Coolclub.it - aprile 2016

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GRATUITO Anno XIII Numero 81 Aprile 2016

Ogni mese un mondo di cultura in Puglia



SOMMARIO EDITORIALE - 4/5

CINEMA/TEATRO - 38/45

La solitudine dei numeri primi

Alessandro Piva - Alessandro Valenti Tonio De Nitto

INTERVISTA - 6/9 Pierfrancesco Pacoda

MUSICA - 10/29 Vittorio Cosma - Nidi D’Arac - No Finger Nails - Balducci/Maurogiovanni Bandini - Erri De Luca - Puglia Sounds Export - Keep Cool - BlogFoolk (Dario Muci e Uaragniaun)

LIBRI - 30/37 Luciano Pagano - Giuseppe Calogiuri Maria Pia Romano - Loredana De Vitis - Coolibrì

Piazza Giorgio Baglivi 10 73100 Lecce Telefono: 0832303707 Cell: 3394313397 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it fb: Coolclub.it - tw: Coolclublecce Anno XIII Numero 81 - Aprile 2016 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Collettivo redazionale Pierpaolo Lala (Direttore responsabile), Osvaldo Piliego, Dario Goffredo, Chiara Melendugno, Antonietta Rosato, Toni Nisi, Cesare Liaci

ARTE - 46/49 Millo - Sandro Marasco

BLOG - 50/55 Food Sound System - Vaffancool Brodo di frutta - Affreschi&Rinfreschi Stanza 105 - I Quaderni del senno di poi

EVENTI - 56/63 Lodo Guenzi - Ernesto Assante e Gino Castaldo - Lercio Tour - Alex Britti Malika Ayane - Rototom & Friends Europe

Hanno collaborato a questo numero Red Vibes, Eleonora L. Moscara, la redazione di BlogFoolk (Salvatore Esposito, Ciro de Rosa), Giulia Maria Falzea, Lucio Lussi, Francesca Santoro, AnnaChiara Pennetta, Jenne Marasco, Giuseppe Amedeo Arnesano, Lorenzo Madaro, Donpasta, Daniele De Luca, Adelmo Monachese, Mauro Marino, Mino Pica, Francesco Cuna In copertina Millo - Torino Progetto grafica e impaginazione Mr. Scipione Stampa Colazzo Srl - Corigliano d’Otranto (Le) www.colazzo.it Chiuso in redazione nel dì di Pasquetta tra stanati, fucazze e una pessima notizia


EDITORIALE

La solitudine dei numeri primi Dopo il primo arriva il secondo. Spesso. Ma non sempre. Succede a tavola, nella vita e con i giornali. Ognuno di noi ha collezionato una serie infinita di primi fascicoli distribuiti a poco prezzo in edicola. Corsi di inglese, storia della letteratura italiana o della filosofia contemporanea, un fantastico veliero o una stilosissima macchina d’epoca. Una volta, scherzando, l’ho definita “la solitudine dei numeri primi”. La nuova versione di Coolclub.it è arrivata - almeno - al secondo numero. Quello che sfogliate è il frutto dei primi consigli che ci sono arrivati da amici, colleghi o lettori occasionali. Qualcosa graficamente è cambiato e molto potrebbe mutare nel prossimo futuro. Nei contenuti proveremo a trasformare sempre più il giornale in un magazine con notizie e curiosità e non solo con interviste e recensioni. In molti hanno apprezzato il taglio “pugliese”

della nuova avventura editoriale (anche se ancora il Salento predomina), scoprendo dischi, libri, film, spettacoli, artisti. Il materiale è davvero tanto e ogni mese sarà arduo fare una selezione e una scelta. Tutto il resto sarà sul nostro sito che cercheremo di rendere sempre più aggiornato. Dopo l’uscita del giornale abbiamo lanciato anche una campagna di CrowdFunding sul sito “Produzioni dal basso” per sostenere la nostra esperienza editoriale. Non solo potrete abbonarvi ma potrete acquistare la nostra Coolclub Card con la quale avere sconti e offerte per concerti, merchandising e molto altro. Finora una quarantina di persone ci hanno dato fiducia. Troppe o poche non sappiamo dirlo. Sicuramente speriamo di costruire un giornale che possa valere anche solo i 10 o 20 euro annuali del vostro abbonamento. Ma passiamo oltre.


In questo numero partiamo con una lunga intervista a Pierfrancesco Pacoda, giornalista e scrittore salentino che da oltre trent’anni vive a Bologna, uno dei massimi esperti della club culture in Italia. Con lui ragioniamo sulla “questione giovanile” partendo dal suo recente libro “Rischio e desiderio”. Questa estate si è discusso molto dei club dopo la morte di un sedicenne al Cocoricò di Riccione e dopo il decesso improvviso del leccese Lorenzo Toma, dovuto non all’assunzione di alcool o droga ma per colpa di una cardiopatia congenita (come dimostrato dall’autopsia), dopo una serata passata in discoteca. In quei giorni i media nazionali si riversarono a Lecce per raccontare la generazione dello “sballo” e sui social si sprecarono commenti e teorie strampalate sulla morte del ragazzo. Sua madre Carla Gentile, dopo aver lanciato una petizione sul web che ha raccolto oltre 50mila firme, pochi giorni fa ha incontrato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin. La sua richiesta è molto semplice. Defibrillatori nei locali, nelle discoteche e in tutti i luoghi “affollati”. Vedremo come andrà a finire. «Oggi i ragazzi non hanno più alcuna percezione degli effetti delle sostanze che ingeriscono», sottolinea Pacoda nell’intervista di Osvaldo Piliego. «Non c’è una “cultura della droga”, oggi le pasticche non sono più considerate dai ragazzi delle droghe, ma un complemento dell’esperienza notturna, come bere un cocktail. E il marketing dello spaccio accentua tutto questo». L’estate si avvicina. Riprendere una discussione sull’argomento può solo aiutare ad arrivare preparati senza poi dover fare inutili processi o peggio ancora avanzare illazioni e sbilanciarsi in commenti e sentenze preventive come nel caso di Lorenzo. Nella sezione musica troverete le interviste a Vittorio Cosma, direttore artistico della Notte della Taranta nel 2002 e 2003 (con Stewart Copeland) e anima del progetto Deproducers, ad Alessandro Coppola, leader dei Nidi D’Arac, che tornano con un

nuovo disco dopo alcuni anni, ai No Finger Nails, ai due bassisti Pierluigi Balducci e Viz Maurogiovanni, al cantautore Bandini e a Dario Muci (nella sezione curata da BlogFoolk). Oltre alle recensioni e al report dello spettacolo che vede in scena Erri De Luca e il Canzoniere Grecanico Salentino anche due pagine dedicate alle band che, grazie a Puglia Sounds Export, si sono esibite o esibiranno a breve all’estero. Tra i libri spazio a Luciano Pagano, scrittore ed editore, e all’avvocato e autore Giuseppe Calogiuri. Nel cinema il regista Alessandro Piva ci racconta i suoi “Milionari” mentre lo sceneggiatore Alessandro Valenti - compagno di viaggio di Edoardo Winspeare - anticipa alcuni dei suoi prossimi progetti. Nel teatro in questo numero appuntamento con Tonio De Nitto, regista della compagnia Factory mentre tra gli eventi ampio risalto allo spettacolo “La rivoluzione è facile se sai come farla” che vede in scena Lodo Guenzi dello Stato Sociale e alle “Lezioni di Rock” di Gino Castaldo ed Ernesto Assante. Completano il palinsesto le rubriche fisse tra ironia, cucina e arte. Dopo Daniele Silvestri, la copertina è dedicata a Millo, street artist di Mesagne, in provincia di Brindisi. Dopo aver girato il mondo a breve partirà un progetto proprio nella periferia della sua città. Nelle settimane delle polemiche a Bologna, con la decisione di Blu di “cancellare” le sue opere, ci è sembrato giusto dare la prima pagina ad un’opera realizzata da Millo su una palazzina di Torino. «Credo che la Street Art, intesa come muralismo, stia godendo di un grande successo e di una fase di grande interesse in Italia. Permettere di realizzare opere, destinate a modificare la percezione di un luogo, sta diventando per molti comuni una chance di riqualificare senza troppe spese, aree difficili delle proprie città», precisa l’artista nell’intervista a Giuseppe Amedeo Arnesano. Un altro numero è andato insomma. Vi auguriamo buona lettura. Ci vediamo a maggio con altre novità. (pila)


INTERVISTA

non c’è più la trance di una volta Dialogo con il giornalista Pierfrancesco Pacoda, esperto di club culture, partendo dal suo recente volume “Rischio e desiderio”

a cura di OSVALDO PILIEGO

La distanza permette di guardare le cose dalla giusta prospettiva, concede una visione di insieme che non ci coinvolge direttamente e ci assicura uno sguardo più oggettivo. Succede per le cose, le persone ma anche per i cosiddetti “fenomeni” culturali. In questi mesi si parla molto di identità, di riconoscimento, di nuove “questioni”. Dopo quella meridionale e territoriale trattata nello scorso numero attraverso le parole di Franco Ungaro e le pagine del suo “Vado a Lecce” (Kurumuny), abbiamo scelto questa volta di trattare la quella giovanile, partendo dal libro



INTERVISTA

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“Rischio e desiderio” curato dal giornalista Pierfrancesco Pacoda e pubblicato da Nfc. Un tema scottante che torna al centro dell’attenzione spesso conseguentemente a spiacevoli fatti di cronaca. Solo in quel caso ci si pone il problema. E invece non è così, o almeno non dovrebbe essere così. La cultura giovanile passa attraverso questa “ribellione senza una causa” che fa della musica e degli eccessi un mezzo per superare un’età di passaggio. Come per il punk e l’hip hop, la disco e la club culture sono luoghi fisici e del pensiero dove si creano comunità. Oggi che i confini tra culture e subculture sono liquefatti è interessante fermarsi e riflettere su cosa stia succedendo e quali siano i possibili scenari. Dal desiderio di fotografare il presente da un punto di vista nuovo nasce “Rischio e desiderio”. «L’idea alla base del libro non era di carattere storiografico, come era avvenuto ad esempio con “Riviera Club Culture” di tre anni fa, dove avevo ricostruito la golden age della scena dei club italiani sulla Riviera Romagnola tra la seconda metà degli anni ’70 e i primi ’90, quando la Riviera diventò il centro mondiale della dance», ci racconta Pierfrancesco. «Qui l’approccio è di carattere maggiormente sociale. Tutto è nato sull’impulso emotivo dopo la tragica morte di un ragazzo in agosto al Cocoricò e la successiva campagna mediatica che ha fatto delle discoteche la sintesi del “male assoluto”, il luogo dove concentrare tutte le pulsioni negative giovanili. Con la considerazione che la risposta di carattere repressivo era l’unica possibile. Così ho pensato che sarebbe stato utile dare voce a chi, in maniera diversa conosce dall’interno questo mondo. Sociologi, psicologi, psichiatri, ma anche operatori che lavorano sul campo, dj, gestori di club, in una continua relazione tra l’approfondimento scientifico e la narrazione in presa diretta». Quello che emerge dalle varie testimonianze e dalle varie declinazioni dell’argomento è che l’alterazione della coscienza è di per sé un elemento che fa parte della cultura dell’uomo dall’alba dei tempi, dai baccanali, passando per gli studi che Georges Lapassade ha compiuto sul concetto di trance esami-

nando anche il tarantismo, fino ad arrivare al club e ai rave. Non è certo un intento che vuole normalizzare il connubio tra musica, danza e droga, ma semplicemente allargare un po’ lo sguardo. «Io credo che, più che di cultura dello sballo è necessario ricordare come, da sempre il rischio e il desiderio siano le due grandi forze di attrazione che fanno della notte, per un ragazzo un’esperienza unica, formativa, di passaggio», prosegue il giornalista. «Non c’è rischio, voglia di osare, di infrangere le regole senza il desiderio, la ricerca del piacere. L’approccio dei ragazzi alla notte e ai club ha sempre a che fare con questi due aspetti della stessa realtà». Prima l’approccio alla musica e alle droghe era in qualche modo fisico, invasivo. Pensiamo alla musica live, alla persona che fisicamente produce la nota e alla evidente intrusività delle siringhe, al rituale della preparazione della droga o al fumo. Oggi sia la musica che la droga hanno perso consistenza diventando un dj o una pastiglia sciolta in una bottiglietta d’acqua. L’esperienza stessa della festa (prima il concetto di illegalità del rave era già di per sé motivo di sballo) perde le connotazioni del rituale, perde senso. «La perdita del senso è forse l’aspetto che più rende questa realtà così differente da quello che avveniva nel passato anche recente», continua. «Oggi, infatti, i ragazzi non hanno più alcuna percezione degli effetti delle sostanze che ingeriscono. Non c’è una “cultura della droga”, oggi le pasticche non sono più considerate dai ragazzi delle droghe, ma un complemento dell’esperienza notturna, come bere un cocktail. E il marketing dello spaccio accentua tutto questo. Sembrano così innocue, colorate, belle, alcune diluibili nell’acqua, non c’è l’atto che accompagnava l’assunzione dell’eroina. I ragazzi non pensano all’uso di queste sostanze come a un fatto che possa portare alla dipendenza o comunque a danni fisici e mentali. Tutto finisce lì. E il lunedì mattina sono pronti per affrontare una nuova settimana di studio e di lavoro. E su questa modalità che bisogna intervenire». Cambia quindi la funzione della danza, la


trance a cui facevamo riferimento. Cosa resta oggi? «La trance, gli stati modificati di coscienza sono un fenomeno studiato in maniera approfondita, da persone come Piero Fumarola e George Lapassade. Esiste una trance nella pizzica e nella dance elettronica (dove c’è persino un genere che si chiama trance). È una via di fuga. Mi vengono in mente, per descriverla con una frase, le parole di un poeta beat: “Fuori dalla società, è lì che voglio essere”. È ovvio che oggi la trance è un fenomeno storicizzato che non ha più a che fare con le tradizioni che, semplicemente, non esistono. Voglio dire che il tarantismo non è più il cattivo passato che torna, per dirla con Ernesto de Martino. Ma un’ottima forma di promozione turistica. È un oggetto pop. E questo vale anche per la dance. Insomma, non c’è più la trance di una volta». L’accelerazione degli ultimi tempi ha inevitabilmente sfocato il paesaggio di questo ipotetico viaggio, si sono persi piano piano anche i riferimenti fisici che identificavano persone e comportamenti, ci si chiede cosa sia oggi la club culture. Anche su questo prova a chiarirci le idee Piefrancesco. «Io penso che non esista la club culture, secondo la quale le discoteche sono dei luoghi che potevano generare linguaggi di carattere culturale, capaci cioè di incidere sulla stessa trasformazione delle forme dell’arte. Questo è avvenuto in un preciso periodo storico, che è quello che io ho raccontato nel mio precedente libro, come dicevo prima, quando le discoteche erano ampi e caotici laboratori di creatività. Penso al Cocoricò che chiedeva idee a gruppi della sperimentazione teatrale come la Societas Raffaello Sanzio. Adesso i club sono semplicemente dei luoghi da riempire con un buon dj che deve aver un buon rapporto tra investimenti e ricavi. E questo ha anche a che fare con la figura del dj, che, certo, è diventato una rockstar. Nel senso che il pubblico va ad ascoltarlo come andrebbe a un concerto di un qualsiasi idolo pop. Non c’è più quell’aura mistica, fatta di relazione strettissima tra lui e il pubblico, quello scambio di emozioni. Oggi i dj superstar premono un tasto. E

non lo dico con nostalgia. È semplicemente un cambiamento epocale. Certo, esiste l’underground, i piccoli club dove ci sono la passione e la ricerca. E da lì potrebbe arrivare la club culture dei futuro». Così come per la perdita di luoghi di riferimento, si può dire per le controculture in genere, la distinzione tra paradigma dominante e modelli alternativi sembra essersi affievolita. Anche l’opposizione tra controculture divergenti tra di loro sembra aver perso forma. E poi ci sono le subculture. «Certo, io poi parlo sempre di subculture, che è cosa differente dalle controculture, I sistemi simbolici messi in atto dalle subculture segnano una diversità rispetto alla cultura dominante, non una forma di lotta. Il punk era una subcultura, nessuno voleva cambiare il mondo, bastava (e non era poco) urlare la propria estraneità alla società». In un momento storico di pressoché totale appiattimento ideologico con la dovuta distanza storica che l’analisi richiede ha più che mai senso riflettere sui pezzi della nostra storia più recente. E sembra una tendenza anche editoriale. Tra i vari titoli ci sentiamo di segnalare un testo che in qualche modo esplora al di là del confine. Si tratta di “Rave New Wolrd, l’ultima controclultura” (AgenziaX) di Tobia D’Onofrio (che abbiamo intervistato qualche mese fa) in cui si esprime potentemente il senso sovversivo e anticapitalista dell’esperienza. Una ricostruzione minuziosa, anche attraverso le voci dei protagonisti, una ricca bibliografia e citazioni sorprendenti di quella che forse è stata l’ultima controcultura, piccola utopia nata già fuori dalla legge, illegale in partenza. E proprio nella premessa di questo libro troviamo forse la risposta alle tante domande che ci siamo posti e la chiusura di questo breve ragionamento. Lo diceva Harvey Cox nel suo libro “La festa dei folli”, uscito prima del festival di Woodstock, preconizzando e formalizzando la festa come elemento fondamentale per la resistenza e la vita stessa della cultura, ed è nel progressivo perdersi di questo senso che la società si priva di una terapia dello spirito e degenera.

INTERVISTA

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MUSICA

VITTORIO COSMA

“La facoltà dello stupore” è il nuovo disco del musicista, compositore e produttore Un po’ salentino, un po’ napoletano, ormai milanese da anni. Vittorio Cosma è un musicista e un produttore di grande esperienza. Vent’anni dopo il suo esordio discografico solista con “Colpo di luna” ha da poco pubblicato “La facoltà dello stupore” (Sugar) che ospita, tra gli altri, Elisa, Howie B, Eugenio Finardi, Michel Houellebecq, i Solis Strings Quartet, l’Orchestra della Radio di Zagabria e l’Orchestra di Ennio Morricone, la Roma Sinfonietta. Nel corso della sua lunga carriera ha suonato con Premiata Forneria Marconi, Elio e le Storie Tese, Fiorella Mannoia, Marlene Kuntz, Samuele Bersani, Pino Daniele, Fabrizio De André, Enrico Ruggeri, Pacifico, Ivano Fossati, Almamegretta, Roberto Vecchioni, Mauro Pagani e molti altri. L’elenco sarebbe davvero sterminato.

Nel 2002 e nel 2003 è stato anche “maestro concertatore” della Notte della Taranta collaborando nella sua seconda edizione con Stewart Copeland con il quale ha poi instaurato un consolidato rapporto che prosegue ancora. Cosma è un personaggio poliedrico e dalla sua passione per la scienza sono nati i DeProducers. “La facoltà dello stupore” è il tuo secondo album solista. In mezzo ci sono tantissime esperienze e collaborazioni prestigiose e variegate. Ci spieghi il perché del cd e l’esigenza che ti ha condotto alla sua realizzazione? Dopo aver accumulato tanto materiale venuto fuori da progetti collettivi, ho sentito l’esigenza di fare un punto della situazione.


In questo disco ho messo insieme brani di vari periodi degli ultimi dieci anni. Colonne sonore, canzoni scritte al pianoforte, cose pensate con i Drepoducers. In qualche modo avevo bisogno di fare un percorso psicanalitico. Per presentare il disco, dopo tante esperienze con ensemble, gruppi e orchestre andrò in giro da solo con un pianoforte. Come dicevamo prima, negli anni hai davvero collezionato una mole impressionante di collaborazioni come musicista e produttore. È complicato catalogarti in un genere e anche questo disco è lo specchio della tua curiosità artistica. Ritieni la tua poliedricità un pregio o un difetto? L’ecletticità non credo sia un difetto. Essendo un curioso mi piace vedere, leggere e ascoltare un po’ di tutto dalle barzellette al cinema serio e impegnato. Solo nella lingua italiana il verbo suonare non è sinonimo di giocare o recitare. Qui da noi abbiamo divisioni nette. A me invece piace molto suonare pezzi che esprimono la mia parte più malinconica ma anche le cose “ginniche” con Elio e le Storie Tese. Credo che questa alternanza tra il serio e il non serio, tra le barzellette e Proust, sia parte dell’esistenza. L’ironia, per me, è l’altra faccia della medaglia della malinconia. In tutti questi anni ho sempre cercato di tenere viva la mia curiosità. C’è qualcuno con il quale ti piacerebbe collaborare o che ti è ancora “sfuggito”? Ti risponderei tutti e nessuno. Vedremo dove mi porta la marea. Tra le collaborazioni a questo disco spicca la voce di Elisa nel brano “Psychedelia”, completato poi tra lo studio di Björk e Zagabria. Ci racconti com’è andata? È un brano nato dalla collaborazione con i Masbedo e con lo scrittore Aldo Nove. L’arte dell’incontro genera sempre cose interessanti. Qualche anno fa chiesi a Elisa di partecipare a questa idea. Così è nato “Psychedelia”. Mi piaceva un brano nel quale si parlasse del lasciarsi andare anche alla bellezza psichedelica della natura.

Da alcuni anni porti avanti il progetto Deproducers con Gianni Maroccolo, Max Casacci e Riccardo Sinigallia. Il progetto nasce dalla comunione di sensibilità con Riccardo, con il quale lavoro da tempo. Poi volevo coinvolgere personalità diverse da me. Così è nato l’incontro con Maroccolo che stimo molto anche se ci muoviamo in generi diversi. Ma per questo progetto cercavo proprio ingredienti a me sconosciuti. Lui è davvero molto “psichedelico”. Infine Max Casacci perché mi sembrava importante coinvolgere artisti con carattere e personalità. Lui è un vero produttore oltre che un musicista. Razionale, attento alle novità. Dal nostro scambio continuo è nato il progetto. Adesso siamo al lavoro su “Botanica” che uscirà in autunno. L’ultima domanda è dedicata alla Notte della Taranta. Tu sei stato direttore artistico nel 2002 e nel 2003. In particolare la tua edizione con Stewart Copeland ha segnato un momento di svolta della manifestazione con l’arrivo di migliaia di spettatori e la nascita di una formula - quella dell’ensemble/orchestra con un Maestro Concertatore e gli ospiti - che ancora regge. Cosa ricordi di quel periodo e cosa pensi della Taranta oggi? Innanzitutto ho molta nostalgia perché in quegli anni e grazie ai successivi tour in giro per il mondo ho consolidato grandi rapporti di amicizia con alcuni dei musicisti e dei cantanti dell’ensemble. Mi spiace vederli così poco. Per fortuna da un po’ di anni incrocio il percussionista Alessandro Monteduro al Festival di Sanremo perché lui fa parte dell’Orchestra. Il mio rapporto con Copeland è iniziato dall’esperienza di Melpignano ma è proseguito nel corso degli anni. Ogni tanto sono stato ricontattato per qualche consiglio o qualche suggerimento in particolare da Sergio Blasi e da Sergio Torsello, con il quale avevo lavorato e che purtroppo è scomparso un anno fa. La Notte della Taranta, secondo me, ha rappresentato un’area ideologicamente molto bella e un nuovo modo di fare politica e cultura. Forse man mano quello spirito è stato un po’ cannibalizzato. (pila)


MUSICA

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NIDI D’ARAC

La festa per i vent’anni e il ritorno con It/Aliens “It/Aliens” è il disco che segna il ritorno dei Nidi D’Arac, la band guidata da Alessandro Coppola che da venti anni si muove tra dub, funk psichedelico, progressive, raggamuffin, hip hop, afro beat, new wave e canzone italiana. «Puoi indicare il genere che vuoi, comunque è giusto», scherza al telefono Alessandro. Leccese, dopo molti anni a Roma, si è stabilito da tempo a Parigi. Il progetto nasce a metà negli anni ‘90 e nel corso di questo ventennio ha cambiato molto forma mantenendo però pressocché intatta la sua sostanza. Il 5 marzo all’Angelo Mai di Roma è andata in scena una festa con i protagonisti di questa esperienza. «Per il concerto abbiamo invitato le diverse formazioni di questi anni. Da Her, Marco Viale, Luca Fortunato che hanno partecipato ai primi dischi con la Compagnia Nuove Indie sino agli attuali protagonisti. Quello era il gruppo salentino romano che, secondo me, ha segnato un’epoca», continua Coppola. «In quel periodo c’era una scena musicale propositiva con Almamegretta Agricantus, Daniele Sepe e molti altri». La carriera dei Nidi D’Arac è passata poi dalla Notte della Taranta di Melpignano dove, nel 2000, la band ha condiviso il palco nell’edizione guidata da Joe Zawinul, leader dei Weather Report. «Ricordo bene lo spirito

musicale altamente sperimentale con il quale il festival è iniziato nel 1998, perfettamente in sintonia con la nostra filosofia musicale, all’epoca ancora in fase evolutiva, l’idea era dunque: sviluppare e proporre dal vivo un repertorio inedito partendo da musiche e canti della tradizione salentina. I brani sarebbero nati da incontri tra realtà musicali locali (gruppi tradizionali, anziani cantori) e musicisti di fama internazionale, questi workshop avrebbero dato vita ad un repertorio musicale veramente originale». Dopo “‘Mmacarie”, “Ronde Noe - microchips sulla terra del rimorso” e, tra gli altri lavori discografici, “St. Rocco’s Rave”, nel 2007 con “Salento senza tempo”, il gruppo propone un ritorno al suono completamente acustico. «Nel corcerto di Roma abbiamo riproposto alcuni brani con la partecipazione del violinista Rodrigo D’Ersamo e con Vera di Lecce». Ovviamente non potevano mancare le canzoni di “It/Aliens”, disco prodotto da Goodfellas Records con il sostegno di Puglia Sounds Record. «Il disco racconta una generazione nata negli anni ‘70 e cresciuta negli ‘80. Musicalmente abbiamo costruito i brani in sala prove, suonando e arrangiando. Dentro ci sono tante citazioni musicali del nostro percorso collettivo e individuale che hanno scandito la nostra cre-


scita passando per gli anni ’90, i cantautori italiani, il progressive e molto altro». Nei testi si raccontano, invece, le alienazioni di una generazione. «Siamo nati con la promessa di un futuro positivo e migliore fatto di un nuovo mondo. E invece ci siamo ritrovati a fare i conti con un cambio epocale». Non a caso il primo singolo è “La meju gioventù” un brano che parte da una canzone tradizionale e che racconta in sintesi la storia dei tanti Coppola partiti dal Sud e arrivati all’estero per vivere e lavorare. «Anche il sogno americano non è più lo stesso. Una profonda oscurità attanaglia la nostra generazione. Nel brano Italiens raccontiamo la storia dei ragazzi nati nelle periferie del sud, tra calcio, chiesa e delinquenza». Le storie di questi italiani/alieni sono storie semplici come quella de “Lu pallunaru”, canzone nata dall’esperienza del cortometraggio “Danze di palloni e di coltelli” di Chiara Idrusa Scrimieri. Tornando al concerto romano, non è stato facile organizzare il raduno con poco tempo per provare e tre set diversi da allestire. «La nostra idea è quella di riproporre il concerto a Roma, Milano e spero tanto a Lecce». Magari come progetto speciale nel festival itinerante della Notte della Taranta. «Nelle ultime edizioni lo spirito originale iniziale si è un po perso e, tranne qualche eccezione per alcuni progetti speciali presentati nella parte itinerante, il festival ha preso una direzione più pop per avere più consenso nazional popolare. Mi rendo conto che viviamo in un’epoca in cui la musica si fa per avere consensi (web, talent show ecc.) così come sono consapevole che le centinaia di migliaia di turisti vorrebbero cantare e ballare sulle strofe dei brani tradizionali, ma a mio avviso il festival dovrebbe tornare ad irrobustire lo spessore culturale con il quale è partito», sottolinea Coppola. «Spero che con l’arrivo di Daniele Durante nel team, quest’anno la direzione proponga spettacoli più trasversali, in continua ricerca, che mettano le formule musicali in discussione, che possano sorprendere il pubblico per poi educarlo all’ascolto. Per più di 15 anni noi Nidi d’Arac abbiamo creduto e continuiamo a credere in questo spirito sperimentale del festival e speroche prima o poi la fondazione consideri le mie riflessioni e ne prenda spunto per le nuove scelte artistiche». (Pila)

MUSICA

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FIGLI DI ANNIBALE

Dopo la partecipazione nella colonna sonora del film del regista Davide Ferrario, nel 1998 esce il cd d’esordio “Mmacarie” che rappresenta un’assoluta novità nel panorama musicale internazionale.

SALENTO SENZA TEMPO

Ospiti del concertone della Notte della Taranta nel 2000 con Joe Zawinul, protagonisti del festival itinerante in molte edizioni, nel 2007 esce “Salento senza tempo”, album interamente acustico.

IT/ALIENS

Cinque anni dopo “Taranta Container”, il nuovo “It/Aliens” rappresenta un cambio di rotta, la visione del futuro ma anche il ritorno all’innovazione musicale che aveva segnato le origini.


MUSICA

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NO FINGER NAILS

Nuovo Ep per il progetto del producer Andrea Presicce “Burning Babylon” è il titolo del nuovo EP di No Finger Nails, progetto totalmente realizzato in homerecording dal producer Andrea Presicce (Preset). Il disco contiene otto tracce: tre vocals, due dub version, due remix della traccia che dà il titolo all’album, oltre ad un brano strumentale. è il quarto album della tua carriera e, dopo “Midnight Dub”, hai deciso di affidarti ancora una volta alla net-label francese Marèe Bass. Qual è il valore aggiunto di questa collaborazione ormai stabile? Mi hanno praticamente adottato, sono la mia famiglia all’estero. è stato tutto molto naturale, abbiamo cominciato scambiandoci musica comodamente seduti sul divano e abbiamo finito col produrre “Midnight Dub”. Ci siamo conosciuti di persona quando suonammo a Bordeaux due anni fa, in formazione con Andrea Miccoli alla batteria e Roberto Pisacane al basso. Così quando mi hanno chiesto di uscire con una nuova produzione per me è stato un grande onore e mi sono sforzato di far notare una crescita musicale rispetto a cinque anni fa. Sperando di esserci riuscito.

No Finger Nails ha sempre avuto nel dna la ricerca di collaborazioni esterne e la sperimentazione di sonorità nuove. In questo EP hai lasciato il microfono a Ranking Dee: quanto c’è di tuo nei pezzi vocali e quanto ha aggiunto Daniele con le sue liriche? Conosco Daniele Ranking Dee da tantissimi anni, ci siamo sempre trovati anche solo davanti ad un caffè a parlare di musica e ad ascoltare le reciproche produzioni. Ho sempre seguito il suo progetto Earthikal Towa Sound System e 1Bloodpromo, la sua label. Lo ritengo un autore eccezionale, tant’è che tutti i testi sono completamente scritti e ideati da lui all’interno di una direzione e di un messaggio concettuale chiaro che abbiamo condiviso confrontandoci insieme: quello di “Burning Babylon”, appunto. D’altronde per No Finger Nails la ricerca e lo scambio musicale sono sempre andati di pari passo con le amicizie e la condivisione di bei momenti. I remix della title track sono firmati da due nomi della scena dub nazionale ed europea come Michael Exodus (Dub-O-Ma-


tic Records) e Toffo Selektah (R.Esistence in Dub). Come mai hai pensato proprio a loro? Come ti dicevo tutto è sempre dettato da un rapporto di amicizia o semplice ammirazione che nasce in precedenza. Michael Exodus ad esempio l’ho conosciuto attraverso una radio francese: da subito mi sono sentito in sintonia col suo mood, così l’ho contattato e gli ho mandato la prima bozza di riddim del brano. Lui mi ha detto che già mi conosceva e che sarebbe stato felice di aiutarmi in questo progetto: voilà, nuovo amico e nuova collaborazione! Con Toffo Selektah invece? Personalmente sono un fan dei Resistance in Dub sin da quando sono stato stregato dal loro video “Dub Files – La Tempesta Dub” in cui il produttore/dubmaster Paolo Baldini mixa un loro brano su un banco da studio. Non sapevo nemmeno che fossero italiani e ho pensato «forse manco mi rispondono…». E invece anche qui ho trovato nuovi amici e persone sincere senza puzza sotto al naso con cui scambiare opinioni ed alimentare quelle collaborazioni che possono solo fare bene alla scena italiana. Il titolo di questo EP fa riferimento ad una classica metafora della tradizione roots&culture: bruciare Babilonia. Cosa vuol dire per te e che cosa è oggi Babilonia? Come tutte le metafore anche questa va contestualizzata all’interno della realtà che ognuno vive. Il “sistema” che ci circonda fa parte e influisce sulla nostra vita nel bene e nel male; anche se vorremmo in qualche modo sovvertirlo o migliorarlo lui è sempre lì, a giocare con le sue regole e le sue contraddizioni sociali ed è questo che volevamo raccontare. Per me Babilonia è tutto ciò che ci circonda, è quello che forzatamente siamo ma che non vorremmo essere. Io vivo quotidianamente queste contraddizioni e mi immedesimo anche in un operaio dell’Ilva di Taranto o di Cerano, oppure in chi il lavoro lo va a cercare all’estero lasciando la sua terra e i suoi cari. Babilonia è tutto questo e quello che possiamo fare è cambiare tutto ciò che si può cambiare.

Ci conosciamo da anni e sappiamo il tuo odio/amore verso il Salento. A mente fredda, che segni ha lasciato questa terra nelle tue produzioni (se li ha lasciati)? E sempre secondo te gli ostacoli e le difficoltà di lavorare in ambito artistico sono in qualche modo compensati dalla notorietà e dall’interesse che questa terra oggi riscuote anche all’estero? Ho vissuto in Salento per 21 anni ed ora, dopo una pausa milanese durata 10 anni, ci sono tornato da 5. Anche grazie alla bellissima e indimenticabile esperienza dei LiLLyNoiZ, ho vissuto gli anni in cui la musica, la politica e la mobilitazione artistica del territorio ci hanno dato quelle basi indelebili che ci portiamo ancora addosso. Da allora è cambiato tanto, sia da un punto di vista sociale, che da un punto di vista musicale/artistico. La visibilità che abbiamo avuto nell’ultima decade ci ha concesso di emergere a livello nazionale e internazionale, ma non ha smussato quegli ostacoli politici e culturali dovuti proprio all’arretratezza storica di questo territorio. è un lembo di terra pieno di contraddizioni, dove gli eventi, le “situazioni”, sono più importanti della musica che si propone e dove gli speculatori sono sempre dietro l’angolo. Ma probabilmente non andrei mai a vivere da nessun’altra parte… se non in Belize! Oltre all’Ep, abbiamo saputo dell’uscita di un vinile 10” in copie limitatissime … “Burning Babylon” è disponibile sul sito ufficiale di MarèeBass (mareebass.blogspot. it) e sulla mia pagina Soundcloud (soundcloud.com/nofingernails) in free download. E poi si, grazie a 1Bloodpromo siamo riusciti a tirar fuori in tiratura davvero limitata un 10” dove ci sono delle tracce dell’Ep ed una inedita special version dub fatta da me che nell’ep non c’è. L’idea è quella di far girare questo prodotto a chi suona e ascolta vinile, ai sound, a chi ha creduto in questo progetto e a tutti coloro a cui può piacere. E ringrazio anticipatamente chi lo farà! a cura di R&D VIBES trasmissione di cultura e musica roots & dub

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BALDUCCI/MAUROGIOVANNI

In “Cinema – Volume 1”, appena uscito per Dodicilune, i due bassiti pugliesi propongono un omaggio al mondo delle colonne sonore

Piero Piccioni, Michel Colombier, Ennio Morricone, John Williams sono alcuni dei compositori scelti dai due bassisti pugliesi Pierluigi Balducci e Vincenzo ‘Viz’ Maurogiovanni per “Cinema – Volume 1”, appena uscito per Dodicilune. Il disco (completato da due brani inediti) è, infatti, un singolare omaggio di due musicisti e compositori al mondo del cinema. Viz, ci racconti la genesi del vostro incontro e del progetto? Il nostro sodalizio artistico coincide con l’inizio di una sincera e solida amicizia, avvenuta qualche anno fa. Ci conoscevamo e stimavamo reciprocamente, e non appena si è presentata l’occasione abbiamo incrociato gli strumenti, e l’evento è servito a consolidare la stima reciproca che ci ha portati ad una collaborazione musicale duratura. Sono da sempre un grande appassionato di cinematografia italiana ed estera, e da tempo pensavo ad un documento che attestasse la mia passione per la musica da film, e che

nel contempo mi permettesse di esprimere la mia naturale propensione all’improvvisazione e composizione. Pensando alle trilogie cinematografiche quali quelle “Del dollaro” o del “Padrino”, ho voluto proporre all’amico Pierluigi la stesura di un album, primo di un ipotetico trittico un’opera che testimoniasse tale passione. Ho incontrato pieno consenso in Pierluigi, persona tanto colta quanto appassionata di novità e piena di fermento creativo. Pierluigi, scegliere i film non credo sia stato semplice. Come siete arrivati ai brani? Ed invece è stato semplice. Perché siamo partiti dalle emozioni trasmesseci dalle musiche. Diversi brani sono stati suggeriti da Viz, che tra noi due è il vero esperto di cinematografia. Ama così tanto il grande cinema, che i nostri lunghi viaggi in auto sono accompagnati da grandi film in dvd che il mio amico conosce a memoria e ama rivedere (o riascoltare se è alla guida) per cogliere ogni volta nuove sfumature e dettagli sfuggiti


prima. È stato Vincenzo a proporre i temi di Colombier e Morricone, quelli di Piero Piccioni e Klimek. Io dal canto mio ho voluto a tutti i costi le note struggenti di Schindler’s list e il tema de I girasoli di Mancini, già da me proposto nel lavoro con Mirabassi e Di Modugno (“Amori sospesi”). La nostra è in tutto e per tutto una affinità elettiva, e ciò ha reso tutto così semplice e spontaneo. Viz, qual è secondo te l’attuale situazione musicale in generale e del jazz in particolare in Puglia e in Italia? La Puglia è una regione in costante ascesa, ormai un punto di riferimento nel jazz internazionale. I suoi talenti, non sempre valorizzati in passato, ora stanno riscuotendo un maggior consenso grazie alla creazione di spazi adeguati alla fruizione di un genere musicale che altro non è se non il punto di unione tra Vecchio e Nuovo Mondo, un tesoro inestimabile da preservare e diffondere. I media dovrebbero occuparsene maggiormente, per abituare il pubblico alla fruizione della cultura, che mediamente versa in un periodo non felicissimo. Diffondere la cultura oggi equivale a porsi in prima linea per essa, schierarsi a favore della diffusione del bello ed educare le future generazioni all’introspezione, ad un pensiero nuovo basato sul reciproco capirsi e venirsi incontro, ad una salutare e fisiologica integrazione etnico-culturale e nel contempo ad un mantenimento delle proprie tradizioni, bagaglio umano ed artistico. Il Jazz è l’esatta metafora di tale stretta di mano tra popoli. Pierluigi, quattro anni fa con “Blue From Heaven” hai avuto l’occasione di collaborare con due mostri sacri del jazz mondiale, John Taylor e Paul McCandless. Ci racconti questa esperienza? Il lavoro uscì a fine 2012 per l’etichetta Dodicilune, con il nome “Blue from Heaven”. Era e resta un disco molto romantico nel senso etimologico del termine: musica che libera la fantasia e che fa immaginare mondi, cieli e sentieri lontani dalla dimensione del ‘qui ed ora’. Il tutto all’insegna dell’equilibrio da me amato tra la scrittura e l’improvvisazione. Metter su un quartetto con John Taylor e Paul McCandless e Miche-

le Rabbia è stato, come è intuibile, motivo di orgoglio per me. Ma nello stesso tempo, facendo musica con due musicisti quali Paul e John, che nella mia formazione sono stati dei punti di riferimento, delle guide, dei maestri, la sensazione che ho avuto da subito è stata quella di un’incredibile naturalezza e facilità: era come riappropriarsi di una parte di me stesso. Colgo l’occasione per rivelare, che questo quartetto potrà in qualche modo sopravvivere, seppure solo in forma discografica, al destino che di recente ci ha strappato John. Nei prossimi mesi vedrà la luce infatti un intero lavoro dedicato a Bill Evans, registrato dal quartetto nell’ottobre del 2014 e a nome di tutti e quattro. In questi giorni ne sto curando il missaggio, ed è davvero commovente potersi dedicare a questo lavoro in cui la figura di Taylor si mostra in tutta la sua statura e rivela la sua infinita poesia, interpretando Evans. Pierluigi, nel corso della tua lunga carriera hai collaborato con molti musicisti e per progetti molto differenti. Ti sei cimentato (con la voce di Serena Spedicato) anche nell’arrangiamento di un repertorio complicato come quello di Tom Waits. Cosa ci dobbiamo aspettare in futuro? L’esperienza bellissima, con Serena Spedicato, rappresentava una sfida molto difficile. Waits, di fatti, è un mostro sacro, e la sua pronuncia e la sua voce incredibile sono una cosa sola con i suoi brani. Scelsi allora di affrontare il repertorio cercando un’ottica ‘meridiana’ da cui guardarlo. E riascoltando il disco, penso che in gran parte dei brani Serena e tutto il gruppo siano stati bravissimi a dare dignità e autonomia a questa reinterpretazione ‘da sud’ di Tom Waits. Nell’immediato futuro intendo coltivare e dedicare amore ai tre gruppi nei quali sono coinvolto al momento: il duo con Viz, appunto, il trio degli Amori Sospesi con Nando Di Modugno e Gabriele Mirabassi, che è un’altra produzione Dodicilune, ed il trio Nuevo Tango Ensamble (sì, con la ‘a’, all’argentina), che fonde in una sua personale sintesi il ‘nuevo tango’ e il mondo del jazz. Credo di non potermi annoiare con tre gruppi così diversi e stimolanti.

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BANDINI

“Per colpa di emozioni clandestine” è l’esordio del cantautore salentino che vive da anni a Torino

Bandini, al secolo Gigi Cosi, è un cantautore salentino nato “sul mare” e trapiantato a Torino. Il suo primo album “Per colpa di emozioni clandestine” (Moov) è una raccolta di dieci tracce che raccontano la sua musica attraverso un acquerello di suoni e sensazioni. Il suo album parte e si conclude in malinconia (con “Perfetti” e “Sul tetto”). Nel mezzo, un carosello di parole e di musica che incuriosisce e spiazza l’ascoltatore perché si passa da brani freschi e spensierati come “La macchina danzante”, all’ironia de “La Nuova età del Jazz”. C’è poi una sorta di tributo al contrario ne “Il tempo dell’inchino”, brano nel quale Bandini riesce a ripercorrere in una poesia, quasi drammatica, i momenti del naufragio del “Giglio”. «Questo disco racchiude tutte le mie esperienze artistiche degli ultimi anni, quindi da un lato possiamo considerarlo l’arrivo di un percorso partito da lontano: c’è dentro il bambino che bazzica in radio a quattro anni, il ragazzetto che inizia a suonare il piano, l’adolescente che impara da autodidatta la chitarra e scrive le prime poesie, iniziando a mettere per iscritto nelle forme più svariate quel che vede e sente, da quegli “anni giovani” in poi. Se tutto questo un giorno si è condensato dando vita al Bandini cantautore, è perché ho sempre approcciato la vita pensandola come un lunghissimo viaggio, con tante tappe intermedie, ma continuo. Non mi sono mai

sentito arrivato anzi, per dirla alla Kavafis, mi sono sempre augurato e tutt’ora mi auguro che la strada sia lunga. Per cui non posso non dirti che questo album è anche (e soprattutto) un punto di partenza». “Per colpa di emozioni clandestine” è un album “vario”. Non è un disco rock, non è un disco folk e nemmeno swing. «È vero, il disco è un insieme composito di generi e approcci musicali. Ho lavorato in questa direzione consapevolmente perché assieme ai produttori abbiamo deciso di vestire le canzoni in maniera originale, con abiti freschi, evitando quella certa retorica di un cantautorato classico che mi è caro ma che non volevo imporre per forza all’ascoltatore. E mentre gli arrangiamenti che possiamo ascoltare venivano fuori, ci siamo resi conto che questa “epifania” mostrava frutti interessanti, e ci siamo convinti che l’approccio era quello giusto. Sono di parte e comunque non sta a me dire che abbiamo scongiurato il rischio altissimo di fare un guazzabuglio senza né capo né coda, ma – a giudicare da quel che mi hanno detto e scritto – per ora possiamo considerarlo un “azzardo” ben riuscito». Nel disco il cantautore è affiancato dalla “Bandina” composta da Gipo di Napoli (grancassa), Bandakadabra (fiati), Matteo Negrin (chitarra), Ila Rosso e Luciano De Blasi (voce). Simone Coluccia - Esco di Radio (intervista integrale sul sito Coolclub.it)


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LENULA Niente di più semplice Beta produzione/Goodfellas

ERMAL META Umano Mescal

A morte l’amore A morte l’amore GoodFellas

I Lenula si collocano in un luogo musicale indefinito, perso in rimembranze rock d’altri tempi e allo stesso tempo moderno, comunque radicato nel cantautorato italiano, cupo ma anche scanzonato. La musica dei Lenula è tutto questo. Rispetto al precedente “Profumi d’epoca” il nuovo “Niente di più semplice” è più ruvido, più rock se possibile (l’attacco dell’album sembra omaggiare il Dylan più elettrico) mette da parte alcune derive prog e si fa più blues. Anche la voce abbandona le reminiscenze di Capossela che spuntavano qua e là e si fa più ruggente. In generale è un disco che definisce un sound frutto di alchemiche miscele, coerente nelle sue divagazioni sul tema e per questo conturbante. Un trio virtuoso capace di tirare il freno, prendere aria psichedelica, pulsare caldo (la bellissima “Anime”) accodarsi a una “carovana spagnola” (“Primo giorno di scuola”) inscenare lo sghembo cabaret “Sogni di sempre”. Il resto è la migliore forma di rock italiano che mi viene in mente. (Op)

Alcuni lo ricorderanno come leader de La Fame di Camilla, Ermal Meta di origini albanesi naturalizzato italiano, adottato dalla Puglia, ha costruito in questi anni una solida carriera come autore di successi cantati da altri interpreti. Torna in prima linea, ci mette la faccia e la voce soprattutto, tutta la maturità compositiva sviluppata in questi anni e una chiave musicale nuova. Il risultato è un synth-pop che suona tanto moderno quanto anni 80. Una scelta accattivante che senza rinunciare alla qualità strizza evidentemente l’occhio alle radio. Dopo l’apparizione sanremese con “Odio le nuvole”, Ermal si lancia ufficialmente in un alveo musicale mainstream. Il suo elemento distintivo è sicuramente il timbro vocale immediatamente riconoscibile, qualità che trasferisce carattere alle sue canzoni. Con artisti come Pacifico e Diego Mancino, Ermal è una delle penne che fa bella la nostra canzone. (Op)

Arrivano da Manduria e sono un giovane trio composto da Giuseppe D’Amicis, Simone Prudenzano e Mauro Capogrosso. A Morte l’Amore, nel loro omonimo disco d’esordio (appena uscito per GoodFellas) propongono un sound distorto e aspro che ci riporta nel pieno degli anni ’70, tra disco e punk. L’atmosfera noir è nutrita da testi astratti e impersonali, senza alcun fine di denuncia sociale. La voce, dolce e contrastante, narra di una notte senza fine fatta di sangue, tradimenti e lussuria. Il primo videoclip è quello del brano “Giuditta”, il cui testo fa riferimento al dipinto di Caravaggio “Giuditta e Oloferne”. Può essere letto come la descrizione dell’episodio biblico in cui la donna decapita l’uomo, ma allo stesso tempo come la descrizione di un incontro erotico. L’amore non è odiato, come potrebbe far pensare il nome della band: è esaltato. Un amore fatto di desiderio, privo di abusi e commercializzazioni. Un amore che assorbe, cambia, mente. E uccide. Francesca Santoro


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ELISABETTA GUIDO The Good Storyteller Dodicilune

ENZO BECCIA Canzoni senza etichetta Autoprodotto

Telepathic DREAMBOX Telepathic dreambox Autoprodotto

A circa tre anni di distanza da “Let your voice dance” la cantante salentina Elisabetta Guido torna con “The good storyteller”, sempre prodotto dall’etichetta Dodicilune. Autrice e compositrice, potreste incontrare Elisabetta in un fumoso jazz club o in una chiesa a dimenarsi con i canti gospel. La poliedricità e la curiosità artistica sono le sue caratteristiche principali che troverete anche negli undici inediti, da lei interamente scritti o cofirmati, presenti nel disco e negli arrangiamenti delle due celebri cover “Crystal Silence” di Chick Corea e “The dry cleaner from des moines” di Charles Mingus e Joni Mitchell in una versione drum’n’bass curata dal batterista Francesco Pennetta. Completano la lineup il pianista Danilo Tarso, il sassofonista barese Roberto Ottaviano, il contrabbassista e bassista elettrico Stefano Rielli. Sorprende “Salento Rhapsody”, una piccola opera in tre movimenti che ospita, tra gli altri, Zimbaria e Francesco Del Prete.

Sono ironiche e leggere le “Canzoni senza etichetta” del cantautore foggiano trapiantato a Milano, Enzo Beccia. Attivo da oltre venti anni, insegnante di chitarra (ha scritto anche un manuale sulle sei corde), dopo le esperienze con Masnada, Monopolio di Stato, Equidistratti e Amomo questo è il suo esordio solista che arriva dopo alcune anticipazioni sul web. Autoprodutto e realizzato anche grazie ad una campagna di crowdfunding, il cd propone dodici brani freschi che rimandano alla migliore tradizione della canzone d’autore italiana. Scritte insieme alla compagna Fiorenza Sasso (che firma anche tutti i videoclip), parlano di cose semplici (amore, vita, “pensieri leggeri”, ricordi, precarietà) su sonorità soprattutto acustiche. «Nel disco ho suonato: le chitarre classiche, acustiche ed elettriche, il basso, il cavaquinho, il dobro, il mandolino, l’armonica, il kazoo, la batteria a pedali, ho programmato tastiere e batterie e soprattutto ho cantato tutti i brani». Alla prossima. (pila)

è uscito da qualche mese l’EP autoprodotto e omonimo dei tarantini Telephatic DreamBox, un disco intriso di garage, psychedelia e acid groove. Il suono è pieno, compatto e distorto al punto giusto e lo stile ammicca al garage psichedelico degli anni ‘80. Fuzz, voci riverberate, organo a palla. Non possiamo però parlare di “operazione nostalgia” questa è una band fottutamente attuale. Il disco si apre con “Acid Moon” ed è subito una massa distorta di chitarre che colpisce allo stomaco, in sottofondo un organo si sente a malapena ad accompagnare, lo stesso organo diventa protagonista nel resto del disco dalla seconda traccia in poi il pensiero vola a Ray Manzarek e ai Doors per il suono, ai Pink Floyd di Barrett e ai Chesterfield Kings per la costruzione dei brani tutti ben concepiti e arrangiati. Gli altri brani sono un viaggio lisergico nel garage rock più raffinato. “Fools” è uno strumentale diverso dal resto del disco, le sonorità sono più indie, dilatate e quasi noise. Un ottimo esordio. Cesare Liaci


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SOLO ANDATA

Lo scrittore Erri De Luca incontra sul palco il Canzoniere Grecanico Salentino La musica è un potente mezzo di trasporto e se è accompagnata dalle parole può diventare il punto di incontro tra realismo ed estremismo. Erri de Luca e il Canzoniere Grecanico Salentino regalano emozioni, come se facessero concerti da una vita. Il 9 marzo lo show “Solo andata” era nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. La partenza è forte. Tradizione salentina in musica per passioni vere. Gli applausi si scaldano ancora di più quando sul palco arriva lo scrittore campano, timido, magro e ironico come solo lui sa essere. Era stato accusato di istigazione a delinquere per aver detto che la Tav Torino-Lione meritava di essere sabotata. Il giudice gli ha dato ragione: il fatto non sussiste. La parola contraria non sussiste. Sulla vicenda Erri regala una battuta: «è sufficiente accompagnare con la musica le parole aggressive ed esse sono al riparo dal codice penale». Del resto, Paolo Pietrangeli non è stato indagato con l’accusa di istigazione alla violenza per aver cantato «Compagni dai campi e dalle officine prendete la falce impugnate il martello, scendete giù in piazza e picchiate con quello, scendete giù in piazza e affossate il sistema». Anzi, la canzone “Contessa” è diventata un simbolo del 1968. Erri de Luca allarga le braccia, gli sarebbe bastato criticare la Tav con un sottofondo musicale per essere salvo. “Solo andata” è un continuo alternarsi di musica e parole. Emozionante il

duetto di Erri con Alessia Tondo (in foto). Un altro momento nevralgico del live è “La questione meridionale” di Rina Durante. Poi si ritorna alla pizzica con “Fimmene Fimmene” e “L’acqua de la funtana”. Ed è difficile restare fermi al proprio posto. Il racconto di Erri continua, serrato e ricco di immagini. L’autore ripercorre la propria storia e si rivede muratore in Francia. Ci ritroviamo in una camerata di operai emigrati da ogni parte del mondo, un mix di razze, culture e tradizioni. Per molti di loro si è trattato di un viaggio di sola andata. Erri traccia allora un ideale parallelismo con l’accoglienza regalata dagli Stati Uniti a Ellis Island, «dove venivano battezzati milioni di nuovi cittadini americani. Un’emigrazione fatta di civiltà», mentre adesso le immagini dei migranti dei nostri tempi sono le peggiori. «Gli schiavi d’America – racconta Erri – erano pagati alla consegna. Adesso i migranti pagano per partire». Il racconto si fa duro, ed Erri ammorbidisce l’atmosfera con la sua esperienza a Lampedusa, sulle barche dei pescatori che al termine della notte recuperano i migranti finiti in mare. E ogni tanto capita di pescare una copia del Corano abbandonata tra le onde. L’ultimo regalo del Canzoniere è una vera e propria trasposizione emozionale. Il finale è danzante e allora non sembra più di essere all’Auditorium ma in una piazza del Salento. Lucio Lussi


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Kalàscima

I salentini sono stati l’unico gruppo europeo nel programma della Womex night al Sxws negli Usa, e gli unici italiani in concerto al Babel Med in Francia, tra le principali fiere musicali mondiali.

GIANLUCA PETRELLA

Il quarantenne trombonista pugliese, considerato tra i più talentuosi al mondo, che vanta collaborazioni prestigiose, sarà a breve in concerto per tre date tra Austria e Germania.

MINAFRIC ORCHESTRA & FARAUALLA

L’ensemble guidato da Pino Minafra e il quartetto vocale Faraualla propongono un repertorio tra jazz, banda e suoni dell’Africa e del Mediterraneo. Il 23 aprile sul palco del JazzaHead! di Brema

PUGLIA DA ESPORTAZIONE «Riportiamo a casa tantissime esperienze umane ed artistiche e la sensazione di essere molto più vicini di quello che crediamo, figli degli stessi padri, foglie di un unico ramo, piantato a volte in terra straniera, come le viti della Vale dos vinhedos, con la certezza che un seme forte e una terra accogliente, possano produrre ottimi frutti»: racconta così la sua esperienza in Brasile il musicista e compositore Claudio Prima. Lì ha messo in scena e portato in cinque città “Arrivi e partenze”, spettacolo diretto dal regista brasiliano Marcelo Bulgarelli, del quale è protagonista con la danzatrice e attrice Stefania Mariano, coreografa della Fabbrica dei Gesti. Un piccolo tour sostenuto grazie al bando “Puglia Sounds Export”. In questi anni il programma per lo sviluppo e la promozione del sistema musicale della Regione Puglia, attuato dal Teatro Pubblico Pugliese, ha promosso e sostenuto (come si vede sull’agile mappa in home sul sito pugliasounds. it) quasi 900 concerti in giro per il mondo. Dall’Australia agli Stati Uniti, dal Sud America all’Africa passando per l’Asia e quasi tutte le nazioni europee, i gruppi pugliesi hanno potuto proporre i propri repertori nei cinque continenti. All’ultimo bando (riferito alle attività del 2016) hanno risposto in tanti. Almoirama, Canzoniere Grecanico


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“Arrivi e partenze” - foto Arthur Amaral

SOFIA BRUNETTA

Ad aprile la cantautrice porterà in giro tra Germania, Belgio e Francia i brani del suo album “Former” - prodotto in collaborazione con Giovanni Ottini - appena uscito anche sul mercato estero.

Salentino, Baroque Ensemble, Bolero, Gianluca Petrella, Kalascima, Matteo Bortone, Misga, Moustache Prawn, Mynah, Populous, Radiodervish, Renzo Rubino, Sofia Brunetta, Tarantula Garganica sono già in viaggio o sono in partenza. Puglia Sounds - che in questi anni ha anche sostenuto la promozione di centinaia di dischi e nuove produzioni - è sempre presente nelle principali fiere musicali in giro per il mondo. Dal 13 al 16 marzo la musica pugliese ha avuto ampio spazio al SXSW ad Austin in Texas all’interno dello stand italiano con Fimi - Federazione Industria Musicale Italiana e ITA – Italian Trade Agency. Dal 17 al 19 marzo la carovana si è spostata al Babel Med di Marsiglia. Interessante anche l’appuntamento a Budapest dove Nicola Conte, Populous, Kalàscima, Puglia Jazz Factory, MEry Fiore e Redrum Alone si sono esibiti nell’ambito dello Sziget City Spring (in programma dal 5 marzo al 1 aprile nei più importanti live club della capitale Ungherese) come succosa anteprima di uno dei più importanti festival europei. E nei prossimi mesi Puglia Sounds sarà presente a Jazzahead! di Brema (21-24 aprile), Sound of the Xity di Pechino (29-30 aprile), Jazz in Seul (6-8 maggio), Classical:NEXT di Rotterdam (25-28 maggio), Liverpool Sound City (28-29 maggio).

Officina zoè

Uno dei gruppi simbolo della rinascita della musica popolare salentina rappresenterà la Puglia al Festival della Musica Sacra di Fés, in Marocco, previsto dal 6 al 14 maggio.

SUD SOUND SYSTEM

A giugno, per la prima volta, approda a Kingston in Giamaica, nella patria del reggae, la band che ha portato in Italia i ritmi in levare legandoli al dialetto.


KEEP COOL - Dall’Italia e dal mondo Jeff Buckley You and I Columbia Quando qualcuno che ami se ne va troppo presto vorresti trattenere tutto il possibile di lui, cercare nei cassetti ogni ricordo possibile. Succede anche in musica. Le uscite postume sono sempre pericolose, non fosse altro perché non rispondono alla volontà dell’artista. Ma non si può rinunciare ad ascoltare ancora per un po’ la voce di Jeff. Quel suo modo “unico” di interpretare le canzoni degli altri e alcuni bozzetti di quello che sarebbe diventata un’opera d’arte. Per nostalgici e collezionisti.

Bob Mould The end of things Merge records Smentita la notizia di una possibile reunion degli Husker Du, Bob Mould sforna un altro disco. Il legame con certe sonorità per ragazzi targati anni ‘70 come me è indissolubile, la furia pop, i muri di chitarre, la melodia e il rumore. Una passione che ritroviamo quasi calligrafica nei Foofighters, solo per citare una band famosissima che molto gli deve. La formula è, fortunatamente, sempre la stessa, la band di Mould gira benissimo, conciliando il “fortissimo” il “piano” il “pianissimo”. Sconsigliato a chi soffre di cervicale.

Iggy Pop Post pop depression Loma vista recordings Cosa ci fanno Iggy Pop, Josh Homme dei Queen of the stone age, Dean Fertita (Dead Weather), Matt Helders (Arctic Monkeys), Troy Van Leeuwen (anche lui dei QOTSA) e Matt Sweeney (Chacez) insieme? Un grande disco. Basta ascoltare “Gardenia” per capire quanto la vita di Iggy Pop sia intrisa di quella appena finita di Bowie. È l’album di chi resta, un luogo per esorcizzare le paure. Quelle del Bataclan dove Homme doveva essere insieme agli Eagles of death metal. Un disco mistico e desertico, di pietre e di sangue.


a cura di OSVALDO PILIEGO

Tre allegri morti Inumani La Tempesta dischi Quello che ho sempre apprezzato nei Tre Allegri Ragazzi morti è la capacità di evolversi negli anni. Solitamente esiste un momento, nella carriera di una band longeva, in cui qualcosa si ferma e tutto quello dopo è solo un eterno ripetersi. E invece no, i Tarm sono una band in continua crescita. Dopo il punk, il reggae, lo swing, arriva questo nuovo album in cui si avventurano in una lettura sempre personalissima della cumbia. La collaborazione con Jovanotti dà una spolverata pop al tutto, aprendo nuovi inaspettati scenari.

Motta La fine dei vent’anni Woodworm Dopo due dischi con i Criminal Jokers, la collaborazione con Nada e il tour con Pan del Diavolo e Truppi il polistrumentista Francesco Motta fa sintesi e diventa semplicemente Motta. “La fine dei vent’anni” è il suo nuovo esordio, un nuovo inizio, la chiusura di un tempo e l’inizio di una nuova stagione. Prodotto da Riccardo Sinigallia il disco si presenta come una cartina tornasole che esplora vari gradi di acidità della scrittura di Francesco che sa essere anche decisamente pop. Su tutto aleggia un velo inquietante che rende tutto più vibrante.

Ray Lamontagne Ouroboros RCA Ray Lamontagne è uno dei songwriter più interessanti di questi ultimi anni. Uno di quelli che riconcilia tutta la nostra nostalgia degli anni d’oro del folk traghettandola verso una visione nuova. E visionario è anche questo nuovo disco che supera le atmosfere crepuscolari dei precedenti per diventare notturno. Si elettrizza infittendo alcune trame psichedeliche, si dilata e si irrobustisce allo stesso tempo, si fa mistico e terreno. Se vi piacciono Jonathan Wilson, i Pink Floyd o Iron and Wine siete sulla buona strada.


DARIO MUCI

Il musicista e cantante prosegue le ricerche sulla Barberìa e sui canti tradizionali del Salento Musicista, cantante e ricercatore tra i più attenti e sensibili nel percorrere i sentieri meno battuti della tradizione musicale salentina, Dario Muci negli ultimi anni ha concentrato le proprie esplorazioni sonore verso il repertorio delle barberìe. In particolare ha lavorato a stretto contatto con il maestro Antonio Calsolaro, straordinario mandolinista ed arrangiatore, ma soprattutto ultimo erede di una storica famiglia di barbieri-muscisti. A tre anni di distanza da “Rutulì. Barberia e canti del Salento” (Lupo Editore) in cui erano raccolti i primi frutti di questa ricerca, lo ritroviamo con “Barberìa e canti del Salento vol.II” (Anima Mundi con il sostegno di Puglia Sounds Record), album che prosegue il percorso iniziato e ne amplia il raggio, riportando alla luce le sorprendenti connes-

sioni tra la musica colta e quella popolare. Abbiamo intervistato il musicista salentino per farci raccontare questo suo nuovo progetto, focalizzando la nostra attenzione verso la scelta dei brani, gli arrangiamenti e le modalità di ricerca. Com’è proseguita la tua ricerca in questi tre anni? Dopo “Rutulì”, ho continuato a frequentare la casa del maestro Antonio Calsolaro e ho avuto modo di scoprire altri materiali preziosi. Musiche interessanti che suonava il padre, spartiti collezionati perfettamente e un’infinita raccolta di ballabili, che probabilmente vedranno la luce in un prossimo lavoro. L’intento era quello di raccontare attraverso le immagini la storia di quest’uomo


e della barberia. Il maestro Calsolaro ha curato gli arrangiamenti anche di quest’ultimo lavoro. La freschezza delle sue composizioni ha dato vita ad un suono nuovo, in bilico tra la musica d’epoque degli anni Venti e la musica contemporanea. Uno stile unico, più maturo e differente rispetto al primo volume, ed in questo senso mi piace citare un brano di notevole importanza “Oh Rondinella”, composta per chitarra classica e voce. Quale percorso nella tradizione salentina hai voluto tracciare con questo nuovo disco? Non ho segnato un percorso e mi sento di aggiungere che non ho scoperto nulla, ma ho semplicemente puntato i riflettori su uno stile musicale, scomparso definitivamente in Salento. Più che un percorso ho voluto far conoscere un aspetto della nostra musica che io amo definire come musica popolare “cittadina”, messa da parte inconsapevolmente dall’avvento della pizzica pizzica e prima ancora dall’arrivo dei grammofoni, della radio e della televisione. Con che criterio hai scelto i brani da inserire? Scoprire e suonare brani nuovi mi spinge a sfogliare vecchi e nuovi volumi di materiale etnomusicologico che, nonostante la forte crisi del settore, si è rivelato importante per la presenza di contenuti interessanti dal punto di vista musicale e letterale. Al disco hanno partecipato anche le voci delle Sorelle Gaballo, già oggetto di una tua ricerca di qualche anno fa, e quelle dei cantori di Zollino. Quanto è importante riscoprire queste voci? Loro, come tanti altri, sono la mia vita e la mia quotidianità. Non riuscirei a fare niente senza le fonti. è importante frequentare le loro abitazioni per cantare e arricchirsi di storie che appartengono ormai ad un mondo perduto ma che fanno parte della nostra terra e della nostra musica. Come hai scelto gli altri strumentisti che hanno preso parte al disco? è il metodo di sempre, scelgo i musicisti che più mi trasmettono sensazioni, che mi fanno “rizzicare li carni” quando si esprimono

IN DVD UN DOCUMENTARIO SULLA STORIA DEL MAESTRO ANTONIO CALSOLARO “Barberìa e canti del Salento vol.II” include anche un dvd con il documentario su Antonio Calsolaro, ultimo depositario dell’antica tradizione musicale delle barberie, firmato dal regista Mattia Soranzo. «Sulla sua famiglia ci sarebbe da fare un lavoro a parte. Il padre barbiere era un grande virtuoso di violino e mandolino che ha insegnato ad Antonio e alla sorella Linda la conoscenza della musica e della composizione. La sorella era perfetta nell’impostazione e nella tecnica tanto è vero che è stata allieva dei più grandi chitarristi classici del ‘900, tra cui Segovia che inizialmente non volle credere che il suo maestro era stato il padre barbiere», sottolinea Dario Muci.

con il proprio strumento. Per me non è importante la tecnica, ma l’anima. Alle corde chiaramente c’è Antonio Calsolaro, poi Massimiliano De Marco, Giuseppe Caggiula, Valerio Daniele e Mauro Semeraro. Gli arrangiamenti dei fiati sono curati da Emanuele Coluccia. Poi ancora, Rocco Nigro, Vito de Lorenzi ed altri ancora. Nel disco sono presenti due brani classici come le Barcarole di Offenbach e Mendelssohn. Com’è nata la scelta di inserirli? “Barcarola “Belle nuit o Nuit d’amour”, di Jacques Offenbach e “Barcarola “Veneziana” op.30 n°6” di Felix Mendelssoh Bartholdy sono due brani classici conosciuti, entram-


bi trascritti per mandolino da Antonio Calsolaro. Alcuni barbieri avevano due repertori differenti; uno serviva a far danzare le persone nei contesti di festa, tipo festini privati, di fidanzamento, matrimoni; e per questo si eseguivano i famosi ballabili nella forma tipica di polche, mazurche, valzer, quadriglie. Il secondo repertorio era detto d’intrattenimento che serviva appunto ad intrattenere gli invitati nelle dimore borghesi dei “Don” quando il padrone di casa voleva che si suonasse solo musica raffinata. Queste due barcarole venivano eseguite con grande maestria dal padre di Antonio, Vincenzo Calsolaro e da una piccola orchestrina di strumenti a plettro. Quali sono le identità e le differenze tra questo disco è il primo volume? In “Rutulì” cantavano con me gli amici cantanti e rappresentanti della musica popolare salentina nel mondo; voglio ricordare Claudio Cavallo, il fratello Mino, Giancarlo Paglialunga, Antonio Castrignanò, Massimiliano De Marco. In quest’ultimo disco invece cantano le fonti, gli anziani: Le sorelle Gaballo e i Cantori di Zollino. Il repertorio di questo secondo volume è più ricco di stru-

mentali perché, oltre alle barcarole sopra citate, trova posto una mazurka del padre di Antonio e un valzer anonimo con un finale dello stesso Calsolaro. Una chicca del nuovo disco è anche “Lecce terra mia”, un testo di Cesare de Santis di Sternatia, padre di Rocco e del compianto Gianni. Anche lo stile e gli strumenti sono diversi: ci sono i fiati da banda (tuba, sax, clarinetto, trombone) e fiati in legno (oboe, fagotto..) che non erano presenti nel primo. Quanto c’è ancora da scoprire del repertorio legato alle barberìe? C’è ancora tanto da scoprire e da ascoltare. è un peccato che non ci siano circoli mandolinistici nel Salento per approfondirne lo stile. Con Giuseppe Conoci di Anima Mundi, editore del disco, stiamo pensando ad un disco di soli ballabili. Vedremo cosa ne pensa Antonio. Io sono già pronto. Quali sono i tuoi progetti e le tue ricerche future? Gli anziani e l’elettronica insieme; ci sto lavorando da un po di anni. Vedremo cosa succederà. Salvatore Esposito


UARAGNIAUN

Il trio di Altamura torna con “Primitivo” Uaragniaun sono come un amico a cui ritorni nei momenti del bisogno, quando i punti di riferimento sembrano smarriti. Ecco che ti ritrovi nel conforto della condivisione con chi ti conosce a fondo. Così è per “Primitivo”, disco in cui ci tuffiamo alla ricerca di passione e raffinatezza sposate a rigore artistico, di amore per il canto antico, di una voce che ti riempie l’anima. Insomma, in “Primitivo” ci riconciliamo con l’essenza del trio altamurano composto da Maria Moramarco (voce), Luigi Bolognese (chitarra e voce), Silvio Teot (percussioni) che si è sempre configurato come un laboratorio di condivisione di esperienze: non sfugge a questa motivazione il nuovo album, in cui sono presenti collaboratori di vecchia data come Filippo Giordano (violino, viola), Nico Berardi (zampogna, flauto) e Pino Colonna (fiati) decisivi anche nella costruzione degli arrangiamenti. Ci sono poi l’ottimo Carlo La Manna (contrabbasso) e Alessandro Pipino (toy pano, organetto), che oltre ad impreziosire i brani con i suoi strumenti, interviene anche in fase di registrazione. E poi i “pargoli” di famiglia: Michele Bolognese (mandolino) e Nanni Teot (tromba, flicorno, cornetta, voce). Nel disco suonano illustri amici-ospiti: Vincenzo Zitello (arpa celtica e bretone), Daniele Di Bonaventura (bandoneon) e i galiziani Mil-

ladoiro, con cui i pugliesi hanno condiviso il palco in un’edizione del festival che dirigono, Suoni delle Murge, presso i ruderi del castello normanno-svevo di Gravina in Puglia. Se il precedente disco, “Malacarn”, riluceva per i tratti ‘barocchi’ della sua elaborazione sonora, con “Primitivo” gli Uaragniaun si volgono a un suono che è sostanza, ma che possiede una scrittura meno ridondante e più diretta. «La scelta del titolo “Primitivo” non è casuale, risponde a un’esigenza di essenzialità degli arrangiamenti, per cercare di rimanere più vicini alle linee melodiche del canto di tradizione», sottolinea Maria Moramarco. «Con questo lavoro, in effetti, ci siamo posti l’obiettivo di essere più semplici nella struttura dei suoni, cercando di evitare sovrapposizioni, e di porre al centro della nostra attenzione il racconto cantato». Si tratta del decimo album dei pugliesi, dal titolo polisemico, perché oltre ad essere un richiamo all’immediatezza che sprigionava dal loro lavoro d’esordio, “Uailì”, pubblicato venti anni fa, è anche un tributo alle fonti dei canti, quelli che nelle note di presentazione sono definiti i “vitigni antichi” (le voci dei testimoni della tradizione si possono ascoltare in frammenti che fanno da incipit in alcuni brani). Ciro De Rosa


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LUCIANO PAGANO “Beati i puri” è il nuovo romanzo dello scrittore ed editore Luciano Pagano è stato un pioniere in Puglia e in Italia della scrittura on line con il suo sito Musicaos.it. Da sempre intellettuale attento e puntuale ha pubblicato tanto in rete e su carta. “Beati i puri” è il suo terzo romanzo, uscito con Musicaos, la sua casa editrice da poco fondata che rende fisico il suo lavoro fino ad ora solo sul web. Il libro è la storia di una famiglia: il rapporto morboso tra due fratelli è il punto di partenza per raccontare l’Italia di oggi, per esplorare le culture che abitano il paese e regalarci un nuovo classico.

“Beati i puri” è Il libro nel libro, il tuo romanzo esplora vari livelli narrativi, è racconto, sceneggiatura, si interroga sulla scrittura, è un diario. Come hai conciliato tutte queste prospettive? Ci è voluto del tempo, e del lavoro svolto su ognuno dei livelli coinvolti, per fare in modo che uno non prevalesse troppo sugli altri, correndo il rischio di avere avuto un paio di intuizioni interessanti, ma di sciupare poi la materia. Ho lavorato in due fasi, una durata quasi tre anni, dal 2010 all’estate del 2013. Poi ho ripreso tutto dopo aver lasciato il ro-


manzo ‘fermo’ per quasi un anno, periodo in cui ho letto, lavorato, studiato e scritto altro. Quando ho ripreso la stesura del manoscritto ho avuto subito l’impressione che la storia ci fosse ancora, ma che dovevo leggere e riscrivere molto per fare in modo che il risultato fosse simile a ciò che volevo: un romanzo in cui le diverse storie, passate e presenti, si intrecciano, svelando a poco a poco ciò che accade, e facendo vivere al lettore gli umori e i pensieri dei personaggi, da dentro. Mi piace mescolare i diversi linguaggi ma non mi piacciono, per intenderci, quei romanzi in cui l’autore ammicca al lettore, rendendolo complice dello slittamento da uno stile a un altro, del tipo, guarda qua, adesso stai leggendo una lettera, e qui si tratta di un pensiero, etc. Uno degli scrittori che preferisco, proprio per la sua scrittura senza soluzione di continuità, è Saramago. Riuscire a far andare di pari passo il racconto, l’evoluzione dello stesso, la lingua, è una cosa su cui c’è sempre da lavorare. È anche una riflessione sullo stato della cultura in Italia divisa in fazioni. Da una parte il successo dall’altra la ricerca. Quello che è di moda indipendente o commerciale finisce poi per incontrarsi in un limbo in cui si perdono di vista i punti di riferimento… La ricerca e il momento della scrittura, per tutti gli artisti, sono secondo me i momenti di godimento più alto, a volte più della stessa contemplazione, lettura o ascolto dell’oggetto finito. Il loop cerebrale in cui ti porta provare e riprovare uno stesso suono, parola, gesto, brano, è un limbo in cui tempo e spazio si annullano. Quando scrivo qualcosa di nuovo capita che nel tempo che intercorre tra pubblicazione e stesura, a parte le letture, c’è una fase di azzeramento di tutto, fino a riprendere la scrittura da zero, in un certo senso è come desiderare di scrivere sempre “nuovamente “, ritornare analfabeta, imparare dall’abc. Anche se poi ti accorgi che c’è una direzione in tutto questo, una

provenienza. Nel mio romanzo cerco di raccontare quella specie di “magma” dove coesistono cultura di ricerca sul campo e cultura di ricerca baciata dalla fortuna, sfottendo un po’ quando serve, perché se da un lato non bisognerebbe giudicare (chi?), dall’altro non bisognerebbe mai prendersi troppo sul serio, avere il coraggio di togliersi la benda e ammettere gli sbagli. E poi c’è il successo, che segue delle regole ferree, per cui, come capita a un certo punto ai personaggi di “Beati i puri”, non si decide più per se stessi, ma si è decisi. Anche il successo però è frutto di condivisione, non è mai solitario. Ecco perché nel romanzo chi insegue il successo in modo vanesio, idiota, come Ruggero, rovina, perché il successo arriva quando una serie di persone che circondano il protagonista si accorgono che Andrea sembra fottersene abbastanza. Come nel nuovo “Purity” di Franzen anche nel tuo libro la famiglia è centro. Famiglia come origine di tutto e soprattutto dei nostri mali, covo di mostruosi segreti, luogo da cui fuggire. È una cosa che ho capito col tempo, e che difficilmente abbandonerò. La famiglia, in questo romanzo come nel precedente che ho scritto, è il luogo, è lo scenario, è il teatro dove tutto accade. Le famiglie non si somigliano mai, i fratelli e le sorelle, i loro rapporti, non sono mai identici. L’amore, l’odio, o l’altalena di sentimenti che si provano per chi ci ha messo al mondo cambiano a seconda degli anni, maturano, si spezzano o si rafforzano. Mi piace raccontare ciò che accade al di qua delle porte chiuse di una famiglia. Di Franzen, in particolare, mi ha colpito, in “Libertà”, la descrizione del rapporto tra il padre studioso e il figlio che fa successo in modo spudorato, senza le buone maniere alle quali il genitore vorrebbe che rispondesse, in modo quasi automatico. Nella famiglia non ci sono ovvietà, ci sono sguardi, languori di stomaco. Io stesso ho capito alcune cose di mio padre solo con la scrittura


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- mia - o con la lettura, frugando tra i libri che leggeva quando aveva venti anni, e trovandoci autori (Bellow, Betty Smith, Calvino, Stendhal, Jack London) di cui non mi ha mai detto nulla. La famiglia ti cresce, ti condiziona, ti aiuta o ti ostacola, a volte ti uccide. Anche i luoghi hanno un ruolo importante. Da una parte la provincia, Lecce, dall’altra Roma, la città. Sono due momenti narrativi ben distinti, due mondi e due modi che analizzi in profondità… Lecce è la provincia che ambisce sempre a essere qualcosa di più, certe volte con esiti ai limiti del parossismo. A esperienze riuscite si affiancano miriadi di tentativi andati a vuoto. Roma, con tutte le sue contraddizioni, è una Città Stato, l’unica di cui, almeno in apparenza, non ci sia nessuno che abbia il coraggio di esserne il Sindaco, perché come tutte le città-stato forse ambisce ad avere un presidente, un secondo Papa. Berlusconi che candida Bertolaso è una metafora, è ammettere che al governo si sostituisce la gestione dell’eccezione, del disastro, che la quotidianità non esiste perché non si cerca nemmeno il rapporto con la gente, fuori dalle urne. I momenti nel romanzo si alternano e si confermano con l’ultimo, che non a caso si intitola “Roma, ancora”, a prefigurare che il viaggio intrapreso da Andrea non lo riporterà a Lecce. Sei stato uno dei primi a “investire” sulle possibilità del web, quanto credi che la scrittura stia cambiando, si stia evolvendo in funzione del digitale? La scrittura è diventata “le” scritture, oggi ad esempio ti capita di parlare con persone che ti dicono “pubblico le mie poesie, se vuoi puoi leggerle su facebook”, se poi gli dici che, come editore, preferiresti leggere su un file le trenta poesie che hanno scritto e alle quali tengono di più magari non sanno da che parte cominciare a togliere, tagliare via, delimitarsi. La scrittura è anche scelta di tutto ciò che va tolto. Le possibilità di scrittura e pubblicazione, oggi, sono infinite, ci si aspetterebbe quindi che le persone, rispetto a dieci anni fa, siano tutte diventate più lettrici. Non è così perché la lettura è un percorso personale. La scrittura invece è

sempre la solita storia, ci sei tu che hai vissuto qualcosa che ritieni importante per ciò che ti ha lasciato dentro, per l’esperienza, il viaggio che ti ha fatto fare, per le emozioni e per i sorrisi, ti metti davanti a una superficie immacolata, e inizi a ricordare. Quando ho scritto “Beati i puri” ho deciso di suddividere la storia in momenti brevi, e qui potrei dire che la frammentarietà nasceva da un’esigenza di accogliere questa “istanza digitale”, poi però ci ho preso gusto perché mi sono accorto, rileggendo, che questo tipo di montaggio era molto filmico, e questa cosa mi divertiva. La creazione è sempre un passo avanti al mezzo che la ospita, perché è imprevedibile. Possiamo già dire oggi che i tablet di domani saranno sottili e pieghevoli come un foglio di carta, che tutta la letteratura prodotta negli ultimi diecimila anni sarà contenuta sulla punta di uno spillo, ma non puoi dire, oggi, quale romanzo, e con che stile e argomento, verrà scritto domani mattina. Bisognerebbe essere capaci di scegliere la propria scrittura. La scrittura sta cambiando tantissimo, e bisogna essere capaci di adeguarsi con creatività a ciò che offre un nuovo mezzo, senza farsi irretire dai cambiamenti che invece sono imposti dal mercato, che coesiste nello stesso mezzo; faccio un esempio, difficilmente dieci anni fa a qualcuno sarebbe venuto in mente di intitolare un articolo: le sette cose che devi sapere, i dieci libri che devi leggere, etc. etc. Si tratta di scrittura che non cambia per influenza del blog che la ospita, ma dei video o banner pubblicitari. Tre anni fa ho pubblicato “Il romanzo osceno di Fabio”, tutto su Twitter, con lo slogan ‘il primo romanzo italiano scritto in tweet’, e poi da lì su Amazon. Mi sono esercitato su una forma brevissima, ma con la struttura di un romanzo tradizionale, è diventato il primo ebook di Musicaos, nel 2012; tutto digitale, e poi cartaceo, però l’idea in testa me l’ha messa il libraio scrittore Luigi Tarantino. Nella scrittura non si possono avere pregiudizi, solo pazienza. Se avessi avuto pregiudizi nei confronti di un mezzo piuttosto che un altro, avrei avuto una scrittura di meno. Osvaldo Piliego (intervista integrale sul sito Coolclub.it)


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MARIA PIA ROMANO Dimmi a che serve restare Il Grillo Editore

AA.VV. Io non taccio Edizioni CentoAutori

Loredana de Vitis Amori in cottura IlMioLibro

Nel panorama editoriale salentino Maria Pia Romano è sicuramente una delle autrici più continue e attive. Si muove tra giornalismo, narrativa e poesia da molti anni. “Dimmi a che serve restare” è il suo quarto romanzo uscito qualche mese fa per Il Grillo Editore. La storia parte da Gallipoli nella calda estate del 2005 e prosegue lungo dieci anni, accompagnata dalla musica e dalle parole dei Negramaro. Schizzo e l’amico Luroccu a causa della morte improvvisa del cognato Paolo sono costretti a saltare il concerto della band di Giuliano Sangiorgi a pochi minuti dall’inizio. Da questo drammatico evento si incrociano le storie e l’eleborazione del dolore e del lutto dei parenti di Paolo (padre, figlio, moglie) e del suo “segreto”. Dieci anni di incontri, pensieri, rivelazioni, sogni e tanto mare attraversati e cadenzati dalla carriera del gruppo salentino. Un romanzo che conferma ancora una volta la sensibilità dell’autrice e le sue domande non banali sul senso della vita e dell’amore.

C’è anche la storia di Marilù Mastrogiovanni tra le otto scelte per “Io non taccio. L’Italia dell’informazione che dà fastidio” pubblicato da Edizioni CentoAutori con la prefazione di Giandomenico Lepore, già procuratore della Repubblica di Napoli. Classe 1969, originaria di Casarano, in provincia di Lecce, dopo gli studi e l’esperienza maturata fuori dal Salento, nel 2003 fonda, insieme al marito Mario Maffei, il mensile d’inchiesta “il Tacco d’Italia”, per molti anni in edicola e poi solo come quotidiano online. Nel racconto “L’ultima Thule” ripercorre la sua storia e le sue inchieste, tra minacce subite, querele intimidatorie, l’attacco hacker che ha crashato il sito, la difficoltà di tenere insieme famiglia e lavoro, il recente libro sulla Xylella e i dieci motivi per cui ha scelto di restare. Il libro ospita anche i racconti di Federica Angeli, minacciata per aver parlato della mafia ad Ostia, Giuseppe Baldessarro, Paolo Borrometi, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, David Oddone e Roberta Polese.

Dopo “Welcome to Albània”, “Storie d’amore inventato” e “Tanto già lo sapevo” (premio della critica attribuito dalla Scuola Holden, 2012) la giornalista e scrittrice Loredana De Vitis torna con “Amori in cottura. 15 ricette per quello che dura” che ha conquistato il premio “miglior libro” di racconti per “Ilmiolibro”. «Il cibo, crudo o cotto, dolce o salato, semplice o elaborato, conosciuto o ricercato, è il filo rosso che tiene assieme i racconti di questo libro o forse la frusta che li mescola tutti», scrive l’autrice leccese nella premessa. Quindici storie vere affiancate da altrettante ricette dai titoli stravaganti. Non piatti da masterchef ma legati ai sentimenti e ai ricordi che solo una cucina può regalarci. Un inno «al piacere di assaggiare, di gustare, di saziarsi, di creare o d’arrangiarsi, d’esprimersi ai fornelli essendo se stesse e se stessi... alla faccia di tutto il resto». Da leggere, tenere in libreria e da consultare prima di una cena importante.


GIUSEPPE CALOGIURI Prosegue la saga del giornalista Michelangelo Romani Dopo l’aria di “Tramontana” arriva l’acqua di “Cloro”, il nuovo romanzo della saga di Michelangelo Romani, firmata da Giuseppe Calogiuri. Come nella migliore tradizione giallistica il racconto si infittisce nel nuovo episodio, i personaggi assumono profili più definiti. Conseguente ma non dipendente dal precedente, questo libro mette in campo tutti gli elementi tipici della scrittura di Giuseppe, arguzia mista a ironia, ritmo. Guidati dal giornalista Michelangelo Romani ci addentriamo in questa avventura tutta salentina, ritroviamo con piacere questa nuova voce della nostra narrativa. Il debutto in pubblico per “Cloro” è previsto per il 15 aprile (ore 19) alla Liberrima di Lecce. Il cronista Michelangelo è un po’ malconcio ma sempre in forma. Come nasce l’idea di questo personaggio che incarna molte delle caratteristiche del leccese, una figura meridionale? Michelangelo Romani è nato sui banchi del Liceo De Giorgi di Lecce quasi vent’anni addietro. Non era ancora giornalista, ma era essenzialmente il nome del mio personaggio - tipo. È certamente un personaggio solare e, pertanto, c’è tanto luminoso sud sebbene, con il progredire del suo sviluppo narrativo vedo emergere lati bui e ben poco “politically

correct”. È onesto e intuitivo, certamente. Ma altrettanto certamente misogino e particolarmente egoico. Uno del quale fidarsi moderatamente, la cui correttezza termina davanti al proprio tornaconto. La serialità nei gialli è un “classico”. Come lavori alle puntate? È un progetto che nasce in blocco o le nuove storie si presentano alla fine della precedente? Tendo a lasciare una serialità sfumata e leggera, per non far trovare il nuovo lettore a film già iniziato già dalla prima pagina. E i comics Marvel sono una guida perfetta per apprendere il modo in cui poter inserire il lettore al centro di una storia i cui elementi sono stati tratteggiati in un racconto precedente. Certamente quel filo sottile è effettivamente parecchio sottile, proprio al fine di creare una serialità diafana e sfumata, che possa lasciare spazio alla sola trama, evitando il rischio della indicazione “come abbiamo visto a pagina 69 del volume terzo della seconda serie”. Che per il lettore apparirebbe un po’ disorientante, e creerebbe quella fastidiosa sensazione di “benvenuto, ma sei in ritardo”. Nel tuo libro come in molta narrativa contemporanea ci sono linguaggi permutati da altre arti come il fumetto, le serie tv, come


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Nella tua scrittura c’è una buona dose di ironia. È una scelta o un’evitabile deriva? Sono molto ironico, sarcastico talvolta al limite del buon gusto. La narrazione riesce ad essere efficace allorquando destruttura, decostruisce, smonta in toto proprio quel che il lettore si aspetta. È un gioco volto ad aumentare quella sua curiosità, cercando di andare oltre quel limite che egli ritiene essere del narratore. Stupirlo, senza necessariamente essere seri o impettiti sol per celebrare il genere “giallo” che, così, si ritrova ad essere ammantato di un sorriso anche davanti ad un morto freddato da un’arma poche pagine prima. La lingua che usi ha un sapore classico, ti piace utilizzare la ricchezza del nostro vocabolario? Quando ne ravviso la necessità conio direttamente alcune parole che possano meglio rendere il senso di quel che a volte l’italiano non sempre raggiunge. E così il seggiolino puffeggia aria, o i gatti vanno gimcanando in giro. Ed è proprio questo ciò che mi ha portato a mia insaputa tra le pagine del manuale di linguistica italiana “Puglia in noir”. Si, c’è chi all’università mi ha reso oggetto di studio. Per il momento da vivo. Ci sarà una nuova puntata? Al momento ho altri soggetti pronti e strutturati, uno dei quali è ad un ottimo punto di lavorazione. Se “Tramontana” era l’aria e “Cloro” è l’acqua, terra e fuoco saranno gli elementi dietro i prossimi due romanzi. Ma i romanzi di Michelangelo Romani non credo che termineranno così presto, ha ancora così tanti lati negativi da far conoscere. Osvaldo Piliego

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ti rapporti a tutti questi input? Come li usi? Quel che scrivo è un parente strettissimo delle nuvole parlanti e del cinema. Ci sono immagini, inquadrature, suoni. C’è un mondo che deve tanto al media-fumetto, da intendersi quale perfetto punto di incontro tra carta e pellicola, basti pensare a Pratt. E le immagini, le inquadrature, i suoni, sono elementi fondanti le mie storie.

A LECCE NASCE LA BIBLIOTECA AMMIRATA

Da qualche giorno è attiva la piccola biblioteca dell’Ammirato Culture House di Lecce (progetto Human Library a cura di Nasca Teatri di Terra con il sostegno dell’Assessorato all’Industria Turistica e Culturale della Regione Puglia). Il centro culturale dona così al quartiere e alla città una casa dove leggere un libro e bere un caffè, dove parlare di letteratura e incontrare persone. Un posto neutro, laico, informale che nasce anche grazie al contributo di case editrici e privati che hanno fatto dono di numerosi volumi. Info 3277357690

LA NOTTE BIANCA DI INCHIOSTRO DI PUGLIA

«Per una serata le librerie, i caffè letterari e le sedi associative dislocate in ogni angolo della Puglia si trasformeranno in “Fortini Letterari”. Grazie ad una miriade di eventi (presentazioni libri, reading, spettacoli e gruppi lettura) che si terranno in simultanea, la Puglia che “resiste” e che crede nel valore della lettura/cultura, potrà ritrovarsi fisicamente stretta da un abbraccio grande quanto una regione. Una rivoluzione culturale dal basso, che parte da Sud». Michele Galgano racconta così la seconda edizione della Notte di Inchiostro di Puglia che torna, dopo il fortunato esordio del 2015, domenica 24 aprile. Tutte le info su inchiostrodipuglia.it


COOLIBRì - altre letture PHILIP ROTH Lasciar Andare Einaudi Il primo romanzo di uno dei più grandi, prolifici e geniali narratori americani, riproposto da Einaudi a oltre 50 anni dalla prima edizione italiana in una nuova traduzione. La storia ruota attorno ai due ricercatori Gabe e Paul e a sua moglie Libby. Che cosa aggiungere? Philip Roth è sempre Philip Roth e in questo libro c’è già tutta la grandezza dell’autore di “Pastorale americana”.

EDOARDO ALBINATI La scuola cattolica Rizzoli Quasi 1500 pagine per un romanzo denso di temi e argomenti che parte da una scuola della periferia romana per arrivare al delitto del Circeo, il primo forse ad essere assurto agli onori della cronaca. In realtà tutto questo è un pretesto per una profonda analisi del mondo in cui viviamo. E c’è già chi parla di odor di Strega.

TIZIANO SCARPA Il brevetto del geco Einaudi L’ultimo libro del Premio Strega 2009, un romanzo che parla di arte, di scrittura, di fotografia e del loro senso nell’epoca contemporanea. La storia è quella di un artista squattrinato e deluso e di una giovane impiegata. Due vite al margine, due persone che si interrogano su che cosa sia la vita oggi.


a cura di DARIO GOFFREDO

JONATHAN COE Numero Undici Feltrinelli Ritorna Jonathan Coe, con un romanzo ambientato nell’Inghilterra degli anni tra il 2003 e il 2015 che di quegli anni affronta temi come la guerra in Iraq, la crisi economica, i social network, i reality. Accanto alle due protagoniste ritroviamo anche alcuni personaggi amati ne “La famiglia Winshaw”, di cui questo romanzo è in qualche modo un sequel.

UMBERTO ECO Pape Satan Aleppe La nave di Teseo Quando muore un intellettuale della portata di Umberto Eco il vuoto che si crea è inevitabile. Lo si poteva amare o odiare ma non c’è persona in Italia che non lo abbia sentito nominare almeno una volta e a cui non sia capitato di prendere in mano almeno una volta il Nome della Rosa. Esce per la Nave di Teseo una raccolta delle Bustine di Minerva sulla “società liquida” un discusso concetto sul quale Eco aveva ragionato molto.

GIORDANO MEACCI Il Cinghiale che uccise Liberty Valance Minimun Fax Quanto di umano alberga nelle bestie? E cos’è l’uomo se non un animale? Questo è solo uno dei punti di fuga che abita le pagine di questo libro incredibile. Un romanzo che definire corale è poco, perché è esso stesso un mondo nuovo, fantastico e credibile. La storia è ambientata a Corsignano un paese toscano che sulle cartine non esiste ma che sulla carta prende forma e ospita una, anzi mille storie, intrecciate con maestria, così come sono mescolati ad arte i generi letterari, il tutto è raccontato con una lingua nuova e bellissima. (Op)


CINEMA -TEATRO Francesco Scianna e Valentina Lodovini

I MILIONARI DI PIVA

Nel nuovo film del regista de “La Capagira” una faida di camorra raccontata attraverso gli occhi di un pentito Potere, soldi, droga, lusso, donne, famiglia, avidità, malavita, camorra, faida, vendette trasversali: queste tematiche farebbero pensare al solito film sulla camorra con sparatorie, bombe e omicidi. Ma non è questo il caso. “Milionari”, ultimo film del regista salernitano, ma pugliese di adozione, Alessandro Piva parla di un pentimento, quello di un capocamorrista. Quando il clan implode, Marcello Cavani alias Alendelòn si ritrova a dover fare i conti con una vita fatta di separazione dalla famiglia, di clandestinità e di latitanza e, in questa sua solitudine, si ritroverà a riflettere e a fare una sorta di bilancio della sua esistenza: la scorciatoia per una “vita facile” in realtà si trasforma in una “vita difficile” piena di tradimenti, ansie paure ed isolamento dagli affetti più cari. Tratto dall’omonimo libro di Giacomo Gensini e Luigi Cannavale, il film presentato l’anno scorso al Festival Internazionale del Film di Roma segna il ritorno del regista di “La Capagira” (David di Donatello nel 2000), “Mio Cognato” ed “Henry”.

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato nell’affrontare una tematica così impegnativa come quella della camorra a Napoli negli anni ‘70? Come è stato accolto il film a Napoli e in Campania? In realtà sono tutti temi che ho già trattato in altre città tipo a Bari, poi a Roma e infine a Napoli, con la quale ho rafforzato un percorso che fa i conti con la mia vita, perchè, pur essendo cresciuto a Bari ed avendo vissuto poi a lungo a Roma per studiare cinema, di fatto sono nato in Campania, a Salerno e questo film mi è sembrato un’ottima opportunità per tornare in territori che mi appartengono e per fare i conti con il mio passato e con le mie radici. L’impatto che ha avuto il film a Napoli e provincia è stato molto positivo, soprattutto perchè i temi raccontati sono temi e storie che la città conosce benissimo e che rappresentano un po’ l’Iliade dei napoletani: sono fatti di sangue apparentemente superficiali ma in realtà raccontano l’eterna trama del potere, della violenza, della sopraffazione che vale


sempre la pena raccontare per cercare di fare luce su certi meccanismi e per cercare di sconfiggerli. Chi sono i personaggi principali e com’è andata la lavorazione del film durante le riprese? I film che parlano di spaccati ampi, di città importanti e popolose come Napoli, portano con sé la conseguenza di dover raccontare una carovana di personaggi, soprattutto parlando di un clan ovvero di una famiglia allargata. Lo spettatore però non deve necessariamente sentirsi troppo disorientato se non riesce a collocare immediatamente tutti i nomi e le facce nello scacchiere mentale della sua visione del film. Di fronte a un film di Scorsese o di De Palma o di Tornatore, non mi preoccupo troppo di dover cogliere tutti i passaggi, l’importante è cogliere le coordinate fondamentali, farsi affascinare dai personaggi più congeniali al proprio gusto e alla propria sensibilità, così come non è indispensabile cogliere tutte le battute di un film che attinge anche a un napoletano stretto quando occorre. Lascio allo spettatore la massima libertà di gestione della visione e non pretendo che si porti a casa tutto, perchè nella vita non riusciamo ad afferrare sempre tutto ciò che ci passa davanti, c’è un momento per ogni cosa. Ho questa ambizione di far assomigliare quanto più possibile i miei film alla vita, semplice e complessa allo stesso tempo. Ho letto che Salvatore Striano (nel tuo film O’Piragna) ha precisato, tempo fa, che «la differenza tra chi paga col carcere i suoi reati e un pentito è che uno è onesto e l’altro ha scelto una scorciatoia», continuando a dire che lui stesso i suoi otto anni di carcere li ha scontati tutti e che ci dovrebbe essere la certezza della pena, visto che è inammissibile che per esempio Brusca ora sia un pentito, dopo aver sciolto un bambino nell’acido. Il pentimento di Alendelòn, che diventa collaboratore di giustizia scendendo a patti con lo Stato, ti ha permesso, da regista, di fare un punto

sul programma di protezione dello Stato? Guarda, io capisco il punto di vista di Salvatore Striano e il suo percorso di dissociazione ma non di pentimento o di collaborazione. Lui parla di scorciatoie dei delinquenti che scelgono la via della collaborazione, io parlo invece della scorciatoia che ha preso lo Stato per sconfiggere fenomeni criminali molto potenti e difficili da sgominare, partendo prima col terrorismo e arrivando poi alla criminalità organizzata. Io penso che le scorciatoie siano delle emergenze, delle scelte dettate dall’emergenza e che come tali debbano essere prese sempre in considerazione almeno fino a quando arriverà il momento di poterne fare a meno. Dalla “Capagira” in poi hai sempre dimostrato di essere un regista impegnato sul fronte della denuncia sociale e politica. Da dove nasce questo tuo attaccamento a storie di malavita criminale? è una questione di preferenza di genere o, da piccolo, anzichè l’astronauta, sognavi di fare il boss di un clan malavitoso? Più che parlare di denuncia sociale, nei miei film cerco di realizzare una sorta di cartografia dell’esistente, cercando di gettare luce sulle zone d’ombra della nostra società. Quello che a me affascina del mondo e del sottobosco criminale delle nostre città è quell’umanità di fondo che anche i derelitti e gli ultimi hanno. E capire le loro psicologie è un modo per esorcizzare quelle scelte di vita, per allontanarle da sè e per guardarle con la lente dell’entomologo. Questo mio destino di raccontare queste storie è dettato sicuramente dalla mia provenienza geografica, perchè a Sud queste categorie sono più eplicite, cioè si nascondono meno che altrove per cui le puoi vedere e puoi averci a che fare più facilmente e raccontarle con un senso di verità viene forse più facile. E anche gli attori che vengono a lavorare con me, spesso meridionali, possono attingere ad un proprio vissuto di esperienze personali e faliari per riportare sullo schermo insieme a me questo spaccato. Jenne Marasco


IN PUGLIA APRILE è IL MESE DEL CINEMA “WAX: WE ARE THE X” ARRIVA NELLE SALE “Wax: We Are the X” è l’opera prima non solo del regista, il salentino Lorenzo Corvino, ma anche del produttore, del direttore della fotografia, dello scenografo, del musicista, del casting director e di altre professionalità. Il film narra le peripezie di un viaggio on the road, ed è stato interamente realizzato con la macchina da presa sempre in soggettiva. Due giovani italiani e una ragazza francese vengono inviati a Monte Carlo per le riprese di uno spot. Hanno a disposizione una settimana per portare a termine l’incarico. Il viaggio diventa presto un’avventura rocambolesca attraverso il sud della Francia e la Costa Azzurra: saranno messi a dura prova da incontri ed eventi che vanno oltre il loro controllo. L’intensa relazione a tre che nasce fra i ragazzi si offre come simbolo del confronto tra trentenni europei, uniti da un’esistenza da Sacrificabili e in cerca del riscatto per un’intera generazione. Il film è stato realizzato grazie a sponsor nazionali e internazionali e finanziatori attraverso il tax credit. Dopo varie partecipazioni a festival in giro per il mondo dal 31 marzo“Wax: We Are the X” approda finalmente nelle sale italiane. Il film è una sorta di “Self(ie)-Movie”, nel duplice significato di film indipendente autoprodotto e di film che adopera una delle manie degli ultimi anni. «Il film è un omaggio spontaneo alla mitologia della Nouvelle Vague, rivisitato in chiave più contemporanea, tecnologica, una sorta di Nouvelle Vague 2,0», sottolinea il regista.

In Puglia aprile sarà un mese interamente dedicato agli appassionati di cinema. A poche settimane di distanza andranno in scena, infatti, i due festival regionali più importanti dedicati alla settima arte. Dal 2 al 9 aprile a Bari appuntamento con il Bif&st che ospiterà anche un tributo a Ettore Scola, presidente del Festival sino alla sua scomparsa. Dal 18 al 23 aprile a Lecce sarà la volta della XVII edizione del Festival del Cinema Europeo dedicata a Morando Morandini, membro del Comitato dei Garanti del Festival, scomparso qualche mese fa.

Bif&st

“Scola-Mastroianni 9½. C’eravamo tanto amati” è il tema scelto per l’atteso festival barese. I due artisti hanno lavorato insieme in nove lungometraggi, più un film a episodi, che saranno presentati e proiettati nel corso delle varie giornate. Quest’anno è stato anche istituito il Premio “Ettore Scola” per il miglior regista di opera prima o seconda. Pier Paolo Pasolini sarà invece il protagonista della sezione ‘eventi speciali’ con la proiezione de “La ricotta” e “Teorema”. Tra i film italiani e stranieri in anteprima (in una sezione non competitiva) “Veloce come il vento” di Matteo Rovere con Stefano Accorsi, “Concussion (Zona d’ombra)” di Peter Landesman con Will Smith, Alec Baldwin, Albert Brooks, “The man who knew infinity


MARE D’ARGENTO ULIVI DA SOGNO (L’uomo che vide l’infinito)” di Matt Brown con Jeremy Irons, Dev Patel, Stephen Fry (Eagle Pictures). Tra gli ospiti Paolo Virzì, Toni Servillo, Ornella Muti, Pif, Sergio Rubini e molti altri. In programma incontri, proiezioni, masterclass e molto altro. Info bifest.it

FEstival del cinema europeo

Il programma del festival, diretto da Alberto La Monica e Cristina Soldano, si articola attorno alla competizione ufficiale di lungometraggi europei “Ulivo d’Oro” e ai protagonisti della cinematografia italiana ed europea (la scorsa edizione ha ospitato personaggi del calibro di Bertrand Tavernier, Fatih Akin, Milena Vukotic, Paola Cortellesi). Le altre rassegne, tra cortometraggi e documentari, rappresentano un percorso di ricerca di temi e di nuovi linguaggi audiovisivi. Si rinnovano “Puglia Show”, il tradizionale concorso di cortometraggi riservato a registi pugliesi under 35 e la rassegna di documentari “Cinema & Realtà”, sezione non competitiva che attraverso il cinema dà visibilità a temi sociali e culturali di rilievo. Infine il Premio dedicato a Mario Verdone verrà assegnato a giovani autori italiani per l’opera prima nell’ultima stagione. Saranno Carlo, Luca e Silvia Verdone a scegliere il vincitore dell’edizione 2016 tra i 10 autori individuati. Info festivaldelcinemaeuropeo.com Eleonora L. Moscara

Celebrare 60 milioni di ulivi dal Gargano al Salento per dimenticare, anche solo per pochi minuti, l’incubo Xylella. “Mare d’argento” è l’ultima creazione del regista, fotografo e scrittore nativo di Grottaglie Carlos Solito. Musiche di Mango e Nandu Popu dei Sud Sound System e scenari emozionanti che solo la Puglia sa regalare: masserie imbiancate, muretti a secco e brulle campagne per raccontare la storia di Vittorino, un bambino che non sa nuotare. Ricciolino e talmente esile da farsi soprannominare Alicetta, decide di mettere su maschera e pinne e affrontare una distesa di ulivi (ecco il Mare d’Argento). Sulla strada incontra un insolito pescatore e un menestrello che gli raccontano la storia della Puglia e di un popolo cresciuto all’ombra di queste grandi piante secolari. “Mare d’argento” è un tributo che nasce dall’intenzione di raccontare la magia degli uliveti che illuminano la Puglia trattando il problema xylella solo di rimando. È interpretato da Alessio Vassallo (menestrello), Nandu Popu (pescatore), Chiara Torelli, il giovanissimo Danilo Palmisano (Vittorino) , Angelo Corelli, Andrea De Carolis, Domingo Sibilino, Fernando Santopietro ed è stato interamente girato nel territorio di Fasano in provincia di Brindisi. Dal film e dall’attaccamento viscerale dei pugliesi a questo albero, nasce un progetto ancora più grande, quello di chiedere il riconoscimento degli ulivi come patrimonio dell’Unesco. (E. L. M.)


ALESSANDRO VALENTI

Lo sceneggiatore racconta i suoi prossimi progetti Ha vinto il bando MigrArt con la sceneggiatura del corto “Babbo Natale”, è quasi tutto pronto per il primo ciack del nuovo film scritto con Edoardo Winspeare “Una vita in comune”, due serie televisive in cantiere e ancora fresco di stampa il romanzo “In grazia di Dio”, scritto a posteriori sulla scia dell’omonimo film. Lo sceneggiatore leccese Alessandro Valenti ha molte storie da raccontare e tra una scrittura e l’altra si dedica alle lezioni d’italiano per i ragazzi richiedenti protezione internazionale. La sceneggiatura del tuo corto proprio in questi giorni ha vinto il bando MigrArt del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, sbaragliando più di cinquecento illustri concorrenti. Cosa ci fa un Babbo Natale nella Riserva WWF delle Cesine? Babbo Natale è una storia fighissima. è una favola dark. Due ragazzi arabi Nabil e Youssef, fratelli, sbarcano alle Cesine dopo il viaggio in mare. Scappando da un certo tipo di orrore si imbattono in una realtà che non conoscono. Sfuggendo terrorizzati alla polizia giunta per i soccorsi, i due fratelli si addentrano nel bosco sentendo un battito animalesco sempre più crescente. è un rave party. In cerca di cibo e acqua trovano una masseria. Lì, l’incontro con un mangiafuoco dalla barba lunga e sfatto di Mdma. Per i due fratelli è l’uomo della Coca Cola. è Natale, e lui decide di fare un regalo ai due fratellini

portandoli in un deposito di giocattoli ma arriva la polizia che arresta il mangiafuoco mentre i fratelli riescono a nascondersi. Il tema del bando MigrArt del Mibact era incentrato sull’incontro tra culture diverse. Ho costruito così un immaginario su un “mostro” che cambia volto poiché c’è sempre la possibilità di trovare una persona che riesca a dare un po’ d’amore e un segno di speranza. Le riprese inizieranno ad aprile, sarà girato tutto nel Salento e il montaggio sarà di Marco Spoletini, che ha lavora con Matteo Garrone. Il tema dell’integrazione tra culture diverse ti sta molto a cuore. Trovo che sia sconvolgente quello che sta accadendo a pochi passi da noi, prima o poi l’Europa e tutti noi dovremo guardarci dentro e renderci conto che migliaia di persone muoiono vicino a noi e non ne sappiamo assolutamente niente. Supera il limite del sopportabile. A breve tornerai sul set per il nuovo film scritto insieme ad Edoardo Winspeare “Una vita in Comune”. Ci puoi anticipare qualcosa? Abbiamo iniziato con “In grazia di Dio” e stiamo continuando una specie di saga raccontando l’Italia dal punto di vista di un piccolo paese. è ambientato in un paese immaginario che si chiama Disperata, è la storia di un’amicizia tra un sindaco e un carcerato


che nasce durante le lezioni di poesia che il sindaco tiene in prigione. Sarà girato nel basso Salento con attori non professionisti. La produzione è di Saietta Film insieme alla Rai e Banca Popolare. Una storia vera ha ispirato la sceneggiatura. C’è una sorta di realismo magico nella storia, l’amicizia e la passione per la poesia che può salvare”. Sul film “In grazia di Dio” hai scritto a posteriori un romanzo edito da Baldini&Castoldi. Che esperienza è stata? “In grazia di Dio” è stato selezionato dalla Cei per aprire il Giubileo della Misericordia. Questo ci rende orgogliosi. Scrivere il libro è stata un’esperienza bella e diversa perché quello che gli attori danno con l’espressione e la mimica nel libro lo devi rendere con le parole. Sono due grammatiche di narrazione diverse. I tuoi progetti non finiscono qui. Sto scrivendo due serie televisive. Una con Stefano Bises (Story editor di Gomorra, ndr) sulla nascita della Ndrangheta per Sky e Hbo. L’altra con Edoardo parla del Risorgimento, per la Rai, raccontando quel periodo come un western. Il Salento da alcuni anni viene scelto come set per molte produzioni cinematografiche, invece con il tuo lavoro racconti una filosofia di vita. Sceglierlo come scenario lo sminuisce nella sua natura? è vero, è molto diverso utilizzare un luogo come set e invece raccontare quel luogo. Possiamo vedere dei film girati qui che narrano storie che potrebbero essere ambientate in qualunque altro posto. Un luogo per me non è un insieme di case ma ha un’anima che è molto più difficile da cogliere. Il lavoro che abbiamo fatto in questi anni con Edoardo è nato perché ci siamo resi conto che il Sud è come se non avesse un immaginario. Riappropriarsi del nostro immaginario è importante ecco perché io rimango qui e lavoro qui per raccontarlo con le sue contraddizioni. Si tratta di guardare con onestà quello che c’è intorno. E la cosa strana, visti i riconoscimenti ottenuti all’Estero, è che facendo questo siamo super internazionali. AnnaChiara Pennetta

Vive le Cinèma la francia ad ACaya Il Salento apre le porte al cinema francese e alla sua musa Juliette Binoche. Dal 13 al 17 luglio si terrà, infatti, ad Acaya il festival “Vive le Cinèma”, un piccolo concorso nel quale saranno presentate produzioni francesi di qualità che non hanno distribuzione in Italia. La rassegna nasce da un’idea di Alessandro Valenti ed è realizzata in collaborazione con il Comune di Vernole e con l’Ambasciata francese in Italia. La presidentessa di giuria sarà Juliette Binoche. In anteprima nazionale sarà proiettato il film “Fatima” di Philippe Faucon (che terrà anche una masterclass) vincitore del Premio César 2015. Una serata sarà dedicata a documentari e cortometraggi. «L’obiettivo è cercare di mettere le basi per far nascere qui nel Salento un rapporto fortissimo con la Francia», spiega Valenti. «Per chi non lo sapesse, l’industria cinematografica francese è la più forte d’Europa e la seconda al mondo per fondi investiti. Siamo orgogliosi di pensare non solo ad un festival ma soprattutto ad un luogo, che potrebbe essere il castello di Acaya, nel quale durante tutto l’anno si possano invitare sceneggiatori e produttori, un luogo della creatività per proporre le proprie idee, confrontarsi e realizzarle insieme». (ACP)


TONIO DE NITTO

La nuova avventura della Compagnia Factory Tonio De Nitto è una delle personalità più interessanti del teatro in Puglia: regista, organizzatore e attento spettatore. Crede che l’ascolto sia una delle parole magiche del teatro. è fondatore di Factory Compagnia Transadriatica che dal 2009 svolge prevalentemente le attività di produzione di spettacoli, realizzazione di progetti di cooperazione internazionale, organizzazione di rassegne, conduzione di laboratori teatrali e di progetti di teatro sociale all’interno della casa Circondariale di Lecce con la compagnia “Io ci provo” diretta da Paola Leone. Nel 2011 debutta lo spettacolo “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare con attori italiani e stranieri. L’anno dopo con “Romeo e Giulietta” De Nitto prosegue la sua rilettura shakesperiana e inizia la collaborazione con il drammaturgo Francesco Niccolini. Sempre nel 2012 De Nitto firma “Cenerentola” spettacolo di teatro-danza coprodotto da Tir danza col quale la compagnia è ospite al Fringe Festival di Edimburgo, in Svizzera, Spagna e Tunisia riscuotendo grande successo di critica e di pubblico. Nel 2015 assieme alla compagnia Principio Attivo teatro crea il Festival KIDS a Lecce e vince il bando Teatri Abitati al Teatro Comunale di Novoli. L’ultimo spettacolo è “La bisbetica domata” che vede in scena Dario Cadei, Ippolito Chiarello, Angela De Ga-

etano, Franco Ferrante, Antonio Guadalupi, Filippo Paolasini, Luca Pastore, Fabio Tinella. A cosa serve il teatro? A cercare di far coincidere la realtà con quello che ci frulla nel cervello, a realizzare delle visioni. Quello che sembrano solo visioni nel teatro diventa materia. È qualcosa che cerca di stanare o acquietare le inquietudini. È un modo per esorcizzare le visioni. E qual è la situazione in Puglia? Queste visioni possono essere condivise e si possono universalizzare. In Puglia il teatro ha una funzione sociale forte, è un veicolo di educazione: bisogna imparare a viversi le emozioni. È ancora un motore di socializzazione importante. Andare a teatro è un modo per fare i conti con altre realtà. Oggettivare bisogni o paure che grazie a quanto si vede possa essere superate. In Puglia c’è ancora un gran bisogno di educazione. Il teatro non deve essere un posto per addetti ai lavori ma qualcosa che investe l’intera comunità di una responsabilità, di una memoria condivisa. Quando hai capito che volevi vivere di teatro? Da ragazzino volevo essere o quello del circo, o quello delle giostre. Il mio teatro, infatti, è una giostra circolare. I miei spetta-


CINEMA-TEATRO

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Una scena tratta da “La bisbetica domata”

coli sono un meccanismo perfetto, rendono in maniera carionesca le cose che racconto. L’ho capito da bambino. Ho incontrato professionisti nella scuola, attravreso Koreja e da allora non li ho mai mollati. Ho messo da parte i miei 15 anni per andare con loro in giro d’estate invece di andare al mare. Li ho seguiti in tutti gli altri momenti. Mi hanno accolto bambino e sono cresciuto con loro, non ho fatto provini. È stata la mia scuola, quando volevo andare a fare regia alla Paolo Grassi non potevo andare. Le esperienze formative sono arrivate con la pratica: Koreja è diventato un teatro con la vocazione per la crescita nel territorio. È stata la mia grande palestra umana e professionale. Cosa vorresti fare e ti sei pentito di aver fatto? Non mi sono pentito di nulla. Avrei voluto avere il coraggio di lasciare Lecce e studiare, a cercare le basi istituzionali, accademiche, di cui sento la mancanza ogni tanto. Non penso di aver mai perso tempo, ho iniziato a lavorare da giovanissimo. Tutte le esperienze, e anche le frustrazioni mi hanno aiutato a costruire un altro percorso. Non ho alcun rancore. Vorrei continuare a incrociare un teatro di prosa classico, restituendo un sua urgenza oggi. Un teatro che racconti chi sono attraverso i classici. Non scelgo il testo

perché si vende, ma solo perché io sono parte di quelle cose in cui sono usate parole più illustri. Mi piacerebbe molto e non escludo di lavorare nella lirica. Perché c’è bisogno del teatro? Da artisti è l’unico modo di vivere, è quella parte nera che se rimane dentro ci fa implodere, ci ammaliamo. Non riusciamo a soddisfare la nostra presenza nel mondo altrimenti. Nessuno lo ha prescritto. Per me è l’unico modo per vivere. Mi realizzo anche nella promozione, ho grande piacere a confrontarmi, a vedere gli altri. Penso che il teatro vada vissuto a 360 gradi: da artista, organizzatore, anche spettatore. Impazzirei se non facessi questo. Ce n’è bisogno perché è un’oasi di condivisione, di verità che le altre arti, cinema, tv non possono avere: hanno reciso quel patto di credibilità. Anche la musica è come il teatro: c’è un patto onesto con lo spettatore. Tv, cinema e politica imbrogliano. Nel teatro è più facile sgamare un disonesto. Tutto ci seduce. Quale epitaffio vorresti sulla tua tomba? Questa domanda mi mette molto in crisi. Qualcosa che riguarda l’inquietudine, la capacità di non volersi spegnere mai. Giulia Maria Falzea


ARTE

MILLO

La fiaba contemporanea dello street artist di Mesagne Da Mesagne, in provincia di Brindisi, passando per Pescara dove attualmente vive e lavora anche come architetto, Francesco Camillo Giorgino, in arte Millo, ha realizzato numerose opere murarie sparse in Italia e in giro per il mondo. L’artista, da poco rientrato dalla Thailàndia e precisamente dall’isola di Koh- Samui, ha eseguito su di una grande parte molto visibile, un murale ispirato a una leggenda del luogo legata alla principessa sirena Ramayana. Millo, classe 1979, è tra gli street artist italiani più conosciuti e apprezzati del panorama artistico internazionale. Da Torino a Milano, poi Roma, Londra, Parigi e Rio de Janeiro, i suoi lavori sono sintetiche composizioni figurative realizzate prevalentemente in bianco e nero che, con innocenza e stile surreale, raccontano gioie e disagi che appartengono alla quotidianità urbana. Le opere di Millo sono come delle fiabe contemporanee dal valore

socio-culturale fortemente comunicativo. Nella sua città ha appena avviato un progetto per la rigenerazione urbana dell’area dell’ex campo sportivo. Da architetto ad artista, dai piccoli disegni fino alle grandi opere murarie di riqualificazione urbana. Come nasce e in che modo si è sviluppato il tuo linguaggio in questi anni? Ho iniziato da bambino a disegnare e non mi sono mai davvero fermato, nel corso degli anni quella che era la mia passione ha finito per prendere il sopravvento su ogni aspetto della mia esistenza e sperimentando di anno in anno superfici diverse da realizzare, eccomi approdato ai muri. Nel frattempo anche il mio tratto si è fatto più definito e di tanto in tanto cede a qualche virgola di colore, ma non mostra molte differenze da come era originariamente.


Dopo gli ultimi fatti di Arte Fiera a Bologna qual è lo stato della Street Art in Italia? Credo che la Street Art, intesa come muralismo, stia godendo di un grande successo e di una fase di grande interesse in Italia. Permettere di realizzare opere, destinate a modificare la percezione di un luogo, sta diventando per molti comuni una chance di riqualificare senza troppe spese, aree difficili delle proprie città. La Street Art vuole rimanere per strada o andare tra gallerie e fiere d’arte? Portare all’interno qualcosa nata e destinata all’esterno è comunque un processo piuttosto complicato, credo che la Street Art sia destinata per ovvi motivi a restare dove effettivamente è nata.

Foto Carlo Maria Giardina - Milano 2015

Chi sono i personaggi che abitano le tue storie? In un modo o nell’altro finisco sempre per trasporre su tela o parete ciò che vivo. Ad alcuni i miei personaggi appaiono come grandi bambini, ad altri come creature soprannaturali, per me sono la parte più pura di ognuno di noi, quella parte che si rapporta con questo mondo, delle volte fuori taglia e incasinato, con stupore ed energia. Fai dei bozzetti sul muro? Non realizzo su parete uno schizzo e non proietto i miei lavori sulla parete, salgo sul cestello e con una pertica traccio solo i contorni abbozzati del personaggio, lo colloco sulla parete vuota, in seguito inizio il lavoro vero, nuvole aerei palazzi strade colori e dettagli, tutto a mano libera.

Oggi la pratica illegale è passata di “moda” o parliamo di una Street Art 2.0? Non credo che la pratica illegale sia passata di moda, e non credo sia una moda, c’è chi ad esempio continua a fare solo lavori illegali e chi come me è ben felice di poter realizzare le proprie opere collaborando con comuni o festival. Da un punto di vista artistico, urbanistico e ambientale come vedi la Puglia in particolare il Salento? Sotto l’aspetto urbanistico è evidente come la nostra regione negli ultimi 40 anni, abbia assistito ad un processo di urbanizzazione invadente, per nostra fortuna le nostre bellezze paesaggistiche riescono a minimizzare l’impatto percettivo di alcune aberrazioni architettoniche. Spero ovviamente che si possa migliorare con il tempo e apprendere dai nostri errori. Per quanto concerne invece la vita artistica, sono a conoscenza di molte e diverse realtà in Puglia come nel caso di Viavai in Salento e Studio Cromie e Fame a Grottaglie, tutte intente ad espandersi e mi auguro che possano davvero riuscire a trovare l’attenzione che meritano. Giuseppe Amedeo Arnesano


DIARIO CRITICO

a cura di Lorenzo Madaro

Sandro Marasco, Lalba, 2015, olio su carta, rosaspina 70x100 cm. Courtesy l’artista

SANDRO MARASCO

Dalla pittura all’arte relazionale, andata e ritorno In principio c’erano le periferie, le ferrovie, le sale d’attesa, i sottopassaggi di una qualsiasi città, le stazioni di servizio, ma soprattutto c’era una lieve sospensione vitale, un principio inossidabile che rendeva tutto statico, bloccato in un’ascendenza che si dilapidava ai bordi di anonime città. In principio, per Sandro Marasco (Presicce - Lecce, 1973), c’è la pittura, c’è la costruzione di un’architettura di immagini che si pervadono, non solo visivamente ma anche sotto un profilo mnemonico. Probabilmente sono luoghi che ha conosciuto, affiliati ad altri che ha immaginato. Ma non ci suggerisce molte ipotesi di identificazione e geo localizzazione. D’altronde non avrebbe alcun senso, questi

dipinti – realizzati nei primi anni duemila – sono tracce di presunte esistenze, che non riguardano soltanto il loro autore, ma anche un insieme di simboli, tracce di vita che percorrono determinate aree urbanizzate, dove c’è spazio per lo squallore e lo stupore. E tutti siamo invitati a scoperchiarne i caratteri, proprio perché a noi tutti appartengono queste declinazioni dello sguardo. In Porto, Utz, Patra, Pireo, Ricostruzione, Parking, Oh Polzer!, Maddy, Chiamata ed altri dipinti di questo lungo ciclo, si individua poi un raffronto costante con l’immagine, con una narrazione che riguarda un’indefinita collettività mutante, oltre a una fedeltà ai modi e alle pratiche della pittura, certamente as-


sorbite negli anni di studio all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel 2008 arriva il Progetto Conar, attraverso il quale rivoluziona i modi e le pratiche della sua ricerca in una chiave relazionale di ampio respiro. Il 6 aprile 2008 venne inaugurata a Lecce una collettiva: in quel contesto Marasco presenta Conar - Comitato Nazionale per le Raccomandazioni, proposto come un’associazione con la finalità di mettere in contatto chi era alla ricerca di un’occupazione lavorativa con i suoi potenziali raccomandatari. Accompagnato da un sito web – e finte sedi già attive in Europa –, il Conar apriva così a Lecce la sua seconda sede in Italia dopo quella romana. Destò immediatamente scalpore nel contesto salentino e numerosi riscontri gia’ dalle prime ore di apertura. L’artista, rigorosamente in giacca e cravatta, dopo aver allestito un ufficio negli spazi della mostra, accolse persone di ogni estrazione sociale, incuriosite e bisognose di una corsia preferenziale. Il cortocircuito tra realtà e finzione avvenne quando nell’ufficio arrivarono le telecamere di Telenorba, che lo intervistarono. L’effetto mediatico fu immediato e travolgente. Centinaia di contatti dal sito e decine di persone si recarono direttamente nella sede di viale Lo re a Lecce. Subito dopo fu inviata una smentita, ma l’operazione divenne, in poco tempo, un fenomeno virale, tanto da attirare l’interesse di un noto programma televisivo di Rai 1. Questo è solo l’inizio di un processo di indagine – nella realtà – che ha spinto Marasco a prendere in prestito i mezzi del dialogo e della relazione anzitutto empatica tra autorialità e pubblico, artista e spettatore, consapevole delle potenzialità pregnanti di tali pratiche. Tra gli interventi successivi dall’alto tasso relazionale – documentati sul suo sito sandromarasco.it –, anche “Prendete e mangiate tutti”, “Illuminando Lecce” e “La stanza”. Con “Il grigio” e “Legàmi”, cicli pittorici relativi agli ultimi anni e ancora in corso, Marasco ha avviato una catalogazione per immagini di volti e scenari, corpi e dettagli di vite relative a persone vicine e lontane. La pittura è diventato il campo di una narrazione dagli accenti quasi monocromatici, dettagli di cose accadute e di anamnesi mai sopite.

CENTO ANNI PER L’ISTITUTO D’ARTE “PELLEGRINO” DI LECCE L’istituto d’arte di Lecce compie cent’anni. Una storia lunga, quella della scuola secondaria dedicata a Giuseppe Pellegrino, che la immaginò come una fucina di progettualità e creatività, invitando artisti amici che hanno poi segnato i caratteri peculiari delle sue “sezioni”. La scuola di viale De Pietro, da qualche anno è parte integrante del liceo artistico “Ciardo” diretto da Tiziana Rucco e si sta distinguendo per un’ampia e articolata offerta formativa, ma anche per una dose di positiva consapevolezza sulla sua storia: Antonio Bortone, Aldo Calò, Antonio D’Andrea, e tanti altri artisti di Terra d’Otranto sono stati maestri e/o allievi, compresi quelli delle generazioni successive, tra cui Fernando De Filippi, Cosimo Damiano Tondo e Rita Guido. Salvatore Luperto un po’ di anni fa curò due mostre dedicate alla storia dell’istituto e dei suoi “Maestri” fino al 1970. A maggio prossimo non mancheranno gli appuntamenti per rileggerla e per poi proiettarla nel presente e nel futuro prossimo. (L.M.)


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POPULOUS , IL SUO SUONO “ACQUATICO” e i club-sandwich Populous, al secolo Andrea Mangia, è una delle figure più affermate e ricercate nella scena elettronica internazionale. Dopo varie collaborazioni (anche con la Morr Music, prestigiosa etichetta berlinese) l’ultimo “Night Safari” ha confermato lo smisurato talento di quest’artista. «È solo da un paio d’anni a questa parte che ho preso coscienza di poter fare l’artista a tempo pieno», sottolinea. «Non è assolutamente una cosa semplice di questi tempi. Io ho passato degli anni orrendi fra il 2008 e il 2010. Avevo anche scritto uno statement su MySpace dove spiegavo a tutti che non avevo più voglia di continuare a causa di problemi di salute. A un certo punto la musica è stata più forte di tutti i problemi e di tutte le paure e piano piano ho ripreso a produrre. La cosa più difficile è stata recuperare i contatti che nel frattempo avevo perso. Prima di pubblicare “Night Safari” ero senza aspettative, ora sento che sono gli altri ad averle su di me. È una cosa bella e spaventosa allo stesso tempo», continua. Le

sue performance live sono molto richieste in giro per l’Europa tra club e festival. «Non mi sono mai piaciuti i live di elettronica “pura”, dove vedi dei tizi dietro un laptop. L’ho sempre trovata una cosa noiosa e fredda. Ed è per questo che ho voluto che il mio live fosse diverso, più strutturato e interattivo, con altri musicisti con me sul palco (Andrea Rizzo alla batteria e Lucia Manca alla voce). Io stesso mi sono reinventato percussionista. Non ho mai badato molto alla tecnica pura, quello che cerco in un live è la vibe. È anche per questo che noi scherziamo dicendo che ci interessa più ballare che suonare. La verità è che ci piace sudare», scherza. Originario di Sogliano Cavour, piccolo paese della provincia di Lecce, Populous propone una musica che potrebbe esser prodotta ovunque. «Non mi sento tanto collegato al sud quanto al mare. Il mare è fondamentale. Senza rendermene conto mi sono tatuato prima delle onde, poi un’ancora e da poco un faro. “Acquatico” è uno dei miei aggettivi preferiti.

Vorrei che le mie ceneri venissero cosparse in mare mentre suona “Pyramid song” dei Radiohead. Il mare parla, emette suoni, manda segnali d’amore pur rimanendo sempre inavvicinabile e spaventoso. Richiede rispetto e attenzioni. E poi è malinconico, come la vita». Non possono mancare i riferimenti musicalculinari. «All’inizio cercavo sapori delicati, tenui, quasi inafferrabili. Dovessi indicare un piatto direi una vellutata, una zuppa, qualcosa con il riso thai cotto al vapore, robe del genere. Ora che sto esplorando i suoni del Sud America mi sento molto più “caliente” e mi viene in mente la cucina messicana. Ecco, ora potrei essere una fajitas o un taco». Concludiamo con i tre dischi e le tre ricette di Populous. «“Siamese Dream” degli Smashing Pumpkins, “Music Has The Right To Children” dei Boards Of Canada e “Moon Safari” degli Air. Spaghettoni Benedetto Cavalieri con pomodori scattarisciati e burrata, risotto alle erbe di montagna con guancia di vitello, club-sandwich».


VAFFANCOOL Daniele De Luca

PASQUA, GLI AGNELLI e La SVOLTA VEGETARIAN-VEGANA DEI SOCIAL Quattromila morti in mare nell’ultimo anno. Quasi quattrocento bambini hanno perso la vita, da settembre a oggi, nel tentativo di fuggire da una qualsiasi guerra. Le Persone che scappano dalla violenza non sono migranti, sono Profughi, uomini e donne alla ricerca di rifugi sicuri. L’Europa non si muove, le campagne umanitarie non partono. E sapete perché? Abbiamo avuto la Santerrima Pasqua e maggiori sono state le preoccupazioni che hanno afflitto gli intellettuali della rete. Nella settimana santa, sui social, avete forse notato qualche deciso appello in loro favore? Qualche immediata chiamata alle armi per la loro salvezza? No! Il motivo? Semplice: in quei giorni – cari lettori – le vostre bacheche sono state sicuramente invase da un solo grande invito, una preghiera pressante e ossessiva: non mangiate agnelli! Agnelli, capito? Ah, e anche capretti, non vorrei che a causa del politicamente corretto mi si dovesse rinfacciare un mio possibile razzismo nei confronti dei caprini (razzismo che respingo, apprezzando gastronomicamente entrambi i tipi di

animali). La svolta vegetarian-vegana di una parte del popolo social e le sue prese di posizione sono talmente aggressive da far apparire l’invasione nazista della Polonia una simpatica scampagnata alle Cesine. La strenua difesa di questi esseri lanuti fa sì che ognuno di noi si sia affacciato alla tavola pasquale per addentarne un boccone sia poi stato immediatamente posto all’indice e identificato con Hitler, Pol Pot, Nerone, il lupo di Cappuccetto Rosso o altri sanguinari personaggi che la storia ci ha consegnato (tra l’altro, umilmente faccio notare che il führer germanico era animalista e convinto vegetariano). Lasciate che vi inviti a visitare (cautamente) le pagine di questi estasiati sgranocchiatori di sedano e tofu, giuro che vi troverete una tale apologia della violenza che nemmeno Hannibal Lecter avrebbe potuto fare di meglio. Naturalmente, i loro obiettivi non sono i criminali trafficanti di uomini che si arricchiscono grazie alle guerre in corso, giammai! Hai lasciato quello pseudotopo del tuo cane da solo in macchina per 7 minuti e 25 secondi

per comprare il giornale? Allora anatema. Anatema papale su di te. Hai sgridato il tuo piccolo felino (che, comunque, di te se ne fotte. Sappilo) con un tono di voce più alto del consentito? Sei un criminale peggio del Libanese. Poi, però, c’è una strage nel Mediterraneo? Quel giorno diventano tutti #jesuisqualcos e poi... giù a inveire e maledire chi non mette il cappottino scozzese alla propria amabile e infreddolita bestiolina. Io so che adesso, dopo avermi letto e odiato mi augurerete una morte dolorosissima a causa della mia propensione al carnivorismo. E io morirò, di sicuro morirò prima o poi (naturalmente, digito con una mano e voi sapete dov’è l’altra), ma lo farò felice e sazio. Voi incontrerete la simpatica Mietitrice tristi, indignati e circondati da agnelli che, a breve, però, diventeranno enormi ovini di rara bruttezza. A questa immagine, e con un piatto di agnello grigliato davanti, ho riso di voi e – tra una cipolla canina e un’altra (i lampascioni, eh?) – dal mio cuore è sgorgato un semplicissimo e pasqualissimo... MavaffanCool!


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BRODO DI FRUTTA BLOG

Adelmo Monachese

LA MIA ECOGRAFIA

Nel caso di funerali laici è prevista una ricorrenza tipo trigesimo civile? Vorrei scoprirlo per capire se aspettarmi o meno da Elisabetta Sgarbi la presentazione a breve di un nuovo libro di Umberto Eco. Me lo auguro più che altro, non mi sono tuttora ripreso dalla sua scomparsa. Come si usa in questi casi, vi racconto un aneddoto che non riguarda lui ma me nell’ammirazione di lui. Nei miei dilettantistici tentativi di trovare un editore disposto a pubblicare “Cronache di Zemanlandia” (il mio primo manoscritto fonte di ingiustificato orgoglio in cui racconto le imprese di personaggi che si muovono in un mondo in cui la filosofia zemaniana ha modellato flora, fauna e clima) inviavo in base alle diverse istruzioni rilasciate da ogni casa editrice la sinossi, l’introduzione, l’intero manoscritto, qualche capitolo o una combinazione di queste cose. Quando lo mandai a una delle case editrici che più amo, in mancanza

d’indicazioni da parte loro decisi di spedire solo l’introduzione, scritta sotto forma di lettera a firma di uno dei personaggi protagonisti del romanzo: un professore di storia in pensione che dopo aver letto il ricco volume di Eco “Storia delle terre e dei luoghi leggendari” gli scrive con la riverenza di un collega ma anche ammiratore chiedendogli, alla luce dei suoi studi e rilevamenti su Zemanlandia; se anch’essa può ambire ad essere inclusa nella lista del Professore di terre meta di spedizioni folli di esploratori che hanno dedicato la vita alla loro ricerca come Atlantide, il regno del Prete Gianni o il paese di Cuccagna. La lettera termina con l’ottimismo sulla possibilità che la validità dei risultati mostrati possa portare a includere Zemanlandia nella successiva edizione della “guida” alle terre leggendarie. Proprio le osservazioni dello studioso zemaniano costituiscono poi la narrazione delle pagine successive.

Bene, la casa editrice che tanto amo mi ha risposto con un rifiuto, naturalmente. Però tra i tanti rifiuti che ho ricevuto, e ne ho ricevuti una cifra tale che presentando le carte bollate del caso si potrebbe registrare la larga volontà di non pubblicazione del mio manoscritto come un regolare referendum nazionale quorum-assolto in cui ha vinto il fronte del NO contro un solo sì. Non vi dirò per cosa ho votato io. Però, vi dicevo, questo è stato il caso di rifiuto ricevuto più bello di tutti e lo conservo ancora con cura. La risposta fu la seguente: “Gentile signore, purtroppo non abbiamo contatti diretti con Umberto Eco e non siamo in grado di inoltrare la sua lettera. Cordialmente”. Hanno creduto che fossi realmente io il professore in pensione che legittimante cercava di mettersi in contatto con l’illustre collega Eco. Nulla è più inoppugnabilmente dimostrabile della fantasia.


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Mauro Marino

La libertà dell’attore-autore «Il teatro è teatro quando nell’atto interroga la natura stessa del suo essere teatro e la vita, nel filtro della scena, decanta il senso, lo chiarifica, lo rende segno e significazione». Questo è un pensiero elaborato al cospetto della scena, interrogandomi sulla “visione”, sorpreso ed entusiasta di quanto accade. Tante compagnie e una nuova leva di attori, molti e bravi, abitano i palcoscenici di Lecce e del Salento. Teatri abitati da energie che non risparmiano fatica. La giovane drammaturgia è un modo per capire cosa accade nel presente e al presente. Lo sguardo sul reale, frontale, diretto dei “giovani” - senza le mediazioni e le presunzioni dell’esperienza, dell’età - nutre la scena, scardinando consuetudini stilistiche e i manierismi della ricerca. Penso a Antonio Palumbo e Manuela Mastria, al loro “Hana-do Teatro” e a “Waiting for Job - resistere è amare”, un atto liberato dalla “narrazione”, colmo di poesia, dove il verso è declinato con l’intero del corpo e l’agire teatro riconquista

il suo indeterminato per farsi pura visione, abbandono nella contemplazione dell’accadere. Penso alla freschezza della “Cuspide malva”, gruppo tutto al femminile che reinventa il teatro canzone proponendo andature poetiche per raccontare l’amore, il cibo, il cinema e per “condividere con il pubblico l’importanza della parola e del suono”. Penso al denso minimalismo di Alessandra Crocco e Alessandro Miele – autori/ attori di un percorso di sezionamento drammaturgico de “I Demoni” dostoevskiani. Penso all’infaticabile Riccardo Lanzarone attore palermitano “naturalizzato” pugliese visto in scena ai Cantieri Teatrali Koreja con il trombettista e sound designer Giorgio Distante in “Codice nero”. Penso alla reinvenzione del teatro espressionista che Principio Attivo rende militanza sul palcoscenico e per strada. Alle variazioni shakespeariane della Factory. Penso alle “funamboliche” mise-en-scène di Aldo Augieri. E penso alle magnifiche prove teatrali

che Paola Leone agisce con “Io ci provo” dentro e fuori il carcere di Borgo San Nicola. Quello dell’autorialità è il perno su cui si incardina questo fare teatro. Una visione dell’attore che smargina i ruoli, smuove la regia e la porta ad essere attiva sul palcoscenico. L’attore-autore è l’artefice, in una visione solidale della costruzione scenica dove spesso il “congegno” dello spettacolo è mosso e sedimentato da due, tre sensibilità co-agenti nel pensare e nello stare: l’attore-autore muove la sua complessità ideativa da protagonista, attraverso la scrittura e l’interpretazione affidandosi agli altri attori – autori nella costruzione della coralità. L’esperienza di assolo sedimentata in questi anni da Fabrizio Saccomanno, Ippolito Chiarello, Fabrizio Pugliese, Angela De Gaetano trova “compagni” sulle tavole del palcoscenico, alla pari. Un “ambiente”, finalmente, quello del teatro salentino, dove le energie si scambiano, fluiscono, al di là dell’appartenenza, in libertà, per provarsi nell’arte.

BLOG

AFFRESCHI&RINFRESCHI


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STANZA 105 BLOG

Mino Pica

TRATTO DA UNA STORIA VERA

Probabilmente sono io a farmi film ma avete notato che il cinema ultimamente propone quasi unicamente storie vere? Si tratta di incapacità di creare, di esigenza di conforto o di entrambe le cose? Se non lo avete notato entriamo un secondo in sala: nel 2015, ad esempio, degli otto candidati all’Oscar per il miglior film, ben quattro erano tratti da storie vere (“American Sniper”, “The Imitation Game”, “Selma” e “La Teoria del tutto”). Nel 2014? Sei. Bene, in quest’ultimo anno credo che la costanza di questo particolare genere sia addirittura aumentata. Qualche esempio? “La grande scommessa”, “Il caso Spotlight”, “Joy”, “The Revenant”, “Jobs”, “The program”, “The Danish Girl”, “La vera storia di Dalton Trumbo”, “Suffragettes”, “Il ponte delle spie”, “127 ore”. Potrei continuare a lungo. Parliamo del biopic, un termine coniato in realtà negli anni Trenta per indicare proprio film ispirati alla vita di una persona reale (biographic picture).

è evidente che questo genere sia sempre esistito. Dal 1927 al 1960 Hollywood produsse 291 film biografici. Parliamo però di meno del 3% dell’intera produzione hollywoodiana dell’epoca. Successivamente la popolarità del genere aumentò notevolmente per poi approdare anche sul piccolo schermo. La tendenza di rappresentare storie vere anche in Italia, nella fiction in particolare, non fatica a riscontrarsi con audience degni di partite dei mondiali di calcio: “Paolo Borsellino” (11 milioni di spettatori), “Madre Teresa” (11), “Il Papa Buono” (10), “Padre Pio” (11) e sicuramente continuerà nei prossimi decenni con “Bruno Vespa”, “Pupo”, “Carlo Conti”, “Pooh: i nostri 75 anni”, “Fabio Volo: il mio ultimo libro”, “Il giudice Santi Licheri”, “I Baci di Fedez” e così via. Una sfumatura che probabilmente si lega a tutto ciò è anche la tendenza all’ambientazione in epoche relativamente lontane, a volte addirittura anche ottocentesche, delle

serie televisive di maggiore successo di oggi. Quasi un bisogno di conforto: estraniarsi da una realtà contemporanea che fatica ad identificarsi, a soddisfarsi, a farsi. La visione viene quasi bandita e mi chiedo se un Fellini oggi uscirebbe fuori, ad esempio. Sarebbe in grado di sgomitare, presentando le sue di visioni? Di farlo nell’inflazione generata da questa drammatizzazione audiovisiva, che mira al coinvolgimento emotivo del pubblico con storie il più possibile credibili; attingendo spudoratamente dalla realtà, per raccontarla con decenni di ritardo? Rimasi anche basito da “La grande bellezza”, presentata come illuminante, ha invece, per me, semplicemente rappresentato l’Italia con venti anni di ritardo. L’ha fatto dimenticando che l’arte dovrebbe invece anticipare la realtà, non ripresentarla nel modo più confortevole ed emotivo possibile. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente reale.


I quaderni del senno di poi di Francesco Cuna | facebook: quadernidelsennodipoi


EVENTI

LA RIVOLUZIONE è FACILE SE SAI COME FARLA

Lodo Guenzi, leader de Lo Stato Sociale, è in scena con lo spettacolo del collettivo Kepler-452 Sbarca anche in Puglia “La rivoluzione è facile se sai come farla”, spettacolo scritto, diretto e realizzato dai ragazzi trentenni riuniti attorno al gruppo teatrale Kepler-452. Tra loro - assieme a Nicola Borghesi, Letizia Calori, Vincenzo Cramarossa, Enrico Baraldi, Livio Remuzzi e Paola Aiello - anche Lodo Guenzi, frontman de Lo Stato Sociale, che torna per l’occasione dietro al sipario rosso, dopo l’esperienza all’accademia Nico Pepe di Udine. A realizzare il testo c’è, infine, lo scrittore e giornalista Daniele Rielli/Quit the Doner. Lo spettacolo sarà venerdì 8 aprile al MAT di Terlizzi (Ba), sabato 9 al Laboratorio Urbano di Sava (Ta) e domenica 10 aprile ai Cantieri teatrali Koreja di Lecce. Leggendo le presentazioni di questo spettacolo si ha subito l’idea di una interessante opera corale, frutto della collaborazione di vecchi amici che si sono ritrovati... Sì, è proprio così. Strade diverse tra persone che hanno fatto un sacco di cose insieme

nella vita a un certo punto si sono incrociate. Io ero fermo dal tour con la band; Nicola aveva finito un’esperienza con la compagnia che aveva fondato, la Vico Quarto Mazzini, una compagnia che sta in Puglia, Paola era in giro a recitare, Livio era reduce dal Premio Hystrio e aveva un mese libero. Insomma, ci siamo detti: “Dai, facciamo questa cosa assieme”. Mi racconti come sei stato coinvolto nel progetto teatrale di Nicola Borghesi? Quando tutto è iniziato Nicola era reduce da un festival che si tiene ogni anno a Bologna che si chiama “20 30”. Si tratta di un festivalone in programma all’oratorio San Filippo Neri che fa sold out tutte le sere con spettacoli di compagnie sotto i trent’anni. Quando ha deciso di occuparsi in prima persona di uno spettacolo, curando la regia, mi ha chiesto di partecipare. All’inizio dovevo fare un cameo iniziale di cinque minuti; in realtà, dopo una prova, Nicola mi ha dato quattro parti e quindi sono rimasto legato a doppio filo.


a cura di CHIARA MELENDUGNO

In effetti torni in questa fase al tuo primo “amore”, la recitazione. Quand’è che il tuo percorso artistico ha virato verso la musica? Dopo un anno tra una mia compagnia e un po’ di lavori da dipendente negli Stabili Italiani – che sono luoghi di orrore che producono alcolismo, ma triste (dato che esiste anche l’alcolismo allegro) – sono tornato a casa a farmi un po’ coccolare dai miei amici Alberto e Alberto (Cazzola e Guidetti, ndr) e visto che non avevamo molto da fare, a parte le trasmissioni in radio, ci siamo messi a fare canzoni per ridere... Com’è stato coinvolto nel progetto teatrale l’altro pezzo de Lo Stato Sociale e che ruolo hanno le vostre musiche nello spettacolo? È successo un po’ come per me. Gli altri sono stati “incastrati” da Nicola, che è molto bravo nei rapporti umani. Si sono presentati durante una prova, infilando due, tre pezzi e la cosa funzionava molto bene. In realtà noi non ci stimiamo affatto come musicisti, quindi ogni volta ci chiediamo come sia possibile che qualcuno ci affidi una colonna sonora o cose del genere. Adesso siamo in giro con dei pezzi registrati, ma nell’unica versione in cui c’era anche la band dal vivo, io suonavo solo due pezzi, perché per il resto ero in scena. Ci puoi anticipare in breve la narrazione che muove gli attori? Sul palco si intrecciano due storie, due tentativi di rivoluzionare la propria vita. Una è una rivoluzione in senso astronomico, di rotazione attorno a un punto, ovvero un personaggio che fa il giro attorno al mondo per tornare a essere se stesso. L’altra è invece una rivoluzione in senso classico, una sovversione degli equilibri sussistenti. Entrambe le rivoluzioni arrivano a un loro apice e poi in qualche modo falliscono, ma resta un fiume carsico che scorre sotto, una sorta di testo che racconta, invece, quel tipo di rabbia che muove entrambi a cercare di cambiare le cose.

Daniele Rielli - Quit the Doner è un autore acuto che gioca sapientemente con sarcasmo e disincanto. Quali sentimenti restano nello spettatore quando esce da teatro? Beh, lo spettacolo fa ridere. La cosa che ti posso dire dopo le prime tre repliche è che la gente si diverte. Come sempre nelle cose in cui mi piace partecipare, ci sono dei momenti in cui può scaturire una riflessione, momenti in cui si viaggia un po’ sull’onda emotiva. Credo che soprattutto in questo momento se le persone prima di tutto non si divertono, le altre emozioni fanno fatica ad arrivare e forse arrivano in maniera sbagliata. Credi che questo spettacolo si rivolga solo alla generazione dei trentenni o che abbia qualcosa da dire anche a tutti gli altri? Nello spettacolo c’è una posizione molto forte di dialogo e polemica nei confronti della fascia dei quaranta/cinquantenni. In scena s’indaga proprio il rapporto tra i cosiddetti giovani under trenta e le generazioni precedenti, con tutta la serie di cose che queste ultime dicono di loro. Tipo che ci accontentiamo, che siamo pigri, che non vogliamo lavorare, che lavoriamo gratis, che vogliamo troppe garanzie. Tutta una serie di cazzate. Ecco, questo dialogo è tenuto in maniera molto forte, quindi penso che lo spettacolo parli anche a loro. Assieme a questo impegno teatrale prosegue il lavoro con Lo Stato Sociale. “In Fuga” è il pezzo che avete realizzato con i Punkreas per il loro nuovo album “Il Lato Ruvido”. Sì. Io voglio a tutti loro un sacco di bene. Sono il collettivo di persone più divertente con cui abbiamo passato del tempo in maniera così bella. Per quanto riguarda la nostra band poi, nell’immediato c’è l’uscita per Rizzoli, a inizio giugno, di un libro de Lo Stato Sociale. La storia è stata scritta interamente da Alberto e Bebo; io non ho scritto un rigo, ma l’ho letto ed è bello. Fidatevi! Chiara Melendugno


A LEZIONE DI ROCK

Ernesto Assante e Gino Castaldo raccontano i dischi e gli artisti che hanno fatto la storia della musica La mia cultura “rock” deve molto a Musica, inserto settimanale gratuito de La Repubblica, nato nel 1995 e poi confluito nell’esperienza di Xl. Tra le sue firme più prestigiose quelle di Ernesto Assante e Gino Castaldo, giornalisti curiosi e inseparabili che si muovono agevolmente tra carta, web, social, radio, tv e palco. Da alcuni anni girano, infatti, l’Italia con le loro “Lezioni di rock”, appuntamento fisso anche a Bari grazie a Puglia Sounds. I due sono tra i protagonisti del Medimex e sono stati tra gli speaker del TedxLecce. Le prossime lezioni allo ShowVille - dedicate ad alcuni dischi che hanno fatto la storia della musica - sono “The Who – Tommy” (mercoledì 6 aprile), “Michael Jackson – Thriller” (mercoledì 20 aprile), “Nirvana – Nevermind” (mercoledì 4 maggio), “U2 - Joshua Tree” (mercoledì 18 maggio). Il 7 aprile appuntamento anche nel rinato Cavallino Bianco di Galatina, in provincia di Lecce, con una serata dedicata ad Abbey Road dei Beatles. Ne abbiamo approfittato per fare qualche domanda ad Assante. La vostra attività giornalistica è iniziata negli anni ’70. Dalla radio ai social passando per riviste, quotidiani, siti, tv il ruolo del critico musicale è molto cambiato. Voi avete attraversato 40 anni di musica e di

giornalismo. Qual è la situazione attuale? Quale consiglio dareste a un giovane “aspirante” critico? La situazione attuale non è rosea: la critica musicale è considerata un genere “superfluo”, sia dai giornali che, soprattutto, dai lettori, che preferiscono fare da soli, farsi consigliare dagli amici, andare a casaccio su YouTube, sfruttare i vari sistemi di “raccomandazione” che ci sono in forma di app o nei servizi di streaming. Ognuno, nell’universo dei social media, è un critico musicale. Quindi di chi vuole scrivere di musica per mestiere, apparentemente, non c’è bisogno, e questo tipo di professione non ha futuro. Ma sarebbe da stupidi pensare che il mercato sia cambiato, il consumo di musica sia cambiato, le tecnologie di registrazione, produzione e ascolto siano cambiate, e non debba cambiare la critica o il giornalismo musicale. Quindi, parafrasando Mao Ze Dong, “grande è il disordine sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”. Siamo in un periodo di passaggio tra una fase e l’altra e, nell’odierna abbondanza musicale, è sempre più richiesta una guida, foss’anche per poter scegliere cosa ascoltare in streaming nel prossimi dieci minuti. Quindi chi è in grado di farlo (non per scienza infusa ma perché ascolta molta più musica di un comune mor-


tale e ha sviluppato strumenti critici in grado di aiutarlo a comprendere cosa ascolta), ha delle possibilità, anzi, molte possibilità in futuro, creando nuove forme di giornalismo. Il che prevede anche creare nuovi modi di far leggere di musica a chi potenzialmente è interessato. Creare app, siti, timeline di Facebook, servizi su Vine, recensioni audio su Telegram... chissà. Da molti anni proponete a Bari le vostre Lezioni di rock. Quest’anno avete scelto alcuni dischi imprescindibili. Come siete arrivati alla selezione degli album da raccontare? Alcuni sono “concept”, un concetto che si è perso soprattutto perché la fruizione dell’ascolto è cambiata notevolmente. Sembra paradossale ma con l’uso di Youtube siamo tornati al tempo dei 45 giri con i cd (o le playlist) che sono più che altro una somma di singoli. Credete ancora nella forza di un articolato racconto di una storia in sette, otto, dieci canzoni? Ha ancora senso? Prima risposta: oggi no. Oggi la musica si consuma, e si comprende, così, per singoli brani, non per opere lunghe e complesse. Ogni creazione si deve adattare al supporto attraverso il quale raggiunge il pubblico. Oggi si “deve” creare per il consumo spezzettato dello streaming e per l’ascolto di singole, piccole, opere d’arte. Seconda risposta: si, ha senso. La musica non è solo godimento “qui e ora”, le opere d’arte vanno al di la del supporto che le contiene, anzi, com’è già accaduto con il passaggio dai 45 ai 33, condizionano lo sviluppo e la diffusione di supporti. In fondo le playlist sono già dei “long playing”. Qualche artista potrebbe dare loro un senso nuovo, o diverso. Nella Lezione di Rock a Galatina parlerete di “Abbey Road” dei Beatles celebre non solo per il grande valore e impatto musicale ma anche per la foto dei quattro di Liverpool che attraversano sulle strisce pedonali. Qual è stato il ruolo dell’immagine, delle foto, dei video nella storia della musica? Non ci sarebbe rock senza le fotografie. Elvis non avrebbe avuto lo stesso effetto, i capelli lunghi dei Beatles sarebbero stati solo una

curiosità, le spille da balia del punk sarebbero tornate a bloccare i pannolini, e via discorrendo. Le foto, come le immagini delle copertine, parlano quanto la musica, alle volte più della musica, la raccontano, la spiegano, la “aprono”. Il rock, senza immagini, sarebbe solo musica. Negli ultimi mesi sono morti alcuni grandi musicisti. Su tutti David Bowie al quale avete dedicato una lezione “speciale”. Ci racconti in poche parole perché è stato fondamentale per il rock? Poche parole? Per la musica e la cultura del Novecento è come se fosse morto Picasso. Tornando all’Italia. Oltre ai grandi “classici” chi consiglieresti di ascoltare? Il rap, l’hip hop secondo te sono oggi quello che la musica dei cantautori è stata per i giovani degli anni 60 e 70? Il discorso meriterebbe una trattazione molto più ampia, quindi mi scuso per la semplificazione: non credo, penso che il paragone più giusto sia quello con il beat dei primi anni sessanta, che poi ha portato alla canzone d’autore. Immagino che da questa generazione di rappers e hip hoppers, nascerà qualcosa di nuovo e originale fra breve. In questi anni avete collaborato molto con Puglia Sounds, un’esperienza unica nel panorama nazionale. La musica è sostanzialmente gratuita e festival e promotori sono in affanno. L’intervento pubblico in cultura è sempre più ridotto. Quale può essere la ricetta giusta per rilanciare il settore? Di certo l’esperienza di Puglia Sounds è straordinaria e dovrebbe, portrebbe, essere presa a modello per iniziative simili nelle altre regioni italiane. Questa è una stagione di straordinaria creatività nella musica italiana, il livello medio delle proposte, soprattutto giovani e indipendenti, è notevolmente alto. Mancano, però, le radio disposte a trasmettere la nuova musica, mancano i giornali disposti a far conoscere i nuovi artisti. E, se mi si concede franchezza, mentre gli artisti e le band ci sono, manca un pubblico curioso, numericamente rilevante, per farle crescere. la gente, la maggioranza della gente, si accontenta di molto meno, di molto poco. (pila)

EVENTI

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TUTTI GLI EVENTI DEL MESE SUL SITO COOLCLUB.IT

EVENTI

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dal 1 aprile – ore 21 Auditorium Santa Chiara – Foggia

Jazz on top felix

8 aprile – ore 21 Teatro – Torre Santa Susanna (Br)

GLI SCONTATI

Dal 1 aprile al 10 giugno l’Auditorium Santa Chiara di Foggia ospita la rassegna “Jazz on top Felix” diretta da Alceste Ayroldi. Si inizia con il celebre trombettista Enrico Rava, qui in duo con il chitarrista Francesco Diodati. Si prosegue il 22 aprile con il quartetto italo-francese “Matteo Bortone Travelers” che presenterà i brani del suo secondo disco “Time Images”. Info e programma completo su www.apuliafelix.org

Lorenzo Kruger (Nobraino) e Giacomo Toni sono i protagonisti di questo nuovo progetto in duo che omaggia Paolo Conte. In scena pianoforte e voce e una scelta di brani che traccia un profilo vivace del grande autore astigiano. Qualche ricercatezza, ma perlopiù grandi classici, molto conosciuti, quasi “Scontati”. Ingresso 7 euro. Info 327 0118072

15 aprile – ore 21 Teatro Politeama Greco – Lecce

24 aprile - ore 21 Teatro ForMa - Bari

“In Nome dell’Amore Tour” è il nuovo live show del chitarrista e cantante affiancato sul palco da Fabrizio Sciannameo al basso elettrico e Manuel Moscaritolo alla batteria. «È sempre difficile raccontare a parole un disco e finalmente adesso lo porterò in tour», racconta lo stesso Britti. Ingresso da 40 a 25 euro. Info 3347322299

Cresciuto in un ambiente dove Motown, R&B e gospel sono presenze costanti, Robert Glasper è un concentrato di talento ed esperienza. Assieme a Mark Colenburg, Casey Benjamin e Burniss Travis II Glasper arriva a Bari con “Black Radio 2”, secondo volume del fortunato album, vincitore di un Grammy. Ingresso 25/30 euro Info biglietteria@teatroforma.org

ALEX BRITTI

ROBERT GLASPER EXPERIMENT


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EVENTI

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28 aprile - ore 21 Teatro Petruzzelli – Bari

BENJAMIN CLEMENTINE dal 21 al 25 aprile

IL TOUR DI LERCIO.IT ARRIVA ANCHE IN PUGLIA Ha rivoluzionato la satira sul web. Ha conquistato i social. Ha trasformato la bufala in un genere letterario. Ora la redazione di Lercio.it ha deciso di “scendere in campo” e di girare l’Italia con uno spettacolo che si annuncia esilarante. Il collettivo di circa 40 autori provenienti da tutta Italia (l’unico autore pugliese è Adelmo Monachese, collaboratore di Coolclub.it) da alcuni anni ha messo in piedi un sito che ha vinto già tantissimi premi della satira (Rimini 2015, Forte dei Marmi 2015, Viareggio 2016), premi del web come miglior sito (2014, 2015) e come miglior battuta dell’anno (2014, 2015). “Gli autori, appena evasi dai domiciliari, intratterranno il pubblico con notizie fulminanti, battute a lunga gittata, aneddoti fuorvianti e gli errori clamorosi dell’informazione 2.0. Nessuna selezione all’ingresso, a meno che non siate Adinolfi, Alfano, e Salvini”, si legge nella delirante presentazione. “In un mondo in cui l’informazione domina le nostre vite, un collettivo di dissidenti sceglie di rifiutarne la retorica e di cominciare una lotta senza quartiere alle formule preconfezionate e alla pigrizia intellettuale di tanto giornalismo dei nostri tempi”, sottolineano. In Puglia il tour toccherà l’ExFadda di San Vito dei Normanni (21 aprile), CoffèandCigarettes di Lecce (22 aprile), Taranto (luogo ancora da definire - 23 aprile) e Camera a Sud a Bitonto (25 aprile). Info Lercio.it

Il suo disco d’esordio “At Least For Now” si è aggiudicato il prestigioso Mercury Prize per il miglior album dell’anno. Stromae l’ha voluto come special guest per il suo tour autunnale, mentre Bjork l’ha scelto come headliner al Wilderness festival 2015. Adesso Benjamin Clementine arriva a Bari con il suo intenso ed atteso spettacolo per piano e voce. Ingresso da 22 a 40 euro + d.p. Info 080501816

29 aprile – ore 21 Industrie Musicali - Maglie (Le)

MALIKA AYANE

Dopo aver collezionato sold out in tutte le tappe del fortunatissimo “Naif Tour 2015”, Malika Ayane torna con #naifclubtour2016, una tournée tutta nuova, nata per scandagliare la parte più essenziale, elettronica e randagia di “Naif”, disco dell’anno su iTunes. Nel nuovo live spazio anche a bsides e successi riarrangiati. Il 30 aprile appuntamento anche al Demodè di Modugno (Ba). Ingresso 25 euro + d.p. - www.bazingaticket.com


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EVENTI

30 aprile – ore 22 Industrie Musicali - Maglie (Le)

ROTOTOM & FRIENDS EUROPE Rototom & Friends Europe, il tour di concerti che attraverserà diciassette città europee, fa tappa anche in Italia e nel Salento. Torna così nella sua nazione d’origine il Rototom Sunsplash, il più grande festival reggae europeo nato in Friuli e trasferitosi da diversi anni a Benicassim in Spagna. A Maglie, in un appuntamento organizzato da Molly Arts e Hum, sul palco il poeta del ‘new roots’ Junior Kelly (in foto), artista giamaicano tra i più apprezzati in Europa, una band storica come Wailing Souls, tra i pionieri della musica reggae e protagonisti negli anni 70 di una serie di hits che gli appassionati di roots&culture conoscono molto bene, con loro anche una giovane promessa dall’eredità musicale di Bob Marley, Daniel Bambaata Marley (figlio di Ziggy). Ospiti speciali della tappa salentina saranno Sud Sound System e Raphael. Al termine del concerto spazio

alla dancehall e ai sound system con selezioni di Lampadread, selecter dello storico sound system One Love Hi Pawa. Ingresso 15 + dp. Info mollyartslive@gmail.com www.rototom.com


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1 maggio Calimera (Le) e Taranto

Come ogni anno il 1 maggio viene festeggiato in tutto il paese con concerti, rassegne, festival o semplici scampagnate. Se, fino a pochi anni fa, dal punto di vista musicale l’evento più atteso era il Concertone di Piazza San Giovanni di Roma, dal 2013 è Taranto la piazza più ambita. Organizzato dal Comitato cittadino e lavoratori liberi e pensanti, con la direzione artistica dell’attore Michele Riondino (il giovane Montalbano), quest’anno affiancato dal cantautore Diodato, il concerto ospiterà, tra gli altri, Daniele Silvestri e i Litfiba. Dal 2002 - invece - a Kurumuny, una campagna alle porte di Martano, in provincia di Lecce, si festeggia un Primo Maggio davvero speciale, promosso dall’omonima casa editrice. Sin dalla prima edizione l’intento è stato quello di legare la memoria a un avvenimento che presenta tutti i requisiti di

EVENTI

FESTA DEI LAVORATORI

una grande festa popolare, in cui si celebra la fatica quotidiana dei lavoratori. Festa del lavoro e dei lavoratori che naturalmente si apre sino a comprendere il tema della multiculturalità, dei diritti dell’altro, della necessità della salvaguardia delle radici. Migliaia di persone e centinaia di musicisti, scrittori, danzatori e danzatrici, cantanti, intellettuali e politici, tra i quali il premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchú, hanno partecipato alla grande festa del Primo maggio a Kurumuny. Info Kurumuny.it

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