CoolClub.it n.42 (Giugno 2008)

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Sono passati nove mesi, il tempo di una gestazione, quanto basta a una nuova vita per venire alla luce. Tempo che ha segnato una pausa, quella di Coolclub.it, un giornale nato cinque anni fa, un free press “insolito” che dopo cinquanta numeri aveva interrotto le sue pubblicazioni. Oggi questo giornale torna, rinasce. E siamo felici. Sui motivi della pausa si è parlato anche molto. Molte delle ragioni che segnano una rottura o un allontanamento sono dettate da impulso e irrazionalità. La stessa che ci ha fatto imbarcare in questa avventura editoriale, per lo meno bizzarra, in questo territorio. Proporre contenuti gratuitamente non paga… sembra una scoperta stupida ma è così. La sopravvivenza è difficile quanto la riconoscenza, ma poco importa. Quello che tutto può è la passione. Ci sono cose che rendono un senso ai nostri giorni, il resto passa, appartiene al quotidiano. Bisogna invece rivendicare, esserci, lasciare segno di un, seppur minuscolo, sentire. Ecco perché Coolclub.it torna nelle vostre mani, anche fosse solo un attimo, entra nelle vite, nelle case di molti. Crediamo che musica, libri, cinema, teatro siano seminato da accudire e curare. Sono queste le cose che vogliamo raccontarvi, quelle che vogliamo condividere, amplificare. A chi già ci ama, a chi ci scoprirà, vogliamo solo regalare ancora, e ci auguriamo per molto, tracce di contemporanea bellezza. Ignoriamo ciò che muove il mondo,

almeno in queste pagine, e ci dedichiamo a ciò che lo rende lieve. Abbiamo scelto una nuova veste, più piccola nella forma ma più ricca di contenuti, per poter arrivare dove prima non eravamo (il vecchio Coolclub.it aveva fatto tanta strada, era arrivato fino ai confini della nostra ragione e li aveva anche superati). Abbiamo nuova casa nelle calde Manifatture Knos di Lecce. Nostalgia canaglia è il tema di questo nuovo primo numero, la traccia su cui ci siamo interrogati, sintonia tra il nostro sentire in questi mesi di assenza e una tendenza delle arti a ripescare dal passato o a cercare di mantenerlo in vita. Lo stile è quello di sempre, fedele all’idea di uno scrivere passionale, senza troppi tecnicismi. La speranza è di coinvolgere sempre più scritture, firme, aspirazioni, emozioni. Tante ne abbiamo accumulate in questo tempo di silenzio e abbiamo cercato di renderle in queste pagine, rischiando un po’ sulla freschezza delle segnalazioni. Ma l’importante è che tutto questo abbia un luogo dove imprimersi e rimanere. Come sempre invitiamo chiunque a collaborare, intervenire, aiutarci e criticarci. A voi il resto, sperando che sia la curiosità a muoverci sempre e che queste pagine possano essere zona franca dove trovare leggerezza. Osvaldo Piliego

EDITORIALE 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 5 Numero 42 giugno 2008 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo Hanno collaborato a questo numero: Giancarlo Susanna, Dino Amenduni, Pasquale Boffoli, Claudia Attimonelli, Anna Puricella, Federico Baglivi, Nino Gianni D’Attis, Ilario Galati, Giuseppe Lisi, Camillo Fasulo, Francesco Andriani De Vito, Tobia d’Onofrio, Marco Chiffi, Stefania Ricchiuto, Rossano Astremo, Marco Montanaro, Vito Lubelli,Roberto Cesano Ringraziamo Manifatture Knos e le redazioni di Blackmailmag.com, Radio Popolare Salento di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Musicaround.net.

Bob Lind 6

Progetto grafico erik chilly

Dreams are my reality 12

Nostalgia Canaglia

Impaginazione Gianfranco Massa

musica

Stampa Martano Editrice - Lecce

Paolo Benvegnù 15

Chiuso in redazione nel primo giorno di caldo tropicale

Recensioni 23

Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: ufficiostampa@coolclub.it

Libri

Giuseppe Genna 36 Recensioni 39 Cinema Teatro Arte

Ascanio Celestini 48 Recensioni 53 Eventi

Sound Res 57 Calendario 58

Sommario 5


BUTTERFLY DREAMS Intervista a Bob Lind

Nostalgia della musica e dei suoni degli anni ’60? Certo. Se fossimo inglesi o americani. Se avessimo potuto vivere una delle stagioni più creative del rock. Ma nostalgia dei gruppi beat italiani… suvvìa. Siamo seri. Mentre il mondo della musica era messo sottosopra da una schiera di giovani artisti di talento – primi fra tutti i Beatles – noi ci nutrivamo di (quasi sempre) scialbe versioni in lingua italiana. La recente e trombonesca operazione dei Pooh – ovvero come rovinare delle belle e innocenti canzoni – alcune amene sortite di Shel Shapiro, l’ex leader dei Rokes cui non nuocerebbe una cura di fosforo, e un’esaltata lode radiofonica di Se perdo anche te da parte del pur bravo Fiorello (“Ma chi l’ha scritta? Migliacci!”) gettano una luce nuova e per molti versi ancor più sinistra sulla grande truffa del beat italiano. Sì, perché Se perdo anche te è Solitary Man di Neil Diamond. 6 Nostalgia Canaglia

Mentre un altro successo di Gianni Morandi, Scende la pioggia è Eleanor dei Turtles. Altre vittime? I Procol Harum, i Mamas & Papas, Barry McGuire, i We Five, i Kinks, i Traffic, i Move, i Bee Gees, Sonny & Cher, i Monkees … Per sfruttare l’onda delle “traduzioni” e tentare una difesa, ecco allora i Procol Harum con Il tuo diamante (Shine On Brightly), Nina Simone con Così ti amo (To Love Somebody) e perfino David Bowie con Ragazzo solo, ragazza sola (Space Oddity) Nella preziosa appendice all’Enciclopedia del Rock Italiano (Arcana, 1993) leggiamo tra l’altro: “(…) Quasi mille (“cover”) ne abbiamo scovate tra le pieghe più polverose del bitt, e sappiamo per certo che in qualche caso neppure gli autori ne ricordano l’origine (…)”. Spinti da un vero e proprio senso di giustizia mancata – nessuno, men che mai Shel Shapiro,


lo ricorda – abbiamo cercato in rete Bob Lind. E sapete una cosa? Dopo 24 ore dall’invio di una mail, Mr. Lind ci ha risposto! Tornato sulle scene dopo una lunghissimo silenzio, Bob Lind è uno di quei cantautori che hanno fatto (e fanno) grande la popular music americana. Da noi è sempre stato poco conosciuto, ma nel “grande bluff” di cui abbiamo parlato fino ad ora spiccano due cover di canzoni scritte proprio da lui ed eseguite dai Rokes: Che colpa abbiamo noi (Cheryl’s Goin’Home) e È la pioggia che va (Remember The Rain). Curioso, vero? E i suoi dischi, credeteci, sono bellissimi. Nato a Baltimora, in Maryland, nel 1942, Lind ha cominciato la sua carriera a Denver, in Colorado, ma il suo esordio discografico è avvenuto a Los Angeles con la produzione di Jack Nitzsche, compositore, autore di colonne sonore, musicista (con i Buffalo Springfield, i Crazy Horse e Neil Young) nonché arrangiatore prediletto di Phil Spector, Il successo di Elusive Butterfly, entrata di prepotenza nei Top 5 americani, ha finito, come talvolta accade, per impedirgli di seguire un percorso professionale lineare. La recente ristampa su cd dei due album prodotti da Nitzsche a metà anni ’60 e di Since There Were Circles (1970) – in cui suonano due eroi del country rock californiano, l’ex Byrd Gene Clark e il banjoista Doug Dillard - lo ha finalmente riportato alla ribalta. Che musica ascoltavi quando andavi a scuola? Quando ero molto piccolo – a cinque o sei anni – ascoltavo Burl Ives e Gene Autry. Alcuni critici dicono di sentire tracce di Gene Autry nella mia voce. Poi ho scoperto il rhythm & blues – James Brown, i Platters, Bobby Bland. Mi piaceva anche il rock, Bo Diddley, Little Richard, Chuck Berry, Elvis Presley, Gene Vincent. Ma ho cominciato a trovare la mia voce quando in America si è affermato il movimento del folk rock e ho sentito artisti pieni di soul che cantavano testi ricchi di significato con cuore e passione – Bob Gibson, Fred Neil, Richie Havens, Judy Collins, Bob Dylan e Joan Baez. In quel momento ho capito che avrei potuto crearmi un posto tutto mio nella musica. Frequentavi i folk club di Denver? È stato un periodo magico. Le notti erano piene di vita. Denver aveva una dozzina di coffeee houses e c’erano circa 50 artisti e gruppi che ci lavoravano regolarmente. Ci conoscevamo tutti e quando uno aveva una serata libera, andava a sentire un altro cantante. Tutti si dividevano

accordi e modi di suonare. Nessuno era geloso di quello che conosceva. Così ognuno influenzava gli altri. La paga era terribile. I locali pagavano qualcosa come 10 o 15 dollari per tre set a serata. Ma per me era come una scuola. Ho imparato a esibirmi stando una sera dopo l’altra di fronte al pubblico e vedendo cosa funzionava e cosa no. Al principio cantavo soltanto canzoni di altri. Ma piano piano ho cominciato a inserire le mie canzoni nei miei show. Diventai presto conosciuto sia per le canzoni sia per il mio modo di cantare. Oggi ci sono più di 200 cover di mie canzoni». Il tuo incontro con Jack Nitzsche è stato decisivo per la tua carriera. Ho incontrato Jack nel 1965 nell’ufficio di Lenny Waronker alla Metric Music Publishing. La Metric mi aveva appena fatto firmare un contrattto e Jack stava cercando del materiale per alcuni dei gruppi che stava producendo. Lenny non pensava che i miei demo avessero abbastanza impatto e voleva che suonassi dal vivo le mie canzoni. Sapevo chi era Jack, naturalmente. Avevo anche una copia di Lonely Surfer. E pensai che tutta l’idea fosse stupida. Cosa avrebbe potuto sentire con la sua sensibilità melodica un arrangiatore brillante e colto nelle mie piccole canzoni folk? Entrò con quella valigetta che portava sempre con sé, i capelli lunghi da scienziato pazzo e gli occhiali spessi. Si sedette ad ascoltarmi mentre strimpellavo quattro o cinque pezzi e mi sorprese quando disse a Lenny: “Finalmente hai un autore onesto”. Fin da principio Jack sentì nella mia musica qualcosa che io non sentivo. Non scelse nessuna di quelle canzoni per gli artisti che stava producendo, ma disse a Lenny che le mie cose gli piacevano. Lenny ne fece cenno ai Powers That Be alla World Pacific e loro scritturarono Jack per produrmi. Dopo che ebbe sentito tutte le mie canzoni mi disse: “Non penso che qui ci siano dei brani da classifica. Ma faremo un album molto bello”. Non ho mai incontrato una persona più paziente. Io non leggevo la musica. Non sapevo neppure il nome degli accordi che facevo. Lui si sedeva al piano e diceva: “Suonami le note che fai”. Io suonavo una nota alla volta e lui diceva, “Sì. Questo è un Do Maggiore settima” o quello che era. Il giorno e la notte prima delle session si barricò nel suo ufficio e scrisse quelle stupefacenti e meravigliose partiture, quelle commoventi linne di archi, e tutto il resto. Oggi, quando penso a lui, non riesco a dimenticare la sua pazienza e la sua generosità, oltre al fatto che ebbe fiducia in me prima ancora che ne avessi io stesso. Nostalgia Canaglia 7



Il successo di Elusive Butterfly ti ha colto di sorpresa? Sì. Fu pubblicata come facciata B. Sulla A c’era un pezzo intitolato Cheryl’s Goin’ Home. Fu un vero flop. Non andò da nessuna parte. Ma un dj in Florida girò il disco e cominciò a passare la facciata B, e per ragioni che nessuno può spiegare Elusive Butterfly cominciò a scalare le classifiche. Io non mi aspettavo proprio di avere degli hit da classifica. Puntavo a un tipo di carriera differente – come quelle di Dylan, Judy Collins, Fred Neil o Joan Baez, nessuno dei quali aveva degli hit a quell’epoca, ma ognuno dei quali aveva un largo seguito di culto da parte di persone che apprezzavano tutta la loro opera. Cosa ricordi del momento in cui l’hai scritta? L’ho scritta a Denver, qualche mese prima di trasferirmi a Los Angeles. Ho cominciato alle dieci di sera e sono rimasto sveglio tutta la notte a lavorarci. L’ho finita intorno alle sei del mattino. Molte delle mie canzoni a quell’epoca venivano scritte così – sul limite che divide il sonno dalla veglia. Credo sia proprio questo a dare loro quella qualità “sognante” che le persone dicono di sentire nel mio lavoro. Quando scrivo la mia musica migliore, una parte della mia mente si chiude (la parte che pensa e critica

e chiede il significato delle cose) e lascia che l’altra parte (quella della libera immaginazione) corra a ruota libera. Elusive Butterfly all’inizio era composta di cinque strofe. Fu accorciata a due per il disco. In Since There Were Circles ha suonato l’armonica Gene Clark, uno dei cinque Byrds fondatori. Che ricordo hai di lui? Era un uomo difficile. Molto triste, molto tormentato. Ma penso che avesse un cuore buono. Proteggeva se stesso comportandosi in un modo molto educato – perfino formale – con tutti, anche con le persone che venivano considerate come suoi amici. Ero molto più vicino a Doug Dillard di quanto lo fossi a Gene. Ma anche Doug mi disse che Gene, in un certo senso era un mistero anche per lui. Era un uomo di talento che è morto troppo presto. Adesso cosa fai? Faccio concerti in giro per tutta l’America. Scrivo e sto cercando un’etichetta discografica. I due noti registi Paul Surratt e Ian Marshall stanno realizzando un documentario sulla mia vita e sulle mie canzoni e speriamo che esca presto. Giancarlo Susanna

Nostalgia Canaglia 9


L’ETERNO RITORNO: La rivincita dei dinosauri

Tutti ritornano, a volte: sembra quasi una moda, forse ancora di più un bisogno, come ci fosse la necessità di distillare perle di bellezza dalla dolce vena della nostalgia per compensare un presente che proprio non ci piace. Nostalgia come sintomo di una mancanza, di qualcosa che un po’ si rimpiange, come risposta all’assenza. L’addio, il sapere che una cosa non ci sarà più, è fondamentale per stabilire una prospettiva, delineare percorsi che sempre avanti dovrebbero guardare. Di nuova musica, musica contemporanea o sperimentale, si parla e si discute da molto. Parallelamente a un percorso in progress della musica esiste una strada che scava a ritroso che guarda sempre al passato come fonte inesauribile 10 Nostalgia Canaglia

di linfa per creare musica “nuova”. Ed il passato diventa presente, il passato diventa “sempre”, la musica perde per un attimo un suo contesto temporale, per divenire onda, che come quelle del mare è in balia delle correnti, dei venti, fatta di flussi e riflussi. Solo con la risacca è possibile scovare le perle nascoste dalla patina del tempo. Ci sono poi comete destinate a eclissarsi in pochissimo tempo e altre stelle che mai smetteranno di brillare. Chi ama la musica ha sempre dei rimpianti. Ognuno di noi avrebbe voluto assistere a un concerto indimenticabile, vivere a Londra nel ‘77 o fumare una gitane papier de mais con Gainsbourg. Beh non tutto è possibile, ma quasi.


Proprio questi sembrano gli anni in cui il passato torna alla ribalta più che mai. Mitiche le reunion che hanno fatto molto discutere ma anche sognare migliaia e migliaia di fan. Due su tutte: i Led Zeppelin e i Police. Ma si potrebbe continuare a lungo citando i Take That, le Spice Girls, si vocifera anche su un riavvicinamento degli Wham. E poi ancora Jesus and Mary Chain, Van Halen. Anche i Blur sembrano pronti a rientrare in studio dopo una lunga pausa in cui Damon Albarn si è dedicato a vari progetti paralleli e Graham Coxon alla sua carriera solista. Il fenomeno delle reunion non è certo storia di oggi. Memorabile quella dei Black Sabbath del 1998 documentata da un album live. La formazione originale della band di Ozzy Osbourne non calcava lo stesso palco (tranne una sparuta apparizione) dal lontano ‘79. Bob Geldoff e il Live 8 sono stati galeotti invece per i Pink Floyd che nel 2005 hanno suonato insieme dopo 25 anni di separazione, Roger Waters lasciò la band dopo The final Cut (disco dell’83). Del ‘96 la notizia scandalo del ritorno dei Sex Pistols (senza Sid Vicious naturalmente) che palesarono candidamente e provocatoriamente l’operazione puramente commerciale. Proprio su questo si dibatte. C’è chi pensa, come Paul Mc Cartney, che queste rimpatriate siano mosse solo da motivi economici e chi come Phil Collins (batterista dei Genesis, altra band protagonista di pompatissimi riavvicinamenti) sostiene di non avere bisogno di altri soldi ma di farlo per puro piacere.

e desiderate della storia non è mai avvenuta, quella dei Beatles appunto. Ringo Starr con il suo inimitabile humor ha sottolineato “non c’è nessuna chance di risuonare insieme…due di noi sono morti”. In realtà qualcosa di simile si era visto in occasione della pubblicazione delle Anthology dove erano comparsi due inediti di John Lennon digitalizzati e suonati dai Beatles superstiti. E ancora dopo la morte di George Harrison correva voce di una formazione con Paul, Ringo, e Dhani figlio di George. Si potrebbe continuare, la lista è lunghissima, ma accanto a queste, che più che rimpatriate sembrano a volte riesumazioni, si fa sempre più avanti un fenomeno divertente ma a tratti inquietante: quello delle tribute band.

Fatto sta che una delle reunion più chiaccherate

Osvaldo Piliego

La tribute band è un “gruppo omaggio”, cioè un insieme di musicisti che decidono di riprodurre, nel modo più fedele possibile, il repertorio di un artista o di una band. A differenza delle cover band che invece spaziano, attingendo a vari repertori, le tribute band scelgono un artista e cercano di diventarne la copia anastatica. Così puoi avere il tuo concerto personale degli U2 nel pub a pochi passi da casa, con tanto di cantante travestito da Bono, o un Elvis redivivo e per di più obeso. Abbiamo bisogno di miti, di nuovi idoli tascabili, al costo di doverli dissotterrare, forse perché abbiamo bisogno di sogni a portata di mano o forse solo perché proprio non ci va di crescere.

U2

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Plastikman

DREAMS ARE MY REALITY Il tempo delle cover 12 Nostalgia Canaglia


Quando Plastikman, guru della techno, propose nel 1998 una traccia dal titolo Are Friends Elektrik? chi aveva familiarità con la prima scena synth pop pensò ad una cover del celebre pezzo omonimo di Gary Numan del ’79 – se non fosse per l’uso irriverente della consonante k al posto della c che segnava l’irraggiungibile distanza di cui l’ascoltatore si accorge sin dalle prime note. In effetti Plastikman aveva prelevato irriconoscibili sample trasformandoli in loop per una suggestiva traccia techno. Dunque la cover è un tributo che necessita di una distanza e proprio nello spazio di quella distanza interviene l’elemento creativo apportato dal nuovo interprete che diversamente sarebbe solo un semplice esecutore. Allora possiamo dire che la cover è un’interpretazione. Se guardiamo alla storia di Tainted Love, ad esempio, è l’interpretazione electro synth pop dei Soft Cell del 1981 a venirci in mente, con quel suo celebre bink-bink d’apertura. Mentre il duo di Leeds fu colpito dall’ascolto al juke box della versione originale Northern Soul di Gloria Jones (compagna di Marc Bolan) del 1964 poi ristampata nel ’75, tanto da farne una cover epurando ogni elemento black. Questo episodio è emblematico perché esprime involontariamente il significato storico della cover: all’inizio degli anni ’60 si affermò una pratica che serviva ad aggirare le dinamiche autoriali andando incontro alle esigenze di un mercato per lo più bianco, ovvero si facevano reinterpretare da musicisti bianchi brani rock&roll e rhythm&blues che presentavano ottimi spunti ma che erano giudicati ancora troppo sporchi e di non facile ascolto per il pubblico. Perciò si chiamò cover l’atto del coprire e nascondere l’originale ritenuto inadeguato, confondendo la sua matrice black. Non è certo questo il caso dei Soft Cell che furono semplicemente affascinati dalla canzone della Jones. Il pezzo ebbe tanto successo che solo due anni dopo i Coil ne fecero una cover dark e dai toni cupi sfruttando le tematiche del testo per parlare dell’improvvisa diffusione del virus HIV e della demonizzazione omofobica. Nel videoclip si scorge in un cameo lo stesso Marc Almond nelle vesti dell’Angelo della Morte. Ma forse i più giovani conoscono la versione goth-rock-glam di Marilyn Manson, che al binkbink dei Soft Cell, ai fiati dell’originale di Gloria Jones e al rintocco delle campane a morto dei Coil, sostituisce i suoni effettati e sporchi di chitarre e tastiere. Anche uno spot dei Levi’s modello Wide Leg ha adoperato Tainted Love.

L’idea è venuta al regista Spike Jonze, già autore di numerosi videoclip, che ha ambientato in una sala operatoria in stile Scrubs, la rianimazione di un paziente che scambia i suoni provenienti dall’elettrocardiogramma per il bink-bink d’attacco della celebre hit dei Soft Cell e si mette a cantare. In modo del tutto esilarante la sala operatoria si trasforma in un musical dove dottori e paramedici intonano una versione soul della canzone. Il comico clip di Jonze si appella alla riconoscibilità della hit Tainted Love, costruendovi il concept dell’Ad. Dunque la cover è fondamentalmente una citazione, in senso letterario e in senso “giuridico” allorché chiama in giudizio una canzone del passato e la fa rivivere testandone lo charme nel presente. Così si muovono, ad esempio, i Nouvelle Vague che sin dal loro nome mettono in moto un gioco infinito di citazioni: il movimento francese a cui si rifanno e che citano anche nel titolo dell’album Bande a part, il film di Godard del 1964 (da cui traggono anche una scena messa in loop per realizzare il video della cover dei Lords of the New Church Dance with me); implicitamente citano anche la New Wave, traduzione inglese di Nouvelle Vague e bacino a cui attingono per la scelta delle loro cover, così come, e qui si chiude il cerchio, spiegano lo stile adottato per reinterpretare i brani della New Wave con arrangiamenti Bossa Nova, traduzione questa volta in portoghese del sintagma Nouvelle Vague. Un ultimo cenno è alla cover-parodia di cui youtube offre infiniti esempi. In genere l’hip hop si presta, suo malgrado, per l’attitudine provocatoria e canzonatoria dei testi e delle movenze ad essere oggetto di parodie, come anche le canzoni romantiche stile tempo delle mele. Non è un caso che Louie Austin in collaborazione con Senor Coconut, due titani del remake, abbiano realizzato in stile bossanova una cover di Dreams are my reality di Richard Sanderson. Imperdibile. In chiusura, dato che la cover è nata ponendo quesiti di carattere autoriale, suggerirei di considerare la proposta di Loredana Bertè a Sanremo 2008: una buona cover di un pezzo dimenticato degli anni ’80 a cui lei ha semplicemente cambiato il titolo! Claudia Attimonelli

(in parte estratto dal saggio “Dialoghi con-citati tra videoclip, loop, cover e remix”, di C. Attimonelli, Progedit, 2007)

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MUSICA

PAOLO BENVEGNÙ Paolo Benvegnù è senza dubbio la sintesi perfetta di tutto quello che oggi la musica italiana dovrebbe essere. Musica d’autore, rock, pop, poesia, nervi e cuore sono tutti elementi in equilibrio nelle sue canzoni. Da poco è uscito il suo nuovo album Le labbra, non è che la conferma di un percorso in continua evoluzione. Dopo gli inizi con gli Scisma, dopo il bellissimo Piccoli fragilissimi film di qualche anno fa arrivano una manciata di canzoni a farci sperare in un futuro migliore per la musica italiana. Chi ti ascolta non può non definire la tua musica come sensibile; le tue canzoni sono emozionate, mi verrebbe da dire, e non possono che emozionare. Come ti avvicini alla musica e come arrivi alla canzone? Io mi avvicino alla musica spasmodicamente. Impegnandomi come i neonati quando devono mangiare, succhiare. Perciò non sono lucido. Naturalmente non sono lucido. Ma resto sempre accanto. Come una vestale. E alle volte mi arriva qualche cosa. Meno la riconosco, questa cosa, più sono grato. Poi scrivo una canzone. Ma non è niente. Tutto sta in ciò che succede prima. Perciò le canzoni, le mie, sono tutte ninne nanne. Sono un bambino che canta ai bambini. O forse un albero. Questo nuovo album è diverso dal precedente, sembra più muscolare, più teso in alcuni suoi momenti. Ce lo racconti? Le Labbra. Sono piccole canzoni di liberazione. La mia. E di chi può riconoscersi. E Di Amore Incondizionato. E Di Costruzione. Serve per guidare, in automobile. È una delle tante storie di un essere umano. Niente di più. Niente di

meno. Come restare, a sei anni, sotto un tavolo. O sotto un letto. A percepire in Silenzio il mondo. C’è la tensione dello stupore. Ma è un passaggio. Solo un passaggio. Piccolo, infinitesimale. Un gesto inconscio. Si parla di amore, di persone, di rapporti, quanto di te c’è in questo disco? In questo disco ci sono io, che sono il cantante e lo scrittore dei Paolo Benvegnù. E ci sono Andrea Franchi, Guglielmo Gagliano, Luca Baldini. Sono Storie che ci sono appartenute per un mese. Poi, ora non sono già più mie, nostre. Ma soprattutto c’è l’Amore inteso come Assoluto. Incondizionato. Almeno idealmente. L’Amore di chi uccide per un bacio. Questo disco esce quasi in contemporanea con l’invasione post-sanremese, è un disco italiano, rock, d’autore, ma se vogliamo anche pop, un respiro di sollievo per noi. Tu come vedi il panorama mainstream italiano, cosa ti piace e cosa non sopporti? Io non lo vedo il panorama. E vorrei esser cieco, Per vedere ancora meno. Ed essere veggente. E trattenere le Parole. Ma non ne sono capace, Perciò rispondo. Non sopporto la menzogna di chi scrive intorno alle Parole e chi cerca Spazio a tutti i costi. Perciò mal sopporto quasi tutti gli artisti mainstream italiani…Ma ora vedo.. che qualcuno torna o arriva a scrivere, a suonare cercando. E sono felice per loro. E sorrido. (O.P.)


GRIMOON

Italia e Francia, sodalizio quanto mai riuscito soprattutto quando si parla di Grimoon. Progetto musicale, e non solo, capace di emozionare. Il vostro immaginario, cupo per certi versi, surreale per altri, sembra aprirsi in questo nuovo disco, Les 7 vies du chat, lasciando filtrare della luce. A tratti dà l’impressione di essere una sorta di circo sgangherato. Quante “vite” ha questo vostro nuovo album? Solenn: I brani del disco sono molto diversi tra di loro, sono tuttavia legati dalla fantasia, dalla ricerca di un universo sonoro sognante ed ammaliante. In questo universo c’è spazio per tutti: per i personaggi più assurdi dei nostri video, e per gli ospiti che si sono prestati a questo folle gioco con noi. Nel circo Grimoon non esiste “la vita” ma “le vite”; ci siamo sempre divertiti a mettere in scena storie impossibili, improbabili, portare fuori dal nostro immaginario personaggi stravaganti, surreali, magici. Il francese è musica che si aggiunge alla vostra musica, una lingua che ha un sapore retrò ma che in questi ultimi anni soprattutto è protagonista di una scena 16 musica

indie bellissima, che rapporto hai con la tua patria e la sua musica? Solenn: Sono 7 anni che sono via dalla Francia e confesso di non essere molto informata sulla scena musicale francese. Le scoperte più recenti sono stati tra l’altro De Rien, il gruppo di Thibaut che è stato ospite in un brano. Sei musicisti, tanti strumenti, come vi avvicinate al suono di una canzone, quale percorso seguite, c’è una partenza comune? Alberto: Le canzoni di questo disco sono iniziate con delle registrazioni su un quattro piste, voce chitarra e batteria elettronica e qualche arrangiamento di Arp Solina e Space Echo. Le abbiamo presentate al nostro produttore, Giovanni Ferrario, che ci ha dettato qualche arrangiamento e direzione da seguire. Il lavoro grosso lo abbiamo fatto con lui dandogli massima fiducia. Per il fatto degli strumenti, siamo tutti fanatici di strumenti Vintage. È questo il vero segreto della bellezza e spontaneità dei nostri suoni. Un amore maniacale verso certe macchine non può che portare a buoni risultati. È come sentirsi puri, in un certo senso, davanti all’uso indiscriminato del computer o del digitale in genere.


La vostra musica a tratti sembra una colonna sonora, non a caso. Ci parli del vostro stretto legame con le immagini? Solenn: Più che immagini, possiamo direttamente parlare di immagini in movimento. Il nostro rapporto con loro è assoluto: realizziamo un cortometraggio per ogni canzone, ed essendo giunti ad oltre 25 video girati, ti posso assicurare che essi sono parte integrante non solo del nostro progetto ma anche della nostra vita: ormai siamo giunti al punto di pensare per immagini, parlare per immagini, forse tra un po’ ci trasformeremo in immagini, chi lo sa. La mia casa è diventata il museo dei nostri corti. Maschere ovunque, ho perfino un muro tutto dipinto (sfondo per un video), personaggi che popolano le mensole, cassettine di videocamera ovunque… e poi si gira, si gira, si gira: più che una passione ormai è un’ossessione. I Grimoon sono anche Macaco Records, raccontaci un po’ di questa avventura. Meglio fare tutto da soli? Solenn: Questa è la caratteristica principale della nostra esperienza in Macaco: lavorare con persone che stimiamo per originalità, attitudine e stile. È anche grazie alla Macaco che abbiamo conosciuti numerosi artisti, e alcuni di questi sono stati anche ospiti sull’ultimo disco dei Grimoon. Da questo punto di vista, la Macaco è veramente un’esperienza splendida. Dall’altro c’è tutta la parte organizzativa: le mail, i comunicati stampa, il booking, e non finisco l’elenco perché sarebbe

veramente lungo, alle volte questo lato prende il sopravvento sull’altro e la Macaco diventa un peso enorme da sopportare, soprattutto quando i Grimoon sono in tour, in produzione video o musicale. Sicuramente da soli si ha il controllo assoluto su quello che si sta facendo e si ha anche la consapevolezza di quello che si può fare. Certo che togliersi qualche peso non sarebbe affatto male e difatti è proprio quello che stiamo cercando di fare. Alberto: per addentrarsi in una avventura di questo tipo non bisogna essere che “Macachi”. Questo numero di Coolclub.it parla di nostalgia, che rapporto avete con questo sentimento? Alberto: La nostalgia è un bellissimo sentimento, ti dà vigore al cuore, ti fa sognare e ti dà speranza. La nostalgia la vivo in questo modo, come stimolo per non crepare dentro meccanismi moderni. Noi siamo nostalgici degli anni ’60, ’70, del super8, della musica registrata su nastro, degli strumenti vintage, delle macchine vintage, dell’orchestra della Rai, del Carosello, della fantasia, della vitalità, della curiosità, ecc. Ho anche nostalgia della forza degli uomini di altri tempi, delle ambizioni culturali e politiche dei giovani degli anni '60, dei cantanti che cambiavano le epoche. Ho anche nostalgia di mio padre che a tavola mi diceva che Berlinguer era una brava persona... Per questo motivo non ho mai votato Berlusconi e i suoi amici. (O.P.)


THE BRUNETTES

Della band The Brunettes, nei prossimi tempi, si sentirà parlare sempre di più. E non solo perché il nuovo album, Structures and Cosmetics (2007) porta il marchio Subpop, storica etichetta che ha immortalato il grunge di Nirvana e Soundgarden. Il duo composto da Jonathan Bree e Heather Mansfield arriva dalla Nuova Zelanda, con un suono originale quanto basta. Melodie che si infilano nel cervello, testi ironici quanto criptici. Abbiamo parlato con Heather. Siete partiti dal nulla, Jonathan lavorava in un negozio di dischi. Ora si parla sempre più di Brunettes. Come ci si sente a suonare su palchi sparsi per il mondo? Beh, ci stiamo pian piano abituando all’idea di diventare famosi (ride). Io e Jonathan suoniamo insieme da circa 10 anni, veniamo da esperienze musicali diverse. Speriamo che col tempo The 18 musica

Brunettes diventi un nome sempre più grande. Nell’ultimo album c’è Brunettes against Bubblegum Youth, canzone in cui - già dal titolo - prendete in giro i giovani. Eppure è finita sullo spot di “Hollyoaks”, una delle soap opera più seguite in Inghilterra, soprattutto dai ragazzi (in onda su Channel 4, ndr). Non vi sembra una contraddizione? No, non lo è. Dietro a Brunettes against Bubblegum Youth c’è una storia interessante. Si chiamava originariamente “B.A.B.Y.”. Solo che la nostra casa di produzione pensava fosse una cattiva idea usare B.A.B.Y. come titolo di una canzone irriverente. Soprattutto per eventuali conseguenze legali. Per evitare di metterci nei guai, Jonathan se n’è uscito con un nuovo titolo, Brunettes against Bubblegum Youth. Che guarda


caso ha come acronimo proprio “B.A.B.Y.”. Uno scherzetto simpatico. Le vostre canzoni sono, appunto, piene di ironia. If you were alien è straordinaria, parla di un amore extraterrestre. Pensate mica di lasciare la Terra? Anche in questo caso, If you were alien è una specie di scherzo. Volevamo una canzone che parlasse d’amore, della fase di innamoramento. Condizione interessante, quella in cui si è innamorati. Che con la canzone diventa qualcosa in più delle semplici battute sulla ragazza della porta accanto. If you were alien è grandiosa anche per la musica, all’inizio sembra quasi una canzoncina cinese. Davvero? Favoloso, non ci avevo mai fatto caso.

Parliamo di influenze musicali. Per quest’ultimo album io e Jonathan ci siamo rifatti molto alle atmosfere anni ’60, come anche in passato. A cui si aggiungono Beach Boys e Blondie. Ora, però, ci stiamo guardando attorno, cercando di ascoltare qualcosa di più recente. E il paragone con i Beatles, che tanto piace alla critica? Quanto può pesare sulla vostra musica? Finché si parla del fatto che sia noi che i Beatles facciamo parte della “pop music” va bene. Però, in fin dei conti, non è un paragone così importante per noi. Anna Puricella

musica 19


MASSIMO ZAMBONI Si intitola L’Inerme è l’Imbattibile ed è il nuovo lavoro dello storico fondatore e chitarrista dei CCCP e dei CSI. A quasi quattro anni di distanza da Sorella Sconfitta, il suo primo vero disco solista, il musicista reggiano ritorna con un’opera multidisciplinare pubblicata dalle edizioni musicali de il manifesto: un cofanetto contenente, oltre al disco, anche un dvd del filmdocumentario Il Tuffo della Rondine di Stefano Savona e un libro che è una sorta di quaderno di riflessioni e appunti. Massimo Zamboni parte 20 musica

da Mostar - la città bosniaca nella quale, ai tempi della guerra fratricida, con i Csi tenne dei concerti sotto le bombe - per un viaggio verso tutti gli Est del mondo. La musica riparte idealmente sullo sfumare delle note di Sorella Sconfitta e si porta appresso tutte quelle caratteristiche – l’incedere ipnotico, le asprezze, la poesia - che furono il marchio di fabbrica dei CCCP prima e dei CSI dopo. Sebbene Massimo questa volta si misuri in maniera più netta con il canto, non mancano le ospitate di voci importanti, quella


rauca e suadente di Nada, quella della soprano Marina Parente e quella dell’arabo-pugliese Nabil Salameh. L’impressione che ho è che ormai la musica in quanto tale ti stia sempre più stretta. Interpreto così l’uscita di questo disco che è anche un quaderno di appunti ed un dvd. Anche se non sembra io ho fatto una scelta di questo tipo in difesa della musica perché credo che chi fa musica oggi ha il dovere di interrogarsi pesantemente. Oggi la musica è un genere al ribasso e credo che per uscire da questa situazione la musica deve avere il coraggio di confrontarsi e perdersi in altre forme. Per i temi impegnativi che ho voluto trattare ho sentito la necessità di dare spazio alle parole e alle immagini. Quattro anni fa ci hai suggerito di coltivare ed amare la nostra sconfitta, che dipingevi addirittura come una sorella. Adesso ci poni un altro concetto spigoloso: l’inermità. Perché l’inerme – colui il quale non porta armi - è imbattibile? Parto da Sorella Sconfitta. L’inermità mi è sembrata la logica prosecuzione. L’inermità è una categoria centrale nel nostro mondo e dobbiamo porci continuamente, in un periodo di guerra come questo, la domanda: chi è l’inerme? Non sono solo le popolazioni in guerra. Siamo anche noi che inermi potremmo diventarlo da un momento all’altro. Comunque così come con Sorella Sconfitta partivo dalla mia di sconfitta, alla stessa maniera adesso parto dalla mia inermità. Cerco di mettermi in gioco, è questa la scommessa delle mie canzoni. Canzoni che anche stavolta affidi, per toccare più registri, ad alcuni ospiti come Nada, Marina Parente e Nabil Salameh. Ma in questo caso utilizzi maggiormente anche la tua di voce. Mi sono molto divertito a cantare… cambierò la professione sulla carta d’identità, da musicista a cantante (ride)… però come dici tu, le voci mi servono per confrontarmi con altri registri, per aggiungere colore e suoni. Comunque non sono mai troppo ripiegato su me stesso, se una canzone richiede un’interpretazione femminile non vedo perché negarlo. Nel cofanetto dicevamo c’è anche un dvd che contiene Il Tuffo della Rondine di Stefano Savona, film–documentario sulla

città bosniaca di Mostar. Quando l’ho visto ho pensato nemmeno tanto casualmente a Cupe Vampe, canzone che mi bruciava dentro qualche anno fa, quando a bruciare era pure un bel pezzetto d’Europa. Per me tornare lì ha il significato di ripartire da lì. Ci sono luoghi che, come dici tu, bruciano dentro, ma dobbiamo stare attenti a non consumarli. Non si parla più di ex-Jugoslavia, di Bosnia. Non possiamo consumare quei luoghi solo nei momenti di tragedia. Bisogna tornarci. E io ci sono ritornato, dopo esserci stato più di una decina d’anni fa con i CSI. Mostar è cambiata e anche io non sono più lo stesso. E’ una città che ti permette di vedere a nudo la condizione umana. Cambiando argomento, ti manca una band? No, assolutamente. Non mi mancano le tensioni di una band, non mi mancano i legami. Certo, una band ti dà molta capacità di approfondimento. Comunque sono circondato tuttora da ottimi musicisti e no, non credo che formerò mai più una band. Massimo, i cd di solito come oggetti fanno schifo. Questo invece è parecchio bello. Hai assemblato tu la confezione? Si. Ovviamente la scultura non è mia ma di una bravissima artista che si chiama Beatrice Pasquali ma la confezione l’ho pensata io e l’ho curata come fosse una sorta di canzone aggiuntiva. Anche perché non se ne può più di pagare a caro prezzo delle orribili scatolette di plastica. A quel punto è meglio scaricarli. Io invece credo che i dischi, sin dalla copertina, devono essere capaci di ‘scaldarti la mano’. Il cofanetto esce col marchio del Manifesto… Si ma l’abbiamo prodotto in casa. Molto impegnativo ma casalingo. L’appoggio del manifesto ha poi aperto degli scenari impensati. Nessuna casa discografica avrebbe potuto sostenere un progetto del genere perché non lo capiscono…se chiedi ad un discografico cosa vuol dire ‘inerme’ non è in grado di dirtelo… Col manifesto invece c’è stata subito una comunanza di vedute e hanno capito perfettamente la necessità di un’opera così complessa. E poi loro sanno dov’è Mostar… se lo chiedi ad un discografico invece (ride) … Ilario Galati musica 21



PORTISHEAD Third Island

Se Beth Gibbons non fosse nata a Bristol, la capitale mondiale del trip-hop (e non solo di quello), ma in Italia, magari nel profondo Sud, in qualche borgo calabrese dove la tradizione ha la meglio sul progresso, forse quella chioma bionda e quel fascino magnetico sarebbero a disposizione della comunità. Forse Beth sarebbe una prèfica, una donna che piangeva i morti a pagamento in occasione dei funerali. E credo che ci si sarebbe impegnati per avere Beth in tutte le funzioni. Se i Portishead non si fossero riuniti, il trip-hop, bandiera mai del tutto ammainata ma a mezz’asta da troppo tempo, non avrebbe mai avuto né la parola fine né la seconda puntata. Sarebbe stato un incompiuto: impossibile, per il peso specifico (e la conseguente eredità) di quello che, a livello musicale, può essere definito l’ultimo sussulto degli anni ‘90. Se ci si fosse fermati a Dummy (1994), un cd assolutamente irripetibile, per loro come per chiunque altro, avremmo a che fare con un disco leggendario infarcito da una marea di rimpianti. Ma la storia non si fa con i se, e così Beth è tornata a casa dopo dimenticabili progetti solisti, a Bristol il trip-hop è stato tirato via dai cassetti e ripulito da un po’ di polvere stantia. E così,

aspettando il tanto annunciato Weather Underground dei Massive Attack ci godiamo la terza fatica di studio del terzetto britannico. I 10 anni di pausa si percepiscono, ma non in modo determinante. Il suono è aggiornato, ma l’estetica del dolore, incarnato da sempre da un’ancora imprescindibile Beth Gibbons, è rimasta la stessa. Third raggiunge punte di eccellenza assoluta laddove si corrono i rischi maggiori, laddove la prèfica non deve solo piangere ma guidare le danze, laddove l’elettronica le fornisce un caldo riparo. E allo stesso tempo Geoff Barrow e Adrian Utley sarebbero due figuranti di lusso se non disponessero di cotanta chanteuse. Lo testimonia The Rip, dove il cantautorato non avrebbe lo stesso senso se non supportato dai sintetizzatori. L’opener Silence, al primo ascolto in particolare, è un viaggio emotivo difficilmente traducibile in parole. La traccia migliore, la numero 9, Small sarebbe piaciuta molto anche a Jim Morrison. È l’album tutto a rapire, indistintamente. I Portishead sono un’alchimia difficilmente ripetibile. La speranza è che ne siano consapevoli anche i protagonisti. Noi, 10 anni, non li vogliamo più aspettare. Dino Amenduni

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS Dig!!! Lazarus Dig!!! Mute Rec.

Lazarus dig!!! è l’ultima fatica di Nick Cave & The Bad Seeds, dopo la bellissima ed evocativa colonna sonora di Cave e Warren Ellis per The assassionation of Jesse James (by the coward Robert Ford), con la quale i due hanno messo in mostra la loro spaventosa poliedricità artistica. Che Warren

Ellis sia divenuto l’alter-ego di Nick Cave prendendo il posto che fu di Mick Harvey è ormai inequivocabilmente un dato di fatto, lievitato pian piano attraverso gli anni ‘90 ed i primi del nuovo millennio con album indimenticabili come The Boatman’s Call, No more shall we part, Nocturama ed Abattoir Blues: dalla scarna essenzialità di violino/viola il suo parterre strumentale/chitarristico/ tastieristico è divenuto stupefacente nel recente progetto Grinderman, sino a stravolgere i connotati del sound Bad Seeds con inquietanti cromatismi vintage/futuristi. Questa rimane la novità più rilevante anche di Dig!!! Lazarus dig!!!, che vede per l’ennesima volta l’inossidabile australiano nei panni del predicatore sacro/ profano ormai maturo sciorinare liriche grevi di ossessioni bibliche (il titolo dell’album è tutto un programma!), paranoie esistenziali ma anche di speranza mai sopita. Il sound generale dei Bad Seeds e di brani come Albert Goes West, Today’s Lesson, Lie Down Here (& be my girl), Midnight man, Moonland, sapidi di accattivanti evoluzioni, è più agile e spigoloso dei barocchismi gospel di Abattoir Blues: il furioso/eclettico side-project Grinderman ha lasciato un impronta profonda. Il Cave più lirico degli anni ‘90 si ripropone in Jesus of the moon e Hold on to yourself: come non provare gli stessi brividi caldi di allora? A sorpresa (graditissima) We call upon the author e la lunga farneticante More news from nowhere scompaiono (inconsciamente?) nelle sabbie mobili di un’ipnosi esattamente a metà strada tra Velvet Underground e Joy Division. Passato e sperimentazione s’incrociano con impareggiabile classe. Pasquale “wally” Boffoli musica 23


Il Salento nonèGrande. Ăˆ nel Mondo. LeccePrima.it quotidiano on line


ADELE 19 Xl Records

Non avrei mai immaginato che il mio primo 10 in pagella sarebbe giunto così, per una carneade, l’ennesima giovane talentuosa londinese (Tottenham per la precisione), anche in questo caso non bellissima, che viene presa per mano da valenti talent scout (Mark Ronson vi dice niente?), viene mandata su tutte le copertine con qualche etichetta che fa più o meno così: “la nuova…”. Quante volte abbiamo visto sensazionalismi del genere? In questi ultimi anni la tendenza è schizofrenica, non c’è nemmeno il tempo di pubblicare un album a un’artista, che subito viene fuori la nuova qualcosa, il nuovo qualcuno. Adele è la nuova Amy Winehouse? Assolutamente no. Ed è un bene. Amy ha e avrà sempre qualcosa in più dal punto di vista della personalità, ma se parliamo di musica (e basta), dovrà darsi da fare per tenere la leadership. Non si sentiva un album così emozionante da anni, sinceramente. Grandissime doti vocali (ed ecco qua il tam-tam della “nuova…”) accompagnate da un songwriting ispirato (“scrivo solo quando sono depressa”, dice la 23enne). Un pop coraggioso, pulito, non ruffiano. Nessun punto debole: risulta in qualche misura limitante indicare le migliori

canzoni in un lavoro così organico. Ma se proprio dobbiamo, vi suggeriamo Chasing Pavements, che ha convinto anche la gerontocrazia radiofonica italiana. È nata una stella. E speriamo che non ci si affretti nella scoperta della nuova Adele, perché c’è da godersi pienamente lei. L’originale. Dino Amenduni

DAVID SHRINGLEY Worried Noodies Tomlab

David Shrigley è un artista scozzese, scrittore, disegnatore, regista di Glasgow. Stravagante ed originale ha deciso di fare un disco senza musica… o meglio lui ha scritto i testi ed i disegni e poi insieme alla Tomlab, etichetta per cui esce il disco, ha cercato e trovato 39 artisti conosciuti o meno che hanno musicato le sue parole. All’interno del cd infatti è disponibile un file pdf sul progetto, che contiene le opere di David Shringley. Dal punto di vista musicale, non è di semplice ascolto, o meglio, confonde l’ascoltatore. Molto spesso i generi di band troppo diverse tra loro si intersecano disorientando l’ascolto. Inoltre ogni pezzo dura circa 1 minuto, giusto la parte introduttiva. Che poi partecipino band come Hot Chip, Deerhoof, Franz Ferdinand, Liars, Trans AM,

Casiotone, David Byrne non può non essere che una buona presentazione, ma tuttavia alla fine anche questi nomi rischiamo di scomparire tra la confusione. Certamente è un bel progetto, innovativo, sicuramente, ma non dal punto di vista musicale. Federico Baglivi

BLACK MOUNTAIN In The Future Jagjaguwar/Wide

Al secondo album, dopo l’omonimo esordio del 2005, i canadesi Black Mountain svaccano di brutto. Un pastone di folk diarrotico, hard rock, psichedelia pleonastica e (noooh!!!) progressive, attuale come l’orologio a cipolla del vostro trisavolo. Chiaro, mentre tu sei in preda a una signora dispepsia da iperacidità, tutti i critichini che contano stanno già gridando al miracolo. Metti su questo disco e la prima cosa che ti viene in mente è: “Maledetti fricchettoni, ma non si erano estinti?” La seconda è: “Peggio di loro solo i Mars Volta”. E intanto sviti il tappo del flacone di Maalox Plus da 200 Ml. Automedicazione. Sospensione orale. Automedicazione. Principio attivo: magnesio idrossido; alluminio idrossido; dimeticone. Automedicazione. C’è un pezzo che si chiama Angels ed è l’unico passabile dell’intero lotto. Il resto musica 25


fa francamente schifo. Automedicazione. Automedicazione. Automedicazione!!! (N.g.d’a.)

BAUSTELLE Amen Warner

uno strumento per mescolare senza timori le varie influenze che hanno caratterizzato il gruppo, soprattutto quel gusto per il tropicalismo che diviene poi, un po’ a sorpresa, la cifra distintiva di questo Amen. Bravissimi. Dino Amenduni

MUSETTA Mice To Meet You Irma Records

THE RAVEONETTES Lust Lust Lust Sleeping Star

Quarta fatica di studio per l’oramai terzetto originario di Montepulciano (Fabrizio Massara ha lasciato la formazione dopo La Malavita). Un album che vince per netto distacco sui precedenti: il più compiuto, maturo, completo. Un lavoro che decanterà lentamente e che fra 10 anni verrà indicato come uno dei manifesti della storia pop italiana. C’è tutto per creare il culto Baustelle, dalla cura (anche estetica) del dettaglio, alla personalità di Francesco Bianconi che convince sempre di più ai testi (e sempre meno alla voce) alla straordinaria Rachele Bastreghi che non a caso appare presente come non mai alla voce e che è protagonista del miglior pezzo dell’intero album, quella Dark Room che ci auguriamo diventi un singolo. Gemme su gemme in album che, nonostante le sue 15 tracce, presenta ben pochi momenti di stanca. Su tutte Baudelaire, pronta a fare la storia; umorismo nero e menzione meritoria anche per Spaghetti Western. L’iperproduzione caratteristica dei Baustelle “multinazionali” viene qui utilizzata come 26 musica

Terzo disco in studio per il duo danese che torna con un lavoro che segna inequivocabilmente una nuova rotta rispetto al precedente Pretty in Black. Registrato a New York, Lust Lust Lust pur non accantonando i chiari riferimenti agli anni ’50 e ’60, si presenta con un sound chiaramente shoegaze tanto da costituire una nuova vita musicale per Sune e Sharin. Maggiormente oscure rispetto al passato, le canzoni di Lust Lust Lust, come suggerisce il titolo, ruotano attorno al tema del desiderio e delle passioni. I passaggi “catatonici” la fanno da padrone e un po’ di noia sovente affiora al termine dell’ascolto ma non mancano momenti riusciti come l’apertura di Aly Walk With Me (ritmo agonizzante, voce cantilenante e riff assassino) o l’omaggio (consapevole o no, non importa) a Jesus and Mary Chain di You Want The Candy. Ilario Galati

Il duo milanese Musetta si presenta subito con un accuratissimo art work, che colpisce sicuramente l’osservatore. Ma Matteo Curcio e Marinella Mastrosimone non si limitano soltanto all’estetica. I due si muovono su linee di suono apparentemente inconcilianti richiamando costantemente una atmosfera noir da cinema anni Trenta. L’elettronica appena accennata, molto minimale, ricorda molto da vicino il triphop dei Portishead, mentre la voce assomiglia molto a Bjork. Ma non è qui la novità del duo. Sono i costanti riferimenti al jazz e allo swing che colgono nel segno, con il sottofondo elettronico, rendendo ogni canzone un viaggio incantevole in atmosfere da moderno Casablanca. Un disco per anime in bianco e nero ma con qualche sfumatura colorata. Giuseppe Lisi

JOE JACKSON Rain Rykodisk

A cinque anni di distanza da Volume 4, suo ultimo doppio album in studio Joe Jackson, l’eclettico geniaccio del pop britannico (solo Costello è al suo livello!) ritorna con Rain, un lavoro che riesce a centrare


l’obiettivo non facile di fondere energia ed eleganza compositiva. Jackson conferma una ennesima volta uno stile inconfondibile affinato in trent’anni di esplorazione di aree espressive a volte molto distanti tra loro, dal punk alla classica, dal jazz alle colonne sonore. Molti i richiami in Invisibile Man, Good Bad Boy, Citizen Sane, King Pleasure Time ai suoi primi indimenticabili album fine anni’70/inizi ‘80 trasudanti aggressività mod, ma non ci credereste, le chitarre in Rain sono completamente assenti: a farla da padrone ed a tessere tutte le linee armoniche è il pianoforte dell’artista, strumento che già da tempo Jackson aveva mostrato di prediligere e nel quale si è perfezionato. Esso in Solo (So Low) accompagna addirittura in perfetta solitudine la performance vocale di Joe priva di sbavature. Complice un combo straordinario comprendente il fedelissimo bassista Graham Maby, Jackson elargisce raffinate melodie targate Bacharach (Wasted Time) e continua nella sua affascinante ed ormai interminabile esplorazione dell’armonia e dell’arte pop. Pasquale Boffoli

BURNING SEAS Extract Album Promo Cd+Dvd

Un passo alla volta, senza fretta, questi ragazzi sono arrivati a forgiare uno stile personale

e credibile, giusto punto d’incontro tra schemi derivati da consistenti applicazioni di tecniche di old school thrash, nu & death metal e schegge di techno-metal a delinearne i contorni (ma questo, forse, lo sapevate se vi è già capitato di ascoltare il loro precedente materiale). Arrivano dalla Puglia i Burning Seas, terra assai fertile musicalmente parlando, ma fuori dal giro del metal meno ortodosso. Tanto di guadagnato per chi come loro segue da sempre soltanto l’istinto, al riparo dalle solite iper-sfruttate convenzioni ed è riuscito a mettere in piedi qualcosa che scotta e riluce. Camillo “RADI@zioni” Fasulo

OFFLAGA DISCO PAX Bachelite Santeria/Audioglobe

e alla new-wave ma soprattutto all’analogico, assolutamente onesti nelle loro tessiture sonore. Ma cosa sarebbero gli Offlaga senza le intuizioni della vita di città, delle piccole cose che diventano insegnamenti per la vita, della nostalgia viva per un comunismo forse un po’ annacquato, à la Lula da Silva, citato in Dove ho messo la mia golf, di quel realismo sociale che diventa poesia in prosa? La formula Offlaga non perde di credibilità né di appetibilità. Questa è e sarà sempre la sfida legata a un azzardo così grande: non cantare. Allo stesso tempo sento di non condividere pienamente la scelta ortodossa di mescolare voce e musica, come fossero un unico flusso indefinito. Non è così: apprezziamo la modestia di Collini, ma è lui, il più improbabile dei frontman, a poter far emergere gli Offlaga dalla (seppur) prestigiosa nicchia underground in cui si sono posizionati. Dino Amenduni

SUNTRACK Deeply Inside Snowbit

Max Collini, il più improbabile dei frontman, è finito su un palco per la prima volta a 36 anni. E nemmeno grazie alle sue doti vocali. Ingegnere di Reggio Emilia, terra in cui i CCCP hanno lasciato un segno ancora tangibile a oramai 20 anni di distanza dai loro capolavori, scrive testi senza i quali gli Offlaga Disco Pax non avrebbero alcuna ragione di esistere. Non me ne vogliano Enrico Fontanelli e Daniele Carretti, gli altri componenti della band, devoti al kraut-rock

Come una colonna sonora che trae ispirazione dal mondo, la natura… a questo fa pensare il nome di questo progetto. Ampi spazi in cui intersecare tracce sonore che arrivano dalle cordinate più disparate. Musica che musica 27


non ha coordinate geografiche precise, difficile da datare sospesa tra passato e presente. C’è un velo di psichedelia, che sembra prendere aria, sfociare in “ambienti” sonori con “progressioni” che affondano le radici negli anni ‘70 ma ergono i loro rami verso galassie lontane. Sono due, poco è dato sapere di loro, sfogliando il booklet e scavando tra i riferimenti sparsi tra note e parole l’enigma si svela pian piano e si scopre un disco veramente bello. (O.P.)

YEASAYER All Hour Cymbals We Are Free/ Goodfellas

Middle Eastern-Psych-PopSnap-Gospel. Significa tutto e significa niente, ma è in questo modo che il cantante degli Yeasayer, Chris Keating, ama definire la propria musica. In effetti non potrebbe esserci altro modo, dato che il quartetto di Brooklyn mischia in uno stile personale numerosi generi, dalla world music al pop, dalla musica etnica alle influenze anni ’80. Il loro primo album All Hour Cymbals rispecchia appieno la loro stramba definizione già dalla open-track Sunrise che è un po’ di tutto, gospel nella voce, ritmiche tribali, un ritornello pop, elettronica 28 musica

minimale, il basso dub. Wait for the summer sembra essere una canzone per ingraziarsi la divinità indù Shiva con tanto di sytar e armonie orientaleggianti. Il singolo 2080 ha un incedere molto più pop con chitarre in primo piano e un ritornello accattivante anche se non mancano i riferimenti (continui) alla world music. Le successive tracce rivelano un’andatura più cosmica (Ah Weir), ma il canovaccio rimane più o meno sempre lo stesso, cioè coretti mistici, richiami orientali, qualche ritornello pop. Certo non mancano le buone canzoni (la già citata Ah Weir, Wait for Wintertime e la ghost track), ma l’impressione è che proprio quello che dovrebbe essere il punto di forza del gruppo, ovvero una mistione ben congeniata di diversi stili musicali, sia una debolezza perché rende il suono delle varie canzoni troppo simile e prevedibile, in una ricerca a volte forzata di originalità. Sicuramente è un debutto interessante, ma solo i futuri lavori potranno dirci se gli Yeasayer sono i pionieri di un genere nuovo. Giuseppe Lisi

24 GRAN­A Ghostwriters­ La Canzonetta

Quinto album per il quartetto partenopeo, ormai tra i veterani nel circuito underground italiano, un disco in cui le classiche caratteristiche sonore del gruppo, legate alla melodia napoletana con venature “dub-rock”, danno maggior spazio al lato cantautorale. La voce di Francesco Di Bella, in primo piano, è costantemente accompagnata da delicati arpeggi di chitarra che permettono di raccontare storie e sensazioni. Vari sono gli ospiti che partecipano al

disco (produzione artistica di Daniele Sinigallia), tra cui Riccardo Sinigallia in Avere una vita davanti e Filippo Gatti in Le Verità. Il disco, dalle atmosfere lente, scorre velocemente e sembra raggiungere la sua migliore espressione quando i brani si vestono di melodie e parole napoletane più che nelle tracce in italiano. In generale il risultato è buono ma non sconvolgente, come se l’evoluzione dei 24 Grana avvenisse per piccoli passi ma costantemente. Francesco AdV

EMOGLOBE Emoglobe Red vision

Che il grunge abbia lasciato tracce indelebili nel rock è ormai pratica dell’ascolto. Ne è rimasta l’attitudine un po’ come fu ed è per il punk. Figli di un carica, di una rabbia che ancora oggi è dirompente e capace di scuotere. Gli Emoglobe sembrano portare con sé tutto questo, un’energia che si sprigiona come sfogo, nervosa, tesa, spigolosa mentre lascia qua e là spiragli di melodia nelle aperture. Vengono da Milano, licenziati dalla nuova e promettente Red Vision, scelgono l’inglese per esprimersi con la stessa dimestichezza con cui intrecciano inserti di elettronica e distorsori. Sanno pestare duro come distendersi (bella e


alienante la ballata Northpole). Ottima prova. (O.P.)

THE SLEEPING YEARS We’re Becoming Islands One By One Talitres

Quando ho ascoltato Nick Drake per la prima volta era se come la vita lo sfiorasse appena, fosse lontana e lo accarezzasse come un vento leggero, una brezza. Alcuni dicono che solo gli anni permettono alla tristezza di posarsi e addormentarsi. The Sleeping years, sembra raccontare la ricerca della pace, il ricordo del dolore, l’intensità del vivere e la leggerezza del sogno. Quando un uomo (Dale Grundle) abbraccia il necessario per cantarsi l’effetto è penetrante, merito di una lirica ispirata, di arpeggi, archi e poco di più. Bello come i Sodastream ci hanno abituato, folk del nuovo millennio pronto per emozionare. (O.P.)

MISSIVA Sospeso Produzioni Rock Italiane / Andromeda

Carattere e personalità emergono con decisione dal debutto ufficiale dei brindisini Missiva, formazione di relativamente recente costituzione ma evidentemente con le idee ben chiare

circa la propria identità artistica. Il solido rock proposto dalla band mette bene in evidenza qualità tecniche sicuramente di buon livello come anche capacità di elaborare composizioni a volte complesse e serrate ed a volte più intense e di più ampio respiro. Figli “illegittimi” di certo grunge stile anni ’90, i Missiva attingono a piene mani da certo rock a stelle e strisce d’impostazione epica e drammatica, dove rabbia e melodia si contrappongono rincorrendosi in continuazione, senza pur tuttavia mai calcare troppo la mano in direzione di sonorità particolarmente ruvide o pesanti. Sospeso colpisce nel segno fin dal primo ascolto senza lasciare emergere troppi dubbi circa le potenzialità della band, già matura per affrontare, con la giusta determinazione, palcoscenici di tutto rispetto. Sembra infatti proprio la dimensione “live” quella in cui i Missiva riescono meglio ad infrangere la barriera del rapporto di coinvolgimento tra chi sta sopra e chi sotto il palco! Camillo “RADI@zioni” Fasulo

ESSIE JAIN We Made This Ourselves Leaf

Per chi non credeva che la musica classica potesse incotrare il folk è arrivata, solo qualche mese fa, Joanna Newsom. Questo bellissimo debutto di Essie Jain ne è la riconferma. Più virato verso il folk, dalle tinte autunnali, leggero come la farfalla in copertina, ispirato, lirico, struggente. A volte Essie sembra non appartenerci, sfuggirci, poi si radica e riecheggia in suoni che sembrano avere il gospel come riferimento, poi

ancora sembra bussare timida alla porta di Will Oldham, o tornare in Inghilterra da cui è partita per poi stabilirsi in America. Il suono da “camera” non è che base su cui la voce sorprendente per espressione e gamma di sfumature si inerpica e gioca. Proprio come il volo di una farfalla, irregolare, sorprendente, ma elegantissimo. (O.P.)

WHY? Alopecia Tomlab

Il marchio di fabbrica Clouddead non può che essere garanzia di qualità. Un terzo di loro è motore di questo progetto che porta avanti il vessillo dell’hip-hop che flirta con l’indie, il pop, la melodia. Sarebbe tentati di mettere un post, qualcosa nell’elenco di generi possibili ma quello che conta sono le canzoni. Come un epigono di Beck, qualcosa che attraversa i generi, li campiona li mette in sequenza in un collage figlio dei nostri tempi, la cosa più vicina a quello che siamo, un crossover di esperienze che girano in testa, il tempo necessario per diventare un brano, a metà strada fra rap e canzone. Un gioco preso molto seriamente, affiches postmoderni, guida agli autostoppisti del futuro. (O.P.) musica 29


CAPAREZZA Le dimensioni del mio caos Virgin

sta - l’utilizzo massiccio di strumenti tradizionali, chitarre in primis, è un indiscutibile titolo di merito - ma che lascia aperte una serie di questioni, prima fra tutte: come andrà a finire tra Capa e il suo caos? Dino Amenduni

TRABANT Music 4 Losers Rsvp!/Moscow

Michele Salvemini da Molfetta, Puglia, è tornato. Quarto album in studio per il nostro principale prodotto d’esportazione ed ennesima spietata analisi della nostra società. Il Capa è in grande, grandissimo fermento creativo: pubblica quest’album proprio mentre il suo volume Saghe Mentali invade le librerie, non è mai uguale a sé stesso nei suoi set dal vivo, dove annoiarsi è obiettivamente impossibile, re-inventa il fotoromanzo. Le dimensioni è una sorta di doppio concept album in cui le storie di due personaggi di fantasia, Luigi delle Bicocche, “protagonista” dell’ottimo singolo Eroe e Ilaria Condizionata sono funzionali alla narrazione delle italiche sorti. Creatività e caos spesso vanno a braccetto e questo è apparso chiaro sin da subito al Nostro, che forse ha subìto la sua stessa verve e ha messo fin troppa carne, seppur pregevole, sul fuoco. Il risultato finale è un album in cui le singole tracce funzionano (Abiura di me su tutte) ma il complesso appare un po’ forzato e ridondante. Un album comunque positivo, che conferma le doti di Caparezza come scrittore, come sociologo - Vieni a ballare in Puglia deve far riflettere i nostri politici - e come musici30 musica

trattasi di muzak pre-party). Nove brani per 28’ e 48”: il top è rintracciabile in Girlfriend/ bestfriend (meno convincenti quando tentano di inseguire gli inarrivabili Planet Funk). L’estate scorsa hanno suonato sullo stesso palco di Joan as a Police Woman e The Good, the Bad and the Queen. Possibilità di crescita? Abbastanza. Nino G. D’attis

OTTAEDRO Faggi In Fuga Bassesfere

Nel Manicomio Italia (tutte le mappe traumatologiche dei casi più gravi sono andate smarrite) ci sono giovani che fanno musica che qualcuno definisce “party oriented”. I Trabant sono un quartetto di Trieste attivo dal 2004 e composto da Il Marcello: voce e chitarra; Joujou: synths; Jack: batteria; Chuk: basso. Un E.p. autoprodotto nel 2005, quindi l’approdo sulle sponde della Records! S’il Vous Plait, coraggiosa etichetta udinese che ammette: “Amiamo le canzoni. Crediamo che farne di buone non sia cosa facile.” Semi sparsi nel Trabant sound: new wave funk, pop adulterato, elettronica neuromelodica. Il loro primo album, nei negozi da ottobre, dura lo spazio di un video di media lunghezza su youporn e anche se non brilla per originalità è abbastanza divertente, colorato, orecchiabile da metterti in condizione di ascoltarlo mentre ti vesti per uscire (correggiamo, dunque:

La musica, quando nasce, non dovrebbe avere una destinazione, ma essere in balia di suggestioni che solo le emozioni sanno leggere. È così che progetti come questo giocano saltellando tra i generi, prendendosi la libertà di perdersi in fughe con corse all’inseguimento di un tema che scappa? Come fosse piuma leggera, per poi posarsi su una melodia o un tempo dispari. Di grandi respiri è fatta la musica di questo progetto, respiri che lasciano spazio ai musicisti di tessere senza manierismo ricami che aggiungono stile alle composizioni. E non importa si attinga dalla canzone popolare o dalla musica colta, quello che sembra avere importanza è il viaggio, il percorso. Meno di un’ora di musica, poche parole, tante visioni. (O.P.)


CAMILLE Music Hole Emi

un dovere morale. Perché la musica potrà anche non essere più quella di una volta; ma se nel giro di pochi mesi si ha il piacere di recensire Amy, Adele e Camille non c’è motivo di essere preoccupati. Anzi. Dino Amenduni

CAMERA 66 In Sospeso Autoprodotto La musica non è più quella di una volta, dicono. Forse è così: spesso si utilizza questa frase per indicare il declino delle produzioni negli ultimi anni. Forse è vero che le cose sono cambiate in peggio. Ma quando le arti si trasformano e violano canoni, spesso spiazzano. Quando c’è la qualità, entusiasmano. Questo è Music Hole, semplicemente l’album dell’anno. E dire ciò in primavera vuol dire essere di fronte a un prodotto di valore assoluto. Da mesi non si avvertiva un senso di novità e allo stesso tempo non si provavano simili brividi. Un album perfettamente coerente ma composto da tante piccole storie, tante tracce che vivono da sole. La produzione, a cura di Matthew Kerr, si muove tra il visionario e il folle ed è attorno a suoni liquidi e destrutturati che la parigina Camille esplode. La sensazione che si prova è quella di una forza della natura che si diverte con suoni messi lì quasi a caso, poi decide che deve mettere tutto in ordine con la sua voce, e lo fa tutte le volte. La parigina canta in inglese e si candida così al ruolo di primazia nel pop d’autore. Il timore, come sempre, è che prodotti del genere passino inosservati: anche per questo il parlare di Music Hole è quasi

La parola, spessore alla parola, le parole sono importanti. E in Italia, ce lo hanno sussurrato o urlato gente come i Cccp, i Massimo Volume e i più attuali e alla moda Offlaga Disco Pax. I Camera 66 si muovono in questi territori. Musicalmente legati al post rock, lirici, scuri, cinematografici, concedono alle parole cornice che diventa sostanza e alimenta i brani. Atmosfere aeree si alternano ad altre sotterranee, il livello emotivo generale è denso, teso, ha il sapore di questi anni, sintonizza stati d’animo che ci appartengono. (O.P.)

THE LAST SHADOW PUPPETS The Age Of The Understatement Domino

Alex Turner (Arctic Monkeys), Miles Kane (Rascals), James Ford (batteria, produzione): non lasciatevi ingannare dai

nomi, però. Il disco si apre in grande stile con un’acida galoppata morriconiana. Eccessiva, ma non pomposa. È un album ambizioso che mostra le elevate doti di Turner come cantautore e compositore. Il materiale è di una compattezza disarmante, i pezzi freschi, ispirati e carismatici. Sorprende la coesione fra i ragazzi e la London Metropolitan Orchestra. Psichedelia e poi ancora psichedelia, echi del miglior pop-folk-rock di Sixties e Seventies con in testa S. Walker e Axelrod. Only the truth è teatrale, una marcia acida; ha la struttura e la violenza punkhardcore old school, ma sonorità western. In I don’t like you anymore s’intravedono gli Arctic Monkeys, e il pezzo chiude con grida da film horror. L’album è un vero e proprio vortice. Un ispirato omaggio ai Sessanta e Settanta. Pur presentando arrangiamenti estremamente articolati ed orchestrati, il disco non suona mai pomposo o scolastico. Vedi la sobrietà di Meeting Place, fantastica crea tura uscita dal ballo di fine anno di un american-college nei Sixties. Ma che ispirazione! Che talento! Travolgente. Tobia D’Onofrio

EFTERKLANG Parades Leaf

Ritorna il gruppo danese con Parades, undici tracce, uscito musica 31


fai-da-te. Un’attitudine quella dei Beach House che se fosse trasportata in video avrebbe lo stesso impatto di un vecchio filmato in Super-8 affascinante e retrò quanto basta. Marco Chiffi

per la Leaf. Dopo il loro disco d’esordio Tripper, con ottimi risultati, molti avevano gli occhi puntati addosso agli Efterklang. In parte le aspettative non sono state deluse. Sono sempre loro, elettronici tanto quanto basta per strizzare l’occhio alle atmosfere islandesi, glitch e pop, alla base, e poi una atmosfera folk con l’aggiunta di arrangiamenti orchestrali. Forse troppo orchestrali, da saturare e rendere a volte inascoltabile il sottofondo sonoro. In ogni modo un bel disco, quasi all’altezza del precedente. Tra i pezzi migliori Polygyne, avvolgente melodia glitch che sembra via via accrescersi in un suono orchestrale, e Frida found a friend, velata di tristezza e sulla linea del precedente lavoro. Federico Baglivi

BEACH HOUSE Devotion Carapark-Bella Union

Indie o dream pop, poco importa. Come vogliate definirla la musica dei Beach House è sognante ed eclettica. Il duo di Baltimora ci mette tante tastiere vintage, drum machine essenziali e la splendida voce di Victoria Legrand a trasportarvi in un posto lontano, che sia una spiaggia sul Pacifico o una festa di adolescenti. L’altra metà del duo è Alex Scally che oltre che fare il musicista è pure falegname e fanatico del 32 musica

DEAD CHILD Attack Quarterstick

VAMPIRE WEEKEND Vampire Weekend Xl Recordings

Si, è successo di nuovo. Demo che passano di blog in blog, persone che si riscoprono fan e l’etichetta (la XL Recordings in questo caso) che sente un buon profumo nell’aria e fa firmare un contratto a quattro ragazzotti. La storia è trita e ritrita e con qualche pregiudizio poi ti metti all’ascolto e ci resti anche un po’ male quando scopri che è un lavoro maledettamente buono. Perché questi quattro sembrano venire dalla savana africana e invece sono di New York e quindi la grande mela diventa nerissima e coloratissima al tempo stesso. Da APunk a Walcott è una catena di rimandi all’afrobeat e alla musica classica con tutto l’indie di oggi a mettere le basi. Ma la cosa che infastidisce di più è che tutto questo pare venirgli con troppa semplicità. E mentre non riesci a capire se ti stanno simpatici o meno, senti già il bacino ondeggiare e il piede tenere il tempo per terra. Marco Chiffi

Chi ha seguito gli albori del post-rock non può non conoscere David Pajo. Un musicista capace di scrivere la storia della musica, con Slint, Aerial M, Tortoise, Stereolab e The For Carnation. Con questi ultimi suonano Michael McMahan e Todd Cook che lo seguono nei Dead Child. Le radici del movimento, ovvero Bastro o Squirrel Bait, hanno sperimentato all’estremo e definitivamente ucciso il sound post-punk e metal-core. Era prevedibile che con la riunione Slint, lo sguardo indietro nel tempo potesse riportare la voglia di certe sonorità metal, posthardcore, trash, ecc. Non sorprende perciò ritrovare Pajo in un disco che sembra uscire da quel periodo. I Dead Child sono sporchi, pesanti, talvolta ipnotici. Non c’è traccia di assoli iper-tecnici o di gorgoglii vocali di band classicamente heavy metal. Le sonorità sono trash, a volte ricordano Kyuss, Orange 9mm oppure sfoderano bei riff e progressioni. Ma la voce non convince e suona soffocata e monotona. Come l’impianto ritmico, rigido e poco vario. Da uno come Pajo ci si aspettava certamente di meglio. Un disco che all’epoca non avrebbe sfondato. Ed ora come ora, se proprio trovasse orecchie per meri-


to del curriculum dei musicisti, sarebbe quasi un miracolo. Tobia D’Onofrio

THE NIRO The Niro Universal

ALMAMEGRETTA Vulgus Sanacore Records/ Edel

I figli di Annibale ritornano sulla scena musicale italiana con un disco di chiara matrice dub napoletana, come è nel loro stile, in cui nuove e vecchie voci del gruppo si intrecciano o si alternano. Dopo la defezione di Raiz (voce), comunque presente in una traccia del disco, e la scomparsa di D Rad (dub master) il gruppo si è arricchito inserendo nuovi elementi come Lucariello e Zaira (voci), ripescando vecchie conoscenze come Princess Julianna (già in Lingo, 1997) o chiamando a collaborare un veterano come Horace Andy, una delle voci più belle del reggae internazionale. La produzione è ottima, a dimostrazione di quanto di buono gli Almamegretta siano riusciti a seminare in tutti questi anni, si ha l’impressione che il gruppo abbia ancora qualcosa da dire non solo a livello nazionale. Un brano su tutti è Just say who cantato da Horace Andy, una vecchia canzone dell’artista giamaicano rivisitata con le classiche atmosfere dub - reggae del gruppo, un piccolo capolavoro. Il disco affronta, tra le altre, diverse tematiche sociali filtrandole con lo spirito popolare napoletano o ancor di più mediterraneo; è forte in Vulgus lo stato di ansia che si respira in questi ultimi anni in Italia. L’album, ad eccezione di qualche brano che non aggiunge sostanza al disco, è nel complesso ben riuscito ed è manna dal cielo in un panorama musicale italiano sempre più piatto. Francesco AdV

Lui confessa però di preferire il padre Tim, ma anche Elliott Smith e Sufjan Stevens. Il disco è abbastanza vario con una prevalente attitudine alla malinconia, però ci sono anche brani di più ampio respiro, più allegri. Canzoni brevi, intime, struggenti… è una musica di incantesimi quella di Davide “The Niro” Combusti. Camillo “RADI@zioni” Fasulo

DolceMENTE Il temporale estivo Autoprodotto

The Niro è il nome d’arte di Davide Combusti – ventinovenne, musicista e cantautore romano – che a pronunciarlo ricorda tanto quello del noto attore Robert De Niro. Con un mini CD alle spalle, An Ordinary Man e questo album lungo, auto-intitolato, da poche settimane nei negozi, Davide potrebbe essere scambiato facilmente per una stella nascente della nuova scena britannica, ma non è così anche se scrive e canta in inglese i suoi brani. Intanto sorprende sin dal primo ascolto la sua personale vena poetica condensata in queste tredici gemme di drammatica tensione, ai confini del pop… E poi The Niro è bravo, garbato, sottile. Della sua musica dice che non assomiglia a quella di nessun altro, o meglio, che non è ispirata a quella di nessuno in particolare. Ma la sua voce educata e controllata, la sua chitarra che emoziona facilmente, gli arrangiamenti minimali e, insomma, un po’ tutti i suoni che produce, non possono non ricordare i Muse, i Radiohead, Nick Drake, ma anche Jeff Buckley.

Si insinua piano, senza far troppo rumore, semplice, senza fare troppi giri e per questo è disarmante. La musica dei DolceMente è così, lontana da tutto e allo stesso tempo vicina come un segreto detto all’orecchio. Pop, indie negli ascolti, in italiano con coraggio. Pensate a gruppi come Yuppy Flu, Grandaddy, Sparklehorse, gente che prende la parte intima della musica e la mette in melodia. Ecco, i dolceMente sembrano cugini non lontanissimi di questa scena. Atmosfere oblique, la voce di Simone un po’ spigolosa ma smussata qua e là da armonie minime che creano nell’intreccio un tessuto sonoro caldo e affascinante. Un esordio che vanta alcuni nomi cari alla scena rock salentina affiancati da nuove leve. Veramente promettenti. (O.P.) musica 33


IRMA RECORDS La Irma Records, tra le etichette italiane, è sicuramente la più “nostalgica”. Punto di riferimento per la scena lounge italiana e non solo, custode di generi e sonorità vintage ma anche promotrice di nuovi suoni e contaminazioni. Che rapporto avete con la nostalgia? In ambito musicale siete un punto di riferimento, in Italia e non solo, per tutto ciò che è vintage e profuma di anni ‘60? Gli anni ’60 sono stati sicuramente il periodo più bello della musica. Ancora oggi puoi ascoltare un qualsiasi disco di quel periodo e lo trovi più fresco e interessante di tanti dischi attuali. Questo vale per tutti i generi musicali. Quindi è normale che i riferimenti con quel mondo siano continui. Una cosa fondamentale era l’importanza della melodia, cosa che oggi si è persa molto. Noi, nel nostro piccolo, siamo molto influenzati da quello ma ovviamente cerchiamo di “attualizzare” il tutto con la tecnologia e le sonorità di oggi. Ma la Irma non è solo questo, in questi anni siete cambiati, vi siete evoluti, senza mai 34 musica

rinunciare a uno stile, ci racconti un po’ della vostra storia? La Irma nasce nel 1988 come etichetta dance legata all’esplosione della House Music. La prima crisi che si è creata dal cambio di supporto tra Vinile e Compact Disc ci ha aiutato a cambiare anche il nostro genere musicale che si è evoluto in conseguenza del fatto che non si ragionava più solo su brani singoli, ma su interi album. Con l’album dei Jestofunk Love in a Black Dimension abbiamo iniziato a cambiare pelle definitivamente. Dall’allora dilagante Acid Jazz abbiamo esplorato un po’ tutte le tendenze che via via negli anni hanno attraversato il mondo della musica da club, intesa non solo come musica Dance, ma come musica da “locali di intrattenimento”. Quindi abbiamo praticamente “inventato” la Cocktail music, grazie a Montefiori Cocktail e le compilation Mo’Plen, e siamo entrati prepotentemente nel mondo del ‘lounge/ chillout’ passando per il trip hop, il break beat, il drum’n’bass, e tutte le varie ramificazione della musica elettronica, cercando di avere sempre un doppio riferimento: la black music e la melodia.


Un’etichetta di “prim’ordine” che ha in sé una serie di marchi, categorie, sfumature. Ce ne parli? Come molti sanno il nome “primordine” deriva dal nome originario della Irma: i locali dove abbiamo iniziato a lavorare erano gli stessi dove negli anni ’50 c’era il più famoso ‘bordello’ di Bologna, che si chiamava appunto “Irma Casa Di Prim’ordine”. Come dicevo prima, affrontando un po’ tutto il panorama della musica da club si è creata ad un certo punto la necessità di dare una connotazione più precisa ai generi musicali. Quindi abbiamo evidenziato per esempio il genere Cocktail e più dichiaratamente legato agli anni ‘60 e ‘70 con l’etichetta La Douce. Abbiamo fatto una lunga serie di compilation lounge/chill out su un marchio a nome Irma Cafè. La musica elettronica ha due diverse posizioni su Cuadra e Irma Elettrica. La musica House è su Unlimited e così via. Tra le vostre novità anche la salentina Agnese Manganaro, ci parli un po’ delle vostre ultime uscite? Da qualche anno abbiamo iniziato anche a produrre musica in lingua italiana e Agnese è sicuramente l’artista che più di tutte ci è sembrata si “sposasse” con la nostra filosofia. Finalmente dopo tre anni circa siamo in procinto di pubblicare il suo album. Siamo in uscita in

questi primi mesi del 2008 con gli album di: Bengi Jumping, il leader del gruppo Ridillo nella sua veste più Cocktail, Musetta, un duo milanese voce e musica elettronica che ha avuto grande visibilità sul web e dal vivo, Supabeatz, un giovane produttore siciliano di musica Electro e Zone, un progetto del musicista jazz Enzo Torregrossa, che con l’ausilio di diversi cantanti ha fatto un lavoro molto raffinato ed internazionale. Come immagini il futuro della musica? Con uno sguardo sempre rivolto a ciò che di bello ci ha regalato il passato? Il futuro è molto incerto, soprattutto per quello che riguarda l’industria musicale. I supporti registrati non si vendono più quindi sta cambiando tutto il concetto del business. Ma se parliamo solo di musica da ascoltare è molto difficile a dirsi. Non mi sembra che negli ultimi anni ci siano stati grandi cambiamenti l’elettronica sta sempre più “alienandosi” ma non ha generato dei veri e propri nuovi generi. Quello a cui credo sempre di più è la ricerca della melodia e quindi alla fine è sempre quello che paga di più - poi i generi contano relativamente una bella melodia sta bene in qualsiasi versione, l’esempio più eclatante è la grande diffusione recente delle cover di brani storici, e quindi ci ricolleghiamo sempre al passato. (O.P.) musica 35


GIUSEPPE GENNA Chi sia Giuseppe Genna, quali siano le sue provenienze, distanze, attenzioni, è cosa che potete sapere spulciando a profusione il sito www.giugenna.com, in cui il miserabile autore raccoglie da tempo ogni tipo di materiale su scritti e pezzi di vita. Provare a tracciarne una sintesi sarebbe ingeneroso, oltre che complesso, quindi vogliate scusarmi se rimando alla vostra curiosità le note biografiche che qui sarebbero d’obbligo, ma Giuseppe è un uomo e uno scrittore di cui non si può proprio fare riassunto. Per scrivere Hitler ci hai messo dieci anni. Li hai dedicati “a una meditazione e un’ossessione creativa, tenute a bada attraverso studi e riflessioni su come guardare in faccia letterariamente

Hitler”. Ti va di raccontarmi qualcosa in proposito? Non è sentendo il Male che ho trascorso questi dieci anni, perché il Male non è. Sono stati anni di permanenza, per quanto possa sembrare paradossale. Come si sta di fronte a qualcosa che non è, come si sta di fronte a una non-persona? È evidente: l’atroce sterminatore sono io. Come posso rappresentare, allora, questo mio sguardo su ciò che non è, e che non è Hitler eppure lo è ? […] In questi anni, ci sono stati momenti in cui si sono manifestate alcune percezioni di possibilità di rappresentazione di questa “cosa”. Per guardare in faccia Hitler, sei risalito all’indietro nel tempo da uomo, ma anche da filosofo e da scrittore. In questi due


LIBRI ultimi “ruoli”, c’è stata partecipazione emozionale? Non c’è stato lavoro empatico su Hitler, ma sulla Shoah. Il perno del libro per me è quello che sta tra le due pagine nere, e che si intitola Apocalisse con figure. […] Quel capitolo è indipendente a livello di mercato, non è parte vendibile del libro. Nelle parole pronunciate - in cui non sono assente ma sono certo minoritario - si deposita una cosa da dire: che la memoria non è l’ultima facoltà, perché se tu vai ad Achau e ricordi dei vivi nelle camere a gas, e della loro vita e della loro esperienza di prima, la memoria diventa selettiva. Accade a un certo punto per natura che stai e risenti, e basta: questo sentire, che cede la memoria, è l’essere di fronte a Hitler non essere . Un’altra curiosità riguarda il ricorso alla mitologia norrena, attraverso la figura del “lupo della Fine” Fenrir. Perché hai utilizzato una figura mitica in un libro fortemente de-mitizzante? Partiamo dal presupposto che il lupo che scatena la fine del mondo va dal piccolo Hitler e gli dice “Io sono vuoto e mi riempio di te”. Hitler non è invaso dal Male: questo è il primo atto che io compio, deresponsabilizzando Hitler stesso. E’ fondamentale, a questo punto, l’ossessione di Hitler per la figura del lupo: il suo cane, Blondi, è un pastore, per esempio. Per questo l’utilizzo di una figura mitica che di fatto è mito vuoto, e che fa da contrappasso a Hitler che non pretende di essere personaggio. Consentimi un gioco di differenze tra Hitler e un altro tuo lavoro: Medium. Medium narra della scomparsa di tuo padre; Hitler registra la non-esistenza di una nonpersona. È un parallelo che ha un senso? Ha un senso, assolutamente sì. Medium, però, è vero solo nel primo capitolo, dopo tiro fuori il nemico che mi consente la rielaborazione del lutto, cioè la finzione, la finzione letteraria. C’è tutto un discorso sul passato, che può essere vero e può essere finto, e che messo di fronte all’atto della morte del padre crolla. È il crollo della finzione di fronte all’umanità[…]. Poi c’è Hitler, che non fu padre di nessuno, e non fu padre perché non c’è un solo momento vero in tutta la sua vita[…]. È fuor di dubbio che io abbia schierato l’empatia nel momento in cui ho scritto, mutuandola dal fatto scatenante narrato in Medium, e rivolgendola tutta contro Hitler. Sì.

Ricorre il quarantennale del ‘68 e Mondadori ripropone Catrame, libro in cui rendi evidenti i tradimenti degli anni immediatamente successivi al movimento di protesta. Credi in questa riproposta? Per me Catrame non ha l’impatto politico che dovrebbe avere. “Quelli” erano anni particolari, in cui non esisteva la controinformazione, e la memoria andava perduta. Per questo mi sarebbe sembrato più significativo riproporre ora un libro come Assalto a un tempo devastato e vile. Altra tua presenza in libreria, l’antologia Tu sei lei per la Minimum Fax , di cui sei curatore. Hai chiamato otto scrittrici a narrare delle storie. Questo libro è “automaticamente politico” e si fa portatore insieme di una questione femminile e di una questione artistica. Per coerenza d’intenti, non sarebbe stato più giusto far curare questo lavoro a una donna? No, per due motivi. Il primo è che a nessuna donna vien da proporre alcuna antologia. Il secondo è che la questione femminile è universale, quindi io sono femminile. Qui c’è in ballo la percezione di una società che non sa comprendere quanto il femminile sia salvifico […] Allora, vediamo come sente il femminile. Vediamolo affidando a otto scrittrici altrettante narrazioni, senza nulla di pre-ordinato. Bene, la risposta è che il femminile sente tutto, visto che in questa antologia non c’è un racconto che sia paragonabile a un altro, e tutti sono differenti per struttura, tono, contenuto. Anche il tuo sito è un progetto intensamente politico. In un mondo che decade sempre più verso l’isolamento e la separatezza, tu e pochi altri autori curate questa relazione speciale con lettori e colleghi attraverso il web è davvero utile tutto ciò? Nel momento in cui si è intellettuali, o si mettono a disposizione degli altri i saperi, le capacità di sentire, i modi di intercettare, o non si è intellettuali. In una società complessa, la salvezza è fondare una comunità in cui saperi diversi si possano aggregare, per contrastare quella complessità che si traduce in semplificazione dell’estremo, e quindi in omologazione e alienazione. Scrivere è fare mitopoiesi, per trascinare nel segno del possibile ciò che in un’epoca ti dice che il segno può essere solo quella certa cosa, solo quelle determinate possibilità. Si chiama controllo sociale. Stefania Ricchiuto Libri 37



TIRDAD ZOLGHADR Softcore Isbn

Tirdad Zolghadr è un trentacinquenne iraniano che ha trascorso la sua infanzia a Teheran. Attualmente vive a Berlino, dove lavora come curatore d’arte contemporanea, oltre a svolgere l’attività di critico, giornalista e traduttore. Non è un caso, quindi, che il protagonista di Softcore, suo primo romanzo, edito in Italia da Isbn, sia un cinico curatore d’arte contemporanea, tornato a Teheran, per aprire un locale di tendenza, La promessa, già storico bar appartenuto alla sua famiglia nei decenni precedenti. La Teheran di Zolghadr ha davvero poco da spartire con l’immagine che noi occidentali abbiamo dell’Iran di Ahmadinejad. Qui ci troviamo nel gorgo di una città che pullula di artisti, in una continua e roboante dimensione etilica e drogata dell’esistenza, scandita da amplessi consumati su tavoli poco confortevoli o in bagni sempre troppo occupati. Softcore racconta con stile diretto e ironico le vicissitudini che accadono tra il ritorno del curatore a Teheran e l’apertura del suo locale, che nelle sue intenzioni vuole essere una sorta di iceberg della tendenza, dove arte, moda e comunicazione sono tutti elementi shakerati al fine di ottenere il massimo profitto possibile. Diciamo subito che sarà lo stesso cosmopolitismo del curatore ad essere il suo tallone d’Achille. In fondo Teheran non è Berlino e i servizi segreti sono sempre in agguato. Libro spassoso, con alcune pagine esilaranti, alcuni momenti narrativi di stallo. Rossano Astremo

MARIANO SABATINI Altri Trucchi D’autore Nutrimenti

Ho trovato davvero divertente la lettura di Altri trucchi d’autore di Mariano Sabatini, edito da Nutrimenti, seconda puntata del suo viaggio alla scoperta dei segreti dei grandi scrittori. In questo libro ci sono una cinquantina di interviste soprattutto a narratori italiani, da Genna alla Parrella, da Veronesi a Brizzi, da Montanari alla Santacroce, con qualche com-

parsata straniera, tra cui Cunningham, Deaver e Lansdale. Ho usato il termine divertente perché, scorrendo le varie interviste, ho notato che Sabatini ha fatto a gran parte degli scrittori le stesse domande, ed in particolar modo ha fatto delle domande a mio parere strambe, del tipo “I verbi ausiliari: aiuto o condanna?”. Cosa vuol dire? Cioè, come fai a scrivere senza utilizzare i verbi ausiliari. E soprattutto perché dovrebbero rappresentare una condanna. Tant’è che qualcuno si è un po’ innervosito. Così come molti hanno risposto a stento ad un’altra domanda, “Scrittori si diventa o si nasce?”, troppo marzulliana per sembrare vera. Così come altre che non mi hanno convinto, “Cosa pensa degli avverbi?”, “Sceglie le parole anche per il suono?”, “Su cosa si fonda il suo stile?”, “I suoi lettori chi sono?”, “Le parole che odia?”, e potrei continuare ancora. Ecco, questa non è una recensione. Più che altro è una riflessione. Io, in quanto giornalista, ad esempio, non avrei mai chiesto ad Isabella Santacroce “Per quali scrittori prova invidia?”, perché avrei scommesso un rene che lei avrebbe risposto così: “Per nessuno, i miei scrittori e poeti preferiti si sono tutti suicidati”. Rossano Astremo

CORMAC MCCARTHY La Strada Einaudi

Un uomo e un bambino immersi in uno scenario che, qualche decennio fa, avremmo definito ‘post-atomico’. Spinti dalla voglia di sopravvivere verso un altrove (il sud, il mare) attraversano un paesaggio di scheletri e polvere, vestigia in rovina di una civiltà che non è più. Sono questi i pochi elementi dai quali Cormac McCarthy parte per raccontare una straordinaria storia di dolore e morte, di speranza e di resurrezione. La Strada è un romanzo asciutto, brutale laddove lo scrittore, senza ipocrisia, descrive il tramonto della civiltà e la fine delle relazioni umane. McCarthy, con uno stile lirico difficilmente eguagliabile, intesse una storia opprimente nella quale filtra tuttavia un sottilissimo raggio di speranza. I dialoghi tra padre e figlio, secchi, crudi ma sempre dolcissimi e colmi di amore filiale, sono lancinanti e consolatori. In un contesto agghiacciante, gli occhi del bambino conservano ancora l’innocenza necessaria per ripartire, immaginare e costruire un mondo diverLibri 39



so. Vendutissimo negli Usa, La Strada, che ha fatto vincere il Pulitzer al suo autore e si prepara a diventare un film per la regia dell’australiano John Hillcoat, comincia dove due capolavori come La Peste di Camus e Cecità di Saramago finiscono. Grande letteratura. Ilario Galati

MURIEL BARBERY L’eleganza del riccio e/o

Pubblicato da Gallimard in Francia, dove ha rappresentato un vero e proprio caso letterario, L’eleganza del riccio ha già creato un piccolo culto anche in Italia. Il fortunatissimo libro di Muriel Barbery è forte di intuizioni notevoli e di personaggi ben costruiti. La storia ruota intorno a Renè, portinaia all’apparenza sciatta e banale ma in segreto coltissima e bibliofila, e Paloma, nichilista dodicenne che ha progettato il suicidio non prima di aver dato fuoco alla sua casa, per punire i suoi sciocchi genitori borghesi. Divertentissimo ma con un finale molto amaro, L’eleganza del riccio farà felici anche coloro i quali gongolano per le citazioni, di cui il romanzo è ricco. A dire il vero è forse questo il suo punto debole, un po’ per alcuni cedimenti ‘trendy” (l’amore per la cultura giapponese), un po’ per alcune affermazioni troppo anticonformiste (le nature morte fiamminghe valgono più di tutto il rinascimento italiano) difficili da mandar giù. Arduo ma riuscito il lavoro delle traduttrici (due per due registri differenti, quello di Paloma e quello di Renè) costrette a misurarsi con numerosi calembour e citazioni. Ilario Galati

L. R. CARRINO Acqua Storta Meridiano Zero

Storia d’amore e di camorra, questo piccolo libro di Carrino. Poco più di cento pagine che scorrono veloci tra baci, abbracci, appuntamenti segreti e spietate esecuzioni nei vicoli, tra le mura del carcere minorile di Nisida, sugli scogli di Mergellina. Lo scenario è quello che Roberto Saviano ha messo perfettamente a fuoco nel

suo Gomorra, la colonna sonora la forniscono i neomelodici partenopei Ida Rendano e Maria Nazionale (ma l’io narrante sostiene di preferire Carmelo Zappulla, Nino D’Angelo, Luciano Caldore). Piombo, feste pazze a base di Jack Daniel’s, zoccole, femmenelle e “cocaina tagliata ‘na merda”, il lettore immerso in un’atmosfera pesante, paranoica, da ballata tragica illuminata solo a tratti da riverberi ironici che smorzano appena l’ineluttabile crollo finale. Acqua Storta è un noir che mette in scena le sciagurate vicende di Giovanni e Salvatore, coppia di amanti sul filo del rasoio, bersagli mobili consapevoli del fatto che il loro amarsi non sia altro che “una bestemmia sull’altare di Santa Chiara”. Il primo è figlio rozzo e passionale di Don Antonio, un boss che legge e rilegge Dante e la Bibbia; il secondo lavora come contabile del clan Acqua Storta. Si nascondono al mondo, Giovanni e Salvatore, soprattutto al loro universo di gomma dura, impermeabile al diverso. E conoscono i codici, le regole immutabili del Sistema: puoi avere il potere, puoi girare armato, guidare il tuo piccolo esercito e avere mogli, puttane, figli. Non è ammesso tutto ciò che risulta “contronatura”, poiché un camorrista frocio non si è mai visto, nessuno ne ha mai sentito parlare neppure nelle barzellette. Romanzo di carne che freme, di eredità pesanti tra dolori inflitti e sofferti e di una Napoli vista come il luogo oscuro assoluto: occhi e orecchie dappertutto, raccomandazioni paterne (di un padre-padrone sanguinario) che suonano come feroci ultimatum. Il Sistema non si apre. Il Sistema non cambia. Il Sistema annienta i suoi figli “malati”. Luigi Romolo Carrino, napoletano, classe ’68, una laurea in Informatica, è poeta e autore teatrale. Due suoi racconti sono apparsi nell’antologia Men On Men 5 (Mondadori). Nino G. D’Attis

RICHARD BRAUTIGAN Una donna senza fortuna. Viaggiando all’indietro con due camicie soltanto Isbn

Richard Brautigan, a quarantasette anni, aveva una faccia rassicurante, nonostante tutto. Rassicurante è anche Una donna senza fortuna, nonostante tutto, nonostante il suicidio dell’autore poco dopo averlo terminato, nonostante l’aria della fine aleggi in ogni riga di questo libro. Nonostante la nostalgia sia presente, per un passato inafferrabile, in ogni angolo di questa storia. Libri 41


Anche se non c’è una storia, non una sola almeno: ci sono le storie, quelle di ogni uomo, l’amore, l’assenza di senso, le idee che si sciolgono nei fiumi e nei fumi della memoria; l’incapacità di tener testa alla memoria in una battaglia priva di senso, perché è la storia d’ogni uomo a ridisegnare il senso. E solo l’ironia e la leggerezza possono riuscire a non trasformare la nostalgia in un mostro che non si arresta mai. Ma non c’è nulla di tanto cervellotico in questo Brautigan, tranquilli: c’è una scarpa spaiata in mezzo a una strada di Honolulu, c’è un coniglio gigante in un’aula di tribunale, c’è la neve che non fa rumore e l’acqua che ne fa troppo. E ci sono due donne, una che s’impicca, nel cui ricordo abita Brautigan, e una che muore di cancro. “Mi mancherai un bel po’”, dice Brautigan a quest’ultima. Ma le scrive anche: “Le parole sono fiori di niente. Ti voglio bene”. Grazie alla traduzione di Enrico Monti, si comprende il valore dei fiori di niente – unico momento in cui il narratore non è bugiardo - : è il linguaggio semplice e onesto a rassicurare, raccontando non una ma tante storie. È questo l’unico codice che permette pure delle splendide, improvvise impennate, come quadri isolati in una pianura malinconica e ingenua. Raccontando un viaggio all’indietro e a perdere, R. restituisce sé stesso alla sua vita, attraverso le 160 pagine di un quaderno giapponese in cui nel 1982 aveva cominciato ad appuntare qualcosa. Qualcosa che assomiglia oggi a un disco dei Wilco o di Neil Young, qualcosa che si legge così come si fa, di nascosto, col diario di un figlio. Marco Montanaro

JASPER FFORDE Il pozzo delle trame perdute Marcos y Marcos

Dopo Il caso Jane Eyre e Persi in un buon libro, anche nell’ultimo romanzo dell’autore gallese Jasper Fforde ritroviamo la detective letteraria Thursday Next, alla prese con vagabondaggi stravaganti nelle dimensioni letterarie parallele, nonché con una gravidanza turbolenta da portare a termine. Nella terza puntata di questa saga-fiction, Thursday è infatti prossima a diventare madre, ma la sua missione per la GiurisFiction - fondazione in forma di forza dell’ordine a custodia della purezza dei romanzi di tutti i tempi - la porta a fuggire nei modi più bizzarri dal colosso nemico Goliath, 42 Libri

e a intrufolarsi nelle trame di mille e più storie per trovare un capitolo in cui partorire. La narrazione adatta sembra essere un giallo lagnoso e soporifero, ma anche tra le sue righe la futura mamma è condannata a essere nomade e indagatrice senza sosta. Accompagnata da innumerevoli figure strambe - costruite da Fforde con dovizia di particolari e con un occhio molto critico alla fabbriche narrative contemporanee – Thursday ci guida così fino al pozzo delle trame perdute, in cui è possibile reperire il finale appropriato, la metafora calzante, la figura indovinata per un qualunque romanzo: in barba alla ricerca, al talento, al genio, la scrittura qui è di fatto un servizio, che secondo canoni, e con metodo, contribuisce alla costruzione di un mero prodotto commerciale. Denuncia gaia e brillante dei modi del potere, l’ultimo lavoro di Fforde colpisce dritto al cuore l’editoria contemporanea, e il suo essere sempre più mercato pacchiano, e sempre meno teca del senso delle parole. Stefania Ricchiuto

BORIS PAHOR Necropoli Fazi

Necropoli è un libro vecchio di quarant’anni, il cui titolo è noto in più parti del mondo, e il cui autore – che vive in Italia - è stato ovunque pluripremiato. Vien da chiedersi perché l’editoria nazionale abbia aspettato un tempo non indifferente prima di proporre, nei propri cataloghi, le memorie di un uomo deportato in un lager sui Vosgi. Memorie scritte come tutti i libri dovrebbero essere resi, e cioè in modo sublime; memorie peraltro insolite, quasi eccentriche, perché non minate dal male osservato e sentito, ma paradossalmente fortificate dall’orrore; memorie che scevre da ogni auto-commiserazione, sono maestre di quella resistenza che sola strappa ai poteri i loro indicibili intenti. La domanda, meglio ritirarla: la risposta parla di un Paese poco incline a svelare con veemenza le scomodità di certa Storia. Resta la necessità di una lettura che non si può procrastinare oltre, per un omaggio incontenibile e una rielaborazione prepotente. Nei luoghi facili al vento si dice sia più semplice liquidare i ricordi: provvede l’intensità della natura a spazzare via i pesi e i residui del vissuto. Boris Pahor, 95 anni, di lingua slovena, vive a Trieste, e la sua città non poteva essere altrove. Come la sua scrittura, questa è


un incontro aspettato tra i segni del passato e la forza invalidante della bora, che dissolve, nell’appuntamento opportuno, le orme invisibili dell’inferno attraversato. Stefania Ricchiuto

WU MING 4 Stella Del Mattino Einaudi Stile Libero

Le guerre quando terminano in realtà non si concludono. Mai. Soprattutto quando alla Storia segue Argomentazione, che è spesso male, perché molto annoda per il gusto becero del groviglio post-qualcosa, e pochissimo risolve. Anzi, nulla. Di contro, agisce e scioglie per davvero Narrativa, che anima la scrittura ed elabora il trauma, e che supera i simulacri del sistema per recuperare la capacità di stare ancora nel presente. Al di là di simboli e suggelli ben orchestrati, essa consente di rintracciare quel qui e ora, che l’emergenza di un evento de-finito smarrisce per intenzione; di abbattere la prigione del mito, che edifica le sbarre degli stereotipi collettivi; di accompagnare le identità del tempo, in movimento continuo nonostante il prima; di negare la faciloneria della contestualizzazione, per allevare così la libertà della memoria; di afferrare, con coscienza, che un orrore passato che non doveva accadere più si sta facendo contemporaneo, o già si è fatto, perché non lo si è davvero ricordato. Al pari di una disciplina sottile, quindi, essa interviene sui blocchi, indaga gli intrecci, analizza i meccanismi, dell’uomo calato nelle “civiltà”. Nella complessità di un percorso di svelamento, incontra la sofferenza del guardare in faccia il dolore intimo e sociale che è stato, per accudirlo nella testa pesante e pensante di chi poi scriverà. Solo allora, con un racconto in più, ci sarà un inganno in meno, e tanta consapevolezza finalmente fatta. Stella del mattino: mazza ferrata, arma medievale dotata di aculei e impugnatura. Oxford, fine della Prima Guerra Mondiale. Lewis, Graves, Tolkien fanno i conti, da reduci e nelle aule d’Università, con il massacro epocale, l’immane conflitto, la tragedia senza eguali. Le coscienze ormai son stati modificati senza uso di sostanza, e i giorni e le notti e ancora i giorni sono un continuo di allucinazioni, incubi, visioni. Tutti hanno perso qualcuno, e hanno serrate negli occhi le immagini cruente e indicibili, e nelle orecchie i suoni atroci e insostenibili. Il fronte ha inviso il corpo e invaso l’anima. L’orrore è ancora. Nella calma apparente di un’Accademia dolorante, giunge Lawrence d’Arabia il leggendario, ispiratore di rivolte, per raccogliere le sue

imprese in un memoriale-custodia. Le esistenze dei tre, sopravvissuti alla Grande Guerra e futuri narratori, sono coinvolte da quel momento nell’incontro-scontro con l’eroe ritornato, personaggio dai mille e più paradossi e dall’ identità imprendibile ed enigmatica. Di lui, credono di poter indagare il mito, chiarendone gli equivoci e illuminandone le ambiguità. Dimenticando, però, che sono stati salvati fisicamente dall’evento bellico, e sono stati sommersi interiormente dallo stesso, e che la sopravvivenza concreta è ancora condizione distante. Il continuare a vivere ha forma di scrittura e destino di soluzione, e non può passare per una figura frugata senza limiti, ma per un personaggio osservato con flagello su di sé. E lo osservano i tre, e con dovizia, ed è qui che la trama si fa gioco di potente interpretazione e Wu Ming 4, da analista fine e aguzzino, scandaglia sogni e pulsioni di ognuno alla ricerca del fantasma non solo privato da confessare. Sia esso una doppia vita, o un’indifferenza intollerabile, o un delirio mortificante, lo spettro insidioso va isolato e restituito, al tempo e alla situazione che lo ha prodotto con progetto. Così, su basi storiche evidenti e indiscutibili, la mazza ferrata della penna tortura i sensi di colpa e i punti di vista dei protagonisti, le paranoie e le manie dell’esperienza, gli assilli e i tarli dell’esistenza. Romanzando, certo, o meglio ancora ipotizzando, facendo cioè esercizio di fantasia sottile e attenta. Per consegnare una storia verosimile come poche, da studiare e comparare con i tempi recenti, attuali e soprattutto possibili. Il riconoscimento del contemporaneo passa per una stella del mattino, per le sue punte sulla pelle, per le sue spine nell’anima. Stefania Ricchiuto Libri 43


AA.VV. Tu sei lei Minimum fax

Donata Feroldi, Esther G., Helena Janeczek, Babsi Jones, Federica Manzon, Alina Marazzi, Veronica Raimo, Carola Susani: queste le scrittrici chiamate da Giuseppe Genna ad abitare con le loro narrazioni l’antologia annuale della Minimum Fax. Tutte donne, e non per caso, ma per una scelta meditata del curatore, che ha voluto proporre lavori rigorosamente originali - non mutuati dal web o da altro tipo di officina – anche per rispondere politicamente all’inversione culturale che sta caratterizzando le vicende italiche. Esce Tu sei lei mentre celebriamo i quarant’anni di un ’68 stinto, mentre proponiamo revisionismo culturale sull’aborto, mentre annaspiamo nel relativismo condannando il diritto al dissenso. Genna, che da scrittore è sempre fine anticipatore di tracce ad incastro socio-politico-poetico, anche da “tutore” individua le chiavi narrative per sbrogliare certi nodi contemporanei. Alcune rese sono eccellenti, altre buone, altre meno, ma la qualità dello stile a volte deve cedere il passo all’urgenza dei temi: il corpo, la maternità, la morte, son tutti pretesti giusti per chiamare prima di tutto alla sorveglianza quotidiana, poi alla meraviglia letteraria. Perché concentrare l’attenzione sulla donna e la sua autodeterminazione è stato il punto di partenza di lotte non certo antiche: ritrovare la stessa premura “leggendo” queste voci si fa, per quel che stiamo riattraversando, atto indifferibile e tassativo. La missione prima degli intellettuali è leggere con scavo tra le righe sociali per restituirne tutte le ingannevoli sovrapposizioni: Genna e le sue donne ce lo rammentano così. Stefania Ricchiuto

ARMANDO TANGO Salento’s Movida Glocal

Con Salento’s Movida, lo scrittore e giornalista Armando Tango, pseudonimo di Teo Pepe, racconta abilmente in una parabola noir l’altra Lecce, quella che non ti aspetti, quella che – ironicamente – con la tanto sbandierata movida non ha davvero nulla a che fare. L’odore dell’estate, poeticamente e impietosamente impresso nel sottotitolo, non è affatto il caloroso e sfrenato 44 Libri

aroma della bella stagione salentina, ma il terribile afrore della calura entro cui l’autore delinea, con una storia avvincente e verosimile, quanto di peggio si possa nascondere tra le pieghe della piccola società di provincia. Miseria e malinconia trattate sì con le premesse del genere noir: però con una qualità in più, cioè che il libro si lascia leggere tutto d’un fiato, fa affezionare ai suoi personaggi, eroici o negativi che siano. Tango rende senza timori il rapporto amore-odio con la terra, senza contemplazione fine a se stessa, narrando sapientemente tutti gli strati sociali in un mix di peripezie degne della migliore tradizione americana e dialoghi curati e credibili. Grazie a uno stile asciutto e cinematografico, l’autore offre una galleria di luoghi indimenticabili e personaggi di spessore. Ivan e Brooke, una coppia impossibile, lui ragazzo umile, destinato a vedere svanire le sue piccole ambizioni, lei bellissima e perduta; il fotografo Pachi, scintilla immorale il cui furto di una misteriosa penna produrrà conseguenze devastanti; Massimo e Anna Bellardoni, un vizioso quanto incapace commercialista e una exmiss avvilita e sconfitta, rappresentanti della Lecce bene; Claudio, dj in declino, che riassapora per un solo attimo la gloria del passato; il prof. Casardi, costretto a fare i conti con la propria esistenza; Bebawi, agente dello Zebal in missione, gorilla ridicolo e minaccioso; poi un boss in bilico, uno scagnozzo violento, un’aristocratica megalomane e infine Maurizio Costanzo e Maria De Filippi, a completare una pantomima terribilmente vera, protagonisti di una festa a Santa Maria di Leuca – finis terrae anche metaforica – dove sarà l’epilogo della vicenda. Una trama fitta di intrighi in salsa nera, uno stile asciutto e immediato, un romanzo totalmente efficace e universale; perché “…qui è cambiato tutto. Un pub ogni dieci metri. Bar, ristoranti, pizzerie, tavolini sui marciapiedi e perfino sulla strada. Musica, gente, odore di fritto, sembra di stare a Ibiza…”. Nulla sarà più come prima. Vito Lubelli

STEFANO DONNO Ieratico Poietico Besa

Ieratico Poietico è il poema di severa generazione di un intellettuale giovane e giustamente stanco. Strutturato secondo una linearità magica e si-


gnificativa, si sviluppa secondo tre movimenti, e non per caso il primo atto è un fiume, il secondo una fuga, il terzo un desiderio. L’uniformità esasperata è la denuncia che l’autore affida al primo suo procedere in flusso, registrando i colori stinti, i fetori nauseabondi, i fragori molesti di una condizione contemporanea abitata da paradossali “silenziose folle spente”. Nella seconda parte, il presente cede la gogna al passato, e la confessione sfrenata di prima si fa narrazione cauta dell’inenarrabile. “Ci sono storie / che non devono essere raccontate / quando in tasca / non rimane altro”. L’esplorazione qui si fa aguzzina, la penna si cala nei tombini fondi delle fogne più sudice, fin nel sottosuolo delle cronache (im)possibili: “perché a dire si rischia / di perdere tempo / di espiare a stento / malcelate sicurezze”. La terza parte è l’attesa, l’aspettativa, quel che verrà. È il cedere al sogno ancora possibile di uno stato differente delle cose. Anche della poesia, che “è tutta / incentrata / su di una scelta entropica / del Paradiso”, e che rintraccia in questo libello solenne tutta l’urgenza del suo ritorno alla sorveglianza del mondo. Stefania Ricchiuto

WILLIAM BURROGHS Rock and roll virus Coniglio Editore

Molto di quello che è stato Burroghs è considerato a pieno titolo spirito fondante del rock and roll e della sua essenza. Molto di quello che ha fatto è stato fonte di ispirazione per generazioni di musicisti. Come un virus, qualcosa che ha contaminato, infettato il mondo della musica con le sue visioni, le sue teorie. L’incontro con Burroghs è per tutti, anche per noi lettori, un’esperienza che incide o che per lo meno non lascia indifferenti. In questo libro sono raccolte alcune interviste che Burroghs ha fatto e ricevuto, celebri incontri tra i quali quelli con David Bowie, Patti Smith i Devo. La potenza dell’operazione, tra l’altro estratto di una molto più vasta opera pubblicata in America, è nella eterogeneità dei registri, nella diversa lettura di presenti più o meno remoti da parte di personaggi eletti da altri a guide generazionali. Accanto a divagazioni e alcuni spunti interessanti (da approfondire grazie alle note molto curate), ci

sono, a volte, piccoli momenti in cui l’umanità e la fragilità delle persone prendono il sopravvento sui personaggi. Nel complesso rimane la testimonianza di momenti in cui vite speciali, a loro modo, si sono incrociate anche se solo per poco. (O.P.)

LESTER BANGS Impubblicabile! Minimum Fax

Lester Bangs non è solo colui che più di tutti è stato capace di mettere su carta l’attitudine del rock, non è solo il punto di vista irriverente, l’atteggiamento bulimico, lisergico, senza freni. Lester Bangs è sperimentazione, un occhio nelle viscere della storia della musica, la spocchioneria, il punk. Dopo i bellissimi e consigliati, a chiunque voglia in qualche modo occuparsi di scrittura e musica, Guida ragionevole al frastuono più atroce e Deliri, desideri e distorsioni sempre editi da Minimum Fax, esce in questi giorni Impubblicabile. Un libro che ci restituisce un Bangs più intimista, che si culla nei ricordi, si abbandona a digressioni che esulano dalla musica. Bellissime le sue stilettate al sistema, le cavalcate impetuose di una fantasia chimica e geniale al contempo, i toni sempre sopra le righe. Come un bambino non riesce a pensare “questo non si dice”. Mai letto un Bangs così vicino. (O.P.)

H.P LOVECRAFT Gli orrori di Yuggoth Barbera Editore

Tra i più grandi scrittori di letteratura horror Lovecraft è stato scoperto tardi e oggi, a 70 anni dalla sua morte, fioccano anche in Italia le pubblicazioni della sua copiosa produzione. Oltre alla narrativa c’è anche la poesia di Lovecraft. Atea, pessimista, onirica come da sempre ci ha abituato, ma anche autobiagrafica. A volte i sonetti di Lovecraft sembrano seguire canovacci tipici della narrativa e come questa sanno essere vividi, suggestivi anche nel dono della sintesi. Quello che rimane, e che Barbera ci ha restituito con puntualità, è un autore che va riscoperto, uno di quelli senza il quale oggi forse non leggeremmo Stephen King e compagnia bella. (O.P.)

Libri 45


Pe QUOD La casa editrice PeQuod nasce ad Ancona nel 1996. Da subito, è esempio lampante di come una provincia (apparentemente) senza stimoli come quella marchigiana possa dar vita ad una realtà di riferimento. Nel 1997, infatti, con la pubblicazione di Congedo, ordinario di Gilberto Severini, produce un vero e proprio caso letterario. Da allora continua a ricercare e diffondere scritture curate e suggestive. Ne abbiamo parlato con Antonio Rizzo, fondatore insieme a Marco Monina di questa preziosa realtà. Vi definite una casa editrice “in navigazione”, che cerca e pubblica scritture di qualità. Una scelta sicuramente rischiosa che richiede energie e tempi lunghi. Le stesse dichiarazioni sono rilasciate da quasi tutte le piccole e medie realtà editoriali italiane. In cosa consisterebbe la vostra differenza? Dal punto di vista programmatico il nostro obiettivo è rintracciare, trovare le scritture che ci piacciono, quelle che secondo noi hanno diritto di pubblicazione, e ancor di più necessità di pubblicazione. Seguiamo ovviamente degli standard di qualità, che si evincono leggendo i titoli delle nostre due collane di narrativa: Happy Hour e PeQuod. Lavoriamo in questo particolare mercato, con tutte le sue difficoltà, per far passare delle scritture in cui prima di tutto crediamo. La nostra differenza può essere questa. Analizziamo questa diversità per figure. Com’è il vostro rapporto con l’aspirante autore? Cosa accade “fisicamente” quando notate un manoscritto interessante? Ci arrivano tre-quattro dattiloscritti al giorno, per tutta la settimana, con una media di sessanta al mese e punte di novanta. Non c’è una schema vero e proprio in base a cui muoverci. Molto dipende da ciò che abbiamo modo di leggere, per 46 Libri

cui contattiamo l’autore, cerchiamo di conoscerlo, lo raggiungiamo oppure lo convochiamo in sede, e avviamo un’indagine reciproca e personale. Cerchiamo di comprendere i suoi percorsi e i suoi gusti, le letture che sono dietro la sua opera, e proviamo a comunicare qualcosa su di noi. Poi, inizia il lavoro sul testo. Quando si decide per la pubblicazione, si affronta un lavoro di editing che a seconda dei casi può essere più o meno breve. Tutto è, insomma, variabile. Può capitare che chi venga scoperto e poi lanciato da voi, dopo un significativo successo vi abbandoni per una realtà più commerciale. Quando succede, vi sentite traditi? Come reagite – nei fatti e sentimentalmente all’andar via di chi avete di fatto allevato? La questione è complessa. Un autore migra per natura, questa migrazione non può essere in nessun modo contrastata. Le grandi case hanno la capacità di investire delle cifre che non appartengono alla piccola editoria, rilasciando anticipi che non sono neanche pensabili in realtà come la nostra. Da qui l’andar via di autori, che abbiamo però contribuito a far conoscere, e che ci hanno permesso a loro volta di farci conoscere, dalla critica come dai lettori più attenti. Di fatto, l’autore può anche andar via, ma resta nel nostro catalogo. E come vi comportate nei confronti degli editori “scippatori”? Cercate di comunicare in qualche modo il vostro disappunto, vi orientate verso un’elegante indifferenza? Nulla di tutto questo. Con gli editori maggiori c’è una grande collaborazione. Non potrebbe esserci – di fatto – “concorrenza”, perché sarebbe sleale in partenza. Cerchiamo, allora, di mantenere e curare rapporti di scambio, e di lavorare molto sulle reciproche segnalazioni.


Continuiamo con le nostre figure. Cosa fate per costruire un rapporto più autentico con il lettore? Credo che il nostro catalogo parli per noi, e siamo convinti che i nostri autori comunichino attraverso le opere il nostro modo di intendere la narrativa. Nei fatti, abbiamo potenziato determinate strategie: più presentazioni, in modo che autori e lettori si conoscano e si confrontino; più ufficio stampa, per raggiungere l’importante canale della pubblicità attraverso i giornali; più librerie fiduciarie, per la promozione presso esercizi attenti e che credono in noi. Un modo per curare la relazione con il lettore sarebbe provare a concretizzare l’abbattimento dei costi di copertina. Vi state impegnando su questo fronte? Normalmente ci manteniamo sui costi di mercato. Il rischio di un abbattimento vero e proprio è che si abbiano libri a costi troppo contenuti, che non richiamino per questo un certo prestigio. Un costo di mercato troppo basso corre il rischio di riportare a qualcosa che non vale, troppo alto impedisce accessibilità. Il libro ha però un suo processo di vendita, che ha necessità di un costo giusto. Ecco, i nostri costi sono “giusti”… Né eccessivi, né da libri “svenduti”… Certo! Noi, infatti, non abbiamo per scelta una collana di tascabili. Continuiamo a parlare dei prezzi. Recentemente la Camera ha approvato un emendamento al pacchetto-Bersani che liberalizza i prezzi dei libri. La cosa non è risultata gradita a molti suoi colleghi. La cosa fa paura… La forza commerciale delle grandi case è così sproporzionata rispetto a quella delle piccole… Si pensi solo al fatto che per le grandi è possibile abbattere i costi della distribuzione perché sono praticamente nulli. Per noi è ovviamente diverso. Ecco, il problema della distribuzione. Altra piaga della piccola editoria. Voi come lo avete risolto? Siamo distribuiti dal nazionale PDE, e nei circuiti alternativi da NdA. Per la promozione ci affidiamo a Vivalibri, una rete di agenti che cura il contatto diretto con le librerie. All’inizio però ci facevamo distribuire da agenti regionali. Per noi questo passaggio regionale/nazionale è stato importantissimo.

PeQuod è la nave di Moby Dick, e ben rende la nostra idea di navigazione tra le scritture. Il nome l’abbiamo ereditato da una collana di Transeuropa, che abbiamo rilevato quando contava su appena due titoli e trasformato in una casa editrice… …che nel tempo è diventata un prezioso contenitore di poesia buona, anche se curate – per scelta - pochissimi titoli all’anno. Di recente avete pubblicato la salentina Claudia Ruggeri, un vero e proprio talento, scomparsa tragicamente dodici anni fa. Come siete arrivati a lei? C’è una storia dietro questo particolare ponte Salento-Ancona? Ah, c’è sicuramente un punto di riferimento, rappresentato da Mario Desiati. Tramite la sua passione, abbiamo conosciuto la poesia di Claudia. Siamo stati colpiti subito dalla complessità dei suoi versi, dall’intensità non comune ad un’età giovane come la sua, ma soprattutto dal suo essere una voce fuori dal coro rispetto alle esperienze dei suoi anni e degli anni di poco successivi. Tutta la redazione è stata travolta da questa suggestione. L’introduzione di Mario, poi, ci ha letteralmente entusiasmato, e definitivamente convinti per la pubblicazione. Lasciamoci con tre titoli, uno per la poesia, uno per la narrativa, uno per la saggistica… Per la poesia non posso che confermare Inferno minore, per i motivi che ho già detto. Per la saggistica, un libro del nostro catalogo che mi sta particolarmente a cuore è Senza rete di Fulvio Panzeri: nove conversazioni che mettono a confronto lo scrittore e la critica, nove dialoghi sulla narrativa e i suoi perché. Rappresenta, questo testo, il nostro percorso, quello che abbiamo fatto e abbiamo intenzione di continuare a fare: dare valore ai processi creativi. Per la narrativa - che dire - amo tanti dei nostri libri. Non riesco a sceglierne uno… Assalto a un tempo devastato e vile di Giuseppe Genna, Neppure quando è notte dello stesso Desiati, i Racconti ambigui di Enzo Siciliano, Una volta mia di Martino Gozzi. No, non riesco proprio a scegliere… Una novità potrei indicare con assoluta convinzione: Giancarlo Liviano D’arcangelo e il suo Andai, dentro la notte illuminata. Stefania Ricchiuto – Il Passo del Cammello

Perché avete scelto come nome proprio PeQuod? Libri 47


CINEMA TEATRO ARTE Per Ascanio Celestini la Storia, quella con la S maiuscola, non è una questione di nostalgia. È materiale fatto di piccole singole storie, da filtrare attraverso il racconto soggettivo e ironico del narratore, unica possibilità di difesa dei protagonisti ai margini dei suoi spettacoli. Lo incontro a Latiano, Brindisi, nel suo camerino, a cinque minuti dall’inizio di Percora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico. Prego Dio che non parli rapidamente come nei suoi spettacoli (ma Dio non esiste oppure è il direttore di un supermercato/manicomio, si dirà in scena poco dopo). Celestini mi accoglie con una parrucca in mano e una stufa che occupa un quarto della stanzetta. È l’occasione per parlare di questo spettacolo del 2005 in cui c’è tutto il suo repertorio: scenografia essenziale, pochi movimenti, mille microstorie per spiegare i manicomi e i loro personaggi, l’elettroshock e l’umana disperazione di quei luoghi col tipico tono da affabulatore/ mitragliatore; un mondo che vive sovrapposto a quello delle manie della compulsiva società

Qual è la reazione del pubblico? Quando si parla del supermercato c’è una scena piuttosto forte. Ecco, alcune persone mi hanno detto di essersi sentite schifate, disgustate. È l’effetto che volevo ottenere, seppure senza particolari artifici: tutto quel parlare di cibo, merci, oggetti, è la rappresentazione di quello che, all’opposto della malattia mentale, dovrebbe essere la normalità, e che in fondo assume toni molto paradossali. Tornando al confronto con gli altri spettacoli, forse proprio su questo, su quella rappresentazione del supermercato e del consumismo, Pecora nera finisce per andare dritto al cuore dello spettatore. È uscito anche il documentario Parole Sante. Com’è andata col grande schermo? Il metodo di lavoro è stato lo stesso, interviste, viaggi, racconti, poi ho messo tutto insieme. Potrà piacere o meno da un punto di vista artistico, ma ritengo che il tema trattato, la precarietà, sia di grande importanza; invece c’è quasi un’opera di rimozione collettiva al riguardo, a destra

LE MEMORIE dei consumi, in cui invece si affoga tra yogurt, riviste, salumi, bibite e cereali esattamente come i matti possono affogare nel buio. Ma è anche l’occasione per parlare di Parole sante, film documentario in cui Celestini racconta le vicende di alcuni giovani precari nel call-center più grande d’Italia, l’Atesia di Roma. Parole sante è anche un disco edito da RadioFandango, vincitore del Premio Ciampi 2007 come “miglior esordio discografico dell’anno”. Come nasce Pecora nera? Il processo creativo è stato comune agli altri. Anche in questo caso ho raccolto delle interviste, poi ho rielaborato tutto per il racconto sulla scena. Ho girato per manicomi, ascoltato storie e visto come funziona quel mondo per tre anni. Non so se ci sono grosse differenze rispetto agli altri miei lavori, si tratta comunque di qualcosa che scava nella coscienza di ognuno. Forse questo riesce ad essere più diretto, trattando un tema, quello della malattia mentale, che non è precisamente legato a un passaggio storico come gli altri. 48 Cinema Teatro Arte

come a sinistra c’è un silenzio spaventoso, tutti sembrano avere la coscienza sporca. Le storie che racconto nel documentario sono storie – vere – di coraggio e di esasperazione, storie di ragazzi che sembrano davvero affogare nel lavoro nero, altro che a contratto. È come sguazzare in un’illegalità diffusa paradossalmente a norma di legge. Ho letto che però avresti sconsigliato di vedere il film, visto che sarebbe uscito male… No, intendevo dire che se si cercano delle storie in senso tipico, delle storie e delle avventure da cinema, allora Parole Sante non è il film che fa per voi. Ci sono delle storie drammaticamente vere, che non hanno alcun bisogno di essere ‘spettacolarizzate’ o adattate a un linguaggio strettamente cinematografico: ed è questo che le rende interessanti. Marco Montanaro


Ascanio Celestini alle Manifatture Knos di Lecce Foto Maurizio Buttazzo

DI CELESTINI Parole Sante Al call-center dell’Atesia le telefonate valgono 85 centesimi di euro. Se durano meno di venti secondi neanche quelli. Se durano un’ora o più, sempre gli stessi spiccioli. Un giorno le paghe vengono riviste, ma non per ipotizzare e concretizzare un aumento, bensì per costruire un ulteriore scandaloso ribasso. È la goccia che fa traboccare il vaso: i lavoratori non ci stanno più. Nasce così PrecariAtesia, un movimento di protesta “concreta”, che vuole costringere l’azienda a ripensare in nome del diritto – e del rispetto - gli atteggiamenti vessatori e mortificanti dei vertici. La lotta sarà cosa complessa, tormentata: nei suoi incastri, porterà alcuni precari all’ottenimento di contratti regolari, ma altri a guai a catena e senza soluzione. Ascanio Celestini – uomo di teatro e di denuncia – registra pasticci e impicci di uomini in rivolta, raccogliendo le voci di tanti, e combinandole in un mixaggio indovinato di storia autentica e poeticità pura. La narrazione, incrollabile, indaga un particolare per ritrarre una situazione tanto diffusa quanto drammatica. Per risultato, la testimonianza inequivocabile dello stato del lavoro in un Paese fintamente fondato su di esso. Parole Sante è uscito in Dvd+Libro pubblicato da Fandango. (S.R.)


RACCONTI DI VIAGGIO E DI LAVORO


Dalla radio alla carta, dal palcoscenico agli scaffali delle librerie. Da poche settimane sono usciti due volumi di attori salentini che negli ultimi anni hanno concentrato gran parte del proprio teatro su spettacoli dedicati al lavoro. Il primo è Emigranti Express di Mario Perrotta, trasposizione letteraria (e letterale) della fortunata trasmissione radiofonica ideata e “recitata” dall’autore/attore leccese in onda su Radio 2 tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Il secondo è Di fabbrica si muore, un reportage e un testo teatrale che ricostruiscono la storia esemplare e drammatica dell’operaio Nicola Lovecchio, scritto dall’attore Alessandro Langiu e dall’oncologo Maurizio Portaluri. “Era il 1980. Stazione di Lecce. Ore 20.07. Tra un’ora parte il treno per Milano-Schaffhausen-Stoccarda… Siamo già tutti qui!”. Inizia con questa immagine il racconto di Mario Perrotta, dalla stazione ferroviaria di Lecce, l’ultima in Italia, dalla quale partivano i treni carichi di immigrati verso il nord Italia e la Germania, il Belgio, la Francia, la Svizzera. L’attore leccese continua il suo percorso tra immigrazione, lavoro, fatica, razzismo, una epopea raccontata con l’accento salentino attraverso gli spettacoli Italiani Cincali e La turnata. Il racconto passa attraverso gli occhi del piccolo Mario che a 10 anni ogni mese veniva “caricato” dalla madre sul treno per Milano-SchaffhausenStoccarda. Nel capoluogo lombardo lo aspettava il padre, emigrato al nord per lavoro. Nel treno il piccolo Mario racconta e ascolta storie, delinea personaggi, narra incontri e gozzoviglie da treno. Il libro, pubblicato dalla Fandango, è diviso (come la trasmissione radiofonica) in quindici capitoli, che prendono il nome dalle stazioni: Lecce, Brindisi, Bari, Pescara, sino a giungere a Milano e proseguire oltre frontiera verso Zurigo, Stoccarda, Bruxelles fino al ritorno finale nel sole. La trasposizione scritta riporta quelle distorsioni dell’italiano tipiche della parlata popolare, esplicate in un divertente glossario finale. Perrotta, che attualmente è in tournee con il suo nuovo spettacolo Odissea (che sarà in scena a Melpignano il 12 luglio, nell’ambito della Notte bianca del Comune griko) si conferma uno dei più interessanti interpreti del teatro di narrazione oggi in Italia. Istrionico

personaggio è riuscito, ed è forse questo il merito più grande, a costrurire una nuova “lingua” che mantiene tutta la forza dirompente del dialetto. Di fabbrica si muore (pubblicato da Manni) racconta invece la storia di Nicola Lovecchio, operaio del petrolchimico di Manfredonia, alla ricerca di risposte sulla genesi di una malattia devastante che non gli lascia alcuna speranza. La prima parte del libro, scritta da Michele Portaluri, è un lavoro d’indagine, quasi un reportage che, partendo dall’incidente che nel 1976 provocò la fuoriuscita di decine di tonnellate di arsenico dallo stabilimento (evento lasciato colpevolmente scivolare nel silenzio e nell’indifferenza) denuncia i misteri del petrolchimico. La seconda parte è un testo di teatro di denuncia, scritto da Alessandro Langiu, in cui la drammatica vicenda di Lovecchio viene rappresentata con la forza della realtà e con un’intensità emotiva che spiazza e commuove il lettore. Dall’Ilva di Taranto all’Enichem di Manfredonia nei suoi spettacoli Langiu racconta il fallimento dell’industria pesante. “Quello che m’interessa e il racconto dell’ingiustizia, dei diritti violati”, sottolinea Langiu. “Sono cresciuto in una delle città più martoriate dall’industria pesante, e non secondario, ho dedicato la mia tesi di laurea, all’Ilva. Il fatto che fossero progetti temporanei e strazianti per il territorio, si sapeva, ma era meno importante della fame di lavoro. Ora dove hanno chiuso, si son trovati nuovi percorsi, dove resistono, si reitera il meccanismo pseudo-mafioso, del fa male ma non se ne può fare a meno. Che è sbagliato concettualmente come idea imprenditoriale e del lavoro. Il costo sociale (malattie, ed assistenza) è elevato ma non se ne parla… l’elemento più impressionante è che le popolazioni dormono! A Manfredonia per esempio, Anagrafe Lovecchio, ha risvegliato una voglia di parlare,e quell’attivismo dal basso. A Taranto invece, sono stato a lungo esiliato dalle istituzioni locali (Comune e Provincia), ma soprattutto un pubblico, che seppur numeroso, alle repliche autonome fatte, non sa come reagire. Dico questo perché se le coscienze individuali e collettive, non si muovono, non cambia nulla. E per cominciare io a Taranto non posso fare i miei spettacoli”. (pila) Cinema Teatro Arte 51


DA MURO A MARSIGLIA

La tradinnovazione, ma che cosa vorra dire? Ascolti i Mascarimirì e forse, dico forse, riesci a darti una prima risposta. Claudio Giagnotti da Muro Leccese, da tutti conosciuto semplicemente come Cavallo, è uno dei più impetuosi interpreti della musica tradizionale salentina. La sua storia inizia da molto lontano. Nei primi anni ’90 fonda, insieme ad una banda di “ragazzacci”, i Terra de Menzu. Ragazzi di Muro Leccese, stregati dai racconti del fotografo Fernando Bevilacqua, che si avvicinano al mondo della musica e della cultura tradizionale suonando e realizzando una fanzine. Cavallo però è un nomade nel sangue, è un avventuriero della musica, è un viaggiatore e decide, dopo aver fondato i Mascarimirì, di andare alla ricerca di nuove sonorità. Sbarca a Napoli, in Occitania, a Marsiglia e inizia a scambiare musica con importanti musicisti come Daniele Sepe, Lou Dalfin, Massillia Sound System, Dupain. Costruisce un asse SalentoOccitania che non è solo musicale. Dopo dieci anni Cavallo ha sentito l’esigenza di raccontare la sua storia e lo fa attraverso un documentario, un dvd ben curato (in distribuzione con quiSalento e nel circuito Anima Mundi), che ha molti pregi e qualche difetto. Le letture possono essere sicuramente due. La prima è quella dell’osservatore salentino che conosce, o pensa di conoscere la materia tradizionale; la seconda è quella dell’osservatore esterno, straniero in una terra di taranta e di muretti a secco. Il dvd è diviso in due parti distinte, due facce della stessa medaglia sonora. Nella prima parte Cavallo parte dalla sua casa di Muro, dalla macelleria dei suoi zii, dai suoi amici di sempre,

musicisti o ex musicisti, accompagnatori e costruttori di tamburelli. Qui il racconto passa attraverso l’uso del dialetto e una costruzione a tratti ironica, se non addirittura comica. Grande protagonista Mario Marsella, vecchio musicista che racconta la sua esperienza con le tarantante e i tarantati. Dopo questa lunga introduzione sul Salento parte il viaggio che riporta Cavallo e i Mascarimirì a incontrare gli amici che lo hanno affiancato in dieci anni di carriera. Da Molfetta, con De Gennaro e poi a Napoli con un ispirato Daniele Sepe, e poi le valli occitane dei Lou Seriol e Lou Dalfin e poi ancora Nizza e Marsiglia. Il racconto si alterna alla musica, le attestazioni di stima nei confronti dei salentini si mischiano a riflessioni generali sulle musiche, sulle lingue, sull’uso dei dialetti e degli strumenti. Il ritmo si fa più serrato e la lentezza delle nostre terre lascia il passo, simbolicamamente, a velocità diverse. Cambia la luce, cambia lo scenario. Un occhio indigeno, forse, gradisce maggiormente questa seconda fase del documentario dove si apprende la novità portata da Cavallo nello scenario della musica tradizionale. Ecco che la tradinnovazione diventa realtà, che quei suoni duri iniziano a essere compresi. Molti si chiederanno, a cosa serve un documentario per raccontare la storia di un gruppo? Sicuramente a fare chiarezza sul suo percorso ma anche a raccontare una stagione musicale e culturale con gli occhi di chi ci guarda da lontano. Il coraggio non manca a Cavallo e al suo gruppo (in costante variazione di formazione), un coraggio che traspare dalle immagini. Ballati! (pila)


PAOLO SORRENTINO Il divo

“Bello ma molto malvagio”. È stato questo il commento di Giulio Andreotti dopo la visione del film Il divo di Paolo Sorrentino che racconta la storia di uno dei politici più influenti e potenti della Repubblica italiana. Premiato al festival di Cannes, osannato con dieci minuti di applausi alla prima proiezione per la stampa, il film (prima ancora di uscire) ha già diviso l’opinione pubblica italiana. Sorrentino ha scelto per la difficile interpretazione Tony Servillo (a Cannes anche con Gomorra) che è riuscito a non cadere nell’imitazione sterotipata, approdando invece ad un personaggio verosimile ma non macchiettistico (alla Bagaglino, tanto per capirci). La storia si concentra sul periodo di passaggio tra Prima e Seconda Repubblica ma racconta tutta la storia di Andreotti passando per il rapimento Moro, l’omicidio Pecorelli, il presunto “bacio” con il mafioso Totò Riina. Poco spazio alla vita privata di un uomo che ha sempre difeso la sua privacy. Una scommessa difficile ma ben riuscita, un pezzo di repubblica tratteggiata senza troppi moralismi.

MATTEO GARRONE Gomorra

Un confine invisibile separa il Mezzogiorno e la Campania dal resto della Penisola. Una frontiera superata la quale lo Stato non esiste e chi fa politica non ha bisogno di voti per essere eletto: benvenuti a Gomorra. Tratto dall’omonimo bestseller di Roberto Saviano e fresco vincitore del Grand Prix al festival di Cannes, inonda le sale in 400 copie il film di Matteo Garrone che racconta un’Italia dimenticata. E ha un effetto dirompente. Come prevedibile il linguaggio adottato dal regista romano è profondamente diverso da quello del libro che “tutti hanno letto”, come recita provocatoriamente, e forse a buon titolo, lo scarno trailer che in questi giorni gremisce le reti televisive. Scritta a sei mani con Maurizio Braucci e Ugo Chiti, sceneggiatura e regia hanno il pregio di essere complementari a quanto letto, di tradire le pagine di Saviano non per stravolgerle, ma per affiancarle. Il business lascia spazio a vite e storie, che questa volta hanno l’amaro sapore del documentario, in una miscela di personaggi che non si fanno dimenticare agevolmente. Un mosaico che ha i volti di un imprenditore pronto a smaltire senza impedimenti tonnellate di rifiuti tossici (Toni Servillo), di un “sottomarino” col compito di pagare le famiglie dei detenuti affiliati al clan (Gianfelice Imparato), di due ragazzini che vivono nel sogno di essere qualcuno e farsi rispettare senza aprir bocca, ma imitando goffamente chi nel quartiere parla attraverso il sordo suono di un’arma. Dove la camorra diventa Sistema, all’ombra dei palazzi di Scampia tanto quanto nelle campagne del casertano, la realtà supera di gran lunga la più sfrenata

inventiva. E giunti ai titoli di coda, fra cattedrali nel deserto ed utopie deliranti, sembra solo di aver sfogliato un’altra pagina stropicciata. C. Michele Pierri

MARJANE SATRAPI Persepolis (Dvd)

Il talento di raccontare la propria vita con le immagini, la pesante leggerezza di un tratto capace di dipingere un paese (l’Iran), con tutte le sue contraddizioni e le sue rivoluzioni. Questo è Persepolis di Marjane Satrapi. Uno sguardo dall’interno, inedito per mezzi e modi, uno sguardo che cresce di intensità insieme con l’età della protagonista narrante. Quando uscì, qualche anno fa, la graphic novel, divisa in due volumi, spiazzò e commosse per la sua liricità, ironia, drammaticità. Il tratto semplice ed efficace, il bianco e il nero usati come espressione delle tensioni emotive, il linguaggio secco e diretto hanno saputo raccontare anni cruciali di una storia difficile. Anni in cui Marjane è cresciuta in una famiglia progressista, abituata fin da piccola al pensiero libero, costretto però nelle pareti della sua stanza, nel legame con una nonna illuminata, nel rapporto con i genitori, nel suo amore per la Cinema Teatro Arte 53


Recensioni


musica. L’emancipazione della piccola si scontra sempre di più con un clima politico che non fa che inasprirsi (scoppia la guerra tra Iraq e Iran, il controllo del regime si inasprisce) finché Marjane non sarà costretta a lasciare il suo Paese per un lungo periodo in Austria. Questo è il secondo capitolo di Persepolis in cui lo sguardo dall’interno diventa confronto con l’esterno. Tutto questo è stato magistralmente trasposto in una pellicola uscita nel 2007, candidata all’oscar nel 2008 e oggi disponibile in dvd. I disegni della Satrapi acquistano nel movimento una leggerezza poetica, il nero si trasforma in un effetto notte che è accento sul drammatico, il colore appare a sottolineare le pause sul presente. Alcuni scorci sono di una bellezza espressionista, la colonna sonora di Olivier Bernet carica l’emotività di una storia che purtroppo, si sa, non può avere un lieto fine. (O.P.) JOEL E ETHAN COEN Non è un paese per vecchi (Dvd) Il rovente asfalto del Texas è il luogo dove un romanzo del premio Pulitzer Cormac McCarthy e il primo adattamento letterario dei fratelli Coen si sono scontrati ad un incrocio chiamato No country for old men. Vincitore

di quattro premi Oscar - fra cui quello di miglior pellicola - il film appena uscito in dvd con una buona dose di contenuti speciali e un making of, fa rivivere negli anni ’80 l’epopea del selvaggio West, con la legge del più forte ancora in vigore e metafora di un mondo che non cambia. Il silenzio scandisce le lente ore calde della segreta America rurale, quando sullo sfondo prendono vita, come nel più classico canovaccio, un carico di eroina, due milioni di dollari e criminali intenzionati ad averli, non curanti di lasciarsi alle spalle una scia di cadaveri e sangue. Sulle loro tracce uno sceriffo, che come la legge è incapace di essere decisivo, ma che in un simbolismo abbastanza ordinario rappresenta il lato meno marcio della società in cui viviamo. La violenza è una realtà ineludibile e ne viene rappresentato l’animo più disordinato e dissennato senza però volerne dare una resa estetica, come da Tarantino in poi ci si potrebbe attendere. Meglio un’analisi sociale, come sempre quasi grottesca e con ottimi attori come Tommy Lee

Jones, Javer Bardem e Josh Brolin al servizio di un’opera forte, dal gusto raffinato, ma decisamente snaturata rispetto alle precedenti. La tradizionale ironia dei Coen, che tutto

accompagna e confonde, viene meno lasciando forse troppo spazio alla cronaca di un’etica inverosimile. E dopo l’intenso quanto spiazzante finale è lecito chiedersi: ma la morale è davvero l’ago della bilancia del nostro tempo? C. Michele Pierri LA CACCIATA DEL PARADISO Divisa in due mi ritrovo... Un corpo femminile è, al contempo luogo e non luogo, territorio di rimozione e di rivelazioni, nel quale s’addentra lo straniero, che è per definizione maschio. La natura benevola/ matrigna ha inferto alle Donne una cicatrice, varco tra le rosee carni ed essenza del piacere che muta in creazione. (S)oggetto delle attenzioni di Loredana Cascione che compie un viaggio iniziatico tra le misteriose e lascive pieghe della femminilità, attraverso la contaminazione delle arti come espressione più adatta per far vibrare le proprie innumerevoli altre voci. Nella performance, Loredana ha come compagni di viaggio, Gianfranco Massa, Manuela Tondo, Mino e Valentina Tramacere, Davide Monaco e Raffele Casarano. Roberto Cesano

Cinema Teatro Arte 55


SOUND RES


EVENTI Il compositore californiano Terry Riley e il sestetto newyorkese Bang on a Can All Stars sono gli ospiti d’eccezione della prima parte di Sound Res 2008. Il programma di residenza, festival e scuola estiva di musica contemporanea, a cura di David Cossin, Alessandra Pomarico e Luigi Negro, è organizzato da Loop House e Coolclub con il sostegno di Regione Puglia, Provincia di Lecce, Comune di Lecce, Gruppo Italgest, con il patrocinio di Comune di San Cesario di Lecce e Conservatorio Tito Schipa di Lecce, con la collaborazione di 11/8 Records, Merico Pianoforti, Radio Popolare Salento e Musicaround.net. La V edizione di Sound Res si svolge tra giugno e settembre ed è concepita come residenza diffusa e multidisciplinare, articolata in momenti diversi di creazione, produzione, formazione, riflessione, incontro con alcuni protagonisti della cultura internazionale e attorno ai temi più urgenti della contemporaneità. Dal 6 al 12 giugno, tra Lecce e San Cesario di Lecce, Sound Res prende il via con la sezione più strettamente musicale curata dal percussionista e compositore newyorkese David Cossin, che dopo aver invitato nella scorsa edizione Philip Glass, ci conduce alle origini del minimalismo coinvolgendo Terry Riley, il 73enne compositore americano considerato il padre fondatore di quel genere. Figura di svolta della musica contemporanea, il compositore sarà raggiunto nel Salento dal sestetto amplificato Bang on a Can All Stars, ensemble elettrizzante di virtuosi musicisti da oltre 20 anni a servizio della nuova musica. La residenza, che avrà luogo presso la Loop House di San Cesario di Lecce, sarà utilizzata da Terry Riley e dai sei musicisti di Bang on a Can All Stars per creare Autodreamographical Tales, una nuova e inedita composizione a partire dai sogni e dalla musica di Riley che sarà presentata in prima mondiale assoluta giovedì 12 giugno nell’atrio di Palazzo dei Celestini a Lecce (inizio ore 21.30, ingresso 10/15 euro). Un grande compositore annota i suoi sogni, li trascrive in musica, li traduce in suono su un registratore, li trasforma in canzoni. Una radio diffonde alcuni di questi brani e un gruppo avventurosi musicisti ne resta affascinato, tanto da commissionarne un’opera per la propria formazione. Così nasce il progetto Autodreamographical Tales, con musiche di

Terry Riley per i Bang on A can All Stars. Nel Salento, grazie a Sound Res, l’opera viene ‘lavorata’ da compositore e musicisti e presentata in prima mondiale assoluta, con la straordinaria partecipazione di Terry Riley nelle vesti di narratore, cantante e pianista. Dopo l’anteprima salentina, l’opera verrà presentata il 9 novembre a New York, dove sarà registrata con l’etichetta Canteloupe Music come coproduzione Sound Res e Bang on a Can, prima di essere portata in tournee in Europa e in Asia. Il concerto d’apertura, sabato 7 giugno nell’atrio del Palazzo Ducale di San Cesario di Lecce, (inizio ore 21.30 – ingresso 10 euro) è affidato alla straordinaria vivacità esecutiva e interpretativa dei Bang on A Can all Stars, riconosciuti come i pionieri di una musica che sfida le categorie e attraversa i generi esistenti. Con la precisione di un ensemble da camera, la potenza di una rock band e la capacità di improvvisazione di un gruppo jazz, i Bang on a Can All Stars introdurranno al repertorio d’eccezione che l’inusuale strumentazione consente (clarinetti, chitarra elettrica, violoncello, contrabbasso, piano e percussioni). La formazione, eletta American Ensemble of the Year nel 2005, inviterà Terry Riley a suonare insieme il suo rivoluzionario In C, considerato il primo brano minimalista della storia della musica (era il 1964). Vi prenderanno parte anche i salentini Cesare Dell’Anna e Mauro Tre. Musicisti e compositore chiuderanno il concerto con una lunga evoluzione nell’improvvisazione. I bang on a Can sono Robert Black (contrabbasso), David Cossin (batteria e percussioni), Mark Stewart (chitarra elettrica), Evan Ziporyn (clarinetti), Felix Fan (violoncello), Ning Yu (piano). Come per ogni edizione la Summer School costituisce uno dei momenti fondamentali del programma, rappresentando l’occasione di conoscenza e scambio tra i compagni di residenza e un’opportunità di formazione per i musicisti locali e studiosi. Protagonisti dei workshop saranno il virtuoso Robert Black (contrabbasso, 8 giugno ore 18.00 Palazzo Ducale di San Cesario di Lecce) e Evan Zporyn, di recente premiato con il Genius Award (composizione e clarinetto, 9 giugno ore 18.00 Palazzo Ducale di San Cesario di Lecce). E L’11 giugno presso le sale del Castello Carlo V di Lecce è fissato invece l’incontro seminario con Terry Riley. Info 0832303707 - www.soundres.org Eventi 57


MUSICA DOMENICA 1 GIUGNO

Bag-A-Riddim Band E Sud Sound System al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Estalegal Band a Borgagne (Le) Shanty Band E Villa Ada Crew a Casarano (Le) Xanti Jaca ad Alezio (Le) Beatrice Antolini, Il Genio, Tobia Lamare e Postman Ultrachic al Sentinella di Torre dell’Orso (Le) Dinamo Rock al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)

MARTEDÌ 3

Bill Bruford e Michiel Borstlap al Teatro Kennedy di Fasano (Br)

MERCOLEDÌ 4

Brian Auger al Teatro Kennedy di Fasano (Br)

GIOVEDÌ 5

Back To The Roots al Porticciolo di Torre Sant’Andrea (Le) La rassegna in dance hall style, ideata da Treble in collaborazione con il porticciolo e associazione culturale TerraNoa, parte con Dj War, uno dei padri fondatori della scena raggamuffin hip hop italiana. Rocking Fingers - Dire Straits Tribute al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)

VENERDÌ 6

Allan Holdsworth al Teatro Kennedy di Fasano (Br) Orchestra Di Piazza Vittorio a Casarano (Le) La storia dell’Orchestra è iniziata con il

salvataggio del Cinema Apollo di Roma. Lo storico locale era destinato a diventare una sala Bingo e dalla volontà di trasformarlo in un Laboratorio Internazionale di Cinema, Musica e Scrittura, si è sviluppata, nel 2002, l’idea di creare un’orchestra multietnica. Un gruppo composto da una ventina di musicisti provenienti da comunità e culture diverse, ognuno con i suoi strumenti e il suo bagaglio di musica popolare, in una fusione di culture e tradizioni, memorie 58 Eventi

e nuove sonorità, strumenti sconosciuti, melodie magicamente universali, voci del mondo. Ideata da Mario Tronco, ex membro della Piccola Orchestra Avion Travel, e prodotta da Apollo 11, l’Orchestra rappresenta un’esperienza forse unica al mondo, che assegna all’Italia un primato di cui essere fieri.

SABATO 7

Statuto ad Aradeo (Le) Bang on a can a San Cesario di Lecce Pau dei Negrita, Cesko Degli Apre’s La Classe, Cucuwawa al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Trilli di Blu – Canto di un’estate a Copertino (Le) Serata-evento dedicato alla poesia. Giuliano Sangiorgi legge i versi dei poeti salentini: da Girolamo Comi (di cui è appena uscita l’antologia pubblicata da Lupo Editore) a Vittorio Bodini, Salvatore Toma, AntonioVerri, Don Tonino Bello. L’evento è organizzato dal Comune di Copertino in collaborazione con Provincia di Lecce e Regione Puglia

DOMENICA 8

P40 al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Gianna Montecalvo a Fasano (Br)

LUNEDÌ 9

Mr Moon al Parco Gondar di Gallipoli (Le)

MARTEDÌ 10

Tetes de bois alla Libreria Feltrinelli di Bari

GIOVEDÌ 12

Back to the Roots al Porticciolo di Torre Sant’Andrea (Le) Secondo appuntamento per la rassegna in dance hall style, ideata da Treble, con Don Ciccio a.k.a. Ciccioman, uno dei pionieri della scena reggae italiana ha sempre unito la selezione di un reggae senza compromessi con la volontà di intrattenere il suo pubblico dando vita ad uno stile unico e originale. Terry Riley e Bang on a can nell’atrio di Palazzo dei Celestini a Lecce Morrison Hotel al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Skarlat al Parco Gondar di Gallipoli (Le)

VENERDÌ 13

Shock in town al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Kamafei a Cutrofiano (Le) Entombed, Natron, Southborn al Teatro Kismet di Bari

SABATO 14

Opa Cupa al Parco Gondar di Gallipoli (Le) Radici Nel Cemento, Tre Allegri Ragazzi Morti E Hormonauts al Teatro Kismet di Bari

DOMENICA 15


Lola and The Lovers al Parco Gondar di Gallipoli (Le)

MERCOLEDÌ 18

Sud Sound System a Bari

GIOVEDÌ 19

Back to the Roots al Porticciolo di Torre Sant’Andrea (Le) La rassegna in dance hall style, ideata da Treble, continua con uno tra i primi promotori di musica reggae in Italia. Mimmo Superbass è fra i fondatori del gruppo musicale Different Stylee nei primi anni ‘80.

VENERDÌ 20

Ballati- Festa Della Musica a Cursi (Le) Quarta edizione per la Festa della Musica organizzata da Dilinò a Cursi. Si parte all’insegna della musica tradizionale salentina con due dei maggiori rappresentanti del genere, i Mascarimirì di Claudio Cavallo e Uccio Aloisi. Ingresso gratuito.

SABATO 21

Perfumes De Tango – Festa Della Musica a Cursi (Le) Seconda serata della Festa della Musica organizzata da Dilinò a Cursi. In collaborazione con Salento Negroamaro Festival, rassegna delle culture migranti della Provincia di Lecce, spazio a María Isabel García, cantante argentina, una della massime rappresentanti contemporanee del tango argentino, e Sergio Fabián Lavia. Ingresso gratuito La notte rosa a Otranto (Le) Tra i protagonisti della serata: Triace, Alessandra Caiulo in Corpi d’arco, accompagnata dall’organetto di Claudio Prima e dal violino di Francesco del Prete, Agnese Manganaro, Lola & the Lovers, Kaotica, Garnet. Le strade e le piazzette saranno animate invece da artisti di strada, mangiafuoco, teatranti a cura del Salento Buskers. Kostas Theodorou Quartet al Teatro Romano di Lecce La performance del Kostas Theodorou Quartet, ensemble di artisti provenienti da differenti zone della Grecia, si palesa come un lungo viaggio che parte dai suoni della tradizione popolare ellenica e finisce per incontrare i generi della musica contemporanea. Omaggio ai diversi idiomi linguistici e dialettali, abbandonati in virtù dell’affermazione di un’unica cultura nazionale, Canzoni senza parole è dedicata a coloro i quali non si rassegnano all’oblio delle proprie radici, per un live set eclettico e di grande fascino che guarda al futuro senza dimenticare il passato

DOMENICA 22

Jon Ensemble e Admir Shkurtaj trio presso il

Teatro Romano di Lecce Arricchire il panorama culturale salentino con un’inedita proposta artistica è la sfida con cui ha deciso di misurarsi la Jon Ensemble. L’obiettivo di questi sei musicisti, che si cimentano nell’esecuzione di brani di Admir Shkurtaj, è quello di promuovere, facendo ricorso a linguaggi altri, la diffusione della musica contemporanea, al fine di creare una nuova scena musicale nel nostro territorio. Con Valerio De Giorgi pianoforte, Luigi Bisanti flauto, Enrico Donateo percussioni, Pasquale Coppola clarinetto-cl basso, Anila Bodini violino, Gaetano Simone violoncello, Admir Shkurtaj direzione.

GIOVEDÌ 26

Back To The Roots al Porticciolo di Torre Sant’Andrea (Le) La rassegna in dance hall style, ideata da Treble, ospita De/Generator e Faùgno, autori e conduttori della trasmissione “R&D VIBES”, vibrazioni roots&dub in onda sulle frequenze di Radio Popolare Salento. VENERDÌ 27 Crifiu e Mamaska – Festa della musica a Cursi (Le) Ultima giornata per la manifestazione organizzata da Dilinò. Sul palco dopo Nudo al Cubo, band elettro-jazz e Manifattura Clandestina, con il loro travolgente folk, spazio a Mamaska, band ska salentina, ritornata sulle scene live dopo qualche anno di pausa, e Crifiu, con una miscela fatta di rock, elettronica, dub e melodie mediterranee. Ingresso gratuito

DAL VENERDÌ 27 A DOMENICA 29 Cube Festival all’Arena della Vittoria di Bari Dopo una stagione di eventi, dai meeting per le band emergenti ai grandi nomi (come Caparezza, Après la Classe, Linea 77, Baustelle, Roy Paci e molti altri), Cube rilancia con il Cube Festival. Due giorni di musica e un giorno dedicato allo sport. Grandi nomi della scena italiana e nuove Eventi 59


promesse. Il primo giorno spazio a le tre band finaliste del Cube Contest, Le Luci della Centrale Elettrica, Joalurlo, Ministri, Casino Royale e Max Gazzè. Seconda giornata con altre tre band provenienti dal contest, Il Genio, Serpenti, Fratelli Calafuria, The Niro e Bluvertigo. Il 29 giugno verranno allestiti due maxischermi su cui verrà proiettata la finale degli Europei di calcio. A seguire Djset. www.cubefestival.it – 0805227296 DA VENERDÌ 27 A DOMENICA 29 Veglie in jazz a Veglie (Le) Tre giorni di jazz e contaminazione a Veglie nella terza edizione del festival. Sul palco si alterneranno Bandadriatica, Luigi Bubbico Swing band e Nicola Andrioli Quartet.

degli artisti. Innegabile in valore culturale per la Valle d’Itria e per Alberobello in particolare. Il secondo appuntamento è l’11 luglio con la Gil Evans Orchestra. Inizio ore 21.30. Ingresso 20 euro. Info 0804326030

TEATRO CINEMA LIBRI GIOVEDÌ 5 - VENERDÌ 6

Pedro Gomez (Colombia) ad Alessano (Le) La Casa de las palabras di Salento Negroamaro prosegue ad Alessano con Pedro Gomez direttore della Casa de Poesía Silva a Bogotà, il tempio per eccellenza della poesia latino americana e il luogo fondamentale di accentramento artistico e di conservazione e diffusione della cultura poetica. Inizio ore 21.00. Ingresso gratuito. Info www.salentonegroamaro.org

DOMENICA 8 GIUGNO

Fernando Rendon (Colombia) ad Alessano (Le) Salento Negroamaro, rassegna delle culture migranti della Provincia di Lecce, prosegue il suo viaggio nell’America Latina. Ad Alessano, nella Casa de las Palabras, sapzio a Fernando Rendon direttore del Festival della Poesia di Medellin, riconosciuto per la sua importanza nella società contemporanea internazionale. Nel 2006 è stato assegnato all’Evento il Premio Nobel Alternativo per la Pace. Inizio ore 21.00. Ingresso gratuito. Info www.salentonegroamaro.org SABATO 28 Ludovico Einaudi ad Alberobello (Ba) La prima edizione di Sovrana, International WorldMusic Festival, si apre con il concerto del pianista Ludovico Einaudi. Lo Scenario è uno dei più belli il Trullo Sovrano, ossia un monumento storico sotto l’alto patrocinio dell’Unesco. Una piazzetta dalle atmosfere d’altri tempi , un platea di massimo 300 persone per una fruizione speciale delle performance

DA MERCOLEDÌ 11 a VENERDÌ 12

Teatrocinema (Cile) presso l’ Auditorium della Fiera di Galatina (Le) La Compagnia cilena, ospite di Salento Negroamaro, rassegna delle culture migranti della Provincia di Lecce, propone lo spettacolo Sin Sangre, nato dall’omonimo testo di Alessandro Baricco, che ha dato avvio ad un nuovo modo di fare teatro, incorporando punti di vista e metodi cinematografici all’interno della messa in scena,


che sono volti a sorprendere, meravigliare, emozionare e che vogliono far riflettere sul senso stesso della vita e del passare del tempo. Sipario ore 21.00. Ingresso 10 euro. Info www. salentonegroamaro.org

DOMENICA 15

Laura Pariani (Italia –Argentina) ad Alessano (Le) La scrittrice, da ritenersi una delle protagoniste più significative della narrativa italiana, ha dimostrato di possedere una rara sapienza di scrittura ed una grande capacità di orchestrare storie attraverso avvedute strategie linguistiche. In occasione del suo intervento per Salento Negroamaro, la scrittrice presenta “Dio non ama i bambini”, spettacolo sull’emigrazione italiana degli anni Dieci in Argentina, inframmezzate da brani musicali eseguiti dal vivo. Inizio ore 21.00. Ingresso gratuito. Info www.salentonegroamaro. org

MERCOLEDÌ 18

Vicente Ruiz – Hector Noguera (Cile) a Galatina (Le) Il noto coreografo e regista teatrale Vicente Ruiz e l’attore Hector Noguera mettono in scena lo spettacolo Nijinky o la mente assassinata, una libera interpretazione della vita del danzatore russo Vaslav Nijinsky considerato il dio della danza. L’artista emerse per il suo virtuosismo impressionante e per le sue avanguardiste creazioni, come La consacrazione della primavera e Il pisolino di un fauno. Amante di Diaguilev, mecenate del balletto russo, Nijinsky sviluppò una schizofrenia che lo condannò, quando aveva poco più di 30 anni, a vivere rinchiuso in diversi ospedali psichiatrici. L’attore e il regista terranno una residenza teatrale (dal 13 al 17 giugno) presso la Masseria Torcito di Cannole (Le). Sipario ore 21.00. Ingresso 10 euro.

GIOVEDÌ 19 e VENERDÌ 20

Dioniso e Penteo.Tragedia del Teatro del Teatro del Lemming (Rovigo) al Teatro Romano di Lecce (19/19,45/20,30/ 22,15/ 22/ 22,45/23,30)

VENERDÌ 20 Tentare, Toccare, Odorare: Sensi e Sensazioni nella Prosa di Ersi Sotiropoulu Alla Libreria Liberrina Di Lecce

SABATO 21

Proiezione cortometraggi di Stefanos Mondelos, Maria Magkanari, Kyros Papavassiliou al Teatro Romano di Lecce

DOMENICA 22 2008 Odissea

Negli Spazi presso Conservatorio S.Anna, Accademia Belle Arti, Rettorato Università, Palazzo Celestini di Lecce Dalle 21.00 Reading letterario sull’Odissea di Omero a cura di Fabrizio Saccomanno con Livio Romano, Cesko-Apres La Classe, Giovanni Pellegrino,Paolo Perrone, Massimo Ostilio, Domenico Laforgia, Mario Perrotta, Stefania Mandurino, Roberto Cingolani LUNEDÌ 23

La Favola Di Orfeo, Gaia Baggio e Antonello Taurino al Teatro Romano di Lecce

MARTEDÌ 24 e MERCOLEDÌ 25

La passione delle troiane presso il Teatro Romano di Lecce Lacrime di donne, lamenti strazianti e canti intonati per raccontare una perdita. La tragedia vissuta da una madre che perde troppo presto un figlio. La tragedia di Andromaca che vede morire per mano greca il figlio Astianatte e la disperazione della Vergine di fronte alla crocifissione di Cristo. La Passione delle Troiane si pone come frutto della commistione tra la tragedia di Euripide Le Troiane e il tema della Passione di Cristo, scegliendo di adottare come modalità narrativa le moroloja, nenie funebri appartenenti alla tradizione grika. Le musiche, eseguite dal vivo dagli stessi interpreti, narrano la sofferenza umana che si fa speculare a quella del Divino per una rappresentazione che si pone tra il concerto e lo spettacolo. Idea e progetto Salvatore Tramacere, regia Antonio Pizzicato, Salvatore Tramacere con Angela De Gaetano


- Cassandra, Vito de Lorenzi – Percussioni, Gianni De Santis - Coro, Emanuela Gabrieli Coro, Ninfa Giannuzzi - Andromaca, Riccardo Marconi – Chitarra, Silvia Ricciardelli - Ecuba, Admir Shkurtaj – Fisarmonica, Fabio Tinella – Astianatte. Sipario ore 21.00. Ingresso gratuito.

VENERDÌ 27 e SABATO 28

Desert dell’Attis Teatro di Atene presso il Teatro Romano di Lecce Un uomo solo al centro di una scena vuota, il suo corpo in balia degli elementi e delle forze naturali, la sua mente persa in un luogo inaccessibile da cui emergono immagini sfocate, parole indicibili, frammenti di storie. Desert, liberamente tratto dal testo La Persuasione e la Rettorica di Carlo Michelstaedter, si presenta così come un viaggio, come un’esplorazione introspettiva che l’individuo compie alla disperata ricerca del labirinto all’interno del quale si è perso, per uno spettacolo che si propone come un’intensa avventura del pensiero.

DAL 27 AL 29 GIUGNO

Solidaria direzione sud presso la Masseria Torcito di Cannole (Le) Salento Negroamaro, rassegna delle culture migranti della Provincia di Lecce, incontra nel suo lungo viaggio alla scoperta dell’America

Latina Solidaria Direzione Sud, la fiera del sud sull’economia equa, solidale e sostenibile, giunta alla terza edizione, intitolata “Las venas abiertas de America Latina. Tra partecipazione e Reti di Economia Solidale“. Tre giorni di incontri, dibattiti, musica, feste, laboratori, presso la Masseria Torcito di Cannole. Solidaria Direzione Sud significa espositori tra associazioni, realtà del non profit, istituzioni, produttori e tutti coloro che propongono e sperimentano modelli di consumo e di produzione equi e sostenibili. Esempi legati all’ambiente, al commercio equo e solidale, all’agricoltura biologica, al turismo sostenibile, alle reti sociali, ai diritti umani, alla cooperazione internazionale.

SABATO 28

Along the egnatia presso la Libreria Liberrima di Lecce Along Egnatia non è una guida, è un diario greco dell’attraversamento di un territorio che dall’Albania alla Macedonia, dalla Grecia fino ad Istanbul racconta una geografia umana di relazioni e di incontri che ancora una volta ci mettono in discussione. Alla presentazione parteciperanno Matteo Fraterno, Katerina Koskina, Mary Zygouri, Luigi De Luca, Lorenzo Romito, Celeste Nicoletti. Inizio ore 19.00. Ingresso gratuito.

DOVE TROVO COOLCLUB.IT? Era la domanda che molto spesso ci veniva rivolta, quando il giornale era in buona salute: la nostra distribuzione è stata sempre a pioggia o a macchia di leopardo, fate voi. Coolclub.it andava dove le nostre mani riuscivano a condurlo, ed era dove i nostri “fan” decidevano di portarlo. Una distribuzione legata un po’ agli eventi, un po’ al caso, un po’ al tempo (quando piove e non si può prendere la vespa, è difficile raggiungere il centro storico di Lecce). Il nuovo formato (si passa dall’A4 all’A5, che non sono nomi di autostrade) è stato pensato anche per questo, per riuscire ad avere una distribuzione migliore. L’invito che rivolgiamo ai gestori dei locali, ai titolari di negozi di dischi, di libri, di accessori vari è quello di richiedere il nostro giornale. Diventeranno distributori fidati e citati (in questa penultima pagina oggi affidata ai miei deliri). Una scelta gratuita e senza impegno che però potrà dare stabilità alla nostra “presenza”. Coolclub.it, questo già lo sappiamo, sarà

distribuito a Lecce e nella sua immensa provincia, a Brindisi (e in alcuni paesi delle sue vicinanze), a Bari (nei posti giusti e nei momenti giusti) e a Taranto (le preziose collaborazioni sono sull’adriatico e sullo Ionio). I complimenti di questi anni ci condurranno (esperimento già tentato in passato) a Roma, Milano, Bologna, Trento (addirittura), Torino e (se le poste ci accompagnano) a Barcellona. Poche copie per segnare un territorio, poche copie per dire che ci siamo. Dopo nove mesi di assenza è stato difficile tornare. Se volete sponsorizzare queste piccole (ormai) pagine siete i ben accetti. Se volete abbonarvi e supportare con una cifra simbolica (20 euro l’anno) la nostra follìa editoriale sarete sempre nei nostri cuori. Dove si trova Coolclub.it? Ovunque qualcuno voglia. Info redazione@coolclub.it – 0832303707.




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