CoolClub.it n.46 (Ottobre 2008)

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Anno V Numero 46/47 ottobre/novembre 2008



Quand’ero piccolo, a Lecce, mancavano gli spazi. Lo dicevano tutti e alla fine ci credevamo. Per chi praticava la musica, le sale prove convivevano con le rimesse dei nonni, le case erano luogo di scambi, le masserie rifugio per molti che anche da lontano venivano a fare l’arte. Le radio erano diffusione di ascolti e di idee; i primi pub, prima dell’infestazione del centro storico, gli avamposti della musica live. Ci fu poi un momento della mia adolescenza in cui tutto il mondo sembrò a pochi passi. Furono gli anni del centro sociale. Nato lontano dalla rabbia, per i primi mesi fu un luogo in cui tutti saziarono la loro voglia di fare e stare insieme. L’università era il collante, il centro di smistamento, città nella città dove trovarsi. Ora che sono grande, sembra che di luoghi ce ne siano anche troppi. Dopo l’invasione dei non luoghi, la famosa calata dei centri commerciali, il nostro territorio, in perfetta sintonia con le nuove tendenze, diventa multi. Un tempo andava di moda essere specialisti, valeva per le persone come per i luoghi. Ci si concentrava su una materia sperando che nell’arco di una vita se ne potesse conoscere il più possibile; interi luoghi, a volte intere città, erano votate a una sola attività.

Oggi tutto tocca l’altro, sconfina, diventa multidisciplinare, multimediale, interculturale, polifunzionale. Gli spazi si trasformano in centri che nessuno vuole chiamare “contenitori” ma in cui si cerca di far entrare il più possibile. Direzione di un sapere in pillole, generazione del di tutto un po’, o nuova rivoluzione copernicana del nostro sguardo sul mondo, poco importa. Quello che conta, ed è una buona notizia, è che il Salento e la Puglia salutano la nascita o rinascita di luoghi dedicati alla cultura. Un nuovo modo di intendere lo spazio, un’occasione per spolverare i ricordi di una città che non c’è più, per riflettere su quello che stiamo costruendo, su questa cultura in cantiere. È solo l’inizio di un pensiero che ci auguriamo alimenti idee e realizzi sempre nuove case dove far albergare l’arte. Noi non siamo tuttologi o fantuttoni, altra pericolosa ramificazione dell’essere multi, ci piacciono poche cose e di queste scriviamo. Fare poco, in tempi di ipertrofia, è un privilegio forse, ma l’unico modo, da sempre, per fare bene. Spazio ai luoghi allora, siano fisici, della mente o dell’anima, siano le pagine di questo giornale affollato mai come questo mese di parole, musica, idee, storie. Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 5 Numero 46/47 ottobre/novembre 2008 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Michela Cerini Hanno collaborato a questo numero: Mauro Marino, Roberto Caracuta, Alessandra Lupo, Cristian Sabatelli, Claudia Attimonelli, Ennio Ciotta, Federico Baglivi, Roberto Cesano, Gianluca De Rubertis, Camillo Fasulo, Tobia D’Onofrio, Dieghost, Enrico Martello, Dino Amenduni, Federico Baglivi, Ilario Galati, Stefania Ricchiuto, Roberto Conturso, Giuseppe Colucci, In copertina illustrazione di Andrea Moriero Ringraziamo Manifatture Knos e le redazioni di Blackmailmag.com, Radio Popolare Salento di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Musicaround.net. Progetto grafico erik chilly Impaginazione Scipione Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione una domenica di novembre che sembra di maggio Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: ufficiostampa@coolclub.it

Cultura in cantiere

Datemi spazio, che io lanci un urlo inumano 6 Inappetenza culturale 10 musica

Beatrice Antolini 18 Recensioni 28 Libri

Omar Di Monopoli e Gianni D’Attis 38-39 Recensioni 41 Cinema Teatro Arte

La cena di Emmaus 48 Spazio OFF 52 Eventi

Calendario 57 sommario 5


SPAZIO, SPAZIO DATEMI SPAZIO CH’IO LANCI UN URLO INUMANO Alda Merini


I luoghi sono cosa importante. Come si può immaginare un’aggregazione, un progetto culturale se non c’è uno spazio dove poterlo far vivere. Un tempo era più difficile. Penso agli anni settanta, epoca, ormai remota, della mia giovinezza “sempre in cerca”. Non c’era nulla! O forse tanto, non so dire!!! Si apriva qualche cantina per farci un club, per ballare e coltivare le prime “pruderie”. C’erano soprattutto le case per sentire musica, mitica quella di Massimo che, per il cognome che portava, La Greca, era fornitissimo (i suoi genitori furono tra i primi commercianti di musica a Lecce, iniziarono con un primo negozio lungo il corso Libertini, un altro vicino al cinema Massimo e poi quello mitico su Via Trinchese, con il “soppalco-privè” con la consolle con i piatti e l’impianto buono) grandi ascolti dei Cream, con l’assolo di Ginger Baker che girava e rigirava sul piatto per ore, di Hendrix, della compilation di Woodstok, dei Deep Purple, dei Jefferson Airplain... musica e musica: quello era il luogo in cui rifugiarsi. Poi i tempi cambiarono e la spensieratezza svanì mischiata ad entusiasmi più grevi: l’impegno politico, le sezioni del movimento, lottacontinua in una traversa di Corso Libertini, il pdup a Piazzetta Lillo e poi in via Marco Basseo, l’emmeelleesse alla Chiesa Greca. Le osterie, le piazzette dei primi spinelli verso il disimpegno doloroso del riflusso che fece desueto il centro storico. La mossa si spostò in Piazza Mazzini fuori dai bar. Il Poker, il Roberto, il Prato accolsero il “buio” degli anni ottanta quando lentamente, in silenzio, si incubò quello che oggi siamo. C’era la strada, le attese, le macchine. Il luogo era diventato mentale, mobile, da inseguire. Sino ad allora quelli delle socializzazioni culturali erano stati luoghi e spazi di poca rappresentazione, senza particolare cura di immagine e di prospettiva; certo, c’erano stati tentativi di confezionare una qualità differente, non omologata, ma non sempre si superava l’anno. Episodi, piccole avventure come lo Squonk in un labirinto di stanze a Monteroni, lo Stage a Lecce dove c’è l’Hot Line, prima c’era stato il Tam Tam e il Bistrot, venne il New Frontier in una casa in campagna sulla via di Magliano. Ma il progetto culturale era acerbo, non era il vero motivo ispiratore. Il pubblico passivo, pochi live, poco teatro, meno che mai le mostre.

Nessuna autonomia progettuale. Una esperienza interessante fu quella che si sviluppò intorno alle radio. Una in particolare. Più o meno il 1975. Noi eravamo poveri, ma molto addentro alle cose musicali. Non ci rimaneva che tentare un’azione di ‘entrismo’. RadioLecceGiovane era una radio senza vocazione, stava in cima ad un condominio nei pressi di via Merine. Uno alla volta ci presentammo e ci intrufolammo nel palinsesto sino ad avere la maggioranza dell’assemblea. La radio divenne la nostra “teiera volante”, l’astronave di viaggi notturni che portarono a Lecce la migliore musica che si suonava in quei tempi. I Gong, Robert Wyatt, Hatfield & the North, Caravan, Alan Stivell, il rock jazz e il progressive, la musica creativa. Il nostro gusto si raffinava e poco a poco la musica diventava essa stessa luogo, ambito di sensibilità, di coscienza e di conoscenza. Trasferimmo la radio nella sede del pdup di via Marco Basseo, avevamo fondato un circolo culturale, c’era una grande sala a botte. Costruimmo il box insonorizzato e via finalmente “noi”. Durò poco, qualcuno mise fuoco agli impianti ed amen! E vennero gli anni novanta. La fucina d’un poter fare che ha dato “frutti” e soprattutto luoghi dove potersi immaginare insieme. Insieme. Il primo vero spazio culturale aperto allo scambio e all’incontro fu Astragali, la sede di via Candido, veniva dopo la prima che era in via Dogali, lì Marcello Primiceri aveva iniziato, un sogno interrotto da un incidente stradale. Io arrivai nel 1989. Dopo dieci anni d’assenza, in giro tra Urbino, Bologna, Pontedera. C’avevo gli occhi pieni. Ci inventammo, con Carla Petrachi, Piero Rapanà e Antonio De Pascalis “Nella pianura dei sogni” un progetto di sguardo su ciò che era in atto nella terra di mezzo! Fu una festa, una cosa vera col grande spazio bianco pieno di opere e di persone. Un successo! Il preludio e il segnale che c’era movimento, desiderio, necessità di trovare orizzonti nuovi alle pratiche di una creatività ormai montante. I luoghi si moltiplicarono. Piccoli luoghi, botteghe artigiane, sigle associative, laboratori di comunicazione. Era la città ed il Salento il luogo. Ogni “stanza” alla lunga, era stretta soffocava tanto era il desiderio di mischiare ed incontrare pratiche. Le dance hall, i giardini di pietra delle cave di Cursi, l’aula bunker del processo alla Sacra Corona, l’ex ospedale psichiatrico. L’avvio di una nuova stagione di un cammino che ancora oggi continua... alla ricerca di spazio! Mauro Marino Cultura in cantiere 7


I LUOGHI CHE ABB Il problema degli spazi è sempre all’ordine del giorno. In casa, soprattutto nel cambio di stagione, quando non sai dove mettere le cose, come nelle città e nei paesi. C’è sempre problema di spazio, per la cultura soprattutto e per i concerti (i grandi concerti) in particolar modo. La Giunta Regionale guidata da Nichi Vendola – che in campagna elettorale aveva promesso e soprattutto “istigato” la formazione di Cantieri della Cultura (ancora non pervenuti, almeno nella forma auspicata) – ha dato vita al pionieristico progetto di Bollenti Spiriti, dedicato ai giovani pugliesi, guidato dall’assessore Guglielmo Minervini. Borse di studio, occasioni di avviare la propria impresa culturale e soprattutto la possibilità per i Comuni di recuperare un po’ di spazi da dedicare alle pratiche culturali. Il progetto va avanti. In questo momento in tutta la Puglia si sono aperti o stanno per essere aperti una ottantina di cantieri per recuperare, in tutto o in parte, ex fabbriche, vecchi palazzi, capannoni destinati a nuova vita (tutte le informazioni su bollentispiriti.regione.puglia.it). E se il capoluogo di regione tra poco riacquisterà uno dei luoghi simbolo come il Teatro Petruzzelli, distrutto dal rogo del 1991 e faticosamente ricostruito nonostante i dissidi tra la politica e i proprietari, con strascichi giudiziari che al momento mettono in dubbio l’inaugurazione fissata dal sindaco Emiliano per il 6 dicembre, Lecce ha acquisito due nuove strutture. La prima aprirà ufficialmente a metà novembre, si tratta delle ex Officine Cantelmo, trasformate – anche grazie a Bollenti Spiriti – in uno Student Center, la seconda è la struttura che ospita, tra gli 8

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altri, anche la nostra redazione e piccola società Cooperativa. Le Manifatture Knos (non ne parliamo troppo per evitare accuse di faziosità), di proprietà della Provincia di Lecce, nate da un progetto presentato dall’Associazione Sud Est e sposato da numerose vecchie e nuove realtà della città e della provincia, ospitano le azioni teatrali dell’Associazione Induma, guidata con grande abnegazione e professionalità dal regista Werner Waas e dall’attrice Lea Barletti, la “manualità” dell’associazione Katapelta, le parole e le musiche di Radio Popolare Salento e soprattutto l’impegno e l’idea (forse anche utopica) della costruzione di uno spazio aperto alla città. La nascita di questi due contenitori ovviamente ha scatenato polemiche e visioni spesso distorte. La principale accusa, oltre a quella della gestione, sulla quale sorvoliamo per problemi di nausea e di tempo, è quella di “fagocitare” in qualche modo il consumo culturale della città. Come se l’aumento dei tanto agognati spazi portasse alla contrazione dei consumi. Secondo questo ragionamento la nascita di un nuovo giornale può portare solo allo spostamento di lettori da una parte all’altra senza invece sperare e auspicare l’aumento degli acquirenti. Ecco, con gli spazi accade così. Il timore che uno escluda l’altro fa nascere malumori e dicerie. Certo viene qualche dubbio: ma allora il Salento non è una terra così colta come qualcuno (diciamo anche noi stessi) vorremmo far credere? La risposta non è semplice però il riscontro empirico e alcune riflessioni tenderebbero a tinteggiare un quadro negativo. Ma dunque la domanda sorge


BIAMO IN COMUNE spontanea: abbiamo bisogno o no di spazi per musica, arte, letteratura, cinema? La risposta sarebbe si, ma poi i dubbi restano, quando si vedono i teatri mezzi vuoti, le presentazioni dei libri deserte, i cinema in affanno, i dati di lettura fermi anzi in arretramento, i concerti (anche quelli un tempo considerati sicuri) con presenze in calo. Senza poi parlare di danza e arte. Problema di comunicazione? Può essere. Oppure semplicemente si sovrastimano delle possibilità di un territorio e dei propri abitanti. Ovviamente sotto accusa sono i prezzi. Però pagare 10 euro per uno spettacolo teatrale o 5 euro per un concerto (i prezzi da noi sono la metà rispetto ad altre zone) non sembrano gran cifre. Il tutto esaurito è destinato sempre e soltanto agli spettacoli di personaggi “televisivi” o ai grandi nomi. La ricerca di nuove sonorità, la scommessa sull’esordiente, la sorpresa della cultura sono declinazioni del consumo quasi assenti. La crisi la leggi sui visi canta Bugo, in effetti “c’è grossa crisi” e i primi tagli (le famiglie, i giovani e il governo si comportano allo stesso modo, c’è un Tremonti in ognuno di noi) sono destinati alla cultura. Nuovi spazi comunque nascono. Non solo grandi cattedrali ma anche piccole botteghe d’arte e comunicazione, piccoli teatri o grandi locali dove andare a suonare. Farne un censimento sarebbe lungo e tedioso, ma potrebbe essere un buon punto di partenza per comprendere come un territorio si muove. Nella “movida” salentina, come è stata definita da politica e giornali, si trova un po’ di tutto ma si rischia il pericolo sintetizzato nel bivacco. Orde di ragazze

e ragazzi alle prese con il “tour de pub” del fine settimana senza uno scopo e senza una meta se non solo quello di vedere gente (e già questo è importante). Insomma tra pochi mesi la Puglia (abbandono il Salento, il sole, il mare e il vento) avrà a disposizione numerosi contenitori (spesso inutilmente restaurati, senza una idea di quella che avrebbero ospitato), ottimi contenuti ma con pubblico sempre meno attento e sempre meno avvezzo allo sbigliettamento. Siamo sicuri che questi spazi riusciranno a sopravvivere? Siamo sicuri che questo non sarà l’ennesimo spreco di denaro pubblico? Siamo convinti che oltre ai contenitori serva anche e soprattutto uno sforzo verso la formazione del pubblico, verso il sostegno alle produzioni affinché i biglietti possano essere popolari, verso una educazione nelle scuole e nelle università affinché si prenda consapevolezza che uno spettacolo teatrale vale più di una birra, che un libro è più importante di una gita fuori porta. Questi luoghi della cultura non possono essere solo mura ben restaurate o realizzate, ma luoghi appetibili per nuovi fruitori di cultura. Altrimenti ancora una volta si sentirà dire che non ci sono spazi e che in una piccola città come Lecce non accade nulla, quando invece le cose ci sono ma non molti ci vanno, solo per pigrizia o per disinteresse. Una grande sconfitta per la politica e per gli operatori culturali. Pierpaolo Lala

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INAPPETTENZA CULTURALE Una ricerca mette in luce i dati sui consumi delle arti nel Salento. E i risultati non sono incoraggianti.

Di che cosa parliamo quando parliamo di luoghi della cultura in città (e in provincia)? Con TeKnè, percorsi di formazione in contestualizzazione e fruizione dell’arte urbana abbiamo provato a chiederci che senso ha oggi per una comunità locale interrogarsi sul ruolo sociale dell’arte contemporanea, sulla sua praticabilità e diffusione in contesti pubblici. Abbiamo cercato di porre delle questioni, che a noi sembravano di interesse comune, attraverso un programma formativo e di ricerca, rivolto a dirigenti pubblici e privati nel settore dei beni e delle attività culturali, finanziato nell’ambito del POR Puglia 2000/2006. Dell’arte pubblica ci interessano soprattutto tre implicazioni, tutte e tre legate alla sua capacità di incidere nei processi sociali attraverso le dinamiche della creatività e della partecipazione. La sua attitudine relazionale, ossia la capacità di istituire nessi e legami tra la città ed i suoi abitanti, tra questi e gli artisti, tra gli artisti e i territori. Il suo farsi racconto, di luoghi, comunità, paesaggi. Ed infine il suo potere di scompaginare i meccanismi di accesso alla cultura. La prima implicazione presuppone un investimento culturale e sociale di lungo periodo, che dia alle comunità il tempo di comprendere l’intervento artistico, accettarlo nel proprio vissuto, in un ricongiungimento tra spazio e valori sociali, che nelle moderne città è andato progressivamente dissolvendosi. I sottoscrittori di questo patto ideale sono molti: artisti, urbanisti, pubbliche amministrazioni, società civile. I primi sono chiamati a confrontarsi con lo spazio urbano ed ambientale, ripensando 10 Cultura in cantiere

il loro ruolo in funzione ad esso. Le seconde, quali committenti delle opere, a costituirsi come tramite tra gli artisti e le istanze delle popolazioni. Alla società civile si può chiedere disponibilità all’incontro e alla condivisione dei propri ambienti di vita. La seconda implicazione riguarda la città, le sue trasformazioni, le sue mappe interne, le sue mutevoli geografie, i suoi orizzonti. Negli ultimi decenni del secolo scorso, molti artisti hanno concentrato la loro ricerca sulla definizione delle conseguenze pubbliche della loro opera. Si inaugurano così nuove poetiche di ascolto e di osservazione, che consentono uno sguardo più attento alle domande che le città pongono, più disponibile a considerarle pagine di un progetto comune. La terza muove da una provocazione: basta collocare un’opera d’arte in un ambito pubblico per farla diventare un’opera d’arte pubblica? Ovviamente no, occorre mobilitare quel circolo virtuoso tra committenti, mediatori, artisti, cittadinanza, che innesca la complessa trasformazione delle cose e delle persone. Ma il fatto è che solo nell’arte pubblica la committenza viene dal basso e questo genera effetti dirompenti: si rovesciano i rapporti di potere, si determinano inattesi cortocircuiti nel sistema della produzione culturale, si rimescolano i piani sociali, proprio perché la libertà degli spazi urbani consente modalità di fruizione non immaginabili altrove. Incrociando tali premesse con i risultati del volume Culture e territori. I consumi culturali in provincia di Lecce, che abbiamo pubblicato nel 2007, ci siamo chiesti, infine, se sia possibile definire il profilo del fruitore-consumatore culturale in provincia di Lecce, sul presupposto,


da sottoporre a verifica, che tale consumatore sia un potenziale fruitore di arte pubblica. Culture e territori indaga i consumi extra-moenia dei residenti in provincia, ossia quei consumi che portano gli individui a relazionarsi con gli spazi fisici e i luoghi dell’anima, condivisi con la collettività. Per comodità di analisi, tali spazi vengono circoscritti in categorie: teatro, cinema, musei e mostre, concerti di musica classica e opera, altri concerti di musica, monumenti e siti archeologici. La ricerca fa emergere più di un motivo di inquietudine. A cominciare da una larga fascia di inappetenza culturale, cioè di cittadini che nel corso del 2006 (periodo al quale si riferisce l’indagine) non hanno effettuato alcun tipo di consumo. Ma preoccupano soprattutto la diseguale distribuzione dei consumi sul territorio e la disattenta conoscenza di esso da parte dei residenti. Il capoluogo domanda più cultura rispetto alla provincia. È un dato che segnala l’urgenza di strategie inclusive delle periferie, pena lo sfaldamento di quei legami di identità ed appartenenza senza i quali è vano costruire qualsiasi misura di policy. Se volessimo invece capovolgere il ragionamento, per tentare una lettura in positivo dei dati,

potremmo affermare che esiste una robusta domanda potenziale di cultura, specialmente in provincia, che potrebbe essere stimolata attraverso azioni specifiche sulle barriere al consumo (carenza di tempo libero e di offerta in grado di destare interesse) o sui possibili incentivi (sconti, agevolazioni, del tipo card provinciale di tipo intersettoriale, maggiori informazioni). In conclusione, abbiamo cercato di raccogliere, con il progetto TeKnè, un primo quaderno di appunti in tema di arte pubblica e politiche culturali connesse. Che, naturalmente, doveva servire a seminare, più che certezze, dubbi, curiosità, stimoli e suggestioni. Licenziando la ricerca ed il corso, ci chiediamo se non si possa pensare di utilizzare questa strada per esperimenti di progettazione condivisa, con le amministrazioni pubbliche eventualmente interessate. Sul genere, per esempio, di Nuovi Committenti, programma di Fondation de France poi adottato in Italia da Fondazione Olivetti, che facilita l’incontro tra artisti e società civile, promuove la concreta realizzazione di opere d’arte pubblica e si fa carico di garantirne la fruibilità nel tempo. Roberto Caracuta direttore Fondazione Rico Semeraro

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foto Claudio Longo

IL CENTRO SOCIALE DI LECCE La stazione ippica raccontata da due protagonisti della prima e della seconda onda (anomala) Prima dell’occupazione Si chiamava Class ed è inutile dire che l’acronimo suonava piuttosto beffardo per quel coordinamento liberazione e autogestione degli spazi sociali che, molte riunioni più tardi, avrebbe portato all’occupazione della Stazione Ippica, il centro sociale di Lecce. Dopo i primi incontri in case d’appoggio, ci vennero messi a disposizione alcuni locali in Vico dei Fieschi, una vecchia e piccolissima sede, dove c’era passata Democrazia Proletaria, Rifondazione e che se non sbaglio ora è dei Cobas. Mi ricordo discussioni interminabili su cosa dovesse essere il centro, come e perché ce ne fosse bisogno e quali sarebbero state le sue attività; ma prima di tutto in ballo c’era la natura del progetto e su quella spesso si finiva a litigare. Tra le facce che sono passate per quegli incontri, c’era certamente un nucleo più assiduo, direi fondatore, di cui facevano parte Luigi, Valentina, Davide, Mauro, Cristiano, Emanuela (qui mi fermo perché rischio di dimenticare qualcuno) ed io. Alcuni di noi erano ancora degli adolescenti vestiti di nero, altri avevano già accumulato esperienza politica, culturale e associativa. E questo ci consentiva di procedere più spediti; 12 Cultura in cantiere

imparavamo un sacco di cose. Poco lontano alla sede del Class c’era un’osteria, ora chiusa, dove si finiva di parlare, bevendo tra i pannelli di compensato ai muri e il divieto di fumare nei locali pubblici non ancora in funzione. Al gruppo si andavano aggiungendo pezzi importanti. C’erano Giuseppe, Gigi e Sergio, c’era Paolo, di solito nero ed emo ante litteram, c’era Sandro poi ribattezzato Principino, Cristian, Davye e gli immancabili, forse i veri ispiratori di quel periodo, i fratelli Silvio e Gabriele (Micky). Durante uno degli ultimi incontri la questione era stata se coinvolgere o meno le Posse, Sud Sound System e accoliti, nel processo. Non mi ricordo come finì la votazione, ma alla fine il gruppo si allargò parecchio. Arrivarono Carlo, Luisa, Gianni, Fabiana e per un breve periodo anche i Sud. Esplorazione e occupazione Avevamo capito che il posto andava occupato e quindi anche simbolicamente liberato dall’abbandono in cui versavano tanti immobili della città. Iniziammo a fare dei saggi per individuare il luogo adatto. Mi ricordo che


c’era l’ex Manifattura di via di Ussano e come ci stupimmo quando con un solo calcio di Nino la porta di ferro si spalancò. C’erano gli spazi dietro la stazione ferroviaria e per conoscerli meglio facemmo anche una gita nelle fogne, guidati da Luigi (che allora faceva speleologia) e da Gianluca. Insomma, alla fine scegliemmo l’ex stazione di monta su via Lequile. La mattina dell’occupazione io fui costretta ad andare a scuola dalle numerose assenze che intanto avevo accumulato, ma nel primo pomeriggio mi resi conto che il gruppo al lavoro era stato davvero numeroso e che il centro alla fine era nato sul serio. Nei primi giorni, un gruppo di noi si fermava a dormire li, per paura dello sgombero. I muri colorati, le officine e la sala da tè arrivavano in un istante. Mi ricordo i cineforum e le feste, i concerti – un gruppo era di Taranto, si chiamavano Destituts - e gli spettacoli teatrali, con delle giovanissime Danda e Lea che recitavano Boris Vian. E ben presto a movimentare la situazione arrivò anche Militant P. Mi ricordo che intorno al centro si era creato un gran fermento e qualcuno finì a parlarne anche in tv. Durante le feste arrivavano centinaia di persone e sulle scale per il terrazzo c’era sempre qualcuno che si baciava. Mi ricordo le immancabili incursioni della polizia o dei ragazzi del Fronte della Gioventù, ma anche la fascinazione che il centro sociale esercitava sulle zone malfamate della città, da cui si staccavano gruppetti in avanscoperta. E poi mi ricordo anche l’istante esatto in cui tutto, almeno per quella prima vita del centro, si fermò. Accadde di botto, c’erano state un po’ di tensioni tra gruppi con orientamenti culturali differenti e dagli sfottò sui vestiti e sulla musica si era passati all’intolleranza sulla programmazione. Alla fine qualcuno si era sentito escluso; perciò una notte, alla fine di un concerto, fecero irruzione e cacciarono gli ultimi rimasti, dichiarando di avere preso il controllo dello spazio. Fu un blitz, non proprio violento, solo aggressivo e soprattutto inatteso, credo rimpianto subito dopo dagli stessi autori. Fatto sta che nonostante ognuno di noi avesse la possibilità di rientrare nel centro, nessuno lo fece per un pezzo. Qualcosa si era spezzato. Quel portone che la polizia non era stata in grado di chiudere, restò per mesi sbarrato. I colori sgargianti scivolavano sull’ingresso a ricordare la festa finita. Almeno per un anno, fino a quando un’ondata successiva di occupanti, tra cui alcuni dei vecchi poco convinti di come era andata, decise di riaprirlo e gli regalò un altro pezzo di storia. Alessandra Lupo

IL CENTRO DI BRINDISI Praticamente sono cresciuto all’interno del centro sociale di Brindisi. Mi ci hanno portato la prima volta che ancora non avevo l’età per guidare il motorino (a Brindisi leggi speciali della malavita riducono a 12/13 anni l’età per saltare in sella ai cinquantini). Suonavano tali Screaming Trees, era pienissimo, fumosissimo, caldissimo, pieno di gente, capelli e magliette strane. Non ero ancora pronto. Anni dopo avrei capito chi era quel tipo, ma allora era troppo presto. Ci sono ritornato un paio di anni dopo col mio motorino, il “Si Piaggio” blu metallizzato, quello con l’adesivo dei Sex Pistols e le stelle fatte con la bomboletta. Era un periodo in cui alternavo frasi che contenessero necessariamente la parola hardcore, il nome Sepultura e la parola treno. Grazie a questo sono subito riuscito a riunire intorno a me una piccola cerchia di persone, alcune delle quali sono ancora presenti nella mia rubrica del cellulare. Ci divertivamo a scovare il suono della doppia cassa nei dischi dei gruppi più abominevoli, ad indossare abiti da far pietà alla caritas e soprattutto avevamo sempre l’ultima parola su ogni produzione, concerto, chitarra, ecc… Sembra che in quel periodo qualcuno abbia iniziato a fumare e bere. In nessun posto le cose funzionano bene se non hai delle responsabilità. Se diventi necessario o meglio ancora indispensabile va addirittura meglio. Noi avevamo le chiavi della sala prove. In realtà noi eravamo sempre chiusi in sala prove. Avevamo mille progetti a testa, ed in tutto eravamo una decina di persone, di cui forse tre pienamente consapevoli che le note fossero sette. Era un periodo molto punk. Se i miei compagni del liceo al culmine della loro subordinazione si sfilavano la camicia dai pantaloni, io tornavo puntualmente a casa sanguinando. Avevo occhi per vedere solo quello che dicevo io. Alcuni giorni gli occhi non li aveva nessuno di noi. Nessuno. Poi io mi sono tagliato i capelli, ho iniziato ad organizzare i concerti li dentro insieme a Joe Banana, abbiamo messo in piedi una distribuzione indipendente, abbiamo comprato un Machintosh ipotecando sangue ed organi per vent’anni. Abbiamo visto nascere e crescere decine di progetti, abbiamo diviso pane e sonno con tantissima gente, dagli Assalti Frontali ai gruppi di base cittadini, da James Senese fino ai gruppi death metal. Eravamo lì per questo. Organizzare ogni sabato un concerto era la cosa che spingeva avanti l’intera settimana: telefonare, attaccare locandine, chiedere la sottoscrizione all’ingresso (spiegare alla ragazza di turno che andava fatto…), montare e smontare tutto, cucinare Cultura in cantiere 13


foto Claudio Longo

LA SECONDA ONDA (anomala) Ne passarono di persone e di gestioni, dagli “Hardcorini” agli MC dell’hip-hop, da Aldo, Eros e Barbara, ai metallari, fino ai semplici gregari, e cercando di non dimenticare nessuno, le resident band: Widows, Fridge, Pollo-Power, Hioyd, Run Patty Run, Lillynoiz, Frau Blucher, Coma, Tula, Extortioner, i neonati Psycho Sun, Militant Piero, Dj War, Gopher, Dj Gruff insieme ad un Neffa ancora lontano dai circuiti delle major. Una sorta di “comitive culturali” insomma che si alternavano alla programmazione delle serate. Era indubbiamente passato il periodo della gestione unitaria; ognuno organizzava le proprie date, assecondando i suoi gusti e incastrandosi nei fine settimana. Non scorderò mai il concerto dei VeronikaVox insieme ai Destitutes, o quando arrivarono dal nulla i 2000 Dirty Squatters, avanguardia musicale del movimento Mutoids, che suonarono per poche decine di presenti. Io ricordo che organizzavo i concerti di gruppi un po’ più “heavy”, dai So Fuckin’ Confuse di Taranto (del centro sociale CittàVecchia, col quale ci fu un’assidua collaborazione), ai C.O.V. di Torino, fino a quel mitico concerto dei Sadist di Genova e 14 Cultura in cantiere

dei Cruentus di Bari, che riempì il centro in ogni spazio, aiutato anche dall’allora “pirata” Radio Power. L’aspetto più interessante fu che nonostante fossi l’unico a volerli, gli altri non si risparmiavano per aiutarmi, da Dario che ci prestò il gruppo elettrogeno dello zio, a Robertone che si immolò dietro al bancone, tutti spinti solo dalla voglia di partecipare. Facemmo la tettoia centrale ed incominciammo a costruire una mini rampa da skate, fatta di legno riciclato, ideata, progettata e costruita da Massimo, Diego, Beppe, io e tutti quelli che semplicemente avevano tempo da dedicare ad uno scopo comune. Si acquistò un impianto audio, poi rubato nottetempo da sconosciuti, ma non partivano denunce dal Csoa; fissammo filo spinato e cocci di vetro su tutto il perimetro murario. Intanto, gli spazi venivano utilizzati dal collettivo femminista, dai tatuatori e dai loro discepoli, ora affermati professionisti del settore, dalle mostre e le proiezioni con la LAV, il mercatino dell’usato ed innumerevoli iniziative sociali e culturali. Dopo di che arrivarono i viandanti, gente


proveniente da svariati contesti di vita. Da Dan a Shakespeare, da Michelle a Gerarda, da Abi a Luca di Napoli a Claudio “Mozzarella”, il centro rivelò che quel dicembre ‘93 in cui fu occupato, il 22 (i pazzi!) non cadde per caso. Era l’epoca della chiusura dei Manicomi comunali e in un certo senso il CSOA ricoprì il ruolo di magnete per disadattati e non. Lo sgombero (o l’autosgombero) Nell’estate del 1995 successe qualcosa, o meglio, nel centro sociale non succedeva niente, la maggior parte delle persone che tenevano viva l’occupazione durante l’estate emigrò altrove in cerca di altre esperienze e il cambio generazionale semplicemente non avvenne. Ricordo che a Lecce ci fu un ritorno dell’eroina, sintomatico a mio avviso del cambiamento culturale della generazione successiva, nessuno era più disposto a perdere tempo senza avere un ritorno economico. Nell’autunno seguente ormai ci dormivano persone che non avevano niente a che fare con il contesto culturale in cui era nato e ci fu una sorta di manovra “dura” per riappropriarsene. Tuttavia la polizia e la Digos, con la classe politica di sinistra dell’epoca, avevano già subodorato il momento di “flessione” ed era ora di porre la parola fine ad un posto illegale ed ormai anacronistico. Così le forze dell’ordine arrivarono con carpentieri e falegnami al seguito per murare di cemento armato quel portone che aveva visto passare tante vite. Io, Luigi e Andrea una volta incontrammo il Sindaco Salvemini che ci propose di dichiararci come Associazione Culturale. Andammo via gelati da come la politica veda i processi partecipativi di costruzione, snaturando a priori l’espressività per confezionarla entro canoni funzionalistici. Il vuoto lasciato dal centro non ci lasciava dormire, così dopo un mese, organizzammo un’altra occupazione, del mercato di Settelacquare, struttura costruita ma abbandonata da anni, fuori da ogni contesto che aveva contraddistinto l’occupazione della Stazione Ippica. In appena una ventina ci ritrovammo alle spalle della mediazione ed entrammo. Dopo appena un paio d’ore, però, arrivarono le forze dell’ordine che minacciando arresti e fermi, spensero il tentativo di riappropriarsi di uno spazio pubblico abbandonato. Il Quotidiano firmò un articolo, ma la notizia non destò attenzione da parte della città in cui quel vuoto è rimasto, nonostante nell’aria si senta ancora l’estrema necessità di luoghi autogestiti, al di là della Capitale del Barocco in cui noi siamo i pupi di cartapesta. Cristian Sabatelli

per i gruppi,ecc… Farlo significava crederci. Quello che per molti era la moda del momento o una maniera per attirare l’attenzione, per noi era e rimane una regola di vita. Io non ho mai smesso di crederci. Si navigava all’interno delle controculture, si viveva pienamente all’interno delle stesse. Capire che esiste sempre qualcosa al di là delle apparenze, al di là dei modelli diffusi e prestabiliti, significa aprire gli occhi. La politica attiva, le manifestazioni, i cortei, i campeggi di lotta, gli scontri, i tafferugli. Ma anche le botte, le lacrime, le grida, le dita puntate contro, la diffidenza, il sospetto. Se nasci tondo non muori quadrato. Noi avevamo la sensazione che non saremmo mai morti. Nel frattempo, complice la fortuna di esser nato figlio di ferroviere, e quindi di poter usufruire di viaggi gratis in treno, inizio i miei lunghi e frequentissimi spostamenti verso gli avamposti della controcultura nazionale e non solo. Ogni fine settimana, ogni ponte, ogni spiraglio di vacanza, io sono in treno. Al liceo quando sparivo dalla circolazione per un po’ pensavano che mi avrebbero trovato in un treno qualunque. Ho traghettato le esperienze più disparate: gruppi musicali, radio indipendenti, squat, materiale informativo, linfa vitale per un centro sociale di provincia. Ricordo ancora che alle volte, soprattutto al termine di serate guidate dall’esagerazione, premevano affinché narrassi con enfasi le vicende dei miei viaggi: Firenze, Roma, Milano, Torino diventavano lo sfondo delle mie vicende, il teatro delle mie puttanate. Un tripudio di esagerazione. Piovevano iperboli! Si rideva fino alle lacrime, le stesse lacrime, questa volta di dolore, che ci hanno separati. Il tempo passa e tutto cambia. Ho la fortuna di averlo capito appena maggiorenne. Joe Banana lo sento ogni tanto, ha sposato la splendida Teresa, la luce dei suoi e dei nostri occhi. Alcuni anni fa sono andato a fargli visita nel suo ristorante tipico pugliese a Vienna: cucina da paura, ci ha fatto mangiare orecchiette alle cime di rape con Kruder e Dorfmeister (ovviamente frequentatori e suoi amici…). Bobo l’ho incontrato pochi giorni fa, mi ha subito perdonato, ho capito di essere stato uno stupido ad essermi allontanato da uno come lui. Salvatore è nei nostri cuori. Il ritorno di Sandro sulla terra è previsto per il 2010, Bruno pesa almeno venti chili in meno, Carlo è in Spagna e non sa ancora il perché, ai fratelli Leoci voglio davvero bene e devo ricordare di contattarli, Lombrizzo non so se ha ancora spazio per un altro tatuaggio, Muzzone ne avrà stesi almeno cento da quando non lo vedo, Poppy non lo ha più visto nessuno, Hula sta bene. Alcuni si sono sposati, altri sono spariti, altri ancora spaccano in giro qua e là. Io continuo a girare in lungo ed in largo e faccio tesoro di tutto. Un tesoro che custodisco ed alimento. Ennio Ciotta Cultura in cantiere 15


MYSPACE, YOUTUBE E SECOND LIFE Dove fluttua la cultura contemporanea


Partendo dal dato concreto secondo il quale, oggi più che mai, arte e cultura sono sistemi modellizzanti dell’universo mediatico, i luoghi dove esse si manifestano sono, evidentemente gli spazi del web. Qualche anno fa il filosofo Jean Baudrillard che tanto ha riflettuto sul concetto di spazio e di tempo nel contemporaneo, mediati dal cosiddetto virtuale, arrivò ad una conclusione che capovolgeva i termini del discorso: “Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia – ma è un’utopia che non appartiene più all’ordine del possibile, perché non si può che sognarne come di un oggetto perduto” (Simulacri e fantascienza, in aa.vv., Gilles Deleuze. Tecnofilosofia, per una nuova antropologia filosofica, Millepiani nn. 17-18). Egli constatò, infatti, che nel nostro tempo la realtà così come la si conosceva e la si era postulata nel Novecento è divenuta inesorabilmente un’utopia alla quale artisti, intellettuali ma anche persone comuni si ispirano, dal momento che viviamo in un mondo che sembra reggersi sul principio della simulazione. Oggetti tecnologici quali il telefonino in primis, acceleratore attraverso la pratica dell’sms delle coordinate spaziotemporali in relazione alla corporeità e il web più di ogni altra cosa confermano questa tesi. Lo spazio del web 2.0 è il vero locus novus per la cultura: da Myspace a Second Life, da Wikipedia a Youtube, la visual culture e l’approccio di approfondimento e consultazione distratta e superficiale (così come li aveva interpretati Walter Benjamin - L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi 1955 - anticipando i tempi) trovano le loro fondamenta. Tralasciando la celebre enciclopedia della quale ogni utente fa regolarmente uso, Wikipedia, proporrei qualche osservazione intorno a Myspace, Flikr e Youtube. Si tratta di piattaforme per il personal file-sharing dove gli utenti iscritti mettono in condivisione i saperi legati al nostro tempo: musica, immagini, video e informazioni in generale, secondo due principi, quello dell’upload (inserire dati realizzati personalmente o dati ripescati e rinvenuti altrove) e quello del download, appropriarsi delle informazioni messe a disposizione da altri, eventualmente manipolandole e rimettendole in circolazione.

Mai la cultura è stata più alla portata di chiunque e mai la cultura è stata più cliccata e perlustrata. Non volendo però cadere nel dilemma raffigurato da Umberto Eco negli anni Sessanta, cioè se si era dalla parte degli apocalittici o degli integrati rispetto all’uso della tecnologia, non intendo soffermarmi in questa sede sull’elencazione degli aspetti postivi e di quelli negativi. Di certo, però, va detto che le chance di raggiungimento di informazioni che ruotano intorno alla cultura intesa in senso ufficiale e accademico, così come di quella più legata alle culture giovanili, le cosiddette subculture, sono infinite se si frequentano i luoghi del web. Uno di questi è, naturalmente, la distopia di Second Life, definita da uno dei suoi studiosi metaverso (M. Gerosa, Second Life, Meltemi 2007), laddove il prefisso racconta tutta la molteplicità che l’universo così come lo conosciamo non riusciva a rappresentare. Qui artisti e gente comune, sotto le spoglie dei propri avatar, espongono opere che li hanno resi famosi e quotati nella First Life, la vita reale, proprio perché sono stati visti su SL. Un’artista fra le altre è Gazira Babeli, con le sue installazioni e performance: quella più nota ed esilarante riprende i barattoli di salsa Campbell à la Warhol rendendoli delle scatole magiche dove, se un avatar si avvicina viene risucchiato e shakerato prima di uscirne illeso! Ma, principalmente, SL è composta da innumerevoli gallerie virtuali e musei di arte classica e contemporanea. Uno di questi – fra i miei favoriti – è l’Odissey Art Gallery che ha lanciato tanti artisti e gioca sulla duplicazione del concetto di arte: posto che SL sia di per sé una grande opera d’arte con la sua dettagliata rappresentazione dello spazio immaginato come tridimensionale, le opere presenti in quest’isola della Sim sono spesso illusioni o avatar di avatar, ovvero simulacri. Come quello che campeggia svolazzando in aria al centro dell’Odissey Gallery e rappresenta il simulacro di Baudrillard, omaggio al grande filosofo che qualche avatar gli ha voluto dedicare pochi giorni dopo la sua scomparsa. Ironia e realtà della sorte di chi si era interrogato a lungo sul destino del corpo gettato nello spazio simulato. Claudia Attimonelli

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MUSICA

BEATRICE ANTOLINI 18 TIPI DA FESTIVAL


Il primo disco Big Saloon pubblicato dalla regina della psichedelica italiana Madcap records conquistò tutti con la sua freschezza, il suo fascino un po’ retrò e al contempo modernissimo. Beatrice Antolini si è subito distinta come un’artista capace di stendere un crossover tra i generi mantenendo un’ispirazione e uno stile assolutamente personale. Dopo le sue collaborazioni con Baustelle e Bugo esce in questi giorni A Due il suo nuovo, bellissimo, disco licenziato da Urtovox. Tantissimi elementi sembrano convivere in te, tanti che uno strumento non basta a tradurli tutti, questo nuovo album ti vede, di nuovo, suonare più o meno tutto. È urgenza espressiva o una necessità di rapportarti direttamente con le tue idee? È il modo più veloce che conosco per esprimere le mie idee musicali. Ho molte passioni, mi piacciono tutti gli strumenti, provo a confrontarmi con loro. Per adesso non sono ancora riuscita a suonare i fiati. Ma ci proverò. Il primo disco era magmatico, denso. Questo nuovo sembra in un certo senso aver messo le cose in ordine. Sono passati un po’ di anni da allora…quanto sei cambiata? Come vedi oggi le tue canzoni? Sono passati molti anni da allora, in realtà Big Saloon ha già 4 anni per me, in questi anni sono molto cambiata ma non credo di aver ancora “messo la testa a posto” o avere un ordine, diciamo che faccio le cose sempre con una certa spontaneità, magari adesso ho un po’ più di organizzazione, dal prossimo disco vorrei iniziare a togliere, fino ad adesso ho messo tutto. È strano pensare al rapporto che ho con le mie canzoni... la cosa più vicina per descriverlo è quella di pensare ad una parte del corpo, ce l’hai, è lì non la puoi cambiare ti piaccia o no è tua e te la tieni, più o meno con le canzoni è uguale, è come se fossero nate con te e per te. Approcciarsi al pop è sempre complicato, quanto diretto. Il tuo passato è fatto di studi classici ma anche di punk e new wave. Come ti avvicini alla scrittura? Ho sempre scritto pezzi più o meno pop da quando ho ricordi, quindi per me è un qualcosa di talmente naturale, da non dover mai pensare

di doverla fare, non so se mi spiego. Il disco ha un suono incredibile, a tratti sembra alieno, quanto è importante per te? Moltissimo! E ti ringrazio per questa domanda. I dischi importanti della storia hanno qualcosa di soprannaturale sia nella scrittura che nella produzione; ecco il mio obiettivo è questo, creare qualcosa di unico e riconoscibile, qualcosa che solo tu hai potuto fare in quel giorno a quell’ora e in quel momento con quello stato d’animo... La critica ti coccola, il disco era molto atteso, come vivi l’attenzione che c’è intorno a te? Mi fa molto piacere e sono contenta che il mio lavoro venga apprezzato, la vivo come un piccolo traguardo raggiunto ma sono sempre con lo sguardo verso il futuro, non mi adagio su nessun alloro; il mio lavoro è all’inizio. La dimensione live ti è certo congeniale, ho avuto l’occasione di vederti dal vivo e devo ammettere che non mi aspettavo tanta energia. Come vivi la band? Intanto grazie. Adoro suonare con altre persone. Sono molto contenta di suonare con le persone che vedrò domani alle prove! Credo molto in questa formazione. Ci stiamo divertendo. Questo disco segna anche il passaggio di etichetta, come sei entrata in casa Urtovox? Ho contattato Paolo (Naselli Flores ndr) e gli ho fatto sentire il disco. Tutto molto sereno, a lui il disco è piaciuto subito ed io ne sono stata felice. Dopo di che sono entrata nella bellissima casa in collina, dove mi ha dato il benvenuto un cane gigante. Ascoltando la tua musica è difficile identificare le tue influenze, cosa non smetteresti mai di ascoltare? Tutto quello che ho ascoltato! Lo riascolterei un miliardo di volte. Osvaldo Piliego

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POPULOUS Terminano i fragori estivi, l’aria si rinfresca con l’autunno alle porte, le nostre coste ritornano alla tramontana, padrona incontrastata di un inverno da spendere al caldo domestico; in tutto questo non possiamo non farci accompagnare da un tocco di matita per un disegno naif che porta con sè atmosfere newyorkesi: la nuova uscita di Populous (Andrea Mangia), l’artista di Sogliano Cavour, accasato nella berlinese Morr Music. Il suo terzo album, Drawn In Basic, questa volta è frutto di un intensa collaborazione con il newyorkese Short Stories (Mike McGuire) ed è uscito appunto come Populous with Short Stories. Abbiamo fatto una piacevole chiacchierata con Andrea Mangia su tutto ciò che riguarda Drawn In Basic e che lo circonda. Nei lavori precedenti hai ospitato vari amici che hanno collaborato con te, anche se i dischi sono usciti come Pupulous. Questa volta il disco esce come Populous 20 MUSICA

with Short Stories? Come è nata questa scelta? Le altre volte non si trattava mai di scrivere un brano insieme, erano sempre delle ospitate di amici che venivano a cantare, o suonare una parte di chitarra, non erano pezzi composti e scelti insieme. In questo caso a me e a Mike (Short Stories) è sembrato giusto rendere il lavoro una cosa comune, anche se poi in realtà la percentuale non è esattamente 50 e 50 perché i pezzi strumentali sono solo miei. Mike McGuire ha messo sola la voce o ha collaborato anche alla creazione dei pezzi? No, alla parte musicale si può dire di no, anche se lui ha suonato una chitarra su Royal gold, un korg su l’ultimo pezzo, ed ogni tanto ci ha aggiunto qualcosa. Però lui è stato importante perchè mi ha fatto scegliere i pezzi che poi sono andati sul disco. I provini erano molti di più.


Si dice che dentro quest’ album ci sia qualcosa di Postal Service, di Smashing Pumpkins, di My Bloody Valentine e Boards of Canada. Secondo te cosa c’è dentro? Io volevo fare una cosa abbastanza “ignorante”. Penso che il titolo sia abbastanza esplicativo. C’è dietro tutta l’idea del collage, stile asilo; Drawn in Basic potrebbe voler dire “disegnato in modo semplicistico”, Drawn vuol dire disegnare e quando tu disegni ci sono spesso degli errori, mentre Basic è uno dei primi software di programmazione. Volevo dare questo effetto un po’ antiquato al tutto e nello stesso tempo un po’ ludico, anche perché ho ascoltato molto Raymond Scoot e Bruce Haack che avevano questo spirito ludico ed allo stesso tempo quasi… diabolico. I riferimenti che si usano nella descrizione del disco li capisco solo in parte. Discorso a parte per gli Smashing Pumpkins: Siamese Dream è il mio album preferito di sempre e Mike si potrebbe dire che ha una voce un po’ simile a quella di Billy Corgan perché è un po’ efebica, nasale ed acuta. Inoltre le atmosfere un po’ sognanti di quel disco potrebbero rimandare al mood di alcuni mie brani. Almeno spero. Abbiamo usato anche molte chitarre e suoni distorti che fanno venire in mente, per forza di cose, certo rock primi anni ‘90. Decisamente c’è qualcosa di rock, più degli altri album. Anche l’elettronica sperimentale mi sembra ridimensionata, non voglio dire messa da parte, ma comunque limitata. Mi sembra invece che guardi molo verso le sonorità pop. Certo, anche nell’elettronica la scelta di usare un certo tipo di beat (che a un fan degli Autechre potrebbero sembrare preistorici) in realtà è una cosa voluta. Non volevo usare miriadi di glitch ma volevo fare qualcos’altro, un po’ più semplice e naif, infatti mi sono servito di Drum Machine non più moderne degli anni ‘80. E l’hip hop? L’hip hop io lo sento, ogni giorno, ci sono proprio dentro fino al collo. Lo sono sempre stato. Semplicemente, i primi due dischi erano una sorta di studio sulla contaminazione che si poteva fare con l’hip hop. Nel primo c’era il glitch, mentre il secondo era più una sorta di hip hop psichedelico mischiato con quei suoni un po’ “dreamy” degli anni ‘60. Questo disco invece non era nato per essere “groovy” come un disco di battiti hip hop. Quando ho avuto l’idea di fare sto disco era un… “periodo bianco”, chiamiamolo cosi. Anche se durante la realizzazione del disco

ascoltavo lo stesso qualsiasi cosa, dal sirtaki a Madlib. Argomenti dei pezzi? Quando discutemmo sugli argomenti dei testi siamo stati d’accordo sul tema ambientalista. I suoi testi, non privi di speranza, sono una sorta di monito a tutta una serie di comportamenti umani legati all’ambiente ed allo spreco dell’energia. Sono testi molto coscienziosi e ricchi di metafore. Qualche volta Mike c’è andato giù pesante con descrizioni del mondo tra trent’anni, città post atomiche etc. Mi ha ricordato molto Thom Yorke per alcune prese di posizione. Questo numero di Coolclub.it è dedicato ai luoghi della cultura… quali sono i luoghi che ti hanno ispirato? Per intenderci parlo di luoghi reali o luoghi della mente… Immagino che ci siano tutti e due. I luoghi della mente sarebbero tantissimi, sarebbe spiazzante rispondere ad una domanda del genere in quanto bisogna provare a ripensare a ritroso alle cose che immaginavo mentre lavoravo ad un pezzo. Ho sognato spesso di confrontarmi con tutta una serie di personaggi storici dell’elettronica, magari di parlarci e di stare con loro nei loro studi di registrazione primordiali, con quei synth con le manopole grosse quanto arance. Non come adesso che magari compri un Apple da 12pollici, ci monti Reason e Cubase ed hai il tuo piccolo studio. Questi erano veramente luoghi della mente che mi facevano pensare a quanto fosse eccitante per loro confrontarsi con queste cose. Poi tra i luoghi “reali” direi New York. Rimane un luogo importante per la lavorazione del disco: lì ho conosciuto meglio Mike ed abbiamo approfondito i pezzi del disco. Poi, ovviamente, casa mia. Non sarà un luogo di cultura come il Louvre ma è dove sono nate tutte le mie idee. Non a caso nel booklet del cd abbiamo scritto che il disco è stato registrato tutto in casa, nei nostri rispettivi appartamenti: New York e Lecce. Ho letto sul tuo myspace che potrebbe essere il tuo ultimo disco. Sì, perché ho avuto dei problemi di salute che, a quanto mi hanno detto, erano collegati anche ad uno stato mentale di stress, collegato all’iperattivita. Una sorta di “sindrome del manager”. Mi hanno detto di prendere un periodo di pausa e vedere come andavano le cose. Questo va vanti da Gennaio e non è che io abbia risolto granché, anche se indubbiamente ci sono stati dei miglioramenti. Dopo aver fatto il MUSICA 21


disco con Matilde, uscito da poco come Girl With the Gun (che mi ha assorbito non poche energie) e Drawn in Basic dove ho dovuto rispettare scadenze e varie deadlines… diciamo che mi stava quasi per venire un esaurimento nervoso. Quindi ho avuto un problema ad un occhio. A quel punto ho detto “basta!”. Se fare musica deve essere fonte di stress allora smetto. E’ una cosa che indubbiamente amo, diciamo che però è una sorta di amore “morboso” e deleterio. Non tutti gli amori fanno stare bene. Quindi, se questo deve mettere a rischio la salute… vaffanculo a tutto e tutti. La salute prima di tutto! Ovvio che ora non escludo che tra un po’ mi passa tutto e mi torna la voglia. Ma per il momento la mia priorità è finire l’università. Pochi obiettivi per volta. Questo è il mio nuovo karma. Mi hai parlato del disco con Matilde Davoli. Che tipo di lavoro è e quando uscirà? Il disco esce è appena uscito per la Disastro, che è l’etichetta de Il Genio, quindi “tutto in famiglia”. Il disco è totalmente diverso da qualsiasi cosa io abbia fatto ed è un disco di folk e canzoni d’autore. Naturalmente c’è una componente minima di elettronica e suoni trattati, un tocco un po’ avanguardistico insomma. Per il resto folk contaminato da jazz e soul. Ci sono delle nenie acustiche con un sacco di ospiti dentro: essendo un disco per la maggior parte “suonato” abbiamo avuto il piacere di avere un sacco di musicisti con noi in studio. Era un disco che inizialmente doveva uscire per la Morr, solo che loro volevano usare solo il nome Populous. Non mi sembrava giusto. Il lavoro è frutto di un collettivo che comprendeva anche Matilde, Giorgio Tuma, Short Stories… C’è tanta gente che ha collaborato, non era assolutamente giusto quello che dicevano. Tra il “marketing” (hanno usato questa parola per giustificare la scelta di usare il mio solo nome) e gli amici, mi tengo gli amici. Hai collaborato con Pleo nel lavoro Echoes of the whales. Avete ancora progetti futuri insieme? Si, è chiaro che se starò bene mi farà tanto piacere. Pierpaolo è un mio carissimo amico: mi fa sempre piacere stare con lui. Mi aggiorna spesso su un sacco di nuovi software, è sempre una figata stare con lui in studio. È chiaro che se fisico e (soprattutto) mente mi accompagneranno sarà un mio desiderio continuare la collaborazione. Federico Baglivi

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AUGURI Si intitola Love Hotel ed è uscito a ottobre in Italia e in Europa per Pippola Music e in Giappone per Flake Records il primo album dei Superpartner. La band, da anni tra le più attive della prolifica scena salentina, arriva al grande e importante passo della produzione e della distribuzione. Dopo aver conquistato Federico Fiumani (Diaframma) sono pronti ad ammaliare tutti con la loro miscela di pop in agrodolce. Noi di Coolclub.it non potevano non intervistare il nostro “superamico” Francesco, leader della band. Un lungo percorso prima dell’esordio discografico, ci racconti un po’ le origini? Origini che coincidono con il fermento della scena indie salentina, che ricordi hai di quel periodo? I Superpartner sono nati da un mio progetto nel 2003. Da tempo volevo formare una band pop dalle sonorità che richiamassero i Cardigans o gli Smiths, ed ero quasi riuscito nell’intento, tra il 2000 e il 2001, coinvolgendo proprio Rosita, all’epoca giovanissima, ma facemmo solo qualche prova sporadica, poi sfumò tutto e ci perdemmo di vista. Così abbandonai temporaneamente quell’idea e formai una nuova band, in cui cantavo, i Nudicorpi, con la quale sono stato impegnato fino all’autunno del 2002. Con i Nudicorpi partecipammo ad una serie di concorsi, tra cui Arezzo Wave, proprio nel periodo in cui la scena indie salentina era in grande fermento. Molti erano i locali che davano la possibilità di suonare dal vivo, ogni settimana c’era qualche concerto da vedere, e vennero a galla gruppi come Negramaro, Valvole Davoli (oggi Studiodavoli), Evagarde, etc. Frequentando gli stessi posti e gli stessi concerti nacquero inevitabili amicizie, frequentazioni e collaborazioni tra musicisti. Nel mio caso di rilevante importanza fu l’amicizia con gli Studiodavoli e Giorgio Tuma. Passavamo molte serate insieme, ci si incontrava spesso dopo i concerti, si andava a bere, si cenava assieme. E’ un periodo che ricordo con moltissima nostalgia. Quando i Nudicorpi si sciolsero accarezzai nuovamente l’idea di formare una band con la voce femminile, così scrissi le prime canzoni e provai a coinvolgere Matilde e Gianluca degli Studiodavoli, con i quali facemmo


SUPERPARTNER anche qualche prova, insieme a Osvaldo degli Psychosun alla batteria e Gianluca Quarta al basso. Il nome “Superpartner” mi fu suggerito proprio da Gianluca “Davoli”. Gli Studiodavoli in quel periodo erano ormai prossimi all’esordio discografico, e questo mi spinse a cercare nuovi collaboratori con cui portare avanti il progetto. Così dopo qualche tempo arrivò Giorgia Libardo alla voce, con la quale realizzai il primo demo, Microfilm, nel giugno del 2003. Eravamo solo noi due. La formazione in seguito si ampliò e subì diversi cambiamenti. Quello più importante riguardò proprio Giorgia che, costretta ad abbandonare il progetto, fu sostituita da Rosita. Molto è cambiato da allora… come si è evoluto il vostro sound? I cambiamenti maggiori hanno interessato soprattutto la formazione del gruppo, che fino ad oggi è cambiata praticamente ogni anno. La compattezza e una certa stabilità è stata raggiunta solo nel 2006, con l’arrivo di Cristiano Longo, Vincenzo Carluccio e Francesco Fiore. Il sound è restato abbastanza fedele a quello dell’idea iniziale, ovvero un suono ricco di influenze legate da un unico filo conduttore: la melodia e la malinconia. Non c’è mai stata una direzione precisa da seguire in fase di scrittura, le canzoni sono nate e nascono sempre in modo molto spontaneo e naturale. Sicuramente c’è stata una crescita, nei brani di recente composizione c’è maggiore personalità, ma questa è una mia impressione ovviamente. Avete una predilezione per i suoni vintage, per atmosfere pop dal gusto retrò, quali sono i tuoi ascolti? Resto sempre molto affezionato agli ascolti che ho fatto durante la mia adolescenza, oggi ascolto sempre meno musica nuova, un po’ per pigrizia, un po’ perché il mio impianto hi-fi ha deciso di spegnersi definitivamente, e un po’ perché sono sempre meno le nuove formazioni che riescono a donarmi delle belle emozioni. Tra gli ascolti “storici” importanti ci sono i Beatles, i Velvet Underground, Beach Boys, Cure, Nirvana, Smashing Pumpkins, Smiths, Cardigans, Pulp, Suede, Television, Sonic Youth, Pavement, Pixies, molti dei gruppi che facevano parte del

CPI, i Diaframma, i primi Litfiba, i CCCP, e molti altri... Tra gli ascolti più recenti non posso non citare gli ultimi Blonde Redhead, gli Air, gli Stereolab, i Baustelle, Ennio Morricone, e tanti altri compositori di colonne sonore. La musica dei Superpartner attinge sicuramente tantissimo dalle sonorità degli artisti citati, e il risultato è una bella insalatona quindi…

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MUSICA A FUMETTI Davide Toffolo, leader dei Tre allegri ragazzi morti, racconta il suo nuovo progetto 24


Esce in questi giorni Cinque allegri ragazzi morti, primo di tre volumi a fumetti partoriti dal geniale Davide Toffolo. Sono le storie che hanno dato vita alla band rock Tre allegri ragazzi morti, altra anima di questo grande autore capace di creare un immaginario assolutamente travolgente e intenso. Storie che guardano al lato oscuro dell’essere eterni adolescenti, che raccontano sentimenti a cuore aperto, storie semplici e piene zeppe di poesia. I Tarm esordiscono alla fine degli anni ’90, proponendo un inedito connubio tra musica e fumetto in Italia. Qualche anno dopo Damon Albarn dei Blur e l’illustratore Jamie Hewlett (papà di Tank Girl) creano la band animata dei Gorillaz, tra i quali spicca il bassista zombie, come i tuoi allegri ragazzi morti. Pensi d’aver, anche indirettamente, influenzato i Gorillaz? Ho parecchi rapporti all’estero, ma non sono mai stato in contatto con i Gorillaz, e non ti so dire se il mio lavoro sia stato d’ispirazione, ma non credo. Quello che so per certo è che l’idea degli Allegri Ragazzi Morti mi frulla in testa dal 1993, ed ho prima realizzato il fumetto per Marvel Italia e poi creato il gruppo. Naturalmente i Gorillaz rappresentano il trionfo della creatività del fumetto, in un posto dove le idee non sono penalizzate, come spesso, invece, accade in Italia. Dunque, credi anche tu che in Italia il fumetto sia ancora ingiustamente considerato come mero intrattenimento per ragazzi? È un po’ più complesso come discorso: in Italia i fumetti sono considerati un oggetto culturale pop e ciò non è assolutamente un male, anzi… La storia del fumetto italiano è diversa da quella della Francia o degli Stati Uniti. In ogni caso, il fumetto in Italia ha un suo peso culturale importante. Quando hai capito che volevi fare il fumettista? Cosa ti ha influenzato? Da bambino leggevo molti fumetti Marvel, allora pubblicati dalla Corno Editore; una lettura per bambini ricca di mondi immaginari improbabili e poco realistici e proprio per questo così affascinanti. Poi, avendo avuto la fortuna di essere ragazzo in un periodo particolarmente fervido, a 13 anni leggevo Frigidaire. Nel frattempo, sin da piccolo, ho sempre disegnato e poi durante le medie ho vinto un concorso, il decennale di Alan Ford, nel quale si cercavano nuovi disegnatori per la collana di Max Bunker. Naturalmente ero troppo piccolo, ma tutti, me compreso, si rendevano conto che disegnavo sopra la media dei bambini. Poi da Pordenone ti sei spostato a Bologna che in quegli anni era una città in fermento, politico ed artistico. Sono arrivato a Bologna per frequentare un corso curato da gente del calibro di Magnus, Igort, Mattotti. Perciò la mia formazione professionale è

stata profondamente arricchita, non solo a livello fumettistico. Anche musicalmente ho incontrato molti artisti. A Bologna ho iniziato a suonare in un gruppo punk: Il complotto. Sin dall’inizio della tua carriera, la musica e il fumetto sono state intrecciate? La mia è un’esperienza biografica: sono un disegnatore che fa anche il cantante. Suono punk perché è l’unica musica che potrei fare, avendo iniziato tardi a suonare, ed il genere punk mi permette di prendere uno strumento e di fare quello che voglio. Musica e fumetti hanno in comune una certa immediatezza. E l’idea degli Allegri Ragazzi Morti com’è nata? Gli Allegri Ragazzi Morti sono un omaggio alle letture della mia infanzia, “TNT”, “roba Marvel”; in particolare, l’idea di base è un personaggio zombie della Marvel, Simon Gard, pubblicato negli anni ’70 sul Corriere della Paura. Quando ho iniziato a lavorare su questo progetto, a livello fumettistico, ho immaginato la mitologia dei Ragazzi Morti, tutta imperniata sull’Adolescente Eterno, che, come lo zombie, è un paradigma della cultura collettiva occidentale. Un’altra opera molto interessante, oltre ai Ragazzi Morti, è la graphic novel Pasolini. Un progetto particolarmente coraggioso ed audace, vista anche la scelta di affrontare una figura come quella di Pasolini attraverso l’illustrazione. Pasolini è nato dall’esigenza di impegnarmi nell’esperienza di un certo tipo di scrittura. Ho affrontato lunghe ricerche sull’artista, prima parlando con le persone vicine a lui, ma ciò mi sviava; perciò ho deciso di proseguire attraverso la documentazione a lui dedicata. È stato, sino ad ora, il mio libro più fortunato e mi ha dato una certa notorietà in Francia, dove l’originalità è più apprezzata rispetto al nostro paese. Ora per Coconino Press riesce cronologicamente tutta la produzione fumettistica degli Allegri Ragazzi Morti con in ogni volume un Cd annesso. Ma il fumetto non era già stato pubblicato per Panini Comics? Il rapporto con la Panini si è interrotto molti anni fa. Essendo state tutte le mie ultime opere pubblicate da Coconino Press, volevo presentare un oggetto che unisse l’esperienza degli ultimi dieci anni, ovvero fumetti e dischi, qual è stata quella degli Allegri Ragazzi Morti. Inoltre lavorare con Coconino è più interessante, poiché, essendo un editore piccolo, dà più possibilità d’avere libertà creative per elaborare oggetti artigianali, lontani dalla grande industria. Ed io sono attratto da tutto ciò che è underground. Roberto Cesano MUSICA 25



DOV’È RICHARD WRIGHT? A 65 anni è scomparso il tastierista dei Pink Floyd Se non fossimo in un mondo in cui le ascese sono vieppiù motorizzate diremmo che la vita è fatta a scale. Nessuno lo sa meglio di un pianista (o di Escher). Bene, Wright. A precipizio, ruzzolato dove non si sa il dove. Dov'è Wright? Nei claustrofobici sintetizzatori dal suono ottuso e circolare, nelle sequenze tenui e sfiorate al tocco dei pianoforti, nei dondolati arabeschi psichici degli organi, nelle trasformazioni di tutti questi strumenti giocate ad effetto acceso? E tutto questo sarebbe ciò in cui egli è? Ora che, a sentirci bene, più non c'è? Ecco che ci coglie l'idea romantica della fine, il delicato pensiero del non pensiero, l'altrove bambagia, la morte soffio, ecco. Eppure si darebbe le vita, volentieri, in cambio d'un nembo di cori verdiani. Certo, bisogna che si sia leggeri, i nembi, si sa, vanno giù al primo dubbio sentimento. Perciò vi lascio immaginare Richard di tra il superno litore d'un astro, e intanto riconsidero però ch'egli è morto, per essere coerente con la mia ingombrante e greve natura di gozzaniana formica. Del resto, Richard l'aveva presentita, questa natura ambigua e aperta dell'inesausto problema dell'infinito: any colour you like. Che colore preferisci? Un brano che solo un bimbo può apprezzare appieno, ancora inedotto sulle leggi che regolano l'antimateria e lo spazio, con lo sguardo fesso alle scie di stelle; che colore vuoi? Musica che non si fa colore, perché li contiene tutti, musica da fisica quantistica. Meglio la qualitistica? Wright ha scritto poco, ma tanto buono. Basta? Sarebbe sufficiente a dare una certa quale idea della luccicante sensibilità del nostro Richard. Ma le righe sono ancora poche, il pezzo sarebbe potuto finire, pensavo di avere più cose da dire (vedi Time), perciò si dica. Gli esordi furono fluidi per tutti i Floyd, Wright non escluso. Quell'organo Farfisa (ahi serva Italia, di dolore ostello / non più farfisa organici

produci / ma frotte di citofoni in bordello) duplicato dai nastri d'un effetto eco dei primordi (Binson) sapeva già che l'arabia non era solo favola per il pop. Ed ecco un organo cantare un bosco di cinciallegre. Facile? A farlo per primi facilissimo, è a copiarlo che riesce sempre più complicato. A Wright piacevano le cose semplici, era un musicista tenue, mai lasciatosi tentare dal virtuosismo (poco virtuoso, dunque dannato?), precursore di un'elettronica morbida e avvolgente (anche gli Air sono in lutto), pianista dal tocco delicatissimo, uomo dalla voce color sabbia, dalla grana corale, compositore di rara raffinatezza. Tante qualità perdute. Che ne sarà del mondo ora? Summer 68, Alan's psychedelic breakfast, Saint Tropez, Us and Them, The great gig in the sky, se volete ascoltare come si fa a fare giganteggiare un pianoforte discretissimo, e per farvi piacere un poco di più il mondo. La suite di Atom heart mother, o Sysyphus (in Ummagamma) per vedere in che misura il maestro Stockhausen fu capace di fare proseliti. Non si sfugge dalla macchina synth in tutto Wish you were here, benvenuti, anzi, tutti, nella macchina. Tanti rimandi colti, anzitutto, da cogliere. Ma la morte squalifica l'uomo (lo espelle dal pianeta) e rende l'opera tradizionale, consueta: tradimento di milioni di orecchie in ascolto. Come sapere cosa sia davvero ogni singola nota di Richard? Inutile ogni dire, questo mio incluso. Via, ma con lo scafandro spaziale, a distorcere le stelle in Interstellar Overdrive, così come quando si guarda la notte da ubriachi, e gli organi elettrici alterati sono quelli sensoriali. Left and Wright, zigzagando per la strada di casa, e cosa è cosa? E chi è chi? A letto, solo il sonno può cancellare la sbornia. Wright, notte. Gianluca De Rubertis

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WIRE Object 47 Pink Flag

I Wire non intendono replicare. Il “47° oggetto” della band inglese abbandona le asperità noise degli ultimi lavori in favore di una personale visione del pop. Non è una novità che ogni loro proposta rappresenti un episodio a sé stante, sia esso vicino al pop, all’iconoclasta furia del post-punk o alle strategie dell’avanguardia più rock. La loro seconda giovinezza, ridefinita dall’album Send (2003) e dalla serie di EP dal titolo Read & Burn trova un altro ideale picco nel nuovo Object 47. Sono in giro fin dal 1977 i Wire e in fondo, a ben guardare, con quella loro musica incandescente e sparata tutta d’un fiato, non sono mai stati realmente punk, anche se giudicati una secca risposta alle esagerazioni del progressive che in quel periodo aveva portato all’esasperazione i teen-ager di Sua Maestà. Ma ciò non è bastato per poterli allineare a quei “farabutti e cialtroni” che erano i Sex Pistols, alle lancinanti litanie della regina del gothic Siouxsie o agli incendiari e rivoluzionari Clash. Erano altro i Wire: molto più psicotici e per certi versi anche più provocatori. Object 47 è il primo lavoro dei Wire da cinque anni a questa parte. Lo stato dell’arte in un CD di 28 MUSICA

canzoni dall’enorme potenziale. Avanguardia? Dai, non scherziamo! Sono, anzi, quasi uno stravagante e psicotico incrocio tra pop e rock… tra Soft Boys, New Order, Nine Inch Nails e persino Massive Attack. Mica poco per questi signori ultra 60enni che, professatisi in gioventù punk, oggi provano ancora il piacere di stupire! Camillo “RADI@zioni” Fasulo

THE BOWERBIRDS Himns For A Dark Horse Dead Oceans

Spolverate tamburi e chitarre: ad un simile falò non siete mai andati! Questi uccellini contagiano tristezza ed euforia, iniettano speranza, danzano e cantano in coro all’insegna di un circo freak minimalista, confessionale e travolgente. Per chiarire il motore sonicospirituale che anima il lavoro e gli scenari immaginifici delle canzoni, diremo che i tre del N.Carolina vivono in roulotte nel mezzo della natura; scrivono canzoni dal sapore passatista che vantano un’energia sublime, un sensibile approccio angolare e farebbero invidia a qualunque artigiano sonoro. Si cavalcano emotività e introspezione allo stato brado, evitando fronzoli o schemi, siano essi jazz, post, avant o noise. Pochi

strumenti acustici, molta ispirazione e sincera creatività. InOurTalons è il manifesto che si erge a guidare un lotto senza cadute di tono: “No, amici, non siete soli; credetemi, anche noi eravamo spaventati… ci vuole coraggio per distruggere questa meravigliosa terra… siamo solo Umani: questo, almeno, lo abbiamo imparato”. Tobia D’Onofrio

PORT’O’BRIEN All We Could Do Was Sing City Slang

Dietro questa fresca ed ispirata raccolta a nome Port’O’Brien si celano una panettiera e il figlio di un pescatore dell’Alaska: il loro versatile ed autobiografico folkrock viaggia alternando densa introspezione a incontenibile esuberanza; mischia le influenze a tribalismi e cori effervescenti come in apertura; le sonorità citano indie-folk, noise, lo-fi dai ‘90, punk e rock dai ‘70 sposando una buona cura degli arrangiamenti. Si scorgono Pixies, Television e tanti altri, ma si avverte una certa cifra personale; la scaletta ben strutturata non concede scivoloni. InVinoVeritas sembra CatPower, Fisherman’sSon scatta l’istantanea intimista di Van che emula WillOldham, WillYouBeThere? è una ninnananna per sciogliere i cuori di pietra mentre RooftopS è catarsi NeilYoung-iana. La musica scalda, ipnotizza, poi commuove e la scrittura sobria


VINICIO CAPOSSELA Da Solo Warner Music

Dopo i bagordi sonori di Ovunque Proteggi, Vinicio Capossela torna con Da Solo. E il titolo è già tutto un programma, un progetto, una idea di quello che uscirà dalle casse del proprio stereo. Un cd intimo, nei testi e negli arrangiamenti, che conserva intatti tutti i pregi del cantautore girovago, il più indefinibile della “nuova” generazione italiana che ormai si è trasformato in un classico. Vinicio ormai può tutto: i suoi dischi sono acquisti sicuri (e in un periodo di crisi complessiva non è poco). Arrangiamenti scarni, con prevalenza del pianoforte, testi come al solito spiazzanti tra citazioni colte, un immaginario che non ha eguali, personaggi a volte indecifrabili, la capacità di esprime sentimenti semplici (come l’amore) senza mai essere banale, un lessico che ti conquista. Tra gli ospiti (nella traccia La faccia della terra) anche gli statunitensi Calexico. Pierpaolo Lala e intelligente affiora sorniona dalle liriche. Il titolo, ripreso in coro dall’incipit, sigilla lo spirito dell’opera: “stamattina... potevamo soltanto cantare…” Meno male che hanno pure registrato… Tobia D’Onofrio

BECK Modern Guilt Xl recordings

Ho in testa una scena, Beck che si accinge a fare alcune

telefonate. Prima chiama i Dust Brothers: “Ehi siete liberi, devo registrare!”. Niente da fare. Chiama Nigel Godrich, “No amico sono pieno di lavoro!”. Allora gli viene in mente Danger Mouse. “Ehi vorrei farti sentire i miei ultimi demo. Lavoriamo insieme? O.K. fratello!”. Beck gestice più o meno così le sue incisioni, sceglie i produttori in base alle loro disponibilità. Danger Mouse è l’uomo giusto, il produttore del momento, fa rialzare Mr. Hansen dopo un album molto poco convincente e prolisso come The information, in cui traspariva confusione ed incertezza, buttato lì forse per terminare il contratto con la Interscope records. Modern Guilt, su etichetta Xl recordings, è fresco, limpido e sincero, ha la lunghezza giusta, non annoia, lo metti su più e più volte. Affiorano le caratteristiche stilistiche che fanno amare Beck: blues,

rap, sixty, hippy rock. In tutti i brani i beats di D.M., tranne nella ballata emozionante Chemtrails dove si sente l’unica batteria vera, quella massiccia di Joey Waronker. Trovate particolari come un leggero sottofondo orientale in Walls, con un drumming sincopato, e il drum & bass di Replica fanno apprezzare questo disco. Infondo Beck è Beck, non può essere diverso, cambiare totalmente rispetto a se stesso. Ed ammalia, come nel finale di Volcano, raccontando la storia di una japanese girl che si fionda nella bocca di un vulcano. È intimista Beck, guarda al mondo con occhi malinconici cullando una piccola speranza. Dieghost

METALLICA Death Magnetic Mercury

I grandi artisti di fama storica ed internazionale come la fanno, la sbagliano. Specie quando, come nel caso dei Metallica, sfornano un’opera ogni cinque anni alimentando un’attesa insostenibile per i loro fans. Come ogni volta che i “four horsemen” sfoggiano un nuovo lavoro, da circa dieci anni a questa parte, vi è una divisione di correnti di opinione tra i loro ammiratori: chi è entusiasta per una degna prosecuzione della loro carriera, e chi invece vorrebbe la novità. Ma questa è una questione dalla quale MUSICA 29


è quasi impossibile venire a capo. Quindi ci accingiamo ad analizzare quanto più obiettivamente possibile un album che vede questa storica band al ritorno alla loro dimensione trash. Lasciato alle spalle il lavoro di produzione di Bob Rock in St. Anger ci troviamo con la collaborazione del produttore Rick Rubin (Slayer, System Of A Down), che ovviamente ci riporta alla dimensione rock-metal persa dai Metallica lungo la strada. Quindi già dal primo arpeggio di That was just your life iniziamo ad annusare il preludio che ci porterà verso ritmiche serrate, riff di chitarra “old school” e stacchi apparentemente da capogiro, ma che l’ascoltatore medio è ormai troppo abituato a sentire. In definitiva Death Magnetic scorre liscio e senza troppe stravaganze, con quelle sonorità che cercano di rimarcare “masterpieces” come Kill’em all o Muster of puppets ma, nonostante ciò, non riescono a rendere degnamente il risultato di cinque anni di lavoro. Enrico Martello

LYKKE LI Youth Novels LL recordings

qualche fonte di originalità. La svedese, classe ’86, è infatti un mix piuttosto azzeccato ma nient’affatto innovativo di Bjork, The Knife, Lolita e un goccio lesbo-friendly delle dimenticabili Ta.Tu. Ed è forse per questo che tutti ne parlano: la carica sensuale, giusto per tenerci sugli eufemismi. Ma sarebbe riduttivo associare Lykke a una macchina da soldi, per quanto ci si dovrebbe preparare all’evenienza. L’album infatti presenta alcune ovvie banalità nordicpop, ma numericamente sono le buone intenzioni ed intuizioni ad avere la meglio. Soprattutto nel finale (ma chi le fa le scalette?), nella terna inaugurata dal singolo per il mercato europeo, Breaking it up, e completata da Time flies, che rende Lykke ancora più giovincella disperata, e Window Blues in cui si mette pure a cantare in francese. È un’opera prima, e il futuro è questa volta indecifrabile. Potrebbe diventare una star o una meteora assoluta; molto più probabilmente sarà la cantante che piace alla gente che piace. Se volete darvi un tono, ecco il nome giusto: Lykke Li. Oltre a fare i fighi, avete anche un buon prodotto tra le mani. Dino Amenduni

JOAN OF ARC Boo! Human Polyvinyl records

Lykke Li è il personaggio del momento sui blog musicali. Non credo che il motivo di questa sovraesposizione tra gli appassionati e gli addetti ai lavori sia dovuta a una 30 MUSICA

Il prolifico cantaupost-rocker di Chicago scrive un lavoro compatto, equilibrato e organico in apparente antitesi con la sua arte obliqua e sconnessa. Un secco incipit confessionale spiana il terreno alla Pulzella d’Orlèan, che coltiva avantfolk e costruzioni math, rielaborando GastrDelSol, Tortoise e WillOldham. Gioca con jazz, lo-fi, noise ed elettronica in pezzi che durano

da 26 secondi ad oltre 7 minuti; al cospetto di un’indubbia ispirazione, sono soprattutto l’urgenza espressiva e l’attenzione verso dettagli e arrangiamenti ad impreziosire un’opera di vibrante impatto emotivo. Più accessibile e lineare dei precedenti, l’album esibisce comunque la sfuggente scrittura di Tim, che ama sottintendere, insinuare, suggerire più che palesare; e che tocca nel profondo più di quanto ci si aspetti da una musica così intellettuale. Musica colta, certamente; ma non fredda: spontanea e immaginifica, sobria e inafferrabile all’unisono, cruda nella sua matematica complessità. Ma che varrebbe a poco, se non fosse anche tanto emozionante! Tobia D’Onofrio

COSTANZA Sonic Diary Zerokilled

Costanza Francavilla è italiana, romana per l’esattezza, ed è l’autrice del disco Sonic Diary,


lavoro preceduto da un primo ep e un’ intensa e lunga gavetta in giro per il mondo con niente meno che Tricky, colui che sul finire del secolo ha movimentato il sottofondo musicale inglese e non solo, insieme a Massive Attack e Portishead. L’artista inglese diventa il padre artistico per questi lavori da solista dell’artista romana. Melanconico e cerebrale, un trip – hop dolcificato dalla voce suadente di Costanza. All’ascolto si accumulano ricordi del periodo di Love in the Time of Science, Emiliana Torrini. Un trip-hop che si rifà il trucco con beat post duemila. Quindici tracce, tutte interessantissime, che strizzano l’occhio al rock, una cover di Rino Gaetano in chiave elettronica con lo zampino di Riccardo Senigallia, I tuoi occhi sono pieni di sale e Promises, una cover irriconoscibile dei Fugazi. Tra le mie preferite I am ready. Un’ ottima prova per la cantautrice e compositrice. Dopo anni di attesa arriva Costanza a chiamare bugiardi coloro che dicevano che il triphop è ...ops… era morto. Federico Baglivi

THE NEW YEAR The New Year Touch and go

Si presenta con la solita sobrissima veste grafica il

FLEET FOXES Fleet Foxes Sub Pop

Pare che i FleetFoxes siano cresciuti a pane e country-folk. Lo dimostra la disarmante naturalezza con cui citano C,S,N&Young e BeachBoys. Cori gospel e acide armonie vengono intrecciati e assemblati con una sensibilità contemporanea propria della generazione weirdfolk. Melodie e arrangiamenti sono trascinanti ma misurati, e non solo: i ragazzi costruiscono architetture con cambi irresistibili e psichedelici, ma non si rifugiano nell’improvvisazione, mantengono, anzi, una compostezza serafica, lasciando che il viaggio lisergico proceda per giustapposizione di immagini suggestive e trattenendo per le briglie una forma-canzone dagli sviluppi cinematici. YourProtector è il pezzo pop che i Coldplay hanno più volte sognato di scrivere, mentre la trilogia iniziale è una sequenza mozzafiato. In verità, dopo ripetuti ascolti, quest’album apparentemente innocuo si rivela splendido come pochi. Storcere il naso, stavolta, è impossibile: sono di Seattle e ce l’hanno fatta. Questo è il disco che tutti stavamo aspettando! Tobia D’Onofrio terzo lavoro dei The New Year, alfieri di uno slowcore tra i più ispirati degli ultimi anni. La band stelle&strisce capitanata dai fratelli Kadane, e sorta dalle ceneri di una cult-band come i Bedhead, non sposta di una virgola il suo campo di interesse: al contrario, propone un lotto di canzoni dalle melodie struggenti rette da trame chitarristiche non scontate, miscelate ancora una volta da Steve Albini. Peraltro i nostri, ben consci che la propria alchimia musicale regge solo se ben dosata, abbandonano velleità da suite (34 minuti per 10 tracce) e si concentrano sulla sostanza (ergo, la melodia). L’incedere ipnotico di Folios, posta in apertura, va ha braccetto con la stagione che arriva tanto e carica di malinconia ottobrina e la lirica Wages of Sleep richiama più il folk inglese che il post-rock.

Non mancano momenti di nervosismo chitarristico certo, ma sono l’indolenza e il lirismo, complice anche il ruolo del pianoforte, il tratto distintivo di queste canzoni. Ilario Galati

ELI “PAPERBOY” REED & THE TRUE LOVES Roll With You Q Dvision records

Complicato parlare di questo disco. Anzitutto perché, a partire dalla copertina, sembra essere uscito almeno 40 anni fa. Eli Reed è solo l’ultimo di un nutrito gruppo di musicisti che, non temendo di risultare passatista, torna al soul vero. Non quello che impazza nelle charts (soprattutto americane), e che spesso e volentieri rappresenta il peggior pop in circolazione. E nemmeno quello MUSICA 31


da cameretta, immerso in calderoni elettronici che dopo un paio di mesi suona vecchio e fastidioso. Eli parte dalla vera musica dell’anima, con un corredo sonoro che tira in ballo i grandissimi: da Otis a Sam Cooke, da Wilson Pickett a Sly, ogni pezzo di questo Roll with You è un tuffo nel passato tanto ‘puzza’ di Motown. Ed è anche un bell’inno alla negritudine, per quanto il giovanissimo Eli (è nato 24 anni fa in Massachusetts) sia piuttosto palliduccio. Il soul però ce l’ha nelle vene, ed è assecondato da una backing band enorme, questi True Lovers di cui non so praticamente nulla, ma che hanno una sezione di fiati notevolissima. In definitiva, una manciata di canzoni perfette (o quasi) nel loro omaggiare una grande stagione della musica nelle mani di un imberbe ragazzino di provincia che, in un momento particolarmente favorevole, sembra essere il più accreditato cerimoniere di questo revival. Ilario Galati

CALEXICO Carried to Dust Quarter stick

C’era parecchia attenzione intorno a questa nuova prova dei Calexico: dopo Garden Ruin la band di Joey Burns e John Convertino sembrava arrivata ad un bivio. Messa da parte la propensione mariachi e di frontiera, il duo di Tucson si era concentrato su una forma-canzone che alla lunga risultava sciatta e monocorde. E questo nuovo capitolo, benché faccia crepitare un bel po’ gli ottoni nell’iniziale Victor Jara Hand’s, si conferma davvero lontano dai fasti di The Black Light e Hot Rail. Anche nel caso di Carried To Dust, i nostri 32 MUSICA

inanellano una serie di canzoni folk poco entusiasmanti, e in alcuni casi, talmente soporifere che ti verrebbe da scrivere al signor Burns per dirgli che certe cose vengono meglio ad altri... chessò, al loro amico Howie Gelb per esempio. E che sarebbe davvero auspicabile che lui e il suo compare si concentrassero su quello che sanno fare meglio. Scrivere musica cinematografica e di frontiera, manipolare corde ed elettronica sporca e minimale, immaginare suite meticcie e andare a passeggio con Morricone e Sam Peckinpah. Tutte suggestioni parecchio lontane dalle canzoni “pallide” di Carried To Dust. Ilario Galati

OKKERVIL RIVER The stand ins Jajaguwar

Avrebbe dovuto rappresentare la seconda parte di The Stage Names se, come nelle intenzioni primigenie della band texana, quest’ultimo fosse uscito come doppio cd. Invece The Stand Ins vive di vita propria e ci restituisce un gruppo in forma smagliante. Naturalmente tematiche, sound e persino

iconografia sono le medesime del suo predecessore e, anche in questo caso, le canzoni sono tra le migliori mai composte da Will Sheff. Trascinato da Loast Costlines, in tipico stile Okkervil, The Stands Ins non fatica a decollare mostrando tutte le eccellenze di una band al massimo storico. Canzoni che, come accade assai di rado, hanno testi che vale la pena di leggere, crescono ascolto dopo ascolto e sono il frutto di un lavoro di introspezione che, a conti fatti, spinge il gruppo verso territori meno cupi. Più rock’n’roll che in passato (Starry Stairs, Pop Lie), senza perdere la sostanza che è fatta di passaggi debitori tanto al folk più traditional (Singer Songwriter) che all’intimismo di matrice autoriale che rimanda molto allo “stream of consciusness” di un altro personaggio cruciale della musica americana come Conor Oberst (On Tour with Zykos, Blue Tulip), e senza accantonare l’immortale “jingle jangle dylaniano” (Calling and not Calling my Ex) che resta ancora la massima fonte di ispirazione di Sheff. Ilario Galati


NINFA Stereo Desire Hypotron

Qualcuno ricorderà i suoi esordi in alcuni dei gruppi simbolo della scena beat italiana anni 90 (Sciacalli, Avvoltoi). Il tempo passa e le cose cambiano. Oggi la musica di Ninfa è semplicemente electro rock. Genere ultimamente in voga ma che affonda le radici nel sinth rock ormai in giro da decenni. Quando l’elettro rock si tinge di pop e si carica di una forte carica sensuale, come in questo caso, entra a pieno diritto in un circuito meno indie dove riesce ad accostarsi a certa dance intelligente e a conquistare dj dal passato rocchettaro. In questo senso il disco ha ottime potenzialità, affiancandosi in certi momenti

a certe sonorità tedesche, in altri alla scuola Dfa. Ogni tanto sembra affiorare qualcosa dei Garbage, un amore (e chi non lo ha) per i Depeche Mode, ma anche passione per il punk anni 80. Il risultato sono canzoni da urlare e saltare in pista, niente di più. (O.P.)

VOLCANO! Paperwork Leaf

Mettiamo da parte la forma canzone, il canone e lo schema. Se ci muoviamo in assoluta libertà in una stanza piena di strumenti la cosa migliore che possiamo fare è giocare seriamente. E questo sono i Volcano!. Mai nome più azzeccato per questo terzetto che è un esplosione naturale di idee. Una scalata alla scoperta

delle più impervie salite e delle più scoscese discese del pentagramma. Ascoltare un loro brano è come prendere la puntina di un vinile e fare su è giù, più o meno a caso, tra le tracce. I Volcano riescono a spezzare la canzone con una serie di fuochi d’artificio tecnici senza mai perdere di vista la voce, che tratteggia melodie che se da una parte sembrano ricordare i Radiohead

AVANTI POP

Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Brighton Port Authority feat. David Byrne e Dizzee Rascal – the Bpa Toe Jam: solo un genio della musica potrebbe cambiare 3 nomi d’arte oltre che ragione sociale e rimanere sempre attuale. Solo Norman Cook, in arte Fat Boy Slim, in arte BPA, può mettere insieme sacro e profano. Un mix letale. E dopo il singolo con Iggy Pop, aspettiamo l’album per capire cosa ci aspetta. Sigur Ros – Inni mer syngur vitleysingur: per chi, come il sottoscritto, ascolta gli islandesi quando non cantavano ancora in lingua madre (che in ogni caso non brilla per facilità di decodifica, come potrete evincere dal bizzarro titolo del secondo singolo tratto da un album di cui non cito il nome altrimenti finisco lo spazio), fa strano questo fervore radical-chic. In ogni caso, in qualsiasi modo ci sono arrivati, ora li conoscono tutti, ed era anche ora. Kings of Leon – Sex on fire: qui di pop c’è molto poco. Anzi, c’è solo una cosa: il primo posto in classifica in Inghilterra. Quanto basta per considerare i KoL una band pop atipica. La famiglia Followill dichiara di aver smesso con le droghe e la vita dissoluta, ma le chitarre continuano ad essere sempre le stesse. E in più è arrivato il successo. La

più scontata delle citazioni per il gruppo mainstream meno mainstream del momento. MGMT – Kids: saliti agli onori della cronaca più per certi eclettismi nella proposizione dei loro brani (guardate I loro video e capirete), I MGMT sgomitano e si meritano un posto al sole perchè in questo secondo singolo ci mettono un po’ di sostanza in più. Attivi dal 2002, i Management (è questo il loro vero nome, nel 2007 hanno tolto un po’ di vocali e le coincidenze hanno voluto che diventassero famosi proprio senza vocali) hanno la loro nicchia bella grande di appassionati al seguito. Ladyhawke – Paris is burning: sì, forse “di successo” è un po’ troppo per I Ladyhawke. Ma basterebbe avere un digitale terrestre, un canale di MTV di Sky dedicato ai noi giovani alternativi per portarvi a pensare che nel mondo esistono solo i Ladyhawke. E non sarebbe un brutto mondo. Questo brano è davvero gradevole, anche se sarebbe auspicabile che il revival anni ’80 non duri un altro decennio. Dino Amenduni


subito diventano cabaret, falsetto, progressione rock. Sorprendentemente omogenei nella loro ecletticità i Volcano! Sono incredibili ad ogni ascolto. Figli del postmoderno, figli della metropoli…da ascoltare. (O.P.)

JIM NOIR Jim noir My dad

Lo chiamano il “Beck di Manchester” e non a torto. Del cugino americano ha imparato la lezione del cut up musicale, l’attitudine a pescare dal passato per creare musica nuova e se possibile “avanti”. Il resto è storia del vecchio continente psichedelia sixties, french touch, tanti Beatles ma anche Pink Floyd e i mitici Lovin’ Spoonful. A questo basta aggiungere la chiave moderna di beta band e flaming lips e il gioco è quasi fatto. Quasi perché c’è un elemento più easy listening nella musica di Jim , a tratti più danzereccio, in altri più “spaziale”, sospeso in una galassia dove il futuro è quello raccontato da un tele film anni 70. Come un remix dei nostri ricordi musicali, un viaggio nella galassia pop. (O.P.)

EMILY JANE WHITE Dark Undercoat Double negative

Il picking di chitarra in apertura ci introduce in una tensione emotiva che, solo dopo pochi giri, il violoncello non 34 MUSICA

fa che confermare. Il mondo musicale Emily è fatto di poco altro: una ritmica essenziale e la sua splendida voce che su tutto cattura e racconta. Un po’ Susanne Vega, un po’ Cat Power. Un songwriting fumoso, da ragazza vissuta, a volte interprete di uno stile classico tipico delle vecchie signore del folk, altre volte più vicino a elettriche e cristalline divagazioni indie. Anche se viene dalla soleggiata California riesce a raccontarne un lato più dark, a volte con incursioni un po’ southern e bluesy, a volte semplicemente mettendosi a nudo. (O.P.)

THIEVERY CORPORATION Radio Retailation ESL Music

Rob Garza ed Eric Hilton, il duo di ladri di base a Washington (il loro nome deriva dal fatto che il processo di creazione di ogni loro disco parte dai negozi di dischi della loro città, sistematicamente svaligiati alla ricerca di campionamenti di ogni sorta), sono riusciti, a colpi di album solidi e rassicuranti per il loro pubblico, a diventare un gruppo di culto. Certo, quello che può essere chiamato rassicurante dai fan è etichettato come ripetitivo da tutti gli altri. E Radio Retailation sembra essere nato proprio per provare a risolvere questa piccola diatriba in musica: come rimanere se stessi e sembrare nuovi? La risposta più convincente è di tipo concettuale: il titolo e l’artwork del settimo album fugano ogni dubbio sulla passione politica dei Ladri e sulla volontà di trasmettere messaggi all’interno di tappeti sonori morbidi e rilassanti. Certo, rifare “El Pueblo Unido” in chiave fighetta può sembrare barocco, ma funziona. Anche

i suoni cambiano un poco, virando in modo più deciso verso il dub fino alla ricerca dell’easy listening perfetto e inarrivabile. Accompagnati da ottimi amici (Seu Jorge, Sleepy Wonder, Femi Kuti, Lou Lou), e capaci, nella loro decennale storia, di scoprire autentici talenti (Aubele su tutti), i Th.Corp. si obbligano ad un album di transizione. Perché sperimentano, lo fanno massicciamente, e non sempre centrando il bersaglio. Il consiglio è allora quello di ascoltare a ripetizione “Beatiful Drug”, nettamente il brano migliore del lotto, alternare Radio Retailation ai loro classici ed aspettare che i semi copiosamente piantati da Hilton e Garza portino a futuri spettacoli. Dino Amenduni

SALENTORKESTRA Centeuna Anima Mundi Edizioni

Il lavoro dell’etichetta discografica otrantina Anima Mundi prosegue con la produzione del primo lavoro della Salentorkestra. Centeuna è una interessante opera prima per questo gruppo che nasce con l’obiettivo di proporre composizioni originali e musiche tradizionali salentine nel contesto più ampio della cultura musicale del Mediterraneo. Nelle dieci tracce del cd ritmi balcanici, greci e albanesi si intrecciano con pizziche e tarantelle amalgamandone le sensibilità. La tradizione salentina è infatti soltanto un punto di partenza dal quale avviare un viaggio sonoro affascinante, ricco di innesti (jazz, fusion, musica araba), dove la cultura orale e i testi popolari convivono con musiche (anche originali) e arrangiamenti raffinati e colti, senza però dimenticare la potenza dirompente


dei tamburelli e composizioni inedite. Salentorkestra è composta da Giancarlo Paglialunga (voce e tamburello), Dario Muci (voce, chitarra e bouzouki), Marco Tuma (fiati), Massimiliano Morabito (organetto), Gianluca Longo (mandola e chitarra) ai quali si affiancano nella realizzazione del cd Redi Hasa (violoncello), Claudio Pusterla (tamburello e voce), Adolfo la Volpe (chitarra portoghese), Valerio Daniele (chitarra acustica), Giuseppe Spedicato

(basso acustico), Vito De Lorenzi (santur) e Maria Mazzotta (voce). Centeuna e il lavoro live della Salentorkestra sono l’esempio dell’evoluzione della musica popolare salentina con un occhio al passato e ai suoni tradizionali e con l’altro che guarda a est e al mediterraneo in una miscela sonora che convince e che non sembra (come a volte accade) un esperimento da sala di incisione. www.salentorkestra.it

ERHZ Sixteen mercury Wagons Banana records 2.0

Ideale colonna sonora di un film come Lola Corre, la musica di Erhz è sintonizzata con una frenesia capace di dilatarsi e generare suoni che parlano della

città. Potrebbe essere di Londra o aver bazzicato per un po’ le periferie di Bristol e invece è un salentino capace di guardare lontano. Appassionato di anni 80 ( i depeche mode e la new wave) Erhz riesce a sviluppare un concetto di indietronica interessante. Non è incatenato, come accade spesso a un suono o una forma canzone riuscendo ad alternare con naturalezza cassa dritta, ambient, ritmiche spezzate, distorsioni alla Nin. In alcuni episodi la voce di Lou C lo avvicina ad alcuni episodi di Tricky. Un caleidoscopio che lascia apprezzare la poliedricità di un’artista da seguire.

DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse Nneka – Heartbeat: electro-reggae nigeriano? Oramai vi siete abituati a qualsiasi tipo di assurdità da parte dei giornalisti che hanno bisogno di catalogare I generi e gli artisti. Eppure siamo davanti a un esperimento globalizzato. Nneka, oramai di base in Germania, mescola amore per l’Africa e suoni molto occidentali. Aggiungete un’ottima presenza scenica e avete capito che la ragazza va tenuta d’occhio. Skream – Check-it: è il momento del dubstep. Ogni mese salgono alla ribalta nomi improbabili, dj nascosti nei club di Londra, nei locali, nei sottoscala. Difficile frenare questo vero e proprio movimento culturale prima che musicale. Le contaminazioni sono tali e tante da rendere impossibile delimitare le peculiarità di questa rielaborazione di non meno di 4 generi contemporaneamente. Ma questa “Checkit” suona dubstep. Vero dubstep. Difficile trovare aggettivi, in questo caso la parola spiega più di ogni tentativo di descrizione. Preparatevi a sentirla in qualche dancehall colta. Mustard Pimp – Zombie revenge: il titolo del brano tradisce le sue ispirazioni. No, non è death metal, è elettronica spinta, per non dire rozza. Un frullato di Daft Punk (sono francesi, se la cosa può aiutarvi a capire il quadro sinottico), Kernkraft 400

(ecco il rozzo), Kraftwerk e Crookers. Un Myspace delirante, così come il nome del progetto musicale. Non scommettiamo sul successo eterno della band, ma chissà che questo brano non diventi una chicca da dancefloor… Tre allegri ragazzi morti – Around the World: citiamo loro perché loro citano in modo più evidente (e forse riuscito) di tutti. Ma in realtà i TARM giocano il ruolo di ambasciatori di “La Valigetta post remixes”, un tributo di alcune band indie italiane (Ex-Otago, Perturbazioni, Julie’s Haircut, i Tre Allegri, appunto), alla musica dance. Andate a cercarvi l’intera compilation e superate lo straniamento del primo giro di “e giro il mondo, e giro il mondo”: non vi stanno prendendo in giro. Squarepusher – A real woman: il brano forse meno inaccessibile di Tom Jenkinson, compositore del Dorset, tra i capofili della scompaginata e meravigliosa scuderia Warp, risulta comunque inaccessibile ai più. Noi speriamo che qualche direttore della programmazione musicale visionario o poco in paranoia per i dati di ascolto corra, almeno per una volta, il rischio di passare un autentico frullato di talento compositivo, elettronica e spirito punk. Dino Amenduni 35


AVVENTURA IN 11/8 Ha fatto suonare le strade di Lecce di nuova musica, ha trasformato un luogo in punto di arrivo e pista di decollo per suoni nuovi e contaminati, ha investito “fiato” e sudore su un progetto coraggioso e all’avanguardia. Tutto questo è la 11/8, un’etichetta discografica che guarda al Salento, lo attraversa e lo supera. Abbiamo parlato con Cesare Dell’Anna, una delle menti e cuore artistico del progetto.

Parlando di luoghi della cultura, in particolar modo sul territorio, tra i tanti abbiamo pensato alla bellissima esperienza dell’Albania Hotel. Ci parli di questa avventura? Agli inizi degli anni novanta in concomitanza con la crisi dei Balcani sono iniziati i primi sbarchi clandestini. Negli stessi anni, assieme all’attore Giuseppe Semeraro e al pittore e scultore Antonio De Luca, abbiamo dato vita, nelle campagne salentine, a questo nuovo modo di condividere il piacere per l’arte, la conoscenza, lo scambio e soprattutto l’accoglienza come stimolo ulteriore alla nostra già vulcanica creatività. Inizia cosi una nuova pratica di ascolto ed interpretazione, con una “poetica diversa” rispetto al consumarsi degli accadimenti artistici storici e del quotidiano. Albania Hotel è luogo di festa, spazi per le prove, sala di registrazione e punto di incontro per tutte le persone sensibili che hanno voglia di imparare ed insegnare. Albania Hotel è una delle residenze artistiche da cui sono passati tantissimi musicisti ed artisti in genere, provenienti da tute le parti del mondo. È praticamente impossibile per me, ricordare

quanto realmente si sia prodotto in tutti questi anni, dischi, organizzazione di festival ed eventi speciali, colonne sonore per films, video clip e documentari, molti spot pubblicitari (Toyota, Fiorucci, Kocca Jeans, Qtel, Gatorade, ecc.). Una cosa che mi riempie di orgoglio è il fatto che da questa esperienza ne sono nate tantissime altre e mi piace il fatto che tanti musicisti, alcuni oramai anche molto conosciuti, abbiano tratto stimolo dai miei innumerevoli progetti . Albania Hotel ha rappresentato un riferimento per un ambiente artistico europeo, la sua caratteristica è stato il fatto che sia stata anche la mia abitazione, dunque attiva 365 giorni l’anno e soprattutto l’accesso non è stato limitato a nessuno, né tantomeno a pagamento. Albania Hotel, che è anche un’associazione culturale che produce eventi e si occupa di booking, si trasferirà in un casello ferroviario nella campagna di San Cesario. Da qui la 11/8. Come nasce la casa discografica e quali sono le sue linee guida? 11/8 è l’etichetta discografica che è nata per produrre innanzi tutto i miei progetti discografici. Ciò perché non ci andava di assoggettarci alle dinamiche instaurate dalle Major. Noi seguiamo l’intento di avere una rapporto di parità, e soprattutto di rispetto, per i lavori degli artisti. Un altro motivo è stata la mia iper produttività che rende i rapporti con le altre etichette “difficili”, non è semplice avere a che fare con un artista che sforna così tanti progetti artistici, sto facendo in media 2/3 nuovi dischi l’anno. Si pensi che mediamente ogni artista esce con un nuovo album ogni 2 anni, se va bene. In poche parole proprio non potevo e non posso attendere tempi


così lunghi, significherebbe autocastrarmi. Da qui l’esigenza di creare una struttura che mi mettesse nelle condizioni di poter creare tutto ciò che mi pare e contemporaneamente capace di distribuire tutti i miei lavori nel mondo dopo pochissimi mesi. Questo è adesso 11/8 records a soli tre anni dalla sua nascita, ovviamente non solo grazie al mio lavoro ma anche grazie ai coraggiosissimi compagni di avventura che sono Marinella Mazzotta che si occupa delle innumerevoli problematiche legate al diritto d’autore, ai contratti e all’organizzazione attiva di tutti gli eventi, Marco Marenaci, nell’ufficio amministrativo, e del creativo e regista Lorenzo Bassano. Ci parli un po’ delle produzioni di questi anni? Posso solo farne un elenco per puri motivi di spazio: Opa cupa, Opa cupa/elettronico, Tax free, Zina, Tarantavirus, il Cesare dell’Anna Quintet, jazz e musica classica, Dn3, freejazzelettronico, Girodibanda: ispirato alle bande da giro Pugliesi con le magnifiche voci di Enza Pagliara, Irene Lungo,Esma Redzepova la regina della gypsy music,Claudio Cavallo, Emanuele Licci ed il neo melodico salentino Enzo Petrachi, figlio del re del folk leccese Bruno Petrachi. My Miles, un mio personale omaggio a Miles Davis, che vede la collaborazione del newyorkese Adam Holzman, pianista di Davis nell’album Tutu. Poi ci sono gli innumerevoli eventi live che spesso accompagnano le produzioni discografiche, perché ci piace lasciarne un segno. Recentemente siamo stati negli Stati Uniti per un mese di tour con il gruppo Opa Cupa, fra la California, Oregon, Arizona e New York. Nel frattempo saremo alla più grande fiera discografica del mondo, il Womex, per presentare le nostre produzioni. Quali sono i vostri dischi in cantiere? Uscirà in primavera il secondo album del

mio progetto Zina e si chiamerà Afreeque. Il disco si ispira ai principi dell’uguaglianza e dell’accoglienza e vede la partecipazione di cantanti salentini, palestinesi, tunisini, marocchini e senegalesi e per la prima volta in un mio lavoro canterò anch’io un brano per la gioia o disperazione dei più che mi vorranno ascoltare e con la partecipazione tra gli altri del grande Dj Gruff. Poi il terzo album di Opa Cupa. Poi ancora il secondo album di Tarantavirus, ed altre produzioni di giovani musicisti pugliesi, per i quali lavoreremo nel tentativo di rendergli la strada più facile e meno dura e difficile di quanto non sia stata per me, che ho scelto di lavorare qui, con tutto quello che comporta vivere così lontano dai grossi centri di produzione e consumo delle arti. Sempre a proposito di luoghi. Voi avete risposto alla mancanza di spazi per la musica e le arti, inventando un luogo, costruendolo dove prima non c’era. Da dove nasce l’idea di un tendone da circo e cosa ci riserva quest’anno? Stiamo organizzando la terza edizione sempre all’interno del nostro tendone da circo del “Livelloundiciottavi chi vuol intendere…. in tenda”, festival completamente autogestito che ha gia visto la partecipazione di grandi artisti internazionali e non solo. Luogo anche questo di grande apertura e respiro culturale. Luogo all’interno del quale si sono felicemente consumate orge sonore, grandi e piccoli concerti, presentazione di libri prestigiosi incontri e dibattiti sul cinema sul teatro sulle arti circensi , spettacoli per bambini di altissimo livello e rave legali e pacifici che hanno reso questo progetto indispensabile per il risveglio culturale e umano di questa città nella quale accade tutto nei due mesi estivi. (O.P.)


LIBRI

OMAR DI MONOPOLI

C’ è un’aria di frontiera nella Puglia bruciata dal sole e dall’uomo. C’è un’aria western, e sembra quasi di vedere personaggi che assomigliano a Rod Steiger e a Lee Van Cliff aggirarsi per la campagne del Salento o del Gargano per portare avanti i loro affari più o meno sporchi. Il genere scelto da Omar Di Monopoli per raccontare la sua Puglia è il western, una scelta originale che ha portato lo scrittore di Manduria a raggiungere ottimi risultati con i suoi due romanzi Uomini e cani, e Ferro e fuoco. Il primo ambientato in un Salento periferico, lontano dalle cartoline e dalle allegre serate reggae, un Salento devastato dall’abusivismo edilizio e morale e il secondo ambientato invece sul Gargano, nell’anno dell’incendi che hanno colpito Peschici ed altre località. Una terra brutalizzata dalla ferocia del fuoco e degli uomini. C’è tra i due libri una sorta di continuità stilistica e contenutistica, come dice lo stesso Omar, nella stesura di Ferro e fuoco “mi sono sforzato di mantenere una certa tenuta stilistica con Uomini e cani (anche considerando che Ferro e fuoco fa parte, assieme al primo libro, di una trilogia «western pugliese» che sto portando a compimento!)” Il nuovo libro di Di Monopoli si dipana tra gli incendi del Gargano, il neocaporalato e le questioni private di boss e clandestini. La figura attorno a cui ruota il romanzo è quella di Mariehla, la bellissima prostituta rumena, scelta come “favorita” dal boss della zona, il Pellicano, che viene massacrata di botte da qualcuno. Tutti sono convinti che si tratti del turco Kazim, un disperato come il rumeno Andrej, come i nigeriani e tutti gli altri “schiavi” di un mondo feroce e brutale. Kazim intraprende una fuga disperata e assurda per l’Italia con alle calcagna quattro killer prezzolati dal Pellicano, i 38 LIBRI

Mormoni, che sembrano usciti direttamente da un film di Quentin Tarantino o da un fumetto di quegli che Omar ama leggere e disegnare. Trovo questo secondo libro di Omar Di Monopoli ancora più incisivo e duro del primo. Secondo l’autore “magari sono i temi trattati che sembrano, a primo acchito, più ‘strong’ di quelli del primo (che pure non scherzava, in quanto a violenza e disfacimento morale!)”. Fuor di retorica credo che Di Monopoli insieme ad altri pochi scrittori (leggi fra gli altri D’attis, di cui si parla qui di fianco) rappresenti una ventata di novità nella narrativa italiana, e che questo dimostri che il romanzo italiano è tutt’altro che morto. Abbiamo chiesto a Omar come vede il panorama narrativo italiano “Penso ci siano numerose novità interessanti. Il problema è che assieme all’indubbia originalità di questa new-wave letteraria il mercato (asfittico) della nostra editoria stia procedendo a diffondere tanta, troppa fuffa: e così siamo invasi da bloggers/comici/presentatori e fintogiovanilisti di derivazione mucciniana!” Fra i maestri di Di Monopoli si può rintracciare sicuramente “Tutta la scuola del cosiddetto «Southern Gothic» statunitense (da Faulkner a Flannery O’Connor passando per James Lee Burke) ma anche gli italianissimi Fenoglio e il grande, poco noto Vincenzo Pardini”. Se il primo romanzo è ambientato nel Salento, il secondo nel foggiano allora questo terzo capitolo della saga western pugliese dove sarà ambientato? “Stavolta metto a «ferro e fuoco» il brindisino, e credo continueranno ad esserci molti cani sparsi in giro tra le pagine!” Abbiamo poi fatto ad Omar una domanda tipica di questo giornale, e cioè se c’è stata una colonna sonora che lo ha accompagnato nella stesura di questo suo libro “Prima, durante Uomini e cani c’era il Nick Cave della colonna sonora del film The proposition, ora, semplicemente, sono passato al Nick Cave del film The assasination of Jesse James”. Come dire, proprio come nei più neri western alla Sergio Leone e alla Sam Peckinpah non c’è spazio per la redenzione, non c’è spazio per il perdono, non c’è spazio per le risate, non c’è spazio per gli eroi. Dario Goffredo


NINO G. D’ATTIS Nero, nero, nero. Questo è l’aggettivo che descrive meglio il secondo romanzo di Nino G. D’Attis, Mostri per le masse, edito da Marsilio. Nella Roma del 2005, in ansia per la salute di Papa Giovanni Paolo II, alcuni orrendi omicidi sconvolgono l’opinione pubblica. Sulle tracce dell’assassino l’ispettore Graziano Vignola, che segue l’evidente pista del satanismo. Fin qui un classico noir dal ritmo incalzante sulle tracce dell’assassino. Ma quando la ricerca dell’assassino diventa una discesa agli inferi, un percorso verso il nero più nero che c’è in fondo all’anima corrotta e depravata dell’ispettore Vignola, allora le cose si complicano. Sembra, senza voler stare a fare paragoni inutili, una storia narrata dal migliore e visionario James Ellroy di White jazz. D’Attis si diverte a sconvolgerci, a disturbarci, a farci perdere il filo del discorso, a eccitarci, a stimolare punti del nostro cervello che non vorremmo fossero mai toccati da nessuno. Con questo suo secondo romanzo Nino D’Attis dimostra di avere una certa padronanza della materia, riesce a gestire un romanzo molteplice e magmatico, senza perdere, lui, il senso generale dell’opera. “Questa volta ho puntato su un ritmo decisamente più frenetico dettato dalla molteplicità di voci, dal temperamento dei miei personaggi e anche da Roma, la città in cui vivo da quasi dieci anni e che nel romanzo non fa da semplice location ma è quasi un personaggio a parte. E penso che, rispetto a Montezuma Airbag Your Pardon, dove non c’era una trama vera e propria, la nuova storia sia venuta fuori strutturata in una forma narrativa per certi versi più tradizionale”. Già con Montezuma airbag your pardon D’Attis aveva scavato a fondo nello schifo quotidiano, disegnando dei personaggi incapaci di qualunque redenzione, lanciati senza paracadute verso l’abisso. In questo secondo libro il viaggio al termine della notte è finito, siamo arrivati al punto di non ritorno. “L’azzeramento dell’individualità, una soggettività sempre più anestetizzata, fagocitata dal bestiario mediatico, da orrori quotidiani inscatolati a nostro uso e consumo, sono temi che accomunano i due romanzi. La differenza è che nel primo si annunciava la scomparsa dei sentimenti, qui invece viene stilato un rapporto

del coroner con tutti i dettagli scabrosi del caso”. Personaggi memorabili quelli che popolano questo romanzo, a partire dall’ispettore Vignola, una sorta di Fabio Montale senza la simpatia del poliziotto marsigliese di Izzo, destinato chissà? a diventare un personaggio seriale. Non ci dispiacerebbe. Come vedi il panorama narrativo italiano? Annaspa in libreria in mezzo a tonnellate di carta sprecata per stampare barzellette di calciatori, gialletti rassicuranti e memorie di qualche entraîneuse catodica, ma tutto sommato sopravvive, respira. Sta al lettore armarsi di pazienza e frugare in cerca di perle nei mucchi di spazzatura abbandonati lì dai commessi. Quali sono i maestri a cui ti rifai? James Ballard, Tom Wolfe, Norman Mailer, Nick Tosches (le sue biografie di Dean Martin e del pugile Sonny Liston sono state per me letture impagabili). In una scena di Mostri per le Masse mi sono divertito a infilare un criminale che conosce a memoria i versi di Cecco Angiolieri, il primo poeta punk che la storia della letteratura italiana ricordi. Ora una domanda tipica di coolclub.it. C’è stata una colonna sonora che ti ha accompagnato nella stesura di questo tuo libro? Certo. Il titolo stesso è anche un omaggio all’album Music for the Masses dei Depeche Mode. E alla fine del libro ho stilato una lista dei brani ascoltati mentre scrivevo: Killing Joke, Nine Inch Nails, Nick Cave & The Bad Seeds...perfino Mussorgsky. Ogni volta che un personaggio si presenta a me per la prima volta, mi viene naturale pensare al tipo di musica che ascolta. Dario Goffredo


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MASSIMO CARLOTTO Cristiani di Allah Edizioni e/o

Algeri, 1541, l’armata di Carlo V è alle porte della città e i corsari di Barberia sono pronti a difenderla guidati da Hassan Agha, sardo fattosi turco e reggente di Algeri per conto dell’impero ottomano. Questo è lo sfondo nel quale si muovono Othmane e Redouane Rais, tedesco il primo e albanese il secondo, ex lanzichenecchi con alle spalle il sacco di Roma, innamoratisi tra le fila dei mercenari e fuggiti insieme ad Algeri, dove rinnegata la fede cristiana hanno abbracciato quella musulmana, più tollerante nei confronti dell’omosessualità. Ma è proprio il loro amore, in quella ritrovata e agognata condizione di libertà che li trascinerà in un gorgo di intrighi, vendette e violenza costringendo Redouane Rais a fuggire di nuovo, a cambiare di nuovo identità e a cercare nuove opportunità. Forse il libro che preferisco di Massimo Carlotto, che non si discosta dal genere noir mediterraneo finora da lui trattato, ma cerca di coglierne, come lo stesso scrittore ha dichiarato, le radici profonde del genere. Allegato al romanzo il cd con la colonna sonora realizzato da Maurizio Camardi e Mauro Palmas e con la splendida voce di Patrizia Laquidara. Un cd da ascoltare prima, durante e dopo la lettura del romanzo, un modo per completare un’esperienza che non può lasciare indifferenti. Dario Goffredo

SAVERIO FATTORI Acido lattico Gaffi Editore

“Un romanzo sul lato oscuro dello sport” a quanto pare, il che farebbe di Acido lattico una narrazione mossa da certa attualità. In effetti, la trama suggerirebbe questo. Claudio Seregni, protagonista assoluto, ha ventotto anni, una fidanzatasuppellettile, un desiderio insostenibile di gareggiare a Pechino, e un’angoscia ancora più insormontabile di fare fiasco. In più, è accompagnato anche da una xenofobia non da poco, che lo rende timoroso e guardingo verso qualunque sembianza di

differenza. Le sue giornate sono abitate da allenamenti estenuanti e svariate miscele dopanti, nonché da una ricerca maniacale sulle mancate glorie dell’atletica leggera, su quegli sportivi più che promettenti la cui carriera è stata però segnata da un fallimento inaccettabile. Sulla rete conosce una di queste ex promesse, Clara, sospettata, ai tempi dell’agonismo, di emotrasfusione. Ma proprio quando riesce a strapparle un appuntamento per chiarirsi dei dubbi, lei mette fina alla sua esistenza con un suicidio non prevedibile, abbandonando Claudio all’impellenza dei suoi interrogativi costretti ormai a restare tali. La trama, qui sintetizzata in modo estremo, di fatto potrebbe dar ragione a quanti hanno collegato l’ultima opera di Fattori alle Olimpiadi di Agosto, e a tutto il carico di sport inquinato che l’evento – non solo quest’evento - si è trascinato dietro. Ma ad una lettura più sottile, ci si rende conto di quanto ciò significhi ridurre l’intenzione narrativa, per me più sofisticata, dell’autore. Complice un immaginario fatto di magliette che diano un’appartenenza, podi su cui salire per due minuti a placar coscienze per anni, medaglie da appuntare per avvertire il placebo di un risultato raggiunto, Saverio disegna le reclusioni della società attuale, dipendente non solo per mezzo di sostanze, ma soprattutto per ricerca ossessiva di uniformità. Stefania Ricchiuto

FLAVIO SORIGO Sardinia Blues Bompiani

Licheri, Pani e Corda: tre amici, tre pirati annoiati su un’isola che non c’è. Una terra lontana dallo sfarzo, dal glamour e dall’ostentazione del denaro. Quella di Soriga è una Sardegna bucolica che vuole affrancarsi da facili luoghi comuni, un mondo in cui l’apatia invernale scivola dolcemente verso i caldi colori di un’estate di provincia: folle e ripetitiva. Un affresco romantico che prende vita dalla voce narrante di Pani, trentenne affetto da talassemia; una malattia che lo costringe a continue trasfusioni di sangue. Una condizione cronica vissuta in prima persona dall’autore, descritta con estrema chiarezza e semplicità nei suoi dolori e nei suoi momenti di euforia. Un vampiro assetato di emozioni, che lo hanno portato a Londra, dove ha lasciato il suo cuore nelle mani di una giovane ballerina cagliaritana. LIBRI 41


Il tema del viaggio è una costante che ritroviamo anche negli altri due personaggi. Licheri dopo un banale incidente in motorino che stava per costargli la vita, accetta l’offerta del padre e si rifugia negli Stati Uniti per farsi disintossicare. Corda, scrittore fallito, laureato in lettere con master in storia della letteratura sarda, si improvvisa parrucchiere creativo a Chelsea. Eppure tutti loro da bravi pirati torneranno alla loro isola, per disseppellire i tesori accumulati e condividere nuove avventure: fra alcool, amanti occasionali, pastori gay e furti su commissione. Nel libro vi è un richiamo alle origini che però non vuole essere una tradizionale rivendicazione di orgoglio regionale, ma piuttosto un segno di apertura, di condivisione e un’opportunità di crescita culturale. Davide Soriga si consacra alla platea nazionale con un romanzo ironico e fluido che cattura l’attenzione attraverso dialoghi in presa diretta, senza freni, che scivolano via veloci lungo le strade sabbiose della costa oristanese. Roberto Conturso

BEPPE SEBASTE Panchine Laterza Editore

Viviamo tempi in cui in molte città il bivacco è cosa vietata, e la ricerca di un luogo dove sedersi è disperata se non include pagamento alcuno. La metropoli contemporanea sembra non prevedere vita di strada, abbinando quest’ultima ad un ripugnante senso del degrado, e permeandola di significati riduttivi e mortificanti. Complici le paranoie securitarie che non mi stanco di richiamare in ogni dove, sedersi è spesso impedito se non addirittura impossibile, e comunque farlo significa, il più delle volte, incappare in giudizi ostili e maldisposti. La panchina, dopotutto, è sosta gratuita, è occupazione casuale, è dimensione temporale fatta scorrere al suo giusto ritmo: che c’entra con la cassa continua del nostro tempo, con la prevedibilità a cui questo ci educa, con la frenesia sconsiderata con cui ci alimenta? In più, è maestra della capacità di appropriarsi di una zona franca, dell’attesa che richiama, dell’osservazione che custodisce: da una panchina si volge lo sguardo sul mondo senza bisogno di complicate evasioni, semplicemente fermandosi e stando. Lì, ci si ritaglia un’area tutta personale che non teme invadenza alcuna. Sarà per questo che il sedile urbano per eccellenza

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è a rischio di preoccupante estinzione, e oggetto di delibere minacciose? Beppe Sebaste risponde con l’asciuttezza tipica della sua scrittura, unita all’abbondanza di ricordi personali e paralleli famosi, e al ricorso alle dosi opportune di malinconia critica e mestizia poco rassegnata. Sostenendo, con la grazia del suo stile, l’allerta dell’architetto e antropologo Franco La Cecla: “La panchina è spazio pubblico in serio pericolo, nonché cartina al tornasole della democrazia di un Paese”. Opportuno prestare attenzione. Ogni seduta in meno, insomma, potrebbe costare un pezzo di libertà sottratta. (S.R.)

MICHAEL SEBBAN Offresi cuoco con esperienze esotiche Cargo Edizioni

Eli, giovane ebreo sefardita, appassionato di filosofia e di surf, amante di Platone e delle lunghe onde del pacifico, decide di partire e lasciarsi alle spalle il freddo quartiere parigino di Belleville. La sua via di fuga passa attraverso un annuncio di lavoro trovato su un quotidiano ebraico: cercasi cuoco con esperienza. Biglietto di sola andata, destinazione Los Angeles. Michael Sebban attraverso il mito della caverna di Platone descrive l’effimero sogno americano, in cui il materialismo e l’arrivismo rappresentano le uniche chiavi di lettura. I prigionieri descritti da Platone incatenati sin dall’infanzia sul fondo di una caverna, non hanno conoscenza del mondo esterno. Possono solo tentare di interpretare le voci che dalla strada echeggiano nell’oscurità, e le ombre di varie forme e dimensioni che si riflettono sul muro della loro prigione. Così come il fuggiasco di Platone dovrà abituare i suoi occhi alla luce ed ai colori della nuova realtà, anche Eli, evaso dalla sua caverna parigina, faticherà ad integrarsi con il mondo opulento e spietato di Los Angeles. Affaristi ebrei, immigrati alla ricerca di una moglie, paparazzi e miliardari israeliani dal losco passato, sono le ombre di un’America che non concede sconti a nessuno e non svende i propri sogni a buon mercato. In questo marasma Eli troverà uno spiraglio di luce fra le onde di South Venice in compagnia di The Horse e degli altri surfisti della west coast: scivolando lungo le pareti del pacifico, attraverso le ripide sezioni dell’onda, fino a scomparire sotto un manto di schiuma salmastra. Le descrizioni tecniche di Sebban lasciano trasparire l’amore per il mare e la passione per il surf, in un romanzo che trova la sua arma vincente nella semplicità di linguaggio e nell’ironia con la quale affronta la grottesca e disperata ricerca del successo, targato USA. Roberto Conturso


OLIVIER ADAM Peso Leggero Minimum Fax

Una combinazione perfetta di colpi che tagliano il respiro. Un romanzo incisivo, scandito da frasi veloci che incalzano il lettore fino all’ultima pagina. Alla fine avresti voglia di uscire, scivolare su un bancone di legno laccato, lasciando che il whisky ti graffi dolcemente la gola. Questa è la vita di Antoine, pugile sconfitto dall’alcol, da un lavoro che detesta e dai ricordi di un’infanzia che non riesce a seppellire. L’unica consolazione: l’aspro odore di sudore della palestra e la pelle ruvida dei sacchi sui quali scaricare le proprie frustrazioni. Intorno a lui: Chef, Su, Claire. Meteore che tentano di dare un senso alla sua solitudine. Olivier Adam, pur lontano dal tecnicismo di Thom Jones, descrive la nobile arte attraverso un’estetica fatta di corpi in movimento, elucubrazioni e distruzione fisica. Il quarantenne

scrittore francese dopo un esordio brillante con Stai tranquilla, io sto bene, Scogliera e la raccolta di racconti Passare l’inverno, si riconferma con Peso leggero, una delle migliori realtà del panorama letterario francese ed europeo. Roberto Conturso

MINO PICA L’attesa dell’attesa Giovane Holden Edizioni

L’attesa dell’attesa può sembrare un gioco di parole ma è di più: è una condizione. Quella di una generazione annoiata, schiacciata da una condizione, ossessionata dal passaggio all’età adulta. E di questo si parla, per lo meno si parte, nel libro del giovane esordiente Mino Pica. La storia di Morgan, protagonista del libro, è una storia che ci somiglia: giovane immerso in un sud che non lascia scampo se non al pensiero, una vita che si trascina nella monotonia del non fare. Tutto questo scivola via, basta prendere un treno per lasciarsi alle spalle tutto, anche gli affetti, l’amore che non sembra mai riconoscersi in una persona. E poi c’è un gatto nero, come se fosse un angelo custode al contrario, a punteggiare il cammino di un ragazzo alla ricerca di se stesso in balia dei propri sensi. Un’anima dark che trova nella musica pace, quasi catarsi. Un esordio che salutiamo con piacere. (O.P.)

CANTA CHE NON TI PASSA

Libro e cd per il cantautore leccese Alessio Lega Dopo la conquista del Premio Tenco nel 2004, con Resistenza e Amore, il cantautore leccese Alessio Lega è approdato nuovamente alle “nomination” per la prestigiosa targa grazie al cd Compagnia Cantante, allegato al volume Canta che non ti passa, storie e canzoni di autori in rivolta francesi, ispanici e slavi (Stampa Alternativa/ Nuovi equilibri). Il cd raccoglie 17 brani (più una brevissima introduzione) tradotti e cantati da Lega. Versioni scarne e semplici che propongono, in molti casi per la prima volta in Italia, brani dei maestri sacri della canzone francofona come Georges Brassens, Serge Gainsbourg, Lèo Ferre ma anche personaggi meno conosciuti o trascurati in Italia Georges Moustaki – greco di Alessandria di Egitto, Pierre Perret, Allain Laprest. Il cd accoglie anche protagonisti di altre terre come Bulat Okudzava, Karel Kryl, Vladimir Vysotskij.

Il volume è ancor più ricco di materiali. Si tratta infatti di una raccolta di “profili”, piccoli articoli scritti da Alessio per A: Rivista Anarchica. Piccoli dipinti di vite e parole che colpiscono e chiariscono anche quanto accaduto in Italia dagli anni ’60 in poi. La ricerca di Alessio Lega è puntuale e rigorosa, il suo modo di scrivere e di “criticare” è appassionato. Un atto di amore coraggioso nei confronti degli autori che hanno influenzato la scrittura e il modo di cantare e suonare di Alessio che già con il bel cd “Sotto il pavè la spiaggia” aveva proposto le traduzioni di Brel, Brassens, Ferré, Renaud e Allain Leprest. L’ascolto di Alessio Lega, soprattutto in questi tempi di parole facili e motivi banalmente canticchiabili, non è semplice ma non è ostico quanto si possa credere. E in periodi di corsa alle cover, spesso per sopperire cadute di ispirazione, Lega propone pezzi non banali, complessi, socialmente impegnati. (pila) LIBRI 43



NON SOLO FAHRENHEIT La radio che parla dei libri

C’è una dimensione radiofonica che è amica appassionata della lettura. I libri, infatti, sono protagonisti assoluti di non poche trasmissioni via etere, in cui sono promossi, narrati, discussi, dando forma a contenitori a volte ampi, a volte concentrati, ma spesso suggestivi e di preziosa qualità. Molti di questi non si limitano ad offrire una semplice rubrica culturale informativa, ma spaziano senza limiti per proporre un laboratorio di critica e senso. Tutti, comunque, mettono in circolo il valore indiscutibile delle pagine scritte, costruendo bei contesti di animazione creativa, e tenendo alta la bandiera dell’intrattenimento del pensiero. Il programma più conosciuto e seguito è sicuramente Fahrenheit, in onda su Radio3 dal lunedì al venerdì dalle 15.00 alle 18.00 e condotto da Marino Sinibaldi. Tre ore dense di interviste, interventi corposi sia di autori che di lettori, speciali dalle fiere del libro e dai festival più noti, ma anche rubriche bizzarre come Caccia al libro, dedicata ai testi fuori catalogo, e iniziative poco ordinarie tipo Passalibro, forma stravagante di book-crossing da strada. Ma anche sulle altre frequenze l’offerta non scherza. Restando in Rai, per esempio, incontriamo Libro oggetto, in onda su Radio2 il sabato alle 20. Le conduttrici Lucia Cosmetico e Monica Capuani si alternano alla diretta, che avviene rigorosamente dalla casa di un personaggio di riferimento del mondo culturale, sportivo, imprenditoriale, artistico, chiamato a raccontare le sue abitudini di lettura e ad interagire con i radioascoltatori. L’incontro ha per ingredienti inviti svariati, consigli assennati, nonché ricordi lucidissimi in tema di libri, e termina sempre ringraziando il padrone di casa dell’ospitalità con il dono di tre novità editoriali. Finora hanno aperto le proprie tane Paola Cortellesi, Simone Cristicchi, Nada, Luca Mercalli, ma questi sono solo alcuni nomi di un elenco molto più vasto. Sempre in Rai, ma su Radio1, la domenica dalle 23.15 alle 23.30

L’Argonauta stuzzica a un viaggio verso l’ignoto da leggere, alla ricerca di libri sopraffatti dagli eventi e messi da parte dall’attualità. L’intento, in appena un quarto d’ora di incanto, è quello di “evitare gli scogli delle patacche illeggibili”, navigando attraverso il lavoro degli editori non commerciali con la rubrica Piccolo è bello, o approcciandosi ai temi più inusuali con All’insegna del libro proibito, o ancora rivelando i saggi dedicati alle teorie più scioccanti con Gli eretici della scienza. Le logiche di mercato sono accuratamente evitate anche in Sabato Libri, in onda per l’appunto il sabato dalle ore 10.40 alle 11.40 su RadioPopolare, in cui per un’ora briosa si boicottano best-sellers e titoli da classifica, anteponendo a questi le opere di scrittori spesso sottovalutati, e agevolando così una cultura che non sia “né d’intrattenimento né da salotto”. Segnalazioni letterarie su percorsi tematici, invece, in Un libro tira l’altro in onda su Radio24 il sabato dalle 23.00 e la domenica dalle 13.30, in cui il conduttore Salvatore Carrubba suggerisce un argomentare imprevedibile proponendo libri in attinenza. Una volta al mese si tengono Le interviste impossibili ai protagonisti di opere considerevoli o ad autori insigni ormai scomparsi, che prendono vita grazie alla voce di attori abilissimi, mentre il programma si conclude ad ogni puntata con Il confettino, rubrica in forma di pillola che pone in evidenza un libro per ragazzi. Termina così questa carrellata non certo esaustiva sugli incontri intrecci tra libri e radio, proposti dalle emittenti nazionali più prestigiose. La passerella potrà ampliarsi nei prossimi mesi, con un’attenzione sensibile a quanto accade a proposito di lettura in onda sulle radio alternative rintracciabili in streaming, nonché sui contesti più indipendenti presenti sul web. Stefania Ricchiuto LIBRI 45


DERIVEAPPRODI Raggiungo telefonicamente Sergio Bianchi sottraendolo agli impegni affannosi di una casa editrice inconfrontabile, che dal 1998 propone letture battagliere e sorveglia le controparti insidiose della socialità: cappio economico, terrore militare, catastrofe esistenziale, devastazione ecologica, oppressione consumistica. Non c’è nemico anguillloso a cui non sia fatta autopsia, nei tipi di questa realtà romana, e soprattutto non c’è titolo che non richiami la necessità dell’autorganizzazione collettiva. Unica risorsa, quest’ultima, a distanza più che debita dalle isterie identitarie e dalle macchinazioni integraliste del contemporaneo. Abbiamo ripercorso l’identità della DeriveApprodi partendo dal sito www.deriveapprodi.org Una novità accompagna da qualche mese i visitatori del vostro sito: la rivista telematica, che è un po’ un ritorno aggiornato alla rivista cartacea del 1992, da cui peraltro nacque qualche anno dopo la vostra realtà editoriale. Allora, il prurito era dato dagli anni ‘80 e dalle involuzioni che li caratterizzarono. C’era in più un movimento attento e ostinato, quello della Pantera, che poteva accogliere e sostenere tutto questo, tentando delle risposte con laboratori di pensiero critico. Ora? Qual è il terreno che abbraccia questa vostra proposta? E che ricaduta ha sull’esistenza della casa editrice? Allora premeva proprio la ripresa di un pensiero critico, che negli anni ‘80 si era interrotto anche per gli esiti di una forte repressione nei confronti di una certa area culturale. Negli anni ’90 nacquero così diverse riviste, tra cui anche DeriveApprodi, e tutte contribuirono ad un dibattito necessario e problematico sul presente. Il movimento della Pantera, però, non fu l’unico elemento di sostegno. C’erano anche ulteriori materiali di riflessione, dati soprattutto dallo svelamento della Prima Repubblica. Con la rivista telematica, abbiamo voluto riprendere dei temi classici ancora di rilievo, come quello della crisi della rappresentanza politica, ora completamente disvelata e di una centralità assoluta. Per quanto riguarda la ricaduta commerciale della rivista, è praticamente nulla, anche perché non la curiamo con l’intenzione di incentivare alcunché, ma solo in quanto 46 LIBRI

congenita alla nostra storia, al nostro mettere in comune discussioni allargate e ipotesi. Il nome DeriveApprodi rende bene il vostro sguardo, che è rivolto ai movimenti sommersi ed emersi della società, e ai possibili attracchi. Di fatto è un ossimoro, perché accosta due termini in forte antitesi tra loro, e sembra dichiarare che la vostra identità è in contrasto netto con il dintorno. È stata una scelta precisa denominarvi così? Beh, tra alcune ipotesi nate spontaneamente ci sembrava quella più indovinata. La “deriva” è il tema classico dei situazionisti, il principale strumento esplorativo di questo movimento di critica radicale della società. Da un lato eravamo costretti, proprio dalla deriva degli anni ’80, alla perdita di punti di riferimento; dall’altro vi era la necessità di rintracciare dei riferimenti nuovi, degli “approdi” appunto. Accostando i due termini senza alcuna congiunzione – molti pensano che il nostro nome sia Derive e Approdi – abbiamo potuto rendere il nostro metodo culturale. Chi sono stati i primi autori pubblicati? Come li avete coinvolti in un’avventura decisamente ardita? I primissimi erano gli stessi che avevano animato, negli anni precedenti, la rivista. C’era già un condensato alle spalle della casa editrice, una rete di autori che non erano affatto affini, omogenei, concordi, ma tutti soggetti singoli, provenienti da tre filoni specifici, tre aree di pensiero e ricerca: una decisamente situazionista, una anarchica, e un’altra operaista, la più rappresentata. Qualche nome: Gianni-Emilio Simonetti, Nanni Balestrini, Toni Negri, Franco Berardi, ma anche tanti militanti dei collettivi studenteschi e dei centro sociali. Esploriamo le vostre collane. Negli ultimi mesi una si è particolarmente arricchita di titoli: la Biblioteca dell’Operaismo, interamente dedicata alla corrente di pensiero marxista e antiautoritario che prese forma in Italia nei primi anni ’60, con Mario Tronti, Toni Negri e Raniero Panzieri riuniti attorno alla rivista Quaderni Rossi e ai temi delle lotte operaie. Non è un caso, vero? C’è un legame con i tempi che


subiamo, in cui è opportuno sorvegliare il precariato e i suoi ambigui cambiamenti… L’area operaista all’interno di DeriveApprodi è stata determinante, la più importante, quella che ha segnato la storia della casa editrice. Con la Biblioteca dell’Operaismo recuperiamo l’attenzione ai processi di produzione e ai suoi effetti espansi. Non è una collana di sola memoria, in quanto vuole dichiarare che l’operaismo ha ancora molto da dire, con la sua capacità di interpretare le trasformazioni conseguenti ai processi produttivi, e con l’elaborazione di una metodologia di riflessione. In tema di precariato, attualissimi i titoli raccolti nella collana Map… Si, Map ha fortemente anticipato la precarizzazione generalizzata delle forme di lavoro. La collana era nata con l’intento di portare avanti una ricerca sul campo, infatti i titoli sono tutti delle dimensioni di indagine. Poi abbiamo scelto di chiuderla, o meglio di farla assorbire dalla collana Fuori Fuoco, in modo che, dopo quanto avvenuto a Genova, le analisi delle trasformazioni in atto si intrecciassero con la ricerca sulle forme di lotta. Non solo temi impegnati, tra le vostre proposte, ma anche leggerezze sottili. Mi riferisco alla collana Vita Activa, ricchissima di testi dedicati all’esercizio del gusto e alla filosofia gastronomica. Qual è la sua storia? Nasce dall’attenzione verso la cultura materiale, quella che contempla il cibo, la sessualità, tutti gli elementi essenziali della vita umana. La maggior parte dei contributi sono di GianniEmilio Simonetti, persona erudita, cultore fine in proposito, docente a Milano. Man mano, il nostro percorso si è intrecciato con la ricerca dell’enologo e gastronomo Luigi Veronelli e siamo diventati parte del progetto Critical Wine. L’attenzione si è così indirizzata sulla sofisticazione alimentare, sulla nocività del cibo, sulla qualità della vita materiale. Ne I giradischi, invece, proponete letture sugli artisti custodi del potere eversivo della musica… Ci interessava trattare la questione musicale in modo differente dalle altre case editrici, e cioè con occhio critico nei confronti dei testi, e con attenzione alla funzione sociale della musica. L’ultimo titolo, La speranza, sempre, è una chiacchierata tra Philippe Manche e Manu Chao. Non ci premeva esaltare la musica di quest’ultimo, ma scoprire chi sia questa persona,

come viva, come si svolga la sua quotidianità e se sia coerente con il suo impegno. Pubblicate anche buona narrativa, sempre segnata da un’attenzione critica e d’opposizione nei confronti dei temi sociali. Come ricercate in questo senso? Abbiamo pochissimi mezzi. La casa editrice si regge sulle energie di poche persone, e l’articolazione in collane diversificate è piuttosto impegnativa. Per la narrativa, esisteva la collana Vox, dedicata agli esordienti, tra cui un nome di spicco è stato senza dubbio Paolo Nori, che poi ha pubblicato con un grande nome. Abbiamo compreso, però, che non ci interessava selezionare narrativa per gli altri, in quanto questa per noi è uno dei tanti registri possibili sulle trasformazioni in atto. Così, Vox è stata chiusa e ora selezioniamo come per tutto il resto, privilegiando i contenuti dalla chiara connotazione politica e dalla forte critica sociale. Per concludere, infinite novità tra le prossime uscite: qualche consiglio di lettura… Quattro! Sicuramente Bolzaneto. La mattanza della democrazia scritto da Massimo Calandri, redattore de La Repubblica, con la prefazione di Giuseppe D’Avanzo, sulla caduta della legalità costituzionale consumatasi a Genova nel luglio 2001. Ci tengo a sottolineare che il libro non è scritto da estremisti o appartenenti ad aree radicali, ma da un giornalista che punta l’attenzione su forze di polizia e sospensione dei diritti. Poi, Vento del meriggio, a cura di Franco Piperno: una raccolta di saggi sul sud che non restituiscono il solito meridionalismo trito e ritrito, ma sollecitano tratti nuovi. Ancora, il secondo numero dell’Accalappiacani, rivista con cd di letture allegato, curata da una cinquantina di scrittori che si riuniscono in un cinema di Reggio Emilia. E infine il terzo volume de Gli Autonomi, che raccoglie una vastissima documentazione sul rapporto tra l’autonomia e le culture - il cinema, la fotografia, il fumetto – e conclude per il momento le 1300 pagine di quest’opera. Stefania Ricchiuto

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CINEMA TEATRO ARTE

LA CENA DI EMMAUS Una mostra, un libro e una serie di incontri per presentare il corto di Josè Corvaglia La Cena di Emmaus del regista e artista salentino Josè Corvaglia non è solo un “piccolo film”; è un progetto culturale molto ampio prodotto da Gianluca Arcopinto in collaborazione con Associazione 17. La cena di Emmaus è frenetica, il ritmo febbrile, una galleria di immagini e riferimenti rocambolesca che ti investe. Proprio mentre pensi di cogliere, di seguire una direzione, sei subito catapultato in un altro scenario che ha in sé un significato e una serie di significanti. Quante cose ci 48 cinema teatro arte

sono dietro la tua cena? Dietro c’è tutta una vita. La mia vita, certo, e quella di tutte le persone che insieme a me hanno lavorato a questo progetto. Poi c’è la vita, i frammenti di vita di ognuno di noi. La mostra, il film e il libro, che sono le diverse declinazioni de La Cena di Emmaus, raccontano emozioni che ognuno di noi conosce, che ognuno di noi vive nella propria esperienza quotidiana. Dare dei nomi a queste emozioni è difficile perché prendono forme e volti diversi. Questo è quello che abbiamo sperimentato sulla pelle nostra e dei visitatori che nel corso di questi quattro mesi


di apertura hanno visitato la mostra a Vaste e visto il film. C’è un dialogo tra l’iconografia classica e forme di comunicazione decisamente più postmoderne… che approccio hai avuto nella scelta dei codici? A dire il vero l’approccio che ho seguito è quello che viene dalla conoscenza della storia dell’arte, dei grandi maestri dell’arte, gli artisti artigiani alla Leonardo, Caravaggio che ci hanno regalato dei capolavori straordinari. Lavorare sui codici di comunicazione è parte del nostro modo di intendere l’espressività artistica. Provare a sperimentare in forme nuove la possibilità di distribuire un film è stata la sfida da cui siamo partiti. Questo piccolo film La Cena di Emmaus è diventato un libro prima e poi ha preso forma di Mostra, ma non per fare marketing fine a se stesso, ma perché forzare le regole del fare e del comunicare in forma tradizionale era il mezzo attraverso cui abbiamo scelto di esprimerci. Hai scelto un non luogo ( il supermercato) come porta per scoprire il doppio del protagonista e con lui la paura il lato oscuro, il contatto violento con una realtà in cui siamo ingabbiati. Perché? Il supermercato è un non luogo così familiare, anche rassicurante per molti. Non è così fuori dal mondo prendere spunto dalla varietà di merci che vi sono in vendita per ricordarsi che dietro un barattolo di ananas si nascondono regole di mercato spietato, si rimanda a luoghi lontani e vicini allo stesso tempo, dove magari ci sono guerra e sfruttamento. Il contatto tra questi due mondi è violento nel film, è vero, ma basta fermarsi a riflettere per sentire quella stessa violenza ogni giorno, sì in un supermercato! È questa la sfida: provare a riflettere. La cena di Emmaus non è solo un film ma di più. Esce dallo schermo, diventa un libro, una mostra… ci parli di questo nuovo progetto? Come accennavo prima, si tratta di un progetto complesso. Film, libro e mostra hanno una propria esistenza ed una propria fruibilità. Tanto per essere chiari la mostra non è fatta con foto di scena o del back stage, la mostra è fatta di quadri dipinti, circa un’ottantina, di linguaggio tra tele che sospese a diverse altezze, sottoposte a luci particolari e in ambientazioni diverse, descrivono la suggestione che per noi è La Cena di Emmaus. Altro è invece il libro, una

graphic novel. Anche qui un genere a sé stante, qualcosa di diverso dal racconto illustrato. Sfogliarlo per credere! E il film, che è il punto da cui materialmente è partito il progetto, è un “piccolo strano film” per dirla con le parole di Goffredo Fofi. Vivere la mostra consente di sperimentare un proprio montaggio con le scene e le suggestioni che trasmettono le sale e i quadri, per poi misurarsi con la visione finale del film in sala. Siamo soddisfatti di questa esperienza, ci siamo confrontati con il pubblico e fino ad ora registriamo interesse e apprezzamento. La cena di Emmaus è anche un’occasione per incontrarsi e parlare… Abbiamo pensato di completare l’esperienza della fruizione museale con quella del confronto aperto invitando a confrontarsi con il nostro progetto personalità del mondo del cinema e della cultura. Le Cene – Conversazione sono state un bel banco di prova. Intanto un’occasione di grande spontaneità, anche i personaggi più particolari si sono rapportati con grande spontaneità con il pubblico e con gli altri interlocutori, meravigliandosene persino! È stato il caso dell’attrice Agnese Nano che parlando parlando si è sentita così a suo agio da accendersi una sigaretta e raccontare al pubblico cose anche personali! Soprattutto ogni Cena è stata l’occasione per approfondire una questione. Abbiamo parlato dei vincitori e vinti del cinema italiano con Domenico Rosa, Corso Salani, Gianfilippo Pedote, Alessandro Contessa, Thomas Martinelli, di scenari futuri con Daniele Gaglianone, Serena Dandini, Lele Marchitelli, delle opportunità del cinema di animazione con Oscar Cosulich, della sperimentazione del cinema dentro il museo con Elfi Reiter. E mi fa piacere dire che il pubblico ha apprezzato, ed era un pubblico non di settore. Anche questa una piccola sfida, perché personalmente non credo all’etichetta della cultura per pochi eletti. Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Di progetti ce ne sono sempre tanti ma per esperienza e per carattere non amo parlarne, preferisco conservarli nella mente. Non è solo scaramanzia, ma questo è un settore delicato in cui da un giorno all’altro può cambiare tutto (O.P.).

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WOODY ALLEN Vicky Cristina Barcelona

Due studentesse newyorchesi e il loro viaggio di “iniziazione” in Europa. Woody Allen porta sullo schermo uno dei classici dell’immaginario americano. Vicky, promessa sposa ad un rampollo dell’alta borghesia newyorchese, è una ragazza forte e decisa, che sa quello che vuole dalla vita; Cristina, più volubile e sognatrice, è alla spasmodica ricerca di una vita “tragica, romantica e fatta di libero pensiero”. Le loro strade si incroceranno con quella di Juan Antonio, un pittore bohemien ossessionato dall’ex moglie, Maria Elena, anche lei artista, con cui ha avuto una storia intensa e distruttiva e che non riesce a far uscire dalla propria vita. Il viaggio che introduce alla vita vera si trasforma per Vicky e Cristina in un percorso alla ricerca del proprio io più profondo, per sfatare o solidificare le certezze della propria esistenza. Allen, nella splendida cornice di Barcellona, rappresenta l’Europa così come la sogna o la immagina un americano della middle class: ricca di suggestioni, di sapori intensi, di storia, di bellezze architettoniche e naturali, di gente interessante. È curiosa la scelta del regista di contrapporre in maniera così netta la piattezza e la standardizzazione dei costumi statunitensi, a confronto con la “poesia” e la particolarizzazione di quelli dell’Europa latina. Il viaggio di Vicky e Cristina porterà la prima a mettere in discussione il futuro sicuro ed agiato che aveva prefigurato con Dug e la seconda ad un passo da ciò che cercava: una vita diversa, esaltante, fatta di estro e “libero pensiero”. Ben presto però il loro viaggio si concluderà lontano da ciò che avevano sperato, con il ritorno negli Stati Uniti e la fine dell’illusione di una rottura con l’esistenza borghese che, inevitabilmente, le aspetta. Lo scioglimento dei risvolti del film è, probabilmente, abbastanza prevedibile. Così come prevedibili, allo stesso tempo, sono le fughe di Vicky, di Cristina e di Juan Antonio, ciascuno su un diverso binario, verso il proprio destino. Curioso, incerto, felice o infelice che sia. Giuseppe Colucci 50 cinema teatro arte

ETHAN E JOEL COHEN Burn After Reading - A prova di spia

A pochi mesi dall’abbuffata di Oscar per No country for old men, Ethan e Joel Cohen tornano nelle sale italiane con Burn after reading (violentato e trasformato dalle case di distribuzione italiane in A prova di spia), una commedia che scimmiotta e sberleffa i film polizieschi e politicizzati della Hollywood degli anni ’70 e che rappresenta un totale cambio di registro stilistico rispetto all’ultima, pluripremiata, opera. Sullo sfondo “istituzionale” di Washington, il film è una parata di personaggi che raccontano l’America contemporanea impersonandone i clichè negativi; una serie di figure che per propria (Chad) o altrui (Osbourne Cox) volontà si trovano a dover affrontare situazioni per loro inusuali. Creando un enorme ed ingarbugliato calderone dagli effetti tragici ma esilaranti. Le figure che i Cohen portano sullo schermo sono personaggi mediocri, negativi, una sorta di rassegna di “nuovi mostri” metropolitani (il professionista licenziato per motivi politici, il poliziotto poligamo, la moglie stanca ed “inacidita” dagli anni che passano, la donna di mezza età in crisi estetica, l’istruttore di ginnastica che tenta la fortuna in modo maldestro) che aspirano a cambiare la propria posizione nel mondo, spinti dalle proprie infime pulsioni più che dalla propria intelligenza e dal calcolo. Il tentativo di spostare gli equilibri sociali esistenti ed il fatalismo dei fratelli Cohen portano con sé “una scia di sangue senza movente né dolore”. I registi ricorrono a molti trucchi nella sceneggiatura per incastrare gli avvenimenti in modo grottesco ed esilarante, rendendo una serie fortuita di circostanze, il canovaccio di una storia intricata e difficile da comprendere persino per i personaggi del film. Emblematici i dialoghi, a limite del nonsense “tarantiniano”, tra i due poliziotti che indagano sul susseguirsi delle vicende, personificazione del cinismo rappresentato da una classe dirigente il cui obiettivo ultimo appare quello di preservare la propria specie, lasciando tutto com’è, in un equilibrio artefatto ed instabile. Giuseppe Colucci


STRADE MAESTRE La rassegna teatrale dei Cantieri Koreja torna con molte novità e tanta qualità

La parola teatro a Lecce, da circa un decennio, è sinonimo di Cantieri Koreja. Dalle Tre Masserie di Aradeo alla ex fabbrica di via Dorso in quella che un tempo era una periferia poco abitata e adesso si è trasformata in un quartiere signorile con villette, palazzi e uffici, i Cantieri sono cresciuti e si sono imposti come punto di riferimento del teatro pugliese, nazionale (con il riconoscimento di Teatro Stabile d’Innovazione) e internazionale. Passano gli anni ma il fondamentale apporto di Salvatore Tramacere, Franco Ungaro e tutto lo staff (molto variato nel corso di venti anni di vita) alla crescita di questo territorio resta intatto. Nel 2008/2009 la rassegna Strade Maestre, curata dai Cantieri con il sostegno e il supporto di numerosi enti, si rinnova e si rilancia con la presenza di alcuni dei protagonisti più significativi della scena artistica nazionale e internazionale. La stagione teatrale si inaugura venerdì 7 novembre (in replica sabato 8) con Eugenio Allegri che legge Novecento tratto dal testo di Alessandro Baricco. Nel corso della stagione il palco di Koreja ospiterà anche Peter Brook e Theatre des Bouffes du Nord (venerdì 30 e sabato 31 gennaio). Un momento atteso giacché Brook ha influenzato tutto il teatro occidentale contemporaneo attraverso una ricerca radicale sul corpo, sulla voce e sull’improvvisazione, gli scambi con Jerzy Grotowski e le grandi tradizioni teatrali extraeuropee. Tornano nel Salento César Brie con il Teatro de los Andes (2 e 3 maggio), Alfonso Santagata (ve-

nerdì 3 e sabato 4 Aprile) e Gabiele Vacis (venerdì 13 e sabato 14 marzo ). Da sottolineare anche la presenza di Roberto Herlitzka (lunedì 8 e martedì 9 dicembre), Maurizio Lupinelli che firma la regia di Magnificat + Fuoco Nero di Antonio Moresco (sabato 3 gennaio), Paolo Bonacelli con lo spettacolo Aldo Moro. una tragedia italiana di Corrado Augias e Vladimiro Polchi (sabato 10 e domenica 11 gennaio). “Questa per noi – affermano a Koreja - non è soltanto una nuova stagione ma una stagione nuova, differente e diversa, aperta alle sfide che il tempo e la realtà ci impongono per reagire al rischio di assuefazione, appiattimento e omologazione”. Si tratta del rilancio di un progetto artistico, all’insegna della qualità, dell’originalità, della vocazione sempre più europea del teatro leccese, del dialogo fra i diversi linguaggi artistici fra teatro, musica, danza e visual art, dell’incontro con un pubblico in cerca di contenuti culturali e di emozioni forti. Fra le novità della stagione il progetto Passages arte, architettura e design a cura del giornalista, studioso e critico del design Marco Petroni. La rassegna ospiterà inoltre alcune produzioni (vecchi e nuove) di Koreja che poi saranno in tour in tutta Italia: da Paladini di Francia a La Passione delle Troiane, dal Calapranzi a Giardini di plastica). Info 0832.242000 – www.teatrokoreja.com


SPAZIO OFF A TRANI “Credo che il nocciolo della questione sia proprio nella parola sperimentare”. Claudio Suzzi sottolinea così la natura del nuovo Spazio Off di Trani, un contenitore culturale e teatrale ricavato da un capannone industriale nella periferia del centro pugliese. Si può dire che tutto il percorso di Fabrica Famae Teatro in quanto compagnia di produzione e di Spazio O.F.F., come Piccolo Teatro Stabile d’Interazione, possa essere considerato in Puglia un processo di sperimentazione teatrale, sia scenica che sociale. Il rapporto tra centro e periferia è sempre stato un tema chiave del nostro lavoro, soprattutto in relazione alle esperienze produttive che come staff abbiamo realizzato nelle carceri toscane e in quelle pugliesi. Per tanto tempo, a Firenze, il nostro lavoro è stato condiviso con i detenuti e il carcere è stata la nostra residenza, poetica e produttiva. Quando personalmente ho deciso di tornare in Puglia, dopo undici anni di lavoro in Toscana, ho fatto una scelta tra centro e periferia, scegliendo nuovamente la periferia. Quindi quando abbiamo dovuto scegliere un luogo in cui dar vita allo Spazio O.F.F., non ci ha spaventato l’idea di crearlo fuori da ciò che di solito si definisce centro. Come è risaputo, il sud è una terra di contrasti e paradossi e la nascita dello Spazio O.F.F. ne ha evidenziato maggiormente alcuni, che a mio avviso riguardano soprattutto il modo di vivere dei giovani. Lo Spazio O.F.F., oltre ad essere la residenza creativa di Fabrica Famae Teatro, si è subito posto come piattaforma aperta, per tutti coloro alla ricerca di una valvola di sfogo, di un punto dedicato all’arte in cui potersi 52 cinema teatro arte

esprimere professionalmente. Pensavamo che lo Spazio O.F.F. avrebbe rappresentato, almeno sul territorio del nord barese, la possibilità di colmare una lacuna e invece abbiamo percepito diffidenza, nei confronti di un luogo forse un po’ troppo di rottura. Attualmente stiamo lavorando per dare forza a fenomeni di aggregazione artistica e per fare rete tra le diverse realtà produttive del nord barese. Ma anche in questa rete ci si chiede: cosa sarà centro? E cosa periferia? Funzionerà lo Spazio O.F.F. come impulso per una nuova esperienza di decentramento teatrale? Sarà il centro a raggiungere la periferia, o il contrario? Come valutate la vostra scorsa stagione e come avete immaginato la prossima? Avete in mente nuovi format? La scorsa stagione è stata un salto nel buio. Ritornando al concetto di prima, il centro si è messo in subbuglio mosso soprattutto da tanta curiosità, un po’ come quando arriva il circo in città. Abbiamo fin subito puntato ad una qualità nelle proposte sia teatrali che musicali, pensando che di questo ci fosse bisogno. Sicuramente le nostre scelte ci hanno ripagato, se non in termini economici almeno nella diffusione e nell’interesse che si è creato intorno alla nostra esperienza. Un elemento che sicuramente ci contraddistingue è quello di associare la tipica gestione di un teatro alla presenza di un american-bar e di un vero e proprio pub. Tutto ciò rende lo Spazio O.F.F. polifunzionale nel senso che rappresenta un luogo ibrido, difficilmente catalogabile attraverso etichette precostituite. Quest’anno ci siamo posti l’obiettivo di radicare l’esperienza. La paura penso accompagni qualsiasi struttura o operatore culturale, soprattutto in periodi come


questi. Il nostro obiettivo è quello di rimanere in vita, cercando di sfruttare il nostro spirito di sopravvivenza, cercando di non perdere fiducia nella gente del nostro territorio, cercando di non scivolare dalla lama del rasoio. Com’è il rapporto con gli altri centri produzione culturale? (teatri, circoli Arci, gruppi musicali?) Siete in rete? Cercate collaborazioni? E che risposta avete ricevuto? Definiamo lo Spazio O.F.F. un “Piccolo Teatro Stabile d’Interazione”. Ho inventato questa denominazione particolare, sia con un leggero spirito polemico che per sottolineare la sua natura comunicativa ed aperta. Volevo rifuggire dall’immagine del centro culturale autoreferenziale, aperto solo agli addetti ai lavori, in cui si presenta l’arte contemporanea non per farla conoscere al pubblico ma per tenerla da parte, come qualcosa di elitario. Pensiamo che la creazione di una rete sia indispensabile soprattutto qui al sud, dove ognuno tende a rimanere chiuso nel proprio orto, per paura che qualcuno possa diventare più grande o più bravo o più qualcos’altro degli altri. E il rapporto con le istituzioni ed i privati? C’è qualche mecenate per lo Spazio O.F.F., o l’autarchia è una condizione imprescindibile? Lo Spazio O.F.F. è nato grazie all’investimento di quattro componenti di Fabrica Famae Teatro e precisamente io e Roberto Tafuro, Rocco Di Fonzo e Paride Di Martino. Oggi come oggi investire in cultura, in un luogo stabile che prevede spese non indifferenti, equivale ad affermare il proprio stato di follia, sfidare la sorte. In una società che non ti da lavoro te ne crei uno che ha pochissime possibilità di riuscita e sussistenza. Ma questa è la nostra scelta ed è una scelta di indipendenza. Per quanto riguarda gli Enti Pubblici è diverso. Proprio per la nostra ottica “politica”, pensiamo che le istituzioni debbano farsi garanti della sopravvivenza di spazi come il nostro. Devo dire il Comune di Trani pian piano si sta rendendo conto della ricaduta territoriale che un centro come il nostro sta creando, soprattutto nei giovani. La Regione e la Provincia, se pur con piccoli contributi, hanno reagito bene nei nostri confronti fin dai primi mesi di vita. Dal nostro canto continueremo a resistere, anche grazie a persone come voi, che si interessano ad esperienze come quella di Spazio O.F.F. e di Fabrica Famae Teatro (Info www.fabricafamae.org). Dino Amenduni

CINEMA E PUGLIA

Se Gomorra, film di Matteo Garrone tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano, rappresenterà il cinema italiano agli Oscar, Galantuomini di Edoardo Winspeare ha ben impressionato al Festival del Cinema Internazionale di Roma. Genesi profondamente diversa per raccontare però gli stessi problemi di due regioni, la Campania e la Puglia, fortemente interessate dal fenomeno malavitoso. Se in Gomorra è la Camorra la protagonista, nel film del regista salentino (nelle sale dal 21 novembre) è invece la Sacra Corona Unita a fare da sfondo alla storia. Ben accolto dal pubblico e dal critica, anche grazie alle interpretazioni di Beppe Fiorello e di Fabrizio Gifuni, la giuria ha premiato Donatella Finocchiaro, l’attrice siciliana nei panni della moglie di un boss, che viene coinvolta da una storia d’amore con un giudice. Il film (del quale parleremo abbondantemente sul prossimo numero del giornale) era affiancato al Festival da un’altra produzione che parla pugliese. Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari, ispirato dal bel romanzo del magistrato e parlamentare Gianrico Carofiglio. In entrambi i casi c’era infatti lo zampino dell’Apulia Film Commission, presieduta da Oscar Iarussi e diretta da Silvio Maselli, il cui lavoro sta iniziando a dare buoni frutti. Giacché è importante accogliere le produzioni italiane e straniere in terra di Puglia (a tal proposito sono in fase di realizzazione i due Cineporti a Bari e presso la Manifatture Knos di Lecce) ma è fondamentale anche dare voce (e denaro) alle produzioni di registi pugliesi che, come abbiamo visto, sanno farsi valere. Considerate anche le uscite di Pinuccio Lovero, Sogno di una morte di Mezza estate di Pippo Mezzapesa (presentato alla Settima della critica di Venezia), Fine Pena Mai di Davide Barletti e Lorenzo Conte, Il Teatro e il Professore di Paolo Pisanelli (al Festival di Roma nella sezione extra “L’altro cinema d’essai”) il 2008 del cinema pugliese può considerarsi soddisfacente. Senza pensare ai film, ai corti, alle fiction che qui sono stati girati. cinema teatro arte 53


TEATRI ABITATI

Calimera e Zollino ospitano un’interessante iniziativa curata da Astragali Teatro. Un anno di appuntamenti, spettacoli, incontri e workshop. Una delle avventure più longeve della scena teatrale salentina è rappresentata da Astragali Teatro che da oltre venticinque anni è stabile a Lecce, nella storica sede di Via Candido. Una scommessa che continua con risultati costanti che hanno condotto alla ricerca di una vera e propria compagnia del mediterraneo. Il lavoro non si ferma e prosegue anche sul territorio con il progetto Teatri Abitati -Residenze Teatrali in Puglia che, a cura di Astragali, coinvolge il Teatro Elio di Calimera e alcuni spazi di Zollino, come l’Auditorium e la stazione ferroviaria. Il progetto si svilupperà nell’arco di oltre un anno abitando e animando il territorio dei due paesi. Si susseguiranno eventi, iniziative, spettacoli, laboratori, concerti, presentazioni di libri, incontri con persone di teatro, musicisti, artisti e intellettuali della scena nazionale e internazionale. “Il nostro obiettivo”, spiegano da Astràgali, “non è quello di fare una rassegna ma di creare un movimento perenne nei due paesi della Grecìa 54 cinema teatro arte

Salentina, coinvolgendo tutte le realtà presenti sul territorio e cercando di accogliere quello che esiste sulla scena artistica contemporanea e che si avvicina al nostro percorso di ricerca. La prospettiva è, ancora una volta, il Mediterraneo; scelta che si sostanzia ancora di più in paese dove permane una presenza grecofona forte e importante. Saranno tante le ospitalità di artisti provenienti da vari paesi del Mediterraneo, una vocazione ed una scelta di dialogo e confronto centrale nello spirito di questa iniziativa, che si approfondirà anche in incontri con studiosi di rilievo internazionale”. Dopo la conferenza Una memoria per l’oblio. Omaggio al poeta palestinese Mahmud Darwish con Monica Ruocco (Università di Palermo) e il concerto dei tarantini Leitmotiv, il programma proseguirà a novembre e dicembre con una serie di appuntamenti teatrali e musicali. Domenica 9 e lunedì 10 novembre l’attore Roberto Corradino presenterà il laboratorio La lingua di Shakespeare (presso l’Auditorium di Zollino) e la conferenza/ spettacolo Nudo e In Semplice Anarchia (presso


il Teatro Elio di Calimera). Giovedì 13 novembre a Zollino il professore Eugenio Imbriani terrà l’incontro Melissi — Il Corpo Dell’arte mentre lunedì 17 novembre a Calimera andrà in scena La betissa di Antonio Verri a cura di Astràgali Teatro e Luigi Botrugno Jazz Trio. Dal 19 al 23 novembre spazio invece al Workshop Internazionale di Kathakali con il maestro indiano Kalamandalam Karunakaran e Nina Parry (Francia). Disciplina classica dell’India, il Kathakali è “un’arte totale”, è l’ideale sintesi di tutte le forme dell’arte tradizionale del Kerala: mimo, danza, arte marziale, poesia, musica. Il Workshop si chiuderà lunedì 24 al Teatro Elio di Calimera con lo spettacolo La Redenzione di Lalitha. Sabato 29 novembre nell’Auditorium di Zollino il professore Fabio Acca (DAMS Università di Bologna) terrà un incontro dal titolo Living Theatre,Brook,Grotowski:Tre Ipotesi Per Un Modello Artaudiano. Lunedì 1 dicembre ancora spazio alla musica presso il Cinema Elio di Calimera con Alexander De Large, Texans e Superfreak. Giovedì 4 dicembre a Zollino il professore Pietro Fumarola presenta Stigmatizzati. Dall’8 al 10 dicembre Astragali mette in scena Beckett Suite mentre lunedì 15 dicembre a Calimera la compagnia Qualibò sarà sul palco con Partitura Privata. Ultimo appuntamento dell’anno venerdì 19 dicembre con la presentazione di Communism, Bed & Breakfast, ultimo volume del giornalista Raffaele Gorgoni. Evento finale della residenza, ad ottobre 2009, sarà la produzione e presentazione di uno spettacolo di Astràgali Teatro per la regia di Fabio Tolledi. Il progetto Teatri Abitati -Residenze Teatrali in Puglia, proposto dal Teatro Pubblico Pugliese e finanziato attraverso l’Accordo di programma quadro Sensi Contemporanei, è finalizzato alla promozione e diffusione dell’arte contemporanea e alla valorizzazione di contesti architettonici e urbanistici nelle regioni del sud Italia, sottoscritto dalla Regione Puglia, Assessorato al Mediterraneo, dal Ministero dello Sviluppo Economico e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Un network di compagnie teatrali, musicisti, attori e danzatori pugliesi che per 18 mesi abiteranno 11 teatri pubblici; dovranno gestire il teatro in toto (dal botteghino ai servizi di sala), promuovere il pubblico e le attività teatrali, produrre uno spettacolo. Dovranno essere in relazione con il territorio creando un’attività partecipata: stage, selezione di artisti, incontri, workshop. Info e prenotazioni: 0832306194, 3209168440; e-mail astragali@libero.it

IL CENTRO DEL DISCORSO

Fare del teatro centro della vita, rappresentazione del mondo è mestiere difficile. Occorre dialogo, riflessione sulla direzione, sul futuro del teatro e la sua funzione. Scrivere per il teatro è riuscire a fotografare tutte queste esigenze e cercare di rispondere a un pubblico e alla realtà. Lavorare per inaugurare una nuova stagione del teatro è linfa vitale per la sua stessa sopravvivenza, per restituirgli senso. Serve incoraggiare la produzione di nuovo, la nascita di idee. Per fare questo è necessario fermarsi, prendere il tempo necessario per innescare scambio, intraprendere un dialogo. Questo e molto altro è il “Centro del discorso” premio di drammaturgia contemporanea in Salento organizzato e promosso da Induma Teatro presso le Manifatture Knos. Un anno dedicato al teatro, un viaggio a tappe partito in questi giorni con la pubblicazione del bando per la partecipazione al premio (si può scaricare sul sito www.manifattureknos.org), la formazione della giuria e proseguirà e aprirà i lavori il 5,6,7 dicembre con un incontro intorno al teatro tra giurati, studiosi, addetti ai lavori ma anche semplici interessati. Nel corso dei mesi i testi proposti verranno man mano selezionati, al contempo si svolgeranno seminari, workshop di drammaturgia, letture sceniche dei testi presentati al premio. Alla fine verrà selezionato un testo che sarà prodotto da Induma teatro e Manifatture Knos e messo in scena in occasione di un Festival di teatro e Drammaturgia organizzato a Lecce. Questo è solo l’inizio di quello che in realtà tende a diventare una sorta di laboratorio permanente, una discussione aperta intorno all’argomento, un ponte capace di stabilire un contatto tra società e teatro. Un progetto che ha un’apertura nazionale e parte dalla periferia per diventare e conquistare il centro. Membri della giuria che seguirà le attività del centro del discorso e valuterà i testi partecipanti sono: Fabrizio Arcuri, Arturo Cirillo, Massimiliano Civica, Andrea Porcheddu, Letizia Russo, Antonio Tarantino, Clarissa Veronico e Werner Wass, che insieme a Lea Barletti (nella foto in alto), è responsabile artistico del progetto. cinema teatro arte 55



EVENTI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE Adel’s e Rekkia al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Il Cavaliere Alessandro al Goldoni di Brindisi VENERDÌ 7 Vegetable G alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) Amia Venera Landscape e Following The Shade all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Eugenio Allegri Legge Novecento presso i Cantieri Koreja di Lecce Papiers al Glamour di Taviano (Le) SABATO 8 Laurie Anderson a Bari La rassegna Time Zones ospita Laurie Anderson, uno tra i più raffinati artisti al mondo che ha saputo continuamente affascinare, divertire e sfidare il pubblico con le sue rappresentazioni multimediali. Al Palamartino di Bari presenta Homeland, un concerto-poema nel quale vengono esplorate le paure del nuovo millennio americano, le ossessioni relative alla sicurezza, l’aumento della solitudine e la perdita di libertà. Ingresso 20 euro. Info www. timezones.it El Sabatone all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Nuovo appuntamento mensile con El Sabatone di Tobia Lamare con la partecipazione di Populous. L’uomo che ha cambiato il modo di ballare, un’enciclopedia vivente di musica alternativa, l’uomo che rispolvera e anticipa le tendenze. La nave ebbra nel centro storico di Lecce Franziska a Leverano (Le) Sound club a Ceglie Messapica (Br) Super Reverb al Sinatra Hole di Ugento (Le) Experimental al Teatro Off di Trani Adel’s al Gabba Gabba di Taranto DOMENICA 9 La lingua di Shakespeare presso l’Auditorium di Zollino (Le)

La lingua di Shakespeare è un laboratorio dell’attore Roberto Corradino, il primo momento di un cantiere di teatro. La lingua di Shakespeare è una pratica viva, una comunità di attori, un paese

condiviso in cui mescolare lingue e storie individuali – corpi, voci, memorie, immaginario –, una sorta di “palestra teatrale” in cui provare una nuova lingua, quella del teatro, per raccontare la storia tragica di re Riccardo II d’Inghilterra Pensieri e parole - tributo a Lucio Battisti al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) La classe operaia va all’inferno ad Alessano (Le) Camillorè al Nordwind disco pub di Bari LUNEDÌ 10 Nudo e in semplice anarchia al Teatro Elio di Calimera (Le) Atto IV, scena prima, Riccardo II, William Shakespeare. Riccardo secondo d’inghilterra sta per essere deposto; ma Riccardo è prima di tutto un poeta e da poeta abdica e si fa deporre, muore al mondo attraverso le sue parole, dilata l’azione e rompe il tempo come solo il poeta sa e può fare. Un attore solo in conferenza, al momento della deposizione, nel corpo sacro del re. il pubblico come i lord e i pari d’inghilterra in attesa dello spettacolo della caduta del re. Sul palco Roberto Corradino. GIOVEDÌ 13 Cristina Donà a Specchia (Le)

La rassegna Donne che dovresti conoscere ospita la cantautrice Cristina Donà, una delle voci più importanti del panorama musicale italiano. Tregua, l’album d’esordio del 1997 ottiene una serie di riconoscimenti stupefacenti tra cui Targa Tenco per il miglior debutto e il Premio Lunezia come “Miglior autore emergente” per il valore poetico delle canzoni. Il secondo album Nido vede diverse collaborazioni importanti (Mauro Pagani, Morgan, Manuel Agnelli, Robert Wyatt). Nel 2000 il debutto in libreria con il volume Appena sotto le nuvole. Nel settembre 2004, Mescal dà alle stampe in Italia Cristina Donà, primo album in inglese dell’artista che Rykodisc International pubblica con successo in 33 paesi nel mondo. Nel 2007 esce La quinta stagione, premiato come miglior album italiano dell’anno da Musica e Dischi, il prestigioso mensile di settore. Nel 2008 esce Piccola faccia, una rilettura eventi 57


di alcune delle canzoni più significative del passato di Cristina in versione acustica. L’appuntamento è presso il Convento dei Francescani Neri a Specchia. Inizio ore 20.30. Ingresso gratuito. Black Dog al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Roulette cinese al Goldoni di Brindisi Crac al Teatro Off di Trani DA GIOVEDÌ 13 A DOMENICA 16 Il Calapranzi ai Cantieri Koreja di Lecce Quattro repliche per la produzione della compagnia leccese. Attraverso linguaggi periferici e invenzioni sceniche, ci si misura con un testo che ben si adatta alla nostra contemporaneità inquieta, spiata, telecomandata a tal punto da insidiare e minacciare l’individuo stesso. Ingresso 12 euro. Info e prenotazioni: 0832.242000/240752 VENERDÌ 14 Lamas and The Bones, Coke ‘N’ Cate e Alan Wickers all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Annette Peacock e Freefall al Teatro di Cagno di Bari

Nuovo appuntamento per Timezones. Sul palco Annette Peacock e il trio jazz Freefall. Originaria di Brooklyn (New York) ma cresciuta nella California del Sud, Annette Peacock inizia fin dall’età di cinque anni la sua avventura con la musica, approfittando del pianoforte incustodito nelle molte sere in cui sua madre, musicista classica, era fuori di casa per lavoro. I Freefall sono invece un trio composto da Gianni Lenoci, Kent Carter e Marcello Magliocchi, tre maestri del jazz contemporaneo che vantano prestigiose collaborazioni con figure leggendarie come Steve Lacy, Mal Waldron, Paul Bley , Joelle Leandre, Steve Potts, Massimo Urbani (solo per citarne alcuni) attraverseranno la musica e lo spirito della Peacock rileggendone tutte le implicazioni ed i simboli che essa contiene: l’amore per il rock e per l’improvvisazione spericolata,languide “free ballads” ed aggrovigliati temi asimmetrici, l’elettronca e l’ossessiva ed allucinata ricerca dell’intervallo perfetto, i contrasti tra avanguardia e tradizione.” Ingresso 10 euro. Info www.timezones.it 58 EVENTI

The flame recordings al Teatro Off di Trani Bud Spencer Blues Explosion al Gabba Gabba di Taranto Lola and the lovers e Ballarock al Glamour di Taviano (Le) SABATO 15 Saska-Chewa all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) La band, nata nell’estate 2008, è formata da 6 musicisti, ognuno con diverse esperienze e influenze musicali,ma tutti con la passione per il levare e la volontà di rendere viva la musica. I Saska-Chewa hanno nel loro repertorio non solo brani inediti, influenzati dallo ska, dal punk, e dal rock con contaminazioni balcaniche,blues e jazz, ma eseguono anche cover degli Ska-P, Tokyo Ska Paradise Orchestra, Meganoidi, Skatalities, Vallanzaska, Matrioska. Bud Spencer Blues Explosion ai Sotterranei di Copertino (Le) Il mandolino: storie di uomini e suoni nel Salento a Torchiarolo (Br) Presentazione del volume (più cd realizzato e autoprodotto dal musicista Gianluca Longo. L’appuntamento è nella Sala Valesium del Municipio. Inizio ore 19.30. Racconti crudeli della giovinezza al Teatro Kismet di Bari Carmen Consoli al New Demodè di Bari Paipers al Sinatra Hole di Ugento (Le) Cff e il nomade venerabile al Teatro Off di Trani DOMENICA 16 Tutta ‘nata storia – tribute band Pino Daniele al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Racconti crudeli della giovinezza al Teatro Kismet di Bari Paramount Styles a Bari Prosegue Timezones con Paramount Styles, la prima uscita solista da Scott McCloud, cantante/ chitarrista di uno dei gruppi rock fondamentali targati ‘90, i Girls Against Boys. È il suo primo disco in 5 anni durante i quali ha collaborato con artisti del calibro di Courtney Love (chitarra in ‘America’s Sweetheart’), realizzato la colonna sonora per ‘Hedwig and the angry inch’ e apparso in un reality show televisivo sul rock’n’roll con Gina Gershon. L’appuntamento è al Bohemien di Bari. Ingresso 10 euro. Info www.timezones.it MERCOLEDÌ 19 Studio per esercizi di Lingua violenta al Teatro Kismet di Bari GIOVEDÌ 20 Steve Reich al Teatro Royal di Bari Dopo anni di contatti il festival Timezones concretizza un progetto col grande compositore Steve Reich. La performance lo vedrà anche in veste di musicista assieme all’ensemble riunito per l’occasione. Il progetto è nato da una proposta tutta barese, sviluppatasi nel conservatorio dove Luigi Morleo – compositore e percussionista – ha immaginato un ensemble costruito intorno alle


tappe più interessanti del lavoro di Steve reich. Direttore d’orchestra e coordinatore del progetto è David Cossin, un personaggio ormai noto alla terra Pugliese ed a cui è legato a doppio filo grazie all’esperienza di Sound Res, di cui è direttore artistico. Nato a New York nel 1936, Reich si è diplomato in filosofia alla Cornell University. Nei due anni successivi ha studiato composizione con Hall Overton, quindi, dal 1958 al 1961, alla Juilliard School con William Bergsma e Vincent Persichetti. Nel 1963 ottiene il master in composizione al Mills College, dove lavora con Luciano Berio e Darius Milhaud. La sua musica è stata portata in tutto il mondo dalle più grandi compagini, incluse la London Symphony Orchestra, New York Philharmonic, San Francisco Symphony, Ensemble Modern, Ensemble Intercontemporain, London Sinfonietta, Theater of Voices, Schoenberg Ensemble, Brooklyn Philharmonic, Saint Louis Symphony, Los Angeles Philharmonic, BBC Symphony, Boston Symphony. Molti coreografi hanno lavorato sulla sua musica. È stato eletto all’American Academy of Arts and Letters, all’accademia Bavarese di belle arti e Commandeur de l’ordre des Arts et Lettres. Nell’ottobre 2006, a Tokyo, gli è stato assegnato il premio Imperial Award in Music. Nel maggio 2007 ha ricevuto il premio Polar dalla Royal Swedish Academy of music. Ingresso 20 euro. Info www. timezones.it Pete Ross al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Nato in Australia da una famiglia di emigranti italiani, figlio d’arte (suo padre, Peter Ciani, è forse il più popolare songwriter italo-australiano), innamorato del country classico e moderno (Johnny Cash, Townes Van Zandt, Lee Hazlewood...) ma anche della canzone folkloristica di ascendenza italiana ed in particolare siciliana (che ne dite di una “Sciuri Sciuri” in versione country??), Pete Ross è davvero un personaggio tutto da scoprire. Dopo una lunga carriera con The Broken Arrows, una tra le più interessanti country bands australiane degli anni ‘90, Pete ha ora deciso di vestire i panni del solista dando alle stampe il suo primo album, “Six string suicide” (che verrà presto distribuito

in Italia dalla Edel). Ora accompagnato dalla sua band (The Paesanos), ora in versione solitaria, Ross alterna le folk ballads della tradizione australiana e americana con composizione proprie profumate di roots, e persino con brani in italiano (“Sara sarà”). Ingresso gratuito Studio per esercizi di Lingua violenta al Teatro Kismet di Bari Enza Buono Carofiglio a Presicce (Le) Nell’ambito della rassegna Donne che dovresti conoscere, incontro con la scrittrice Enza Buono Carofiglio che presenterà il suo ultimo romanzo Quella mattina a Noto (Nottetempo 2008) con la partecipazione dell’attrice Cristina Mileti. L’appuntamento è nel Palazzo Ducale di Presicce. Inizio ore 20.00. Ingresso gratuito. Alessandro Grazian al Goldoni di Brindisi Gonzago’s Rose ai Cantieri Koreja di Lecce Enrico Rava al Ueffilo di Gioia del Colle (Ba) VENERDÌ 21 Cut all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) La serata, realizzata in collaborazione con Coolclub, ospita il rock dei bolognesi Cut. La band nasce nel febbraio 1996 ed esordisce dal vivo nel giugno dello stesso anno. È l’inizio di un’incessante attività live che dura tuttora e che ha portato la band a esibirsi su e giù per l’Italia e l’Europa centrale. Dividono il palco con (tra gli altri): Make-Up, Unwound, Royal Trux, Ulan Bator, Speedball Baby, Three Second Kiss, Delta 72, Hives, The (International) Noise Conspiracy, Capitol City Dusters, One Dimensional Man, Enfance Rouge, Old Time Relijun, Eels, Man or Astro-man. Alessandro Grazian alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)

Nuovo appuntamento della rassegna Tele e ragnatele con il cantautore veneto che presenterà i brani del nuovo cd Indossai. Nel 2005, dopo una lunga e solitaria gavetta, coinvolge nel proprio progetto artistico alcuni musicisti e realizza il primo album, intitolato Caduto, che esce per Trovarobato e Macaco Records con distribuzione Audioglobe. Dopo la fortunata tournèe di promozione dell’album eventi 59


percorsa tra gli altri assieme a Enrico Gabrielli e Nicola Manzan, si dedica al teatro partecipando come musicista di scena alle 80 repliche dello spettacolo Nati sotto contraria stella. Nell’aprile 2008 esce in free download l’EP Soffio di Nero, anticipazione trasfigurata del nuovo album. Il mese successivo viene pubblicato Il Dono - Tributo ai Diaframma, compilation/tributo organizzata da Federico Fiumani: Grazian partecipa reinterpretando Fiore non sentirti sola. Alessandro Grazian ha ricevuto numerosi riconoscimenti musicali (Mantova Musica Festival nel 2006) e in parallelo all’attività di chansonnier si occupa anche di arti figurative. Ingresso 5 euro. Negramaro a Taranto Gonzago’s Rose ai Cantieri Koreja di Lecce Miss Violetta Beauregarde e Ada Nuki al Gabba Gabba di Taranto Spread your legs al Glamour di Taviano (Le) SABATO 22 Spread Your Legs all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)

Fossero nati in Inghilterra sarebbero il gruppo del momento. Gli Spread your Legs vengono dal Salento, sono giovanissimi, insieme da una

manciata di anni, ma hanno già le carte in regola per fare molta strada. Una grande attitudine rock and roll, una fascinazione per la nu wave, tutta la carica del disco punk, l’incoscienza dei vent’anni e il talento acerbo sono gli ingredienti che rendono questa band irresistibile. La loro presenza scenica è capace di far ballare tutti. Merito delle ritmiche in levare, delle chitarre taglienti, i ritornelli che dopo pochi minuti sono tormentone, i coretti, i saltelli, l’ironia e tutta l’energia che oggi solo pochi gruppi sanno esprimere. Li promessi sposi a Sannicola (Le) Divertente esordio alla regia per il comico neretino Andrea Baccassino, in una particolare rilettura del romanzo di Alessandro Manzoni, qui interpretato da ragazzini e ragazzine di una decina di anni. Lina al Teatro Kismet di Bari Morrison Hotel al Sinatra Hole di Ugento (Le) Cut al Teatro Off di Trani Sud Sound System al New Demodè di Bari DOMENICA 23 Dune Mosse – Tribute band Zucchero al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Miss Violetta Beauregarde all’Istanbul Cafè di Squinzano (le) Il progetto electro-punk solista della performer italiana Cristina Gauri. Ha iniziato esibendosi in concerti in Italia ed Europa, ed il suo primo CD, “Evidentemente non abito a San Francisco”, ha ricevuto parecchia attenzione da parte della stampa musicale italiana. Il disco seguente, “Odi Profanum Vulgus et Arceo” è uscito per la Temporary Residence Limited nel Settembre 2006: l’attenzione a questo lavoro è stata ancora maggiore, anche a livello internazionale, e Beck lo ha indicato come il suo secondo disco preferito dell’anno 2006. La musica di Violetta Beauregarde è stata paragonata a quella di artisti quali Kid 606, Atari Teenage Riot o DAT politics. È composta al computer o con strumenti circuit bent, sui quali grida i propri testi. Nei suoi spettacoli dal vivo l’atteggiamento di Violetta sul palco è a volte scioccante, come nell’occasione in cui gettò teste di agnello sul pubblico. Miss Violetta vanta anche di numerose collaborazioni con il Truce Klan e un side project con la band elctro dath metal “Ivs Primae Nocti”. È stata la prima Suicide


Girl italiana, col nome di Aiki. Col nome stesso utilizzato nel suo blog, ovvero “Heidi 666”, ha anche recentemente pubblicato un libro dal titolo “L’eterna lotta tra il Male e il Malissimo”. è apparsa in un videoclip porno amatoriale sul web e si è prodotta in un blowjob nel film pornografico “Mucchio Selvaggio”. La serata è realizzata in collaborazione con Coolclub. Info 0832303707 – www.coolclub.it. Lina al Teatro Kismet di Bari DA MARTEDÌ 25 A DOMENICA 30 Città del libro a Campi Salentina (Le) GIOVEDÌ 27 Orange Man Theory, Backjumper e Ingraved all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Seventy Rock al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Cff e il Nomade Venerabile al Goldoni di Brindisi Lago (Fortebraccio Teatro) al Teatro Off di Trani La crisi al Gabba Gabba di Taranto

VENERDÌ 28 Flip Grater alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) La rassegna Tele e Ragnatele accoglie la cantautrice folk neozelandese Flip Grater. Paragonata a Cat Power e a Hope Sandoval, la giovane cantautrice Flip Grater è uno dei nomi più interessanti di una scena musicale davvero poco conosciuta, forse perché esattamente agli antipodi rispetto all’Italia: quella neozelandese. Sulle scene dal 2006 ma già protagonista su molti palchi importanti (compreso il mitico South By Southwest di Austin) dove ha diviso la scena con artisti quali The Shins, Ben Lee e Kris Kristofferson, Flip ha fatto della filosofia DIY uno dei fondamenti della propria esistenza, e infatti, dopo aver fondato un’etichetta discografica “personale” (la Maiden Records), per la quale ha già inciso due album (“Cage for a song” del 2006 e il nuovissimo “Be all and end all” del 2008), ha dato vita ad un vero e proprio caso letterario-musicale che ha avuto una vasta eco sulla stampa oceanica: “The Cookbook Tour”, ovvero un originalissimo tour diary-libro di cucina che, tra aneddoti, ricette apprese qua e là, e suggerimenti su locali e ristoranti, ha raccontato il suo primo tour lungo le strade della Nuova Zelanda. Involontaria emula di Alex Kapranos dei Franz Ferdinand che come lei si diletta di cucina e recensioni enogastronomiche, in questi ultimi mesi del 2008 Flip sta preparando la seconda parte del Cookbook Tour, quella che la porterà alla scoperta di usi e costumi della Vecchia Europa. Ingresso 5 euro. Inizio 21.30 Sublime follia al Glamour di Taviano (Le) La Crisi, Cast Thy Eyes e Always Later all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Gipsy kings ad Acaya (Le) SABATO 29 Alpha & Omega all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Ultimo appuntamento del mese con l’attesa esibizione (unica data in Puglia) di Alpha & Omega. Il duo dub è nato negli anni 80 a Devon, Inghilterra. Il tastierista John Sprosen e la bassista Christine Woodbridge hanno pubblicato il loro primo album come Alpha & Omega nel 1990. Intitolato “Daniel in the Lion’s Den”, l’album è uscito con la loro


stessa etichetta A & O. Dopo aver firmato con la Greensleeves, negli anni 90 e in quelli a seguire i due hanno continuato a pubblicare una serie di album. “Sacred Art of Dub: Mystical Things” del 1997 ha visto la partecipazione della band The Disciples. Alpha & Omega hanno anche collaborato con altri artisti reggae come Jah Shaka. Di fabbrica si muore a San Cataldo (Le) L’attore e scrittore tarantino Alessandro Langiu presenta il volume Di fabbrica si muore (Manni) che racconta la storia di Nicola Lovecchio, operaio del petrolchimico di Manfredonia che cerca risposte alla genesi di una malattia devastante che non gli lascia alcuna speranza. L’appuntamento è presso il Giardino dei poeti bambini di San Cataldo. Inizio ore 18. Ingresso gratuito In tumulto al Teatro Kismet di Bari U.d.e. rock festival con Bruise Violet , Random, Trash, Hot Out Mind al Sinatra Hole di Ugento (Le) Deville al Teatro Off di Trani DOMENICA 30 Uomini in frac a Casarano (Le) Gli spari sopra – Tribute band di Vasco Rossi al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) In tumulto al Teatro Kismet di Bari LUNEDÌ 1 DICEMBRE Alexander De Large, Texans e Superfreak al Teatro Elio di Calimera (Le) MARTEDÌ 2 Gianluca Grignani al Teatro Politeama Greco di Lecce MERCOLEDÌ 3

Eneri al Caffè Letterario di Lecce Benedetta Cibrario a Specchia L’incontro con la scrittrice Benedetta Cibrario conclude la rassegna Donne che dovresti conoscere. Presso il Convento dei Francescani Neri di Specchia (Le), l’autrice parlerà del suo nuovo romanzo Rossovermiglio (Feltrinelli) che ha conquistato il Premio Campiello. Inizio ore 20.00. Ingresso gratuito. GIOVEDÌ 4 Live the buskers + open mic session al Molly Malone di Lecce Super Reverb al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Grimoon al Goldoni di Brindisi Gli italo-francesi Grimoon nascono alla fine del 2003 come progetto musicale e video. Compongono canzoni che danno vita a cortometraggi da loro realizzati. Dal vivo, ogni canzone è accompagnata da piccole storie visive creando così una sorta di concerto-cinema. Nel 2007 la band si è dedicata ad una lunga tournée italiana (oltre 40 concerti) ed europea (tours in Germania e Francia). Nel 2007, i Grimoon si sono anche dedicati alle registrazioni del loro nuovo album “les 7 vies du chat”, in collaborazione con molti ospiti. Il disco, prodotto da Giovanni Ferrario è uscito a marzo (Macaco/ Audioglobe). Cucuwawa al Glamour di Taviano (Le) VENERDÌ 5 Dj Tobia Lamare al Molly Malone di Lecce Il Molly Malone ha fatto dieci. Uno degli storici Guinnes pub di Lecce, festeggia i suoi dieci anni di storia con un anno di programmazione speciale. Ingresso gratuito

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