Coolclub.it n.59/60 (Dicembre/Gennaio 2010)

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anno VI - VII numero 59 -60 dicembre 2009 -gennaio 2010

UNA STORIA SBAGLIATA



UNA STORIA SBAGLIATA Non l’avrei mai detto. Visitors, il telefilm anni ‘80 dove alieni rettili travestiti da uomini mangiavano topolini e apparivano smaglianti nelle loro tutine rosse mentre invadevano la terra con fare paranazista, altro non sono che la premonizione su piccolo schermo di una delle teorie del complotto sugli ufo più celebre: quella teorizzata dal giornalista inglese David Icke. All’idea che rettiliani occupino posti di potere si accosta la più generale teoria del complotto secondo la quale tutte le prove dell’esistenza, della presenza, degli avvistamenti di alieni sono state occultate. Questo apre una serie di supposizioni e teorie che coinvolgono i governi e i servizi segreti da tempi non sospetti e indagano sul perché nascondere. Argomento vasto, almeno quanto i misteriosi cerchi nel grano. La trasposizione in video del complotto è di moda (X Files, Man in black) e non solo se si parla di alieni. A pensarci, neanche troppo bene, il complotto funziona da sempre. Perché ogni cosa insinua il sospetto, perché nulla, alla fine, è mai chiaro. Ci sono casi in cui il complotto è innocuo, sviluppa la curiosità. In altri fa male, uccide. Come nel caso di Pier Paolo Pasolini, vittima di un complotto mentre cercava di svelarne. A lui abbiamo dedicato la copertina di questo numero di Coolclub.it perché in qualche modo racchiude

in sé tutte le arti, la politica, la società. A Pasolini sono state dedicate pagine meravigliose di letteratura , quella letteratura che a lui piaceva, quella che non si piega, come Il petrolio delle stragi di Gianni D’Elia da cui ha preso avvio l’ultima inchiesta giudiziaria. A dimostrare con forza che la letteratura, quella vera, non è solo intrattenimento. A Pasolini sono state dedicate anche canzoni belle e struggenti come il Lamento per la morte di Pasolini di Giovanna Marini che ripete come un mantra la frase “Non può più parlare” che è la cosa più grave quando muore un poeta. Francesco De Gregori ha scritto i versi di A Pa’, mentre Una storia sbagliata è l’omaggio di De Andrè. Segno che ci sono cose e persone che sopravvivono ai complotti. In questo numero abbiamo dato spazio a complotti, più che altro del passato, questo per non entrare nella bagarre che intasa i media in questi giorni. Abbiamo voluto parlarne scomodando Gesù Cristo, i cartoni animati, la famiglia Kennedy, Luigi Tenco, il punk. Non ci sono premier e non ci sono trans, ma le nostre rubriche di sempre. Questo è un numero doppio. Ci rivediamo l’anno prossimo, a febbraio. Buona lettura Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 6 -7 Numero 59 - 60 dicembre 2009 - gennaio 2010 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Pierpaolo Lala Hanno collaborato a questo numero: Roberto Conturso, Stefania Divertito, Vittorio Amodio, Marco Chiffi, Nino G. D’Attis, Francesca Maruccia, Roberto Cesano, Mariagrazia Gallù, Tobia D’Onofrio, Ivan Luprano, Alfonso Fanizza, Oscar Cacciatore, Dieghost, Camillo Fasulo, Rino De Cesare, Dino Amenduni, Rossano Astremo, Valeria Blanco, Ennio Ciotta, Daniela Miticocchio In copertina: Pier Paolo Pasolini Ringraziamo Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag. com, Radio Popolare Salento, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Radiodelcapo, Musicaround.net. Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione nonostante diversi incidenti: un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, ma non è stata colpa nostra, lo giuriamo su Dio! Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: pierpaolo@coolclub.it 3394313397

UNA STORIA SBAGLIATA

Io so. Ma non ho le prove 6 Personal Jesus 10 Come un noir 16 Santa Moana dei misteri 20 musica

Mùm 26 IamX 28 Recensioni 34 Salto nell’indie - Midfinger Records 42 Libri

L R Carrino 46 Elisabetta Liguori 48 Recensioni 51 Cinema Teatro Arte

Michele Riondino 56 Recensioni 58 Christian Montagna 59 Eventi

Calendario 60 sommario 5


Una tavola di U.W.S. di Sarasso- Duroni

IO SO. MA NON HO LE PROVE

Di complotti e complottismi dalla morte di Pasolini ai romanzi di Simone Sarasso “Io so. Ma non ho le prove” erano le durissime parole che Pasolini scrisse sul Corriere della Sera il 14 novembre 1974 in un articolo poi pubblicato in Scritti corsari con il titolo de Il romanzo delle stragi. Pasolini si riferiva al cosiddetto Golpe bianco dell’agosto 1974, l’ultimo, in ordine cronologico dei tentativi di colpo di stato che si sono avuti in Italia tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70. Agosto 1974. Io ero nato da pochissimi giorni. In quel mese due stragi tremende insaguinarono il Paese: Piazza della Loggia a Brescia e il treno Italicus saltarono in aria con il loro carico di vite umane a causa degli ordigni piazzati da ignoti terroristi. Cinque anni prima (il prossimo 12 dicembre quaranta anni fa) l’Italia era entrata nel suo periodo più buio con la bomba di Piazza Fontana. Pasolini traccia col suo articolo una linea nera che unisce alcuni degli eventi più assurdi e atroci del nostro passato recente. Ma lo fa mentre quelli eventi accadono. E lo fa come solo 6

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un grande poeta e scrittore può fare: cercando la verità dove gli altri non hanno il coraggio di guardare. E così PPP lavora ad un progetto ambizioso e grandioso di romanzo: Petrolio. Il libro racconta una vicenda scomoda e avvolta, ancora oggi, nella nebbia del mistero: la morte di Enrico Mattei, all’epoca presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi. Mattei precipita con il suo aereo. Subito si parla di incidente e così la questione viene archiviata. Ma Pasolini non ci sta, per lui la verità è un’altra. E per lui la verità è importante perché è un intellettuale e uno scrittore. Per Pasolini la verità è che Mattei è stato vittima di un complotto. Il primo di una lunga serie di tragici complotti nella storia italiana. Pasolini stesso morirà pochi mesi dopo quell’articolo, senza riuscire a finire il suo romanzo. La sua morte verrà archiviata come una lite tra omosessuali finita male. Ma in molti non ci credono: Pasoli-


ni è morto perché era scomodo e inviso al potere che lui voleva smascherare. L’inchiesta sulla sua morte è stata aperta e chiusa più volte. L’ultima volta nell’aprile di quest’anno. Ancora non si sa che cosa verrà fuori da questa inchiesta. Ma i retroscena sono inquietanti. Si parla di Loggia P2, ancora una volta. Si parla di Cia, ancora una volta. Si parla di Mafia, ancora una volta. Si parla non di destabilizzazione dell’ordine costituito, ma, cosa ancora più inquietante, di salvaguardia dell’ordine costituito. Si parla di complotto, ancora una volta. In Italia la parola complotto si usa molto spesso e forse molto spesso a sproposito. Ogni cosa che accade è un complotto ordito da qualcuno ai danni di qualcun altro. Ogni cosa può essere spiegata con una teoria del complotto creata ad hoc. Se un politico si fa trovare con una donna (o trans) che non è la sua legittima compagna è un complotto, ma è un complotto anche se un editore (leggi Feltrinelli) salta in aria mentre cerca di piazzare un ordigno su un traliccio dell’Enel per lasciare Milano al buio. Complotto se un pentito di mafia fa il nome di un politico importante ma complotto anche se un giovane comunista (leggi Peppino Impastato) viene trovato morto lo stesso giorno del presidente del più grande partito (leggi Aldo Moro). Petrolio è il romanzo delle stragi, scritto in un momento in cui di certe cose non si poteva parlare. Dopo, anche grazie a Pier Paolo Pasolini, altri romanzi su stragi e complotti sono arrivati, tra cui i bellissimi Romanzo Criminale e Nelle mani giuste di De Cataldo che scavano in profondità in quei territori del mistero, o Nel nome di Ishmael di Giuseppe Genna, che proprio dalla morte di Mattei prende avvio. Simone Sarasso nei suoi romanzi (Confine di Stato, Settanta e la graphic novel United We Stand, tutti pubblicati da Marsilio) disegna scenari foschi e cupi per spiegare alcuni avvenimenti nella storia recente d’Italia, con un’operazione dichiaratamente à la Ellroy. Con lui abbiamo fatto due chiacchiere su che cosa sia e come si possa raccontare il complotto L’Italia è il Paese degli scandali: sessuali, giudiziari, politici, golpisti. Ma l’Italia è anche il Paese della teoria del complotto. Sembra che ogni evento piccolo o grande, ogni minimo scossone alla stasi catalettica in cui versa il Paese sia causato da complotti di ogni genere. Esiste secondo te e dove sta la “via di mezzo”? “La via di mezzo” non è cosa italiana. Così come non sono spiccatamente italiane l’obiettività e l’onestà intellettuale. In un paese sempre trop-

po occupato ad urlare, mentre sullo sfondo del televisore opinionisti impomatati boccheggiano “moderiamo i toni”, non fare confusione è pressoché impossibile. Nel paese della chiacchiera, nessuna storia è del tutto vera. Né alcuna teoria del complotto completamente falsa. Dalle tue pagine emerge chiara e precisa una componente della tua scrittura che mi affascina e mi incuriosisce: il divertimento. Quanto ti sei divertito a tracciare trame e immaginare orditi tutt’altro che irrealistici per spiegare e raccontare una parte del nostro passato ancora difficilmente digerita dai più? La componente ludica, nella costruzione delle trame complesse, è sicuramente alta. Il momento più inquietante del procedimento è quando immagini una soluzione narrativa particolarmente ardita (es: qui servirebbe proprio un esercito clandestino finanziato con soldi americani…), vai a guardare sui libri di storia se per caso è mai esistito qualcosa del genere (figuriamoci…) e novanta volte su cento scopri che quello che hai immaginato è molto più all’acqua di rose della realtà (Occazzo! Non solo c’era; ma è stato in attività per quarant’anni!). Tu parti da personaggi e fatti reali per poi creare derive narrative cariche di suggestioni. Sembra che tu ti faccia guidare da una domanda del tipo “che cosa sarebbe successo se…?”. È un’impressione corretta la mia? La mia narrativa è uno dei possibili approcci al reale. Io mi occupo quasi sempre di tragedie che hanno mietuto decine e decine di vittime e per le quali, dopo anni di processi, non esistono colpevoli. La domanda che sta alla base di tutto è: “Chi è stato a fare questo?” Con UWS immagini addirittura una sovversione violenta e antidemocratica dell’ordine costituito da qui a pochi anni. In effetti in Italia si è più volte sfiorato ciò che tu dipingi così bene. Perché secondo te tutto questo si è solo sfiorato? Non c’erano le condizioni per un reale sbilanciamento a destra del paese e del conseguente golpe militare in passato. Figurarsi ora. L’Italia, paese anticomunista di vecchia data, è sempre stato troppo di centro per le rivolte armate. Quarant’anni di DC hanno salvato lo Stivale dal Colpo di Stato. Vedete ben, però, cos’han prodotto… Dario Goffredo UNA STORIA SBAGLIATA 7


In foto: i fratelli Kennedy 8


COMPLOTTI MADE IN USA La paranoia nella storia americana recente Le teorie del complotto hanno da sempre animato l’immaginario americano, come un sottile velo capace di offuscare e distorcere ogni singolo evento della giovane storia di questo paese. Gli Stati Uniti hanno visto nella diversità una minaccia alla loro fragile identità culturale, dalla caccia alle streghe di Salem nel 1692, alla congiura comunista degli anni cinquanta. Più di una statistica avvalora questa tradizione e non solo per gli eventi o tragedie a cui difficilmente sono riusciti a dare una spiegazione logica e razionale, ma per ogni singola vicenda che ha scosso l’opinione pubblica (basti pensare alle numerose ipotesi e congetture scaturite in seguito alla morte di Michael Jackson). Richard Hofstadter nel suo celebre saggio The Paranoid Style in American Politics (1964), partendo da un’analisi sul maccartismo, ha analizzato i celebri complotti che hanno caratterizzato il dopoguerra americano, come la nevrosi anticomunista che negli anni cinquanta generò il movimento contro l’infiltrazione di fluoro nell’acqua potabile, al fine di evitare di indebolire i cervelli e renderli più vulnerabili alle cospirazioni socialiste (F. Tondelli, Da McCarthy a oggi: rilettura di The Paranoid Style in American Politics). Da questo coacervo di psicosi Kubrick trasse ispirazione per la caratterizzazione del generale Jack D. Ripper (Dottor Stranamore, 1964), il quale era solito bere acqua piovana per preservare la purezza dei fluidi vitali. Kubrick, in questo film, riuscì ad affrontare un tema come quello della bomba atomica e delle fobie americane in maniera critica e allo stesso tempo ironica, in un contesto storico caratterizzato dal continuo bombardamento mediatico volto ad alimentare fra la popolazione il terrore di un’incombente minaccia nucleare. Secondo alcuni studiosi la recente credenza dei cittadini statunitensi nelle teorie del complotto (il 63% della popolazione americana ritiene di essere vittima di complotti, mentre il 43% crede che gli attentati dell’11 settembre siano stati orditi all’interno della nazione) trova una giustificazione nei fatti che sconvolsero il paese durante gli anni sessanta e settanta: l’assassinio Kennedy, quello di Martin Luther King e Malcolm X, per non parlare dello scandalo Watergate. Violenze e cospirazioni delle quali il cinema ha tentato di dare un’interpretazione, ipotizzando

e instillando macchinosi o ragionevoli dubbi nelle coscienze americane. Basti citare Oliver Stone con JFK (1991), in cui i complotti attorno alla morte del presidente Kennedy arrivarono a coinvolgere alte sfere dello Stato come il vicepresidente Lyndon Johnson. Oppure il caso Watergate, più volte trattato nelle pellicole: Tutti gli uomini del Presidente di Pakula (1976), Gli intrighi del potere di Stone (1995), L’assassinio di Richard Nixon di Niels Mueller (2004); o gli intrighi politici di The Manchurian Candidate di John Frankenheimer (1963), e I tre giorni del Condor di Sydney Pollack (1975). Senza tralasciare i sospetti nei confronti del governo, considerato colpevole di voler nascondere le prove dell’esistenza degli UFO, che hanno ispirato molte serie televisive di successo come X-files (1993), o la più recente Taken (2002) prodotta da Steven Spielberg, e i film, L’invasione degli Ultracorpi di Don Siegel (1956), oppure Essi vivono di John Carpenter (1988). Una pellicola, quest’ultima, che contrariamente ai film di fantascienza del periodo non utilizzò gli alieni come rappresentazione della minaccia comunista, ma al contrario li usò per denunciare il potere manipolatorio dei media e della politica liberale del presidente Reagan. Nella storia degli USA i complotti sono stati utilizzati anche come strumento di repressione interna, come nel caso degli afroamericani, vittime del piano messo in atto dalla FBI (Cointelpro) mirato a distruggere il movimento di liberazione nero degli anni settanta, e in seguito al quale scaturirono varie ipotesi di congiure governative. Come quella della volontaria immissione di crack nei ghetti neri a cavallo degli anni settanta e ottanta, per creare una tossicodipendenza di massa diretta ad annientare la comunità afroamericana: idea, anche questa, ripresa più volte dal grande schermo e in particolare dal regista John Singleton nel film Boyz n the Hood (1991). L’abilità dell’industria hollywoodiana è stata quella di saper sfruttare le recondite paure di una nazione pronta a nascondere la propria fragilità dietro ipotetiche cospirazioni. Una scorciatoia a cui anche i nostri governanti hanno fatto spesso ricorso, ma da cui il nostro cinema non ha saputo trarre ancora la giusta ispirazione. Roberto Conturso UNA STORIA SBAGLIATA 9


PERSONAL JESUS Il più grande complotto della storia È accaduto tutto all’improvviso. Alla fine della lezione di acquagym. Non propriamente sudata, ma affaticata sì. Postazione sulle retrolinee, come sempre. Mi consente di tirare un po’ di fiato. Ognuno ha le sue debolezze. Alzo la testa, guardo avanti, poi a sinistra, poi a destra. E me ne rendo conto. Capisco in un unico piano sequenza cos’è che mi differenzia da tutte le altre. E cos’è che per tutta la mia – seppur giovane – vita ha congiurato contro di me. Le altre, mano sinistra dietro la nuca a sfilare i muscoli in un estremo tentativo di stretching, si allungano e lo mostrano, quel solito cerchietto

d’oro all’anulare (qualcuna con la variante brillantata) che da sempre distingue i due grandi gruppi in cui è composto il genere femminile. Chi ce l’ha fatta e chi no, a portare un uomo fin sopra un altare. Il crampo che sento nello stomaco è l’appartenenza alla seconda categoria. Io ho sempre pensato di essere immune dal tic tac biologico. Di sposarmi e giurare amore eterno ben cosciente che si tratta di una scommessa su qualcosa di cui non puoi pienamente predisporre non me ne frega proprio niente. Eppure. Eppure c’è quel crampo. E io decido di indagare. Individuo subito un primo tipo di passaggio osti-


co al quale mio malgrado sono stata sottoposta. Il problema è il modello di famiglia di cui si fa portavoce un certo tipo di sentimento religioso. Eccolo l’anello di congiunzione, la religione. Varco il mio posto di lavoro, prendo posto alla mia solita cattedra e noto per la prima volta quella croce che mi sovrasta ammonendomi giorno dopo giorno che io sono quella che non l’ha seguito, il modello su cui l’intera società è permeata. Ma che dico l’intera società, l’intero ordine mondiale. Io sono quell’ingranaggio che può mandare tutto a monte. Quella che considera l’unione un contratto tra due individui in un determinato pezzo di strada. La mia è una posizione scomoda. Me ne rendo conto solo ora. E voglio vederci chiaro. E poi ho la passione per le ricostruzioni giudiziarie e di cronaca nera. Perché di cronaca nera si parla. Si riaprono i casi di Emanuela Orlandi e di via Poma dopo più di vent’anni, e allora perchè non si può riaprire quello che improvvisamente, chiaramente, appare ai miei occhi come il più grande complotto della storia? Lo ammetto, il mio punto di vista è leggermente egocentrico ma a mia discolpa ho due elementi: credo nel sapere che da un particolare riesce ad arrivare all’universale e credo soprattutto che a indagine ultimata troverei decine, se non centinaia (non dico milioni solo per difendere ancora la categoria) di donne pronte a intentare con me la più grande delle class action contro il superpotere religioso. L’accusa? Aver manipolato l’opinione pubblica, l’ordinamento sociopsicologico mondiale, aver forgiato le menti e plasmato i governi e i governanti per creare un Sistema basato sull’unione indissolubile uomo donna, causando micro e macro traumi per tutte noi. A nulla vale l’obiezione che oggi la società è cambiata. Guardateci. Guardate noi donne. Anche se siamo bandiere del pensare moderno, dentro di noi il rigurgito del vorrei ma non posso può sempre emergere con uno stomaco contrito durante una banalissima lezione di acquagym . Tutto cominciò duemila anni fa. Giorno più, giorno meno. Un uomo (perché, guardiamo ai fatti, di questo possiamo dire con certezza) nato in Medioriente, vive circondato da un gruppo di amici, apparentemente non ha un posto fisso, non si sa di qualche talento professionale particolare tranne che per il fatto che sia incredibilmente bravo come oratore. Racconta storie con risvolti psicologici che colpiscono gli uomini e le donne che lo ascoltano. Riesce ad affabulare e a individuare il bene che si annida in ognuno di loro. Una donna dedita al meretricio si commuove fino alla conversione a uno stile di vita più consono a una brava ragazza di quei tempi. Quindi sposarsi, in genere con uomini più vecchi, o molto più vecchi, occuparsi del focolare domestico, coprirsi

il capo con un velo e trasformarsi nell’angelo della casa. Eccola là. La donna che io non sono mai riuscita a diventare. La vedo lontana anni luce, quella ex prostituta che ha bevuto l’acqua della vita, da me che mi nutro di gatorade prima di andare in palestra. Io che spendo in parrucchiere quanto lei avrà fatto in tutta la sua vita in anfore dove riporre il sacro liquido. Io che non mi accontento di trovare un uomo. Ma lo voglio elegante, dolce, disponibile, che mi faccia ridere, che mi porti fuori a cena. Che male c’è? C’è qualcuno che mi definirebbe pretenziosa ma la colpa è di quell’uomo che ha costruito intorno a sé una comune di discepoli pronti a scattare in qualsiasi momento. Tranne che nel momento del bisogno. Dov’era l’ex meretrice, dove il Lazzaro sedicente risorto, quando un tribunale arrogante e superficiale l’ha costretto alla più orrenda delle morti? Ci raccontano che poi sia risorto, che i discepoli lo abbiano incontrato sulla strada di Emmaus e ne abbiano toccato il costato. E che lui non abbia urlato di dolore. Era un corpo risorto o soltanto una allucinazione collettiva? Chi mi dice che quell’uomo dalle sembianze – pare – piacenti, vista la povera Maddalena piombata ai suoi piedi, intrisa di disperazione e, io sono pronta a scommetterci, anche di rimpianto, non si sia trovato in un ingranaggio più grosso di lui, lui stesso vittima di un nuovo potere che stava prendendo forma? No, non scopiazzerò Dan Brown. Non mi richiamerò ad affascinanti teorie circa il Santo Graal, la discendenza di Gesù Cristo, il suo corpo umano, troppo umano. Non ne ho bisogno. Perché, signori della giuria, per emettere un verdetto occorre l’unanimità. E voi siete disposti unanimemente ad ammettere che tutto quanto secoli e secoli di tradizioni orali tramandate e poi – poi! – scritte vanno sostenendo sia infine vero? Non c’è la prova, alla base di queste convinzioni ma, come astutamente ci hanno spiegato, un’insindacabile atto di fede. Bene. Io vado a sindacarlo. A metterlo in dubbio. A farlo vacillare. Lo terrò ben presente, alla prossima lezione in piscina. Quella fede, quell’anello, quelle serate in compagnia di docili mariti sui divani, altro non sono che l’ubbidienza a quell’oscuro precetto nato in terra lontana e al riparo dal taccuino di un cronista. E pertanto aleatorio. Lo terrò ben presente. E durante queste vacanze di Natale – forse – riuscirò a non piangere di malinconia. Stefania Divertito 11


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DALLA TERRA ALLA LUNA Fu vero sbarco?

Ciclicamente, come in ogni ricorrenza che si rispetti, tornano prepotentemente alla ribalta le teorie complottiste, la principale delle quali nega che l’uomo abbia mai messo piede sulla luna il 21 luglio di quarant’anni fa. Da Bart Sibrel, documentarista che per anni ha inseguito gli astronauti dell’Apollo 11 chiedendogli di giurare sulla Bibbia e che un giorno ricevette un pugno da Buzz Aldrin, accusato di essere falso e bugiardo, alle migliaia di blog che costruiscono le argomentazioni più sofisticate per screditare l’allunaggio, esiste una nutrita schiera di personaggi che dubitano che l’uomo abbia effettivamente raggiunto il satellite, sostenendo l’ipotesi della simulazione in uno studio cinematografico, con tanto di effetti speciali, il che divenne poi lo spunto per il film Capricorn One. Per anni, tutti i dubbi, le osservazioni, le ipotesi, che hanno persino coinvolto Kubrick, sui fatti intercorsi durante le missioni Apollo sono stati quindi controargomentati e respinti al mittente. C’è chi sostiene che la tecnologia degli anni ‘60 non potesse permettere l’allunaggio; che le foto siano state falsificate, perché non si vedono le stelle, l’orizzonte è troppo lineare, le colline lunari troppo inverosimili; che gli astronauti morti nelle prime missioni o negli incidenti stradali siano stati assassinati su ordine della Nasa per evitare che denunciassero le menzogne ordite; e così via. Perché l’allunaggio sarebbe stato inscenato? Le risposte dei complottisti sono molteplici: per distrarre l’attenzione dalla guerra del Vietnam; per soverchiare definitivamente l’Unione Sovietica nella corsa spaziale durante la guerra fredda; per con-

tinuare a stornare finanziamenti di miliardi di dollari verso la Nasa, vista come una lobby di scienziati affamati di potere e denaro. In realtà, mentre gli argomenti pseudo-scientifici dei complottisti sono stati smontati uno per uno sia dalle istituzioni e dalla scienza ufficiale che da fonti terze, tutte le motivazioni militari o politiche dei sostenitori della teoria soccombono di fronte alla domanda: perché la Russia non ha mai denunciato gli americani di aver inscenato lo sbarco sulla Luna, se avesse potuto farlo? Di recente, la teoria complottista è tornata di gran moda per sostenere l’affascinante argomento secondo cui è strano che l’uomo sia andato sulla Luna quarant’anni fa grazie a un computer primitivo e nei successivi quarant’anni non ci sia mai più tornato, neanche con le potentissime tecnologie di oggi. Del resto, Obama assomiglia tanto a un nuovo Kennedy e l’idea di fare un salto sul satellite, estrarne l’acqua, fondere l’elio3 e usare la Luna come “scalo” verso Marte è davvero affascinante (o assurda), se non fosse per l’immenso spreco di denaro che occorrerebbe e che, visti i tempi, neanche gli Usa possono permettersi. E allora, come la mettiamo con il “Nuovo piano per la Luna” annunciato prima da Bush, poi dallo stesso Obama, con l’avallo della Nasa? E come mai il video originale dell’allunaggio di Armstrong e Aldrin, misteriosamente scomparso nel 1969, salta fuori solo quarant’anni dopo? Complotti, fantascienza o solo ingredienti per il festeggiamento al “piccolo passo per l’uomo, ma grande passo per l’umanità”? Vito Lubelli UNA STORIA SBAGLIATA 13


THE GREAT COMPLOTTO Pordenone può essere Londra ma Londra non può essere Pordenone

C’era una volta... questa è una delle più belle favole della storia del rock, al pari del castello della Virgin, dei Pink Fairies, di Enzo del Re, della Firenze new wave. Di più, era una favola non solo musicale. Il primo contatto che presi con loro fu mediato dall’ufficio immigrazione di Venezia per ottenere i permessi necessari e raggiungere lo Stato di Naon. “Non si può immaginare il movimento punk di Pordenone avulso dal contesto urbano. Il fenomeno musicale, e non solo, che passa sotto il nome di Great Complotto, è lo Stato di Naon (dal nome latino di Pordenone, Portum Naonis). E lo Stato di Naon non è altro che la proiezione dello stato d’animo che animava una parte della nuova generazione pordenonese, una nuova ondata che pensava sé stessa come una controparte creativa, moderna e misteriosa di una cittadina borghese, immobile ed ammuffita. Il profilo di Pordenone assume a poco a poco quei tratti fumettistici e quasi leggendari che fecero del capoluogo friulano una delle capitali del rock italiano”.

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Le prime gesta che ci vengono documentate hanno per scenario il ponte di Aklam a Portobello Road dove HitlerSS e i Tampax terranno un concerto “promozionale” con chitarre di cartone e 1000 copie del loro primo vinile (un quarantacinquino con 2 brani per band) sotto il braccio. Tra il 1979 e il 1981 la documentazione discografica è limitata alla pubblicazione di pochi vinili che si contano sulle dita di una mano; oltre al singolo split già citato, la compilation che cambierà la storia del rock italiano. Un disco con in copertina il campanile della città, vi partecipano Mess, Fhedolts, Sexy Angels, Andy Warhol Banana Technicolor, Little Chemists, Mind Invaders, 001100111100011001011101, Musique Mecanique, Tampax/HitlerSS, Waalt Diisneey, W.K.W. “Sul disco del campanile c’era un ordine per una scatola chiamata Enciclopedic Type, Turistic Type e un altro che non mi ricordo e a seconda del tipo mettevo il disco con delle reliquie o altre cose, e nel Turistic Type mettevo la cassetta Pordenone for Holidays”, ricorda Ado Scaini, uno dei principali protagonisti. La cassetta venne concepita come una guida fornita dalla Great Complotto Touristic Agency a improbabili visitatori di una ancor meno probabile città di Naon. Le voci dei giovani naoniani, intervallate dai suoni glaciali di un sintetizzatore analogico, evocavano paesaggi alieni, tecnologici e impersonali, spiegando in lingua inglese le attrazioni, le usanze, i luoghi, la mitologia dello Stato di Naon. La Guida ufficiale dello Stato di Naon infatti è contemporanea alla seconda raccolta su album IV3SCR del 1983. Al suo interno viene spiegato il funzionamento dell’intera organizzazione, che naturalmente corrisponde solo in parte alla realtà. Al centro della copertina nera c’è una delle città disegnate da Ado Scaini. Aprendo la prima pagina ci sono informazioni su come arrivare a Naon, la bandiera - un tricolore rosso, verde e blu un riferimento evidente al RGB dei televisori in technicolor - e la storia leggendaria della patria naoniana. Di seguito sono elencate le molteplici attività contemplate all’interno del Great Complotto, che spaziavano da fantomatici settori, quali il “Servizio Investigativo Naoniano” o il “Ministero dell’Interno”, garante della difesa della popolazione, ad altri che effettivamente riproducevano consuetudini del gruppo. Ad esempio, il settore “Finanziario” preposto alla riscossione delle imposte, ovvero le rette da corrispondere per suonare nelle sale prove o il settore “Tecnico” responsabile del funzionamento degli impianti elettrici alle feste e ai concerti. All’elenco delle attività svolte nello Stato di Naon non possono mancare la squadra di calcio Atoms for Energy, gli Atelier De Montage, la Edit Naon, responsa-

bile delle pubblicazioni del Great Complotto. Segue una sezione riservata alle notizie sul modo di vestire, di parlare, di atteggiarsi dei naoniani e infine, un elenco telefonico con i numeri utili per contattare i diversi responsabili delle band o dei vari ministeri. L’anno successivo ancora una compilazione Un inverno a Pordenone ultimo atto dello Stato di Naon (l’epitaffio fu la compilation Taranto/Pordenone di cui dirò tra poco). Di loro Vittore Barone scriveva dalle pagine di Rockerilla: “Il Great Complotto non smentisce la propria vena polemica e fa uscire alle porte della stagione balneare un elegante cofanetto intitolato Un inverno a Pordenone, contenente tre singoli di altrettante formazioni Naoniane. Nella confezione è altresì allegato un mini-romanzo di tale Clark Kent, adeguatamente orwelliano, che serve bene allo scopo di rendere il clima dei tre dischetti: una ‘stagione all’inferno’ quale può essere vissuta dodici mesi all’anno nei piccoli e grandi centri di provincia, apatici, privi di stimoli e strutture per i giovani, abitati dal conformismo e dall’ottusità. In una simile situazione stagnante, i ‘ragazzi meravigliosi’ sono mosche bianche salvate dalla musica”. Pordenone-Taranto, una storia che vi racconto con pudore, per un evidente conflitto d’interesse. Macchinario Retrò era una associazione tarantina che in quel periodo organizzava concerti ed era l’editore di Urlo Wave (ok, va bene; Urlo era un mio progetto). Due assessori alla cultura, due associazione e una manciata di band, concerti nelle due città e un disco a documento. Ado arrivò a Taranto e per promuovere i concertini prendemmo a noleggio un camion e sopra con un gruppo Ado cantava all’ingresso e all’uscita dei licei locali la sua “Risi Pisi”. Che delirio. Raccogliemmo chili di rassegna stampa locale, nazionale ed internazionale. I dischi pubblicati successivamente perderanno il fascino della prima ora anche se musicalmente (Futuritmi su tutti) esprimeranno il meglio. Nb: L’articolo finisce qui, come vi sarete accorti non ho scritto (o quasi di musica), perché in tutta questa storia è secondaria. I dischi citati sono reliquie da collezionisti (e sul mercato hanno valutazioni inaccessibili), ma qualcosa è stata di recente ristampata. Pubblicata dalla edizioni Shake, il digipack contiene: il cd The Great Complotto; il video Brucia Tequila; un libro di 68 pagine con fotografie e testi dei vari gruppi della scena. Vittorio Amodio UNA STORIA SBAGLIATA 15


COME UN NOIR

Tutte le incognite sulla morte di Luigi Tenco

In foto: Dalida 16


L’Hotel Savoy a Sanremo è un edificio imponente, quasi monumentale. È situato tra Via Nuvoloni e Corso degli Inglesi ed è distante poche centinaia di metri dalla costa e dal lungomare. Nel 1967 l’Hotel Savoy è considerato il più lussuoso albergo di Sanremo, al pari forse del vicino Hotel Londra, capostipite della raffinata scuola alberghiera della città ligure. Proprio per queste caratteristiche l’Hotel Savoy è stato scelto dall’organizzazione del Festival di Sanremo come alloggio per gli artisti e come luogo di riferimento per tutte le persone che nei giorni del Festival lavorano e ruotano attorno all’evento. La struttura dell’albergo oltre all’edificio centrale prevede anche delle piccole dependance accessibili direttamente dall’esterno. In una di queste dependance si può arrivare entrando dal giardino attraverso una porta di legno bianco. Superata la porta vi è un corridoio con il pavimento di mattonelle colorate e a pochi passi c’è la stanza 219. La stanza 219 non è il massimo del lusso. Entrandovi trovi sulla sinistra un grande mobile a cassettoni e poi uno specchio, due sedie, un letto e una scrivania. Alla destra del letto c’è la porta del piccolo bagno privato. Non è una suite, è una stanza umile e modesta. Le stesse qualità dell’uomo che lì, in quella stanza, trovò la morte. È da poco passata la mezzanotte al ristorante Nostromo. Un lungo tavolo è occupato da gente rumorosa che mangia, beve e parla ad alta voce. Seduto a quel tavolo, tra discografici e giornalisti e artisti, c’è un uomo di 29 anni. È giovane, vestito elegante. Indossa un completo scuro e una camicia bianca. Ha dei capelli neri e ben pettinati e uno sguardo serio e misterioso. Quello sguardo fece invaghire tempo prima la ragazza di fronte a lui, un’artista italo-francese molto bella. Lui si chiama Luigi. Mentre fuma una sigaretta e butta fuori il fumo dalla bocca gli zigomi marcati del suo volto si rilassano per un momento. È inquieto Luigi, più inquieto del solito. È un concorrente del Festival che però per lui e la sua canzone è finito presto. La sua canzone è intitolata Ciao, Amore, Ciao e gli era stata fortemente consigliata da quella ragazza, l’artista italo-francese, che si chiama Dalida. Anche lei è una cantante. E aveva convinto Luigi a cantare proprio quella canzone. Ma Luigi avrebbe volentieri evitato quella canzone (preferendone un’altra) e tutto il Festival. Quella grande occasione di raggiungere tutto il pubblico italiano era molto importante, certo, ma Luigi era sempre stato combattuto tra la voglia di non scendere a patti con niente e nessuno e di pensare solo alla sua musica, e raggiungere la fama e il successo. E alla fine aveva ceduto. Si era fidato. Vada per il Festival.

Vada per Ciao, Amore, Ciao. Ma la canzone non passò alla fase finale e Luigi rimase da solo con se stesso. Così quella sera finisce la sigaretta, si alza dal tavolo e saluta tutti i commensali. Saluta Dalida. Ed esce. Luigi Tenco viene ritrovato morto nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967. A trovarlo appoggiato a letto e riverso in una pozza di sangue è proprio Dalida. Dopo il ristorante lei torna all’albergo, si cambia d’abito ed va a trovare Luigi. Sulla scrivania vicino al letto trova un foglio scritto a penna. Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e ad una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi. Dalida e il discografico Paolo Dossena sono i primi ad entrare nella stanza prima dell’arrivo della polizia. Pensano ad un malore e inizialmente cercano un medico. Ma Luigi è morto, si è sparato un colpo di pistola in testa per togliersi la vita. Si è sparato con la sua pistola, una Walther PPK calibro 39 che già da qualche mese possedeva legalmente. E poi c’è un biglietto d’addio più che esplicito. Quando arriva la polizia il commissario incaricato delle indagini è Arrigo Molinari, questore di Genova. È lui a diramare un comunicato all’ANSA riguardo la morte di Tenco. La polizia comunque non fa un gran lavoro. Arrivano, spostano il corpo e lo trasportano all’obitorio e solo dopo, quando si accorgono di non aver fatto i rilievi opportuni, lo riportano nella stanza 219. È una lunga notte quella del 27 gennaio. Il ‘Caso Tenco’ fin da subito suscitò irrequietezza negli animi degli italiani. Furono Mike Bongiorno e Renata Mauro, presentatori di quell’edizione del Festival, ad annunciare la tragedia in tv. E fu la prima volta che un giallo di questa portata colpiva l’evento simbolo della canzone e della cultura italiana. Un giallo perché poche cose erano chiare e troppe erano da chiarire. Trentotto anni dopo, nel dicembre 2005, data la continua pressione di stampa e pubblico il caso venne riaperto dalla Procura di Sanremo e dopo tre mesi nuovamente chiuso sostenendo ancora la tesi del suicidio, nonostante non fosse stato trovato il proiettile che aveva ucciso il cantante e la mancanza della visione di alcune prove. Ma negli ultimi anni internet ha mobilitato l’opinione pubblica per una nuova ricerca della verità. Sono state analizzate vecchie foto, documenti, UNA STORIA SBAGLIATA 17


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interviste da parte di gruppi di appassionati ed è stato tracciato un nuovo quadro provando che si sia trattato di omicidio. Tra il giugno e il settembre del 2009 sono anche stati emessi due esposti indirizzati alle più alte cariche dello Stato e al Ministro della Giustizia chiedendo di riesaminare l’intero caso in virtù di nuove prove materiali raccolte negli ultimi anni. Ma intanto Luigi non c’è più. Si è sparato. Peccato però che la pistola che ha fatto fuoco non fosse la sua. Le prime persone ad entrare nella camera di Tenco non notarono nessuna pistola, ma dopo l’arrivo della polizia una pistola venne ritrovata tra le gambe del cantante. Dalle foto però sembra che quella sia un’altra pistola, una Beretta calibro 22, e non quella che Luigi possedeva. In più il fratello di Luigi, Valentino Tenco, smontò la Walther PPK trovandola ben pulita e oliata, provando così che non aveva mai sparato. E nessuno quella notte udì uno sparo. Eppure le stanze adiacenti alla 219 erano occupate. Poi ci sono le foto. Dalle foto (poche) scattate prima che il corpo venisse spostato si notano diversi particolari insoliti. Si vede della sabbia sui vestiti e sul volto di Luigi, e quello stesso volto pieno di sangue ed ematomi, e ancora il fatto che non avesse le scarpe ai piedi. Quando il corpo fu riportato in camera per i successivi rilievi, la sabbia e il sangue erano spariti. La sabbia proverebbe secondo alcuni che Luigi sia stato ucciso in spiaggia. Una di quelle spiagge vicine all’albergo e distanti poche centinaia di metri. Sabbia che in alcune foto compare anche sulla macchina del cantante. Poi c’è il fatto che la stanza 219 fosse raggiungibile molto facilmente dal garage e dal giardino senza passare dalla reception. E infine la lettera d’addio che per molti è un falso. La prima parte infatti sarebbe l’inizio di una lettera di denuncia che Luigi aveva iniziato a scrivere giorni prima e solo successivamente completata ad hoc dai suoi assassini per avvalorare l’ipotesi del suicidio. Ma oltre a tutte queste prove vi è un altro elemento molto più ad ampio raggio che porterebbe l’artista al centro di un vero e proprio complotto internazionale e quindi ad un movente politico dell’omicidio. Nel 1965 Luigi Tenco si recò in Argentina per tenere dei concerti. Era però impegnato nel servizio militare e non avrebbe potuto mai lasciare il Paese senza un’autorizzazione speciale. Secondo la teoria del movente politico tale autorizzazione sarebbe stata rilasciata dall’allora governo Moro per consentire a Tenco di portare in Argentina della documentazione riservata. Ma Luigi non era una spia internazionale. Certo è che al ritorno dall’Argentina qual-

cosa cambiò, Luigi ricevette delle minacce e venne anche speronato mentre si trovava in auto. Furono questi episodi a convincerlo a procurarsi una pistola. Quattro giorni dopo la morte di Tenco scoppiò lo scandalo SIFAR. Il SIFAR erano i servizi segreti nazionali e per anni avevano accumulato dossier privati su varie personalità di spicco della società italiana. E proprio il SIFAR si presume fosse legato alla P2, la loggia massonica il cui obiettivo era destabilizzare l’ordine costituito del Paese. E il questore di Genova, Arrigo Molinari, che seguì le indagini del ‘Caso Tenco’, era iscritto alla P2 (morirà nel 2005 in circostanze ancora tutte da chiarire). E qui si aggancia un’altra pista, quella del Clan dei Marsigliesi, un’organizzazione criminale francese che avrebbe ‘materialmente’ ucciso il cantante per un regolamento di conti tra loro e Molinari che pochi anni prima condusse delle indagini contro di loro. Lucien Morisse, produttore discografico vicino a Dalida, si ritiene fosse in combutta con tale organizzazione. Dalida il giorno dopo la morte di Luigi volle tornare immediatamente a Parigi. La stessa cantante morirà suicida nel 1987. Ma ora stiamo forse andando troppo oltre. È come quando butti un sasso nell’acqua. Le onde poi si propagano e non sai dove vai a finire. Certo è che troppi sono i lati oscuri di questa vicenda e alcune delle prove sopra citate hanno indubbiamente un certo valore. A 42 anni dalla morte di Luigi Tenco se siamo ancora qui a parlarne però non è solo per fare i complimenti a chi arriverà per primo alla verità, ma perché quella notte un ragazzo di 29 anni colmo di inquietudini e di grande talento ha perso la vita. Ma probabilmente doveva essere così, Luigi doveva lasciarci in eredità giusto un centinaio di brani inediti e questo grande mistero. Proprio come fosse un noir questa storia non ci lascia con un lieto fine. È un finale che si disperde nel tempo e non si esaurisce in quella notte. Oltre alle congetture, alle ipotesi, all’amore e la passione per la sua musica, c’è Luigi, che con quel suo sguardo misterioso fissa l’orizzonte, poi si scuote di dosso la sabbia e continua a camminare in solitudine a passi lenti e pensierosi. E mentre si accende un’altra sigaretta, dopo la prima lunga boccata, butta fuori il fumo dalla bocca e gli zigomi marcati del suo volto si rilassano. E sembra la materializzazione di quel verso della sua canzone che venne bocciata al Festival, in un mondo di luci sentirsi nessuno. Marco Chiffi UNA STORIA SBAGLIATA 19


SANTA MOANA DEI MISTERI Quindici anni sono passati

Cosa so di Moana? Quello che sanno tutti, presumo: la sua scomparsa è uno dei tanti enigmi della dematerializzazione della realtà; il segno estremo, esaustivo, di come l’alibi della perpetuazione di ogni mito sia destinato puntualmente a cadere, oggi più che in passato, di fronte ai punti non cicatrizzati del nostro incongruente immaginario. Non riesco più a guardare un film con Karen Lancaume, morta suicida nel gennaio del 2005, né un singolo fotogramma in cui faccia capolino Shannon Wilsey, in arte Savannah, suicidatasi nel 1994 a soli 23 anni dopo un discreto numero di pellicole e provate frequentazioni nelle alcove dei Guns N’ Roses e dei Mötley Crüe. E Moana fa parte del club. Belle e morte: il voyeurismo necrofilo non fa per me (e neppure i generi ‘kaviar’, ‘hairy’ e ‘grannies’, se ci tenete a saperlo). Strano, a pensarci bene. Rita Hayworth, Ava Gardner e Veronica Lake non mi procurano lo stesso disagio, probabilmente perché il porno, più del mainstream, è davvero Cinema, ovvero un pianeta per buona sorte distante dalle malinconiche pippe intellettual-autoriali. È una riflessione che faccio nel giorno in cui il 20 UNA STORIA SBAGLIATA

Moma di New York rende omaggio a Tim Burton e nel mio iPod gira da ore Fascinator, una canzone degli Htrk, il gruppo preferito dalla pornostar Sasha Grey. Anna Moana Rosa Pozzi, figlia di un ricercatore nucleare e di una casalinga, era nata a Genova il 27 aprile 1961. Il suo debutto nell’hard, Valentina, ragazza in calore, lo girò appena ventenne con lo pseudonimo di Linda Heveret accanto a Manlio Cersosimo, a.k.a. Mark Shannon. Un piccolo terremoto nel plasticoso decennio 80 ancora lontano dalla pornografia in alta definizione dei reality show: il movimento delle casalinghe chiese immediatamente la testa della ragazza, perché in quel periodo Moana stava conducendo su Raidue Tip Tap Club, un programma per bambini. Fu l’alba di una stella, il primo passo verso una gloria conquistata attraverso altre pellicole (Fantastica Moana; Moana calda femmina in calore; Cicciolina e Moana ai mondiali), spettacoli live, un libro in cui dava i voti ai suoi compagni di letto più famosi: 7 a Francesco Nuti; 6 a Massimo Troisi; 6+ a Renato Pozzetto; 6 a Renzo Arbore; 5 a Paulo Roberto Falcão. Diva patria (“Per governare Roma ci vuole più


Amore”, proclamò nel corso della sua breve esperienza in politica). Musa di stilisti, artisti e governanti. Potente campo magnetico sessuale spentosi improvvisamente all’Hotel de Dieu di Lione quel maledetto 15 settembre 1994. Tumore fulminante al fegato: una cosa schifosa. Lei era un corpo desiderabile guidato da una testa intelligente. Lei era il sogno proibito del grande parco zoologico Italia. Le avevano dato il nome di un’isola delle Hawaii che nell’idioma polinesiano significa più o meno “il punto dove il mare è più profondo”. Qualcuno sospetta che abbia deciso di tagliare i ponti col mondo dell’hard per ricominciare da un’altra parte, con un nuovo nome, dopo aver inscenato una finta morte. Qualcuno dice che era una spia al soldo del KGB, reclutata per la sua facilità d’accesso alle stanze segrete del potere, invischiata in un’operazione che avrebbe mirato a destabilizzare Bettino Craxi. Teorie che vedono l’attrice affiliata alla Anlivered Corporation Ltd., una società specializzata nel commercio legale di scorie radioattive iscritta alla Camera di Commercio di Kiev: Moana è stata assassinata. Moana era finita in un gioco pericoloso e, come in una spy-story di Robert Ludlum, se non è morta, si nasconde da quindici anni in un luogo sicuro. Tumore di merda. Voci sull’AIDS. Quello che si credeva il fratello minore di Moana, rivela di essere in realtà suo figlio. Il cadavere, a sentire i familiari, sarebbe stato cremato, però l’urna non è stata vista da nessuno. In una prima versione, le ceneri sarebbero state sparse in mare, in una seconda, in cima al Cervino. A nove mesi dalla scomparsa di Moana sarebbe stato contratto un mutuo ipotecario a suo nome per l’acquisto di un immobile. Le icone mandano in brodo di giuggiole i teorici del complotto. Le icone non possono morire per un carcinoma epatocellulare del cazzo. Nulla nella perdita di un’immagine sacra ci convince, tutto ci rende incerti. Cosa so di Moana? La mia vecchia videocassetta di Tua per Sempre è completamente smagnetizzata ma il titolo, col senno di poi, ha un valore rivelatorio. Lei era e sarà sempre il profumo, la vertigine, la seduzione che illanguidisce lo sguardo con un sorriso dopo un copioso cumshot, l’oggetto non identificato capace di sottrarre tutto alla sua verità per condurci in quel Nirvana del sogno dove tutto è permesso. Nino G. D’Attis

IVAN GUERRERIO Splendido Splendente Agenzia X

Fu un colpo di fulmine, in tv, a ciel sereno, in piazza con Cicciolina. La malizia, un certo distacco nobile a differenza dell’amica con l’orsacchiotto, e io mi innamorai. Di quegli amori in qualche modo corrisposti. In qualche modo perché la vita di Moana sembra rivolta all’altro, all’amore in senso completo. Lei amava quello che faceva e tutti noi lo sapevamo. Leggere Splendido Splendente è emozionante perché non è un libro su Moana Pozzi, o almeno non solo. È un libro su un grande amore, quello di Marzio Milani per Moana. La conosce da piccolo, se ne innamora, ne assaggia l’amore, e da allora non potrà fare a meno che seguirne la vita e le gesta. Una vita, quella di Marzio che pur prendendo diverse direzioni, finisce di tanto per incontrarsi con quella di una donna, a lui sempre legata, che percorre con candore e purezza d’animo un Italia, quella degli anni ottanta, che Ivan Guerrerio racconta attraverso le vicende di una pornodiva. Ed è questa visione a restituirci una Italia inedita, almeno nella prospettiva. E poi lei, vittima carnale di un’epoca e di un sistema, mito, “non” casta certamente, ma diva. Osvaldo Piliego 21



DARK REIGN

Il complotto è servito in casa Marvel Norman Osborn è uno dei malvagi più celebri dell’universo Marvel: influente uomo d’affari di New York, nelle vesti del verde folletto Goblin (visto anche nel film di Sam Raimi) ha tormentato per anni il giovane Peter Parker/Spiderman, arrivando a causare la morte dell’indimenticata Gwen Stacy, storica fidanzata dell’arrampicamuri. Evento tragico che condusse i fumetti Marvel in una dimensione più adulta e cruda e che rese Osborn/Goblin, una riuscita incarnazione del male in tutta la sua follia sociopatica e furia distruttiva. Oggi egli è il direttore della più importante agenzia di sicurezza governativa degli USA per volontà stessa del presidente americano, che lo considera, come il resto della nazione, un eroe e leader dei Vendicatori, il più potente e riverito team di supereroi della casa editrice. Questo grazie ad una serie di fortunate circostanze esaltate dall’eco mediatico e dal crescente clima di sfiducia nei confronti della comunità dei supereroi, Tony Stark/Iron Man in testa; che non hanno assolutamente a che vedere con una conversione al bene del magnate criminale, intenzionato a sfruttare il consenso politico e popolare per i propri scopi. La sua prima mossa, infatti, è stata quella di convocare contemporaneamente il Dottor Destino (nemesi storica dei Fantastici Quattro, geniale scienziato e monarca di uno staterello europeo), Loki (il Dio nordico della menzogna, recentemente rinato nei panni di una seducente ed inquietante fanciulla, ma che continua a covare un odio disperato verso il fratellastro Thor), Hood (scaltro signore del crimine di NY, controllato da un potente demone) Namor/Submariner (sovrano di Atlantide e controverso eroe dal carattere superbo ed irascibile) ed Emma Frost (telepate, leader degli X-men, che stanno vivendo un momento tremendo da quando la popolazione mutante è stata decimata quasi del tutto), per proporre loro un macabra alleanza finalizzata alla spartizione di un mondo, sconvolto da lotte fratricide tra eroi ed invasioni aliene. Nasce in tal modo Dark Reign (il regno oscuro) una lunghissima sottotrama che si dipanerà su tutte le testate della Marvel Comics, apportando un radicale mutamento all’intero status quo del fittizio microcosmo fumetti-

stico e frantumando le vite dei suoi personaggi, dall’Uomo Ragno agli X-men sino ad Iron Man e Capitan America. Il che a causa dell’ennesimo complotto ordito dai malvagi di casa Marvel, apparentemente; in realtà Dark Reign è sì la storia di una congiura, elemento topico nella storia dei comics supereroistici, ma contiene in sé tutta l’innovatività ed i frutti degli ultimi otto anni di maxi-saghe della casa editrice di Stan Lee. Merito in primis della gestione di Joe Quesada, poco più che trentenne editore capo, che ha dato allo sceneggiatore Brian Michael Bendis la possibilità di svecchiare intere serie e character destinati al declino, attraverso trame che mostrano una triste aderenza alla realtà. Ecco dunque Civil War (sceneggiata dall’iconoclasta Mark Millar), la disperata lotta tra due schieramenti di paladini della giustizia che si sfidano sul tema delle libertà civili e della sicurezza pubblica e Secret Invasion il jihhad cosmico degli alieni Skrull, decisi a conquistare la Terra per convertire i suoi infedeli abitanti al grido “Lui vi ama”. Al termine di quest’ultima è giunto l’avvento di Norman Osborn e delle sue orde di criminali, camuffati da eroi, destinato ad avvincere per molto tempo i Marvel fans. Il complotto ha avuto inizio ed un “Regno Oscuro” è sorto tra le macerie di un mondo incapace di distinguere i, sempre più labili, confini tra giusto e sbagliato, tra manipolazione mediatica e realtà effettiva. Dark Reign è l’ultimo evento editoriale della più famosa e quotata produttrice di fumetti (da poco acquisita dal colosso Disney), che nel ventunesimo secolo ha dimostrato una brillante attitudine alla dinamicità ed un sapiente uso delle proprie potenzialità multimediali, attraverso il cinema, i videogiochi e i gadgets, in barba alla recessione ed alla profonda crisi del mercato dei comics. I personaggi Marvel cambiano: si sposano, muoiono ed a volte ritornano (è il caso di Capitan America/Steve Rogers, ucciso in modalità simili al delitto Oswald-Kennedy) e si confrontano con scenari in perpetua evoluzione, appassionando milioni di persone in tutto il globo. Lunga vita al congiurante Norman Osborn dunque... Roberto Cesano UNA STORIA SBAGLIATA 23


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PICCOLI COMPLOTTI ANIMATI Pikachu e Pollon tramano contro di noi

Ricordate la puntata in cui Homer Simpson viene rapito da due alieni che gli rivelano il loro piano segreto per controllare la Terra assumendo le sembianze dei candidati alle presidenziali americane Clinton e Dole? Bene, se vi eravate sbrigati a liquidare il complotto degli alieni mutanti come l’ennesima allucinazione alcolica di Homer dovuta a una sosta al bar dell’amico Boe, vi sbagliavate. Il complotto esiste. A rendercelo noto è David Icke, ex giornalista ed ex attivista del Partito Verde britannico che a partire dagli anni ’90, illuminato dalla rivelazione di una medium, si autoproclama “Figlio della Divinità”, prendendo sulle sue fragili spalle di umano il compito di salvare gli umani suoi fratelli dal complotto dei rettiliani, specie di lucertole giganti che grazie a un dna ibrido assumono sembianze umane dopo aver ingerito sangue. I rettiliani umanoidi mangiano i bambini e sono sulla Terra da millenni: da qui governano le sorti del nostro pianeta facendo quadrare un po’ tutte le cose- epidemie, guerre, crisi economiche, attentati terroristici- a loro uso e consumo, e mentre i poveri ignoranti si aspettano di vederli planare dal cielo e li immaginano grigi, verdi, o fosforescenti con la testa tipo urlo di Munch, quelli sono già in mezzo a noi e hanno la faccia di leader mondiali, quali Bush padre e figlio, Clinton , Blair, Carlo e sua madre la regina. David Icke non è un personaggio dei cartoni animati e i suoi libri che parlano della cospirazione del Nuovo Ordine Globale sono, nel loro genere, tra i più venduti al mondo. Se Icke e Homer se la prendono con i rettiliani, qualcun altro ha tirato in ballo i Pokémon. In un articolo apparso su “Il Giornale” alla data del 17 gennaio 2004 Massimo Introvigne riporta alcune frasi virgolettate tratte da un discorso in cui Yusuf alQaradawi, autorevole predicatore di al-Jazeera e personaggio di rilievo del movimento “I Fratelli Musulmani”, spiega le motivazioni che nel 2001 portarono il governo dell’Arabia Saudita a vietare la trasmissione del popolare cartone animato

giapponese. Pikachu & company sarebbero una sorta di cavallo di Troia per portare nel mondo islamico la teoria evoluzionista di Darwin e la sua legge del più forte: i Pokémon, infatti, sono creature che possono evolversi acquistando maggiori poteri, e subiscono una selezione naturale, attraverso cui solo chi meglio si adatta all’ambiente sopravvive. Non bastasse questo, Yusuf al-Qaradawi aggiunge che in ricorrenti fotogrammi del cartone incriminato compaiono triangoli e stelle a sei punte: non si può dubitare, è un complotto giudaico-massonico per trasformare tutti i bambini in ebrei o in atei. Fra le altre diavolerie con cui i potenti della Terra cercano di controllarci fin dalla culla, ricordiamo la polverina magica che la piccola Pollon offre a dei e semidei dell’Olimpo canticchiando “Sembra talco ma non è! Serve a darti l’allegria!”: sappiate che è stata lei la prima pusher di tanti futuri cocainomani. E poi i più grandi successi targati Walt Disney, da “La Bella e la Bestia”, passando per “La Sirenetta”, “Il Re Leone” e i fumetti di Topolino: tutto un pullulare di fotogrammi equivoci, scritte “Sex” e 666 che compaiono capovolgendo e scomponendo ad arte le immagini. Siamo accerchiati. Si trama alle nostre spalle. Per fortuna, anche dopo che Dio è morto, non ci mancano profeti che si adoperano per la nostra salvezza e semplificano il male, in modo che tutti lo comprendano e, soprattutto, abbiano ben chiaro chi sono i colpevoli e chi le vittime. I nostri guru ci ricordano che “A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si azzecca”, perché, si sa, l’uomo è infido e infidamente agisce. A usare il caro vecchio senso comune e a fidarsi dell’apparenza, si finisce per far la parte dei disinformati o dei complici del complotto. Peggio ancora, dei semplici cretini. Risvegliamoci tutti quanti. E se al risveglio avremo qualche innocua mania di persecuzione, pazienza: ogni cura, si sa, ha i suoi effetti collaterali. Francesca Maruccia UNA STORIA SBAGLIATA 25


MUSICA

Foto di Pietro Paciullo

MÙM

Più a nord dei sogni Circa un mese fa aprendo la mia bella e cadenzata newsletter della Morr music, ho avuto una piacevole sorpresa: fra le tappe del tour europeo dei Mùm, in promozione per presentare il nuovo cd Sing along to songs you don’t know, c’era anche il Teatro Royal di Bari. Il concerto era inserito nel ricco programma del Festival Time Zones, diretto da Gianluigi Trevisi e giunto ormai alla ventiduesima edizione. Abbiamo avuto l’occasione di intervistare Orvar, anima dell’intero mondo Mùm, acclamata band del variegato panorama islandese, con all’attivo già cinque album e varie collaborazioni internazionali, remix ed una colonna sonora. Ad incontrarli e vederli dal vivo pare che se la spassino davvero molto, unendo alla loro esperienza da polistrumentisti un fare molto divertito nello svolgere quello che amano di più. Questa vostra nuova avventura musicale, la quinta per l’esattezza Sing along to songs you don’t know è prodotta dalla Morr Music, etichetta tedesca che di solito si concentra su gruppi con forti identità musicali, e che molti considerano come una label che ha in26 MUSICA

ventato un genere tutto suo. Dopo il primo album uscito per la Tmt e i successivi per la Fat Cat Records, perché questo cambio di direzione artistica? Tale scelta è dipesa da una evoluzione, una sorta di crescita della band? Dopo che abbiamo fatto il primo cd con l’etichetta islandese di un nostro amico, la TMT, ed altre locali, con cui però abbiamo avuto un po’ di problemi, ci siamo rivolti all’inglese Fat Cat Records. Nel frattempo, nel 2005 precisamente, abbiamo scelto di fare “una capatina” a Berlino, e presso la sede della Morr Music abbiamo incontrato Thomas (Morr) con cui, oltre a un interesse meramente professionale, abbiamo stretto ben presto una forte amicizia. Quindi in breve tempo abbiamo semplicemente preso la decisione di produrre, oltre a Yesterday was dramatic, today is ok, questo nuovo lavoro con la Morr, perché ci sentivamo davvero a nostro agio e in sintonia con ciò che vogliamo esprimere attraverso la nostra musica. Tutti voi avete alle spalle background musicali davvero diversi – punk, musica classica


e addirittura musica a otto bit! Com è stato fondere assieme tutti questi input sonori? Avete avuto delle difficoltà ad andare incontro ai gusti d’ognuno? Non ci sono state grosse difficoltà in realtà, poiché è sì vero che ognuno di noi ha una formazione differente, ma comunque ciascun componente della band come puoi vedere è prima di tutto un professionista, e sa e vuole far bene la propria parte, senza nessuna restrizione. Ognuno suona il proprio strumento – a vederli in realtà più di uno - in totale accordo alla scelta musicale che proponiamo. Quindi no, è stato molto più semplice di quanto si possa credere. Il vostro show dal vivo è davvero entusiasmante: il sound è così forte, energico, non perde un colpo, arriva come un’ondata di piena vita, diretto ai sensi. Per non parlare poi delle voci: la tua, profonda e potente e quella di Silla - Sigurlaug Gísladóttir, cantante e polistrumentista anche lei – cristallina, pulita, capace di raggiungere note che si potrebbero annoverare fra le corde di un mezzosoprano. Come riuscite a portare le vostre performance live a tale livello? In verità non pensiamo, né parliamo molto di quello che abbiamo in mente prima di suonare, cioè non vi è nulla di davvero programmato, tranne la scaletta. Cerchiamo di essere il più naturale possibile, senza analizzare troppo il tutto. Avete realizzato la colonna sonora della versione restaurata di un classico del cinema muto La Corazzata Potemkin di Ejzenstèjn. Certamente deve essere stata un’esperienza interessante, ma credo di non proprio facile realizzazione. Com è stato per voi confrontarvi con questa ennesima sfida? Senza dubbio è stata una magnifica occasione, ma effettivamente allo stesso tempo non semplice. Ci sono state altre colonne sonore realizzate per pellicole del cinema muto, come Il vaso di Pandora, Nosferatu, Un cane andaluso dove fattore portante della parte musicale era l’improvvisazione. Anche per La Corazzata Potemkin questo modo di approcciarsi è stato per noi presupposto da dove partire, ma credo che rispetto a quelli precedentemente citati, qui non è stata una passeggiata dover rendere il preponderante aspetto politico attraverso la musica. Le immagini erano così potenti, ritmiche, che dovevano da parte nostra rendere una collocazione musicale giusta. Comunque alla fine è andata bene, e la pellicola rivisitata è stata proposta ad un festival cinematografico spagnolo e poi anche a Brooklyn, a New York. Ho letto da qualche parte che il nome Mùm non vuol dire nulla, una soluzione dettata unicamente da una scelta grafica …

Difatti non ha nessun significato. C’è invece dietro una spiegazione da associare a immagini: dovresti vedere le due emme come fossero due elefanti molto stilizzati e la u, come se questi due a loro volta tenessero fra zanne e proboscide, due tronchi. Quest’ultima fatica è stato registrata fra Islanda, Estonia e Finlandia. Siete stati in un certo qual modo influenzati da realtà musicali così differenti? Al principio solitamente registriamo sempre le prime canzoni presso il nostro studio in Islanda, ma comunque siamo sempre alla ricerca di posti nuovi dove andare a rilassarci, sperimentare, e poter mangiare allo stesso tempo. Questo perché il fare musica con ritmi dettati non ci viene fuori bene, perciò preferiamo seguire i nostri tempi e scegliere luoghi dove poter, essendo anche produttivamente parlando molto indipendenti, stare in solitudine, incontrare nuova gente, aprirci comunque a sempre nuove bellissime esperienze. Domanda di rito: conoscete qualche artista italiano? Beh, fra gli evergreen sicuramente Mina e Fred Buscaglione, ma abbiamo avuto anche l’occasione di incontrare Gianna Nannini, perché Silla ha collaborato vocalmente parlando con lei: un’artista davvero brava e con una forte personalità. Un altro gruppo che ho potuto ascoltare tempo addietro e che stimo musicalmente sono gli Yuppie Flu. Hai scritto un libro edito da Scritturapura, tradotto in italiano con il titolo Scapigliata, lisciata riscuotendo un discreto successo di pubblico e critica. Il tuo scritto è stato paragonato ad una sorta di favola scura, un po’ in linea con lo stile di Lynch. Attraverso la letteratura, riesci ad esprimere qualcosa che per mezzo della musica non viene fuori? Non c’è in genere in tutti i tipi d’arte un movimento interiore troppo differente, lo spirito da cui scaturisce è il medesimo. La differenza sta nel fattore solitudine: quando scrivi puoi raggiungere attimi di introspezione che il momento musicale non sempre ti concede. Ma la ricerca e la voglia di fare qualcosa soli a confronto con se stessi è davvero tanta. Il confronto è di certo vitale per un artista, ma spesso molto faticoso. Lo definirei una sorta di bel compromesso. Ultimissima: come definite la vostra musica? Non ci definiamo in nessun modo, né amiamo inquadrarci in un singolo genere. Facciamo quello che ci piace e che direi, sappiamo fare meglio. Mariagrazia Gallù MUSICA 27


IAMX

Creatività tra musica e travestimenti Molti lo ricordano come leader degli Sneaker Pimps, una band trip-hop dei 90. Iamx, il nuovo progetto di Chris Corner, suona un tantino più personale e decisamente più aggressivo nell’approccio alla composizione. Inoltre qui la varietà di soluzioni musicali evidenzia una vena più eclettica e la sua teatralità dark-glam sembra essere diventata il centro dell’attenzione. Ti piace essere attore sul palco e nei video? O è soltanto il tuo modo di essere, un’espressione della tua natura camaleontica, del tuo singolare approccio alla creazione musicale? L’esibizione e il travestimento sono parti importanti del mio sfogo creativo. Si sono sviluppate nel tempo e mi hanno permesso di esprimere la musica in maniera più diretta e realistica. Quando ero piccolo mia sorella mi travestiva sempre, e questo era diventato un vero e proprio gioco per lei e i suoi amici. Probabilmente lì è cominciato il mio amore per l’esibizione. Non mi sono 28 MUSICA

mai sentito un attore. È semplicemente un altro lato della mia personalità. Più brutale, caotico e rischioso. Mi sentivo meno “reale” quando con gli Sneaker Pimps non mi travestivo affatto. Per lungo tempo mi è sfuggito il perché spendessi tanto tempo ed energie nell’immagine, nella scenografia e negli effetti visivi. Ma col passare degli anni ho imparato che mi aiuta a “trasportare” la musica e a creare un’atmosfera speciale. Aggiunge un’altra dimensione alla musica, che non può essere espressa soltanto leggendo dei testi o ascoltando dei suoni. Sono anche in qualche modo ricompensato dall’effetto che questa sperimentazione provoca sul pubblico, che è costretto ad adattarsi e a sviluppare ed allargare le sue stesse idee. Fa tutto parte del nostro essere una tribù. Che musica ascolti e quali dischi credi che ti abbiano influenzato maggiormente? Al momento ascolto solo musica classica. Mi piace Chopin, Steve Reich, John Cage, Shubert, Sa-


tie, Wagner… La classica mi rilassa e ripulisce la mia mente quando sono in pausa durante i tour ed il lavoro in studio. Sono sempre circondato da forti rumori e quella musica mi fa staccare la spina. In passato sono stato influenzato da molti dischi e artisti. Troppi per essere elencati. Ma se dovessi tornare ad essere un ragazzino e un fan sfegatato, allora dovrei nominare David Sylvian come influenza musicale maggiore. Secrets of the Beehive era un disco magnifico. Pesante, sofisticato e bellissimo. Ha davvero stimolato la mia immaginazione. Cos’è il Kingdom of Welcome Addiction (il Regno della Gradita Dipendenza)? Una sorta di paradiso in cui ogni dipendenza è ben accetta, o intendi dire qualcos’altro? Non credo che tutti i tipi di dipendenza sarebbero graditi in Paradiso. La parola Dipendenza è spesso considerata con un’accezione molto negativa, solitamente associata a droghe e sesso. Credo che dipenda da chi sei, da come affronti la tua dipendenza e, soprattutto, se sei in grado di uscirne. Tutte le dipendenze sono estreme, che si tratti di droga o di un gelato. Ti spingono in situazioni in cui altrimenti non ti ritroveresti tanto facilmente; ti spingono a prendere decisioni affrettate. Se impari da queste cose e la dipendenza si trasforma in un’altra esperienza di vita, allora si rivela un processo produttivo. È un discorso diverso per ogni individuo; se si riesce o meno a trasformare la dipendenza in qualcosa di interessante, piuttosto che devastante. La “gradita dipendenza” ti fa crescere, viaggiare più veloce e lontano fino a un luogo in cui sei un po’ più saggio di prima. Dicono che i tuoi testi siano cinici, ambigui, che parlano di sesso, droghe, ossessioni, religione e politica… Io ci vedo anche dell’ironia. Credi che il modo in cui la stampa percepisce i tuoi testi sia corretto? E che tipo di messaggio politico stai cercando di trasmettere? Tutti hanno un’opinione su ciò che sentono o vedono; personalmente io ho dovuto imparare a fregarmene di ciò che la gente pensa. La gente mi ama e mi odia. È così che va il mondo. IAMX è un progetto complesso e vorrei mantenerlo tale. Mi interessano tutti gli argomenti che hai menzionato, ma anche l’ironia e l’amore. Non è roba zuccherosa e di facile consumo. In generale, la gente che ama la musica tende ad esplorarla in profondità. Quelli che non lo fanno, sembrano sparire. Se mi importasse di ciò che dicono i critici, avrei smesso di fare questo lavoro da molto tempo. Sono cinico, auto-critico, ossessivo, non religioso. Potrei continuare all’infinito…. Cambia spesso anche la mia percezione di ciò che scrivo. Spesso arrivo a capire quello che in-

tendevo dire veramente, solo dopo molti anni che eseguo il brano in giro per il mondo; ma cerco comunque di esprimere le sensazioni che provo mentre scrivo, nel modo più preciso possibile. A volte il mio messaggio è emotivamente caotico e ambiguo, ma in fin dei conti spero che parli alle persone che pensano in modo diverso. È da un po’ che vivi a Berlino e ho letto che ti trovi bene in questa nuova città. Ci diresti che impressioni hai avuto riguardo le differenze tra Londra e Berlino? Credo che Berlino sia diversa dal resto della Germania. Ha la sua mentalità, è un gran casino, se ne strafotte e ti lascia il tempo e lo spazio per respirare. È tragica per molti aspetti e romantica per altri. Sono affascinato dalle vie buie e dalla storia buia di questo luogo. È l’orfanotrofio mondiale degli artisti. Una casa sicura per molti musicisti, scrittori, pittori. Economica e liberale. Senza confini. Londra è un bel posto da visitare, ma se ci vivi ti accorgi subito di essere sotto pressione; la pressione del dover essere qualcuno a tutti i costi, la pressione di presentarti e spiegare te stesso. Soffocamento da aspettative di successo. Dopo anni passati a Londra sentivo il bisogno di un posto in cui potermi rilassare lavorando in pace, guidato dalla creatività, più che dallo stress. Non solo hai una schiera di fans in Europa, ma hai anche registrato serate sold-out negli Stati Uniti. Deve essere stata un’esperienza indimenticabile (visto che Europa e America sono considerati due pianeti differenti)… Sei venuto in Italia a marzo per esibirti in due date. Com’è andata, ti piace l’Italia? Dovunque mi trovi ad esibirmi, vedo sempre la stessa tipologia di persone. Gente affamata, che adora travestirsi ed essere emotiva, gente che potrebbe essere considerata stramba. Gente che al concerto può sfogarsi e incontrare altri “freaks”. Trovare la stessa gente in tutto il mondo è un’esperienza incredibile e dimostra come alla fine abbiamo tutti gli stessi bisogni e le stesse sensazioni, a prescindere da dove o come viviamo. Ovviamente ci sono delle differenze tra i vari paesi, ad esempio Tedeschi e Americani hanno bisogno di più tempo per aprirsi e lasciarsi andare, rispetto agli Italiani. Mi piacerebbe tornare in Italia ad esplorare ulteriormente la singolare follia italiana. I concerti a Roma e Milano sono stati un’esperienza grandiosa e ci siamo sentiti molto apprezzati. Tobia D’Onofrio MUSICA 29


LANGHORNE SLIM Musica on the road

Arriva al terzo album, e raggiunge una nuova quadratura nel suono e nella composizione. Meno ruvido e roots rispetto alle origini Langhorne Slim ci presenta Be set free un album fatto di canzoni che non abbandonano lo spirito blues ma riescono a spingersi verso atmosfere più cinematografiche. Secondo una tua dichiarazione la musica folk è musica per il popolo. Hai anche detto che è tua intenzione comunicare sensazioni positive. Per di più hai contribuito a crearti un’immagine da persona comune, viaggian30 MUSICA

do in tour per tutta l’America a bordo della macchina di tua nonna. Fino a che punto credi che la musica e la vita possano mescolarsi? Che ne pensi, ad esempio, dell’intreccio tra musica e temi sociali o politici che sta tornando in voga nel lavoro di artisti tuoi contemporanei come Brett Dennen? Credo che tutta la musica sia per il popolo. Riguardo alla macchina della nonna era solo un modo per viaggiare in tour. È stato un regalo di mia nonna per dimostrarmi il suo sostegno, per aiutarci nel tour: ecco perché l’abbiamo fatto. Non ho una definizione particolare per la musica folk in sè. Credo che tutti quelli


Sono cresciuto in una famiglia in cui tutti amano la musica. Mia madre è una cantante di talento e i miei nonni degli appassionati che hanno saputo farmi apprezzare alcuni dei loro musicisti preferiti. Mi piace qualsiasi musica con cui riesca a stabilire una connessione. Non si può catalogare per periodi e generi… è solo un’emozione a guidarmi. La mia band preferita al momento sono i Dawes con cui stiamo girando in tour, e recentemente ho scoperto il grande artista italiano Paolo Conte. Ti ci è voluto poco più di un anno per pubblicare il tuo terzo album Be Set Free, che è stato definito il tuo disco più maturo, vario e organico di sempre. In cosa credi che si differenzi dai tuoi precedenti lavori? Ogni volta che crei qualcosa, metti tutto te stesso nel lavoro che stai portando avanti in quel momento. Non c’è l’intenzione di cambiare, ma probabilmente una naturale evoluzione che accompagna le nostre vite, mentre invecchiamo e facciamo nuove esperienze. Non avevo in mente i vecchi dischi, mentre lavoravo a Be Set Free; mi sono semplicemente concentrato su ciò che stavo facendo allora; su dove sono arrivato in questo momento.

che scrivono musica definiscano le proprie vite e se stessi. Credo semplicemente che sia tutta musica. Spesso si parla di te citando i Violent Femmes, ma personalmente direi anche Cat Stevens e Dave Matthews Band. In effetti credo che il tuo repertorio sia più vasto e più orientato verso la musica pop; include generi come bluegrass, soul, blues e strumenti come tastiere, organo e fiati. Ci puoi parlare del tuo background musicale e di quali sono state le influenze più determinanti? Hai qualche band preferita nel panorama odierno?

I tuoi tour sono estenuanti! Suoni ogni singolo giorno spostandoti per tutta l’America e verrai anche a Londra e a Berlino. Puoi raccontarci delle tue più recenti esperienze al festival di Newport e al Lollapalooza? Per noi suonare a Newport è stato davvero eccitante. Anche il Lollapalooza è stato grandioso; avrei voluto andarci sin da quando ero ragazzino, ma non c’era mai stata l’occasione. È stato fantastico poterci andare per la prima volta come musicista in scaletta. Amiamo viaggiare, ci piace stare sempre in giro, è la nostra vita, è quello che facciamo. È bello suonare in locali con un pubblico più numeroso, ma ci piace anche stabilire un contatto con la gente nei posti più piccoli, sia in America che all’estero. In alcune riprese girate ai tuoi concerti suoni insieme a Seth Avett (degli Avett Brothers). Durante i suoi shows, invece, Seth ha eseguito spesso la cover del tuo brano Mary. Siete amici? Andrete in tour insieme? Abbiamo incontrato gli Avett Brothers anni fa, a New York, grazie ad un amico in comune. Siamo rimasti amici da allora; abbiamo suonato insieme diverse date e spero che succeda ancora in futuro. Tobia D’Onofrio MUSICA 31


IL TEATRO DEGLI ORRORI Torna il carrarmato rock

Sono, a mio parere, la migliore band italiana degli ultimi anni, la perfetta alchimia tra musica e parole. Il loro nuovo album A sangue freddo è un carrarmato rock capace di macinare letteratura, musica d’autore, teatro, atmosfere hard, electro, noise. La band nasce nel 2005 dall’innesto tra due band esplosive: One dimensional Man (Pierpaolo Capovilla, Francesco Valente e Giulio Favero) e Super Elastic Bubble Plastic (Gionata Mirai). Capace di unire la violenza musicale dei Melvins a Fabrizio De Andrè il Teatro degli Orrori è il nuovo rock italiano. Il disco si apre con un brano che mi ha fatto subito pensare a Piero Ciampi. C’ è un elemento cantautorale molto forte nelle vostre canzoni, una scrittura che obbliga all’ascolto, il tutto con un impianto musicale assolutamente dirompente che sembra non appartenere a nessuna scuola italiana ma piuttosto ne crea un’altra. Cosa ne pensi? Wow! Grazie per le belle parole, ma non credo che Il Teatro degli Orrori abbia inventato niente di nuovo. Mi piace pensare di esser riusciti a fare un buon disco, meritevole di essere esso stesso un piccolo passo in avanti della tradizione, ché la tradizione è tale solo se la rinnoviamo, guardando verso il futuro. Certo che c’è la canzone d’autore nella nostra musica, e guai se non fosse così. Il nostro è un tentativo di coniugare il rock americano più intransigente, con la tradizione 32 MUSICA

cantautorale italiana: non so se ci siamo mai riusciti, ma almeno ci abbiamo provato. La dimensione teatrale oltre a ispirarvi sul nascere è un elemento che rende la vostra musica, e in particolare le vostre esibizioni, delle esperienze uniche. Quanto la performance, l’atto è parte del vostro fare musica? Il palcoscenico è la vita. Non c’è finzione in ciò che facciamo, è tutto maledettamente vero. Non siamo delle rock star che si pavoneggiano, siamo uomini veri, con tutto ciò che ne consegue. Il nostro paradigma è il teatro artaudiano proprio per questo. Il teatro come rappresentazione più vera del vero. Se non giocassimo la partita nella convinzione che essa sia sempre una prova grave e capitale, forse non varrebbe la pena di giocare tout-court. C’è nella violenza, nell’urgenza di alcune liriche anche un senso di solitudine di incapacità di essere parte di questo tutto, c’è un gusto dolce dietro amarezze gridate in faccia. Quali sentimenti vi hanno animato nel comporre il disco? La disperazione, e la voglia di cambiare il mondo. Così com’è ci fa schifo. Dobbiamo fare qualcosa. Fregarsene e pensare ai fatti propri, al tornaconto personale, non è soltanto inutile, è stupido. Cosa vogliamo lasciare ai nostri figli, un paese governato da manigoldi sporcaccioni? Non se ne parla proprio....


La letteratura nutre questo album, canzoni che, come non succedeva da tempo nel rock, hanno senso. Oltre a Majakovskij (titolo di un brano)… quali letture si riversano nella vostra musica? I riferimenti letterari sono molteplici e sempre ben meditati. Ognuno di essi vuole esser un’allegoria, che dia ancor più senso al senso della canzone. Vorrei lasciare agli ascoltatori il piacere di scoprirli da se. Voglio proprio vedere chi e se qualcuno si accorgerà dove sta Faulkner, e dove Pino Daniele. A sangue freddo si presenta come alternativo persino all’indie, sembra fare il giro senza scegliere mai un genere o un’ etichetta in cui collocarsi. Credo appartenga a un suo profondo senso politico, ma anche al suo contenuto che è sintesi di esperienze diverse che sommate superano una scena un po’ incasellata in alcuni schemi. Che ne pensi? Cerchiamo di fuggire dai clichés, qualunque ed ovunque essi siano. Forse non sempre ci riusciamo, ma con gli stereotipi non si va da nessuna parte. Quei gruppi “indipendenti” che fanno a gara ad imitare questo o quell’altro, mi fanno una gran tristezza. Oltre alle parole il vostro carrarmato rock usa armi non convenzionali anche dal punto di vista musicale, rispetto al primo album il vostro sound si arricchisce, per altri versi si inquadra in una forma nuova e più limpida. Abbiamo registrato alle Officine Meccaniche di Mauro Pagani proprio per questo. Ci serviva uno studio di registrazione d’eccellenza, per dare un tono alle canzoni più classicamente rock, più raffinato dunque, e più intelligibile. È stata un’esperienza avvincente, ne valeva la pena. In questo disco ci sono una serie di ospiti e amici. Non c’è niente di più bello del cooperare insieme ad altri. Se c’è un furto che ci fa il capitalismo, è impedirci di fare le cose insieme, deciderle insieme, darsi obiettivi insieme. Nel caso specifico di A Sangue Freddo gli ospiti li ha scelti Giulio, che ricordo non è solo il bassista del gruppo, ma anche il produttore artistico. Usando le sue stesse parole, Giulio ha cercato di creare degli “involucri” musicali ai miei testi, mettendo in atto un processo di fascinazione reciproca. Osvaldo Piliego

IL TEATRO DEGLI ORRORI A sangue freddo La Tempesta/ Universal

Rock applicato alla canzone d’autore, testi densi di significato politico non militante che scavano il quotidiano e interrogano le coscienze sono gli ingredienti fondamentali che contraddistinguono l’ensemble de Il Teatro Degli Orrori anche nel loro secondo album, A sangue freddo. Un disco che vuole ricordare lo scrittore nigeriano Ken Saro Wiwa (la titletrack) e il declino di un paese socialmente devastato come il nostro, che scava nel profondo di un sistema malato usando le parole come proiettili che colpiscono a spada tratta l’ascoltatore nell’intimo. Capovilla da libero sfogo alle sue passioni letterarie e nel farlo non risparmia niente e nessuno: violenza poliziesca, populismo straccione ed egocentrismo analfabeta dell’Italia contemporanea sono solo alcuni dei temi trattati nei brani quali Il Terzo Mondo, Alt e Mai Dire Mai. Una band che fa già discutere di sé per la rivisitazione del Padre nostro in chiave rock. Un disco ricco di contenuti e di ospiti che pone il “karrarmato rock” tra le migliori proposte di questi anni zero. Alfonso Fanizza

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DID Kumar Solarium Foolica

SHANNON WRIGHT Honeybee Girls Vicious Circle

labbra e la voglia di premere il tasto repeat del lettore. Tobia D’Onofrio

VLADISLAV DELAY Tummaa Leaf

Registrato fra Torino e Bologna, il debutto dei Did si getta a capofitto in un magma di scosse telluriche da dancefloor. Se l’iniziale Hello Hello è techno-post-punk senza orpelli, la successiva Time for Shopping riporta alla mente il primi passi dei conterranei Subsonica, anche se qui si canta in inglese. Lo stesso vale per il terzo brano, che continua a spingere in direzione di un post-punk elettronico sempre più orientato verso la canzone pop. Another Pusher Blues frena la corsa per una riflessione meno rocambolesca, sempre però sullo slancio di synth minacciosi che ricordano i Liars o i TransAM che furono. Molti brani hanno l’appeal punk-electro-pop che ha tutte le potenzialità per sfoderare ottimi singoli come Ask U2, dalle strofe biascicate in classico british-style, oppure Sex Sometimes, sussurrata fino al semi-ritornello. Purtroppo però suona tutto molto prevedibile e non si abbandona mai la rigida struttura di brani costruiti su tre note. Il disco scorre abbastanza fluido e non annoia, ma l’hit trascinante non arriva e si attende un futuro più maturo e carico di emozioni. Tobia D’Onofrio

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Una delle cantautrici underground più interessanti degli ultimi dieci anni, la polistrumentista Shannon Wright scrive un nuovo lavoro intenso e multiforme. Dopo un incipit confessionale, la Wright sfodera chitarre ruvide e soniche su cui imbastisce i suoi tormenti vocali. È Embers in Your Eyes a colpire nel segno, con quella sintesi magistrale di Blonde Redhead, Siouxie e PJ Harvey. Poi la title track abbraccia atmosfere più oscure, trascinata da un pianoforte alla Bad Seeds in un brano che ricorda la PJ di To Bring You My Love. Subito dopo l’acustica cristallina di Black Rain spiana la strada ad una copia carbone di Suzanne Vega appena macchiata di Lisa Germano. Glitch elettronici che fanno pensare alla Bjork di Vespertine introducono Father, una preghiera per acustica e violoncello che s’impenna all’ingresso del pianoforte. E proprio il piano è il protagonista delle ultime tracce, nella miglior tradizione di autrici come Tori Amos e le già citate Germano e Harvey. Strings Of An Epileptic Revival è il fiore all’occhiello, un valzer che non sfigurerebbe tra le Murder Ballads di Nick Cave, mentre la cover di Asleep degli Smiths manda tutti a nanna con un tenero sorriso sulle

Sasu Ripatti lavora da dieci anni come musicista elettronico d’avanguardia e le sue originali textures sono devote alla sperimentazione ambient. Questo nuovo lavoro a nome Vladislav Delay s’intitola “oscurità” ed è stato registrato nella natìa Finlandia durante i sei mesi di “buio”. Con l’aiuto di Craig Armstrong (compositore di colonne sonore) Sasu ci trasporta in un denso mare di rumori e pulsazioni, in cui risulta determinante la componente strumentale. L’elettronica pura, infatti, è messa da parte in favore di un cospicuo utilizzo di percussioni, fiati e pianoforte, in composizioni che occasionalmente presentano ritmiche compiute, altre volte si perdono nella fluidità del battito irregolare. Se in molti casi lo sfondo si tinge di pianismo classico, più spesso i collage evocano atmosfere jazz, in un susseguirsi di suggestioni free-form destrutturate alla maniera dei primi Gastr Del Sol. Un lavoro organico ed intenso che presenta anche momenti più “immediati”, come l’iniziale Melancholia, costruita su evocativi stralci di piano, e la trance robotica di Toive


che fermenta inesorabilmente. Musica che dovrebbe agire sulla mente a livello subliminale, ma che spesso si impadronisce anche del corpo generando piacevoli scariche elettrostatiche. Tobia D’Onofrio

VV. AA. The Twilight Saga: New moon original motion picture soundtrack Atlantic

CATS ON FIRE Our Temperance Movement Johanna Kustannus

Siete nella vostra stanza in preda all’ascolto di quattro ragazzi finlandesi che vi propongono di scappare in allegria nella vostra auto, d’estate senza condizionatore… Sicuramente un bel disco, che arriva da un precedente interessante, infatti il quartetto nordico, cresciuto tra il più raffinato pop britannico e una serie di demo ed Ep prodotte e distribuite fra le periferie underground dell’indie, riesce ad avere una certa visibilità già con il loro primo disco The Province Complains nel 2007. Continuano sulle stesse linee con Our Temperance Movement che a differenza del precedente lavoro ha una forma più semplice ed efficace, o semplicemente più pop. Quel che ne viene fuori è un affascinante crogiuolo d’influenze, tra tutte lo spettro dei The Smith; infatti come non si potrebbe associare la calda e penetrante voce di Mattias Bjorkas a quella di un giovanissimo Morrisey, o non sentirne l’influenza post punk

Ci cattura al volo la colonna sonora del vampire-teen-movie New moon (secondo film tratto dall’acclamata serie di libri Twilight) perché raccoglie insieme una nutrita schiera di ottimi musicisti: non si sono ‘ripresentati’ all’appello i Paramore (giustificato il loro timore di vedersi affibbiata per sempre la targhetta di ‘band dei vampiri’) ma troviamo gradita la riconferma dei Muse con un remix alternativo di I belong to you (già nell’ultimo The Resistance); altri pezzi sono affidati ad ottimi cantatutori (e cantautrici) e già possiamo apprezzare all’ascolto le linee compositive morbide e raffinate del grandissimo Thom Yorke, della svedese Lykke Li e della californiana Anya Marina (con la dolcissima Satellite heart). Il meglio però deve ancora arrivare, con la presenza nella tracklist del fior fiore della scena indie rock newyorkese e internazionale: ecco allora i dirompenti e avvolgenti riff di Hurricane bells e Band of skulls mentre di ottima fattura sonora le prove di Sea wolf, Ok go, degli Editors (bellissima e struggente No sound but the wind) e dei Grizzly bear. Ancora (come se non fossimo già abbastanza soddisfatti) troviamo i Black rebel Motorcycle club, i Killers e, ‘last but not least’, la ending credit song Meet me on the equinox affidata agli immensi Death cab for cutie. Che altro dire? Ben vengano i teen movie se accompagnati da una ricerca musicale di tale qualità! Oscar Cacciatore che va dai The Felt ai The Jam, con echi pop anni 80 un po’ ovunque… Un album dal gusto fluido e leggero che regala anche quel sapore malinconico con chitarre mai monotone e ricche di melodie, variegato nelle sonorità anche dall’utili-

zo di strumenti come ukulele, banjo clarinetto ed organo. Questi “gatti sul fuoco” sanno far ballare ma al tempo stesso anche far pensare a ciò che si vuole veramente essere. Ivan Luprano MUSICA 35


HOPE SANDOVAL & THE WARM INVENTIONS Through The Devil Softly Nettwerk

finale con voce filtrata e organo che si sovrappongono al rumore delle onde del mare. Davvero un disco senza tempo. Tobia D’Onofrio

Elisabeth Kontomanou Siren Song – Live At Arsenal Plus Loin Music

Dal revival psichedelico dei primi anni ’80 nacquero a Los Angeles gli Opal, un gruppo seminale in ambito dream-folk e slo-core, che avrebbe poi cambiato nome in Mazzy Star in seguito all’ingresso della nuova cantante Hope Sandoval. Era il 1996 quando il mondo del rock ascoltava gli ultimi sussurri della mitica band artefice di una musica dilatata, sognante e sonnolenta. Hope Sandoval, in veste di solista, avrebbe poi ripreso il discorso lasciato in sospeso con i Mazzy Star, accompagnata dai Warm Inventions tra cui figura l’ex My Bloody Valentine Colm O’Ciosoig. Dopo il disco del 2001 la cantante collabora con artisti del calibro di Air e Chemical Brothers e solo adesso, a otto anni dal precedente, arriva il nuovo album. L’inizio ha un piglio deciso che ricorda PJ Harvey; poi si passa ai brani confessionali con tonnellate di riverbero alla voce; un tappeto acido alla Pink Floyd con un cantato fra Kate Bush e Jim Morrison (For The Rest Of); un country-blues sommesso; un valzer acustico su arrangiamenti classicheggianti; il memorabile crescendo elettrico di Trouble; ancora ballate country-folk ed un gran 36 MUSICA

Elisabeth Kontomanou è una dea. Sensuale, intransigente, ammaliatrice. Nella sua anima, soul e r’n’b; nel suo background Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Bessie Smith, Louis Armstrong. Nella sua voce, tutte le profondità della terra. Nel suo canto, il racconto di tutti gli abbandoni, gli amori assoluti, le malinconie più struggenti. E soprattutto, quel dettaglio indispensabile, rarissimo, che la rende così diversa da tutte le altre, che dà alla sua voce quei colori consolatori o devastanti, a seconda dei casi, che sono appartenuti solo alle più grandi cantanti jazz della storia: il blues. Elisabeth canta il blues con un’intensità che strappa la pelle. Basta accostarsi alla sua versione di Come Sunday, contenuta in questo bellissimo Siren Song, per essere colti da un’irrefrenabile voglia di credere in dio, e cantare con lei lode al Signore, proprio come accade ascoltando Mahalia Jackson che incise questo infinito brano di Duke Ellington nel ‘58. Ma se ne trovano altre,

di perle nascoste, in questo primo live della cantante afroellenica, vissuta a lungo a New York, passata attraverso privatissimi drammi, e poi tornata in Europa, per dividersi tra la Francia, dov’è nata, e la Svezia, dove vive. La registrazione testimonia del concerto tenuto all’Arsenal di Metz nel gennaio 2008. Con lei, una sezione ritmica che l’accompagna ormai da tempo, con il figlio Donald alla batteria, il fedele pianista Laurent Courthaliac, e Thomas Bramerie al contrabbasso. Ma, soprattutto, una compagine orchestrale di 76 elementi, l’Orchestre National de Lorraine diretta da Jacques Mercier, che illumina la sua voce e la esalta; e tre arrangiatori, tra cui l’altro figlio della cantante, Gustav Karlström, che è anche autore del bellissimo Farewell e di Dreams of Gold in cui duetta con la madre, sfoderando una nerissima voce soul. Elementi che insieme ai celeberrimi A Flower Is A Lovesome Thing, At Last, I Put A Spell On You regalano poco meno di cinquanta minuti di purissima gioia. Lori Albanese

JÓNSI & ALEX Riceboy sleeps Parlophone

Guardando il documentario Heima (A casa), il racconto del free-tour casalingo dei Sigur Rós, sono rimasto ammalia-


to dalla magia visuale-sonora dell’Islanda, vulcano di band e musicisti in continua eruzione, tisana per l’animo. Le stesse sensazioni provo ora ascoltando Riceboy Sleeps, il cd della coppia Jón þór Birgisson (Jónsi dei S.R.) e l’americano Alex Somers. L’eclettismo dell’intero percorso dei Sigur non arriva a questo lavoro (solo Von vi si avvicina in parte); è l’esaltazione di tempi lenti e note dilatate. Suoni eterei per pezzi esclusivamente strumentali, lunghi e sinuosamente ridondanti sullo stesso tema sonoro. Questo disco è come quei libri animati per bambini: lo apri, lo ascolti, sfogli pagine su un mondo che è nordico, come l’Islanda, ma allo stesso tempo tolto da ogni punto cardinale. Riceboy Sleeps parte dalle viscere della terra ed unisce il giorno alla notte. Un must per Sigur-fans. Dieghost

regala” un lavoro… Maturo? Forse. Ben definito direi. Melodie suggestive, voci oltre i limiti nazionali e ritmi elettro-folk; un’ armoniosa alternanza di strumenti tipicamente islandese. Dopo esperimenti d’elettronica, il precedente e godibile Go Go Smear the Poison Ivy, i Múm acchiappano un senso al loro sempre vivo vagar sonoro, tra ballate e riusciti esperimenti, il tutto condito con un tocco “geografico” e poetico. Sento e risento Sing Along, Hullabbalabbalúú o Kayray-kú-kó-kex e vago tra Islanda, Estonia e Finlandia. Sono in studio con loro. Dieghost

MARK KNOFLER Get Lucky Mercury

MÚM Sing along to songs you don’t know Morr Music

Mettiamoci in fila, in mano strumenti da antiquariato; accenniamo in tondo strane note. Cantiamo canzoni sconosciute, strane litanie venute lì per lì. Potremmo farlo. Ma senza riuscire a beccare il suono della non tanto piccola orchestra Múm, (sono nove a questo giro!) Il gruppo che amo da sempre, del cui nome ancora ignoro la pronuncia, “ci

In concerto continuano a chiedergli Sultans of swing e Romeo and Juliet, Money for nothing e Walk of life. Lui acconsente, ma è chiaro che ormai abita altrove, in un mondo sfuocato e color seppia come in una fotografia di inizi ‘900, nostalgico e in chiaroscuro come un film in bianco e nero. Ma se c’è un musicista che ha fatto della coerenza artistica un valore, quello è Mark Knopfler: uno che se ne frega di chi lo vorrebbe ancora una volta riunito agli Straits proponendogli somme indicibili; uno che non si cura di chi brontola che dovrebbe suonare più chitarra nei dischi e se ne infischia di chi lo ritiene datato e poco radiofonico. Ciò che più conta è che

Mark Knopfler, nel 2009, abbia sfornato il suo miglior disco solista (insieme a Golden Heart del ‘96 e Sailing To Philadelphia del 2000). E non importa se qua e là riemergono passaggi musicali evidentemente identici a qualcosa di già fatto o se alcune strofe, atmosfere e melodie ricalcano altre “vecchie” canzoni. Perché in fondo si tratta di autoplagi: bazzecole per uno che a sessanta anni, fa un disco così. Un consiglio: Get Lucky va ascoltato e riascoltato senza fretta, non nell’i-Pod ma nello stereo, magari la sera con un buon bicchiere di vino. Sarà un autunno più dolce! Rino De Cesare

LEMMINGS Lemmings La grande onda

“Schizofrenia sicura” recita il testo della loro Mai e credo rappresenti bene il caleidoscopio di generi dei Lemmings. Ispirati dai piccoli roditori per il loro nome o dal videogioco anni 80 poco importa. Quel che balza subito all’ascolto è l’attitudine al gioco che la band ha nell’utilizzare i generi più disparati per comporre i brani. Ci sono un’evidente fascinazio-ne per alcuni suoni e atmosfere sixties (citazioni surf, ballad bubblegum), un trascorso punk, la tentazione per i ritmi in levare (ska, reggae) e un’attitudine rock. Tutto questo è sotto un cappello pop. Basta aggiungere che la cover scelta per questo disco di esordio è Tanz Bambolina di Alberto Camerini. La firma di Ra-b, gia’ autore e producer per numerosi artisti come Piotta e Cor Veleno è un sigillo di garanzia. Osvaldo Piliego

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AVANTI POP

Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Jay-z + Alicia Keys – Empire state of mind Dicono sia la nuova “New York, New York” di Frank Sinatra. Una specie di inno postmoderno dalla Grande Mela. Scomodare certi paragoni è sempre antipatico e addirittura pericoloso. Un brano come questo, onestissimo, solido, composto da due talenti contemporanei, non deve essere paragonato a niente, diventare figlio più o meno illegittimo dei classici. Siamo in un altro mondo, in un’altra generazione, in un altro mercato. La musica si brucia in molto meno tempo. E proprio per questo, è troppo presto per dire se questo brano diventerà anthem. Domanda voyeuristica: ma perché Alicia Keys, nel video, suona il piano piegata, manco fosse afflitta da un’ernia? Calvin Harris – Flashback Uno dei musicisti meno originali di sempre, un campione dei campionamenti, sia in entrata che in uscita: leggenda vuole che anche Madonna si sia scomodata per recuperare i suoni di questo scozzese classe ’84. Il suo nome d’arte è il modesto “The King of Electropop”. A 23 anni ha prodotto Kylie Minogue, a 24 Dizzee Rascal. Ha già mandato al diavolo una superstar del pop, Lady Gaga, dicendole che il demo faceva così tanto schifo da non meritare nemmeno un minuto del suo tempo. Non si sa per quanto tempo riuscirà ad arrampicarsi sugli specchi, ma nel frattempo saremo costretti a ballare. Questa Flashback è una trappola, soprattutto quando la turnista di giornata, Ayah Marar, inizia a cantare ruffiana. Bene, bravo. Bis? Whitney Houston – Million dollar bill Stiamo parlando di una donna vincente. Non si può spiegare altrimenti l’inarrestabile (ri-)ascesa di una delle voci più importanti del rhythm and blues americano. I tempi del suo nuovo lancio discografico sono completamente sballati: c’è da elaborare il lutto globale per Michael Jackson, l’immagine personale è sbiadita e distrutta (an-

che fisicamente), il matrimonio burrascoso con Bobby Brown si è chiuso in malo modo e le brutte storie con la marijuana hanno rappresentato l’ultimo avvenimento degno di nota. 11 anni senza un brano inedito. Poi così, dal nulla ed in sordina, lei inizia a far capolino nelle radio, poi sempre più forte anche in TV, in un video che ripaga la Houston, in un colpo solo, di tante sofferenze. A 46 anni si fa scrivere il capolavoro della rinascita da Alicia Keys, e si fa produrre dall’uomo che sta dietro Beyoncè, Swiss Beatz. E ora, chi la ferma più? Daniel Merriweather – Impossible Non sappiamo se Daniel ha ascoltato Whitney da giovane, ma di certo non si sposta tanto da quel mondo. E’ un ragazzo di 27 anni; è originario di Melbourne, Australia, dove spopola; è profondamente sottovalutato (eccezion fatta per Mark Ronson, uno che di musica ne capisce, a tal punto da lanciarlo come voce nel suo primo singolo); continua a fondere classico e innovativo, blues ed elettronica. Ha sensibilità nelle liriche e senso del tempo. Ogni tanto lo si ascolta anche nei media mainstream. Speriamo per lui che non sia impossibile vederlo cantare per grandi platee. Kings of Convenience – Boat behind Non so dirvi se Erlend Oye ed Eirik Boe, duo di Bergen, Norvegia, potranno mai godere di buona stampa. Attaccarli è troppo semplice. Sono i sosia scemi di Simon e Garfunkel. Ci hanno messo 5 anni per scrivere un album perfettamente identico al precedente. Non vendono più nemmeno nella loro Norvegia (mentre in Italia tengono, a tal punto che non è assurdo definire il Belpaese come il loro primo mercato). Eppure, è così difficile staccarsi dalla solita melodia, dai soliti giri di chitarra, da quei suoni melensi, dal coretto…qualunque cosa la critica dirà dei KoC, sappiate che di nascosto tutti li ascoltano. Perché sono irresistibili. Dino Amnduni 39


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DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse... Pink Martini – Tuca Tuca Raffaella Carrà sbarca nell’Oregon. A questo punto molti lettori si saranno allontanati sbraitando, tutti gli altri proseguiranno nella lettura, con un tasso di curiosità diventato ingestibile. Avete letto bene, un’orchestra (sono in 11) distinta ed elegante, come i Pink Martini sanno essere da oramai 15 anni, decide di riproporre un classico trash, o cult, o kitsch, o semplicemente pop. Con spirito ardentemente filologico e con una pronuncia italiana invidiabile rielaborano il brano del 1970 in chiave esterofila. La chicca è nel bridge: un impossibile banjo fa capolino in una delle cose più interessanti che un 2009 musicalmente mediocre ha saputo esprimere. Antony – Nessun dorma Ancora un brano cantato in italiano, ancora il gusto del rispetto filologico, ma i punti in comune tra i Pink Martini ed Antony finiscono qua, e sono comunque molti di più di quelli che sarebbe possibile individuare facendo un parallelismo tra Raffaella Carrà e Puccini. L’italiano è simpaticamente stentato, tipicamente anglosassone. L’interpretazione è però lodevole e non è possibile escludere che questa “cover”, colonna sonora del prossimo spot Lavazza, non diventi una hit. Tanto, se Giusy Ferreri reinterpreta Rino Gaetano, allora vale tutto. Yeasayer – Ambling alp Attenzione a questa formazione semisconosciuta proveniente dalla Grande Mela. Sono al secondo album, che uscirà nel 2010, e in questo primo singolo riescono a condensare ispirazioni (in verità più europee che statunitensi) di diversi registri musicali. Sono tanto eclettici da avere problemi nell’autodefinirsi: il terzetto, infatti, parla di sé come di un gruppo psico-snap-gospel dell’America centro-orientale. E i voli pindarici non finiscono qui: i live sono un’esperienza fat-

ta di progressioni rock e di allucinazioni visive piuttosto vivide. Lontano dall’Italia ne parlano un gran bene, e questo singolo fa effettivamente ben sperare. Rezophonic – Nell’acqua Mentre l’Italia vince i Grammy con Laura Pausini e batte i grandi musicisti pop con Alessandra Amoroso, esiste una nazione subacquea. Ed è proprio nell’acqua che si nasconde il nuovo singolo dei Rezophonic, super-collettivo di musicisti “alternativi” guidati da Mario Riso, da sempre impegnato nel trasformare la passione comune in una forza creativa che sia in grado di spostare l’opinione pubblica (e i suoi soldi) verso cause spesso dimenticate. Come il titolo suggerisce, il tema di questo brano è lo spreco delle risorse idriche da parte dell’Occidente, ingenuamente inconsapevole della sete che gran parte del mondo continua a provare. Canta Caparezza, Roy Paci alla tromba, collaborano Cristina Scabbia (Lacuna Coil) e Livio Magnini (Bluvertigo). Ah, i Bluvertigo. Ah, XFactor… J Majik + Wickaman – Feel about you Brancoliamo nel buio. L’unica cosa certa di questo brano è che la BBC lo inserisce con disinvoltura tra le varie Rihanne e Shakire. Nemmeno Wikipedia giunge in soccorso. Di Wickaman si sa molto poco, ma possiamo certamente parlare di nuove (vecchie) tendenze nella musica britannica: sta tornando il drum’n’bass, seppur in forme molto più addomesticate e radio-friendly. Chase and Status produce musicisti pop ed è ambitissimo, Wickaman remixa, produce, edita, e si fa vedere in classifica. Vedremo se sarà un fuoco di paglia che dura pochi mesi o se stiamo assistendo al più improbabile dei revival. Dino Amenduni 41


SALTO NELL’INDIE

In foto: Mimes of Wine

MIDFINGER RECORDS Questa volta il nostro viaggio alla scoperta delle etichette italiane sconfina per incontrare Midfingers records. Italiani ma con casa e attività a Londra questa nuova etichetta sembra non avere neanche di genere. Midfinger è pioniera in Italia per una serie di cose, ci racconti come nasce, perché, che anni erano? Midfinger è nata da una esigenza dei suoi fondatori per la ricerca di strade alternative a quelle convenzionali riguardo gli aspetti legati al mondo della produzione, della distribuzione e della promozione della musica. Un ruolo abbastanza rischioso ed inizialmente messo in discussione dai media di settore e dai concorrenti. Erano gli ultimi anni della inconsapevole new economy, la scena alternative caratterizzava la grande offerta di musica mainstream alternativa al pop, l’indie nostrano iniziava ad essere una concreta realtà di nicchia, tutto questo mentre le prime città venivano silenziosamente cablate in fibra ottica. Stiamo parlando dei primi anni 2000. Midfinger nasce in questi anni tra Varese e Milano, per aiutare band esordienti nello sviluppo arti42 MUSICA

stico, prevalentemente in studio. Visto il periodo storico in cui abbiamo mosso i primi passi, ci è sembrato logico avere una visione innovativa e di ricerca, se non altro per differenziarci dalla massa di etichette già presenti sul mercato. Un mercato che iniziava già a mostrare una prima importante flessione. Così nel 2002, Midfinger e la sua costola Rumorerosa (booking) cercano e siglano un accordo con un colosso di quel periodo, Vitaminic S.p.a. In quegli anni Vitaminic era l’unica strada percorribile per vendere musica on-line ed una partnership con loro ci ha garantito una buona visibilità in una fase importante come quella di lancio per essere forse la prima vera net-label in Italia. Negli anni a venire ci siamo inventati gli ep ed i promo digitali per promuovere le nostre band esordienti, il Ghost Day a Varese ed i Midfinger Party in Europa. La vostra attività è caratterizzata da un forte legame con l’estero, ce lo spieghi? Gigi Piscitelli, mio socio in Midfinger, ad un certo punto ha deciso di trasferirsi a Londra. Dopo poco anche Giorgio Pona lo ha seguito. Grazie a questa decisione ci siamo ritrovati, non senza


difficoltà ma con grande dedizione e lavoro da parte di tutti, ad avere una presenza importante a Londra, con anche uno studio di registrazione. La vera svolta verso l’estero è arrivata anche dai Midfinger Party, una serie di eventi organizzati in Europa dove band di vari paesi avevano la possibilità di esibirsi e collaborare alla promozione ed alla realizzazione. Abbiamo organizzato diversi Midfinger Party a Londra, due sono stati organizzati per i 60 anni di David Bowie contemporaneamente a Milano e Roma, grazie anche all’aiuto di DNA concerti. Il primo Midfinger Party organizzato a Berlino ha visto più di 2.000 spettatori paganti. Insomma, come dovrebbe essere per ogni progetto agli esordi, le radici sono state ben piantate grazie alla concretezza di argomenti come Live e Produzione, ovvero nel nostro caso, i Party e lo studio. In catalogo anche piccole perle di indie italiano, ci ha particolarmente colpito il lavoro di Mimes of wine ma ci sarebbe l’imbarazzo della scelta, quali sono le vostre direttive artistiche? Non abbiamo un genere di riferimento, piuttosto delle coordinate emozionali che devono spiccare nei dischi degli Artisti con cui collaboriamo. Parlo di originalità e capacità di emozionare. Imprescindibile invece un’alta qualità della proposta live. Nel caso di Mimes of wine tutte e tre, dal nostro punto di vista, sono state da subito evidenti. Midfinger Rercords non è la sola attività di Midfinger, o sbaglio? A Midfinger Records, da dicembre 2008, abbiamo affiancato anche un magazine on-line pubblicato a cadenza mensile. Midfinger Mag. Con questo magazine fotografico diamo sfogo alle nostre “altre” attività lavorative, mantenendo però una direzione creativa e di contenuti in linea con quello che è l’immaginario Midfinger. Musica live, moda, arte, illustrazioni, architettura, fotografia, party, cinema sono messe sullo stesso piano grazie all’assenza di grafica ed alla predominanza dell’immagine fotografica. Insomma un giornale on-line che racconta l’arte e la cultura ad immagini. Midfinger Records e Midfinger Mag poggiano su una solida struttura di creativi e societaria che è Souldesigner®, un laboratorio di ricerca che collabora con le maggiori agenzie ed aziende nel cercare le nuove tendenze dell’immagine fotografica, video e interattiva. Quali sono, secondo te, le differenze più grandi tra il mercato italiano e quello in-

glese? Trovo che il mercato Italiano sia ancora caratterizzato dal prodotto mainstream inteso nel senso più conservativo e pop del termine. Vuoi per l’attenzione che i programmatori artistici delle radio e tv dedicano ai contenuti musicali, vuoi per la poca voglia di rischiare delle etichette che detengono le grandi quote di mercato. L’indie è ancora una nicchia da sviluppare, ma che soffre le ambizioni personali dei musicisti, dei discografici e degli addetti ai lavori, che troppo spesso cedono alle lusinghe della scorciatoia televisa o della major di turno, perdendo così fascino, identità e in certi casi addirittura forza verso il pubblico dei sostenitori fondamentali. In UK invece capita molto più spesso che una band emergente faccia il cross-over in un mercato mainstream, entrando in classifica ma proponendo musica molto diversa da quella programmata in precedenza dalle radio. L’innovazione viene premiata dagli addetti ai lavori, che in qualche modo educano così il pubblico all’ascolto e ad amare le novità. Trovo sia inutile piangersi addosso, credo piuttosto che per un’etichetta Indie che produce musica con testi in inglese sia importante pensare di fare le valigie e spostarsi all’estero. L’Inghilterra ha un mercato discografico duro, pieno di grandi investimenti e di nomi importanti, dove è davvero difficile avere visibilità. Penso che Midfinger, dopo anni, si stia ancora muovendo a piccoli passi tra i punti di riferimento della discografia mondiale, ma trovo che sia stato fondamentale per noi questo passaggio, che ci ha dato la credibilità per firmare artisti come Agaskodo Teliverek e Jeniferever o per collaborare con Andy Savours alla produzione del primo disco dei Drink To Me. Piccoli passi dicevo, ma sul suolo inglese. Questo numero di Coolclub.it è dedicato ai “complotti”. Qual è secondo te il più grande complotto della storia della musica? Non saprei di preciso, come prima cosa ti direi Payola negli USA. Ovvero l’uso comune tra emittenti radiofoniche nel chiedere soldi alle etichette discografiche, o forse viceversa, l’uso comune delle etichette discografiche di pagare i dj delle emittenti per programmare determinati brani. Non so se si possa parlare di complotto ma sicuramente fu un grande scandalo che evidenziò uno dei principali mali del sistema musica. Per restare nel nostro paese forse quello della casa editrice che vendeva enciclopedie da acquistare come biglietto d’ingresso per potersi accreditare alle selezioni tv dello zecchino d’oro. Antonietta Rosato MUSICA 43


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In foto: Tori Amos

ON THE ROCK Un regalo per Natale Consigli per gli acquisti 1.0 Christmas In The Heart è il disco natalizio di Bob Dylan. Quindici tracce a sostegno di alcune associazioni che lottano contro la povertà e la fame: “ognuno di noi deve fare tutto il possibile per sostenere chi soffre. Sono onorato di collaborare con il Programma alimentare mondiale” ha risposto al cronista del Daily Mirror; “È una tragedia che più 35 milioni di persone, dodici milioni di questi bambini, spesso vanno a letto affamati e si svegliano al mattino senza sapere quando sarà il loro prossimo pasto. Mi unisco a questo Progetto nella speranza che i nostri sforzi possano portare un po’ di sicurezza alimentare ad alcune persone almeno nei giorni di festa”. L’album è già schizzato in testa alle classifiche di Billboard. Bellissimo e spassoso il video che in questi gioni è disponibile sul sito (www.bobdylan.com) che ha per tema Must Be Santa. Consigli per gli acquisti 2.0 I Los Lobos cantano Walt Disney. Anche in questo un mix gustosissimo e festaiolo di tex mex. Due icone della cultura di L.A., i Lupi e il padre di Topolino, insieme per fare baldoria. “siamo onorati che i Los Lobos abbiano scelto di celebrare l’eredità musicale della Disney, in modo gioioso e bello”, ha detto il Presidente della casa ame-

ricana David Agnew. Alcuni brani sono davvero irriconoscibili, ma cattureranno gli appassionati come gli originali conquistano i bambini. Consigli per gli acquisti 3.0 È arrivato nei negozi solo da qualche giorno Midwinter Graces il tributo natalizio di Tori Amos. Come la figlia devota di un reverendo reinterpreta vecchi inni religiosi. Dodici brani con un sound accessibile, cantati come solo lei sa fare. Una celebrazione della tradizione festa del solistizio d’inverno e del Natale. L’album è molto bello, vabbhé io amo Tori Amos... Consigli per gli acquisti 4.0 Ed ora magari per completare i nostri acquisti sempre in tema di album musicali ci rivolgiamo a quanto pubblicato in passato. Solo per i super appassionati dei Beatles. Dal 1963 al 1969 i Beatles registrarono ogni anno dei corti messaggi natalizi per i loro fan. Le registrazioni venivano salvate su LP e spedite gratuitamente ai membri inglesi del loro Fan Club. Nel 1970 la Apple Records pubblicò una raccolta di tutti i sette messaggi. Vittorio Amodio MUSICA 45


LIBRI

L. R. CARRINO Intervista con l’autore dell’imperdibile Pozzoromolo Ci sono libri che sanno entrarti sotto la pelle, come un tatuaggio e da lì non li cancelli più. Ci sono libri, poi, fra quelli che ti entrano sotto pelle che si meritano un posto speciale. Pozzoromolo di Luigi Romolo Carrino, pubblicato da Meridiano Zero, io me lo sono tatuato vicino al cuore. Ci sono libri che quando li leggi pensi che chi li ha scritti deve aver sofferto molto nel farlo, perché andare a toccare certi punti dell’anima non può che essere doloroso. Ci sono certi personaggi, come Gioia, il transessuale rinchiuso tra le mura di un ospedale psichiatrico giudiziario per un delitto che non ricorda di aver commesso, e di cui le pagine di Pozzoromolo sono le memorie, distorte, rubate agli stati di incoscienza e sonnolenza dati dagli psicofarmaci, ci sono certi personaggi indimenticabili, per spessore e grandezza. Lo dico senza retorica: Pozzoromolo è senza dubbio la cosa migliore che ho letto negli ultimi anni. Non leggo moltissimo, forse, ma di bei libri ne ho letti, e questo certamente è il migliore. Leggetelo, piangete, innamoratevene e fatelo leggere a tutte le persone che reputate intelligenti. Ve ne saranno grate. La cosa più straordinaria di Pozzoromolo, il tuo capolavoro in questo libro, è senza 46 LIBRI

dubbio la lingua. Il tuo personaggio, Gioia, usa un lingua che non è italiano e non è dialetto, non è linguaggio comune e non è linguaggio poetico ma tutto questo insieme. Che tipo di lavoro hai fatto sulla lingua? Il mio personaggio utilizza diversi registri a seconda dei momenti del libro. C’è il registro dettato dalla terapia farmacologica, che è questo italiano misto al dialetto, poi c’è il Remerol che la riporta ad uno stato quasi infantile con il giochino del c’era c’era, poi a metà romanzo diventa tutto più lucido per Gioia e quindi anche il suo linguaggio si adegua. E infine, nella parte finale quando lei viene completamente fuori c’è questo linguaggio altissimo, poetico, quasi shakespeariano, senza voler fare paragoni. Però quando Gioia dice la padre “Torna a saldare al buio tutte le braccia che non mi hai aperto” è il suo momento più alto, più poetico e forse più autentico. Io credo che ogni storia, ogni personaggio, abbia bisogno della sua lingua. Nel mio prossimo libro utilizzerò un altro registro linguistico. Così come è stato in Acqua storta. Non mi interessa rifarmi, ripetermi. Non è questa la mia idea di letteratura. Gioia è un misto di infanzia conta-


dina, vive a Roma per due anni dopo essere scappata da un manicomio e poi vive per 23 anni in una cella a studiare, a leggere. Ho cercato di seguire io stesso il percorso di Gioia, di immedesimarmi con lei. Il libro è stato scritto in vent’anni e si vede, o almeno spero. Già con Acqua storta ci hai abituati a personaggi non convenzionali, molto originali e qui con Pozzoromolo, tiri fuori Gioia, un personaggio unico e meraviglioso. Ma chi è Gioia? Intendi dire se Gioia sono io? Se c’è dell’autobiografismo? Gioia è sicuramente una parte di me che mi è sempre appartenuta, per il suo processo identitario, quello che i redattori di Meridiano Zero hanno definito ambiguità sessuale. E poi anch’io come Gioia in un lungo periodo della mia vita utilizzavo la scrittura come catarsi, come cura. Ero praticamente muto, non parlavo. Insomma, molte delle cose di Gioia sono mie come la paura di non riconoscersi, di non sapersi rappresentare per come ci viene detto di rappresentarci, l’incapacità di pensarsi. Ovviamente nel libro confluiscono tantissime esperienze e tantissime passioni come la psicologia o gli studi sul ricordo di Stern. Ancora, ci sono vari esorcismi, i rapporti con miei genitori, il nodo parentale. Detto come va detto sono contento che ‘sto libro sia finalmente uscito, che mi abbia liberato da alcuni fantasmi. Mi rendo conto che questo libro mi ha aiutato davvero a “guarire” da certi mali, me ne rendo conto adesso che sto quasi finendo il mio terzo romanzo col quale vado a toccare i calciatori gay. Mi ammazzeranno. Non mi ha ammazzato la Camorra, mi ammazzerà tutta l’Italia. Ci sono dei maestri ai quali in qualche modo ti rifai? Certo e sono tantissimi. Sicuramente Pasolini. Non voglio fare paragoni, però credo che tra Acqua storta e Una vita violenta le affinità siano tante. E poi Elsa Morante. Lei è straordinaria, certo è molto descrittiva, ma ha scritto delle pagine bellissime dalle quali non si può prescindere. E poi la trilogia di Agota Krsitof, un vero pugno nello stomaco, Il profumo di Suskind, e poi autori immensi come Proust, Emily Dickinson, o le poesie di Mariangela Gualtieri, una parte, verso la fine di Pozzoromolo è ispirata al suo Monologo del non so. Ma ci sono anche scrittori giovani, contemporanei come Giorgio Vasta o Alessio Arena. Nel finale del libro cito i loro lavori. Alessio è un mio caro amico, Giorgio Vasta invece

non lo conosco e spero che non se la prenda a male, ma il suo libro è stata una delle cose più interessanti che ho letto nel 2009. Quello che invece mi annoia nei contemporanei è la ripetitività: il sessantesimo commissario simpatico che ha un vezzo particolare che lo distingue dagli altri. Dove l’unica cosa che conta è la storia, a volte nemmeno così originale. Per carità ci vuole talento anche per serializzare un personaggio ma non è quella la parte che mi interessa, non è quella per me la letteratura. Ti capita mai, mentre scrivi di pensare come avrebbe scritto questa frase Pasolini, o la Dickinson (per citare due autori che hai nominati)? Il mio motto è leggi e dimentica. Certo mi capita di riconoscere in quello che scrivo echi di quello che ho letto, ma questo è normale perché poi quello leggiamo entra a fare parte del nostro bagaglio di esperienze. Quindi se mi capita di richiamare con la mia scrittura altri autori è fatto sempre senza intenzionalità. Poi c’è un altro livello che è quello della citazione voluta e cercata. In Pozzoromolo faccio una serie di citazioni che vanno dalle canzoni sceme ai poeti che amo di più. Il disocrso qui sarebbe lunghissimo, perché ovviamente se saccheggi un autore poco noto è disonesto, se citi un grande autore è un omaggio che tu fai. Qualcuno per esempio dopo aver letto Pozzoromolo mi ha detto “ma questa è Alda Merini!” E certo che è Alda Merini, è citata. Ecco, secondo me il discrimine tra il lecito e l’illecito sta nel citare la fonte. Acqua storta ha avuto un bel successo di pubblico. Te l’aspettavi e che cosa ti aspetti con Pozzoromolo? Il mio primo libro ha venduto veramente tanto per essere un esordio e con una casa editrice medio piccola come Meridiano Zero. Quando abbiamo avuto i dati delle vendite ho detto: “Devo dire a mia madre di smetterla di comprare copie del mio libro!”. Battute a parte è stata davvero un abella sorpresa, ma non penso di bissare il successo con questo secondo romanzo. Con questo libro non penso di superare le duemila copie. I motivi sono tanti: l’utenza di Acqua storta è stata molto di genere, quasi il 70/80 per cento erano lettori omosessuali o donne. E poi Pozzoromolo è un libro molto più difficile, più duro, più pesante forse. Quello che vorrei è che chi ha apprezzato Acqua storta leggendo questo dica “Wow ma Carrino è uno scrittore!”. Dario Goffredo

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ELISABETTA LIGUORI Rossano Astremo intervista la coautrice del suo ultimo libro Tutto questo silenzio La genesi di Tutto questo silenzio, romanzo pubblicato da pochi giorni da Besa e scritto da me ed Elisabetta Liguori è da far risalire a una mia idea che mi ha ossessionato per un po’ di tempo un po’ di anni fa: quella di scrivere un romanzo sulla caduta e la rinascita di una famiglia italiana. L’idea sarebbe rimasta tale se non fosse intervenuta nella stesura del romanzo Elisabetta Liguori, la quale ha deciso di farsi intervistare dal sottoscritto per svelare alcuni aneddoti sul libro. Dopo quasi quattro anni dall’inizio della scrittura di Tutto questo silenzio, finalmen48 LIBRI

te il nostro romanzo arriva nelle librerie. Vuoi raccontare ai lettori di Coolclub.it perché agli inizi del 2006 hai accettato di scrivere la storia della famiglia Bordini assieme a me? Perché mi fidavo di te. Ero certa che dietro il soggetto letterario del quale mi avevi parlato la prima volta ci fosse un’urgenza autentica. Ho accettato da lettrice, per una specie di patto implicito, d’intesa già esistente tra la tua scrittura e la mia lettura, tra la mia scrittura e la tua lettura. Non credo che sarebbe stato possibile altrimenti. Inoltre la tua storia mi rassomigliava. Sfiorava pericolosamente quelle che da sempre


sono le mie paure, i miei demoni, i miei temi. La famiglia cioè, il suo decadere, la deriva del tempo che la rende opaca, che la sfinisce, il senso di fallimento personale che ne può derivare e al quale la maggior parte di noi continua ad opporsi con risultati i più diversi. Ma non solo. Ho accettato anche perché l’idea di violare l’apparente isolamento che fa parte dell’immaginario dello scrittore mi divertiva molto. Molti si chiederanno come abbiamo fatto a scrivere un romanzo a quattro mani. Diciamo subito che non è totalmente impossibile. Dimenticate la visione romantica dello scrittore colto dall’ispirazione repentina. Noi siamo stati molto più razionali. O, almeno, così mi sembra. Che dici al riguardo? Tu sei stato razionale!?! Curioso parlare di razionalità per una storia come la nostra, che ha tratti di tipo surrealista. Ma in fondo non ti sbagli: abbiamo scelto di costruire per immagini la nostra storia per dare maggior forza alle ragioni psichiche e d emotive dei nostri personaggi. Lo abbiamo fatto con convinzione. Abbiamo utilizzato tecniche rigorose, talvolta di tipo cinematografico, per suddividere passato e presente, sogno e veglia, desideri e ricordi, in scene. Abbiamo costruito con metodo quasi scientifico la discesa che porta la famiglia Bordini all’attimo di follia e poi la sua risalita. Abbiamo ragionato, programmato, scandito, scritto e riscritto. Abbiamo sempre equamente diviso il lavoro, ci siamo confrontati spesso in corso d’opera e corretti reciprocamente alla fine, ma abbiamo lasciato che le nostre voci narrative rimanessero distinte, pur mescolandosi. Ecco, in verità, lavorare sulle nostre voci per avvicinarle senza confonderle, sentire che pagina dopo pagina si trasformavano naturalmente, credo sia stata per me la parte più emozionante del lavoro. E forse anche quella meno razionale. Più andavamo avanti con la scrittura più ciascuno di noi si affezionava ad uno dei personaggi. Io, ad esempio, ho preso una cotta per Paola, la figlia maggiore di Mirko e Federica. Non so, ha quell’aria fragile e decadente che apprezzavo molto nelle ragazze quando ero adolescente. Infatti, molti dei capitoli su Paola li ho scritti io. Tu, invece, a quale dei personaggi sei più legata? È Federica la mia preferita. La moglie, la madre, l’infermiera. Lei è quella che non riesce a perdonarsi nulla, alla quale nessuno perdona nulla. Lei è volontariamente crudele, perché crede di non aver altra scelta. Il silenzio è la qualità imposta alla sua vita, il colore e la temperatura,

ed è per quello che soffre. Vorrebbe aver voce, dire, essere, poter scegliere ancora, ma non ci riesce. Eppure è certa di meritarlo, di avere un credito nei confronti della sua esistenza, e quindi l’indifferenza, la precarietà, il malessere del suo universo, le risulta ancora più inspiegabile. Federica è il fallimento che diventa energia, senza trovare la giusta canalizzazione. Mirko, suo marito, pur desiderando le medesime cose, non le è di alcun aiuto. Vivono ciascuno nel proprio altrove e non si incontrano più. Hanno progressivamente smesso di fare gli stessi progetti, di guardare insieme al futuro. Il futuro non c’è più, cancellato da un presente eterno, da un buco nero, avulso dallo scorrere reale del tempo. Sì. Mi piace Federica e mi fa paura: vive in un “bosco di vetro”, proprio come nel manifesto del surrealismo di Andrè Breton. Diciamolo subito. Il nostro romanzo non è un giallo. Ok, c’è una vittima e c’è un colpevole. Dimenticate, però, le storie di Conan Doyle o Agata Christie. Il nostro libro è più simile alle storie del Tenente Colombo in cui si capovolgono le regole del giallo e vittima e colpevole si conoscono sin da subito. Ancora una volta tu, dopo “Il correttore” ti trovi a rompere gli ingranaggi della scrittura di genere per utilizzarla per fini altri. C’è una ragione specifica? La ragione è sempre quella: comunicare, comunicare, comunicare. Creare coscienza comune intorno ad un tema che sento importante. I generi narrativi sono i ferri del mestiere di quegli strambi artigiani che siamo, costretti ad usare (e ben felici di farlo!) come materia prima noi stessi, frammenti di anima, pelle, ossa, memoria. Nel nostro romanzo la struttura di genere, come dicevi, è stata forzata. La vicenda è divisa in due parti ed ai miei occhi appare ora come una linea retta aspramente spezzata verso il basso. Non c’è nulla da scoprire, ma molto da condividere. E se il Tenente Colombo ogni tanto viene in mente anche a me ( lo amavo tanto!) è forse perché anche lui, come i personaggi del nostro romanzo, rientra in quella categoria di uomini comuni, perdenti dal cuore guizzante, destinati a grandi sfighe, benché dotati di enorme sensibilità e visionarietà. Ultima cosa. Se dovessi definire Tutto questo silenzio con una frase? Che romanzo abbiamo scritto? Un romanzo sulla difficoltà di vivere nel mondo, così come lo immaginiamo oggi. Ma, tu lo sai, una frase non mi basta. Un romanzo non mi basta. Non mi basta mai. Rossano Astremo LIBRI 49


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MAYUMI HATTORI L’oscurità e la luce Edizioni Controluce

Il titolo è L’oscurità e la luce, scritto dall’autrice giapponese Mayumi Hattori e pubblicato dall’editore pugliese Controluce. Un libro pubblicato molti mesi orsono ma che, ora, grazie ai forum, ai social network, al passaparola e alla lungimiranza di qualche critico, fa parlare di sé. Una prassi poco usata nel mondo dei libri di oggi, pura merce con data di scadenza sopra impressa. Dopo pochi mesi se un libro non fa il botto cessa di interessare, le librerie lo accantonano, lasciando spazio alle nuove uscite. Loredana Lipperini, la giornalista di Repubblica e della trasmissione radiofonica Fahreneit nelle pagine del suo blog ha definito L’oscurità e la luce un “romanzo bellissimo”, che consiglia vivamente “per la grazia e la forza con cui la storia viene narrata, senza un alito di autocompiacimento nonostante la maestria con cui la scrittrice cambia registro man mano che Reia/Rei cresce”. Sì, Reia è il nome della bambina cieca che all’inizio della storia ha tre anni, è prigioniera e le uniche presenze che le sono a

fianco sono quelle di suo padre e della sua custode, la feroce Dafne. Quando compie tredici anni, tutto cambia. Reia viene lasciata da suo padre in un cimitero, viene ritrovata dalla polizia e portata in ospedale. Verrà operata e le sarà restitui. ta la vista. E scoprirà di essere un maschio, rapito ai suoi veri genitori e racchiuso in una favola. Favola moderna che si colora di tinte noir per un romanzo dalla trama coinvolgente, scritto magistralmente da una scrittrice, la Hattori, scomparsa nel 2007, in Italia del tutto sconosciuta. La Hattori non ha nulla da invidiare alla Yoshimoto o a Murakami, solo per citare due scrittori giapponesi da noi molto noti e L’oscurità e la luce è una storia che riscalda e coinvolge. Rossano Astremo

LUCA RICCI Come scrivere un best seller in 57 giorni Laterza

La definizione migliore per catalogare Come scrivere un best seller in 57 giorni, nuovo libro dello scrittore pisano Luca Ricci, l’ha data Emilio Marre-

se, giornalista del Venerdì di Repubblica. Siamo in presenza di un romanzo-pamphlet. Romanzo perché racconta una storia, che presenta un inizio, uno sviluppo ed una fine. Pamphlet perché tutta la storia è a sostegno di un’argomentazione d’ampio respiro, nel caso specifico un puntellato attacco nei confronti della mercificazione dell’oggetto libro, sempre più vittima dei numeri e non dei contenuti. In sintesi la storia: quattro blatte (John, Paul, George e Ringo, inutile dire chi ricordano questi nomi) decidono di salvare le finanze del padrone della casa sotto sfratto dove abitano, uno scrittore sfigato senza una lira bucata, sostituendosi a lui alla tastiera per scrivere un romanzo con tutti gli ingredienti necessari a scalare le classifiche di vendita. Perché, sostengono gli scarafaggi, “oggigiorno si riproduce sempre la stessa opera, gli editori pubblicano sempre lo stesso libro”. Come scrivere un best seller in 57 giorni mette in scena lo scontro tra letteratura come impegno etico e letteratura come prodotto tecnico, riproducibile, di consumo. Ricci, alla ribalta della scena editoriale italiana grazie ai due libri einaudiani L’amore e altre forme d’odio e La persecuzione del rigorista, se la prende non solo con il sistema editoriale, ma anche con i suoi stessi colleghi, i quali dimenticano di scrivere per i lettori, poiché succubi del loro pubblico. Il bestseller non è più una categoria di mercato, bensì un genere. Gli ingredienti di successo incidono sulla creatività, e in certi casi è più importante saper pianificare che saper scrivere. La pietra scagliata da Ricci contro il mainstream editoriale sarà di certo fagocitato dallo stesso senza lasciare tracce. È troppo radicato il binomio libro-merLIBRI 51


cato per riuscire ad invertire la rotta. Gli editori, in fondo, sono degli imprenditori e se, pur di incrementare le proprie rendicontazioni annuali sono costretti a pubblicare volumi che il compianto Vittorini mai avrebbe preso in considerazione diari d’adolescenti erotizzate o cupe storie vampiresche. Erano altri tempi, appunto. A noi toccano in sorte questi. Che Ricci si rassegni! Rossano Astremo

NICK CAVE La morte di Bunny Munro Feltrinelli

Venti anni separano E l’asina vide l’angelo, primo romanzo di Cave, da questa seconda, attesissima uscita. In mezzo, naturalmente, ci sono state le incursioni cinematografiche (in veste di sceneggiatore, oltre che di compositore) ed i dischi insieme ai Bad Seeds, oppure sotto la sigla Grinderman. Nicolas Edward Cave, australiano di Warracknabeal, non si è fatto mancare niente, insomma. E di certo conferma le doti cardinali dell’ottimo narratore intraviste nell’esordio, dal momento che il Bunny del titolo, commesso 52 LIBRI

viaggiatore sessodipendente e con figlio a carico dopo il suicidio della consorte, è un cialtrone di razza alle prese con una deriva tragicomica raccontata attraverso una prosa ricca e duttile che alterna una vivida intonazione poetica alla più schietta espressione sboccata. Nelle prime pagine troviamo il protagonista in mutande, in una stanza d’albergo di quarta categoria, con la moglie Libby che gli parla al telefono e una prostituta tossica dalla pelle color cioccolato pronta a portare a termine la sua missione. Se incombe la morte, il sesso è un esorcismo ossessivo-compulsivo che smentisce la possibilità di una vita migliore. A bordo di una Punto gialla, Bunny e Bunny Jr. viaggiano verso il nulla a sud del Regno Unito. Tra incontri bislacchi e visioni oscure, Bunny sfiora il ridicolo, poi ci passa attraverso: ecco il grottesco di un uomo e di un mondo intero che diventano una sorta di leit motiv della storia, la ferita più profonda che uno scrittore possa procurare ai suoi lettori. Perché si ride a denti stretti perfino quando impazzano i tormentoni su Avril Lavigne, Kylie Minogue, Britney Spears e Beyoncé oggetti di desiderio Pop, santuari celesti della pippa (e a pagina 51 si cita perfino il famigerato video delle nozze hard di Tommy Lee e Pamela Anderson!). Il riso, ne La morte di Bunny Munro rimanda puntualmente agli scenari infernali dipinti da Hieronymus Bosch, almeno quanto l’immagine del serial killer che si pittura di rosso, indossa corna di plastica e infilza le donne con un forcone da giardino. Cave allestisce il palcoscenico ideale per un gotico del XXI secolo. Un dedalo senza varchi, una torva murder ballad camuffata da farsa. Nino G. D’Attis

IRVINE WELSH Crime Guanda

Un uomo, una donna, una bambina e una banda di mostri. L’ultimo romanzo dell’autore di Trainspotting, nell’ottima traduzione di Massimo Bocchiola riprende Ray Lennox, personaggio secondario de Il Lercio e lo mette su un Boeing 747 che dalla Scozia lo porterà negli States insieme a Trudi, sua promessa sposa. Ray è in vacanza. Ray è in convalescenza dopo l’indagine (finita male) su un serial killer pedofilo. Prende pillole, vede fantasmi, ha una mano fracassata, la sua ragazza gli sembra un’aliena intenzionata a coinvolgerlo in un matrimonio extraterrestre. Ray è una minaccia per se stesso, però cerca di tenere duro. La sua vita è al fatidico bivio che separa la luce dalle tenebre: marchiato a fuoco dai sensi di colpa per non essere riuscito a salvare l’ultima vittima, in via di riabilitazione da una dipendenza dalla cocaina, il poliziotto perde la testa durante una lite con Trudi e nel giro di un’ottantina di pagine, subito dopo l’incontro con due tipe strambe in un localaccio,


finisce in un grosso guaio a Miami. A centrocampo, il destino ci mette un’altra bambina ridotta a giocattolo sessuale da una rete di maiali, così il nostro antieroe alla frutta non ci pensa due volte e si lancia a testa bassa verso il pericolo. Il resto? Be’, cercate di non perdervelo per nessuna ragione al mondo, insieme a tutto ciò che gravita intorno all’opera migliore di Welsh da molto tempo a questa parte. Un libro che parla di ombre scavando bene in profondità. Un romanzo parecchio lontano dalla satira sociale con gruppo di tossici scozzesi in prima fila. Ray, Trudi e la piccola Tianna sono personaggi che non si dimenticano facilmente: umanità pestata dai cattivi pensieri, dalle occasioni perdute. I paesaggi americani visti dallo scrittore europeo hanno ben poco di patinato, proprio come le pagine di Perfect Bride (la rivista che Trudi sta leggendo per prepararsi al grande passo) dopo quattro interminabili giorni all’inferno. N. G. D’A.

Elio Grazioli Kurt Schwitters Marcos y Marcos

A Kurt Schwitters, uno dei maestri delle avanguardie

LA LETTURA TI FA GRANDE Festival dei piccoli lettori a Calimera (Le)

case editrici tra le più importanti nell’ambito della letteratura per ragazzi: El, Mondadori, Piemme (Battello a vapore), Fabbri, Editoriale scienza, Gallucci, Salani, Nuove edizioni romane e molte altre. Tra gli autori ospiti di questa edizione (che incontreranno i giovani lettori nella mattina di venerdì e sabato) Pina Varriale, Francesca Longo, Emanuela Da Ros, Francesco Gungui, Daniela Morelli, Fabrizio Silei, Luisa Mattia, Laura Walter. Info www.comune.calimera. le.it – www.ildado.it

storiche del Novecento, è dedicata l’ultima monografia di “Riga”, la collana diretta da Elio Grazioli e Marco Belpoliti per le edizioni Marcos y Marcos. Il bel volume contiene alcuni testi autografi dell’artista tedesco, tradotti in italiano per la prima volta, come la descrizione della “macchina raddadista”, capace di trasformare qualsiasi capitalista in un “anti-borghesuccio”; oppure come il brano del 1924 che spiega le potenzialità della “poesia consequenziale”, fatta di lettere anziché di parole. Seguono le testimonianze degli amici “dada”: Hans Arp, Tristan Tzara e Hans Richter delineano il profilo di un genio difficilmente classificabile. Numerosi gli approfondimenti e i saggi, dove compaiono, tra le altre, le firme dello stesso Grazioli, di Isabelle Ewig e di Hanne Bergius. “Gridare con la spazzatura” per combattere una lotta pacifica contro le perversioni di una società opulenta: questo il fondamento della poetica di Schwitters, la cui opera più rappresentativa, il Merzbau, è andata distrutta sotto i bombardamenti di Hannover nel 1943. L’imponente assemblag-

gio di materiali di recupero e di oggetti “banali” (biglietti usati del tram, ritagli di giornale, mozziconi di sigarette) era il frutto di anni di lavoro e aveva riempito un appartamento intero, fino a sfondarne le finestre. Sullo sfondo, i rapporti tra il pensiero di Schwitters e il Dada berlinese, l’importanza della comunicazione, il dibattito sul ruolo sociale e politico dell’arte. Poeta visivo e sonoro (con la sua “Ursonate”, la sonata primordiale), ma anche grafico pubblicitario, Schwitters aveva il dono di una creatività “totale”, rivoluzionaria quanto libera. “L’arte è ai miei occhi troppo preziosa, perché me ne serva come di un semplice strumento”, affermava il genio sregolato originario di Hannover, che “ritagliò una sillaba da una parola e su di essa basò il suo sistema: Merz”. Il volume si chiude con gli omaggi a Schwitters di alcuni artisti: Luca Vitone con “Opificio biografico”, “Andare verso le cose” di Luca Scarabelli e “Nero su bianco” del gruppo Warburghiana. Alessandra Guareschi

Da venerdì 11 a domenica 13 dicembre torna a Calimera (Le) La lettura ti fa grande, Festival dei Piccoli Lettori, giunto alla decima edizione. Tre giorni di incontri, mostre, spettacoli, laboratori dedicati al mondo dei piccoli lettori. Nella grande libreria allestita presso la Sala Polifunzionale dell’Istituto Comprensivo saranno presenti oltre quaranta

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HACCA EDITRICE

Ancora libri e ancora case editrici, perché di leggere nuove storie non se ne ha mai abbastanza. Questo mese abbiamo incontrato Hacca, casa editrice giovane ma con le idee ben chiare. Le piccole case editrici riescono sempre di più a farsi strada in un mercato monopolizzato da gruppi giganti. È una questione di qualità? È una questione di qualità, certo, e di progettualità. La piccola casa editrice indipendente parte da un preciso progetto editoriale: narrativa scandinava, narrativa di genere, saggistica… Questo specializza il catalogo della casa editrice, divenendo prima di tutto punto di riferimento culturale. In questo modo è possibile occupare uno spazio preciso del mercato, lasciato libero dalla grande casa editrice, che offre un catalogo generalista. Le case editrici più o meno piccole sono caratterizzate dal rapporto umano tra scrittore e chi lavora ai suoi scritti, dalla passione e la tenacia. Cosa ne pensi? Ogni anno nascono decine di case editrici, ognuna è il frutto di una passione o di una urgenza nel fare libri. Si sa che è un mercato difficile, eppure a un certo punto una persona o un gruppo di persone decidono di fare libri. È indispensabile, per sviluppare fino in fondo un progetto editoriale, di tanta, tanta tenacia. Se non ci fosse dietro una grandissima passione per i libri che si fanno, sarebbe troppo difficile, troppo faticoso, e a volte, davvero troppo desolante. L’editore è come un contadino, semina per raccogliere solo molto tempo dopo. Nel frattempo deve curare il terreno, dare acqua, e aspettare. Un casa editrice deve distinguersi in qual-

che modo per essere identificabile sul mercato. Quali sono i tratti distintivi di Hacca? Il nostro progetto editoriale sta tutto nella ricerca e nella cura. Nel catalogo Hacca trova spazio soprattutto la narrativa italiana contemporanea. Romanzi e racconti che tentano di rappresentare la contemporaneità, che danno parole alle fratture del presente. Narrativa italiana e straniera, Novecento.0 e saggistica, ci racconti un po’ le vostre collane? Hacca sta tutta nella collana Novecento.0, la collana di narrativa nata insieme ad Andrea Di Consoli, che mira a portare in libreria voci autorevoli ma anche voci nuove della letteratura contemporanea. Questa è la collana che al momento stiamo sviluppando con maggiore attenzione. Ci sono state delle incursioni all’estero, e ora stiamo guardando alla narrativa romena contemporanea: speriamo di portare in Italia due romanzi nel 2010, per conoscere una letteratura che gioca con il passato e la magia. Tra le vostre novità il libro di Dora Albanese, un libro crudo e appassionato che racconta la donna e la madre da una prospettiva spogliata di orpelli e molto intima… Ce ne parli? Non dire madre è il libro d’esordio di una giovanissima autrice, Dora Albanese. I racconti che lo compongono attraversano la memoria della sua terra, e delle donne che la hanno abitata, con parole nuove eppure ancestrali. Dora racconta la maternità con coraggio e senza menzogne. Racconta le donne, l’amore, il perdono e i sogni. I loro odori e i sapori. Racconta la fuga e la riconciliazione. Antonietta Rosato LIBRI 55


CINEMA TEATRO ARTE

MICHELE RIONDINO Intervista al protagonista di marPiccolo “Taranto è la polvere che si nasconde sotto il tappeto, è la coscienza sporca dell’Italia”. Nato e cresciuto nel quartiere Paolo VI di Taranto, dov’è ambientato marPiccolo - ultimo film di Alessandro di Robilant – Michele Riondino non usa mezzi termini per denunciarne il degrado. Nel film, presentato in concorso nella sezione “Alice nelle 56 cinema teatro arte

città” del Festival internazionale del cinema di Roma, è Tonio, un boss spietato. Un altro ruolo da “cattivo” dopo quello di Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari, che ha lanciato Riondino, diplomato all’Accademia d’arte drammatica “Silvio d’Amico”, nel panorama delle giovani promesse del cinema nostrano. marPiccolo, trat-


to dal romanzo Stupido di Andrea Cotti, è la storia di Tiziano (l’esordiente Giulio Beranek), ragazzo ribelle che lavora per la criminalità locale e sogna di scappare da quel quartiere dove non ci sono negozi né librerie, dove le strade sono rotte e quel poco che c’è è abusivo o illegale. Una soddisfazione, per Riondino, tornare a Taranto da attore e, soprattutto, dar voce alle sofferenze di una città che chiede di non essere dimenticata. Il quartiere Paolo VI è descritto come il Bronx di Taranto. Come lo vede chi ci ha vissuto? Paolo VI è l’anima operaia e popolare della città. La criminalità, quella delle faide tra famiglie o del grosso spaccio di droga, c’è stata fino a quindici anni fa. Allora Paolo VI era il deposito delle refurtive, il primo posto dove andavi a cercare se ti rubavano la macchina. Oggi è diverso. Cos’è cambiato? Oggi la criminalità è quella dei colletti bianchi: è il ricatto occupazionale che costringe chi ci vive a lavorare in una fabbrica che ti toglie tutto, anche l’aria. A Taranto la politica è dettata dall’acciaio: la voce grossa la fa l’Ilva e i politici devono assecondare. Molti giovani tarantini, compreso il protagonista del film, crescono col sogno di andare via. Tu sei uno che ce l’ha fatta... Come per Tiziano, una serie di faccende poco piacevoli mi teneva legato a una terra che non mi rappresentava. Andare via, nel mio caso, non significa scappare, ma allontanarsi dal problema per crearsi una coscienza e poi tornare. Se fossi rimasto a Taranto, oggi chi saresti? Forse un operaio dell’Ilva, come più del cinquanta per cento dei tarantini, oppure un militare. Questo futuro non mi andava. Com’è stato, invece, il ritorno da attore? Intanto una fortuna perché il regista, quando mi ha scelto, non sapeva io fossi di Taranto. Tornare a casa col baraccone del cinema è il ritorno che ho sempre desiderato: a pausa pranzo andavo a mangiare dalla mamma, oppure si improvvisavano tavolate lunghissime per strada. Che accoglienza vi hanno riservato i tarantini? Dalle comparse agli abitanti del quartiere, tutti si sono sentiti parte del progetto. Prima del ciak, in strada c’era un silenzio religioso. La gente è stata favolosa: se ci serviva una maglia blu, c’era

sempre qualcuno pronto a tirarcene una dal balcone. Cose del genere non accadono a Roma. Avete girato poco dopo l’increscioso episodio della richiesta di “pizzo” a Lina Wertmuller. A voi com’è andata? Abbiamo girato senza problemi e senza protezioni “speciali” in un quartiere malfamato, nel periodo in cui Taranto veniva additata come Far west. Questo dimostra che si fa presto a fare terrorismo in un posto che già soffre di per sé. Torniamo al film. Di nuovo nei panni del “cattivo”? A noi attori piace fare i “cattivi” e dopo Il passato è una terra straniera non ci sono ruoli che mi inquietano. Anzi, l’ho fatto bene perché conoscevo la materia. Ti sei ispirato a un personaggio di memoria, a un conoscente? Il mio Tonio è tutta invenzione. Ho evitato il cliché del cattivo facendo leva su una chiave ambigua: il mio è un boss fuori dagli schemi, che ha un rapporto così fisico con i protagonisti da risultare ambiguo anche sessualmente. Cerchiamo di anticipare le polemiche: è giusto che un film faccia vedere i lati oscuri di un territorio o dovrebbe piuttosto svolgere le funzioni di un depliant turistico? Se un film fosse una vetrina di bei paesaggi, la crisi del cinema nemmeno esisterebbe: ci finanzierebbero le aziende di promozione turistica. Il cinema deve essere lo specchio della realtà e non deve avere paura di parlare del marcio in casa. La diplomazia lasciamola ai politici. Piacerà, marPiccolo, ai tarantini? Spero di sì. A Taranto respiriamo un’aria irrespirabile e le tv nazionali non dicono niente, quando si parla di diossina si cita solo la Campania. Questo fa rabbia: bisogna dare voce al nostro disagio e questo film alimenta una fiammella che rimane accesa solo perché, purtroppo, ci sono i casi clinici. E poi, non si vede solo degrado. C’è anche qualche aspetto positivo? Il direttore della fotografia è rimasto a bocca aperta di fronte a un tramonto unico al mondo. Nelle immagini, Taranto vien fuori come una città bellissima e il film fa emergere tutta la positività di un popolo che non si piange addosso, nonostante abbia a che fare con drammi umani quotidiani. Valeria Blanco cinema teatro arte 57


FRANCIS FORD COPPOLA Segreti di famiglia

“C’è spazio per un genio soltanto in questa famiglia”, si sente dire un giorno Angelo da suo padre, il grande compositore Carlo Tetrocini, e sa che quel genio non potrà mai essere lui. Sa che con un padre del genere per lui non c’è posto. Va via da casa e dalla sua famiglia, interrompe i contatti con tutti. Dieci anni dopo, suo fratello Benjamin lo cerca in una Buenos Aires di artisti e di teatro, di belle donne disinibite e di musica. Ma al posto di Angelo trova un uomo nuovo, che si fa chiamare Tetro e non ha voglia né di ricordi né di domande. In questo raffinato dramma di Coppola sulla rivalità familiare e artistica, tutto ruota intorno ai contrasti di luce e ombra, sottolineati dall’evidente simbologia dei nomi Tetro e Angelo e dall’uso del bianco e nero, sfumato e abbagliante al contempo, che domina la pellicola. Il colore cola in frammenti intermittenti e isolati: è la tinta del passato e del ricordo, o della fantasia allucinata e nutrita di letteratura, da cui emergono bambole ballerine smembrate come manichini, su uno sfondo surreale che strizza l’occhio a Hoffmann. Al centro, un personaggio che cattura, Tetro: lunatico e ag58 cinema teatro arte

gressivo, respingente ed ermetico, impossibile immaginarlo con una faccia diversa da quella di Vincent Gallo. Suo padre gli ha portato via tutto - la donna, il sogno di scrivere e la “brama di vagare”- trasformandolo in un uomo irrisolto e in uno scrittore che non sa trovare finali per le sue storie. Tetro ha ucciso Angelo e vorrebbe saltare a piè pari il passato, che tiene chiuso in una vecchia valigia piena zeppa di fogli scritti in codice. Il potere dell’arte potrebbe salvarlo, ma tra finzione e realtà esiste un diaframma che ovatta e deforma l’immagine. Una zona d’ombra che acceca chi pretende di illuminarla. Un capolavoro ipnotico e poetico. Francesca Maruccis

ROLAND EMMERICH 2012

Da mesi i media non fanno altro che torturarci con la profezia della fine del mondo, prevista il 21 dicembre 2012. In questa data, infatti, secondo l’antico, e male interpretato, calendario Maya e secondo le previsioni di alcuni presunti “esperti in materia”, l’amato mondo giungerà al suo termine a causa di probabili collisioni con meteoriti, di un allineamento della Terra con il Sole e l’Universo (che avviene ogni anno) e di un’ipotetica inversione delle quattro stagioni. Insomma, come dire,

saremo spacciati! Ovviamente il cinema non è rimasto impassibile al fascino di tali teorie e il padre dei disaster movies per eccellenza, Roland Emmerich, ci ha voluto mostrare ciò che ci potrebbe accadere fra circa tre anni. Uno scenario a dir poco apocalittico, quello che prospetta il regista, in cui solo pochissimi “eletti”, soprattutto i più ricchi e i più potenti, avranno la possibilità di salvarsi mediante una costruzione gigantesca, che richiama la biblica memoria dell’arca di Noé, con tanto di animali e di diluvio universale. Al di là di una produzione costosissima e dell’uso largamente profuso di pannelli blue screen, l’opera di Emmerich, che abbiamo avuto modo di conoscere bene con pellicole del calibro di Independence Day e The Day after Tomorrow, risulta banale e, a tratti, ridicola e paradossale, se si pensa, ad esempio, che in una sequenza vediamo i figli del protagonista, interpretato da John Cusack, in shorts sull’Everest o che l’intera umanità, rappresentata dai “fortunati” superstiti presenti nell’arca, riesca a salvarsi grazie all’eroico gesto del papà e del suo bravo bambino, che sigillano un portellone, immersi tanto tempo sott’acqua. Inoltre, il regista tedesco non si risparmia nell’ironizzare sulla scelta del Primo Ministro italiano che, invece di salvarsi, decide di rimanere in Vaticano e di affidarsi, insieme al pontefice, ai cardinali e al devotissimo popolo di fedeli accorsi da ogni parte, alla preghiera anche se, secondo quanto dimostra il film, risulterebbe tutto vano. Chi ama il divertimento e gli effetti speciali, dunque, non rimarrà certamente deluso dalle catastrofiche tre ore di 2012 e in futuro, speriamo non si verifichi mai, potrà dire a noi scettici che dopotutto eravamo stati avvisati. Daniela Miticocchio


UN SOLE CHE NON TRAMONTA MAI

Christian Montagna ci racconta la sua arte Il pittore salentino Christian Montagna, già cantante del gruppo hardcore Cast Thy Eye, torna ad esporre nella terra del sole del mare e del vento, consegnandoci una visione delle cose più vera, lontana dai pregiudizi ma anche dalle vanità facili di una terra bella ma amara, attenta ma crudele, viva ma pronta ad uccidere. Christian, sono passati tre anni dal ritorno nel Salento dopo il tuo periodo pittorico a Bologna e due anni dalla tua ultima personale. Vuoi dirci cosa è successo nel frattempo... È passato troppo tempo dalla mia ultima personale, decisamente più di quanto avrei voluto. Due anni di transizione, dove ho spinto me stesso in una situazione vorticosa di forte instabilità mentale. Quando poi è stato il momento di iniziare a dipingere nuovamente, ho vissuto una vera e propria catarsi percettiva e creativa. Ritrovare quel luogo nascosto, qualcosa di profondo su cui lavorare che non si è mai perso strada “crescendo”. Il mio è un viaggio verso l’origine di tutto. La catarsi nasce, si evolve, si trasforma come un’embrione. Rispetto alle tue produzioni precedenti in bianco e nero, ora ti trovi assorbito in una cromia di forte impatto e colori avvampati che descrivono nota per nota le singole parti del dipinto. Ho potuto notare che si tratta comunque di un discorso pittorico davvero complesso, con molti livelli spazio/temporali... Con la nuova serie pittorica Suite of Sunset, traspare attraverso il colore una intensa cromia tagliente. Sono ambientazioni spazio/temporali non riconducibili alla realtà diretta. Immaginari di una realtà tangibile, è un viaggio di risalita alle

origini dell’impulso, dell’inconscio. Mi risulta difficile delineare e spiegare il nuovo percorso pittorico a colori che ho intrapreso, è un lavoro in fase di partenza. In questo momento tutto è ancora vivo, nuovo, pulsante nella mia mente e non riesco ad averne un distacco completo. Pennellate taglienti, decise, pastose formano il blocco del tuo nuovo immaginario. Un denso accumulare di sfumature e forme di colore che impresse anche su diversi materiali di scarto danno un violentissimo impatto emotivo. L’estasi visionaria corre al “sottrarre” ciò che non serve all’immagine in se. Tutto sta nel togliere il superfluo? È probabilmente la serie pittorica più difficile ed angosciante della mia intera produzione. Il passo per lo spettatore/fruitore è molto lento, ed il colore è un “latrato” sommerso e disperato. Sono pennellate violente e cromature che si estendono da toni freddi a caldi con una forza acida di trasmissione. I particolari si evidenziano col tempo e tutto agisce sul sistema nervoso, intorpidendo i sensi e provocando un forte stato di trance e disagio emotivo che rende impotenti dinanzi alla realtà “vera” che ho cercato di cogliere in questi scenari. Dico questo non per presunzione, ma solo dopo aver seguito i dieci giorni della mia mostra alle Officine Ergot di Lecce. I volti di chi è diventato parte dell’esposizione sono ancora impressi nella mia mente, e le parole, commenti che mi sono stati riservati ne danno un unico e sincero ritratto. Tutto questo, sono certo, dovuto anche alle grandi dimensioni di alcuni dipinti e ai suoni scelti come cornice all’esposizione. Ennio Ciotta cinema teatro arte 59


EVENTI MUSICA SABATO 5 DICEMBRE Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Martin Hagfords SABATO 5 – San Franciscu di Alessano (Le) Miranda SABATO 5 – Gabba Gabba di Taranto Adels SABATO 5 – Spazio Off di Trani Alibia SABATO 5 - Villanova di Pulsano (Ta) Rock 2 Disco SABATO 5 – Officine Cantelmo di Lecce Bunda Move DOMENICA 6 – Teatro Comunale di Novoli (Le) Elisir DOMENICA 6 – Sotterranei di Copertino (Le) Miranda LUNEDÌ 7 – Cantieri Koreja di Lecce Dente LUNEDÌ 7 – Teatro Team di Bari Ivano Fossati LUNEDÌ 7 – Gabba Gabba di Taranto Sciamano LUNEDÌ 7 - Masseria Valente di Crispiano (Ta) Carlos Dunga + Alfatec MARTEDÌ 8 – Teatro Politeama Greco di Lecce Ivano Fossati MARTEDÌ 8 – Campi (Le) Apres La Classe MERCOLEDÌ 9 – Teatro Nuovo di Martina Franca (Ta) Ivano Fossati MERCOLEDÌ 9 – Cloro Rosso di Taranto Wednesday No Babylon GIOVEDÌ 10 – Molly Malone di Lecce Giovanni Ottini Dj Set GIOVEDÌ 10 - Tuscè di Galatina Reading Sotto la luna accesa, omaggio ad Alda Merini VENERDÌ 11 - Teatro Comunale di Novoli (Le) Max Manfredi VENERDÌ 11 – Molly Malone di Lecce 60 EVENTI

Monroe VENERDÌ 11 – – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Bud Spencer Blues Explosion VENERDÌ 11 – Sotterranei di Copertino (Le) Chemical Friday VENERDÌ 11 – Gabba Gabba di Taranto Thee Piatcions SABATO 12 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Nordgarden SABATO 12 – Teatro Tenda di Novoli (Le) Mannarino SABATO 12 – Gabba Gabba di Taranto Cadabra e Amnesia SABATO 12 – Sotterranei di Copertino (Le) Thee Piatcions SABATO 12 – Petra di Ceglie Messapica (Br) Raffaele Casarano & Locomotive SABATO 12 – Cloro Rosso di Taranto I-Militant Sound System SABATO 12 – Spazio Off di Trani Polar for the masses SABATO 12 Villanova di Pulsano (Ta) Rock 2 Disco SABATO 12 – Arena Live Music di Carpignano (Le) Anthony Johnson SABATO 12 – Calema Caffè di Muro Leccese Mascarimirì SABATO 12 - Arci 37 di Giovinazzo (Ba) Calorifer is very Hot LUNEDÌ 14 – Castello di Copertino (Le) La canzone di Nanda con Giulio Casale MERCOLEDÌ 16 - – Cloro Rosso di Taranto Wednesday No Babylon GIOVEDÌ 17 – Molly Malone di Lecce Valeriana Dj Set GIOVEDÌ 17 - Tuscè di Galatina Vj set Davide Faggiano VENERDÌ 18 – Gabba Gabba di Taranto The Strange Flowers VENERDÌ 18 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Bad Love VENERDÌ 18 - Arci 37 di

Giovinazzo di Bari Big Charlie VENERDÌ 18 – Molly Malone di Lecce Amerigo Verardi e Marco Ancona VENERDÌ 18 / SABATO 19 – Zei di Lecce Progetto Collettivo Pink Room SABATO 19 - Masseria Valente di Crispiano (Ta) Hot Water Discovery +Phasedown SABATO 19 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Ballarock SABATO 19 – New Demodè di Modugno (Ba) Marta sui tubi SABATO 19 - Teatro Traetta di Bitonto (Ba) Parole e Musiche per i Grandi della Terra SABATO 19 - Sotterranei di Copertino (Le) The Strange Flowers SABATO 19 - Cloro Rosso di Taranto Bizzarri Sound, Lion D & Ras Tewelde,Flag Sound, Sos Positive Vibration SABATO 19 - Villanova di Pulsano (Ta) Rock 2 Disco SABATO 19 – Calema di Muro Leccese Adria SABATO 19 – Officine Cantelmo di Lecce Color’s la band degli anni ‘60 MARTEDÌ 22 – Istanbul Cafè di Squinzano (le) Tobia Lamare & The Sellers MARTEDÌ 22 – Cantieri Koreja di Lecce Cesare Dell’Anna Quintet MERCOLEDÌ 23 - Cloro Rosso di Taranto Ska Night: Rudy&Crudy MERCOLEDÌ 23 – Istanbul Cafè di Squinzano (le) Metal Night MERCOLEDÌ 23 – Gabba Gabba di Taranto The Sovran MERCOLEDÌ 23 – Arena Live Music Treble/Boomdabash/Dany Silk GIOVEDÌ 24 – Villanova di Taranto Fidoguido & Mad Kid GIOVEDÌ 24 – Istanbul Cafè di Squinzano (le) La Natività con i Mostri


GIOVEDÌ 24 - Sotterranei di Copertino (Le) Pleo + Ennio Ciotta VENERDÌ 25 - Sotterranei di Copertino (Le) Chemical Friday VENERDÌ 25 - – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Postman Ultrachic VENERDÌ 25 - Masseria Valente di Crispiano (Ta) Festival “Nulla da festeggiare” VENERDÌ 25 - Villanova di Pulsano (Ta) Christmas Party DA SABATO 26 DICEMBRE AL 6 GENNAIO – Fondo Verri di Lecce Le mani e l’ascolto SABATO 26 - Sotterranei di Copertino (Le) Terron Rebel Sound SABATO 26 – Officine Cantelmo Winter Party - Coolclub SABATO 26 - – Gabba Gabba di Taranto The Hacienda + The Nudo SABATO 26 - Villanova di Taranto Don Ciccio, Mama Marjas & More SABATO 26 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Hip Hop Night SABATO 26 – Spazio Off di Trani I Hate ‘80 DOMENICA 27 – Arci 37 di Giovinazzo (Ba) Z.E.D. + Nemophonica

DOMENICA 27 – Villanoca di Pulsano (Ta) 99 Posse DOMENICA 27 - Sotterranei di Copertino (Le) Gronge DOMENICA 27 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Radio Flo DOMENICA 27 - Tuscè di Galatina (Le) Interstellar free jazz DOMENICA 27 – Bari The Styles LUNEDÌ 28 – Arci 37 di Giovinazzo (Ba) Roberto Angelini LUNEDÌ 28 - Sotterranei di Copertino (Le) 2Pigeons LUNEDÌ 28- Villanova di Taranto 99 Posse LUNEDÌ 28 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Studio Davoli LUNEDÌ 28 – Teatro Aurora a Melissano (Le) Francesca Romana Perrotta LUNEDÌ 28 - Zollino Kamafei, Mascarimirì, Mimmo Epifani LUNEDÌ 28 – Convento di Santa Chiara di Brindisi Fabrizio Bosso MARTEDÌ 29 - Sotterranei di Copertino (Le) Bardoscia-Leucci Duo MARTEDÌ 29 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Mama Roots

FUORI TEMPO AL KISMET DI BARI

Una nuova idea si affaccia sul panorama degli spettacoli, una rassegna di circa quattro mesi, organizzata dal circolo arci Tressett di Giovinazzo (Ba), in collaborazione con il Teatro Kismet di Bari, dal titolo Fuori Tempo. Un nome sicuramente poco ortodosso se associato alla musica, ma che trova la sua ragione nell’idea generale che ha spinto l’arci Tressett, anche organizzatore del Giovinazzo Rock, a elaborare una rassegna molto interessante. L’idea della rassegna Fuori Tempo nasce dall’esigenza di riportare la musica e la fruizione musicale al centro dell’interesse, perché secondo Nico Bavaro, uno degli organizzatori, anche nel mondo culturale e degli spettacoli “si registra l’ingresso delle logiche di impresa, orientate al concetto dell’eventismo usa e getta, con poca attenzione al contesto e agli spazi di fruizione”. L’idea alla base di Fuori Tempo è quella invece di mutuare dall’esperienza teatrale l’organizzazione dello spazio e le modalità di fruizione, per cui anche gli spazi scenici e l’uso delle luci si annunciano molto interessanti, considerata anche la collaborazione con lo staff del Teatro Kismet, che

MARTEDÌ 29 – Spazio Off di Trani Vegetable G MARTEDÌ 29 - Cloro Rosso di Taranto I Rinoplastici MARTEDÌ 29 – H25 di Bari Inaugurazione MERCOLEDÌ 30- Cloro Rosso di Taranto Pushman, Flag Sound & S.o.s. MERCOLEDÌ 30 - Sotterranei di Copertino (Le) The Shoes MERCOLEDÌ 30 – Gabba Gabba di Taranto Hobophobic MERCOLEDÌ 30 – Zei di Lecce La mela e Newton GIOVEDÌ 31 - Villanova di Pulsano (Ta) Happy New Year Party GIOVEDÌ 31 – Otranto (Le) Giuliano Palma & The Bluebeaters GIOVEDÌ 31 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Tobia Lamare e Populous GIOVEDÌ 31 – Gabba Gabba di Taranto Party di fine anno SABATO 2 GENNAIO – Teatro Kismet di Bari Zu SABATO 2 - Otranto Goran Bregovic SABATO 2 – Istanbul Cafè Zion train SABATO 2 – Gabba Gabba di

ospiterà gli spettacoli, coinvolgendo tutti gli spazi che la struttura propone, dalla sala teatrale, al foyer, fino alla sala danza, per eventi più intimi e orientati a creare un rapporto più diretto fra gli artisti e il pubblico. L’apertura della rassegna, sabato 2 gennaio, è affidata a un nome di culto del panorama musicale italiano, e non solo, gli Zu. Attivi dal 1997, il trio jazz-core vanta collaborazioni importanti, come Steve Albini, o Mike Patton, con cui ha registrato l’ ultimo album, Carboniferous. Il 30 Gennaio, secondo appuntamento della rassegna, sarà la volta dei salentini Amerigo Verardi e Marco Ancona, entrambi con grande esperienza alle spalle (Lotus e Bludinvidia), hanno dato vita a un interessante progetto, sospeso fra atmosfere acustiche dall’aria spiccatamente psichedelica e un nervosismo elettrico di matrice british con melodie e testi dalla vena surreale che da sempre hanno contraddistinto i loro rispettivi percorsi artistici. Verardi&Ancona presenteranno Bootleg – Oliando la macchina Live Tour 2009, dopo aver passato l’estate a scorazzare sui palchi di tutta Italia in compagnia di Manuel Agnelli e gli Afterhours. Info su www.rassegnafuoritempo.it 61


Taranto Mr.Nomoney SABATO 2 - Villanova di Pulsano (Ta) Rock 2 Disco SABATO 2 – Teatro Tenda di Novoli (Le) Ms Triniti e Boo Vibration DOMENICA 3 - Sotterranei di Copertino (Le) Heike Has The Giggles DOMENICA 3 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Sunword + Thousend Milion LUNEDÌ 4 - Sotterranei di Copertino (Le) Irene Scardia e Emanuele Coluccia LUNEDÌ 4 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Missiva LUNEDÌ 4 - Cloro Rosso di Taranto Assalti Frontali LUNEDÌ 4 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Cat’s Joe + Qck MARTEDÌ 5 – Gabba Gabba di Taranto Los Fastidios MARTEDÌ 5 - Sotterranei di Copertino (Le) Francesco Giannico MARTEDÌ 5 – Arci 37 di Giovinazzo (Ba) Canemorto

MARTEDÌ 5 – Officine Cantelmo di Lecce Adel’s GIOVEDÌ 7 – Gabba Gabba di Taranto Alix GIOVEDÌ 7 - Tuscè di Galatina (Le) Corpi d’arco & Glass Project VENERDÌ 8 – Target Club di Bari Secret Sphere SABATO 9 – Spazio Off di Trani Alix TEATRO VENERDÌ 4 DICEMBRE – Teatro Koreja di Lecce Made in Italy DAL 5 ALL’8 – Puglia Puglia Show Time – SABATO 5 – Teatro Crest di Taranto Qualibò in Partitura Pivata e Dueperdue www. teatropubblicopugliese.it SABATO 5 – Teatro Koreja di Lecce Pornobboy DOMENICA 6 – Palazzo Ducale di San Cesario Lover’s Song con Iida Shigemi LUNEDÌ 7 – Palazzo Baronale di Martano (Le) Le mille e una notte di Bertuccia

VENERDÌ 18 e SABATO 19 – Teatro Koreja di Lecce Glimpse VENERDÌ 18 e SABATO 19 – Teatro Kismet di Bari Il mercante di Venezia SABATO 19 – Teatro Crest di Taranto Circo Bordeaux in Dittico dell’attesa VENERDÌ 15 GENNAIO - Il Centro Del Discorso Dopo il successo della prima edizione, con la pubblicazione del nuovo bando prende il via la seconda edizione del Premio nazionale di drammaturgia contemporanea “Il Centro del Discorso”. Il premio è parte integrante di un articolato progetto culturale che si svolgerà in un periodo di un anno, attraverso una serie di appuntamenti, eventi, laboratori, incontri, a cui saranno invitati a partecipare scrittori, registi, attori, artisti, ma anche spettatori e cittadini interessati ad un percorso aperto di ricerca e sperimentazione sul senso del teatro e della parola drammaturgica oggi. La scadenza del bando, scaricabile dal sito www.manifattureknos. org, è fissata per il 15 Gennaio 2010.

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