieme ad altri amici fondano un’associazione, chiamano Ludovico Pratesi a curare un ciclo triennale di mostre in un palazzotto sgarrupato. Il mondo dell’arte si accorge subito di loro, d’altronde coinvolgono artisti di respiro internazionale, spesso in anticipo rispetto alla loro “esplosione”, in un periodo – quello estivo, of course – in cui il Salento pullula di presenze che sanno distinguere. Poi, tre anni fa, un’indimenticabile performance di Luigi Presicce a Palazzo Daniele, per poi nel 2014 – con la curatela affidata a Massimo Torrigiani, pugliese di ampio respiro, con esperienze internazionali e uno sguardo profondo sulla moltitudine dell’arte – avviare un nuovo ciclo, ancora in progress, con Yang Fudong (2014) e Soundwalk collective. Quest’ultima a febbraio 2016 è stata “esportata” nel museo dell’Apartheid a Città del Capo. Una bella storia di competenze e vision che andrà approfondita. D’altronde, come scherzosamente ricorda Petrucci, “Gagliano porta bene”. (Lor. Mad.)


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GLI INSINTESI aLLA CONTINUA RICERCA DI SUONI E “SAPORI” Gli Insintesi (Francesco Andriani De Vito e Alessandro Lorusso) sono il risultato, uno dei più intriganti e sperimentali, di questa nuova generazione di musicisti salentini, per cui unire elettronica, reggae, pizzica è naturale. Sono figli di quel mondo composito, ricco e profumato che ci ha sempre fatto credere che Lecce sia a due passi da Brixton, in Inghilterra, tra indiani e caraibici a far musica elettronica. Il loro suono si è evoluto molto e l’unione tra sonorità contemporanee e influenze salentine vecchie e nuove diventa sempre più coesa. «Abbiamo attraversato una fase più legata al downbeat, poi un’altra più legata alla jungle/d’n’b e nel frattempo è filtrata in noi una forte componente mediterranea e salentina. La nostra dimensione è cambiata da quando il nostro sguardo si è soffermato di più su quello che ci circondava piuttosto che pensare a ciò che accadeva lontano da noi. Guardare al Salento ed alla sua musica, ma anche alle sue tradizioni ed

alla sua cultura (che poi è la nostra) ha aumentato le nostre possibilità musicali e al posto di ridurle le ha amplificate. Osservare il piccolo ha ingigantito la nostra musica, le ha dato un contesto, mentre la nostra esperienza in ambito di musica elettronica ha contemporaneamente decontestualizzato e globalizzato le melodie salentine. Sperimentare su generi e sonorità “conosciute” come il reggae salentino e la musica tradizionale è stata la giusta chiave di volta, senza mai snaturare questi generi, rispettandoli ma reinterpretandoli a modo nostro». Il duo è da sempre molto radicale nella ricerca dei suoni. «Ci piace sperimentare per vocazione e finchè la passione ci sarà continueremo a farlo. Ci piace essere estremi, capire fin dove possiamo spingerci con un ritmo, con un suono, con una ricerca di campioni. Ci chiediamo perché stiamo utilizzando un determinato suono, perdiamo tantissimo tempo in questo, a volte anche senza risultati. Ma siamo fatti così». Questi i due

artisti e le due ricette scelti dagli Insintesi. «Il monaco Pantaleone che ha realizzato il mosaico della cattedrale di Otranto nel XII secolo mi fa pensare all’incontro tra la cultura occidentale ed orientale. Il pepe che è di origine indiana lo utizziamo in tantissimi piatti salentini compreso nella pasta ciceri e tria. In musica King Tubby che è uno dei maestri del dub, stile reggae minimale, lo accosterei a qualcosa di arcaico ed essenziale come la frisella». Ogni gruppo ha una evoluzione “gastronomica”. « All’inizio eravamo dei frutti acerbi: ananas, uva, frutti tropicali e mediterranei prevalentemente. Poi abbiamo raggiunto la giusta maturazione ed il vino rosso è divenuto ben strutturato, fortemente radicato al territorio salentino ma rivolto ad un mercato internazionale. Ora non saprei, siamo in una nuova fase al momento non definita, abbiamo cambiato direzione e non guardiamo solo ai sapori del Salento».


VAFFANCOOL Daniele De Luca

Il vostro radicalchiccume non porrà rimedio alla vostra bruttezza Sono nato nel maggio del 1964 e, quindi, da un facile calcolo matematico, si può dedurre che ho quasi (e sottolineo quasi) cinquantadue anni. Perché dirvi questo? Beh, semplice, ero un giovane virgulto di palma nei rifaldissimi anni ‘70! La televisione era in bianco e nero ed io ero il telecomando di casa (poi, per fortuna, è arrivata mia sorella) quando si trattava di passare dal primo al secondo canale Rai (gli unici disponibili). Il sabato sera era una festa, tutti a vedere il polpettone musicale sul canale nazionale (per chi non c’era... si intende il primo). Niente auditel e almeno 20 milioni di spettatori. Erano le serate di Canzonissima, Milleluci, Senza Rete! Ancora – mi chiederete – perché dirvi questo? Un po’ di sana pazienza. In questi straordinari – e unici – programmi del sabato si esibivano artisti del “calibro” di Sergio Endrigo, Bruno Lauzi, Wilma Goich, Gigliola Cinquetti che, magari, interpretavano canzoni scritte da autori come Gino Paoli o Piero Ciampi. Ci state arrivando? Forse ancora no... sarò più esplicito, ma necessito di

andare a capo. Noi giovani preadolescenti, con seri problemi con gli ormoni, al solo comparire di Endrigo, Lauzi e del quasi dimenticato (sia ringraziato il Signore) Memo Remigi venivamo presi da decisi conati di vomito. Rifuggivamo dalla canzone italica ma, alla fine, quello ci toccava (l’unico sobbalzo lo avevamo all’apparizione di Sylvie Vartan che, infatti, era donna esotica). Ora, mi chiedo io, ma come cazzo è che oggi, invece, tutte (sì, è un problema soprattutto femminile) a rincorrere quegli sfigati di Endrigo e Ciampi e, se non lo fai, appari un defraudato dalla vita tu stesso? Io vi guardo e vi noto, eh? Il vostro pseudo-spleen non vi rende più interessanti, il vostro sguardo perso o volto verso terra non vi teletrasporterà in un becero bistrot parigino (sempre nel Salento state, non lo sentite il fottuto tamburello?), siete improponibili quando pubblicate versi di canzoni che nemmeno all’epoca la gente aveva lo stomaco di ascoltare, il vostro radicalchiccume non porrà rimedio alla vostra bruttezza. Insomma, un pastis

non vi salverà! E nemmeno Carmelo Bene, che citate sempre completamente a minchia (e che, ovunque si trovi, vi disprezza fortemente. Sappiatelo). A questo punto, se proprio in quel passato di falliti volete scomodamente risiedere, allora voglio che rivalutiate le forme di Orietta Berti, le lentiggini di Marisa Sannia, la bucolica Louiselle, i problemi odontoiatrici di Giovanna e Gianni Pettenati, quelli rinologici di Paolo Mengoli, che vi sediate ai piedi del proto-leghista Duo di Piadena. Sì, voglio vedervi cantare “L’uva Fogarina” e anche “Andiamo a mietere il grano”. Anzi, no, quest’ultimo dovrebbe essere veramente il vostro destino. Quando avrete dismesso i vostri cappelli, abbandonato i vostri libri di filosofia medioevale, interrotto la vostra falsa recita nella vita di tutti i giorni, allora pensate alla terra amara che tanto (ma tanto) ha bisogno di voi e delle vostre belle manine. In quel preciso istante, e come da tradizione, dal profondo del cuore si leverà e vi accompagnerà un mio affettuosissimo... MavaffanCool...


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BRODO DI FRUTTA BLOG

Adelmo Monachese

Checco Zalone, DA PUGLIESE A PUGLIESE. grazie! Essere pugliesi in questi anni è uno spasso assoluto. Mettete me: vivo a Foggia che è al Nord della Puglia e suona bene anche per i turisti leghisti ma che, a livello socio culturale, si colloca in provincia di Gomorra. Qualche esempio: io vivo in un quartiere in cui sparano ogni giorno, anche di mattina. L’ho segnalato ripetutamente alla polizia che non sa far altro che ripetermi: “Abiti di fronte a un poligono, imbecille!”. Molto frequenti sono anche gli attentati a scopo di racket: negli ultimi periodi hanno incendiato il China Shop, un megastore di mille metri quadrati, tutta la merce è andata distrutta per un ammontare di danni pari a 2 euro e 99. Successivamente ignoti hanno fatto esplodere un ordigno all’interno di un Pro Shop, uno di quei negozi di detersivi e prodotti per l’igiene, sul caso gli inquirenti hanno detto che vogliono vederci chiaro e pulito. Nonostante ciò, quando la gente mi rivolge quelle domande ad alto tasso di stress del tipo: “Dove vai in ferie?” - “Dove

vai a Pasquetta?” mi basta rispondere: “Guarda, avevo pensato in Puglia” e faccio sempre un figurone anche se non sanno che per me significa restare buttato sul divano spellato di casa mia. Un divano pugliese, fatto con i muretti a secco, s’intende. Ora si è aggiunto un altro benefit nell’essere pugliese. Per essere precisi, la pugliesità è tornata in auge dopo l’appannamento della parabola comica di Lino Banfi a favore della combriccola dei toscani ora in fase calante. Su Panariello è stata posta la pietra tombale per i comici che non fanno più ridere: il contratto di sponsorizzazione della Wind. Pieraccioni ha fatto la fine peggiore di tutti: gli stanno permettendo di continuare a fare film. Dall’esordio cinematografico di Luca Medici nel 2009 tocca di nuovo a noi e per la proprietà transitiva di ‘sta cima di rapa i pugliesi risultano immediatamente simpatici grazie al personaggio di Checco Zalone e al regista Gennaro Nunziante che hanno superato lo step da bravi a fenomeni

di massa: ovvero quel momento in cui esperire un’opera diventa necessario al di là del giudizio di merito e bisogna farsene un’opinione per non essere tagliati fuori dai trend topic delle conversazioni, un po’ come se negli anni ‘ 90 non leggevi Cioè e nei 2000 non la indovinavi massimo con 2. Medici-Zalone e Nunziante ci hanno mostrato la crudeltà di certe pratiche il cui passaggio successivo nella realtà è finire intercettati e quello dopo ancora entrare in politica sperando nel salvacondotto. Per farci ingoiare l’amara medicina della consapevolezza hanno usato il dolcificante della comicità che aiuta, al termine della proiezione, a resistere all’istinto di cercare un ponte da cui buttarsi. Un ponte pugliese, fatto con gli appalti truccati, s’intende. Il loro successo è stato di dimensioni tali da far passare in secondo piano un evento cinematografico mondiale, il film dedicato al figlio di Apollo all’interno della saga di Rocky: “Creed”, in cui Balboa diviene mentore e allenatore di Apelle.


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Mauro Marino

La “poesia pubblica” vince la diffidenza e il pregiudizio Lo stupore è il punto di partenza del pensare, di ogni fare creativo. Questa capacità di stupirsi è il “mistero” custodito ogni volta che, a Galatina, vado a incontrare i “ragazzi” dell’associazione “Barriere al vento” promotori del concorso “Fogli di Poesia per Raccontare la Vita”. Un concorso - ispirato nel titolo al dettato di Antonio Verri per promuove l’idea di una poesia coinvolta con la vita capace di farsi esortazione e leva di cambiamento invitando gli alunni a cimentarsi nell’elaborazione di testi poetici sui valori della diversità, dell’integrazione, dell’educazione, della solidarietà. Una poesia non solo da leggere, ma una poesia da recitare a voce alta. Una poesia pubblica, una poesia “grafica”, manifesto da esporre per le strade delle città. Recentemente mi è capitato di partecipare ad una festa-spettacolo nelle ex Officine Martinucci. Le luci si sono abbassate nel grande spazio: fari da teatro per svelare dal buio le azioni degli “attori-guida” che partendo dall’unità e dalla

coralità del grande cerchio che ha unito tutti i presenti nel saluto di benvenuto - hanno accompagnato il pubblico nella trama più intima dello stare nella piena condivisione. «Emozioni e inclusione, tutti insieme a danzare e suonare, con la voglia di creare un contatto con l’altro. Chiunque esso sia, non esiste il diverso, c’è solo voglia di unione e amore. È così che nasce un unico essere spirituale nel suo essere vivo corpo celeste». Così scrive Viviana che compila il diario di bordo delle esperienze creative di “Barriere al Vento”. Lasciarsi bendare, affidarsi, seguire i piccoli suoni di Daniele, Luigina, Elisa. Richiami ancestrali, minuti, essenziali “magicano” lo spazio, lentamente mischiano la scena. Suoni e attenzione, grande attenzione verso ogni piccola cosa, ogni piccolo accadere. Non è in quel “piccolo” la vita, la vitalità, il vitalismo? Certo sì, lì abita l’energia, lì il punto dove scovarla e liberarla. «Un corpo srotola uno striscione composto da disegni dipinti da ragazzi speciali

che attraverso le arti narrano i loro sogni», annota la diarista. Quei sogni, sono tutti custoditi nel girare derviscio di Toni che dei Sufi conosce, senza saperlo, ogni segreto. «Se per fuggire alla memoria, avessimo le ali, in molti voleremmo. Avvezzi a cose molto più lente, gli uccelli sbigottiti contemplerebbero il possente stormo degli uomini in fuga dalla mente dell’uomo», scrive Emily Dickinson. Versi efficaci per comprendere la leggerezza che con le loro vite, con il loro ridere largo, il loro chiedere, il loro salutare questi “ragazzi” testimoniano. Il loro convinto esserci, nonostante tutto, capaci di una felicità a noi sconosciuta. Ancora un poeta chiamo a far luce, Daniele Giancane: «Mi accorgo sovente di stare sulla soglia: come se ci fosse vicino un confine, un fiato, un tenue filo. Come se fossi qui in parte, in parte altrove. Simultaneo e ubiquo, plurale e singolare assieme». Ecco, questa la sensazione vissuta, quella che mi porto, dono e monito.

BLOG

AFFRESCHI&RINFRESCHI


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STANZA 105 BLOG

Mino Pica

LA SINDROME DEL PUNK Era da tempo che non mi veniva in mente. La ricordo nella mia fase post adolescenziale, quando mi chiedevo se per combattere il sistema (delle cose) bisognava entrarci dentro oppure alienarsi, non riconoscendone modi e forme. La sindrome del punk, per me, era proprio questa. “Punk nella testa e non nella cresta”, mi scrisse un caro amico sulla mia borsa verde a tracolla che mi portavo ovunque. Mi è ritornata in mente qualche mese fa quando ho visto Una (Marzia Stano) in onda su Raiuno per partecipare alle selezioni di Sanremo Giovani. Tre passi indietro, e la sua eliminazione, hanno alimentato delusione e sconcerto, confronti e riflessioni, ma quei passi che sapore hanno davvero avuto? Indietreggiare di fronte alle bassezze di Chiambretti, al non giudizio di una figlia di Celentano o alle confuse motivazioni dell’imitatore di Zalone? E se le avessero concesso di non indietreggiare invece, che peso avrebbero avuto?

Quale il sottile confine fra delusione ed entusiasmo? Tutto questo potrebbe poi scalfire lo spirito maturato? Una è senz’altro una grande cantautrice e merita profondo rispetto anche solo per le centinaia di concerti alle spalle a suon di sudore; dal punto di vista qualitativo poi basterebbe sentire un suo live, in uno striminzito pub che sia o, come le è successo, sul palco dello Szigest di Budapest o ancora, senza sconfinare troppo, con l’apertura in estate dei Post Csi sul palco del Rockinday. Ha decisamente già il suo pubblico e un percorso importante alimentato da una crescita artistica degna di nota; allora perché entrare nel sistema (delle cose) di un format talent che 11 volte su 10 umilia la musica e chi la ama. Si dirà che si dovrà pur lavorare ma a quale prezzo? Sono tante le comete, e poche le stelle, ma potrà entrarci nuovamente una cometa in un piccolo pub? La sindrome del punk stranamente, o forse no, mi è ritornata in mente anche più recente-

mente. Parlo di quello che considero uno dei migliori artisti di questi anni. Anche lui pugliese: Gianluca De Rubertis. Mi riferisco alla sua apparizione a “Che tempo che fa”, con un piano in sala ma nessun piano per poterlo suonare. Pochi secondi, una sfuggente inquadratura mentre Fabio Volo restava inchiodato a quel tavolo a promuovere il suo ultimo libro. Speriamo. (Che sia l’ultimo). Brecht preferirebbe forse “sedersi dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono occupati”. Potremmo immaginare di sederci invece ai margini del tavolo, considerare l’idea di costruirne di nuovi a partire dal margine. I margini hanno fascino e ce ne sono sempre a disposizione. Magari, di nostra volontà, potremmo fare qualche passo indietro ed accomodare sudore, cercando altri punti di vista, dandoci tono e peso per “ridiventare polvere” e non morire di ingiustificata delusione dettata.


I quaderni del senno di poi di Francesco Cuna | facebook: quadernidelsennodipoi


EVENTI

DIMARTINO

Sabato 12 marzo la band del cantautore siciliano in concerto a Lecce La scena cantautorale italiana degli anni Zero è ormai ricca di autori e personalità differenti. Molti esprimono qualcosa di sensato e bello; pochi sono quelli che ascolto con attenzione. Preparandomi all’intervista con Dimartino, prima del suo live alle Officine Cantelmo di Lecce in programma il 12 marzo, ho compreso che sarebbe stato interessante approfondire la prospettiva di un coetaneo del Sud, che parla dell’eterno dilemma tra l’andare e il restare. Un “Odi et Amo” nei confronti del paese di origine che riconosco. Al telefono Antonio Di Martino è disponibile e, quando mi racconta un episodio del nonno, mi sembra un bravo ragazzo, un amico d’infanzia. Passiamo al dunque. “Un Paese Ci Vuole” è il terzo album in studio della band siciliana che porta il cognome di Antonio (aprile 2015). Nell’album, anticipato dal singolo “Come Una Guerra La Primavera”, anche due featuring, quello con Francesco Bianconi e Cristina Donà. Qui c’è il resto della storia.

Il titolo del tuo disco è un’affermazione: Un Paese Ci Vuole. Ci spieghi cosa racchiude questa frase? “Un paese ci vuole” è intanto un’espressione che può avere due significati. Uno sta per “un paese ci vuole, ovvero è necessario” e l’altro sta per “un paese ci chiama”. Mi piaceva questa ambivalenza dell’espressione; in ogni caso io l’ho presa da un’intera frase di Cesare Pavese che recita: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. All’interno di questa frase sta dunque un senso bellissimo e mi piaceva prenderne l’inizio per farci il titolo. Raccontaci la nascita del tema principale del tuo album e, in generale, come avete lavorato alla realizzazione del disco... Il disco ormai sta compiendo un anno. L’ho registrato in casa, in campagna (in Sicilia,


a cura di CHIARA MELENDUGNO ndr). Abbiamo portato lo studio mobile lì. Registrare questo disco nella mia terra ha significato per me chiudere un cerchio. Anche se in realtà l’idea principale non è nata in Italia, ma quando ero in Messico, nel 2014; così, in qualche modo, proprio mentre ero fuori, ho capito di non aver mai parlato nei miei dischi in maniera approfondita della mia terra, delle mie origini. Ho realizzato che quello era il momento giusto per affrontare questo tema. Il paese è anche il luogo dove ci sono le radici e lì è spesso conservata la memoria. È nata così la canzone “A passo d’uomo”? “A passo d’uomo” più che una canzone è una registrazione che ho rubato a mio nonno. Lui adesso ha 89 anni e racconta vecchie storie sempre uguali. Tra queste ce n’è una che parla di quando ha visto per la prima volta una macchina. Noi stessi eravamo in auto un giorno, mentre io lo stavo riaccompagnando – sai, io sto spesso con mio nonno – così ho ripreso l’argomento “macchina”, ho preso il mio telefonino, ho iniziato a registrare e lui è partito con la storia in questione. Mi piaceva mettere nel disco questa cosa perché l’idea che in 50 anni la velocità e il modo di concepirla si siano stravolti del tutto è interessante. L’idea che aveva mio nonno della velocità, con le auto che in pratica si muovevano a passo d’uomo, oggi non esiste più. Ciò mi ha fatto riflettere. Nel disco ci sono anche due collaborazioni importanti... Con Francesco Bianconi la collaborazione è nata un po’ per gioco perché entrambi spesso facciamo gli autori per altri; così ci siamo trovati a scrivere assieme e proprio in una di queste sessioni è nata la canzone “Una Storia del Mare”. Il tema richiamava quello di cui parlo nel disco e quindi l’ho inserita e ho chiesto a Bianconi di cantarla con me. L’altra canzone con Cristina Donà, invece, è nata una sera dopo che avevo scritto questo pezzo e l’avevo fatto sentire al mio pianista Angelo Trabace. Con lui abbiamo pensato che una voce che potesse rendere giustizia al pezzo fosse proprio quella di Cristina, quindi le abbiamo telefonato e lei ha accettato.

Di questo lavoro hai scritto “sono dell’idea che si tratti di un disco folk almeno nella scrittura”. E musicalmente com’è? Guarda, non saprei definirlo. Ma penso che la definizione folk vada bene anche in quel caso perché in un certo senso è un disco che parla di radici, quindi direi che folk va bene. Com’è nata l’idea dell’app per lo streaming del tuo disco in circa 300 paesi? E com’è andata? Si è trattato di una novità per lanciare il disco; abbiamo pensato che il modo giusto per promuovere un lavoro che parla di un paese fosse proprio farlo ascoltare nei paesi. In pratica abbiamo geolocalizzato 350 paesi italiani e così, se ti trovavi in uno di questi centri abitati con uno smartphone potevi ascoltare il disco. L’operazione è andata bene secondo me: in fondo se qualcuno si muove, prende la macchina e va alla scoperta di un paese per ascoltare il mio disco, beh è una piccola vittoria; quindi direi che è andata bene! Il tuo tour arriverà anche a Lecce, come sarà “Un Paese Ci Vuole” dal vivo? Sono felicissimo di suonare a Lecce perché non ci ho mai suonato e l’idea di venire fino a lì mi piace tantissimo. Da quando ho realizzato il primo disco, i Dimartino sono sempre andati in giro in trio: io al basso, Angelo Trabace al piano e Giusto Correnti alla batteria. Dal vivo cerchiamo di fare dei live che si differenziano molto dal disco; siamo più potenti e c’è più energia. Una domanda classica: cosa farai nel 2016? Per adesso sto lavorando a un album sulla cantante messicana Chavela Vargas. È un lavoro iniziato due anni fa in Messico e terminato qui in Italia. Il disco è stato realizzato insieme a Fabrizio Cammarata. In pratica abbiamo tradotto delle canzoni del repertorio di Chavela Vargas e le abbiamo registrate assieme a due chitarristi a Città del Messico; un disco di cover con testi in italiano. Spero che l’album esca presto, ma ancora non ci sono date precise. Chiara Melendugno


19 marzo – ore 21 Industrie Musicali – Maglie NEGRITA Dopo otto arene gremite durante la scorsa primavera e un lungo tour estivo che ha percorso tutto lo stivale, i Negrita tornano on the road. La rock band toscana, infatti, si esibirà in diciotto date nei più rinomati club italiani sino al 3 aprile. Sabato 19 marzo il Club tour approderà sul palco delle Industrie Musicali di Maglie, in provincia di Lecce. Nelle radio è in rotazione “I Tempi Cambiano”, il cui inciso è stato scritto dai Negrita a quattro mani con Luciano Ligabue, brano che anticipa l’uscita di “9 Live & Live”, dal 4 marzo nei negozi e nei digital store. Uno speciale cofanetto contenente due inediti, “I Tempi Cambiano” e “Quelli che non sbagliano mai”, nove versioni live dei brani di 9, una nuova versione di “Se sei l’amore”, il DVD con le immagini del concerto di Milano del 18 aprile 2015 al Mediolanum Forum e il docufilm “Under The Skin”, realizzato durante le registrazioni di 9. Dopo il concerto di Maglie - organizzato da High Grade Entertainment, Molly Arts e Cool Club - in consolle si alterneranno Maurizio Macrì e Dario Lotti. Prevendite disponibili su Livenation, TicketOne, BookingShow e a Lecce (Clinica dell’accendino, Youm music, Officine Cantelmo, Molly Malone). Ingresso 25 euro + dp – Info 3294499610 – 0832303707


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EVENTI

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5 marzo – ore 21 TaTÀ – Taranto BLUE BIRD BUKOWSKI

9 marzo – ore 21 Teatro Team – Bari DE GREGORI CANTA DYLAN

Bukowski è morto? Sembra di sì, se andiamo a controllare la sua biografia: il vecchio Buk ci ha lasciato nel 1994. Eppure le librerie sono piene dei sui romanzi e delle raccolte poetiche che vendono molto bene. Nello spettacolo di Riccardo Spagnulo, per la regia di Licia Lanera, la figura dell’anti-intellettuale così attaccato alla vita, da preferire corse di cavalli e donne ai salotti letterari. Ingresso 15/10 euro – Info 099.4725780

Dopo il successo di “Rimmel 2015”, il cantautore torna in tour con uno straordinario show a supporto di “Amore e Furto”, l’album-tributo a Bob Dylan. Un omaggio sentito a quel genio a cui è stato spesso paragonato in carriera e che tanto lo ha ispirato, in cui proporrà dal vivo le undici canzoni che ha tradotto e interpretato con il suo solito inconfondibile stile. Ingresso 62/51/40 euro – Info teatroteam@teatroteam.it

9 marzo – ore 21 Cinema Showville – Bari LEZIONI DI ROCK. FABRIZIO DE ANDRÈ

10 marzo – ore 21 Teatro Comunale - Ceglie Messapica (Br) GRAMSCI, ANTONIO DETTO NINO

Ci sono dischi che segnano il tempo e canzoni che attraversano i sogni e raccontano il mondo. È questo il caso di Creuza de ma di Fabrizio De Andrè, uno dei capolavori scritti dal grande cantautore genovese, Il frutto del lungo e appassionante percorso artistico iniziato alla fine degli anni Cinquanta è il fulcro del quinto appuntamento targato Puglia Sounds con Ernesto Assante e Gino Castaldo. Ingresso 7 euro – Info info@pugliasounds.it

Lo spettacolo di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno racconta frammenti della vita di uno degli uomini più preziosi del Novecento. Vita privata tra i rapporti politici e quelli familiari. Le bellissime lettere ai suoi figli sono state il punto di partenza: tenere epistole a Delio e Giuliano, ai quali Gramsci scrive senza mai nominare il carcere e la sua condizione fisica e psichica, dando il meglio di sé come come uomo, genitore e pedagogo. Ingresso 10/7 euro – Info 3892656069


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EVENTI

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11 marzo – ore 21 Teatro Roma – Ostuni NADA E FAUSTO MESOLELLA

11 marzo – ore 21.30 Teatro San Francesco - Andria BALDUCCI - MAUROGIOVANNI

“Musica leggera da camera” è la definizione più appropriata di questo spettacolo che comprende brani come la stralunata “Come faceva freddo” (di Piero Ciampi), la popolare “Ma che freddo fa”, grandi successi e classici della tradizione popolare come “Maremma”. La personalissima timbrica vocale di Nada ben si amalgama con la chitarra di Mesolella, capace di spaziare dai ritmi rock, al jazz e alla new age. Info 0831338065

Nell’ambito dela rassegna “Jazz in Andria”, presentazione ufficiale di “Cinema - Volume 1”, nuovo progetto discografico del duo composto dai bassisti pugliesi Pierluigi Balducci e Vincenzo ‘Viz’ Maurogiovanni, prodotto dall’etichetta Dodicilune e distribuito da IRD. Il disco è un singolare omaggio di due bassisti elettrici e acustici al mondo del cinema. Il titolo stesso dell’album trae ispirazione dalle trilogie cinematografiche. Info 3387212416

15 marzo – ore 21.30 Ammirato Culture House – Lecce COFFEE OR NOT Prosegue all’Ammirato Culture House di Lecce la seconda edizione de “Il club dell’ascolto live”, una rassegna nata dalla collaborazione con Coolclub e Uasc! e con il sostegno della Fondazione Musagetes. Un breve viaggio intimo e acustico alla scoperta dei nuovi suoni provenienti da tutta Europa, con particolare attenzione al folk, alla parola cantata, alle storie, alla musica delle radici. I Coffee or Not sono un duo belga formato da Soho Grant e Renaud Versteegen. Reduci dal successo dell’ultimo lavoro “SoRe” e da più tour in tutta Europa e non solo, i Coffee or Not tornano a esibirsi dal vivo, dopo una pausa per la lavorazione del nuovo e quarto album. Con il loro terzo album, il progetto belga aveva deciso di buttare via le chitarre acustiche e di usare una tempesta elettrica. Conosciuti per le loro armonie voca-

li, la delicatezza, la sensualità SoRe mette Soho e Renaud ben oltre quello che ci si aspettava da loro. Da loop introspettivi a piatti scroscianti, dai pad eterei alla potenza sonora. Un album che li fa viaggare fuori dal Belgio, in tutta Europa. Ingresso gratuito (con tessera). Info 3277357690 - 0832303707


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23 marzo – ore 21 Cinema Showville – Bari LEZIONI DI ROCK. BOB DYLAN

23 marzo – ore 21 Teatro Politeama Greco - Lecce DANIELE SILVESTRI Il tour di Daniele Silvestri arriva sul palco del Teatro Politeama Greco di Lecce per presentare alcune canzoni che hanno accompagnato la sua carriera e i brani di “Acrobati”. Appena uscito per Sony Music è un disco acrobatico anche per come è nato: da un iPhone pieno di appunti musicali, di idee, che partendo da uno studio di Lecce la scorsa estate, ha viaggiato fino a ritrovarsi al chiuso di una sala di registrazione dove si è fatto ascoltare germogliando e facendo germogliare un flusso inesauribile di musica. Jam che diventavano sessioni, armonie, melodie, break che si condensavano in canzoni. Musicisti in tondo a suonare ogni nota come se fosse sempre la prima e anche l’ultima, una serie di take fissate su hard disk che davano già il volto a un disco pieno di spunti, di idee, di libertà. Di acrobazia in acrobazia diciotto di queste canzoni si sono fatte avanti e si sono tuffate nel disco iniziando ad abitarlo, e rendendolo in poche settimane quello che è oggi. Ingresso dai 20 ai 40 euro + dp Info 0832241468.

Tra il 1965 e il 1966, in soli quattordici mesi, Bob Dylan pubblica due album singoli - Bringing it all back home e Highway 61 revisited – e un doppio album, Blonde on blonde. Proprio questo disco, punto d’arrivo di un percorso tumultuoso e poetico, romantico e elettrico, è il protagonista del nuovo appuntamento di Puglia Sounds con i giornalisti Ernesto Assante e Gino Castaldo. Ingresso 7 euro – Info info@pugliasounds.it

25 marzo – ore 21 Demodè Club – Modugno TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI Inumani è l’ ottavo album in studio della band di Pordenone, fuori per La Tempesta Dischi. Dentro ci sono undici nuove tracce (prodotte da Paolo Baldini) che arricchiscono la già corposa scaletta. Sul palco con Tre allegri ragazzi morti anche Adriano Viterbini, che diventa così il quinto allegro ragazzo morto con Davide Toffolo, Enrico Molteni, Luca Masseroni e Andrea Maglia. Ingresso 10 euro+1,50 d.p.; botteghino 13 euro. Info www.demodeclub.it


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30 marzo – ore 19 Officine Ergot – Lecce RAPPORTO AMNESTY INTERNATIONAL

31 marzo – ore 21 Teatro Orfeo – Taranto EUGENIO FINARDI

La rassegna “Xoff. Conversazioni sul futuro”, dopo l’incontro con Ilaria Cucchi, ospita la presentazione del rapporto annuale di Amnesty International che documenta la situazione dei diritti umani in 160 paesi e territori durante il 2015. Questo rapporto rende merito a tutte le persone che si sono attivate in difesa dei diritti umani in tutto il mondo, spesso in circostanze difficili e pericolose. Info 3394313397 - xofflecce.it

La fortunata carriera live di Eugenio Finardi si arricchisce del consolidato progetto Parole & Musica, incontri/concerto caratterizzati da un’atmosfera intima e coinvolgente per raccontarsi, e raccontare, in musica. Con quarant’anni di carriera alle spalle, Finardi si è infatti accorto che, insieme alle canzoni, spesso dal pubblico veniva la richiesta di una testimonianza dell’epoca straordinaria di cui è stato protagonista. Info 099.7303972



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