Coolclub.it n.36 (Aprile 2007)

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anno IV numero 36 aprile 2007

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Qualche tempo fa il mio amico Raffaele è venuto da noi in masseria. Ha portato con sé un piano a coda. Per un giorno il piano e la sua musica erano lì, al centro di tutto. Intorno la nostra vita e al centro il pianoforte. Raffaele è un barzellettiere nato ma quel giorno mentre suonava qualcuno di noi ha pianto. Come se il pianoforte fosse la voce nascosta, quella romantica, malinconica, struggente. Come se gli estremi fossero lì a portata di dita e con loro tutte le sfumature. Dal pianissimo al fortissimo, tutte le corde toccate sembrano avere risonanza da qualche parte dentro. Il pianoforte è forse il prolungamento più completo di ciò che vibra (è percosso, accarezzato) e che le parole non sanno spiegare. Una volta ho suonato Keith Jarret sulla sua schiena, è le ho detto tutto senza dover dire niente. Sembra che la gente se ne sia accorta, che il bianco e il nero di una tastiera bastino, emozionino di nuovo così come più di un secolo fa. Lontano dal nostro ascoltare ma vicino al nostro sentire. Sarà l’età, la vita, ma ci scopriamo diversi, sensibili al fascino di alcune cose. Il 12 aprile abbiamo invitato un pianista che ci ha conquistato senza fare rumore. È Giovanni Allevi, a cui abbiamo dedicato la copertina di questo numero di Coolclub.it. Ed è anche per questo che abbiamo dedicato il numero di aprile del giornale a un solo strumento, al piano solo. Moda, fenomeno, poco importa. Il piano va forte. Einaudi, Allevi, Bollani, e una serie di pianisti italiani e non, regalano la musica “colta” alle masse. Momento importante che vale la pena di raccontare. Forse un momento per guardarsi un po’ in soggettiva, senza contorno, a nudo. Così ci siamo sentiti, piacevolmente a nostro agio. Segno che ce n’era bisogno, come prendersi una pausa di riflessione. Sarà stato il caso, ma ci piace pensare il fato, la fortuna a far coincidere tutti i pezzi che alla fine compongono le pagine di questo giornale. Pianissimo, fortissimo, come il titolo del nuovo album dei Perturbazione, che abbiamo intervistato. Nato, cresciuto, e chiuso sotto l’egida della melodia. Sarà la primavera, il pianoforte sullo sfondo, ma tutto è dolce come una discesa. C’è gioia (Joy) per questo numero, nelle sue parti sempre uguali ma sempre nuove, nei dischi, nei libri e nei film che ci hanno emozionato. Quasi un invito a fermarsi, a concedersi un momento, un pomeriggio, un giorno, quello che serve a farsi del bene. Perché alla fine è ciò che conta di più. Una serie di interviste per incuriosirvi, input sparsi in punta di dita. Il resto è nelle prossime pagine. A voi scoprirlo. Buona lettura. Osvaldo Piliego

CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno IV Numero 36 aprile 2007 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Hanno collaborato a questo numero: Vito Lomartire, Ilario Galati, Giovanni Ottini, Valentina Cataldo, Dino Amenduni, Emanuele Flandoli, Gennaro Azzollini, Enrico Martello, Giancarlo Bruno, Luca Greco, Nicola Pace, Federico Baglivi, Marcello Zappatore, Rossano Astremo, Stefania Ricchiuto, Ludovico Fontana, Emiliano Cito, Mauro Marino, Sabrina Manna, Willy De Giorgi, Roberto Cesano Ringraziamo le redazioni di Musicaround.net, Blackmailmag.com, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, QuiSalento, Pugliadinotte.net, Rete Otto e SuperTele.

4 Giovanni Allevi 5 Ludovico Einaudi

7 Solo Piano 9 Keep Cool

14 Piani Rosa

21 Avion Travel

20 Nicola Andrioli

22 Perturbazione 24 Salto nell’indie

Progetto grafico dario Impaginazione Danilo Scalera

25 Coolibrì

35 Appuntamenti

Stampa Martano Editrice - Lecce

31 Be Cool

38 Fumetto

Chiuso per scherzo.... L’abbonamento al giornale varia dai 10 ai 100 euro. Per informazioni 3394313397, pierpaolo@coolclub.it

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A circa sei mesi dall’uscita il suo ultimo disco Joy ha già superato quota 50 mila copie, le sue esibizioni live conquistano sempre e comunque il tutto esaurito: il compositore e pianista marchigiano Giovanni Allevi è una delle sorprese più importanti della musica italiana degli ultimi anni. Ad aprile tornerà in Puglia (dopo i fortunati concerti di Bari e Taranto) per due spettacoli imperdibili a Barletta (mercoledì 11) e al Teatro Politeama Greco di Lecce (giovedì 12). Il 21 maggio si esibirà per la terza volta al Blue Note di New York Questo numero del nostro mensile è dedicato ai pianisti. Grazie ad artisti come te, Einaudi, Bollani (solo per fare alcuni esempi) credi sia cambiato il vostro ruolo? Io non credo di avere un ruolo, tanto meno un ruolo sociale. Il mio unico compito, che coincide con la mia passione viscerale, è quello di avere una dedizione assoluta nei confronti della musica. I cambiamenti che essa crea nelle persone e nella società sono così inspiegabili che umilmente scelgo di non considerarli. Il tuo non è solo un fenomeno musicale ma anche mediatico. Sei un musicista, sostanzialmente classico, eppure hai un seguito da artista pop. Come ti spieghi tutta questa attenzione nei tuoi confronti? Posso solo avanzare delle ipotesi: credo che la mia musica abbia un impatto emotivo “violento” sulle persone che scelgono spontaneamente di rendersi ad essa vulnerabili. Mai come in questo periodo i ragazzi cercano di entrare in contatto con le proprie emozioni più profonde, le proprie, senza proiettarsi in quelle altrui. Mi sono ritrovato ad essere, con mia grande sorpresa, un “trascinatore di folle” prima ancora di avere una visibilità mediatica. Riempi teatri in mezzo mondo, sei stato in Cina e negli Stati Uniti. Quali sono le differenze nel pubblico? Non ce ne sono. ’essere umano, nella sua profondità, è sempre lo stesso ed è sempre diverso. Non riesco a pensare al pubblico in termini numerici perché ogni individuo è unico ed irripetibile. Non credi che in Italia ci si accorga sempre tardi e di riflesso dei fenomeni, o semplicemente delle cose belle? Se faccio riferimento alla mia esperienza, devo dire che il pubblico italiano si è accorto di me ad una velocità vertiginosa. Si parla sempre degli italiani come disattenti, esterofili, che dedicano poca attenzione alla musica e alla cultura. Sciocchezze! L’Italia è detentrice di una spiritualità culturale che tutto il mondo ci invidia, e sarà il volano di un risveglio delle arti per il prossimo futuro. Com’è stata l’esperienza di aprire i concerti di Jovanotti? Gli stadi sono cosa ben diversa dagli austeri teatri... I teatri mi sono sembrati tutt’altro che austeri! Tornando agli stadi, ricordo un’emozione talmente grande da rimanere quasi in apnea. La cosa che non posso dimenticare è stato il silenzio, quasi irreale, che i ragazzi mi hanno regalato durante l’esecuzione. Per non parlare dell’applauso finale, simile ad un goal! Nel tuo spettacolo racconti gli episodi che hanno caratterizzato la nascita dei brani. È un modo per esorcizzare la paura?

Sì. Solo poche parole, che non hanno alcun obiettivo didascalico o didattico. Mi occorrono per trovare un contatto umano col pubblico, per non provare la sensazione di dover dare, ma di condividere. è vero che in casa non hai un pianoforte e che componi i brani mentalmente? Sì, è vero. Per necessità, perché il mio bilocale a Milano è troppo piccolo, ma soprattutto per scelta. Non voglio che il mio linguaggio musicale sia condizionato dalla manualità, che rischierebbe di finire sempre sugli stessi percorsi. È importante che la mente sia lasciata totalmente libera di assecondare la Musica senza limiti fisici. Nei miei dieci anni di studio della composizione sono diventato un abilissimo “contrappuntista”, figura “in voga” nel Medioevo, e trovo molta soddisfazione a sovrapporre più linee melodiche in una scrittura più orchestrale che pianistica. Parlaci un po’ di questo tuo “inno alla gioia”... Da quando ho deciso di abbandonare la sicurezza, la mia vita si è trasformata in una avventura, all’insegna della mia passione travolgente, la musica. Ora sono più stressato, ansioso, tutto può accadere, e tutto mi sta accadendo. Vivo da sognatore. Ho scelto di lasciare le redini del controllo sulle cose, ho scelto di appartenere a quell’umanità dispersa, gettata nell’esistenza. Ma sono felice! Quanto del minimalismo americano e quanto invece della tradizione classica è nella tua musica? Considero il minimalismo americano una “contro spallata” alla dodecafonia europea. Da un eccesso (l’incomprensibilità dodecafonica) si è caduto nell’altro (l’estrema comprensibilità minimalista). Ora è giunto il momento di abbandonare le definizioni, le correnti, le tecniche compositive, e di ricominciare a fare musica, così come facevano i grandi compositori del passato, i giganti della tradizione classica europea, elaborando un linguaggio che abbia la stessa forza strutturale, ma che sia vicino al nostro tempo. Il rapporto con la musica quanto è testa e quanto è cuore? Quando le due dimensioni trovano un equilibrio collaborativo, la miscela che se ne ottiene è esplosiva. In particolare, nella musica classica, più che in qualunque altro ambito, i due elementi sono compresenti. C’è un piacere emotivo nel ricevere un contenuto musicale puntuale, ma c’è anche un piacere intellettuale nel seguire le costruzioni più complesse. Cosa ascolti? Cosa leggi? Ascolto poche cose, e sempre quelle. Musica classica soprattutto, perché è fondamentale confrontarsi continuamente con i grandi del passato. C’è poi la musica che suona ininterrottamente nella mia testa, che chiede di essere plasmata in un pentagramma scritto, e che spesso può crearmi qualche problema di attenzione. Pierpaolo Lala


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La musica di Ludovico Einaudi è stata descritta spesso come minimalista, classica, ambientale, contemporanea.Ma si andrebbe incontro a sicure difficoltà qualora si decidesse di assegnare una definizione al suo genere compositivo. La formazione di Einaudi è indiscutibilmente classica, esordisce come compositore agli inizi degli anni ’80, scrivendo musica per orchestra e da camera, per il teatro e la danza, poi intraprende un suo cammino, alla ricerca di un linguaggio più libero, che sia in grado di assorbire culture ed influenze musicali diverse, tra cui il rock, riprendendone l’immediatezza, la carica emotiva e l’impatto sonoro. Negli ultimi quindici anni ha pubblicato numerosi cd tra i quali Stanze (1992), Le Onde (1996), I giorni (2001), Una mattina (2004). Nel 2005 è pubblicato un altro suo profondo lavoro, Diario Mali, con Ballaké Sissoko alla kora, strumento musicale africano. Einaudi è inoltre autore di numerose colonne sonore per film. Nell’ottobre 2006, esce Divenire, il nuovo album contenente 12 nuove tracce. Il 27 marzo si è esibito al Teatro Team di Bari. Com’è stato concepito questo nuovo lavoro? Il progetto è nato in un arco di tempo abbastanza ampio perché ho cominciato a scrivere le prime cose nel 2002, nel frattempo ho fatto un altro album, che è Una Mattina. Divenire è nato da alcuni brani che avevo scritto in occasione del Festival “I Suoni delle Dolomiti”, per piano, due arpe e orchestra d’archi. Se dovessi fare un paragone, potrei dire che questo lavoro è stato concepito come un quadro, in parte ispirandomi ai paesaggi di Paolo Segantini, ma soprattutto cercando di dipingere con la musica alcuni elementi della natura come le montagne, i fiumi, le pianure, ad esempio come quei quadri del Settecento in cui ad una lato era rappresentata la notte, dall’altro il giorno, o il mare da una parte ed un pastore col suo gregge di pecore dall’altra, e in lontananza i segnali di una battaglia in corso oltre una collina. Ma non parlerei di musica descrittiva, piuttosto di una serie di immagini che nell’insieme rappresentano un quadro musicale: con l’ascolto si ha la percezione completa del discorso musicale costituito da tanti elementi che convivono, nessun brano dell’album è lì per caso, fanno tutti parte di un mosaico che ho pian piano composto. In alcuni punti ci sono picchi di suono più forti, in particolare quando c’è l’orchestra, passando per momenti musicali più delicati con il pianoforte solo o con l’uso dell’elettronica che ho fatto, quindi convivono qui tutte le mie esperienze, diverse sonorità che fanno parte del mio universo di questo periodo che va dal 2002 a oggi. Divenire non fa che confermare il successo nei teatri di una serie di pianisti, spesso autori e compositori delle proprie musiche, come spieghi questo fenomeno italiano? Penso che probabilmente in Italia, vista la scarsa cultura musicale che c’è, la musica, in quanto non fa parte della vita normale delle persone, bisogna cercarsela un po’ per conto proprio: non c’è una educazione musicale che permetta la produzione di una

cultura italiana vera della musica. Nonostante questo gravissimo fatto, dato che l’Italia sotto questo punto di vista è in ritardo rispetto ad altri Paesi musicalmente progrediti, diciamo che sta nascendo certa curiosità ad ascoltare qualcosa che vada al di fuori delle canzoni. Col tempo, parlo perlomeno dell’arco di 1015 anni in cui faccio concerti, si è creata un’ attenzione anche verso forme diverse di musica che non contengono il cantato, più difficili da ascoltare rispetto ad una canzone, dovuta ad una serie di canali alternativi grazie ai quali questa musica si è fatta sentire, parlo dei concerti ma anche del cinema, grosso veicolo di diffusione di musiche che difficilmente è possibile ascoltare in una radio privata. È evidente nella sua produzione una certa attenzione alla musica etnica, in particolare quella africana, come le collaborazioni con Toumani Diabate o Ballake Sissoko, ma anche quella armena, cito il celeberrimo suonatore di duduk Djivan Gasparijan… È di mio interesse approfondire la conoscenze delle varie musiche che ci sono nel mondo, ciò mi spinge ad avere curiosità verso altre culture musicali: ho avuto la fortuna di stare due volte nel Mali, una volta in Armenia, viaggi che mi hanno permesso di seguire più da vicino i discorsi che mi interessavano. A volte un artista trova delle sintonie che magari sente in altre parti del mondo ed è interessante andare a vedere in loco che succede. Dopo questo tour, a quali progetti lavorerà? Adesso c’è un progetto che ho fatto con i fratelli Lippok, si tratta di registrazioni dal vivo fatte a Berlino durante uno dei concerti che abbiamo tenuto insieme fin dall’autunno scorso: appena avrò il tempo riascolterò queste registrazioni e ci lavorerò su. Inoltre tra poco uscirà in Inghilterra il film This is England di Shane Meadows (grazie al quale Einaudi ha ricevuto la nomination per la colonna sonora al British Indipendent Film Awards, ndr) e ho ricevuto altre proposte dall’Inghilterra che sto valutando. Ci interesserebbe sapere quali sono i cd che girano nel suo lettore e quali libri sta leggendo in questo periodo. Ultimamente mi son portato dietro nella tournee inglese il disco dei Tinariwen, un gruppo del Mali; ho ascoltato The Eraser, il disco solista di Tom Yorke. Recentemente ho ascoltato anche un bellissimo disco di Josè Gonzalez, un cantautore folk sudamericano residente in Svezia. Per quanto riguarda le letture, devo dire che in viaggio mi riesce molto difficile leggere dei libri dall’inizio alla fine quindi preferisco avere con me testi di rapida lettura, come le pubblicazioni di Olafur Eliasson, un artista danese che fa esperimenti con la luce, ha fatto una bellissima istallazione a Londra chiamata Weather Project (nel 2003, al Tate Modern, ndr). Leggo piuttosto frammenti di saggi, che mi fanno riflettere su delle idee, che mi danno degli stimoli di pensiero, non è un momento questo in cui riesco a concentrarmi sui romanzi. Vito Lomartire Musicaround.net


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Per quanto si faccia fatica a considerare il pianoforte lo strumento cardine del secolo appena trascorso – o perlomeno il più rappresentativo -, sono molti i dischi di solo piano fondamentali per l’evoluzione della musica, capaci in alcuni casi di creare una vera rottura rispetto alla tradizione. Chiaramente sono i jazzisti a utilizzare lo strumento in chiave maggiormente innovativa, basti pensare al rag-time, la cui novità sostanziale rispetto al passato è esplicitata sin dalla denominazione (tempo a brandelli). È Jelly Roll Morton, virtuoso dei tasti bianchi e neri, white man ed egocentrico al punto da presentarsi, nel 1902, con dei bigliettini da visita che riportavano sotto il suo nome la dicitura “Inventore del Jazz”, a recitare insieme a Scott Joplin la parte dell’innovatore. Certo è che Jelly con il suo pianismo eccentrico, dalla giovinezza passata a Storyville sino alla consacrazione ottenuta grazie a temi celebri prima della grande depressione, mostra che il pianoforte è uno strumento affatto immobile ma capace di adattarsi ai nuovi linguaggi della musica afro-americana. Joplin da parte sua è da considerarsi il pioniere del nuovo utilizzo dello strumento, autore di pezzi memorabili come Maple Leaf Rag e The Entertainer. Inizialmente considerata musica da bordello, dal rag attingeranno anche i grandi compositori colti del secolo, da Debussy a Satie. Saltando in avanti di qualche decennio, un altro pianista destinato a scrivere una delle pagine più affascinanti del jazz e al contempo capace di apportare innovazioni al metodo pianistico è Lennie Tristano. Italo-americano cieco e misantropo sino a sfiorare l’anacoretismo, Tristano è universalmente riconosciuto come il primo musicista ad utilizzare la registrazione su più tracce remixate in fase finale. La composizione è Turkish Mambo, presente in Lennie Tristano del 1955, disco che ospitava anche il celeberrimo Requiem. Pietra miliare per i musicisti che verranno, la musica di Tristano è capace di una forza dolorosa e opprimente e dischi di solo pianoforte quali The New Tristano e Descent Into The Maelstrom portano lo strumento a limiti fino a quel momento inesplorati, gettando così i semi per l’era del free. In Italia il decano del pianoforte è senz’altro Giorgio Gaslini, figura chiave del nostro jazz, nonché uno dei musicisti del bel paese più conosciuto all’estero, ideologo della “musica totale”, figura esemplare di musicista che persegue innovazione e impegno (due aspetti che nel jazz sono andati spesso a braccetto). Per quanto le pietre miliari del compositore siano suonate in banda (il celeberrimo Tempo e Relazione

è per ottetto, l’altrettanto celebre New Feelings è in ensamble con Gato Barbieri, Don Cherry e Steve Lacy), mi piace ricordare in questa sede il disco di solo piano Gaslini Play Monk, che il compositore milanese dedicò alla musica di Thelonious Monk nel 1981. Tralasciando altri grandi titani dello strumento, i cui momenti memorabili sono raggiunti però in nutrite formazioni (Cecyl Taylor, il simbolo della musica sudafricana Abdullah Ibrahim e naturalmente lo stesso Monk che con le sue note sbagliate e la diteggiatura ineducata ha insegnato molto a tutti i musicisti che lo hanno seguito), facciamo un altro salto in avanti nel tempo: provate a chiedere in giro ad appassionati di musica il titolo di almeno un disco di solo-piano. Io l’ho fatto e la risposta nella stragrande maggioranza dei casa è stata The Koln Concert. Il concerto che Keith Jarrett tenne davanti alla gigantesca cattedrale di Colonia il 24 gennaio del 1975 e che pochi mesi dopo divenne un disco della Ecm è un must del genere: al di là delle leggende - per problemi di organizzazione a Jarrett venne dato uno strumento non revisionato che lo porterà a variare l’esecuzione dei quattro movimenti, tralasciando le ottave più alte e quelle più basse - il concerto di Colonia è un disco che si proietta oltre i generi codificati. Melodia e improvvisazione, romanticismo sfrenato e rigore accademico: per dire una banalità, cultura alta e bassa in comunicazione evidente e proficua. A dire il vero Jarrett in quel periodo aveva inciso altri validi dischi di piano-solo, ma è il concerto di Colonia a restare, saccheggiato a piene mani da cinema e televisione. A questo proposito, esemplare è l’utilizzo che ne fa Moretti in Caro Diario,

durante la visita al luogo in cui fu ucciso Pasolini (in Aprile il regista filmerà una scena identica, su una spiaggia del brindisino, dopo l’affondamento della Kater I Rades, che si portò sul fondo del Mediterraneo più di cento albanesi, nel ’97 scegliendo ancora una volta un pianista, Ludovico Einaudi). È anche vero che questo disco incarna tutta una serie di stereotipi legati proprio alle composizioni di solo piano. Tornando in Italia, è innegabile che gli ultimi anni abbiano visto una produzione di dischi di confine per pianoforte mai registrata prima. Dischi che in alcuni casi hanno venduto anche parecchio riuscendo ad ottenere una platea molto più vasta di quella riservata di solito a quella nicchia. Musicisti peraltro diversissimi che noi ci divertiamo a mettere insieme solo per comodità e per essere coerenti con l’incoerenza di questo pezzo. In effetti i consensi ottenuti da Stefano Bollani, Giovanni Allevi, Ludovico Einaudi e co sono sorprendenti. Si va dal ludico ma rigoroso approccio del primo al minimalismo nymaniano del terzo passando per il romanticismo pop del secondo. Inutile negare che anche in questo caso il veicolo pubblicitario ha “spinto” nelle classifiche musiche che altrimenti avrebbero ottenuto numeri ben diversi. Ilario Galati



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Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie

la musica secondo coolcub

!!!

Myth Takes Warp/Self Punk-Funk/****½ Due indizi, come i nuovi lavori di Rapture e LCD Soundsystem, ne forniscono già una prova convincente. Ma se dovesse mai servire un altro disco a dimostrare che punk e funk non sono solo due parole che faceva figo mettere insieme qualche anno fa, ecco il nuovo album dei !!!. Forse il fenomeno ha esaurito il suo appeal mediatico, e magari oggi nessuno chiamerà più i Rapture a suonare su una passerella a Milano, ma la sostanza dell’azzeccato connubio tra musica da ballo e sonorità rock resta e ritrova, in queste 10 canzoni, nuove ragioni d’essere. Gli otto musicisti che si celano dietro al nome che neanche il Prince più enigmatico (si pronuncia chk chk chk), sfornano un disco denso e complesso, ma allo stesso tempo, forte di una vivace immediatezza. E mentre James ‘LCD’ Murphy lavora di stile sui loop più fortunati del suo precedente lavoro e i Rapture smussano i loro spigoli

punk più graffianti, tutti e due a favore del dancefloor, i !!! fanno un reale passo in avanti innescando una specie di processo inverso. All’impeto della cassa funk, che pestava quasi sempre dritta nel loro precedente Louden Up Now, si aggiungono ora nuovi sapori dub, trame new wave e tanto impatto rock. Delle lunghe jam session in bagno lisergico a cui ci avevano abituati, rimangono il condensato melodico di canzoni come la titletrack d’apertura, due minuti e mezzo di fuga di basso alla Soul Coughing a braccetto di cupe chitarre western. Segue il fragore della batteria scalpitante di All My Heroes Are Weirdos, ed è subito festa. Indentico l’inizio della scaletta del loro pirotecnico show lo scorso 22 marzo a Londra. Già alla seconda canzone il bellissimo teatro dello Shepherd Bush Empire si trasforma in una discoteca labirinto, e si inizia a sudare. Mira dritto allo stomaco il bel singolo Heart of Hearts

con la sua forte spinta ‘chemical’ che fa quasi rave, e la bellissima Must Be The Moon alterna un sincopato rapping old school ad un ritornello uscito da qualche misconosciuto pezzo soul-disco di trent’anni fa che farebbe l’invidia delle Scissor Sisters. I rimandi e riferimenti a gruppi ed epoche diverse si perdono e si incastrano a più livelli per tutta la durata del disco. Il funk di Parliament e Sly Stone che prende casa nella Manchester di New Order e Happy Mondays (Break In Case Of Anything), spunti dal sapore country su incedere marziale in pezzi come Yadnus. Sparsi poi vari innesti Sonic Youth e Clash sulla pianta madre Talking Heads. Una baraonda di influenze e sonorità mescolate con naturalezza, una disciplinata anarchia di stili, energica e irresistibile, alla quale è difficile rimanere indifferenti o restare fermi. Giovanni Ottini


KeepCool

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Brett Anderson Brett Anderson V2 pop / ***

Arcade Fire

Neon Bible Merge records rock-folk / ****

Dopo Jarvis Cocker è il turno di un altro front man d’eccezione. Dopo il disco solista dell’ex leader dei pulp tocca a quello dei Suede: Brett Anderson. Per la serie come liberarsi dei miti in poche e semplici mosse. Negli anni 90 gente come questa mi faceva impazzire; ho sempre voluto avere il ciuffo di Brett Andersono, la sua voce, il suo carisma da erede di Bowie, quel suo essere dandy, efebico, impalpabile. Dietro di lui i Suede incarnavano il mio sogno new romantico, le loro canzoni distillavano gli anni che vivevamo, erano rock, eleganti, decadenti, ambigue, innamorate. Spirito che Brett non ha perso, quando canta che l’amore è morto avvolto dai violini. Lo avevamo lasciato al suo ultimo progetto The Tears al fianco di del grande Bernard Butler e oggi lo ritroviamo solo in 11 tracce tutte a sua firma. Dopo aver cantato di una generazione Brett ha deciso di raccontare se stesso e di farlo con il suo stile inconfondibile. Osvaldo Piliego

Timbaland Gli Arcade Fire sono considerati la più grande band della storia da loro illustri colleghi (Bowie e Mr Coldplay in primis), cantano per pochi intimi sul palco della più bella chiesa barocca londinese (ora sala da concerti di musica classica) e propongono un assurdo miscuglio di rock intenso e sonorità inequivocabilmente folk condito da studiati effetti elettronici. Neanche a dirlo, dunque. Non sono una band per tutti e non tutti li apprezzano. Loro, d’altra parte, non si sforzano minimamente di ottenere consensi a tutti i costi: “Il rock è libertà e rottura” hanno affermato in un’intervista. Il loro primo vero album uscì circa tre anni fa e si intitolava Funeral: intenso diverso malinconico. Con questo nuovo Neon Bible la band di Montréal parla di specchi neri, bibbie al neon e oceani di rumore, chi li ha visti dal vivo giura che quei sette lì sul palco non possono non impressionare. Meritevole, a mio avviso, la title track, una ninnananna dai suoni profondi e intriganti per augurare una buona lunga notte di musica. Valentina Cataldo

Ry Cooder

My name is buddy Nonesuch blues / ****

Uomini come Ry Cooder percorrono una strada, una missione personale che nel suo realizzarsi coinvolge un sacco di persone. Un lavoro di ricerca, il suo, fuori dagli schemi, rigorosa e allo stesso tempo vagabonda, libera. Molti lo ricorderanno per aver riesumato i Buena Vista Social club, alcuni per il suo bellissimo Chavez Ravine, gli uni e gli altri continueranno ad amarlo per questo My name is buddy. Presi alla lontana dischi come questi potrebbero sembrare roba per nostalgici, ma a ben guardare la musica di Cooder, il suo lavoro, è ricognizione e mappatura di quello che siamo stati e siamo. Con questo nuovo album Cooder esplora l’America degli

anni trenta, lo fa affidandosi al folk delle orgini, al blues, al bluegrass, al rock grezzo e a tre personaggi che ne raccontano il clima. Si sentono echi di Irlanda, il country in salsa tex mex con un pizzico di jug. E poi la sua chitarra che mette insieme tutti e tutto. Un altro disco da mettere accanto al manuale di storia contemporanea. Osvaldo Piliego

Shock Value Interscope pop / ***

Signori, ecco a voi il dottore. Dica 33, verrebbe da dire, vi diremo in che condizioni è la musica. Timbaland è il produttore del momento, capace di trasformare Nelly Furtado in una credibile diva pop e Justin Timberlake in una star internazionale. Produrrà Bjork ed è oramai quasi ufficiale che metterà le sue vellutate manine (ma avete visto che bicipiti..) sul prossimo album di Madonna. E voi sapete quanto Madonna tenga ai suoi produttori. Il dottore è potente, e ci riserva questo esercizio di stile sicuramente non indispensabile, ma per certi versi “doveroso”. Nelly e Justin impreziosiscono il primo singolo, Give it to me, Release, che segue nella scaletta (con il solo Justin) è una gran bella canzone, si arriva fino al 2 man show finale, in cui il nostro duetta con Elton John. Tutto il pop riassunto in poco più di un’ora, e un’unica lampante morale: Timbaland non è più un rapper, è un artista a tutto tondo. Paradossale ma sistematico infatti l’effetto che si ha, ascoltando Shock Value: più cerca di muoversi in territori rap, meno è efficace, più spazia, più si sente il suo, oramai inconfondibile tocco. Di classe, senza dubbio. Dino Amenduni


KeepCool Bill Callahan

Woke on a Whaleheart Drag City folk d’autore / ****

Quando si fatica a trovare il cantore di un’epoca, di uno stato d’animo spesso ci si dimentica di Bill Callahan, ed è un errore grave. Per anni nascosto dall’alias Smog ,il nome di Callahan è uno di quelli che non sfigura accanto a quello di Leonard Cohen o Lou Reed. Vicino a loro per lo spessore vocale, per sobrietà e profondità, uomo a cui basta il minimo per trasmettere emozioni indelebili. Come se il fumo, la patina che prima lo copriva e impolverava sia stata lavata via e ci restituisca l’uomo più che mai. La maturità lo vede scoprire nuove lande musicali, certo lontane dagli esordi low-fi e più vicine piuttosto a Jonnhy Cash o un Nick Cave prima del riflusso garage (sentite l’ingresso di From the rivers to the Ocean). Un poeta decadente degli anni novanta, schivo, chiuso come la sua musica che dopo la frammentarietà si consacra in questo ultimo episodio alla forma canzone più classica. Diamond dancer sembra un Bowie da camera, The Wheel pesca nel classico e colpisce al centro. Le storie di Callahan lasciano il segno pur parlando del quotidiano, forse perché sono disarmanti o forse perché al cospetto di artisti come questi è inutile farsi delle domande. (O.P.)

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AA.VV.

Let it bee My honey records twee pop / ****

Non si può restare indifferenti di fronte alla dolcezza di progetti come questi. La My honey records produce dischi preziosi e belli nella veste, nel contenuto e nel miele. Associazione bizzarra quanto naturale, unita dal filo della qualità, dalla filosofia del do it yourself, poco importa. Ciò che conta è il risultato. Sulla bontà del miele non possiamo pronunciarci (non abbiamo ancora avuto il piacere) ma sulla musica possiamo sottoscrivere e consigliare a tutti i buon gustai di indie. Let it bee è la prima compilation della My Honey records, tutta incentrata sul tema del miele, delle api e dell’apicoltura. Come il miele, l’indie e il pop sono leccornia in ogni angolo del pianeta e il campionario di paesi presenti in questo album lo dimostra (Svezia, Spagna, Brasile, Italia...). Lo spirito giocoso e gioioso (twee) che anima l’esperimento si articola in 20 tracce di pop che oscillano tra elettrico, elettronico e acustico. Senza prendersi troppo sul serio ma con amore e gusto, così nascono le cose migliori, così è nato Let it bee. (O.P.)

Keren Ann Keren Ann Capitol rock / ***

Una di quelle voci capaci di smuovere dentro. Quei tuffi al cuore di grandi donne come Marianne Faithfull e Francoise Hardy. Sporche, sensuali, graffiate dalla vita. Voce che ha conosciuto il male di vivere ma anche gli amori travolgenti. Sognante come la Nico dei Velvet Undergorund, la voce dell’israeliana olandese Keren Ann si posa su tappeti musicali minimi, sorretti a volte da note lunghe come le emozioni che

Jamie T

Panic Prevention Pacemaker Records/Virgin Lo-fi indie-reggae-punk-rap ****

Uno di quei dischi che quando li devi recensire ti mandano nel panico. E ora al lettore come glielo spiego come suona Panic Prevention? La tentazione è quella di cercare riferimenti in altri gruppi, che diano un’idea di cosa passi per la testa del ventiduenne londinese Jamie T: Clash, The Streets. Beck, Beastie Boys, Arctic Monkeys, per citare giusto quelli famosi... No, così non ci si capisce niente. Proviamo a partire dalla strumentazione. Una drum machine dai suoni neanche troppo realistici. Un basso (acustico) passato attraverso un paio di compressori e mixato in evidenza. E poi una chitarra suonata svogliatamente, con un minimo di distorsione, e una tastiera di quelle economiche. Su questo minestrone sonoro registrato e mixato con evidente gusto lo-fi, la voce di Jamie T, con quel timbro nasale, strascicato e talvolta stridulo, e quel tanto di

stonatura made in the UK. Ed un fiume di parole, inanellate in strofe che oscillano perennemente fra il raggamuffin, l’indie-rock, il rap. Un tipo strano, questo Jamie T. Non capisci mai se faccia sul serio o ti prenda in giro, se suoni così perché meglio non sa fare o perché meglio non vuole fare, se sia disperato, svogliato, stolidamente allegro, geniale o semplicemente ubriaco. Emanuele Flandoli

racconta, altre volte da blues sporco, altre ancora da ninna nanne. È quando la voce sale e quasi si strozza, si strugge sottile e sembra appesa a un filo, che tutto sembra fermarsi per un istante. Perché quando è il sentimento a prevalere sul volume, la delicatezza sul rumore, cuore e orecchie trovano pace ed è bellissimo. In alcuni episodi i toni si alzano un po’ rovinando l’intimità raggiunta. Una sorta di Carla Bruni con molto, molto più senso. (O.P.)

Nurse & Soldier Marginalia Brah/Jagjaguwar psych-pop / ***

Perdonate la mancanza, ma davvero non sapevo dell’esistenza di questo duo capitanato da Robertson Thacher (voi direte: e chi cazzo è? È Bobby Matador degli Oneida). Ecco, è già da molto tempo che il duo (l’altra è Erica Fletcher) del Massachusetts suona insieme, fin da quando erano teen-agers dicono, e nel 2001 avevano realizzato anche un primo album, Ancient History. Ora la Brah rec., una sussidiaria della Jagjaguwar, stampa questo loro secondo disco, Marginalia, e devo dire che non è proprio niente male. I due polistrumentisti, aiutati anche dall’altro membro degli Oneida Kid Millions e altri vari compari, realizzano questa serie di piccole gemme psich-pop (durata media di un minuto e trenta) affidando, con successo, l’apertura ad una suadente ed elegante Green Tea: 5 minuti di ipnotiche e pulsanti tastiere, una voce che bisbiglia da lontano e distorsioni elettroniche che sanno subito conquistarti, davvero una cool-ata. Difficile non considerare somiglianze e differenze con gli Oneida: devo dire che, seppur si tratti di un prodotto ben distante dalla psicotica e angosciante dimensione del gruppo principale, non è possibile non notare come lo spirito più melodic-soft che sta emergendo nei loro ultimi album qui viene lasciato completamente libero di esprimersi, chiaramente aiutato dalle presenza della Fletcher, il cui cantato a tratti mi ricorda certi vocalizzi di Nico (North of Bartimore). In generale poi, la matrice psych viene sostanzialmente mantenuta. Ad ogni modo, ancora un tipico album indie americano, che ben si posiziona nel catalogo Jagjaguwar. Gennaro Azzollini


KeepCool

12

Julie Doiron

Woke Myself Up Jagjaguwar folk / ****

Canadese, trentaquattrenne J.D. è giunta al suo settimo lavoro ufficiale escludendo una lunga serie di ep promozionali con gli Eric’s Trip. L’esperienza con questa band resta viva nell’attuale collaborazione con il fondatore Rick White, con il quale realizza a quattro mani una buona parte dei brani sia nella composizione che nell’esecuzione. Il lavoro è ben elaborato nell’alternanza di brani suonati in sordina (You Look So Alive, Swan Poun) e quelli lievemente spinti ma che preservano comunque un carattere discreto dovuto alla voce sospirata (Don’t Wanna Be/Liked By You). L’ intero lavoro ha tutte le carte in regola per emozionare i nostalgici amanti dei classici di Joan Baez o di Janis Joplin (soprattutto in Dark Horse). Bellissimi gli arrangiamenti, molto scarni ma dalle grandi atmosfere che spesso sfociano in sprazzi di indie (The Wrong Guy). In definitiva un disco intimo e pacato in cui le note si susseguono leggere e naturali come un ruscello che fa il suo corso. Dieci tracce tanto brevi quanto intense, come dei piccoli libri, ma che racchiudono grandi storie. Enrico Martello

Cocorosie

The Adventures of Ghosthorse & Stillborn Touch and go indie folk / ***

Joss Stone

Introducing Joss Stone Virgin Soul – R’n’B / ***

Terzo album per la ex bimba (ora ventenne) prodigio del soul, la ragazza bianca con la voce da nera. Questo lavoro è intitolato Introducing Joss Stone proprio perché rappresenta per la prima volta la vera Joss Stone, quello che l’artista stessa vuole esprimere senza il condizionamento dei produttori, e con la volontà di voler dire qualcosa di naturale in modo personale…e per la verità si sente… l’album, rispetto ai precedenti, è più povero di contenuti e talvolta eccede nei vocalizzi che rimandano in alcuni pezzi alla Christina Aguilera più ispirata. Naturalmente Virgin le ha affiancato musicisti di prim’ordine, alla chitarra troviamo lo strepitoso Chalmers “Spanky” Alford già chitarrista della RH Factor, senza contare che la produzione è affidata a Raphael Saadiq e che tra le collaborazione troviamo quella della divina Lauryn Hill e dello stimatissimo rapper Common. Un album godibile, suonato e arrangiato bene, ma difficilmente rimarrà alla storia. Zanca

Il velo di mistero che ha sempre aleggiato intorno alle sorelle Cassidy comincia a dipanarsi. È passato qualche anno, due album e il loro connubio artistico comincia a definire i tratti che La maison de mon Reve e Noah’s ark avevano solo accennato. Perse in un gioco di citazioni, tra giocattoli dell’infanzia usati come strumenti musicali, in un tragicomico divertimento le Cocorosie riescono come sempre a trascinarti, dolcemente suadenti, in un mondo che è solo loro. Un mondo in cui il blues del delta incontra l’hip hop, l’operetta da club parigino e Bjork tutto associato con una leggerezza quasi fanciullesca. Un mondo glaciale e struggente, divertente e irriverente orchestrato con equilibrio e

attenzione per le piccole cose. Il glitch più impercettibile, un piano che suona lontano come le melodie che rievoca, le due voci che giocano a stridere a coccolarsi e a coccolarti. Questo The Adventures of Ghosthorse & Stillborn è un disco più maturo non solo nel concept di partenza (più completo e coeso dei precedenti) ma anche nel suono affidato a Valgeir Sigurdsson. Tra chi sostiene che siano incantevoli e chi invece è sicuro che siano un bluff io sento di essere semplicemente catturato dai dischi delle Cocorosie, di perdere per poco più di quaranta minuti il contatto con il mio circostante e di scoprire il loro, le loro stanze, i loro oggetti, sentirle vicinissime. Osvaldo Piliego

Lucinda Williams West Lost Highway folk / ***

Like a rose fa parte della colonna sonora di Transamerica - nella scena principale di questo gran bel film - ed è un pezzo meraviglioso. Così ho scoperto Lucinda Williams, folk-singer americana vincitrice di tre grammies e considerata nel 2002 la

miglior songwriter d’America dal Time Magazine. Una lunga carriera alle spalle e un altrettanto lunga strada da percorrere davanti a lei, la cantante, nata nella Louisiana e figlia di un poeta, porta dentro sé tutta la potenza dei paesaggi naturali che ha visto e vissuto, la sua è musica country, semplice e diretta. Questo nuovo album, uscito il mese scorso, è frutto e conseguenza di esperienze dolorose e forti (vedi ad esempio Mama You Sweet), per tale motivo il dolore, si sa, rende le persone speciali e creative- è un album intenso, triste, tagliente. La sua voce, un po’ roca un po’ cruda, fa da filo conduttore tra le tredici tracce, per un totale di circa un’ora di musica. I pezzi possono risultare monotono, data la semplicità degli arrangiamenti non particolarmente elaborati. All’interno di questo West non ho ancora trovato la mia Like a rose, ma continuerò a cercarla. Valentina Cataldo


KeepCool Tracey Thorn

Out of The Woods Virgin pop / ****

Vi piace il pop degli ultimi anni? Acquistate a scatola chiusa il secondo album solista di Tracey Thorn - quasi un nuovo esordio: il primo risale al 1982! Il perché? Fa tutto ciò che ascoltiamo dalle nuove pseudo-star internazionali, ma meglio. In fondo, se ti puoi permettere di guardare dall’alto verso il basso le nuove leve britanniche a metà anni ‘90, con i tuoi (mai troppo rimpianti) Everything But The Girl e permettendoti di aprire la stagione del Trip-Hop cantando Protection dei Massive Attack, perché le cose non dovrebbero potersi ripetere? Belli i The Knife? Superateli con It’s all true, il primo singolo. Madonna è una diva ma non sa cantare? Get around to it sarà il sottofondo dei vostri pre-serata. Nella musica da club non ci sono grandi voci? La panacea è ancora in quest’album, alla voce Grand Canyon. Ma nemmeno i confronti rendono giustizia, vista la sua fulgida carriera, alla quale tributa ancora morbide sonorità jazzy (i fan degli EBTG grideranno al miracolo) per un prodotto completo e furbo (per le modaiole citazioni agli anni ‘80). Sconsigliato a chi ama le chitarre, ma caldamente suggerito a tutti gli altri. Dino Amenduni

13 che vede inoltre la collaborazione vocale del cantautore M. Ward, e l’intima Thinking about you, scritta nel 1999 con Ilhan Ersahin, leader dei Wax Poetic; crescono le sue ambizioni, mentre cerca di scrollarsi di dosso l’immagine stereotipata da cosiddetta “regina del jazz”. Nei due precedenti album ( Come Away With Me e Feels Like Home) Norah Jones aveva dedicato ampio spazio alle leggere melodie suonate al piano; tre anni dopo è invece la chitarra a prendere il sopravvento sui tredici nuovi brani. La Jones è in grado di sublimare storie semplici grazie a una calibrata delicatezza e a una sapiente eleganza. Not too late, oltre ad essere costruito intorno a brani essenziali, deve la sua particolarità, alle raffinate e accattivanti interpretazioni della dolcemente ingegnosa cantante americana. Zanca

Un album intimo, spontaneo, maturo e disinvolto: tutto questo è Not too late, il nuovo lavoro di Norah Jones. Un disco quasi interamente scritto di suo pugno, eccetto Sinkin’ soon del produttore Lee Alexander, suo bassista da molto tempo,

keep reachin’up Timmion reacords/Goodfellas Soul / *****

+ AA.VV.

Movers! Vampi soul/Goodfellas Soul / ****

Au Revoir Simone

The Bird of Music Rough Trade/Cooperative dance / ***

Norah Jones

Not Too Late Blue Note folk-jazz / ***½

Nicole Willis & the Soul Investigators

Le Au Revoir Simone sono tre giovani donne provenienti da Brooklyn amanti dei synth e dalle voci piacevoli e allegre. Il loro primo lavoro s’intitolava Verses of Comfort, Assurance and Salvation e uscì nel 2005 per la Moshi Moshi records. Adesso, a distanza di due anni, esce il primo vero e proprio full lenght. Le voci allegre rimangono, il gusto per tastiere e drum machine vintage anche ed ecco che The Bird of Music è un album - undici tracce per un totale di quarantacinque minuti di musica - dance orecchiabile affascinante. Tastiere in primo piano, e le voci di Erika, Annie e Heather che si alternano e si sovrappongono in pezzi spesso pacati e soft, a volte più vivaci come in Sad Song (a dispetto del titolo). Le tre hanno suonato dal vivo alle sfilate di Robert Normand, hanno aperto l’incontro di lettura al Barnes & Noble con David Lynch che le adora e sono venute sinora una sola volta in Italia, qualche settimana fa, come band supporter dei Nouvelle Vague al Transilvania live di Milano. Saranno in giro per gli States tutta l’estate dividendo il palco con Peter, Bjorn and John, Voxtrot e Frida Hyvonen e a Luglio andranno a finire perfino in Giappone. Non c’è che augurare loro buon viaggio, e buona meritata fortuna. Valentina Cataldo

Questi dischi rappresentano due approcci diversi alla stessa matrice musicale. Mentre Movers si propone di scoprire vecchi gioielli, riportando alla luce ritmi sommersi dalla polvere, Keep Reachin Up di Nicole Willis (registrato alla fine del 2006 in Finlandia) cerca di reinventare quei suoni restando fortemente ancorato alle radici. Si può dire quindi che il comune denominatore sia l’amore sconfinato nei confronti della soul music. L’ossatura di Keep reachin up è molto urbana, con un suono vicino alla mitica etichetta Motown o anche a cose più recenti tipo Sharon Jones & the Dap-Kings. Una delle più belle rivelazioni del 2006 per gli amanti del rare groove soul funk. Un album puro, robusto e abrasivo dove la scintillante voce di Nicole Willis ricorda quella vellutata di Aretha Franklin. Un disco consigliato per gli amanti dell’armonia sgraziata. Vampisoul propone Movers. L’etichetta spagnola, artefice in questi anni di un grandissimo lavoro di recupero ma anche di scoperta di tesori nascosti, continua ad offrire musica per palati sopraffini. Per coloro che rimpiangono i meters e la Detroit degli anni 60 Movers è un orgasmo continuo e appassionante dove possiamo trovare alcune perle come Think di James Brown, eseguita dai Soul Seachers, o alcune ballate latin del grande Willy Bobo. Due dischi impeccabili ricchi di piccoli tesori da dancefloor. Postman Ultrachic


Da quale banalità iniziare…Dalla maggiore sensibilità femminile? Dalle manine più piccole e delicate? Dal tocco più vellutato sui tasti del piano? Lungi da me, queste righe hanno l’intento di raccontare e descrivere uno spaccato dell’universo pianistico e omaggiare alcune donne che hanno donato al mondo arte e bellezza. Se si ama il pianoforte lo si fa sia quando è accarezzato da Art Tatum sia quando scosso da Tori Amos, il resto è gusto, predisposizione uditiva. A onor del vero le donne pianiste passate alle luci della ribalta sono state sempre meno numerose dei loro colleghi uomini e questa fintamente velata forma di maschilismo è palese soprattutto nel panorama classico, dove strepitose pianiste come la lettone Dina Yoffe o l’argentina Martha Argerich restano mosche bianche ed esempi estremamente isolati di un sistema quasi completamente maschile. Un ambito in cui il gentil sesso con fatica si è guadagnato lo spazio meritato è quello jazzistico passato, presente e si spera futuro; volendo toccare i punti fondamentali risulta imprescindibile la figura di Nina Simone, americana dalla vita travagliata, mille battaglie, mille delusioni, mille ferite e mille rinascite che si avvertono nella sua voce e sul suo piano, fatto di pochi virtuosismi, lontano da inutili decorazioni, diretto, schietto e lacerante; la Simone, amica di Malcom X e Martin Luther King, abbandonò gli USA e girò il mondo per fermarsi infine nelle isole Barbados dove sposò il primo ministro; fino al 2003 (anno della sua scomparsa) ha rappresentato la forza dell’orgoglio afroamericano combattivo, così come lo ha rappresentato, in modo sicuramente più discreto, Alice Coltrane, figura mistica e pianista, nonché arpista, eterea, inevitabilmente oscurata, ma al tempo stesso resa più famosa, dalla gigantesca figura del marito John, sono memorabili infatti le

ultime sessioni di registrazione di Coltrane che vedono al pianoforte, al posto del grande McCoy Tyner, proprio Alice che ha contribuito enormemente alla svolta spirituale del sassofonista e portato alla creazione di capolavori come Expression e Stellar Regions. Un pianismo più frizzante e solare è quello di Diana Krall, bionda, bellissima e delicata canadese; sostenuta dal grande pubblico dopo l’improvviso amore per lo swing dei nuovi crooner, ha scalato le classifiche mondiali con album a metà strada tra il jazz più tecnicamente rigoroso, struggenti ballads architettate da vecchie volpi del mercato discografico e divertentissimi gioielli musicali schioccadita. Un po’ più in giù, a New York, troviamo un’altra macinaclassifiche, Norah Jones, figlia di Ravi Shankar (il maestro di sitar del Beatle George Harrison) e della cantante soul Sue Jones; con una personalità discreta ma decisa ha creato un dolce sound tendente al folk di altissima classe; decisa in egual modo ma sicuramente più eccentrica è la giapponese Hiromi Uehara impressionante pianista dalla eccezionale tecnica che unisce i linguaggi jazzistici (il suo mentore è stato il pianista Ahmad Jamal che ha ispirato tra gli altri il jazz modale utilizzato da un certo Miles Davis in Kind Of Blue) con l’utilizzo di synth prettamente techno…assolutamente da sentire ma soprattutto da vedere (durante Umbria Jazz 2004 è stata capace di oscurare uno dei più blasonati quintetti di Herbie Hancock). Si potrebbe continuare col nominare altre grandi pianiste (come l’italiana Rita Marcotulli) ma poi non sarebbe altro che una fredda rassegna di accenni e di piccole storie per un argomento e una distinzione che non dovrebbero nemmeno esistere; mi piace continuare a pensare alla musica con passione, rabbia, ansia, noia, malinconia, gioia, profondità e spensieratezza senza sesso, senza senso e senza età. Zanca


KeepCool

15

Mace & Blodi B

Explosions in the sky

Due tra gli artisti più talentuosi della scena hip-hop milanese, Mace (produttore, nel curriculum una serie di collaborazioni con i migliori MC della penisola) e Blodi B (MC proveniente dal gruppo Banhana Sapiens), in società per un disco che dà una bella spallata ai cliché dell’hip-hop tradizionale. Diversamente dalle produzioni hip-hop a cui siamo abituati, a farla da padrone non è il rap, bensì la musica di Mace, un ottimo impasto di sample funk e soul sporcati con perizia da sciabolate di synth, saltuarie chitarre elettriche ed un uso diffuso di delay. Il tutto all’insegna di un groove profondo e potente. Il rap risulta invece meno incisivo, l’uso di metriche spezzate è interessante ma tende a stancare, e i testi sono spesso sconnessi o incomprensibili. I risultati della combinazione sono altalenanti, ma il lavoro è assolutamente interessante nell’insieme, e può aprire all’hip-hop italiano scenari di sviluppo diversi da quelli che hanno invaso le radio nell’ultimo anno. Emanuele Flandoli

Sono il gruppo postrock strumentale par excellence. Chitarre l’una sull’altra, bacchette che volano, corde che si spezzano e al loro posto altre corde. Noise, silenzio, alti e bassi, colori intensi poi solo bianco, poi nero. Nessuna parola: solo strumenti, arrabbiati, che piangono, che gridano, che tacciono. Una corsa all’aria aperta e un respiro che fa male alle narici; forse, meglio, un volo in aereo nel cielo nuvoloso. E poi la pioggia. Vengono da Austin, Texas e sono gli Explosions in the sky. Chi li ascolta si aspetta di trovare poco equilibrio melodico e una travolgente ondata di ritmi strumentali. All of a sudden I miss everyone, sei pezzi, e le aspettative non vengono certo deluse. Anche se c’è chi, paragonando quest’ultimo lavoro agli altri tre, crede che i precedenti siano stati più -come dire- esplosivi. Come se nei pezzi di quest’album si arrivi sempre lì lì al limite, e proprio quando ci si aspetta il boom il pezzo finisce. In ogni caso, rimangono dei pezzi estremamente intensi, evocativi, violenti nella loro dolcezza (l’intro di piano di So long, lonesome, ad esempio…). La band sarà in Europa in giro per i festival estivi, in Italia il 28 Maggio al Covo di Bologna. Chi volesse far un salto non esiti a chiamarmi. Valentina Cataldo

Tilt First Class Music / Universal hip-hop / ***

Hyvonen Frida

Until Death Comes Secretly Canadian piano punk / ***1/2

Ancora un altro gioiellino dalla mia amata Secretly Canadian. Questa volta si tratta di una piccola gemma svedese. A vederla sembra una piccola peste, una di quelle ragazzine punk stile londra ’77. Capelli arruffati, vestitini bislacchi, una vocina dispettosa e un modo giocherellone di strippellare il pianoforte. È stata accostata da molti alle figure storiche del cantautorato femminile, mai io sento ma proprio in questo suo spirito “birichino” si sente un segno di originalità che la distingue anche in quei brani più classici e melanconici. In questi il piano è scarno e a volte addirittura solenne, tuttavia non sempre efficace. Al contrario è nei pezzi più svelti che il disco diventa davvero accattivante e fresco: il piano è picchiato in modo elementare, fanciullesco, piacevolmente stupido, punk insomma. La voce, poi, è camaleontica: ora fuggente ora pressante, ora delicata ora impertinente, ora intensamente struggente ora sbruffona. Da quello che dice ne deve aver passate di cotte e di crude; un senso di innocenza spezzata pervade tutto l’album, ma da queste esperienze Frida ha saputo tirar fuori la giusta forza per dar vita a canzoni che sanno lasciarti qualcosa dentro. Non tutti quelli che hanno qualcosa da esprimere sanno esprimerlo bene, e non tutti quelli che dicono qualcosa hanno qualcosa di buono da dire… Gennaro Azzollini

All of a sudden I miss everyone Temporary residence post-rock / ****

David Karsten Daniels Sharp teeth Fat cat/Audioglobe folk ****

Si parte dal folk del sud degli Stati Uniti, come una traccia su cui sviluppare un tema più articolato. Giusto per dare un indizio si potrebbe pensare a un Devendra Banhart con molti più amici e più psichedelico. Questo Sharp teeth è un disco ispirato, orchestrale, lirico, mistico. La passione per la musica colta, il background di tutto rispetto, sposano il pop, l’indie (a tratti sembra esserci un che di Built to Spill un po’ più edulcorato), l’ecletticità di Sufian Stevens. Un disco ricco che ci presenta un artista complesso in cui il gioco e contrasto degli opposti genera scenari musicali veramente interessanti (ascoltate gli episodi strumentali). Su tutto sembra aleggiare lo spirito protettivo di Bonnie “Prince” Billy. Che le nostre emozioni abbiano questo suono? Osvaldo Piliego

Bobby Conn King for a day Thrill jockey pop / ***

Molti lo considerano, e a ragione, il nuovo Ziggy Stardust, ciò che forse Bowie avrebbe dovuto diventare se avesse saputo raccogliere le nuove tensioni degli anni ’90 e riconsiderare il proprio passato senza troppo autocelebrazione ma con un pizzico in più di leggerezza e ironia che proprio l’etica glam rivendicava. Ma per quanto mi riguarda, nulla mi toglierà dalla testa l’idea che si tratti in realtà della versione indie di Robbie Williams. Fateci caso: entrambi sono pesantemente indebitati con i ’60 ma soprattutto i ’70 inglesi, entrambi amano l’ambiguità sessuale, la stravaganza estetica, i barocchismi musicali. Ciò che Jeffrey Stafford (questo il suo nome all’anagrafe) ha in più semmai è proprio quella libertà creativa che per l’appunto distingue (o dovrebbe distinguere) l’indie dal mainstream. Ad ogni modo, con un po’ di ritardo, mi accingo a recensire questo nuovo lavoro che già da molti è stato premiato come il suo ennesimo capolavoro dopo Rise Up e The Golden Age. Ed in effetti il nostro colpisce ancora nel segno. Il disco, a partire dalla suite prog sinfonica che poi esplode in riff hard-rock aggressivi, è tutto un pout-pourri di citazioni, bizzarie e divagazioni: dalla eleganza stilistica di When the money’s gone e della title track (di gusto pulpiano) ai coretti scopiazzati dai Queen in Love let me down, dal souljazz ruffiano di Twenty-one allo speed-pop ricamato di math-rock di Anybody, dalle chitarre aliene di (I’m through with) My ego agli assoli di Mr. Lucky (una delle migliori, che parte come se fosse una canzoncina mielo-pop con tanto di falsetti femminili e poi si evolve in un crescendo di wah wah che ricordano un’estate dei primi anni settanta). Trionfa su tutte la pacchianeria isterica della strumentale Sinking Ship. Alla fine il disco risulta tanto tremendo quanto irresistibile. Se il suo obiettivo è lasciare disarmato l’ascoltatore, allora il lavoro è perfettamente riuscito. Gennaro Azzolini


KeepCool

16

Simone Cristicchi

Dall’altra parte del cancello Ariola pop, cantautorato / *** ½

Tantissima carne sul fuoco, tanto arrosto, un po’ di fumo. Questo è Simone Cristicchi e tutto sommato è un buon segno, segno di un potenziale che ha bisogno solo di essere affinato. Il successo meritato di Sanremo permetterà all’intero stivale di conoscere il vero Simone, attento, critico, soprattutto ironico. Chi si aspettava un Gaber in miniatura potrebbe rimanerci male, ma potrebbe anche pensare che va bene così, che Cristicchi racconta il suo mondo, il nostro mondo. Fotografie vivide, come L’Italia di Piero, Non ti preoccupare Giulio, Laureata Precaria (ideale proseguimento di Studentessa Universitaria), ci raccontano delle paure dei giovani, ma racchiudono anche la voglia di esserci, di gridare. Nostra Signora dei Navigli è anch’essa un racconto, ma della storia musicale italiana, da Branduardi a Caparezza: tentativo interessante nelle intenzioni, meno nella pratica. È infatti nei momenti in cui la creatività diventa confusione che l’album stenta. Mentre laddove la forma canzone è semplice e allo stesso tempo matura (Legato a te, La risposta, la sanremese Ti regalerò una rosa), Cristicchi ci dimostra che le aspettative nei suoi confronti non sono mal riposte. Dino Amenduni

PFM

Stati di immaginazione Sony & BMG rock-progressivo / *****

Avevano promesso che sarebbero tornati e soprattutto che ci avrebbero regalato un grande rock-progressivo. Dopo il mai troppo osannato Dracula, una solenne opera rock carica di estesi e notevoli momenti progressivi, la PFM, in concomitanza con il trentacinquesimo anno di carriera, ha mantenuto la promessa in modo, assolutamente, non retorico ed usuale. Il nuovo ed originale

Daniele Silvestri

Il Latitante Sony Bmg di tutto un po’ / ****

Il segreto del successo e il miglior pregio combaciano, secondo me, con il peggior difetto: Daniele Silvestri è difficilmente catalogabile. Ogni suo disco, dall’omonimo d’esordio a questo Il latitante, passando per Prima di essere un uomo, Il dado e Uno due, è ricco di ritmi e spunti, di parole impegnate e filastrocche stupide e orecchiabili, di samba ed elettronica, di puro rock e di arpeggi delicati. Il cantautore romano sembra giocare con la sua duttilità e per qualcuno questo è un male. Anche a Sanremo (dove è stato protagonista più di una volta) ha spaziato tra l’orchestrazione della prima apparizione al picchettaggio dell’Uomo col megafono ma è anche stato serio con Aria e divertente con Salirò e la recente La Paranza. Insomma ascoltato un disco gli hai ascoltati tutti, dicono i maligni, eppure ogni volta io sono “costretto” ad entrare in negozio e comprare la sua ultima uscita. Il latitante è la solita enciclopedia musicale: intensa Mi persi, dilatata Faccia di velluto, divertente La paranza, giocosa Il suo nome, riflessiva Sulle rive dell’Arrone, rassicurante Io fortunatamente, dance Gino e l’Alfetta, simpaticamente melensa Ninetta Nanna (Se tu m’amassi / senza interessi / mi capiresti / mica lo so), mazurka Che bella faccia (dedicata al Presidente Silvio Berlusconi), jazzata Prima era prima. Tra gli ospiti Max Gazzè (al basso acustico in alcuni brani), il Bove (voce degli Ohm), Mauro Pagani (violino in Love is in the air) e Jorge Coulon degli Inti Illimani (in Ancora importante). La chiusura è riservata ad una ghost track un po’ ambient. Pierpaolo Lala progetto è nato da un’idea del manager della band, il quale dopo aver realizzato otto cortometraggi ha chiesto alla PFM di musicarli. Il risultato creativo, in parte composto in seguito a sperimentazioni progressive eseguite dal vivo, è Stati di Immaginazione un lavoro in cui il gruppo ha ritrovato appieno le proprie radici artistiche, terminando un percorso iniziato quindici anni prima (periodo del loro rinnovato sodalizio). Negli otto brani non vi è nessuna linea vocale, infatti l’intenzione era quella di dare totale attenzione alla musica, responsabile e complice assieme alla visione dei cortometraggi di un’eventuale stato d’immaginazione, infatti, il CD è corredato da un Dvd contenente i cortometraggi con lo scopo di migliorare e completare, successivamente all’ascolto, lo stato di immaginazione. Buon viaggio prog-immaginativo a tutti. Nicola Pace

Luca Gemma

Tecniche di illuminazione Ponderosa / Edel rock italiano / ***

Saluti da Venus, il suo esordio solista di circa tre anni fa mi aveva colpito. Tecniche di illuminazione, il secondo capitolo della “nuova” carriera di Luca Gemma, mantiene tutti i buoni propositi. Dopo una lunga militanza in numerose formazioni, tra le quali i Rosso Maltese in compagnia


KeepCool di Pacifico, la via del musicista romano (ma con un piede nel Salento) è sempre più lineare e convincente. Tredici brani che disegnano una quotidianità fatta di personaggi, episodi, luoghi, sensazioni e riecheggiano Beck, Lucio Battisti, Pearl Jam, Mario Venuti, Alberto Fortis, David Byrne e molto altro. Testi raramente banali, con una costruzione scorrevole e narrativa, arrangiamenti preziosi e produzione affidata a Paolo Lafelice, già tecnico del suono di Fabrizio De Andrè, Mauro Pagani, Eugenio Finardi, Daniele Silvestri e Vinicio Capossela. La mia preferita è la leggerezza di Al pop del giorno preferisco il soul. Pierpaolo Lala

Kama

Ho detto a tua mamma che fumi Eclectic Circus/V2 Ironia d’autore / ***½

Dopo una lunga esperienza come batterista degli Scigad, il trentenne milanese Alessandro Camattini ha deciso di mettersi in proprio. Ho detto a tua mamma che fumi è il suo esordio (che segue un ep di alcuni anni fa), targato Eclectic Circus, firmato con lo pseudonimo Kama. Undici canzoni che denotano ironia e intelligenza nei testi e poliedricità nelle musiche. Nei suoi racconti senti gli anni sessanta dei Giganti o dell’Equipe 84, nuove e vecchie generazioni della musica d’autore (Rino Gaetano, Moltheni, Bugo e Amerigo Verardi), i Beatles, Jeff Buckley, Badly Brawn Boy e Beck. Ma soprattutto Kama riesce a tenere assieme un cd che si lascia ascoltare tutto d’un fiato e che propone alcuni episodi di assoluto valore come Icaro, Oggi ho vinto a Risiko, Principessa alle sei, Lulù, Ostello Comunale. Completa

17 l’opera la cover de I poeti di Pierangelo Bertoli. Un sound allegro e scanzonato impreziosito da alcuni episodi intensi e seri, sempre con l’ironia che scorre nelle vene: “Passami un po’ di vita e insieme / anche il pane per / raccogliere gli avanzi dei miei sogni / dentro al piatto del passato / E so che mi guarirai tu / Perchè sei un dottore / O il mio amore...”. Davvero notevole. Gazza

Piotta

Multi Culti Universal Hip-hop / **½

Mariposa

Best Company Trovarobato pop / ***½

Il titolo del nuovo disco di quel “settimino multietnico” che sono i Mariposa ripesca addirittura il logo più ambito dagli adolescenti della fine degli ’80, quel Best Company che chiarisce subito l’operazione “nostalgia” attuata da Michele Orvieti & co. Infatti il nuovo lavoro del gruppo di “musica componibile” raccoglie le cover registrate nei nove anni di attività per progetti estemporanei quali compilation e tributi. Al solito a farla da padrone sono i suoni situazionisti e gli arrangiamenti un po’ folli della compagine bolognese, che dai Beatles (magnifica Ob-la-di Ob-la-da con un campione tratto dalla colonna sonora di un celebre film di Bud Spencer e Terence Hill…divertitevi a indovinarlo) ai Gong, passando per Jannacci e Gaber, Stormy Six e Afterhours, omaggia, trasfigura, fa a pezzetti, musica cara a noi e loro in un percorso assolutamente incoerente, con una verve, una creatività e un’ironia da far invidia. Già che ci siete recuperatevi anche il precedente doppio Proffiti Now! Vero e proprio manifesto di musica componibile e vetta artistica della band. Ilario Galati

Leggendo un paio di recensioni entusiastiche ed ascoltando il singolo di lancio, la divertentissima Troppo avanti, ero convinto che, una volta scartato il cellophane, avrei ascoltato il capolavoro del Piotta. E invece. I pezzi davvero validi di questo Multi Culti sono appena un paio, e la multiculturalità sbandierata dal titolo si riduce a (pochi) featuring di MC stranieri (e quasi esclusivamente francofoni). La ricerca “multiculturale” che si poteva fare sulle sonorità è stata invece completamente omessa, e anzi i beat sono generalmente scadenti, quasi dilettantistici. Gli unici momenti di rilievo sono il già citato singolo, ottimo esempio dello stile ironicamente trash che ha reso famoso il Piotta, ed il miscuglio di lingue della title-track. Per il resto il Piotta si limita ad una ordinaria amministrazione, in cui non mancano spunti interessanti (L’incontro, La rue, Senti che pezza) ma neanche cadute di stile decisamente evitabili (Questa è la tua notte, Non fermateci) Emanuele Flandoli


KeepCool

18

4 Hero

The Besnard Lakes

Silver Mt. Zion e Jonathan Cummins di Bionic/Doughboys. Un’ennesima conferma dell’onda positiva che la scena canadese sta cavalcando con successo. Gennaro Azzollini

Conoscete i 4 Hero? Dovreste. Hanno inventato il drum’n’bass, nel 1994. Nel 1998 sono stati definiti “i migliori remixers del mondo”, dai loro stessi colleghi. Eppure, sono un gruppo di nicchia. Molti di voi hanno già ascoltato una loro canzone, tra pubblicità, discoteche, compilation, eppure non lo sapete. È ora di rimediare e di onorare questo favoloso duo londinese, che dopo tanta grazia, si permette il lusso di fare il cd che ha sempre sognato. Play With the Changes è un tributo ai loro miti e alla loro stessa storia. C’è una cover di Superwoman di Stevie Wonder a dir poco rispettosa dell’originale: qualcosa vorrà dire. Eppure, è dove i 4 Hero non citano, ma creano, a far esaltare. Non fatevi scoraggiare da una scaletta strutturata in modo poco invitante, con una parte centrale quasi noiosa e un finale emozionante: il climax è infatti la penultima traccia, Bed of Roses, in cui c’è tutto quello a cui i 4 Hero ci hanno abituato. La prima canzone dell’album, Morning Child è il singolo, molto radio-friendly. Bella, ma chi sono questi 4 Hero? Tappezzeria, della miglior specie. E molto, molto di più. Dino Amenduni

Secondo appuntamento con i canadesi Besnard Lakes scoperti dalla Jagjaguwar al Pop festival di Montreal. Ancora un ottimo disco che si spera possa avere maggior fortuna del precedente. Sì perché, nonostante l’attitudine psych-noise la loro musica è marchiata da una evidente matrice pop da stadio (come lo è stata quella dei Pink Floyd, per intederci) che potrebbe permetter loro di guadagnarsi una certa visibilità in ambito indie almeno quanto bands del calibro di Piano Magic, Low, Spiritualized (tanto per citare artisti affini). In particolare il loro stile narcopsichedelico richiama in modo forse troppo evidente proprio i Low, ma le similitudini non finiscono qui: dalla ricchezza compositiva dei Beach Boys, alla psichedelica trionfale degli Arcade Fire; dalla ruvidità delle chitarre di scuola shoegazer al minimalismo elettronico del kraut rock, alla leggerezza pop dei ‘60; la band insomma attinge idee da vari ambiti della storia del rock per dar vita con abilità a un vortice di chitarre, cori, corni e sintetizzatori, glockenspiel, organi e violini. Ampio il numero di partecipanti, tra i quali citiamo George Donoso III dei The Dears, Chris Seligman degli Stars, Sophie Trudeau dei Godspeed/

La Monte

Play With the Changes Raw Canvas soul / ***½

The Besnard Lakes Are The Dark Horse Jagjaguwar psych-pop / ***

Efterklang

Under Giant trees Leaf post / ***1/2

Dopo il disco d’esordio su Leaf, Tripper, ecco il nuovo ep di questo ensamble danese (ne sono un sacco: 5+3 + 7 ospiti) il cui nome sta per riverbero (letteralmente “dopo il rumore”): 5 nuovi lunghi brani di post rock nordico in stile Constellation racchiusi in un ben curato artwork ad edizione limitata (4500 cd, 1200 vinili). Le canzoni nascono dal precedente tour di Tripper, poi la loro buona riuscita li ha convinti a registrarle un lavoro inevitabilmente corale, orchestrale, dal suono ricco di fiati, piano e archi. soundtracks, glitch, folktronica stile The Books; poi, a dirla tutta, un po’ troppa similitudine con i Godspeed you black emperor e con le litanie sofferte dell’ultimo Richard Youngs. Anzi se vogliamo definire questo disco potremmo proprio pensare al lamentoso folk mitteleuropeo del nuovo Youngs che si mixa con l’elettronica minimale del vecchio Youngs, o altrimenti dei Gsybe in versione digitale. Bisogna dire però che questo disco arriva un po’ troppo fuori tempo limite. Non per niente proprio l’attuale allargamento di orizzonti da parte della Constellation esprime un tentativo di fuga da un genere ormai in fase

Here Comes The Skinny Roller Arab Sheep Records elettro punk / *****

Il nome di Steve Nardini risponde ad una carriera tanto lunga quanto poliedrica che lo ha visto protagonista in progetti quali i Jitterbugs e i Railway Humanoids, calcando ambientazioni che partivano dall’hard punk e giungevano alla new wave, ma con una costante componente elettronica. Dopo una serie di lavori autoprodotti con l’ausilio del suo fedele sinth ed una drum machine, giunge il momento dei La Monte, nuova band formata con Teho Teardo (basso) e Mirco Muner (chitarra e campionamenti). La chiave di espressione di Here Comes The Skinny Roller rimane sempre e comunque un punk rock nervoso che spesso e volentieri sfocia in sonorità elettroniche e a sprazzi psichedeliche. Ciò nonostante, è peculiare l’importanza che viene data ad una melodia diretta ed espressiva, poiché “è sempre di canzoni che si sta parlando” citando le parole della band. Le composizioni comunque non mancano della giusta dose di aggressività che richiama le loro radici post-punk, quindi ritmi e chitarre veloci, ma avvolte dalla magica atmosfera targata Nardini. Un ottimo lavoro nato grazie al giusto connubio tra sistematicità espressiva e parentesi di puro delirio. Imperdibile. Enrico Martello

Plastica

Plastica Sferica elettronica / **

di irreversibile decadimento: come sempre, dopo il momento di massima espressività e originalità, si degenera nel manierismo (e questo vale ancor di più per un genere che, quando se ne parlò per la prima volta, fu subito inquadrato come una sorta di neo-prog, ossia il genere virtuosistico per antonomasia). è quello che sta accadendo proprio in questi anni, ma ciò non toglie che si possa ancora scontrarsi con qualche bel lavoro come questo. Gennaro Azzollini

I gruppi che fanno proseliti sono pericolosi, li trovi dappertutto, palesati o più nascosti. Sembra quasi, che la formula “squadra vincente non si cambia” funzioni per la musica come per lo sport. Ma ci sono tempi e condizioni in cui un fenomeno musicale esplode e si impone. Ascoltando questo disco dei Plastica non si può non sentire pesante e onnipresente l’ombra dei Subsonica. Formula azzeccatissima quella di unire pop, rock, ed elettronica, di avvicinare la sala concerti e la discoteca. I Plastica percorrono questo filone aggiungendo l’esperienza di ottimi strumentisti ma peccando in freschezza ed originalità. Rispetto alla citata formula Subsonica aggiungono suoni che pescano all’elettronica europea, altri che sembrano rimpiangere certi Bluvertigo. L’obiettivo della band sembra la classifica, i suoni sono contenuti e tagliati ad hoc per passare in radio. Sicuramente tra la manciata di brani qualche potenziale singolo, ma alla fine poco rimane. (O.P.)


KeepCool AA.VV.

Soma Compilation Soma Records techno / ***

19 Ad ogni modo, da avere e tirare fuori in occasione del party che faremo quando avremo casa e testa libera. Federico Baglivi

Octogen

2fiveonine Soma Records techno / ****

Festeggiamenti per la Soma records quest’anno, 15 anni di attività e 200 single releases raggiunte nel 2006. La label di Glasgow ha festeggiato con una compilation che vede la partecipazione degli artisti di punta del suo catalogo e non, tra i tanti Alex Smoke (nella foto), My Robot Friend, Octogen, Repeat Repeat. Ritornano a produrre bit sonori anche i Black Dog, presenti con una track sulla compilation. Per quindici anni è stata un punto di rifermento per la scena club in tutto il mondo, si conferma tale con questa nuova compilation che raccoglie un poco tutti i generi che la Soma records ha portato avanti in questi anni, dalla minimal techno alla deep. Undici tracce da ballare e cacciare via gli spiriti cattivi. Federico Baglivi

Tarik1

Il dischetto rosso di Tarick1 Green Fog records elettronica / ***

Andrea Calcagno, in arte Tarick1 viene da Genova; prima di essere Tarick1 ha avuto un passato musicale nel Laghisecchi e nei Numero6. Esce con questo primo album per la Green Fog records dopo anni di attività live, Il dischetto rosso di Tarick1. In questo lavoro di 12 tracce, Tarick da sfogo alla sua verve compositiva elettronica passando da atmosfere dancey, sfiorando i Daft Punk con battute secche e voci vocoderizzate, fino ad arrivare ad atmosfere glitch e dilatate da ambientazioni più nord-oriented. A volte i Daft Punk, a volte la tranquillità, molto spesso l’house, qualche melodia da tastierina giocattolo, ogni tanto un synth che ricorda gli anni ottanta e le converse, un alternarsi di sensazioni ed emozioni diverse compongono questo lavoro. Non tutte le tracce possono piacere, date la varietà dei generi elettronici trattati.

Spettacolare, un bellissimo album. Bello perchè me lo aspettavo diverso, me lo aspettavo più anonimo, più minimal, più “Soma Records”, me lo aspettavo poco variabile, mi aspettavo di non riuscire subito a capire la differenza tra una traccia e l’altra, mi aspettavo di non riconoscerle e distinguerle. Invece queste tracce si fanno riconoscere e come. Pur avendo un’impostazione prettamente techno, contiene al suo interno anime differenti. A volte è come ascoltare gli Air leggermente più nervosi, a volte capita di scambiarlo con un ennesimo album degli Autechre. Sfiorando i Boards of Canada e passando per Aphex Twin, Marco Bernardi (in arte Octogen) ci trasporta dalle atomosfere di Ligrgirl alle disconnessioni testuali di Acieob, alle battute più dure e danzabili di Scionide. Ricompaiono i glitch, e vengono elaborati nuovi break beat, e, pur non essendo totalmente invasivi, ogni tanto fanno la comparsa anche gli 8bit di scuola Nintendo, come del resto in molti altri lavori elettronici di questi anni. C’è gusto e bravura in queste tracce, pronte a imprimere un’altra orma italiana nella storia dell’electronic music. Federico Baglivi

Vivianne Viveur

The Art Of Arrangin Flowers Goodfellas art rock / ****

Ci troviamo di fronte ad un altro spiacevole caso di un talento che, per poter emergere, è costretto ad uscire dai confini italiani. Nati nel 2000, i V.V. realizzano 2 ep promozionali (Dominique Paints Only In China, Funeral For a Cloud) grazie ai quali ottengono numerosi consensi durante le esibizioni nei maggiori locali londinesi. Dopo sette anni di gavetta il loro lavoro viene finalmente finalizzato dall’uscita del primo album ufficiale, The Art Of Arranging Flowers. Il disco mostra una struttura lineare, coinvolgente, da un groove caratteristico che riesce ad incastonare tra loro elementi di new wave, punk, alternative e dark come fossero i frammenti di un mosaico. La track list scorre con estrema semplicità e con il giusto equilibrio tra brani accattivanti

(Angel Grave, Virgin, Elise and the bad moon) e quelli più riflessivi (Verlaine, The Art Of Arranging Flowers), che si succedono in modo da destabilizzare le impressioni dell’ascoltatore costretto in un vortice di ansie e carezze. Il sound cattura l’attenzione grazie ad una voce squillante, leggermente nasale, ma caratteristica, accompagnata da un costante arpeggio di chitarra che sfocia in frames ripetitivi, a tratti minimalisti, e ritmiche distorte puramente punk. La sezione ritmica ci regala una batteria curata ed efficace che crea dei pregevoli intarsi con un basso presente e geometrico. Nel complesso è un lavoro pari ad una fattura artigianale capace di trasportarci verso ambientazioni oscure ma serene, è il ritratto di un paese deserto e silenzioso che spesso viene colpito da tempeste di fulmini e vibrazioni ben articolate. Chi sceglie di visitare questo posto conoscerà il linguaggio dei fiori. Enrico Martello

Maledicta

Eruption from inside Autoprodotto/Halderabaram sperimental estreme metal / ***

La band dei Maledicta nasce nel 2001 ad opera di tre ragazzi perugini. Dopo un breve periodo di prova, nel 2002 registrano il primo demo dal titolo Epoca, seguito qualche mese più tardi dal secondo Dark emersion. Grazie alle recensioni positive di magazines e webzines il gruppo riesce ad esibirsi in numerosi concerti sparsi per l’Italia e sul finire del 2006 esce il primo full lenght Eruption from insides, un lavoro complesso da criticare, da ascoltare ed oserei dire ostico da riproporre live. La loro personale tecnica compositiva vede confluire melodic-death metal, ambientazioni gotiche e decadenti, soluzioni tecnoelettroniche, in strutture multi-tematiche ed eterogenee, legate ad una coerenza caratteriale e stilistica di fondo che rende la proposta, personale e coinvolgente. Tutti i pezzi, ad eccezione di due episodi più scarni e diretti, costruiscono la loro formula elaborativa intorno ad un mix di ritmi sostenuti intervallati da atmosfere più malinconiche dove la melodia è determinante; per non parlare degli incisivi interventi pianistici, in contrappunto, dalla forte espressività neo-romantica. Insomma, un’ottima prova ad opera di questi ragazzi, o decisamente eccellente se si considera di essere al cospetto della loro vera e completa prima opera. Nicola Pace


KeepCool

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Il panorama jazzistico salentino è in salute. Sarebbe difficile fare l’elenco dei nuovi musicisti che si sono affacciati sulla scena negli ultimi anni. Merito anche del lavoro della Dodicilune records che è diventata punto di riferimento per molti. Uno dei migliori pianisti in circolazione è senza dubbio Nicola Andrioli, brindisino di nascita e, ormai, parigino di adozione che ha da poco pubblicato (sempre per la Dodicilune) Alba. Come mai hai scelto la formula del trio? È stata una scelta dettata dai brani in scaletta o, più in generale, ti rappresenta di più rispetto ad altre formazioni? Ben detto, la formula del trio è stata dettata dai brani che ho composto, anche se alcuni non erano stati pensati in origine specificatamente per trio (come Chianti). Osservando i tuoi trascorsi saltano subito all’occhio eccellenti risultati nell’ambito della musica classica. Quanto influiscono sulla tua espressione musicale? Cosa ti ha fatto avvicinare al jazz? Il mio cammino musicale è cominciato in modo assolutamente spontaneo. Ho respirato musica fin da piccolo in casa (mio padre è un sassofonista, mio zio un batterista/pianista, e mio nonno era un contrabbassista) e questo approccio naturale verso la musica mi ha fatto conoscere da subito l’improvvisazione, come maniera di “giocare” con i suoni: suonavo, senza avere nessuna conoscenza tecnica e teorica, fino al momento in cui mio padre decise di farmi studiare la musica e iniziare un percorso conoscitivo e professionale. Così mi sono avvicinato alla musica classica e allo studio dei grandi compositori, e allo stesso tempo coltivavo la musica che sentivo dentro di me. Spesso, durante lo studio di opere classiche mi veniva spontaneo cambiare qualcosa dello spartito, o semplicemente rivoltare gli accordi o aggiungere qualche piccola estensione per colorare e personalizzare la pagina musicale (concedendomi a volte troppe licenze). Non ho scelto di fare jazz, ma ho fatto sempre musica attraverso una certa filosofia jazzistica, di personalizzazione e di liberazione. Hai collaborato e studiato con grandissimi nomi della scena musicale: da quali hai tratto maggiori benefici dal punto di vista umano e musicale? Ogni grande artista ha qualcosa di personale, ed è questo che lo rende “grande”. Ultimamente ho avuto la fortuna di suonare con Billy Hart e Dave Liebman e da loro ho imparato come si possono rompere le barriere che noi stessi

ci costruiamo: attraverso la loro profonda conoscenza musicale giungono facilmente al di là della musica stessa, intesa come arte dei suoni: essa è la strumento per vedere se stessi, in unione all’esistenza globale. Suonare con loro significa esprimersi con

A proposito di pianisti...

Irene Scardia

Sabato 4 maggio il Teatro Antoniano di Lecce, nell’ambito della rassegna Suoni a Sud, ospita il concerto del direttore artistico Irene Scardia, con una produzione che ruota esclusivamente intorno alla magia delle sue note. Accompagnata da un ensemble di nove elementi, la pianista salentina alterna nuove composizioni a brani tratti dal suo repertorio; arrangiamenti originali di autori contemporanei quali: Pat Metheny, Yann Tiersen e Meredith Monk a brani della tradizione salentina. Lo stile è quello a cui ci ha da sempre abituati, indefinibile nella sua originalità, fatto di sonorità morbide e raffinate in cui si rivela una forte matrice jazzistica in combinazione con elementi mutuati dalla musica impressionistica e riferimenti al pianismo moderno contemporaneo. Per questa nuova tappa della sua ricerca musicale, Irene Scardia (pianoforte) ha scelto, come compagni di viaggio, Vincenzo Presta (sassofono), Gianpaolo Laurentaci (contrabbasso), Ovidio Venturoso (batteria e percussioni), Erica Rizzo (fisarmonica e percussioni a cornice) e un quartetto vocale composto da Carolina Bubbico, Antonella Mucelli, Grazia Sibilla e Simona Vespucci.

tutto te stesso , al di là dell barriere (sia dal punto di vista tecnico che da quello sociale) e donare. La società attuale ci insegna la competizione, il successo, la sfiducia, il giudizio: questi sono tutti elementi che non devono esistere durante una creazione artistica, soprattutto in una creazione collettiva come il jazz. I grandi ci insegnano questo: guardare se stessi attraverso una visione globale, di comunità. Stai sperimentando alternativamente due realtà antitetiche: Brindisi (la tua città nativa e di “crescita musicale”’) e Parigi (nella quale stai frequentando il corso di perfezionamento di jazz presso il Conservatorio Nazionale Superiore). Ci puoi descrivere i pro e i contro delle due città, dal punto di vista di un musicista jazz? Brindisi è la mia città natale, dove ho fatto le prime esperienze di vita: la famiglia, gli amici, le persone importanti, le esperienze di “strada”, il mare ed il sole. Questo è stato il primo approccio alla vita, i primi suoni che ho udito, quelli che restano dentro come una dolce eco. Parigi è invece la città della conoscenza e della specializzazione artistica: alte scuole di jazz, enormi biblioteche e discoteche, la possibilità di frequentare Masterclass con i grandi della storia del jazz. Insomma Brindisi non può competere con Parigi per quanto riguarda le strutture e le quotidiane esperienze artistiche che la città offre, ma allo stesso tempo Parigi non ha il mare, o la nostra luce, o la nostra semplicità (e credo che la politica abbia l’obbligo di tutelare la nostra terra). Credo che un artista non debba mai finire di chiedersi, non sotto un aspetto meramente settoriale e tecnico-razionale, ma inteso come domanda/scoperta. In questo modo la profonda conoscenza dell’arte andrà al di là dell’arte stessa. Per chiudere, in quanto chitarrista, mi permetto di chiederti di parlare della tua predilezione per le composizioni di Pat Metheny, e allo stesso tempo di indicarci una rosa di tuoi musicisti preferiti. Il mio primo musicista preferito è stato Pat Metheny, il primo che ho amato. Con lui ho conosciuto la Fusion, successivamente distaccandomi da questo genere e dall’approccio che Pat mi ha insegnato. Ora ascolto di tutto e non solo jazz: amo la musica africana, la musica classica del 900, il jazz degli anni 60 e 70, Miles Davis e Coltrane. Marcello Zappatore


Doveva essere una sola canzone, Il giudizio di Paride scritta appositamente dall’avvocato Paolo Conte per gli Avion Travel. Dopo due anni dal primo incontro, mediato dal grande lavoro della discografica Caterina Caselli, esce Danson Metropoli, un cd che contiene undici brani del cantautore piemontese riarrangiate dagli Avion. L’istrionico leader del gruppo Peppe Servillo ci ha raccontato un po’ la genesi e la realizzazione di questo lavoro, i progetti futuri e i punti di riferimento. Come nasce l’idea di questo Danson Metropoli? Il progetto è partito un po’ per caso un paio di anni fa. Noi chiedemmo una canzone a Paolo Conte e trovammo da parte sua una grande disponibilità. Da questa prima idea è nata la voglia di fare un disco. Paolo ci conosceva da molto tempo, era un nostro estimatore ed è divenuto abbastanza naturale procedere. I brani non sono tra i più celebri di Conte. Come mai avete scelto questi pezzi? Siamo partiti da una prima scaletta di una trentina di brani. In seguito si è lavorato ai primi arrangiamenti. Non voleva essere un omaggio rituale, per questo alla fine abbiamo scelto di mettere in evidenza brani, diciamo così, di seconda fila ai quali Paolo era più affezionato. In Elisir ci sono due ospiti: Gianna Nannini e lo stesso Paolo Conte... Devo dire che il ritornello del brano sembrava fatto apposta per l’energia di Gianna Nannini. È stato un piacere ospitarla anche perché collabora già da molto

tempo con Fausto Mesolella. Quanto a Paolo, ha seguito in maniera diretta tutto il lavoro sul disco, lo ha condiviso con noi, si è fatto custode della scrittura, della melodia, delle armonie ma senza essere chiuso a novità, anzi ci ha invitato a stravolgere i brani, a suonarli alla nostra maniera. Il risultato, come detto, è un omaggio non rituale. Vi eravate già cimentati in alcune cover nel cd Storie d’amore. Vi divertite molto a reinterpretare... Credo che il ruolo dell’interprete debba portare alla condivisione della scrittura di altri. Se fatta in un certo modo l’interpretazione di brani altrui è un momento importante che qualifica il lavoro della musica pop. La novità del cd è il cambio di formazione. Quali sono i benefici di un ensemble ridotto, quali gli scompensi? In effetti ci siamo presi tutto il rischio di questa decisione. Alla fine dei conti questo coraggio credo ci abbia ripagato. Abbiamo perso il titolo di “piccola orchestra”, ma abbiamo guadagnato una centralità della chitarra e uno spazio nuovo attorno ai solismi che valorizza la scrittura. Nel cd inoltre suona Vittorio Remino, il nostro vecchio bassista elettrico (al posto di Ferruccio Spinetti ndr). Dirlo adesso che è uscito il disco sembra facile, ma il gruppo in questo modo è veramente rinato e rifondare qualcosa dopo oltre venticinque anni di carriera non era semplice. In tanti anni di carriera tu e Fausto avete sperimentato vari linguaggi, transitando

per il teatro, il cinema e portando avanti progetti alternativi agli Avion. È un voglia di scoprire nuove forme di arte? Intanto ti ringrazio per il complimento. Non mi sento però un artista. Il nostro è soprattutto un mestiere che si nutre di curiosità, quella curiosità che ti porta a scoprire persone nuove e a intraprendere nuovi percorsi. Tra i vostri progetti c’è anche Uomini in frac (che ha coinvolto anche Lindo Ferretti, Javier Girotto, Danilo Rea e molti altri) un omaggio al grande Domenico Modugno. In che modo ritieni che Mister Volare abbia rinnovato la canzone italiana? Io ritengo che sia un autore che vada approfondito. Per noi è sempre stato un autore molto importante e non ci arroghiamo certo in questo modo il diritto di farlo conoscere ma di suonarlo, proporlo. Spero molto che l’esperienza fatta insieme a tanti altri musicisti si possa ripetere. Credo che Modugno sia stato il primo cantautore che si è servito del patrimonio musicale popolare senza svilirlo. Modugno è stato un grande interprete delle sue canzoni, il primo cantautore, ma anche un artista a tutto tondo, un grande attore. In un parola sola è stato un caposcuola. Prossimi progetti? Intanto prosegue il nostro tour che ci porterà in giro tutta l’estate anche fuori dall’Italia e negli Stati Uniti. Inoltre è prevista a breve l’uscita del cd in Francia, Belgio e Olanda. Pierpaolo Lala


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I Perturbazione sono una della band italiane che meglio riesce a conciliare musica d’autore e rock, le atmosfere di Gino Paoli e la malinconia di Nick Drake. Esce in questi giorni il loro nuovo album Pianissimo Fortissimo, pubblicato da Capitol/Emi. Ne abbiamo parlato con Stefano Milano (basso). La prima domanda d’obbligo è sul passaggio in casa Emi, una multinazionale si concilia con una proposta come la vostra? Questo ha influito sul disco, ne avete sentito la responsabilità? In realtà fa più clamore la notizia che il passaggio in sé. Noi abbiamo vissuto la cosa come una crescita naturale. Siamo partiti da Santeria, passati a Mescal e oggi a Emi. Tutto è successo molto in fretta, non ha avuto ripercussioni sul nostro modo di lavorare, certo abbiamo dovuto un po’ riorganizzare le cose ma non sentiamo il peso della major. Per questo disco avete fatto le cose in grande, ce ne parli? Abbiamo avuto la possibilità di registrare nel nostro studio, questa era una cosa che volevamo, sentirci a casa, in un clima rilassato. Rispetto ai budget non abbiamo avuto a disposizione capitali ma il necessario per realizzare quello che volevamo. Nel corso delle registrazioni sono venuti a farci visita degli amici che hanno collaborato in alcuni brani. Questo è avvenuto in modo molto casuale, casi della vita, amicizie in comune, gente di passaggio. È successo così con Manuel Agnelli che si trovava a Torino,

KeepCool

ascoltando un brano ci sembrava che la sua voce fosse perfetta, lo abbiamo invitato, lui ha accettato ed ecco Nel mio scrigno. Anche Davide Rossi che suona con band come i Goldfrapp e i Coldplay si trovava a passare da queste parti e ha inciso due quartetti d’archi. È sempre difficile mantenersi sul filo che da tempo percorrete, da una parte il pop, dall’altro quella che chiamano musica d’autore... È una strana alchimia, quando scriviamo canzoni ci viene naturale farlo in un certo modo. Dopo tanti anni ci sono degli automatismi, delle cose che sono tipicamente Perturbazione che escono fuori da subito. Dopo un po’ riascoltiamo le cose e cerchiamo di passare oltre. Pianissimo, fortissimo rappresenta un po’ la vostra musica, le sue atmosfere a tratti soffuse e l’intensità che allo stesso tempo la popola - nei testi ad esempio -... Oppure cosa? Ha varie interpretazioni. È un contrasto ma anche i due estremi che comprendono una vasta gamma di cose. Pianissimo fortissimo può essere inteso dal punto di vista sonoro, emotivo, ma anche come una varietà di storie. Durante la realizzazione di questo disco c’è stato anche molto dibattito tra di noi, tante le opinioni. Credo che la parola che meglio descrive il disco sia “varietà”. C’è anche eterogeneità, tante sfumature. Non è un disco lungo. C’è stato lavoro di scrematura, cura negli arrangiamenti, un lavoro canzone per canzone che è durato sei mesi. Sullo sfondo della vostra musica e delle vostre vite c’è sempre Torino, una città e una scena musicale articolata... Non credo si possa parlare di scena. Scena è quando tutte le parti fanno sistema, in questo senso a Torino non c’è una vera e propria scena. Ci sono tante realtà da tanti anni e ogni anno ci sono cose nuove. Certo ci si conosce, magari si entra in contatto, si hanno amici in comune. Ho letto da qualche parte che partecipereste volentieri a Sanremo, credete quindi nel valore popolare della canzone? Il discorso è semplice. Scriviamo canzoni, in italiano. Sanremo è il Festival della canzone italiana, non vedo perché non dovremmo partecipare. C’è da parte nostra anche una certa curiosità. Ci sono esempi di band come i Subsonica che hanno partecipato a Sanremo senza per questo svendersi, anzi. Se la tua strada scorre da un’altra parte anche dopo Sanremo sarà così...va bene. Abbiamo avuto la fortuna di vedervi in Salento qualche tempo fa, avete un rapporto molto fisico con il live, energico anche, una chiave rock...Come sarà il vostro nuovo show? Attualmente stiamo riarrangiando i brani, Elena (violoncello) non ci sarà per un po’ a causa di motivi personali, quindi stiamo provando con un nuovo elemento e non è semplice. Nel live i brani del nuovo disco si alterneranno a quelli vecchi. Speriamo di tornare presto dalle vostre parti. C’è tutta una nuova leva di giovani cantanti e band che cercano di scrivere la nuova canzone italiana o di trovarne nuove strade... Cosa ne pensi, chi riconosci e stimi in questo periodo? Andando in tour capita di conoscere un sacco di gente, un sacco di gruppi. Molti ci danno i loro dischi e noi li ascoltiamo e rispondiamo a tutti. E poi ascoltiamo e seguiamo molto i dischi prodotti da “I dischi dell’amico immaginario”, piccola etichetta del nostro chitarrista. Osvaldo Piliego


Se vogliamo considerare la prima effettiva esperienza discografica di Will Oldham (una partecipazione nella colonna sonora nell’oscuro film di John Sayles Matewan, in cui si presta anche come attore) allora quest’anno il nostro dovrebbe festeggiare il suo ventennale di carriera. Tuttavia sarebbe più onesto aspettare qualche anno. È infatti nel 1990 che registra un vero e proprio album, Fearful Symmetry, dei Box Of Chocolates (band per altro in cui militerà solo per qualche mese). Seguirà poi un 7” EP, Goat Songs, con i Sundowners. Ma sarà nel 1993 che comparirà per la prima volta la ragione sociale di Palace Brothers, sua prima vera creatura, nella compilation Hey Drag City. Tuttavia la sua notorietà non iniziò con le sue canzoni, né con le sue partecipazioni cinematografiche (che continuano saltuariamente ancora oggi), bensì con un indimenticabile scatto fotografico oggi considerato un’istantanea fondamentale di quel tempo che fu, forse la più significativa icona della grande avventura del post rock, quella immagine posta in copertina su Spiderland degli Slint. Proprio con uno dei membri di questa band, Brian McMahon, con il fratello Ned, e con Rich Schuler dei King Kong (oggi sarebbero considerati un super-gruppo del post rock di Louiseville) Will dà vita al suo primo personale progetto, i Palace Flophouse, subito dopo ribattezzatisi Palace Brothers. Il primo album vero e proprio fu There Is No One What Will Take Care Of You (Drag City, 1993), e già qui si rivelava quell’inedita miscela di attitudine Lo-Fi, mal celato attaccamento alla tradizione country-folk e una inevitabile influenza della scena in cui stava muovendo i suoi primi passi (continui i rapporti con i personaggi storici del movimento postrock e in generale della musica di quegli anni: oltre ai già citati menzioniamo David Grubbs, Steve Albini, Alan Licht, Darin Gray e Kevin Drumm dei Brise-Glace, Jason Loewenstein dei Sebadoh, Jason Molina, Bill Callahan, Sean O’Hagan, Jim O’Rourke). Da allora seguirono una quantità innumerevole di albums, singoli, Ep, collaborazioni, partecipazioni (la più bella forse quella in Whatever, Mortal di Papa M aka David Pajo), splits, colonne sonore (la discografia completa e molto altro su http://users.bart. nl/~ljmeijer/oldham/), con continui cambi di denominazione che in qualche modo segnavano i tempi del suo sviluppo: Palace

Brothers, Palace Songs, Palace, Palace Music e tanti altri. Con queste prime uscite il nome di Will si impose come l’inauguratore di una rinascita folk che ancora oggi rimane viva e anzi si è diffusa bel oltre i limiti della sua terra d’origine (innumerevoli sono i personaggi europei che ripropongono in uno stile rivisitato o no temi classici della tradizione americana). Ma la sua figura divenne nota anche per qualcos’altro, di più sottile ma anche più incisivo: una scrittura nichilista di una drammaticità disarmante. Storie tragiche di disperazione, dolore e rassegnazione. Le atmosfere che riproduce provocano un senso di nausea e impotenza, di incertezza e castrazione. Come riferisce Scaruffi “Oldham precipita in abissi di pessimismo raramente lambiti dalla musica popolare”. D’altra parte, questa prima fase, così prolifica ma non del tutto curata dal punto di vista compositivo, sembra esprimere più che altro una personale esigenza, un po’ adolescenziale, di gridare la propria insoddisfazione (e per questo è accomunato a quella generazione di losers cantata da Beck). Ma al tempo stesso è evidente che il ragazzino lamentoso ha stoffa e ambizione. Dopo la parentesi con l’album Joya, nel ’97, per il quale si concede l’uso del suo vero nome, l’anno successivo inventa quella nuova maschera che tutt’oggi porta addosso: con il singolo One with the birds nasce il principe Bonnie Billy. I see a Darkness è l’album della maturità, forse il primo veramente riuscito sotto ogni punto di vista. E diventa subito un classico. Seguiranno ancora innumerevoli prodotti, alcuni indimenticabili, altri interlocutori, di cui occorre per lo meno ricordare il successivo Ease Down The Road (Usa: Drag City 2001), Master And Everyone (Drag City, 2003), e il nuovo arrivato The Letting Go (Domino / Self, settembre 2006). Ok, anche il disco a nome Superwolf, forse un’opera minore ma per me tra le sue più riuscite. La sua consacrazione a nuova stella del firmamento musicale statunitense la raggiunse, credo, quando duettò con Johnny Cash nel rifacimento, da parte del maestro, della sua I see a darkness. Una sorta di cambio della guardia. Venerdì 27 aprile sarà al Fortino di Bari per la rassegna Planet of Sound, non lasciatevelo sfuggire. Gennaro Azzolini


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Più di dieci anni di storia per Lizard Records. Nata dalla volontà di Loris Furlan con fascinazione e passione avant prog oggi la Lizard è molto di più. Una giovane e talentuosa band salentina entra a far parte di questa numerosa famiglia. Abbiamo parlato con i Muzak, dal profondo sud, musica spaziale. Ascolate il loro In case of loss, please return to. La prima volta che ho ascoltato il vostro album sono rimasto sorpreso, vi avevo visto fare i primi passi qualche Arezzo Wave fa e ora vi ritrovo più grandi, cosa è cambiato in questi anni? Giuseppe – Il fatto che Gigi sia entrato nel frattempo a far parte del gruppo è stato un passaggio fondamentale per la nostra sopraggiunta maturità. Il suo stile di batterista ha dato nervo, portato idee ritmiche e aperto scenari inaspettati al nostro suono. Poi abbiamo conosciuto Fabio Magistrali e poco dopo abbiamo pubblicato il nostro disco d’esordio con Lizard. La cosa più bella che ci è capitata, in fondo, è stata proprio questa: lavorare insieme a persone, come Fabio e Loris Furlan, artisticamente libere e scevre da qualsiasi condizionamento e sovrastruttura. Da subito il Salento, terra che amiamo incondizionatamente, ha cominciato a starci un po’ stretto. Abbiamo molto da imparare in questo senso da queste parti. Enrico – Quello era proprio un periodo nero. La nostra musica era fin troppo matura per essere figlia di diciannovenni imberbi. Il fatto è che facevamo tutti i giorni cattive conoscenze. Ecco com’è che siamo più grandi. Scommetto che anche voi al club siete cresciuti! Nevvero Osvaldo? Il vostro album è sicuramente fuori da molti canoni della musica odierna, anche di quella indipendente qual è il vostro rapporto con il passato e la sua musica e il presente, quello che vi circonda? G. – Siamo consapevoli, eccome, di aver realizzato un disco con un suono “unico” e siamo profondamente soddisfatti per questo. Per il resto, siamo tutti dei voraci ascoltatori di musica di ogni genere ma questo non influenza in alcun modo il nostro approccio alla composizione e le nostre scelte. Le poche persone che amiamo e che ci sono vicine sono la nostra reale e inesauribile fonte d’ispirazione. Non credo abbiate una direzione quando scrivete musica, riuscite a spaziare tra generi, a essere intimi e corali. Quanti di voi mettono le mani sulle canzoni, quante teste ci sono dietro i Muzak? E.- Cerchiamo sempre di tenere ben lontane le teste dal luogo dove suoniamo perché ci fanno ingombro. Questo è l’unico metodo che può darti la speranza (almeno quella) di creare qualcosa di intelligente. G.– Lavoriamo quasi sempre tutti insieme in sala prove e il più

KeepCool KeepCool delle volte partiamo da un’idea microscopica che può essere un breve giro di chitarra o di pianoforte, un pattern ritmico, un frammento di suono o dei semplici rumori. È eccitante, poi, osservare come il tutto prende forma ed è stato entusiasmante vedere come quei piccoli detriti, arrivati chissà da dove, si siano trasformati col tempo in In Case Of Loss…. Sud è isolamento ma anche libertà, vantaggi e svantaggi di una band che viene dal tacco d’Italia. G. – Il vantaggio non ha nulla a che fare con la musica; il Salento è di per sé straordinario. Musicalmente, invece, siamo completamente svincolati da qualsiasi “sistema”, non conosciamo nessuno e non abbiamo mai fatto assolutamente nulla per inserirci in quelle piccole e maleodoranti “lobby” che trovo francamente dannose, limitanti. Siamo solo delle persone fortunate: abbiamo registrato un disco e il resto è venuto da sé. Non abbiamo mai cercato nessuno e in questo senso ci sentiamo orgogliosamente “indipendenti”. E. – Oggi il concetto di “ isolamento” non postula necessariamente la frustrazione e la solitudine. Quando abbiamo voluto abbiamo fatto volare la nostra musica da Montesardo a Montreal. L’isolamento è stato una fortuna per noi, che abbiamo vissuto il Tacco del Tacco; è stato uno strumento per scappare dai “vantaggi” e raggiungere una indipendenza-di-fatto senza rimanere intrappolati in quella falsa indipendenza (o IndieDipendenza) che in molti con le chitarre al collo sbandierano illegittimamente . Nel disco ci sono collaborazioni e ospiti di tutto rispetto, ce ne parli? G. – Nel pezzo d’apertura dell’album il violoncello è suonato da Paul de Jong dei Books. La collaborazione con Paul è stata per noi un’esperienza entusiasmante perché crediamo che i Books siano uno dei pochi gruppi al mondo ad aver raggiunto simili vette stilistiche coniugando con intelligenza la tradizione da una parte e le nuove frontiere dell’avanguardia dall’altra. Poi c’è Majirelle che prima non conoscevo e che mi è capitato di vedere per caso in concerto a Galatone tre anni fa. La sua voce a la Suzanne Vega mi ha conquistato fin da subito ed ho pensato che fosse perfetta per l’interpretazione di Sad Hydrogen and Small Hard Tack Fish. Giuseppe De Marco, salentino come noi, ha arrangiato i fiati di If Me You Fly I Am Your Wings e suona il trombone in un altro paio di brani. Sempre in If Me You Fly… il maestro Sergio Filippo ha arrangiato e diretto il coro. Ma ci sono tanti altri amici e amiche che hanno dato il loro fondamentale apporto per la realizzazione di In Case Of Loss…. Ringraziamo tutti. Quali gruppi della scena salentina e italiana vi piacciono? G. – Ma quindi esiste davvero questa presunta “scena salentina”? Comunque, a parte Otakatroi e Shank (raffinati e sofisticatamente avvolgenti i primi; potenti e granitici i secondi) non c’è nient’altro che mi entusiasmi o anche solo stuzzichi il mio interesse nel Salento. A livello nazionale, invece, trovo che i nostri (ormai ex) compagni di etichetta Morkobot siano un gran bel gruppo. E poi, Airportman (altra interessante uscita Lizard) e X-Mary. Questi ultimi andate assolutamente a vederli dal vivo. Geniali e devastanti! Osvaldo Piliego


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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale

la letteratura secondo coolcub

Everyman Philp Roth Einaudi

Bisogna tenere i piedi per terra e considerare tutto quello che questo uomo ha potuto partorire in una vita dedicata interamente alla scrittura. Bisogna non considerare che parliamo di uno dei più grandi scrittori in prosa di lingua inglese, l’autore di pagine altissime di letteratura di fine 900. Bisogna recuperare quel minimo di oggettività che dopo la lettura di Everyman rischia di andare a farsi benedire. Il ventisettesimo romanzo di Roth è distante anni luce dalle pulsioni incontenibili di Portnoy, dallo sfrenato amore per la vita di Mickey Sabbath e da tutti quei personaggi memorabili che hanno abitato nelle sue storie. Nonostante questo Everyman è sin dalle prime battute in tutto e per tutto Roth. Solo che, per citare il bravo Giuseppe Genna, l’ultima fatica dell’autore di Pastorale Americana, è “il negativo del motivo per cui il suo racconto vitalista ha conquistato lettori carnali e desiderosi di una libido letteraria che facesse fremere la carne fuori dalla letteratura stessa”. Anche Everyman, il cui titolo è mutuato da un’anonima rappresentazione allegorica

quattrocentesca, è una storia che parla di carne. Ma la carne questa volta è in decomposizione, e il dolore è dietro l’angolo. Il tutto senza che lo scrittore cada in insostenibili trappole consolatorie: “Sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe mai conosciuto”. Everyman narra la storia di un pubblicitario (senza nome perché la sua è una storia che li racchiude tutti), delle sue tre ex-mogli, dei due figli maggiori che lo disprezzano, di una figlia che lo adora, di un fratello la cui salute fisica provoca nel protagonista profonda invidia. Il romanzo si apre con il suo funerale per poi andare a ritroso nella vita di un uomo normale, di talento come tutti i personaggi di Roth, eppure ordinario nelle sue meschinità e paure. Ma non è la morte il perno di Everyman. Piuttosto è la paura del dolore, quello fisico, e del decadimento di un corpo che una volta, si intuisce, aveva lo stesso vigore e la stessa forza sessuale di Portnoy, Mickey e gli altri. Pagine cariche di un tormento che possiamo arrivare ad

immaginare solo in alcuni, brevi, passaggi: quando per esempio, ormai relegato nel residence per pensionati, l’everyman ‘abborda’ una giovane ragazza pensando di poter afferrare per l’ultima volta uno spiraglio di vita. Roth non lesina in particolari medici, raccontando per filo e per segno di bypass, defibrillatori, coronarie, in un campionario di sofferenza persino maggiore di quella raccontata ne L’Animale Morente, dove il corpo violentato dalla malattia era quello di una ragazza bellissima, che sembrava quasi arrendersi ad un destino inaccettabile per chiunque. L’everyman invece conduce la sua inutile battaglia contro la natura mortale dell’uomo. Nero come il dolore, nero come un negativo fotografico, nero come la rigorosa copertina che racchiude queste cento pagine, intrise di dolore e morte. Un Roth così nichilista non si era mai visto. Vuoi vedere che a ‘sto giro il Nobel lo becca davvero? Ilario Galati


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Nel Gasometro Sara Ventroni Le Lettere

“Un gasometro è un grande container dove il gas viene immagazzinato a temperatura e pressione quasi naturali. Il volume del container si adatta alla quantità di gas immagazzinata, mentre la pressione deriva dal peso di un tetto mobile. Volumi tipici per gasometri di grandi dimensioni sono di 50000 m³ circa, con un diametro della struttura di 60 m”. Questa definizione, tratta da Wikipedia, non era nota a Sara Ventroni quando, nel 1996, tradusse gashouse, termine presente nella Terra Desolata di T. S. Eliot, in gasometro, così come non era consapevole del fatto che quell’enorme mostro apparso in una sua foto scattata a Berlino nel 1999 rappresentasse un gasometro. “Il primo gasometro che intenzionalmente mi sono messa a guardare è infatti quello romano, nel 2001”, scrive la stessa Ventroni nel conte philosophique che chiude il suo Nel Gasometro, oggetto letterario apparso, non a casa, nella collana Fuori Formato, curata da Andrea Cortellessa per la casa editrice Le Lettere. Dal 2001, quindi, la poetessa romana comincia questa sua ricerca artistica attorno a questi bizzarri oggetti industriali. La sua è una vera e propria ossessione: “L’ossessione è forza pura, senza contenuto. Usa ogni mezzo per durare nel tempo, anche contro la nostra volontà. L’ossessione non spiega da dove viene, eppure vuole sempre allargare i propri confini”. Questa ossessione si concretizza in un volume che contiene il poema che dà il nome al libro, un racconto, La buca del dollaro, pubblicato in precedenza su Nuovi Argomenti, lo storyboard per un video sul Gasometro, bozzetti per la messa in scena del suo poema con acrobazie, una decina di pagine conclusive, alle quali ho già fatto riferimento, che motivano la scelta del Gasometro come oggetto di una spasmodica rappresentazione, a cui si aggiungono una lettera introduttiva di Elio Pagliarani ed una postfazione di Aldo Nove. Dopo la lettura di un testo così stratificato, cosa rimane? A tamburellare la mente il volume e la forma del gasometro, residuo industriale di un moderno che non c’è più, simbolo di un’età passata che lascia sul proprio terreno immagini lanciati nel nulla e ridotti ad organismi senza vita. Rossano Astremo

A day in the life Enzo gentile Editori Riuniti

Lo sapevate cosa è successo il 2 novembre del 1975? No? Neanche io prima di leggere a Day in hte life. Il 2 novembre di quell’anno Bob Dylan e Allen Ginsberg (nella foto) si sono recati in visita alla tomba di Jack Kerouack. Chi di voi non ha sognato di conoscere giorno per giorno la storia del rock? Impossibile direte. Non proprio. Esce A day in the life un volume imponente per dimensioni e importanza. Senza le pretese enciclopediche delle storie del rock questo volume curato magistralmente da Enzo Gentile ripercorre come un diario la storia del rock dagli

anni 50 ad oggi. Appunti di avvenimenti, curiosità, decessi, uscite discografiche e tutto quello che vale la pena sapere. Un modo nuovo e interessantissimo per scoprire passo dopo passo l’evoluzione di alcuni fenomeni, il contesto in cui si sono verificati, cos’altro accadeva. il tutto ha poi un’impaginazione accattivante, un ampia selezione di foto ed è facilissimo da consultare. Infine, e non ultimo, il volume si chiama come una delle più belle canzoni dei Beatles. Osvaldo Piliego

L’Italia spensierata Francesco Piccolo Laterza

“Tutta la mia vita è stata un elastico tra la coscienza e l’abbandono. Tra la capacità di ragionare su quello che vedo e la volontà di perdermi nella partecipazione”. È, in sintesi, la motivazione che spinge Francesco Piccolo, a muoversi, in questo suo ultimo libro L’Italia spensierata, edito da Laterza nella collana Contromano, nei luoghi e nei riti del divertimento italiano. Può uno scrittore di libri di successo e sceneggiatore

di film culto lasciarsi cullare dalle logiche che scandiscono gli svaghi collettivi dell’italiano medio? Cerca di rispondere a questo quesito, a suo modo, lo scrittore casertano. Ed eccolo partecipare come spettatore ad una puntata di Domenica in, condotta da Giletti e Baudo, e rimanere allibito per la durezza con la quale gli operatori e tecnici dello studio trattano il pubblico. O ancora, ecco il nostro protagonista intento a visitare, nella giornata che segna l’inizio dell’esodo per le vacanze di Pasqua, il peggiore e il migliore autogrill d’Italia, secondo un’inchiesta del Sole 24 ore, giungendo alla conclusione che “il migliore autogrill d’Italia è nettamente, nettamente, nettamente peggiore del peggiore autogrill d’Italia”. Si giunge, poi, al reportage più riuscito. Piccolo si reca, il 26 dicembre, a vedere Natale a Miami, il film-panettone, avente come protagonisti Boldi e De Sica, l’ultimo film girato assieme dai due, prima dell’amara conclusione del loro connubio. Ci sono pagine esilaranti, in cui Piccolo cerca di dare motivazione razionale al non senso che appare sullo schermo, caratterizzato da un frullatore di equivoci al servizio della risata. Tocca a Mirabilandia. Piccolo accompagna sua figlia Camilla e l’amica del cuore, Stella, nel regno del divertimento, un viaggio tra una miriade sterminata di intrattenimenti, svaghi, giochi e spettacoli nei quali denominatore comune sembra essere la paura: “Perché la gente ha così voglia di provare paura, di sentirsi male, di impallidire, di vomitare? Perché la gente si fa legare su una sedia, si fa tirare su a un’altezza di trenta piani e poi si fa buttare giù a velocità enorme?” Sempre più allibito e sconcertato, non molto convinto della sua scelta di perdersi nella partecipazione collettiva, Piccolo conclude il suo viaggio immergendosi nella Notte Bianca romana, un evento mostruoso dove un numero incalcolabile di gente è alla ricerca di Cultura in tutte le sue possibili salse. Chissà se Piccolo, al termine di questo suo viaggio, tornerà sui luoghi del delitto o preferirà starsene nella sua casetta a scrivere romanzi e sceneggiature senza l’incubo di un nuovo film di Natale da sorbirsi inerme. Io una risposta ce l’avrei. Rossano Astremo

Utero di luna

Marthia Carrozzo Besa

Il Poet/Bar di Mauro Marino è un laboratorio permanente di giovane poetare, che nel tempo ci ha viziato - e spiazzato - con proposte ora giocose, ora arrabbiate, ora raffinate, ma quel che conta mai scontate. Con Utero di Luna, ultima pubblicazione della casa editrice neretina Besa, ci viene confermata - e le conferme non sono mai troppe - l’esistenza di un sentimento poetico estremo e spietato, che abita il


Coolibrì territorio salentino, e qui si consuma, in un ciclo continuo e struggente di generazione, accrescimento, distruzione e rigenerazione. Quello stesso ciclo che Marthia, artista neanche trentenne originaria di Veglie, costruisce con ricerca sfidando le parole, facendone tessuto per trame puttane, e ricamo prezioso per sigilli da scandalo. Le parole - queste maledette - si muovono bellicose tra le pagine dense, sputano senso nelle righe turbate, imbastiscono guerre per bastardi misteri. La lettura attenta e dedicata forse potrà ambire di svelarli, ma non salvarli- questo no perché i versi arcani e incantati non sono benedetti da Dio. A illuminare la veglia alla carne in liriche di Marthia, le sue mille e più Lune: quella “putrefatta d’amore” di Ho visto, quella “isterica” di Bella, quella “che bagna” de Il canto delle menadi, in un susseguirsi di inni all’esoterismo e al femminile. La prefazione di Alda Merini sottolinea le premesse eccellenti di questo talento, e ci dona una nota di tenerezza quando registra: “Questa poetessa scrive bene, ma soprattutto piange”. La postafazione di Vanni Schiavoni richiama all’orgoglio per questo lavoro feroce e delicato. Le parole degli amici, che Marthia ha ospitato in questa sua opera prima, aggiungono poetare a poetare. Scrive Margherita “Marthia è una brutta bestia”. Ed è bene che le brutte bestie dissacrino in ottima compagnia, pena il rischio di smarrire l’arte e ridursi ad inutili anime bianche. Stefania Ricchiuto- Il Passo del Cammello

Un manicomio tra i pali – Portieri con la camicia di forza Luigi Guelpa Limina

Buenos Aires, 1967. Allo stadio “Bombonera” si gioca il derby tra Boca Juniors e River Plate. El Superclasico. A difendere la porta del River c’è Hugo Gatti. Dalla curva dei padroni di casa del Boca piove di tutto verso il povero portiere. Lattine, bottiglie, monetine. Arriva anche una scopa. Gatti non fa una piega. Raccoglie la scopa e, a partita in corso, comincia a ramazzare la sua area di rigore, lasciando incustodita la porta. Da quel giorno Gatti, che fu applaudito dai tifosi avversari, diventerà el Loco, un mito del calcio argentino. È dedicato a sportivi come Gatti il libro Un manicomio tra i pali – Portieri con la camicia di forza, scritto dal trentaseienne giornalista Luigi Guelpa. Un volume che raccoglie ventuno storie di portieri, storie spassose come quelle di Higuita o di Campos (il messicano che per sei mesi l’anno faceva il centravanti) o drammatiche come la vicenda di Helmuth Duckadam, estremo difensore della Romania, torturato dalla feroce polizia del dittatore Ceasescu. Ludovico Fontana

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Nelle ultime settimane il dibattito su Pacs, Dico, Unioni di fatto, e le recenti prese di posizione della Chiesa hanno, ovviamente, acceso un faro importante sul mondo ancora troppo sconosciuto in Italia che gira attorno alle identià sessuali diverse da quella che viene considerata la normalità. Se ha fatto scandalo la dichiarazione di Elisabetta Gardini, portavoce di Forza Italia, che non voleva condividere il wc parlamentare con Wladimir Luxuria, collega onorevole di Rifondazione, ancora più clamore suscitarono le affermazioni di Gianfranco Fini sugli insegnanti omosessuali e quelle recenti sulle “devianze” (e anche sul cilicio, in realtà) della parlamentare ulivista Binetti. Così le Officine Culturali Ergot di Lecce (Piazzetta Falconieri) hanno deciso di organizzare le “Identità multiple”. Una rassegna artistico culturale che nasce per discutere e approfondire con serietà le tematiche GLBT (Gay Lesbian Bisex Transgender). Una serie di appuntamenti che si susseguiranno dal 13 al 21 aprile con la presenza di docenti universitari, scrittori, giornalisti, artisti. La partenza è fissata per venerdì 13 aprile con la mostra fotografica di Claude Cahun, artista surrealista francese morta nel 1954 (nella foto). Alle 20.30 prenderà il via un incontro al quale parteciperanno Francesca Polo (Presidente Arcilesbica) che presenterà la casa editrice Il dito e la luna e la rivista Towanda!, Carmela Marea che illustrerà i contenuti di Tamles, rivista aperiodica a tematica lesbica realizzata da ALI (Alternativa Lesbica Italiana) ed ArciLesbica Salento, e Monia Dragone del neonato circolo ArciLesbica Salento “Le Pizzicanti”. Sabato 14 lo studioso salentino Alessandro Taurino presenterà Identità in transizione. Adottando una prospettiva psicosociale, il volume si pone l’obiettivo di affrontare criticamente il discorso sul genere, approfondendo in modo specifico l’analisi del costrutto della mascolinità all’interno della più ampia e complessa tematica delle differenze; analisi relativamente nuova nell’ambito dei gender’s studies a lungo caratterizzati da riflessioni epistemologico-politiche centrate sul femminile e sull’organizzazione sociale della differenza sessuale. Da un saggio ad una raccolta di racconti: domenica 15 Agnese Manni e Cecilia Maffei presentano Gay everyday. Il libro, pubblicato pochi mesi fa da Manni Editori, raccoglie sedici narrazioni che svariano per tematiche e genere. Giovedì 19 protagonista della serata, realizzata in collaborazione con i Cantieri Koreja, sarà l’attore e trasformista Serafino Iorli che presenterà lo spettacolo Anche i gay vanno in paradiso? Un angelo è stato spedito sulla Terra a fare gavetta: il suo compito sarà quello di capire il perché di pregiudizi e discriminazioni. Ed ecco una folle carrellata di personaggi: un bambino di tre anni in crisi di identità, la poetessa Saffo promotrice dei diritti civili sull’isola di Lesbo, un San Sebastiano in calo di audience, un pinguino innamorato, una drag-filosofa che cerca di spiegarsi il mondo, un Ratzinger omofobico, e via ridendo… Venerdì 20 spazio alla proiezione dei documentari TransAzioni e DragKinging introdotti da Mary Nicotra e Miki Formisano. Ultimo appuntamento della rassegna venerdì 21 aprile con Nicoletta Poidimani che presenterà il suo volume Oltre le monocolture del genere (edizioni Mimesis) e Porpora Marcasciano (vicepresidente del Movimento Italiano Transessuali) che parlerà di Tra le rose e le viole (Manifesto libri). Inizio ore 20.30. Ulteriori informazioni su www.myspace.com/identita_multiple


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Marco Mancassola è nato in Veneto nel novembre ‘73. Dai diciassette anni in poi ha vissuto con mille lavori. Ha vissuto a Padova, Roma, e attualmente a Londra. Come scrittore esordisce con alcuni racconti nel 1996. Nel 2001 esce la prima edizione del romanzo Il mondo senza di me, che diventa un caso nella piccola editoria italiana. Seguono: Qualcuno ha mentito (2004), Last Love Parade. Storia della cultura dance, della musica elettronica e dei miei anni (2005), Il ventisettesimo anno. Due racconti sul sopravvivere (2005). Esce in questi giorni Kids&Revolution (Hacca edizioni) progetto firmato Louis Bode ma che nasconde una band creativa formata da uno scrittore (Marco Mancassola appunto) due musicisti e due artisti visivi. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione a Bari per Lab 080. Ho appena terminato la lettura di Kids&Revolution, mi piacerebbe sapere come è nato il progetto e come si sviluppa il reading/performance in tour. All’inizio c’era un grumo di storie. Le avevo in mente da anni, e avevano tutte per protagonisti dei bambini che, in qualche modo, scatenano la rivoluzione. Col tempo ho capito che queste storie avrebbero avuto forma di fiabe. Fiabe nere per adulti. Ma che c’entrava Marco Mancassola con le fiabe? Una sorta di seconda entità narrativa era sorta in me. E se erano fiabe, avrei avuto delle illustrazioni? Iniziai a cercare qualcuno con cui collaborare. Incontrai Marco Rufo Perroni. Parallelamente presi a parlarne con due musicisti, Giacomo Garavelloni e Sergio ‘Wow’ Bertin, con i quali collaboravo già ad altri progetti. Il protagonista di una delle fiabe principali era un musicista, che muore per aver composto una canzone oscura e fantastica. Che suono poteva avere questa canzone? Bisognava provare a farla. è nato tutto per sviluppo naturale. C’era una suggestione, l’idea di un clima fantastico, dark, struggente e obliquamente politico, e ci siamo resi conto che il nostro desiderio era sviluppare questo clima, dargli forma in vari linguaggi. Allora è nato Louis Böde. Una specie di ‘band creativa’ multimediale. A noi si è aggiunto Nicola Villa, anche lui artista visivo come Perroni, ma che aveva voglia di sperimentarsi sul campo del video. Louis Böde è dunque un gruppo di lavoro trasversale, legato ad atmosfere fiabesche-allegoriche. Kids&Revolution è stato il nostro primo lavoro, ed è anzitutto un libro, ma anche un EP musicale e un video. Stiamo portando in giro un readingconcerto. Il futuro è aperto, ci saranno senz’altro altre storie da raccontare.

Con quale linguaggio lo decideremo a seconda delle necessità, di ciò che ci sarà da dire. I disegni che accompagnano il libro sono molto belli e inquietanti: come mai la scelta monocromatica del beige? La scelta è venuta da Marco Rufo Perroni, che ha lavorato alla parte visiva del progetto. I primi schizzi che ci ha proposto erano disegnati su questa carta beige da macellaio, e avevano già una loro inconfondibile atmosfera: cruda e insieme retrò. Drammatica e nostalgica. Il rapporto vittima/carnefice, l’emarginazione, la vendetta, sembrano essere tra le tematiche affrontate dal libro: potrebbe definirsi una sorta di “Mille e una notte” dark? Il sangue, la strage, la vittima, l’assassino, lo sfruttatore, lo sfruttato che si ribella, gli animali che osservano e talvolta intervengono, il rapporto continuo con la morte, la commistione di realistico e favolistico, la purezza ingenua del giovane eroe: sono tutti elementi presenti in Kids&Revolution. Le mille e una notte, colossale opera di immaginario fantastico, politico, poetico e orrorifico, ha rappresentato il riferimento più costante anche nella struttura. Nel saggio di Giorgio Fontana su Qualcuno ha mentito vieni paragonato a Kafka; D. F. Wallace ha affermato che in Kafka il senso dell’umorismo, per quanto difficile da percepire, sia prepotentemente presente: quanto è presente l’umorismo nei tuoi

scritti? Il cadavere che cambia stanza forse si sta divertendo a prendere in giro il protagonista? Ah, l’umorismo in Kafka è una vecchia questione. Se è per questo, io in Kafka ci trovo un sacco di erotismo!... Comunque, parlando del mio lavoro: diciamo che l’umorismo in ciò che scrivo è come un’anima. Non si vede ma c’è. Peraltro, nel nuovo romanzo cui sto lavorando, e che apparirà più avanti per Rizzoli, sto tirando fuori questo umorismo in modo più esplicito. Diciamo che sto tirando fuori l’anima. Quanto a Qualcuno ha mentito, il mio secondo romanzo in cui c’era un cadavere in una casa abbandonata… Quel cadavere di certo si divertiva alle spalle del protagonista. C’era un piano di realtà nascosta, ulteriore, che i protagonisti del libro riuscivano appena a intuire. Non sarebbe una sorpresa scoprire che quest’altra realtà, sia essa metafisica o chissà, si diverte alle nostre spalle. In Kafka, questa ulteriore realtà coincide con un piano assurdo-burocratico che, non c’è dubbio, si diverte molto alle nostre spalle. Ho partecipato ad un tuo reading un milione di anni fa a Pisa in un bar che all’epoca si chiamava Absolut e tu presentavi Il mondo senza me ancora edito da Pequod ed allora introvabile: quanto è cambiata la tua vita dopo tanti romanzi e una nuova casa editrice diciamo meno “underground”? Devono essere passati cinque-sei anni, eppure sembra un secolo vero? La mia vita nel frattempo è certo cambiata, ma


Coolibrì è difficile dire se questi cambiamenti siano legati alla scrittura o meno. Faccio prima a dire che a cambiare è stata la mia scrittura. È più consapevole, com’è giusto che sia, e più sicura di quello che vuole. Quanto ai lati pratici, che dire? Ho cambiato città una mezza dozzina di volte, vivo di contratti editoriali, ho smesso di avere a che fare con le droghe, ho imparato a stare bene anche da solo. Niente di speciale. Sono soltanto cresciuto. In Last Love Parade Leo dice che sei un “bravo ragazzo perverso” e che riesci a fare le cose più differenti con la stessa indifferenza, credo che sia un’affermazione che possa tranquillamente adattarsi al tuo modo di scrivere, da dove deriva questa capacità di essere glaciale e lirico allo stesso tempo? C’entra in qualche modo il fatto di essere nato nell’operoso e freddo Nord-Est? Ottima domanda. Negli ultimi anni c’è stato un certo movimento, tra gli scrittori dell’operoso Nord-Est, come se si sentisse di aver sviluppato una cifra, un qualcosa che ci accomunava, ma non si riuscisse a definirla. Quest’idea di una spietata umanità, di una glaciale poesia potrebbe essere un tassello. Personalmente ho sempre considerato il Veneto, da un punto di vista emotivo, come tuttora parte dell’Impero Asburgico. In certi autori veneti c’è una desolazione austriaca, feroce e a modo suo commossa. Io non ho paura a dire che, culturalmente ed emotivamente, mi sento molto più a casa a Vienna, o meglio ancora a Berlino, che non a Roma. I popoli nordici hanno un rapporto più pratico con la morte. Sembrano averne meno paura. Per questo sembrano in grado di concentrarsi meglio sulle piccole, momentanee scintille di bellezza della vita. La scena gay, con la nascita della disco e della house, ha fuso insieme spirito di avanguardia, sperimentazione e superamento delle dicotomie di genere. È ancora possibile qualcosa del genere? Credo la scena gay abbia avuto un ruolo negli anni ‘70. Con l’elaborazione della cultura disco, la scena gay ha dato il la, nel bene e nel male, ai canoni della cultura edonista contemporanea. Per il resto, non ho mai creduto a una cultura gay. Esistono delle estetiche di ascendenza gay come il camp, ma chi se ne frega? Non tutti i gay si riconoscono in tali estetiche, e in compenso vi si riconoscono molti eterosessuali. Il discorso culturale gay, da qualunque parte lo si prenda, è destinato a fallire perché troppo sfuggente, molteplice, contaminato. L’unica cosa che due gay dovrebbero condividere sono degli obiettivi politici, e se ci pensi questo è il modello politico dei movimenti dalla fine degli anni ‘90: unirsi momentaneamente intorno a degli obiettivi pratici, non certo intorno a fantomatiche identità comuni. Detto questo, no, non credo che succederà nulla di ‘gay’ nella cultura musicale del futuro prossimo. Al massimo succederà qualcosa di ‘queer’, termine molto più aperto, sebbene ancora vago e troppo simile, a mio avviso, a una specie di lontano cugino del punk. Mr_Big (Emiliano Cito)

La nascita del punk in Italia si è intrecciata al movimento della sinistra extraparlamentare. Da questo incontro, quasi inesistente altrove, esplode un’originale esperienza che utilizza gli spazi occupati dalla precedente generazione per organizzare concerti autogestiti e strutturare un’innovativa e radicale proposta politico-esistenziale. Lungo tutta la penisola decine e decine di gruppi punk formano un circuito perfettamente funzionante che crea le basi di un preciso stile di vita anticonformista e riottoso, destinato a influenzare in profondità anche il presente. In Lumi di Punk, libro edito da Agenzia X, nuova casa editrice nata da una costola della Shake e diretta da Marco Philopat, agitatore culturale e autore del fondamentale romanzo sul punk Costretti a sanguinare, prendono parola trenta protagonisti di quella scena. All’interno si possono leggere due fumetti tratti da Torazine, alcune tavole dello scomparso Professor Bad Trip, una discografia curata da Mox Cristadoro, un ampio apparato iconografico ed un intervento di Enzo Mansueto, poeta e critico letterario barese, che ricostruisce le tappe fondamentali del movimento punk nella capitale pugliese. Quando si radica il punk a Bari? Con la fisionomia di un movimento sotterraneo riconoscibile, il punk a Bari emerge tra 1979 e 1980, anche se alcune individualità decisive esprimevano già una “attitudine” nei mesi cruciali intorno al 1977. La sua vicenda durerà sino al 1984, con lo sgombero del centro sociale occupato La Giungla e l’avvento della deriva hardcore o punkabbestia, che si spingerà sino agli anni Novanta. Quale la peculiarità della scena punk barese rispetto al resto del movimento in Italia? La sua peculiarità fu quella di un incredibile fermento creativo ed estetico a dispetto del deserto culturale tipico delle aree metropolitane meridionali. È il caso di dire: fiori nella spazzatura. Tu prima di essere il poeta di valore che tutti conosciamo, sei stato un attivo esponente della scena punk barese… Sì, io cantavo, nella band postpunk degli Skizo, che, tra 1980 e 1982 si affermò come una delle più significative esperienze della new wave italiana. Proprio in quel frangente della mia adolescenza maturai la passione per la composizione di liriche, allora “cantate”, successivamente scritte e, oggi, musicate. Riconosco una forte continuità tra la mia attuale attività di poeta e quella acerba ma fondamentale esperienza. A distanza di trent’anni, cosa rimane di quegli anni? Come ho già scritto, per me ha senso parlare di punk sostanzialmente per quella nube di fenomeni che ha nella vicenda dei Sex Pistols a Londra, tra 1975 e 1978, il proprio punto di fuga. E quella vicenda è morta e sepolta. Condivido tuttavia l’idea di un’attitudine imperitura, anarchica, che precede e segue quell’esperienza storica, spostandosi e incarnandosi in diverse forme: da Duchamp ai rave techno. E cosa ne pensi dei punk che si vedono tuttora in giro? I ragazzini che oggi clonano alla perfezione modelli di oltre un quarto di secolo fa, se voglio essere benevolo, posso al limite considerarli come prodotti di una estetica citazionistica, di un surfing stilistico, purché facciano ciò consapevolmente. Come dire. Dal no future al vintage! Rossano Astremo


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Coolibrì

C’è come un vento nella poesia che determina l’indeterminato. il mio racconto è andato a male / come credo che succeda Un soffio, che cresce e si fa furia quando dice e svela. a un certo punto che sfugga la pagina / esatta il rigo la parola C’è il poeta c’è il Tempo, da attraversare, che co-spira con gli giusta da riscrivere a macchina / una buona volta con due dita uomini. I “piccolini”, al potere, timorosi delle novità; del venire e spaginare così a caso / dannun- / zio tragico per rubargli il rigo prepotente di chi dovrebbe starsene quieto, al lato, in silenzio, esatto la parola così / per massacrarla con due dita una buona attento. Rimanere perennemente allievi?! volta IMPARARE.” (da Inferno minore – Interludio - Tragedie, sogni L’umiltà è altra cosa. È saper prendere le misure e calibrare il e misteri II) passo. E pure la voce calibra potenza ed armonia, tempera la Trovi D’Annunzio e Beckett. C’è Bodini, Dante e c’è l’amore. Un dote. amore senza via d’uscita, come i fili che muovevano Salvatore La poesia dei grandi di questa terra di mezzo, carezza il canto, Toma, le sue purezze, i voli, il graffio. E c’è Montale. Un ermetismo, lo sappiamo Bene, muove un sogno teatrale, barocca immagini, denso di simboli e una segreta cifra nella miscellanea delle parole deborda tra purezza e realtà. che annichiliscono e sferzano cariche, violente, desideranti. È colta la poesia di qui! Ha letto libri e consumato righi, sospensioni, “salve sono tornata: sono malata malata d’Amore, levami / estasi. S’è interrogata, mai tentando compromessi. S’è fatta alta, ahi la scarpetta, tutta abitata, oddio / formicolata… scrivila in unica, formidabile, nello sganghero, nel poco, nella povertà, giardino… nel lato di confine che abitiamo, incrocio e approdo, sponda (il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio /e un fremito mi ha di partenza. In costante ricerca. E Claudia Ruggeri è cuneo sconvolta […] (da Inferno minore Pagine del travaso) forte in questa gentile folla tutta d’uomini che scrive la poesia Dite parole! Dite parole! Invocava una sera! Dite parole, del Novecento in Terra d’Otranto. Altre, mischiandosi alla musica, malinconica la sua più mature, erano state ancelle nel salotto danza si atteggiava al volo. dell’Accademia di Lucugnano. Claudia Noi abbiamo un compito, adesso che quel “Claudia Ruggeri scompare a Lecce no, è cuneo forte che inesorabile preme, silenzio è colmo di versi, di presenze, di in una notte d’autunno nel 1996. rompe e scardina e fa dolore con la cifra pari che l’avrebbero accolta, coccolata, Aveva 29 anni ed era una delle voci del suo ultimo atto poetico che chiama alla amata: contrastare la vulgata che stinge la poetiche più interessanti della nuova conseguenza l’abbandono. poesia con la biografia. Claudia poetessa generazione dei poeti, quella che Attrice era, densa, melodrammatica. La maledetta, angelo e diavolo. Claudia mito è stata chiamata da un saggio di scorgiamo in alcune foto e lo sguardo è dritto, di un femminile ferito. No Claudia è poesia. Marco Merlin Poeti del Limbo”. tutto d’occhi, aperti, spalancati nell’osare! Paga il male che è nelle cose del Mondo, Queste le prime parole che Mario Adesso, nel cambio del Tempo, i suoi lettori ci dice Michelangelo Zizzi. Ella è purezza. Desiati scrive ad introduzione sono folgorati. È che cambia! Ciò che ieri Una purezza che ha assorbito l’alterità. Una dell’Inferno minore, dove a sua cura impastava mormorii, oggi matura stupori. purezza bambina che gioca il pericolo. La raccoglie gli scritti della poetessa Esatto il suo verso. Saetta spesa al cuore con purezza di chi si riconosce nelle cose non finite. salentina per i tipi dell’editrice mira infallibile. Che per questo scriveva lei: Una poesia sacra, che aspira all’immortalità, anconetana peQuod. per una purezza tutta di cuore. vuole verità. Chè il Mondo non può riflettere il La casa editrcie nasce nel 1996, Il poeta Friuliano Alessandro Canzian, suo sogno degli Angeli. come collana de Il Lavoro Editorialeultimo critico in un saggio inserito nel volume “Vorrei una faccia bestia, laterale, un muso Transeuropa. In questo primo Oppure mi sarei fatta altissima (Associazione / inesplicabile di sogliola a sguardo come / periodo, pubblica appena tre titoli di Culturale Terra d’Ulivo), muove Petrarca per dire intero sufficiente. un’anima da travaso / narrativa, ma subito si fa conoscere e confessarci che: “incapace di comprendere un’anima che risiede che sotto il gran sabbione apprezzare con Congedo ordinario alcunchè di quel che leggeva, era solamente / alleva la deessa, Macchia pulcherrima / in di Gilberto Severini. È nel 1998 che ammaliato dalla dolcezza dei suoni che questa densa sinistra: giunchi falaschi guazza Marco Monina e Antonio Rizzo ne venivano da quelle parole” e anche Mario / neutri e coesi Ordine innanzi / tutto o la fanno una casa editrice autonoma, Desiati, artefice dell’attenzione oggi rivolta necessaria evidenza che si di- / verte nella e aprono il nuovo corso con il testo alla “poetessa della meraviglia”, si dichiara memoria al margine ambulante / alla soglia d’esordio Furibonde giornate senza suo commosso lettore. acrobata, che si consuma… e tra le pietre / atti d’amore di Michele Monina. “Da allora ad oggi, una breve ma Intera lei, integra. Corpo poetico che mischia sparite del giardino i silenzi / si nascondono intensa storia, fatta di libri che per lingue, fa eco, sfiora e sfonda ogni senso. Si con precisione e pare un caso ormai / la mia primi abbiamo amato” spiegano fa imprendibile, unica ai “suoi”, proiettata parola Bianca, bianca da respirare profondo gli editori. Per citarne solo alcuni: La nell’altrove, saettante. Presente, la voce. Le / in tanta fissazione di contorni o forse vuoi donna di scorta di Diego de Silva, voci! Scandisce parole, cantilena parole, / l’arresto, l’appartenenza inevitabile / alla Assalto a un tempo devastato e vile affluvia parole. Per Bene le dice, col suo sillaba all’inevitabile distensione / delle terre di Giuseppe Genna. canto! trascorse delle altre ancor / da nominare Ma il primo vero successo La parola è figlia in lei, ci dice Maurizio chiamarle una poi l’altra tutte / le terre perfette commerciale giunge nell’autunno Nocera, le sue parole nascono per essere alla mente afferrata / di nomi che smodano del 2001 con Il mondo senza di me di dette. scadono che portano / alla memoria o la Marco Mancassola (vedi intervista a (dimenami con ordine la sillaba / (prestami stravagano? (da Inferno minore-Pagine del pag. 28): la prima edizione esaurita in la parola che si addica: aulika; che sia forte travaso) meno di un mese. o poeta che ti copio come capita ora che Mauro Marino


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il cinema secondo coolcub

La masseria delle allodole Paolo e Vittorio Taviani 01 Distribution

Se il ‘900 è stato il periodo delle guerre di massa e dell’odio insensato, metodico e programmato, questo ventunesimo secolo, ancora in fasce, sembra proprio quello del recupero di tragedie che sembravano dimenticate. Tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan, il nuovo film dei fratelli Taviani affronta e decifra il difficile tema del genocidio attraverso la storia di una famiglia armena che ristruttura una vecchia masseria abbandonata per ospitare i propri parenti in arrivo in Italia. L’attesa però sarà vana, perché i loro cari sono stati ammazzati per mano dei turchi durante uno dei più sanguinosi episodi di pulizia etnica che la storia ricordi. Su queste basi si muove

un film molto intenso, visivamente incisivo e interpretato da un cast internazionale in cui spiccano Paz Vega e Mohammed Bakri. Splendide come sempre la ricerca del quadro e le scenografie che fanno da sfondo ideale a una pellicola dal sapore teatrale, che riesce a muoversi sul filo della fiction senza tuttavia esserlo. Ed è proprio qui l’unica pecca di un film che lascia di tanto in tanto troppo spazio alla banalità, rifugiandosi nell’immagine per sfuggire al racconto o, visto il caso, semplicemente alla stanchezza. Non deve essere facile raccontare una strage, ancora di più quando è smentita come in questo caso. Può davvero un uomo negare davanti

all’evidenza storica di aver trucidato milioni di persone? A quanto pare si, ed è l’orgoglio di chi ha bisogno non solo di sapere, ma anche di dimostrare a far nascere lavori come questi. Forse è banale dirlo, ma oggi più che mai si avverte il bisogno di una memoria collettiva e condivisa, che eviti il ritorno della follia. La storia ha più volte dimostrato di essere facile da oscurare, riaprendo la strada a dittatori e revisionisti. Il nostro compito è quello di essere sensibili e vigili, quello di questi film di ricordarcelo. Per non dimenticare. Michele C. Pierri


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300

Zack Snyder Warner Bros

Zack Snyder porta sul grande schermo 300, storia partorita dal genio di Frank Miller nel 1998, appena alcuni anni dopo la creazione dell’altra grafic novel di culto, Sin City, diventato poi film dagli incassi record nel 2004 grazie a Robert Rodriguez (con la supervisione alla regia di Quentin Tarantino). La storia ruota attorno alla figura del re Leonida e dei 300 valorosi guerrieri di Sparta. Nel 480 d.C nella gola della

L’ultimo Re di Scozia Kevin Macdonald 20th Century Fox

Il film di Kevin McDonald descrive Idi Amin Dada, dittatore dell’Uganda negli anni 70, visto attraverso gli occhi di un ragazzo scozzese, che appena laureato parte per l’Africa e diventa per caso medico personale e poi consigliere del sanguinario presidente. La storia, basata su fatti reali, segue l’ascesa e la caduta di Amin e il film si trascina per due ore tra vicende storiche poco conosciute non supportate da una analisi dei fatti poco più che superficiale. Notevoli le ambientazioni e soprattutto la splendida interpretazione del premio Oscar Forest Whitaker che, è il caso di dire, giganteggia su tutti riuscendo a rendere perfettamente il duplice aspetto di follia e populismo del suo personaggio. Sconsigliato ai deboli di stomaco il finale pulp, nel quale il regime e i suoi uomini svelano la loro vera natura. In definitiva il film ha il merito di provare a descrivere l’utopia di realizzare un’Africa che sognava di affrancarsi dai soliti clichet, di cui però il film si nutre, ed è qui il suo grande limite. Willj De Giorgi

Termopili, affrontarono la morte nella storica battaglia per ritardare l’avanzata dell’immenso impero persiano. Il loro estremo sacrificio valse a riunire le varie città della Grecia nella comune volontà di respingere il dominio del “re - dio” Serse. Gli intenti narrativi di Frank Miller sono palesi. Non si vuole perseguire una ricostruzione storica e politica fedele, ma si vuole esaltare la grande forza di volontà e il lato prettamente eroico di un ristretto gruppo di uomini, che riuscì a tenere testa per tre lunghi giorni ad uno degli eserciti più maestosi che la storia ricordi. Snyder, giovane regista proveniente dalla “scuola” del videoclip e dello spot pubblicitario, ripercorre la stessa, identica strada dello scrittore. Mantiene intatti gli elementi visuali della grafic novel di origine, anzi sembra quasi servirsene come se fosse uno storyboard. Ricrea alla perfezione le atmosfere cupe e claustrofobiche (grazie all’ausilio del blue screen). Ogni sequenza del film viene rallentata e dilatata fino all’estremo e plasmata come fosse una serie di dipinti. La pellicola trova i suoi punti deboli però nella fase di sceneggiatura, infatti la contrapposizione tra bene e male è fin troppo semplicistica, e nella scrittura dei dialoghi, spesso mediocri e fin troppo sbrigativi. Il regista può comunque fare affidamento sulla grande prova del gruppo di interpreti. La coppia (da tenere d’occhio!) Gerard Butler, re Leonida, e Lena Hedley, la regina, spicca su tutti, e offre una prova attoriale matura e completa. Sabrina “Zero Project” Manna

Proprietà privata Joachim Lafosse Bim

attaccamento, gelosia. Una donna e due figli gemelli al centro della storia. Lei si morde le unghie, è insicura, nasconde la verità. Loro sono abbastanza grandi, litigano come bambini, annoiati guardano la tv. Quindici anni di sacrifici per tirare avanti, una splendida casa in campagna da vedere oppure no, i rapporti familiari nei loro momenti complicati dolci allegri strazianti. Per la regia di Joachim Lafosse, con una splendida Pascale interpretata da Isabelle Huppert un film franco-belga che non ha sbancato ai botteghini ma avrà fatto riflettere chi l’abbia visto. Una dedica quanto mai azzeccata, la dedica “ai nostri limiti”. Perché ognuno di noi convive con sensi di colpa, con tanti se e tanti ma con i quali, prima o poi, arriva sempre il momento di misurarsi. Una canzone c’è, alla fine, di solo violini. Il titolo? “Resurrection”. Valentina Cataldo

Maradona – La mano de Dios Marco Risi 01 Distribution

Viene dall’Italia, e non poteva essere altrimenti, il primo film biografico su uno dei campioni più amati della storia del calcio, Diego Armando Maradona. La pellicola di Risi prova ad emozionare raccontando la sua vita non sempre perfetta, ma pur sempre eccezionale che va dalla povertà e gli esordi nell’Argentinos Junior alle luci della ribalta fino al tracollo fisico e morale, che ne ha stroncato in anticipo la carriera. Una vita entusiasmante, spesso sopra le righe, ma di sicuro mai banale. Per appassionati.

Il mio Paese Daniele Vicari Arci / Ucca

Nuova pellicola per Daniele Vicari che porta in sala un documentario intitolato Il mio Paese, interessante road-movie ispirato a L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens. Il lavoro cerca di porre una riflessione su una nazione alla costante ricerca di sé, perennemente in crisi, ma mai alla completa deriva. Il film, presentato in anteprima al Festival di Venezia ha vinto il premio Pasinetti per l’attualità giornalistica.

Nero bifamiliare

Federico Zampaglione Moviemax

Proprietà privata è un film particolare. Nessuna colonna sonora, inquadrature a lungo ferme, quasi interamente incentrato sui dialoghi. E proprio il comunicare è il perno di questo film. Liti familiari, duri silenzi, lunghi sguardi. Soldi e rancori, colazioni pranzi e cene, passato presente e futuro. Ma anche grande intimità, profondo

Esordio dietro la macchina da presa per Federico Zampaglione, cantante e leader dei Tiromancino. L’artista romano porta in sala una insolita commedia nella quale una giovane coppia decide di compiere l’importante passo di andare a vivere insieme. La scelta della nuova abitazione ricade su una villetta bifamiliare situata in un elegante quartiere. Ma non tutto va come da programma. Nel cast Claudia Gerini, protagonista anche del videoclip di un brano estratto dalla colonna sonora del film intitolato L’alba di domani.



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da aprile


CoolClub.it MUSICA

ogni martedì / Sonic the tonic e Mr Moon alla Negra Tomasa di Lecce ogni mercoledì / Acoustic live alla Negra Tomasa di Lecce ogni mercoledì / Conversazioni sonore allo Spazio Sociale Zei di Lecce giovedì 5 / Blog al Jack’n JIll di Cutrofiano (Le) Serata all’insegna del punk e del rock salentino allo storico locale di Cutrofiano. Sul palco due delle band più longeve della scena alternativa di Lecce: i Bludinvidia e gli Psycho Sun. In apertura spazio ai Logo. L’associazione culturale C-ARTE durante lo spettacolo metterà in scena alcune performance dalla caratteristica vena surreale. Ingresso gratuito. venerdì 6 / Il genio allo Spazio Sociale Zei di Lecce sabato 7 / Psychosun + Postman Ultrachic all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) sabato 7 / La rivincita dei nerds 2 + Pleo + Populous + Roccan ai Sotterranei di Copertino (Le) lunedì 9 / Steela e Apres La Classe nel fossato del Castello di Otranto martedì 10 / Smoke all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Il progetto è nato nel 2004 dall’incontro tra alcune delle figure di primo piano della scena reggae italiana. Smoke è frutto di una ricercata simbiosi ritmica e melodica ed espressione della libertà della loro vena artistica, grazie a molteplici collaborazioni con artisti internazionali di spessore facenti parte della scena reggae mondiale. martedì 10 / Audrey al Bohemien Jazz cafè di Bari martedì 10 / Jam Session al Lawrence sulla Lecce/San Pietro in Lama Roberta & Carlo presentano Jam Session, un live itinerante dedicato ai musicisti appassionati di tutti i generi. Dodici appuntamenti per dodici locali tra le province di Lecce e Brindisi. Ingresso gratuito. mercoledì 11 / Faun Fables ai Giardini di Atrebil di Bari mercoledì 11 / Giovanni Allevi al Teatro Curci di Barletta giovedì 12 / Vollmar + Elephant micah alla Taverna del Maltese di Bari giovedì 12 / Blues Portrait al Jack’n Jill a Cutrofiano (Le) giovedì 12 / Giovanni Allevi al Teatro

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dal 20 aprile al 18 maggio

Keep Cool

La rassegna di rock e dintorni firmata Coolclub, con la direzione artistica di Cesare Liaci, torna anche quest’anno per la sua terza edizione. Cinque concerti di musica italiana e internazionale prima della grande abbuffata estiva fatta di festival e rassegne per tutti i gusti. Si parte venerdì 20 aprile all’Istanbul Cafè di Squinzano con The Styles. Un esordio fortunato per gli italianissimi The Styles e per il loro sound sporco e molto british: i loro due singoli Glitter Hits e The Music Sucks hanno infatti conquistato i principali network italiani e canali televisivi. La musica del trio del lago di Como è influenzata da Beatles, gli Who, i Kinks, i Led Zeppelin, i Creedence Clearwater Revival, i Clash e molti altri. Sul palco saliranno Guido (voce/chitarra), Luke (batteria) e Steve (chitarra). Sabato 28 nell’Atrio del Palazzo Ducale di Novoli si terranno invece le selezioni per andare a suonare allo Sziget Festival di Budapest. Sei gruppi che si contenderanno un posto alla finale barese che poi condurrà un gruppo italiano sul prestigioso palco del festival ungherese. In apertura, alla Saletta della Cultura, si esibirà Luca Nesti. In chiusura invece sul palco salirà Moltheni. Sabato 4 maggio arriva all’Istanbul Cafè la conturbante e misteriosa cantautrice tedesca Miss Kenichi (nella foto). Grazie all’intensità ed all’ispirazione struggente da vera Outsider, Miss Kenichi è stata paragonata dalla stampa italiana ed europea ad artisti quali Cat Power, Hope Sandoval, Emiliana Torrini, Nico,Susan Vega, Lisa Germano. Venerdì 11 si torna a Novoli con il concerto dei Giardini di Mirò che presenteranno i brani di Dividing Opinionsc, loro terzo cd, un disco politico nel senso dello schierarsi senza accomodamenti; e dice ciò che sono ancora oggi i Giardini di Mirò, ovvero il più efficace e aggiornato biglietto da visita per l’indierock del nostro paese all’estero. (ingresso 7 euro) Venerdì 18 la rassegna si chiude all’Istanbul Cafè con i romani Zu. Musica strumentale ed incatalogabile per basso, batteria, sax baritono. Circa 800 concerti in 5 anni, in circuiti punkrock, freejazz edi musica contemporanea, in Asia (corea e giappone), Usa, Canada, Russia, Europa, Europa dell’est, Africa. Zu collaborano con Mike Patton, Thurston Moore e Jim o’Rourke dei Sonic Youth. Inizio concerti ore 22.00. Ingresso 5 euro. Politeama Greco di Lecce venerdì 13 / Ingraved, Clinicamente morti e Burning Seas all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) venerdì 13 / Amerigo Verardi allo Spazio Sociale Zei di Lecce Lotus è il nome dietro il quale si cela l’ultimo progetto musicale di Amerigo Verardi, figura storica dell’underground italiano degli ultimi quindici anni. sabato 14 / Federico Sirianni alla Saletta della Cultura di Novoli (le) “Dal basso dei cieli”, secondo cd del cantautore che si muove tra Genova e Torino, è un disco che si fa ascoltare con piacevolezza, è un caleidoscopio che mescola suoni e atmosfere, richiami cinematografici (come nella intro dedicata a Ennio Morricone) e letterari, Balcani e

Italia, Bulgaria e Sud America, blues e patchanka. Inizio ore 21.30. Ingresso 5 euro. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it sabato 14 / Superpartner all’Arci di Francavilla Fontana (Br) sabato 14 / La notte bianca a Lecce sabato 14 / La notte nera all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) sabato 14 / Fiorella Mannoia a Brindisi sabato 14 / Terremoto + Reality Grey ai Sotterranei di Copertino (Le) domenica 15 / Antonella Ruggiero al Teatro Politeama Greco di Lecce martedì 17 / Bob Corn + Sj Esau al Bohemien Jazz cafè di Bari giovedì 19 / Muzak al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) venerdì 20 / Sudivoce vocal ensemble allo Spazio Sociale Zei di Lecce


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Formazione sonora,composta da 10 elementi e diretta da Irene Scardia. Pur traendo slancio creativo da una connotazione etnica con sguardo a sud, l’ensemble propone un repertorio assolutamente originale per una formazione corale. I brani proposti spaziano dalla musica pop e rock internazionale e piacevoli incursioni nel jazz e nella soul music a composizioni originali di Irene Scardia. Gli arrangiamenti dei Sudivoce sono a cura di Marco Della Gatta.Il gruppo si avvale della collaborazione del pianista Fabrizio Leccisi. Ingresso gratuito sabato 21 / Taranta Social Club all’Arci di Taviano (Le) sabato 21 / Rock’n Roll party all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) mercoledì 24 / Neffa al Teatro Politeama Greco di Lecce mercoledì 24 / Jam Session al Lawrence sulla Lecce/San Pietro in Lama giovedì 26 / Derosa al Bohemien Jazz cafè di Bari giovedì 26 / Paolo Zanardi al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) I barboni preferiscono Roma è il titolo del secondo cd solista del cantautore barese Paolo Zanardi. Uscito a circa due anni di distanza da Portami a fare un giro (sempre per la coraggiosa etichetta Olivia Records) il cd conferma tutte le positive critiche raccolte dal quasi quarantenne cantautore. I barboni preferiscono Roma raccoglie 13 brani che raccontano quartieri cinesi, trucchi da Houdini, storie e destini di splendide lucciole slave, fragili playboy. Ingresso gratuito. Inizio ore 22.00. Info 0836541126 – 3292273200 giovedì 26 / Almandino Quite De Lux ai Sotterranei di Copertino (Le) venerdì 27 / Sergio Cammariere al Teatro Politeama Greco di Lecce venerdì 27 / Bonnie Prince Billy (vedi articolo a pagina 35) al Fortino Di Sant’antonio di Bari venerdì 27 / Andrea Favatano-Emanuele Tondo-Igor Legari allo Spazio Sociale Zei di Lecce Il trio si propone di interpretare le più belle pagine dei classici del jazz, fino ai brani più moderni, creando una calda dimensione di freschezza e forte coinvolgimento emotivo, grazie all’ormai collaudato interplay fra i tre musicisti. sabato 28 / Luca Nesti alla Saletta della

Cultura di Novoli (Le) Al cantautore toscano Luca Nesti piace molto mettersi in gioco. Da qui il titolo del suo ultimo lavoro discografico (uscito un paio di anni fa) Ho cambiato idea, il naturale approdo di un musicista che nella sua vita ha fatto quasi tutto. Già autore di colonne sonore e di canzoni per e con Giancarlo Bigazzi cantate poi da Anna Oxa, Mina, Beppe Barra, Riccardo Tesi, Luca nel 2001 esordisce come solista. “Ho cambiato idea contiene 13 brani inediti che si muovono tra rock e canzone d’autore, letteratura e ironia. Inizio ore 21.30. Ingresso 5 euro. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it sabato 28 / Metal Night all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) lunedì 30 / Rollerball al Bohemien Jazz cafè di Bari giovedì 3 maggio / Katamine al Matisse di Bari venerdì 4 / Liquid Laughter Lounge Quartet al Bohemien Jazz cafè di Bari

Teatro martedì 10 / Antonello Taurino e Massimo Colazzo in “Poeti Folgorati... ovvero come provammo a distruggere la poesia italiana del novecento!” al Caffè Letterario di Lecce mercoledì 11 / Sacco & Vanzetti al Teatro Politeama Greco di Lecce

La stagione teatrale del Politeama Greco di Lecce prosegue con lo spettacolo Sacco&Vanzetti di Michele Santeramo con Michele Sinisi, Ippolito Chiarello, Angela Iurilli e Christian Di Domenico per la regia di Simona Gonella. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti nascono a cavallo di due secoli particolarmente burrascosi ai due capi di


CoolClub.it un’Italia contadina, da cui loro, figli entrambi di piccoli proprietari, partono poco più che adolescenti per l’America: Sacco veniva da Torremmaggiore in Puglia, Vanzetti da Villafalletto in Piemonte. Il 5 maggio 1920 vengono arrestati per due reati commessi il 15 e il 24 aprile e diventano Nick e Bart: due eroi. Loro malgrado. Perché né l’uno né l’altro mai hanno pensato di fondare le loro vite nel desiderio di diventare qualcuno. Eppure, da quasi ottant’anni i loro nomi risuonano nelle piazze, nei libri, nella musica, nei film. L’ingiustizia di cui l’America li fece oggetto ancora oggi scuote le coscienze e spinge molti ad interrogarsi su una delle vicende simbolo più intricate del novecento. Lo spettacolo non vuole ripercorrere pedissequamente la storia del processo e dei sei lunghi anni che trascorsero in attesa della pena capitale, né pretende di proporsi come una sorta di documentario dell’intera vicenda. Sipario ore 20.45. Ingresso 20, 17 e 10 euro. Info 0832242000. venerdì 13 / Al mattonificio ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce Lo spettacolo riprende il testo di Luigi Monteleone e si presenta come un vero e proprio concerto per sassofono e voce. Ingresso 10 euro. venerdì 20 / Il Natale di Harry ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce Steven Berkoff, scrittore, attore teatrale e cinematografico, è figura nota a chi segue l’evolversi del teatro inglese contemporaneo e ne apprezza le qualità innovative e l’originalità delle stesure. Le tematiche affrontate da Berkoff, in particolare, traggono origine da una osservazione disincantata e senza veli di una realtà che è attuale, ma che ha anche l’intensità e la forza di un’antica tragedia, perché fa riferimento a valori che da sempre costituiscono il senso stesso dell’essere uomini. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 e 7 euro. Info 0832242000. venerdì 27 / Il suo corpo trasparente al Cinema Elio di Calimera venerdì 27 / Bocca di Cowboy ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce C’è una scenografia unica: una stanza da letto in disordine, con qualche manifesto sulle pareti, una batteria e una chitarra elettrica in un angolo, cibo, bottiglie, bambole di pezza, crocifissi, un corvo morto. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 e 7 euro. Info 0832242000.

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venerdì 4 e sabato 5 maggio / Kanun ai Cantieri Teatrali Koreja Un vero e proprio vortice balcanico, gioco di passioni, amore, odio e vendetta, che corre sul filo teso tra vita e morte - appare in questa storia, ispirata da un antico codice Albanese. L’obiettivo è non fornire una risposta, ma solo richiamare l’attenzione su tali questioni. Per non di dimenticarle essendo esse a renderci vivi - sono necessari solo pane, sale e un cuore aperto. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 e 7 euro. Info 0832242000.

CINEMA dal 17 al 22 aprile / Festival del Cinema Europeo a Lecce Nuovo appuntamento con il Festival del Cinema Europeo, giunto ormai all’ottava edizione e in programma al Santalucia di Lecce dal 17 al 22 aprile. Ideato e organizzato dall’associazione culturale “Art promotion”, il festival mira a dare spazio a quelle realtà del mondo filmico che godono di poca luce, in modo da promuovere l’incontro tra operatori del settore e valorizzare nuovi talenti. Numerosi gli approfondimenti che quest’anno avranno come fiore all’occhiello una retrospettiva sul lavoro del cineasta greco Theo Angelopoulos che omaggerà il pubblico salentino con un incontro in cui descriverà il suo percorso artistico. Legate al territorio invece la rassegna Puglia show, che presenta il meglio dei cortometraggi di produzione pugliese e le giornate studio realizzate in collaborazione con l’Università del Salento. La manifestazione si svolge con il patrocinio di Regione Puglia, Centro sperimentale di Cinematografia e Ministero per i Beni e le Attività culturali. Info www. europecinefestival.org venerdì 20 e 27 / Segnale di Corto al Flatus Vitae di Erchie (Br) venerdì 4 maggio / Segnale di Corto al Flatus Vitae di Erchie (Br)

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CoolClub.it Nell’immaginario collettivo statunitense l’epica vicenda dell’esigua milizia spartana che si contrappose alla furia delle sterminate orde di Serse in difesa della Grecia è impresso potentemente, anche in campo fumettistico. Nella maxisaga La Caduta dei mutanti (1986) lo sceneggiatore Cris Claremont lanciava un esiguo team di X-men contro un avversario invincibile, per mano del quale sarebbero periti (per poi essere resuscitati dalla divina Roma), paragonandoli agli eroici soldati greci morti alle Termopili. Agli inizi del ventunesimo secolo l’ormai acclamato Frank Miller, mentre era ancora impegnato a pubblicare la serie Sin City, diede alle stampe un’ambiziosa graphic novel 300 che celebrava le gesta del sovrano spartano Leonida e dei suoi stoici guerrieri. Coadiuvato dalla moglie Linn Varley, talentuosa colorista (Elektra live again, Ronin) Miller ha inscenato un visionario affresco storico dalle immagini potenti, degne delle migliori prove del fumettista nord-americano sia a livello stilistico che tematico. La storia è nota: alla fine del 400A.C. la Grecia delle polis era minacciata dalle mire imperialiste di Serse, sovrano assoluto dell’immenso impero persiano, che desiderava sottomettere la terra degli dei dell’Olimpo; a difendere l’indipendenza delle libere città greche, spesso in conflitto fra loro, si levarono gli spartani, figli di una cultura basata sulla forza fisica e l’arte della guerra, che prima degli altri greci combatterono disperatamente contro i persiani. Il sacrificio dei trecento di Leonida sulle coste elleniche, le Termopili, spinse le altre città a superare i contrasti e ad unirsi nella lotta contro gli invasori, divenendo un caso esemplare di sacrificio per la patria. Miller, affascinato dal tragico fato degli spartani, ha reso propria tale parabola storica rivisitandola in chiave post-moderna attraverso una narrazione epica e delle illustrazioni capaci di restituire appieno la ferocia e l’eroismo della battaglia. Nel 2006, dopo il successo del film tratto dalla sua opera più nota, Sin City, è stato affidato al regista Zack Sneider l’adattamento cinematografico di 300, uscito da poco nelle sale di tutto il pianeta. La trasposizione è un omaggio alla bellezza ed alla forza straordinaria delle tavole di Miller, realizzata quasi interamente in digitale. Il risultato è una pellicola che attraverso le meraviglie del computer, esalta la perfezione dei corpi degli spartani contrapposta alla repellente deformità degli esotici schiavi persiani e

ricostruisce le ambientazioni della vicenda, dalla città di Sparta alle frastagliate coste greche dove si consumerà la gloriosa fine di Leonida. Il film vanta l’apporto dello stesso Miller, pur presentando notevoli differenze ed incongruenze rispetto al fumetto: innanzitutto esaspera i toni dello scontro di civiltà, tristemente simili al presente, per mezzo dell’iperbolica fisicità dei protagonisti, risultato di una visione manicheistica della storia( la bellezza associata alla positività dei greci; la deformità alla vile malvagità dei lacché di Serse) accentuata da alcuni dialoghi al limite del ridicolo. D’altronde Sneider ha eccellenti doti visive, riuscendo a tradurre i possenti disegni di Miller in fotogrammi altrettando suggestivi, infondendo alla storia un ritmo serrato ai limiti dell’ipnosi. Durante il film si è talmente avvinti dalla perfezione della confezione filmica da non badare ad alcuni non trascurabili dettagli: dal ruolo della consorte di Leonida, più simile ad un amazzone che ad una regina greca, all’inesatezza storica di alcuni particolari ed infine all’enfasi patetica di determinate scene. Dunque il problema risiede nell’ aspetto prettamente narrativo; la pellicola non riesce a riprodurre la prosa del fumettista americano nè parte della sua poetica. In molti suoi fumetti Miller ha contrapposto ad eroi, simili ad adoni, uomini malvagi dalle fattezze da freaks( dall’enorme Kinping di Daredevil, ai mutanti grotteschi di Ronin e Dark Knight) per esprimere visivamente la netta distinzione di ruolo. Ma la deformità è anche una caratteristica degli antieroi milleriani dall’imponente killer sentimentale Marv di SIn City sino al tumefatto poliziotto di Quel Bastardo Giallo in antitesi alla perversa bellezza delle dark ladies di tutta la produzione hard-boiled dell’artista. Nel film che ha suscitato aspre polemiche per la raffigurazione offensiva di quei persiani che altri non sono che gli antenati dei moderni mediorientali, la distinzione tra la fiera libertà dei Greci e la tirannia di Serse è evidenziata in maniera troppo netta ed a tratti sfocia nel banale. Miller dal canto suo, tesse un epitaffio ruvido ed accorato di questo manipolo di guerrieri votati ad Ares, i quali appaiono più interessati al proprio onore che alle sorti della patria; su tutti naturalmente spiccano Leonida, il fiero protagonista di 300 ed il semidivino Serse, gigantesco ed effeminato imperatore dalla figura mitica. In ogni caso sia il film che il comic sono più che degni di essere visti e letti. Roberto Cesano

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