Coolclub.it n.53 (Maggio 2009)

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Anno VI Numero 53 maggio 2009

NOI SIAMO I DURI



NOI SIAMO I DURI Il 26 gennaio 1967 Luigi Tenco viene trovato morto nella sua stanza d’albergo. E forse, mai come prima, il giallo entra nelle case italiane, direttamente dalla televisione e da quello che al tempo era il simbolo dell’italianità: il festival di Sanremo. Un disturbo, una frattura, per un attimo tutto si fermò e per certi versi non fu più lo stesso. Uno di quei gialli italiani che poi sarebbero diventati misteri e attrazione da prima serata. Il caso Tenco è uno di quelli che fa riflettere, un perfetto esempio di musica che si tinge di giallo ma anche di più. È una storia degna di un romanzo come la vita rocambolesca e passionale di Luigi. Potrebbe essere un film con il bel tenebroso (Tenco), la bella (Dalida con cui l’artista viveva una storia tormentata), l’intrigo internazionale (il suo viaggio in Sud America appena prima della morte lascia aperte molte strade alternative a una morte che venne archiviata come suicidio). Una vita che ha in sé tutto il senso di questo numero. Di questo parla il nostro nuovo numero di Coolclub.it: del giallo, il noir, delle sue tante sfumature e dei mondi che coinvolge (musica, letteratura, cinema, fumetti). Forse perché questo “genere” (parola riduttiva per definire una forma, un tema o una relazione tra ricorrenze, in alcuni casi una fissazione) appartiene alla vita, alle sue passioni, alla sua storia, alla realtà e alla sua irrazionalità. È figlio del crimine e per questo affascinante nel suo essere il lato oscuro.

Un argomento, come molti di quelli trattati nei nostri numeri, sconfinato… Abbiamo scelto di far parlare chi, più di noi, è inzuppato di queste “tinte”. Parola agli scrittori (i nostri amici Nino D’Attis e Omar Dimonopoli) che hanno intervistato altri scrittori, tutti legati da questo “filo rosso”. Abbiamo cercato di legare il “genere” ai generi con un piccolo necrologio rock, un panoramica sul cinema e il fumetto in giallo. Ci siamo domandati poi se ci fosse un suono che potesse in qualche modo avvicinarsi al mood del noir. Messe da parte le colonne sonore tipiche dei film polizziotteschi (Moroder, Piccioni,…) ci sembrava che il clima di alcuna new wave, di un certo post rock e forse anche del punk potessero in qualche essere assonanti… probabilmente ci sbagliavamo. Abbiamo intervistato per questo numero il grande Federico Fiumani, gli italo francesi Ulan Bator ospiti il 30 maggio del nostro festival KeepCool e l’inossidabile Giorgio Canali. Puntuali come ogni mese le nostre rubriche (salto nell’indie, on the rock). Spazio ai libri e non solo noir con un’intervista a Marco Rovelli autore di Lavorare Uccide e alla casa editrice Todaro. Per la sezione cinema un ricordo a un maestro, anche del giallo, Stanley Kubrick scomparso da dieci anni e ancora recensioni dei film in sala, il teatro con il ritorno di César Brie a Lecce e tutti gli appuntamenti del mese. Buona lettura. Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 6 Numero 53 maggio 2009 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo Hanno collaborato a questo numero: Omar Dimonopoli, Marco Montanaro, Dino Amenduni, Ennio Ciotta, Marco Chiffi, Vittorio Amodio, Tobia D’Onofrio, Alfonso Fanizza, Rino De Cesare, Federico Baglivi, Camillo Fasulo, Oscar Cacciatore, Roberto Cesano, Nino G. D’Attis, Stefania Ricchiuto, Giorgia Salicandro, Michela Contini, Lucio Lussi, Giusi Ricciato, Eleonora Leila Moscara, Dario Quarta, Francesco Spadafora, Ringraziamo Manifatture Knos, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag.com, Radio Popolare Salento di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Musicaround. net. Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario

NOI SIAMO I DURI

Tommaso Pincio 6 Eraldo Baldini 10 John Lennon shot dead 14 Il crimine paga 18 musica

Diaframma 20 Ulan Bator 22 Recensioni 27

Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione giovedì, giusto in tempo per vedere C.S.I. Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: redazione@coolclub.it 0832303707

Libri

Lello Gurrado 42 Marco Rovelli 44 Recensioni 47 Cinema Teatro Arte

Stanley Kubrick 52 Recensioni 55 César Brie 56 Eventi

Calendario 59 sommario 5


FA PAURA SE CI CREDI

Nino G. D’Attis intervista Tommaso Pincio


Cinque romanzi, un saggio (sugli alieni!), la sua firma su numerosi articoli di critica letteraria, musica e cinema. Nel 2008 Tommaso Pincio ha pubblicato Cinacittà (Einaudi), noir atipico e bellissimo, ambientato in una Roma a venire di delitti, strip-bar e cinesi. Recentemente è tornato a dipingere, in attesa del prossimo fiume di parole, del prossimo congegno narrativo ad orologeria. Cool Club fa un numero sul giallo, sul noir. Vorrei chiederti quale è a questo proposito il tuo primo ricordo: un film, un libro, un fumetto... Forse non è noir in senso stretto, ma il primo pensiero è Alfred Hitchcock. Mia madre era una sua grande fan e ne parlava in continuazione. Ho visto i suoi film da giovanissimo, praticamente da bambino. Andavo pazzo per la sua serie televisiva in bianco e nero. Alcuni suoi film, come Vertigo o Gli Uccelli, li ho visti decine volte. Continuo a vederli anche adesso. Sarà che è una passione di famiglia, ma per me Hitchcock è un genio assoluto. Si parla tanto di Kubrick, ma il vero numero uno è lui. Sta al cinema come Simenon sta alla letteratura, e forse anche di più. A proposito di ricordi: Cinacittà è un libro molto legato al luogo in cui si svolge la storia ed è attraversato da un’idea anche feticistica di una Roma che non c’è più dopo il grande esodo, dopo che tutto è andato in rovina. Il tempo che sottrae inevitabilmente una certa percezione dei luoghi, delle cose, mi pare ancora al centro della tua poetica. Temo sia una condizione umana. O meglio: una condanna. I luoghi sono destinati a mutare, mentre noi restiamo fatalmente legati al momento in cui li abbiamo conosciuti. Va detto però che Roma è talmente grande nella sua decadenza infinita che alcuni suoi aspetti risultano assolutamente impermeabili al cambiamento. Quel che mi interessava raccontare in Cinacittà era per l’appunto il senso della caduta, che è poi il mistero più irrisolto di Roma: il crollo del suo impero per mano dei barbari. La caduta di Roma in quanto metafora del tramonto dell’Occidente. Hai paragonato il protagonista al Raskol’nikov di Dostoevskij. E, come in Delitto e Castigo, anche nel tuo libro, ciò che investe davvero il lettore è l’estrema solitudine di questo personaggio. Il fatto di non conoscere il suo nome è a mio avviso significativo: lui è tutti noi e noi tutti siamo accidiosi e soli, proprio come i personaggi di un noir

in cui tutto casca addosso al personaggio precipitandolo verso un tragico destino. Nella stesura iniziale il romanzo era scritto in terza persona e il nome di Tommaso Pincio come protagonista veniva fatto esplicitamente fin dalla prima riga. L’effetto era a tal punto gelido ed estraniante che ho temuto di rimetterci la sanità mentale. Così ho rivisto il tutto in chiave più personale, più intima. Alla fine il romanzo è diventato una lunga confessione, il che mi ha permesso di confrontarmi con la morale tutta italiana e cattolica per cui basta raccontare e pentirsi delle proprie colpe per espiarle. Volendo metterla in termini dostoevskijani, Cinacittà è una sorta di Delitto e Assoluzione. Una volta mi hai detto di esserti avvicinato alla scrittura leggendo Cuore di Tenebra di Conrad. Vorrei chiederti se ti capita mai, mentre stai scrivendo, di domandarti come uno scrittore che in qualche modo ti ha influenzato avrebbe potuto descrivere la stessa scena, gli stessi personaggi. A voler essere franchi, no. Mi tengo stilisticamente lontano dagli scrittori che hanno significato molto per la formazione del mio immaginario. I mondi che descrivo, le storie che racconto, discendono ovviamente da gente come Dick o Burroughs, ma non scrivo affatto come loro. Non cerco di imitarli, non mi domando come avrebbero risolto certi passaggi. Credo non sia proficuo cercare di imitare gli scrittori che si sono amati alla follia. Di solito è altrove che guardo per migliorare la mia pagina, leggo un po’ di Graham Greene o Simenon, e mi metto al lavoro. Lo so che può sembrare poco credibile, ma è la verità. E se vai al fondo di come scrivo, depurandolo dal “cosa”, ti risulterà evidente. Sei soddisfatto del modo in cui è stato accolto da pubblico e critica il tuo ultimo romanzo? Sono sempre grato a chi si interessa al mio lavoro, qualunque cosa ne pensi. Di Cinacittà si è parlato abbastanza, tanto tra gli addetti ai lavori che nel più vasto popolo dei lettori. Il consenso non è stato unanime, ma essendo più che consapevole di non avere scritto un romanzo per così dire nazionalpopolare me l’aspettavo. Certe reazioni stizzite, meravigliate o indignate erano messe nel preventivo. Tuttavia sono rimasto sorpreso dal consistente numero di persone, anche accorte, che lo hanno preso alla lettera e bollato come razzista, confondendo le motivazioni del protagonista con gli intenti dell’autore. È stata tuttavia una reazione interessante, poiché diNOI SIAMO I DURI 7


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mostra quanto non sia per nulla scontata la distinzione tra la finzione narrativa e la presunta realtà. Poi ci sono stati quelli che lo hanno apprezzato e che fortunatamente sono stati la maggioranza. Almeno così mi è parso. Qualche anno fa, Nick Tosches ha detto che siamo entrati in un’era post-letteraria. Ho ripensato a questa dichiarazione il giorno in cui è morto James Ballard e da noi tutti i notiziari televisivi parlavano solo di Hannah Montana. Tu cosa pensi? Non esiste alcuna era post-letteraria. La letteratura finirà soltanto con l’estinzione del genere umano. Mi sorprende che scrittori intelligenti si lascino trarre in inganno da turbolenze di superficie. Hannah Montana è uno spruzzo di schiuma sulle onde, James Ballard è il fondo dell’oceano. Ovviamente bisogna intendersi su cos’è la letteratura. Se pensiamo all’oggetto libro, alla narrazione romanzesca stampata su carta, sono disposto a concedere che qualcosa è cambiato. Ma il cuore della letteratura non consiste in un mattone di carta. La letteratura è l’attrazione umana e irrefrenabile verso il racconto. La letteratura è sempre stata minoritaria ed elitaria. Pensi davvero che Dante, ai suoi tempi, fosse più popolare degli scrittori di oggi? La stragrande maggioranza della gente non sapeva manco leggere all’epoca, figurarsi se aveva la più vaga idea di chi era Dante. La verità è che la nostra è una civiltà di massa. È soltanto per questo che la marginalità della letteratura ci sembra più tragica ed enorme che in passato: perché c’è una massa che può esprimere a gran voce la propria cultura (o sottocultura) grazie a mezzi come la televisione. Non mi meraviglio né mi dolgo che i notiziari parlino di Hannah Montana. È nella natura delle cose. Piuttosto mi preoccuperei del contrario: se milioni di persone cominciassero a preoccuparsi della morte di uno scrittore “bizzarro” come Ballard.

Hai mai l’impressione che il pubblico italiano sia di gomma? Puoi raccontargli storie torbide, piene di personaggi perfidi, inzuppate di umorismo nero, di grottesco, eppure tutto questo rimbalza indietro. Puoi tirargli addosso di tutto, e niente lo scalfisce. C’è a mio avviso soprattutto un rifiuto della satira sociale in forma letteraria. Breton, il padre del surrealismo, detestava noi italiani perché ci considerava il popolo più scettico del pianeta. Condivido parzialmente il suo punto di vista. Il problema non risiede nella nostra insensibilità alle storie truculente, ma piuttosto l’indifferenza alla dimensione della fiction. L’italiano è come San Tommaso: vuol mettere il dito nella piaga e bisogna che la piaga sia vera. Non è un caso se da noi i reality show hanno un’enorme presa sul pubblico. Il guaio è che col passare del tempo si diventa indifferenti anche alla realtà nuda e cruda. Ti interessi di cinema, hai studiato arte e sei un pittore. Credi che la letteratura abbia ancora qualche possibilità di dimostrare la sua sopravvivenza in un’epoca fortemente dominata dalle immagini? Sarà che sono abituato a occuparmi di entrambe, ma trovo che le due cose non siano antitetiche né inconciliabili. La letteratura non è affatto minacciata dalla contemporanea proliferazione d’immagini, anzi. Ammesso e non concesso che questa sia davvero l’epoca delle immagini, come sostengono alcuni sapientoni. Personalmente ho parecchi dubbi in proposito. L’immagine è da sempre un tratto distintivo della cultura occidentale. Vogliamo forse paragonare l’incidenza che ha avuto la pittura italiana del XV e XVI secolo con quella della letteratura prodotta nello stesso periodo? Se guardiamo al mondo orientale, il discorso è diverso. Nelle culture asiatiche, l’immagine non ha mai avuto la stessa pervasiva invadenza ed è stata più spesso inglobata all’interno della parola scritta. Lì sì che la massiccia diffusione di immagini può avere impatti rilevanti. Tra La Ragazza che non era lei e Cinacittà hai pubblicato un saggio sugli alieni. E adesso? Sto lavorando a un libro sulla letteratura americana e al contempo ho ripreso a dipingere con una certa continuità, spero di poter fare una mostra a breve. Infine sto meditando di scrivere un romanzo storico ambientato nel Seicento. Lo scenario è più o meno questo al momento. Nino G. D’Attis NOI SIAMO I DURI 9


IL KING PADANO Omar Dimonopoli intervista Eraldo Baldini

Eraldo Baldini è nato a Russi in provincia di Ravenna. Dopo essersi specializzato in Antropologia Culturale ed Etnografia, ed avere scritto diversi saggi in quei campi, agli inizi degli anni Novanta si dedica alla narrativa. Nel 1991 vince il Mystfest di Cattolica col racconto Re di Carnevale: è di lì che inizia la sua carriera di scrittore. Oggi è non solo romanziere affermato in Italia e all’estero, ma anche sceneggiatore, autore teatrale e organizzatore di eventi culturali. Lo ha intervistato per coolclub.it lo scrittore Omar Dimonopoli. Partiamo da Mal’aria. Da poco Rai Uno ha mandato in onda lo sceneggiato tratto da quel libro del 1998 vincitore del Premio Fregene: dando per scontato che sia un romanzo a cui tieni molto – essendo quello che in qualche maniera ti ha portato alla ribalta come autore – sei soddisfatto della trasposizione televisiva? E inoltre, poiché nel passaggio da un media all’altro un certo grado di “tradimento” è inevitabile, ti sembra che il lavoro svolto dalla regia abbia contenuto entro un limite accettabile questo lavoro? La fiction è abbastanza diversa dal romanzo, ma questo era scontato: si tratta di un libro estremamente duro e drammatico che, così com’è, difficilmente avrebbe potuto essere trasposto in tivù su Rai Uno e in prima serata. Al di là di ciò, io trovo 10 NOI SIAMO I DURI

che il film non sia male, soprattutto se confrontato con ciò che normalmente passa a quell’ora il piccolo schermo; sceneggiatori, regista e attori hanno svolto un lavoro più che dignitoso. Bisogna mettersi nell’ordine di idee che si tratta di un’altra cosa rispetto al romanzo: raccontata in modo diverso, per un mezzo diverso e forse anche per un pubblico diverso. Un pubblico enorme rispetto a quello dei lettori: Mal’aria in tivù ha avuto 6 milioni e mezzo di spettatori, una cifra davvero straordinaria, che ha portato il mio lavoro, per quanto rivisitato, a una visibilità che le vendite in libreria non mi avrebbero potuto dare in tutta una vita. Televisione, appunto. Avendoci avuto a che fare, hai un’opinione sulla discussa piattezza delle nostre produzioni rispetto, ad esempio, a quelle sperimentali e innovative provenienti dall’America? Che serial come Lost, 24, E.R. et similia da un decennio a questa parte abbiano rivoltato come un guanto il modo di approcciare al racconto sul piccolo schermo è un dato di fatto: perché noi non riusciamo ad essere altrettanto innovativi? Possibile che sia solo una questione di budget? Bé, il budget non è un problema secondario, ma forse non è neppure il principale. Gli americani fanno tivù da molto più tempo di noi e hanno una tradizione diversa e migliore non solo di quella


italiana, ma in genere di tutta quella europea. Nel nostro Paese, poi, si evidenziano problemi maggiori e diversi: una tivù pubblica poco incline alla meritocrazia e condizionata da beghe politiche, poco coraggiosa e povera di idee e di stimoli; una tivù privata che mira principalmente al profitto e che non fa certo della qualità un proprio obiettivo; un confronto fra i due grandi poli televisivi che si svolge “al ribasso”, in una forsennata rincorsa ad accaparrarsi il pubblico meno esigente. Insomma, non è una situazione rosea, ma speriamo che qualcosa si muova. La letteratura “di genere” è oggi in Italia, con gran ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, definitivamente sdoganata. Tu hai sempre sostenuto di non porre limiti al tuo lavoro e che le etichette finiscono per metterle gli altri, eppure, obiettivamente, dai tempi di Gotico rurale in poi non si può negare che la tua produzione (un mix di horror e noir, con numerose articolazioni non necessariamente definibili) s’incastoni in un filone, in una tendenza che probabilmente tu stesso hai aiutato a codificare nel nostro Paese. Cosa pensa oggi un pioniere del “genere” della diffusa moda del noir? Il giallo e il noir in Italia negli ultimi 20 anni hanno rivitalizzato la nostra editoria, assicurato un buon numero di lettori e di acquirenti di libri e portato linfa anche a cinema e tivù. Dunque un movimento molto positivo, in grado anche di ovviare a certe assenze, come quella del romanzo d’avventura, di certo romanzo sociale, eccetera. Al di là di questi meriti, però, va segnalato un rischio: oggi ci sono troppi gialli e noir, e pare che le nuove leve di scrittori non possano esimersi dal percorrere i sentieri del “genere”. Insomma, una specie di “crisi di crescita” che prima o poi presenterà il conto, temo. Credo comunque che una generazione di scrittori che si è formata e affinata nella “palestra” del noir sia oggi pronta a dare anche altro e di più, e i segni di questo passo in avanti forse si stanno già manifestando. Sin dai tuoi esordi apparve chiaro quanto il territorio in cui hai sempre vissuto (il Ravennate) e i legami arcaici con il mondo rurale di quelle zone fossero una componente importante della tua vena creativa, al punto che in molti si misero a parlare di te come di uno “Stephen King padano”. Credi ancora che quel legame nutra parecchia della linfa vitale dei tuoi scritti, o col tempo hai imparato a guardare con maggiore distacco alle tue radici?

Le mie radici sono molteplici: quella territoriale è una delle più importanti ma non l’unica, perché accanto ad essa ne va messa una di tipo culturale che non ha confini. Per capirci: il mio immaginario, come quello di Stephen King o di chiunque altro nel mondo occidentale sia nato una cinquantina d’anni fa, si è formato sì con le suggestioni locali, ma anche con quelle insite nei film, nei libri, nei telefilm, nei fumetti, nella musica e nell’arte di quell’arco temporale. Detto ciò, il mio mondo “padano” non ha cessato e non cesserà mai, credo, di darmi emozioni ed idee, oltre che un carattere, e la stessa cosa in un modo o nell’altro può essere estesa alla gran parte degli scrittori. Pensa solo a come il giallo italiano sia fortemente legato ai vari territori di nascita degli autori, e di come ciò non sia un limite, ma un modo di raccontare tutto il nostro Paese e le sue multiformi caratteristiche. Assieme a Marzaduri, Fois, Rigosi, Lucarelli e pochi altri hai fuori di dubbio contribuito parecchio alla causa del “genere” italiano. Oggi ti capita di sfogliare opere delle nuove leve? Detto in soldoni: il panorama italiano ti sembra degno d’interesse? E se sì, hai qualche nome in particolare, qualche romanzo (anche non necessariamente appartenente a un filone predefinito) che ultimamente abbia suscitato il tuo plauso? Ho qualche difficoltà a rispondere per due motivi. Il primo è che una buona parte degli autori italiani li conosco personalmente, e alcuni sono miei cari amici, per cui non sono in grado di esprimere un giudizio distaccato. Il secondo è che negli ultimi anni leggo molta saggistica e poca narrativa. Insomma, mi trovi un po’ impreparato sull’argomento... A che stai lavorando adesso? Sto mettendo mano al nuovo romanzo. Il genere e la cifra narrativa saranno più o meno i soliti, ma l’ambientazione stavolta non sarà per niente padana: la vicenda si svolgerà nelle selve germaniche di duemila anni fa. Di più non dico, per scaramanzia. Ultima domanda che è una consuetudine per tutti gli intervistati di Coolclub.it: che musica ascolti quando scrivi? (e se non ne ascolti, quale musica nutre il tuo immaginario?) Scrivo in perfetto silenzio. Quando ascolto musica, si tratta di solito di buon vecchio blues. Omar Dimonopoli

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LO SCHERMO È NERO La prima immagine che mi viene in mente è quella della panza di Orson Welles ne L’Infernale Quinlan (1958). C’è Charlton Heston che fa Ramon Miguel Vargas, poliziotto messicano della narcotici che mentre è in luna di miele con la moglie Susie (Janet Leigh, di lì a poco vittima di Anthony Perkins in Psycho di Hitchcock) assiste all’omicidio di un uomo e finisce nei casini. Siamo a Tijuana, posto sconsigliabile al confine tra Stati Uniti e Messico. Caldo, piombo, droga, corruzione e tacos. E se Marlene Dietrich interpreta una sfatta chiromante, Welles ritaglia per se stesso il ruolo più ambiguo: tutore della legge, figlio di puttana, visceralmente razzista, tragico antieroe shakespeariano. A dieci anni, son cose che ti segnano: giravo per casa con un cuscino infilato sotto la maglietta, una .38 Special giocattolo in pugno e il Fedora Borsalino di nonno An-

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tonio in testa. Mio nonno si svegliava dalla pennichella pomeridiana guardandosi intorno con fare sospetto. Imprecava a capo scoperto, quindi metteva sistematicamente a soqquadro tutta la casa alla ricerca del suo prezioso cappello. Minacciava rappresaglie. Ostentava determinazione. Bestemmiava tutto il calendario dei tycoons di Hollywood ma io sapevo di essere un tipo pericoloso. Ero Hank Quinlan, lo stesso ghigno diabolico stampato sulla faccia. Prima, me lo ricordo bene, ero stato l’occhio privato Jake Gittes, detto J.J., in Chinatown (1974) di Roman Polanski. Ingaggiato per indagare sulle probabili infedeltà coniugali di Hollis Mulwray, ingegnere capo del dipartimento idrico della città di Los Angeles nel 1937. Sguardo da duro e cerotto sul naso: mettetemi davanti una Circe, una Salomé, una Poison Ivy, insomma, una femme fatale avvezza all’arte


del Search & Destroy (ma con classe e carnalità, perbacco!) e vi risolverò il fottuto caso! Torbido charme. La forza ammaliatrice in grado di far precipitare qualsiasi re dal suo trono. Faye Dunaway. Tutta colpa di Faye Dunaway, me ne rendo conto solo adesso. Adoravo quella donna, e la adoro ancora, Dio la benedica. Sempre avuto un debole per le donne dell’intrigo: Barbara Stanwyck ne La Fiamma del peccato di Billy Wilder (1944). Rita Hayworth ne La Signora di Shanghai (ancora Welles, l’anno è il 1946). Lauren Bacall in The Big sleep di Howard Hawks (1946). Sharon Stone in Basic instinct di Paul Verhoeven (1992). Patricia Arquette in Strade perdute di Lynch (1997). Rebecca Romijn (nella foto) in Femme fatale di De Palma (2002). Fu davvero un brutto colpo quando seppi che De Palma aveva scritturato Scarlett Johansson per il ruolo di Kay Lake nella riduzione cinematografica del romanzo Dalia Nera. Accoppiata a Josh Hartnett, poi: mozzarella di bufala e carciofo, niente a che vedere con i personaggi della Los Angeles Nera di James Ellroy. Ma sto divagando. Quando mi hanno chiamato per scrivere il pezzo che state leggendo, avevo appena finito di spolverare lo scaffale dei miei

Dvd. Non ne ho molti, a dire la verità, ma nella collezione non manca Il Terzo uomo (1949) di Carol Reed, con Joseph Cotten, Alida Valli e (rieccolo) Orson Welles. Sceneggiatura ad orologeria di Graham Greene. Il protagonista è Holly Martins, scrittore americano indigente che, nella Vienna post-bellica indaga sulla morte di un vecchio amico, Harry Lime. Buio, atmosfere decadenti, tensione al massimo. Categoria pellicole che invecchiano bene. Lo spazio è tiranno e avrei dovuto parlarvi di altri film che rivedo con piacere infinite volte: Il Cattivo Tenente di Abel Ferrara, oppure Il Grido (1957) di Michelangelo Antonioni, a sua volta ispirato ad Ossessione, l’esordio nel lungometraggio di Luchino Visconti (l’anno è il 1943, la fonte è il romanzo Il Postino suona sempre due volte di James M. Cain). E di Rapina a mano armata di Kubrick (1956), certo. Ma se siete arrivati fin qui, probabilmente conoscete già tutti i titoli che ho citato. Probabilmente, amici miei, neanche voi siete tipi da Harry Potter e Hannah Montana. Nino G. D’Attis

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JOHN LENNON SHOT DEAD Mark David Chapman voleva essere famoso come John Lennon. Per questo motivo, a quanto lui stesso ha dichiarato, ha sparato all’ex dei Beatles la sera dell’8 dicembre 1980. Dei quattro colpi di pistola che Chapman ha scaricato addosso a Lennon, uno ha perforato l’aorta. Il cantante è stato dichiarato morto circa venti minuti dopo gli spari. Dopo aver sparato l’assassino è rimasto immobile con la pistola in mano, di fronte a Yoko Ono che aveva assistito a tutta la scena e si è lasciato semplicemente arrestare, confessando tutto. Mark Chapman è ancora in carcere ad Attica e la sua ultima richiesta di scarcerazione è stata respinta dalla corte nell’ottobre del 2004. E questa è la notizia. Al momento dell’omicidio Mark aveva in mano una copia del Giovane Holden di J. D. Salinger. E qui entriamo in quella materia incerta, nebulosa, confusa che è la narrazione. Se fosse stato un romanzo giallo, Chapman avrebbe sparato con il volto coperto e sarebbe 14 NOI SIAMO I DURI

scappato dopo aver colpito Lennon, magari lasciando cadere a terra il suo libro. E il detective di turno, un uomo intelligente, colto, avrebbe raccolto il romanzo di Salinger, l’avrebbe letto da cima a fondo, sarebbe entrato nella mente dell’assassino (titolo di un film di Steve Jodrell), ne avrebbe ricostruito i pensieri, i desideri, fino ad arrivare ad avere un’idea precisa sul movente che l’aveva spinto all’insano gesto. Avrebbe chiesto a Yoko Ono di raccontargli la sua ultima giornata con John Lennon, chi avevano visto, chi avevano incontrato, se il cantante aveva ricevuto minacce di morte o se c’era qualcuno che poteva odiarlo. Avrebbe scoperto il nostro detective che nel pomeriggio un fan gli aveva fermati e si era fatto firmare da John una copia del vinile di Double Fantasy, l’ultimo disco di Lennon. Sarebbe poi riuscito grazie alla descrizione fornita da Yoko Ono e alla collaborazione dei librai della zona a risalire a Mark Chapman. Se fosse stato un romanzo hard boiled, il detec-


tive non sarebbe stato un tipo tanto per bene. Avrebbe indossato uno schifoso impermeabile e avrebbe fumato fastidiosamente in faccia a Yoko Ono, mentre con modi poco gentili le chiedeva: “E chi sarebbe ‘sto giovane Holden, un vostro amico? È stato lui a sparare?”. E nella sua rozzezza il detective avrebbe intanto toccato un punto cruciale del futuro dibattito sulla faccenda. “Chapman aveva sparato a Lennon perché leggeva un nichilista come Salinger”. Ma questa è un’altra storia. Torniamo al nostro detective. Sarebbe andato a bere uno scotch in un bar della zona, avrebbe cercato di incontrare dei fans del cantante, si sarebbe scopato una bella hippie inconsolabile, avrebbe torchiato a suon di pugni un paio di piccoli spacciatori del Central Park e alla fine avrebbe messo le mani addosso a Chapman, che probabilmente non ne sarebbe uscito vivo, poiché il detective avrebbe fatto da giuria nel processo e la sentenza sarebbe stata, ovviamente, scontata (I, the jury, Mickey Spillane). Se fosse stata una puntata di C.S.I. l’assassino sarebbe stato identificato grazie all’inclinazione degli spari, o grazie a una impronta di scarpa lasciata sul luogo del delitto o a qualche altra diavoleria che noi comuni mortali non potremmo immaginare. In un romanzo di James Ellroy la trama sarebbe stata un po’ più complessa. Intanto i fatti si sarebbero svolti esattamente come si sono svolti, l’assassino si sarebbe fatto arrestare e avrebbe confessato dicendo di avere ucciso John Lennon per rubargli la fama. Ma. Ma scavando ci si sarebbe accorti che tempo prima il noto vantante aveva dichiarato di essere più famoso di Gesù Cristo e questo aveva dato decisamente fastidio alle alte gerarchie dello Stato con il servizio segreto più grande e potente al mondo: il Vaticano. Ma questo da solo non basta a giustificare un omicidio. Negli ultimi tempi le vendite dei dischi di Lennon stavano calando, e l’industria discografica, notoriamente gestita da tizi ampiamente collusi con la mafia, aveva bisogno di rimpolpare i dati di vendita. Altri cantanti erano entrati nella leggenda dopo le loro morti misteriose: Elvis Presley, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison. Anche la CIA ovviamente aveva i suoi interessi a togliere di mezzo quel pericoloso terrorista di John Lennon che con le sue idee sul pacifismo stava rendendo difficile il lavoro degli Stati Uniti di portare la libertà nel mondo. E poi erano arrivati gli anni ottanta, era tempo di stabilire un nuovo ordine mondiale, gli hippies erano passati di moda, nessuno più voleva sentire le cazzate su “tutta la gente che vive in pace e amore”. Woodstock era servito nel ’69, per destabilizzare, ora la nuova parola d’ordine era godere il lusso e non

fare tante storie. E così tra intrighi, complotti, mafia, politica, religione e industria discografica era stata individuata una pedina ideale, Mark David Chapman, uno scheggiato e sfegatato fan di John Lennon, che era arrivato a sposare una donna di origini giapponesi per emulare il suo idolo. Chapman era perfetto, era instabile, ex tossicodipendente, era stato in manicomio e, ciliegina sulla torta, leggeva Salinger, un ottimo modo per depistare l’opinione pubblica... Potrei andare avanti con questo gioco quasi all’infinito, e ovviamente ho banalizzato fin troppo, ma il mio scopo era solo quello di parlare delle infinite differenze e diramazioni che quella che in Italia viene chiamata letteratura gialla (dal colore della copertina della più famosa collana di genere, I Gialli Mondadori) può avere: dal giallo classico, quello di Sherlock Holmes e Poirot, dove è l’intelligenza del detective, solitamente un gentiluomo colto e raffinato, a risolvere il mistero. L’hard boiled, genere nato in America negli anni ’20, dove il detective diventa un duro dalla maniere forti e dai metodi non troppo dissimili dai suoi avversari e che ha avuto i suoi migliori autori in Dashiell Hammett, creatore di Sam Spade, interpretato sul grande schermo da Humphrey Bogart, Mickey Spillane, un tipaccio anticomunista che diceva di non avere lettori ma solo clienti, che ha inventato il durissimo Mike Hammer, James M. Cain, e naturalmente il grandissimo Raymond Chandler, papà del mitico Philip Marlowe, immortalato tra gli altri da Robert Altman in una pellicola del 1972, Il lungo addio. Il noir, dove non è tanto la soluzione del mistero che conta quanto le atmosfere e i risvolti sociali della storia. In alcuni casi il mistero può anche non esserci come nel bellissimo L’oscura immensità della morte di Massimo Carlotto. E poi mille altri sottogeneri, dal legal al medical, al forensic, al police procedural, al giallo mediterraneo, al polar francese, al giallo storico, per indicarne solo alcuni. Quello che conta al di là delle distinzioni, che spesso lasciano il tempo che trovano, è che forse, ultimamente, le letterature poliziesche o crime stories, che dir si voglia, hanno superato i confini della nicchia e dell’intrattenimento per assurgere a nuova dignità. Complici di questo anche alcuni autori di altissimo livello che hanno raggiunto un grande successo di pubblico, come Andrea Camilleri qui in Italia, o Fred Vargas in Francia. E noi non possiamo che essere contenti di poter avere ancora un po’ di sana paura, un sentimento che troppo spesso viene sottovalutato. Dario Goffredo NOI SIAMO I DURI 15


È DURA LA VITA Piccolo necrologio rock

Il 16 agosto del 1977 il Re del Rock and Roll, tale Elvis Presley, viene ritrovato privo di conoscenza nel bagno della sua umile dimora, tale Graceland, e viene successivamente dichiarato morto alle 3.30 del pomeriggio dello stesso giorno. Accanto al corpo vengono ritrovati 14 tipi di medicinali diversi che il Re di cui sopra abitualmente usava. Arresto cardiaco secondo il medico legale. Un arresto cardiaco che si è portato via il Re. E senza Re, si sa, il popolo è inquieto. Perciò facciamo che Elvis in realtà non è morto. Facciamo che è un brutto sogno. Facciamo che è ancora vivo, che ha simulato la sua morte e adesso vive a Buenos Aires sotto falso nome. Anzi no, facciamo che è stato rapito dagli alieni. Facciamo che era un alieno. Si, il Re era un alieno ed ora è tornato sul suo pianeta. Perché il Re non può morire. Mai. Il mondo della musica e il ‘trapasso’ sono indiscutibilmente legati. Sarà che i musicisti sono uomini e donne mortali come chiunque altro, anche se qualcuno potrebbe non condividere (si, certo, possono vivere per sempre nei nostri cuori e nella loro musica, ma…). Ma vuoi per il fatto che una rockstar fa una vita abbastanza sudigiri, vuoi che la morte è dietro l’angolo (toccatina agli attributi...), finisce che non tutti i nostri amati artisti si chiamano Chuck Berry che salta e canta e suona alla veneranda età di 82 anni suonati, manco avesse fatto un patto col diavolo (altro che Led Zeppelin). Qualcuno purtroppo se ne va anche prima. E di certo non manca la fantasia. Ad esempio Johnny Ace 16 NOI SIAMO I DURI

morì il 24 dicembre del 1954 durante una pausa di un suo concerto giocando alla roulette russa; Donald Myrick degli Earth, Wind & Fire venne ammazzato da un poliziotto che aveva scambiato l’accendino con cui Myrick si stava accendendo una sigaretta per una pistola; Keith Relf degli Yardbirds secondo la leggenda stava suonando la chitarra elettrica mentre era nella vasca da bagno. Un trapasso fulminante davvero. Ma di certo ci sono casi ben più misteriosi. Kurt Cobain dei Nirvana lasciò una lettera d’addio e si sparò un colpo di fucile in testa. Ma in molti non ci credono a ‘sta storia. E vai di complotto; Jeff Buckley si tuffò nel Mississippi e annegò con tutta la sua malinconia, lo videro allontanarsi lentamente dalla riva, vestito, passo dopo passo verso il cuore del fiume di notte che se lo portò via; Elliott Smith venne ritrovato nel suo letto con due pugnalate nel petto (la rima non è voluta), aveva 34 anni. Parlarono di suicidio. Quindi di musica si può morire. Si muore di stati di depressione legati, per forza di cose, alla carriera, all’insoddisfazione, all’ispirazione che non arriva, ai riconoscimenti che non arrivano. L’unica cosa che arriva in queste situazioni sono rifugi fatti di alcol e droghe, per tenersi su quando va tutto male. Forse. O forse anche per gioco, per puro godimento. Perché fare la rockstar stanca e bisogna vivere sempre a mille. A causa delle droghe se ne sono andati molti. Spesso però sul certificato di morte c’era scritto “attacco cardiaco” (??). Hillel Slovak dei Red Hot Chili Pep-


pers, Layne Staley degli Alice in Chains, Dee Dee Ramone, Janis Joplin, Sid Vicious, Keith Moon e John Entwistle degli Who, Bill Haley. È lunga la lista, dannazione. Gente che se n’è andata troppo presto. O perché troppo giovane o perché maledettamente geniale, o per entrambe. Jimi Hendrix, John Bonham dei Led Zeppelin, Freddie Mercury, Jim Morrison, Ian Curtis dei Joy Division, Syd Barrett. Aids, droghe, depressione, non fa molta differenza in fondo. Ma ci sono storie anche più cruente. Da musicisti che diventano carnefici a musicisti che diventano vittime di fatti di cronaca, di fatti di sangue. Phil Spector è stato processato e condannato per omicidio di secondo grado; Sid Vicious venne arrestato con l’accusa di aver ammazzato la sua ragazza Nancy Spungen; Tupac Shakur e Notorious B.I.G. uccisi entrambi nel giro di un anno all’interno della faida tra Est Coast e West Coast durante gli anni del gangsta rap, quello vero; Bertrand Cantat dei Noir Désir ha ammazzato durante un litigio la sua compagna Marie Trintignant, attrice francese; John Lennon ucciso da un suo fan; Marvin Gaye assassinato da suo padre. Lunga la lista, troppo lunga. E anche nella nostra penisola c’è stato qualche caso eccellente. Luigi Tenco, trovato morto nella sua camera d’albergo durante il Festival di Sanremo del ’67 e nonostante un biglietto d’addio scritto di suo pugno ci sono molti lati oscuri; Mia Martini che se ne va a 47 anni anche lei in circostanze non chiarissime e comunque legate a sostanze stupefacenti. Mi sembra inutile star qui a far nomi e scrivere di cosa è morto tizio. Fare un elenco completo di decessi illustri del mondo della musica, una sorta di enciclopedia di rockstar scomparse, non porterebbe a nulla se non a nutrire la curiosità morbosa di qualcuno. Quelli riportati sopra sono solo alcuni esempi. Restano fuori molte altre storie. Storie di comuni mortali con un dono immortale. Storie a volte perfettamente chiare, altre volte oscure e misteriose. Ed è proprio sul Mistero che bisognerebbe soffermarsi. Perché il Re è del popolo e quando il Re muore il popolo non si arrende alla prima versione dei fatti: suicidio magari, o morte accidentale. Ne inventa altri, li sovrappone, li modifica. Così vengono fuori altre versioni, completamente nuove, completamente originali. E se possono dare al Re un’aureola splendente e l’immortalità, allora forse crederemo a queste. Nonostante poi si parli sempre di comuni mortali. O no? Marco Chiffi

IL ROCK SI TINGE DI GIALLO Il leggendario produttore statunitense di rock, Phil Spector, accusato di aver ucciso nel 2003 una ex attrice di serie b nel suo maniero dell’est di Los Angeles, è stato riconosciuto colpevole di omicidio di secondo grado e rischia fino a 18 anni di carcere. Phil Spector, 69 anni, considerato come uno dei geni del rock grazie alla tecnica di registrazione detta del “muro del suono”, messa a disposizione negli anni sessanta ad artisti quali John Lennon, George Harrison, ha accolto il verdetto con un’aria scura. Tuttora è libero, sei anni dopo i presunti fatti, grazie al versamento di una cauzione di un milione di dollari. Per la difesa, l’ex attrice di 40 anni, depressa per il fallimento della sua carriera artistica, si è suicidata a casa di Phil Spector. Il produttore discografico, compositore e musicista statunitense nasce nel Bronx il 26 dicembre 1939. Dopo il suicidio del padre si trasferisce a Los Angeles con il resto della famiglia, iniziando ad interessarsi al mondo musicale. La sua carriera inizia come chitarrista del gruppo “Teddy Bears”, che dopo vari tentativi si sciolse nel 1959. Dopo la separazione la carriera di Spector si spostò velocemente dal comporre al produrre, imparò velocemente ad utilizzare lo studio di registrazione e lavorò anche come turnista, suonando soprattutto la chitarra. Sua in questo periodo la versione originale del celebre Twist and Shout. Nell’autunno del 1961 fondò una nuova compagnia di registrazione con Lester Sill: la “Philles” records univa i nomi dei due fondatori. Fra i tanti gruppi che lavorarono con l’etichetta ricordiamo le Crystals. Inizia parallelamente il suo impegno come talent scout per la Liberty Records. Il marchio di fabbrica di Spector in quel periodo era il cosiddetto Wall of Sound (letteralmente muro di suono), una tecnica di registrazione che consisteva in un effetto denso e con forte riverbero, ottimo per la continua a pag 19

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IL CRIMINE PAGA (Nei comics)

Tempo fa scrissi per coolclub una recensione, “nuvole in giallo” su due signore del poliziesco fumettistico: la longilinea Julia/Audry Hepburn, nata dalla penna di Giancarlo Berardi per la Bonelli Editore e l’alessandrina Jalisco di Carlos Trillo ed Eduard Risso, sgangherata detective privata messicana trapiantata nei ghetti di New York. Julia e la Jialisco sono soltanto la punta dell’iceberg del radicato sodalizio tra i comics ed il giallo, genere narrativo che ha contaminato tutte le espressioni del variegato cosmo cartaceo. Agli albori del fumetto americano, Alex Rajmond (padre del famoso Flash Gordon) creò tra gli anni trenta e quaranta l’agente segreto X9, affascinante spia, e Rip Kirby, eroe del II conflitto mondiale che si cimenta da dilettante nelle indagini, accompagnato dal brillante maggiordomo Desmond e la deliziosa fidanzata Honey (miele, appunto!). Da contraltare vi sono le strip del poliziotto Dick Tracy, che in un periodo turbolento quale fu la Grande Depressione narravano le gesta di un onesto ed intransigente uomo di legge votato alla lotta contro il feroce crimine 18 NOI SIAMO I DURI

organizzato. Tuttavia a permeare potentemente l’immaginario fumettistico statunitense è la figura dell’investigatore privato (“Private Eye”): i popolari Batman e Topolino sono due detective capacissimi; Batman al di là della maschera e dei gadgets fantascientifici è un investigatore fuorilegge che ha capito quanto un costume possa incutere un innato terrore nei criminali (non a caso una delle serie di cui è protagonista è intitolata Detective comics). Topolino collabora spesso, nelle sue storie, con la polizia di topolinia per risolvere complicati crimini orditi dal misterioso Macchia nera o dal più prevedibile Gambadilegno. Anche i personaggi della Marvel Comics compiono incursioni nel noir, soprattutto personaggi dalla natura metropolitana quali l’Uomo Ragno e Devil. Quest’ultimo ha vissuto, agli inizi degli anni ottanta, una lunga ed apprezzatissima fase hard-boiled, scritta ed illustrata da Frank Miller, che è considerata da molti l’apice creativo della testata dedicata al “Diavolo Rosso”. Protagonisti dei tali storie, oltre a Devil, sono il corpu-


lento e shakesperiano boss mafioso Kinyping, il giornalista di cronaca nera Ben Hurich e la letale ninja Elektra, il primo amore perduto dell’eroe. Ma su tutti i personaggi svetta la città di New-York, ritratta in tutta la sua alienazione e violenza, imprescindibilmente legata alla natura stessa della metropoli più famosa del mondo. Miller, appassionato di pulp-magazine e noir hollywoodiani, ha creato tra gli anni novanta ed il ventunesimo secolo la saga di “Sin City”, l’incarnazione cartacea più riuscita e nota dell’hard-boiled. Tuttavia l’archetipo del detective privato sfonda i confini dei comics statunitensi per trovare alcune interpretazioni memorabili nel fumetto argentino: Jose Munoz e Carlos Sampayo ideano il melanconico Alack Sinner, ex poliziotto deluso che si districa come investigatore tra penosi e malpagati casi, che hanno come protagonista un’umanità derelitta sullo sfondo di un’opprimente NewYork (luogo dell’anima del genere poliziesco, assieme a Los Angeles). Alack Sinner è una dichiarazione d’amore di Minoz e Sampayo a Chandler ed Hammet, padri putativi della detective-story con i loro Sam Spade e Philip Marlowe. In Italia il poliziesco ha, da sempre, avuto un largo seguito nei fumetti: si pensi a personaggi come l’inimitabile Diabolick delle sorelle Giussani ed alle grottesche creazioni di Luciano Secchi (Max Bunker) e di Magnus, ovvero i vari Kriminal e Satanik ed all’irresistibile Alan Ford ed alla sua strampalata agenzia investigativa. Piuttosto inconsueto come investigatore è Dylan Dog (il cui successo rende inutile qualsiasi presentazione) vista la natura esoterica (vera o presunta) delle sue indagini. La Bonelli editore ha, oltre a Dylan, una vasta gamma di testate dedicate al poliziesco ed al giallo, dalla già citata Julia, a Nick Raider (che di recente è passata ad un altro editore) a Demian, a Natan Never, poliziotto del futuro prossimo venturo, in un intreccio tra fantascienza e crime-story. In Giappone sono decine i titoli dedicati al giallo tra cui Detective Conan imperniato su Conan, un bambino che in realtà è un giovane investigatore intrappolato in un corpo infantile a causa del maleficio di una setta di criminali e lo splendido Ghost in the Shell serial Cyber –punk di Masamcine Shirow che fonde poliziesco e meditazioni zen sull’essere umano nell’epoca dell’ipertecnologia. Entrambi sono diventati due apprezzati anime Roberto Cesano

riproduzione sulle radio Am e sui jukebox. Per ottenere questo effetto, Spector riuniva grandi folle di musicisti (che solitamente suonavano strumenti solisti, come la chitarra) per suonare parti orchestrate, spesso raddoppiando o triplicando gli strumenti per ottenere un effetto unisono, ed arrivare così ad un suono più pieno. Spector era già conosciuto per la sua forte personalità e le sue idee non convenzionali sulla registrazione. Anche se la moda stava portando gli altri studi a registrare in multitraccia, Spector si oppose fermamente all’avvento del suono stereofonico, affermando che toglieva il controllo al produttore in favore dell’ascoltatore. Inoltre preferì sempre i singoli agli album, definendo questi ultimi “due successi e dieci pezzi di spazzatura”. L’unica volta in cui Spector si impegnò per un Lp come per un 45 giri fu per la registrazione di “A Christmas Gift for You”. L’album uscì il 22 novembre 1963, il giorno dell’assassinio del presidente Kennedy, per cui la tristezza generale può aver contribuito alla mancanza di vendite iniziali del disco. Nel 1970 Allen Klein, manager dei Beatles, portò Spector in Inghilterra. Qui fu convinto da John Lennon e George Harrison a riprendere i nastri inutilizzati dell’abortito Lp Get Back e di aiutarli a pubblicarli come un nuovo album. Spector usò diverse tecniche di registrazione e cambiò notevolmente il sound originale delle canzoni, aggiungendo archi e coriste. Let It Be fu un successo commerciale notevole. Spector continuò a lavorare con Lennon ed Harrison anche dopo lo scioglimento dei Beatles, ma la collaborazione terminò nel 1973 a causa di una rottura di carattere personale. Nel 1974 Spector ebbe un incidente d’auto che gli costò diverse ore di interventi chirurgici oltre a svariate centinaia di punti di sutura in testa. Questa la presuna causa delle strane abitudini adottate successivamente dal produttore americano. Nel 1980 produsse End of the Century dei Ramones e nel 1981 lavorò con Yoko Ono producendo Season of Glass, il suo primo album dopo la morte del marito. Spector rimase inattivo per la maggior parte degli anni ottanta, novanta e duemila. Risale al 2003 l’accusa di omicidio ed il relativo processo giudiziario. Numerosi artisti e produttori hanno dichiarato di essere stati fortemente influenzati dalle tecniche di Spector, primo fra tutti Brian Wilson dei Beach Boys. Bruce Springsteen tentò di emulare la tecnica Wall of Sound per il suo Born to Run. Nel 1989 è stato introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame. La rivista Rolling Stones lo ha messo al 63° posto nella sua classifica dei 100 artisti di tutti i tempi. Ennio Ciotta 19


MUSICA

DIAFRAMMA

Ancora e sempre Federico Fiumani

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Federico Fiumani e i suoi Diaframma sono il solco che ha segnato gli albori della scena dark wave italiana. Gli unici, poi, a mantenere vivo quel suono, quell’urgenza espressiva, quella poetica unica e per questo speciale. Fiumani è deus ex machina di tutto questo, personaggio che è capace di superare la musica con una vita e una scrittura che ha in sé una grande valenza letteraria. Un poeta è stato definito da molti, e alcune sue pubblicazioni ne sono la testimonianza. Punk in parte forse, uomo romantico disperatamente innamorato delle donne, linfa di quasi tutta la sua produzione artistica. Un’artista che con il suo essere sempre un po’ più in là rispetto ai circuiti commerciali, dai quali è adorato, è riuscito a mantenere vive coerenza e sincerità, doti non comuni nella musica e nei musicisti di oggi. Nonostante tutto e tutti Federico è uno di quegli artisti che ancora oggi e per sempre sarà tra le voci più intense del rock italiano. Abbiamo parlato con lui, tra le altre cose, di Difficile da trovare, nuovo album uscito in questi giorni. Raccontaci come nasce e cosa dobbiamo aspettarci dal tuo ultimo lavoro discografico. Nasce per caso, frutto del lavoro artigianale, come da sempre. In realtà io scrivo continuamente, ma mettere tre accordi di fila e aggiungere qualche frase non vuol dire scrivere una canzone. Con gli altri componenti del gruppo abbiamo lavorato sui pezzi che ci sembravano più validi e che poi hanno formato il disco. È seguito il rituale della sala prove dove io stesso ho lavorato agli arrangiamenti, fino ad ottenere il risultato desiderato. C’è da aspettarsi un bel disco... Il titolo del nuovo album Difficile da trovare evoca proprio quella che da sempre è stata la scena nella quale hai lavorato e vissuto. Ci dai un parere sullo stato dell’ autoproduzione oggi, sulla scorta della tua esperienza? Inizialmente all’autoproduzione corrispondeva anche un circuito militante, legato ai centri sociali; basta pensare agli Assalti Frontali, ai Fugazi, che non ne volevano sapere di royalites e compromessi ma aspiravano al controllo creativo del loro lavoro. I Diaframma erano legati all’IRA records dall’84, poi passammo alla SELF. La tendenza anche oggi è un po’ la stessa, c’è molta sfiducia verso le major, e per dirla tutta “ognuno bada al suo orticello”!

“Io da giovane ero un tipo che/non vedeva niente avanti a se”. Come stanno ora le cose? Meglio! Ora qualcosa si vede.. Quella era una strofa propria della giovinezza, quando non hai neanche la voglia di sapere cosa ti aspetta. Ora a quasi cinquant’anni, si vive più giorno per giorno, accettando la realtà. Ho degli obiettivi più piccoli... Per esempio? Per esempio il prossimo concerto, la produzione del disco! Ti sarai accorto che nell’ultimo periodo stanno tornando in circolazione stampe e ristampe dei mitici vinili. Pensi sia un’ondata modaiola passeggera, o un ritorno più duraturo? In realtà il vinile rappresenta solo lo 0,2% del mercato musicale, quindi resta in netta minoranza. Se ne ristampano pochissimi giusto per gli appassionati (come me), legati magari alla bellezza di una copertina o al piacere tattile che può provocare; ma lo vedo più come un fenomeno che si esaurirà in pochi anni e che certo non potrà soppiantare l’uso dei cd e della tecnologia. Gli ultimi dischi che hai comprato? Vediamo... ieri tra i cd usati ne ho comprato uno di Kate Nash. Poi 2000 Dirty Squatters e T’Rex. Questo numero di coolclub è dedicato al giallo, al noir. Ci fai un parallelismo con la musica dei Diaframma soprattutto ripensando agli albori? Mah... il percorso dei Diaframma non si è mai macchiato di giallo... (ride)... e poi non sono un appassionato del genere... Intendendo noir come musica dark che negli anni ‘90 aveva più largo consenso anche in italia. Certo, i Diaframma degli albori erano sicuramente nutriti da un più cupo esistenzialismo, risentivamo molto dell’influenza dei Joy Division e poi la stessa Firenze era molto influenzata dal dark. Grazie tante, Federico, ci vuoi lasciare con un ultimo appunto sul nuovo disco? Che dire? A chi piacciono i Diaframma avrà pane per i suoi denti!!! Ennio Ciotta e Loreta Ragone

MUSICA 21


ULAN BATOR All’ombra del nuovo disco

La band francese ma italiana di adozione torna con un nuovo album in cui le atmosfere postrock e psichedeliche trovano nuovi paesaggi sonori. Dopo Rodeo Massacre arriva Soleils che vanta importanti collaborazioni a livello internazionale. Il disco inaugura anche la nascita dell’ etichetta discografica Acid Cobra records voluta da Amaury Cambuzat leader della band. Nel 2000 Ego Echo è stato prodotto dal leggendario Mike Gira, mentre più volte avete incrociato il cammino con gli ormai ultracelebrati Faust. Questo evidenzia l’assenza di confini della vostra musica, capace di raccogliere successo sia in Europa che oltre Atlantico, ma soprattutto le affinità con importanti personaggi di culto. Come sono nate queste collaborazioni? Naturale direi, abbiamo sempre scelto persone con il nostro intuito sapendo già da prima che queste collaborazione artistiche ci avrebbe portato a crescere. Poi, è vero che oggi si può anche pensare che abbiamo fatto bene ma, all’epoca i Faust erano un gruppo che la gente si era un po’ dimenticato. Lo stesso per Michael che chiudeva l’episodio Swans con il magnifico doppio disco: Soundtrack for the blind. Dopo di che c’è stato pure il lavoro di Nouvel Air con Robin Guthrie, altro personaggio culto della scena musicale degli anni ottanta. 22 MUSICA

La vostra idea di rock procede a braccetto con quella di sperimentazione e siete diventati una punta di diamante dell’underground europeo. Vi siete seduti a tavolino e avete deciso di non pensare all’esposizione e al successo commerciale? Ti ringrazio ma devo farti una confidenza: non ci siamo mai seduti a tavolino. Non riesco neanche ad immaginare cosa si combina “seduti a tavolino”. Tutto ci e venuto naturalmente ed è per questo che Ulan Bator rimane una verità molto fragile. Non ci sono mai stati successi economici. Un successo di stima, un rispetto per il lavoro... tutto qui e va bene così. Parliamo sempre di tendenze musicali. Avant-rock, post-rock, krautrock, sono alcune delle definizioni che ruotano attorno alla vostra musica. Fino all’alba del nuovo millennio questi “generi” hanno rappresentato l’avanguardia. Poi il post-rock sembra essere quasi sparito dalla carta geografica, (tranne le suite dei Mogway, sempre identiche a se stesse) per lasciare il posto a fenomeni di revival più o meno originali: folk, new-wave (quella avant di Chrome e This Heat si può annoverare tra le vostre influenze) e psichedelia, stanno certamente saturando la scena odierna (per quanto gli stessi Banhart e Animal Collective siano ben poco commerciali). Come credi che stia cambian-


do il mondo musicale, e soprattutto cosa rappresenta per voi la parola post-rock? Oggi la parola post-rock non ha più senso trane se ci si dà un periodo preciso: dal 1991 (Slint) fino al 2001. Quindi 10 anni di post-rock per come lo intendiamo nel linguaggio giornalistico musicale. Non ci siamo trovati in mezzo a questo periodo ma all’epoca io rispondevo che il post rock era tutto quello che c’era dopo Elvis. Oggi riesco meglio a datare questo genere anche se non capisco in che era stiamo ma sento che fin dall’inizio di questo nuovo millennio tutto sta cambiando con di mezzo tanta confusione. Questa confusione tra i generi musicali è, magari, anche positiva. Puoi oggi ascoltare gli Iron Maiden e un’ora dopo gli Animal Collective senza vergognarti. Anni fa era un “reato”! Però, sempre questa grande confusione porta a non avere gusti ben chiari o definiti ed a perdere un certo controllo del proprio “Gusto”. È quello che mi manca oggi, il gusto personale, spesso quando ascolto musica fatta in un modo impeccabile ma priva di “scelte”. Un artista deve essere “radicale” per comunicare. Un altro personaggio chiave dell’avant-rock anni 90 è tuo fratello François. Nell’esordio de Les Enfants Rouge c’è un pezzo intitolato Soeur Violence, come un vostro brano di Ego Echo. È solo una coincidenza o le due traccie sono in qualche modo legate? François-Régis è mio cugino. Si tratta di una

coincidenza. Il disco brano Soeur Violence di François e stato scritto sei anni prima del mio. Non mi ero accorto particolarmente del titolo della sua canzone all’epoca, mi sa pure che la scrive con la “a” : “Violance” (non so perché?!) Me ne sono accorto un paio di anni dopo l’uscita di Ego:Echo, mentre stavo sistemando i miei dischi a casa. Con François siamo cresciuti assieme quindi mi fa piacere di sapere che ci sia una forma di telepatia tra noi ;-) Avete esordito per il Consorzio Produttori Indipendenti, suonate dal vivo in Italia centinaia di volte, avete musicisti italiani, di recente avete collaborato col cantante dei Massimo Volume… Cosa vi tiene inesorabilmente legati a questa terra? Tutto è nato dal fatto che i CSI ci hanno chiesto nel 1997 di aprire per loro M’importa ‘na segatour. Da lì ci siamo, è vero, legati con l’Italia. Un paio di anni dopo, mi sono pure trasferito a vivere in Italia. È questo in realtà che mi ha portato a collaborare con musicisti Italiani (Egle Sommacal, Emidio Clementi, ecc.) Da quando sono tornato a frequentare di nuovo la Germania, l’Inghilterra o ancora la Francia mi ritrovo a suonare oggi con: James Johnston (inglese), Alessio Gioffredi (italiano) e Stéphane Pigneul (francese). Dipende sempre da dove ti sposti nella tua vita... Tobia D’Onofrio MUSICA 23


GIORGIO CANALI La chitarra come un fucile

Personaggio diretto come la musica che suona, una carriera lunga tra gruppi ed esperienze fondamentali del rock indipendente italiano e non solo nelle vesti di musicista e produttore (Csi, Cccp, Noir Desir, Ulan bator, Yo Yo Mundi, Marlene Kuntz, Santo Niente, Wolfango, Circo Fantasma, PFM e Virginiana Miller). Esce in questi giorni il nuovo disco del suo progetto Rossofuoco Nostra signora della dinamite. 24 MUSICA

Partiamo da Giovanni Lindo Ferretti? Partiamo. Non tanto per le sue scelte politiche o di vita, che in fondo trovo piuttosto coerenti (e in fondo, che importa?) ma: da un punto di vista musicale, com’è stato lavorare con lui, qual era il vostro approccio? Contribuiva anche alla parte musicale, o si limitava al testo? Giovanni di musica non ha mai capito una sega e


di ciò, giustamente, se ne è sempre vantato, può cantare ogni sua parola su qualsiasi musica esistente e non… ai suoi ascoltatori cambia poco o nulla. Disco nuovo: l’elettricità, a cui associo la tua rabbia, c’è ma è come “raffreddata” da una certa rassegnazione. Come se fosse cambiata la prospettiva, leggermente spostata la camera, adesso inquadri da un altro punto di vista. Ad esempio, non parli di lupi mannari, ma della luna che ulula a te. Sarà per i violini dell’incipit o il reverse che apre Tutti gli uomini, così come l’elettricità lenta dell’ultima traccia, ma oltre al consueto fuoco ho sentito il vento che spazza via qualcosa, forse persino gli uomini, in questo disco. Esagero? Semplicemente: sto invecchiando e la mia parola d’ordine è diventata “ergonomia”, ogni goccia di rabbia in più, è rabbia buttata al vento, spesso fraintesa da più di un idiota e presa per il “solito sermone retorico-populista” e la rabbia è uno di quegli elementi che mi tengono in vita. Alla gente si dice: “non sprecate acqua!!!” così la si distrae dagli sforzi importanti e la rabbia, invece che serbarla per gli scatti decisivi, la si spreca andando a votare Lega, Di Pietro, la si rinchiude nei palasport con ruggenti beppigrilli o la si brucia dando fuoco ai cassonetti della spazzatura. Non sprecate rabbia!!!! La rabbia è un bene prezioso. Ho letto un paio d’interviste che ti hanno fatto. Sono elettriche, come tutta la tua musica, eppure, a proposito della tua musica, divido il tuo chitarrismo in due periodi: quello coi CCCP/CSI/PGR e quello da solista (è un po’ semplicistico, lo so). Non dimenticherò mai l’esibizione coi PGR a Melpignano, qualche anno fa, e mi chiedo ancora se sei lo stesso Canali dei Rossofuoco. So suonare quattro accordi in croce e le linee paramelodiche dei miei sfoghi solistici sono sempre le stesse… deve dipendere dal fatto che i seguaci del lindogiovannesimo come te, ogni volta che Ferretti è sul palco, hanno visioni e audizioni mistiche… Adoro quando spari a zero sull’indie. Però la tua è una critica molto precisa: in sostanza, dici, non si può cavalcare l’onda del ‘quanto siamo poveracci’ e farci dischi. Da un punto di vista strettamente musicale, quest’approccio in cosa si traduce? E quali sono le sue conseguenze? La musica italiana sta diventando tutto un lagnarsi o c’è an-

cora posto per il rock? Non ci siamo capiti forse, io della scena indie italiana detesto lo spirito autoghettizzante, quel compiacimento snob di essere una elite (spesso fatta di estetica e basta) e che appena qualcosa diventa più popolare, fa cacare… per ciò che riguarda il lagnarsi, il rock è fatto anche di lagne e lamenti, sono trent’anni che sento lamenti e mi lamento io stesso… il posto per il rock qui c’è sempre stato, e ci sarà sempre, com’è vero anche l’esatto contrario, il posto per il rock, qui non c’è mai stato e mai ci sarà… se posto non c’è, si fa come per i centri sociali: si occupa! Tecnico del suono, produttore, autore di colonne sonore, musicista rock interessato all’elettronica in tempi non sospetti, e altro: cosa tiene insieme tutto questo? Quante volte ti hanno fatto questa domanda? Un bel po’ di volte. Comunque a me sembra che tutte ‘ste cose facciano parte di un unico “mestiere”… nessuno si stupisce se un pittore si esprime con acquerelli, olii, tempere, e magari si dedica pure alla scultura o all’allestimento di mostre. Internet ha cambiato il tuo rapporto con la musica, o solo col tuo pubblico? La strada intrapresa da gruppi come Nine Inch Nails o Radiohead è percorribile anche in un mercato come quello nazionale? Quando si saprà utilizzare internet seriamente e non solo per farsi belli su facebook o farsi le seghe sui siti porno, sarà possibile anche qui da noi… compatibilmente con la “furbacchioneria” dell’italico medio. Quella è difficile da sradicare. A proposito dei tuoi lavori da “tecnico”: ti sei occupato in passato degli Hic Niger Est, band salentina che si è fatta apprezzare molto qualche anno addietro. Che fine hanno fatto? Remano, come tutti i gruppi che abitano alla periferia del mondo… fanno concerti dalle loro parti, e poco altro… per suonare altrove devono sobbarcarsi spese di viaggio insostenibili, peccato… Sei di Ferrara, giusto? Se ti dico Dario Franceschini, cosa ti viene in mente? A Ferrara ci abito, non sono nato qui, quando sono arrivato, una decina di anni fa, Franceschini era “il nemico”… fai tu… comunque se penso a lui mi viene in mente il suo orribile accento ferrarese, insopportabile quanto il pane di merda che si mangia qui e che, i ferraresi, ritengono a torto il migliore pane del mondo, tu che sei pugliese sai di che parlo… Marco Montanaro MUSICA 25


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WHITE TREE Cloudland Ponderosa

WAVVES Wavves Fat Possum

Suona alla perfezione l’ultimo progetto del pianista compositore Ludovico Einaudi, qui in formazione con i fratelli Lippok (Robert e Ronald, elettronica e drum sets). Slow Ocean è la traccia apripista: accordi pianistici sospesi, intrecciati a tenui sfumature elettroniche riverberate; si entra nel vivo dell’ascolto con la successiva Kyril, vera perla del disco, prima giocata su trame soffici e distese, poi prende piede un gradevolissimo loop di pianoforte con gli effetti degni comprimari melodici, il tempo ternario dal sapore (diremmo quasi) ‘etno-dance’. I sette pezzi seguenti si sviluppano sempre su questa falsariga per un risultato finale complessivamente piacevole e mai ridondante o noioso: la registrazione ed il missaggio sono accuratissimi così come la scelta dei timbri, adeguati al contesto sonoro ricreato. Forse l’unica pecca (ma soltanto se la si considera tale) è una certa tendenza di Einaudi all’autocitazione da lavori precedenti (ad esempio in Mercury Sands ed in Ulysses and the Cats); questo, tuttavia, non impedisce la fruizione di Cloudland, prodotto freschissimo e di ottima fattura. Oscar Cacciatore

Tra gli artisti della blogosfera finiti sulle riviste di tutto il mondo, Wavves da San Diego suona garage-punk sporco e psichedelico, infettato di elettronica, melodie ipnotiche al limite del mantra, impennate di feedback e deliri in bassa fedeltà. I critici hanno codificato questo genere come “shitgaze”, un connubio di shoegaze e lo-fi che nelle sue infinite declinazioni ha simili risultati con i Times New Vicking. La title-track paga tributo ai NoAge con cantilena college-pop. Spacerider sovrappone tintinnii giocattolosi alle chitarre ultra-processate dei SonicYouth. Vermin sfodera un post-punk più riflessivo, ad illuderci che un altro sound è possibile; SideYrOn saluta il il primo Beck, con l’aggiunta di padelle arrugginite. The Boys… supera la struttura base di due/ tre accordi (con scale autistiche da un semitono all’altro) e vanta un cantato californiasurf, mentre Spaced… affoga un synth cristallino in tre epici accordi circolari. La dimensione rituale è ipnotica, le stratificazioni ben calibrate, ma all’ennesima riproposizione della formula, restano l’amaro in bocca e la speranza che Wavves si avventuri in costruzioni un tantino più audaci. Tobia D’Onofrio

HARMONIC 313 When Machines Exceed Human Intelligence Warp

Mark Pritchard ha scritto alcune delle pagine più intense dell’elettronica anni ’90. Oggi, aggiungendo una cifra a un vecchio moniker, diventa Harmonic 313 e pubblica una centrifuga di sonorità del nuovo millennio, il cui titolo accenna alla superiorità delle macchine sull’intelligenza umana. In questo scenario apocalittico non ha senso parlare di ritorno dell’elettronica alla scuola minimal, oppure di grime e dubstep come nuove frontiere. Siamo infatti in territorio post-dubstep, di fronte a una destrutturazione di generi dall’effetto ipnotico e talvolta straniante. Ibride locomotive, paesaggi liquidi, pesanti bordate, stratificazioni di suono. Emergono l’hip-electro-dub di Cyclotron, la psichedelia di Koln, il quasi ambient di Galag-a; l’incedere frenato e minaccioso di Call To Arms, il surreale cantato soul di Falling Away, i gioielli hip-hop di Battlestar, i pugni nello stomaco di C64, il treno spaziale di Quadrant 3. Gli esperti hanno già chiamato questo frullato di stili Wonky Beats, e se il dubstep resta in mano a giovani come Benga e meno giovani come Prichard, questo “nuovo” genere diventerà presto chissà quale sublime mostruosità elettronica… Tobia D’Onofrio MUSICA 27


FEVER RAY Fever Ray Cooperative Music

EL-GHOR Merci’ cucu’ Seahorse Rec.

EMMY THE GREAT First love Close harbour records

Il duo electro-pop The Knife è composto da fratello e sorella. Gli svedesi hanno conquistato critica e pubblico, nonostante una schiva personalità avversa ai media. La metà femminile, Karin Dreijer Andersson, partorisce questo album solista che conferma la sua caratura artistica (fresca di una collaborazione con Royksopp). L’incipit tetra e minacciosa spiana la strada al brano WhenIGrowUp che più di altri ricorda la Bjork di Vespertine, per i gorgheggi ipnotici dal tono alienato che disegnano preziose melodie con voce sdoppiata. Qui come altrove, la base è radicata negli ’80 di Japan, Sakamoto (Forbidden Colours) e Siouxie: minimale elettronica dark mista a schegge gotiche orientaleggianti. Una docile tensione esoterica filtra anche dalle atmosfere più malate o notturne. Il principale pregio del disco sembra essere il contrasto luce/ombra che amalgama componenti idealmente opposte, come la delicatezza graffiante e la glaciale inquietudine nordica: dove la musica è ostile, la voce scalda l’atmosfera e viceversa, così un pezzo non è mai soffice o inquietante, bensì un equilibrato miscuglio di entrambi gli umori. Soltanto Seven si abbandona al lato popsitivo, in una tribale epifania melodica. Un disco incantevole. Tobia D’Onofrio

Acclamati all’esordio con il disco Dada danzè, gli El-Ghor tornano sulla scena con un nuovo lavoro intitolato Mercì cucù. Un sound ruvido e personale lanciato su coordinate indie-rock di matrice anglofrancese è la valvola di sfogo dei quattro ragazzi campani, egregi interpreti di un linguaggio musicale meticoloso e ben accurato. Dieci composizioni frutto di un ottimo intreccio strumentale che la band riesce ad erigere dimostrando un’elegante padronanza dei mezzi a disposizione, soprattutto in fase di arrangiamento. Canzoni di una forza disarmante che evidenziano tutta la dolcezza “grintosa” e la bellezza del cantato in francese atto a contornare ritmiche già di per sé intriganti. Scorrono una dopo l’altra canzoni come J’arrive a voir, Qu’est-ce que vous voulez? e Rien n’est parfait, espressioni di un indie-rock corposo ed energico. Mercì cucù consta anche di momenti più morbidi come Memoire aide moi e momenti strumentali come CucùTete e Nessuno mi risponde. Le intrinseche doti compositive vengono alla ribalta però tra le note di Laisse nous la mer e Miss Marianne, i brani più rappresentativi dell’intero disco. Un album che vale la pena ascoltare. Alfonso Fanizza

La sua voce l’abbiamo già sentita nel pezzo Seattle del progetto The BPA (giochino di un certo Fatboy Slim). Lei si chiama Emma-Lee Moss, ha 24 anni ed è nata ad Hong Kong, ma vive a Londra. Ha collaborato con Martha Wainwright, Tilly and the Wall, Lightspeed Champion, oltre che appunto Fatboy Slim, prima di arrivare a questo esordio dal titolo First Love. Il primo amore, si sa, non si scorda mai, e così è davvero facile innamorarsi della voce di Emmy e delle delicate melodie pop che la circondano. Il suo cantautorato è maturo, nonostante la giovane età, e scorre leggerissimo. L’attacco Absentee entra quasi sussurrato che manco te ne accorgi; We almost had a baby è un pezzo perfettamente radiofonico ma non scontato; la title track è una bella storia della prima volta, ma sempre raccontata a modo suo. Ascoltatela, innamoratevi di lei e siate felici. Marco Chiffi

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RED BASICA Les Premiers Plaisirs MK Records

Les premiers plaisirs è il disco d’esordio dei calabresi Red Basica, uscito per la cosentina MK Records a Febbraio 2009 e distribuito dalla Venus: un


album racchiuso in 11 tracce, prodotte tra l’Italia e la Francia, che vagano tra il jazz-rock, il free-jazz, l’elettronica, il folk e numerose altre influenze che lo rendono piacevolmente quasi inetichettabile. C’è tutto; ed ancora più sorprendentemente, tutto è stato messo al posto giusto in un esplosione di libertà creativa congeniata da Mirko Onofrio, vocalist, compositore e polistrumentista, Gianfranco De Franco al sax, Giuseppe Oliveto al trombone, Massimo Garritano, Giuseppe Sergi e Massimo Palermo, nell’ordine chitarra, basso e batteria. Un disco complesso, impressionista, costruito con atmosfere che si evolvono fino all’ esplosione, che lascia sensazioni prese in prestito al post-rock. Festoso, elettronico, progressive, colorato, in contraddizione, imprevedibile, indescrivibile a parole. Difficile trovare qualcosa che non va, dal primo all’ultimo secondo scorre ‘tranquillo’, come si dice da queste parti. Procuratevi Les premiers plaisirs. Se trovate i Red Basica in tour da qualche parte rinunciate agli impegni ed andate a sentirli. Federico Baglivi

DANIELE DURANTE E allora tu si de lu sud Autoprotto

I nonni e il dilagare della pizzica, il sole, la terra, la politica e i politicanti, i privilegiati,

THE HORRORS Primary Colours Xl

A volte basta un amico dai gusti un po’ difficili a farti cambiare parere su un gruppo. Mi è successo con gli Horrors, band che agli esordi aveva quella sfacciataggine un po’ copiata e incollata da Bauhaus e Cramps, tempi e modi a mio avviso inimitabili. Messo da parte il teatrino da ragazzini in fissa con gli anni 80 the Horrors passano da studenti a cultori della materia. Se l’esordio lasciava ben sperare questo nuovo Primary colours conquista pienamente. Se nella materia in esame vogliamo restare possiamo dire che il tiro della band si è spostato più in zona Joy Division, My Bloody Valentine. Punk, garage, new wave chiamatelo un po’ come vi pare, qui si sente lo spettro dei Birthday party e addirittura l’influenza di Jarvis Cocker (Pulp), la strafottenza di non dosare chitarre shoegaze, di essere slabbrati, noise, afasici, saturi al punto di risultare fastidiosi e proprio per questo adorabili. Osvaldo Piliego i cialtroni e i “poveri cristi”; trent’anni dopo, in musica e parole, il Salento è più che mai una Quistione meridionale per Daniele Durante. E allora tu si de lu sud, è una “trentennale considerazione” il nuovo disco (in edicola con il numero di maggio di “quiSalento”) del musicista, fondatore alla fine degli anni ‘70, insieme a Rina Durante, del Canzoniere Grecanico Salentino. Cambiano soggetti e scenografie certo, ma la “questione” è sempre la stessa. Sembra voler cantare e suonare questo Daniele Durante nelle 14 tracce di un disco un po’ anomalo, suonato sì con chitarra, fisarmonica e tamburello, ma anche con “cardarina” (il secchio usato

per impastare la calce), incudine, “tinella”, e ancora “rattacasu” (grattugia), “stompu” (mortaio), “farnaru” (setaccio) e altri attrezzi di lavoro. Nasce così la “Vera, pizzica” di Daniele Durante, tutta ritmo, sentimento e una buona dose di provocazione. Già chiara allo spuntare delle prime, solari note della trascinante, un po’ amara, ma anche ironica title-track, “E allora tu si de lu sud”, cantata insieme a Nando Popu e Don Rico dei Sud Sound System. Tra i brani, tutti originali, anche la riproposizione dell’ironica, pungente, brillante, quanto mai attuale “Questione meridionale”. (D.Q.) MUSICA 29


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RAY TARANTINO Recusant Ponderosa

DEPECHE MODE Sounds Of The Universe Mute

Italiano di nascita ma adottato dal mondo. La musica di Ray Tarantino è di quelle ideali come colonna per un viaggio coast to coast. E proprio in America sembra trovare la sua ispirazione. Dalle parti di Bruce Springsteen, dopo essere andato a lezione da Bob Dylan. Recusant è un disco che lo ha visto raccogliere successi e accumulare concerti in giro per il mondo. Voce roca da vero rocker, canzoni allineate nel filone grandi classici del rock senza tempo. Un po’ per nostalgici in alcuni tratti, in altri si spinge verso uno stile più English in cui si avverte l’influenza del nuovo folk. Prodotto dal bassista dei Simply Red quest’album sembra arrivare da un tempo in cui la musica era fatta di canzoni, senza effetti speciali, senza intellettualismi, senza troppi giri di parole. Un disco per amanti del genere ma che nasconde possibili singoli da classifiche. Classifiche che il nostro Ray aveva già scalato quando poco tempo fa era tra gli artisti senza contratto discografico più ascoltati sulla rete. (O.P.)

A quasi trent’anni dal debutto di Speak & Spell ed anticipato da Wrong, un singolo “noir” che si candida a diventare uno dei classici della band, i Depeche Mode hanno pubblicato il loro 12° album in studio, Sounds of the Universe, che conferma la band di Basildon quale assoluto riferimento per le nuove generazioni di artisti con la loro elettronica “universale”. Denso di atmosfere spirituali e riflessive, il nuovo disco è evidentemente caratterizzato dal massiccio utilizzo di sintetizzatori analogici d’annata divenuti per Martin Gore, nel corso delle registrazioni, una vera e propria dipendenza che lo ha spinto a collezionarne più di un centinaio, bottino di altrettante aste vinte su Ebay. Il risultato finale è un album curato nei dettagli più microscopici, frutto di un’instancabile ricerca di rinnovamento ma dal sound inevitabilmente Depeche Mode, l’epilogo di un periodo di intensa ispirazione interamente catturato nella Deluxe Box Set Edition composta da ben tre CD, un DVD, due libri fotografici di 84 pagine ciascuno, gadgets vari, che farà certamente la gioia dei “devoti” più accaniti (un pò meno del loro portafoglio) ripagati da una manciata di bonus tracks, cinque per l’esattezza, che accrescono l’aspetto qualitativo dell’intero progetto. Rino De Cesare

NICOLA ANDRIOLI Pulsar Dodici Lune

Sono molteplici i cieli per note sotto forma di stella. Pulsar è il nuovo lavoro in quartetto del pianista brindisino Nicola Andrioli, pensato nell’atmosfera sempre vivida di Parigi e condotto alla “mise en forme” dalla nostrana Dodici Lune. Pulsar ci parla di una necessità emotivo - compositiva : portare il tessuto musicale e armonico alla ricerca dell’as-

soluta fusione dei linguaggi. La scrittura marcatamente jazzistica incontra la tradizione mediterranea di Enza Pagliara e Dario Muci (in Goodnight and Calimera), la liricità del fraseggio incide (Way North) e accarezza. Pulsar conferma per freschezza e piglio esecutivo, per pulsione e originalità compositiva quando di positivo Andrioli ci aveva fatto gustare in trio con Alba, lavoro d’esordio al quale questo disco si lega con piacevole naturalità. Francesco Spadafora MUSICA 31


THE JUAN MCLEAN The Future will come Dfa

Siamo in zona retro futurismo, dalle parti dove il citazionismo e la nostalgia per i suoni del passato fanno tendenza e riempiono le piste. Quando alla fine degli anni novanta battute e sonorità erano ormai all’estremo e anche allo stremo delle forze arrivò la Dfa e il punk funk perfetta sintesi di una generazione che amava il rock e la discoteca. The Juan McLean insieme a Rapture e Lcd sound system è tra i massimi esponenti della materia. Questo The future Will Come sembra profetico nel suo essere vintage. Un album in cui house, tribalismi, la new wave, l’ambient e la disco music trovano un compromesso e convivono pacificamente. Alla fine altro non è che Dance, ballo per essere semplici, pura materia riempi pista. Un po’ snob, ma allo stesso tempo un po’ italo disco. Citazionista a tratti, un po’ Human League, un po’ Hercules and love affair, per la serie prendiamoci sul serio, ma fino a un certo punto. Osvaldo Piliego

FABRYCA Istantanea Godz

Se ci si limita a guardare al proprio orticello i primi nomi chiamati in causa sarebbero 32 MUSICA

Meg, Delta V, forse addirittura si potrebbero rispolverare gli Ustmamò. Se invece ci si dedica un attimo alla sostanza, le cose si fanno decisamente più interessanti. A cominciare dalla musica decisamente in sintonia con l’elettronica nord europea: fredda, ricamata di glicth, quasi distante a suggerire altri spazi, se poi ci si sposta alle atmosfere vocali è chiaro come ci sia l’islandese Bjork a benedire questa “fabbrica”di canzoni. E parliamo di canzoni, quello che conta su tutto. I Fabryca scelgono la strada della lingua italiana, testi che raccontano l’amore, la lontananza, i sentimenti, melodie e ritornelli dal forte potenziale radiofonico. Il tutto è confezionato alla perfezione e ci restituisce un disco di pop italiano non banale e in linea con quello che all’estero chiamano electropop. E in Italia, di questi tempi non è poco. Osvaldo Piliego

francese, inglese. Di queste sue nature ha saputo prendere il meglio. C’è nella sua musica la passione per l’America del blues, quella naturale propensione inglese per la perfetta pop song, quel “je ne sais quoi” tutto francese che è sì europeo ma che ha imparato a conoscere e ad apprezzare l’Africa. E nella musica di Piers si sente, a partire dalla sua passione per le percussioni, i ritmi. Folk che parte da Nick Drake e gli anni ‘70, ma che pianta i piedi nel presente e ha un respiro ampio e profondo. In questo episodio, più che nei precedenti, c’è spazio per il malinconico pop ( avete presente Damien Rice?), ma Piers ha in più uno stile che definire elegante è davvero poco. Osvaldo Piliego

THE DECEMBERIST The Hazard of love Capitol

PIERS FACCINI Two grains of sand Tot ou tard

Oltre a tornare nel Salento all’interno della rassegna Keep Cool Piers faccini torna negli scaffali dei negozi con un nuovo attesissimo album. Per questo Two grains of sand riacquista la semplicità che solo la maturità di un’artista completo come lui sa rendere vibrante e pulsante. Amico di Ben Harper Piers è uno e trino: italiano,

Con Colin Meloy non c’è mai da meravigliarsi. Una mente assolutamente vulcanica capace di intessere trame musicali e storie fantastiche. Un cantastorie dei nostri giorni che dopo le avventure picaresche e le leggende giapponesi ha deciso di osare ancora di più, di far straripare la storia di farle inzuppare tutti i brani di fare quello che un tempo avremmo chiamato concept album o ancora meglio una rock opera. Pensato come un musical finisce per diventa-


re il nuovo appassionante disco dei Decemberist. Meloy non è solo in questa difficile avventura, fatta di personaggi che hanno voce è accompagnano Colin e soci in questo fantastico viaggio. Becky Stark dei Lavender Diamond è Margaret, l’eroina della storia e poi My Brightest Diamond è la regina. Non avrei mai pensato di usare la parola progressive in una recensione dei The decemberist ma nel suo senso più didascalico può riassumere il multiforme e repentino variare delle forme musicali messe in campo. Dall’incedere decisamente rock del finale di Wanting comes in Waves, alla psichedelia di The Hazards of love 1, passando per i momenti più squisitamente intimisti di Isn’t It A Lovely Night, An Interlude il disco è una tavolozza di colori sgargianti e tinte fosche tutte pronte per rappresentare un bozzetto di vite fantastiche. Non è un disco semplice, per lo meno non vi aspettate le piccole gemme pop di Picaresque, piuttosto è un disco che a ben vedere nasconde un tesoro. Osvaldo Piliego NEIL YOUNG Fork in the road Reprise

Con l’età, si sa, si diventa più saggi, si assume una consapevolezza di ciò che è intorno a noi e, soprattutto, si ha, alla fine, la voglia di dire tutto sen-

SARA LOV Seasoned eyes were beaming Netwerk

Per chi ama i Devics non sarà certo una novità, per chi non li ha mai ascoltati sarà sicuramente una sorpresa, per entrambi sarà una bella rivelazione. Sara Lov, voce e “metà” della band di Los Angeles, questa volta decide di fare le cose senza Dustin O’Halloran (comunque presente qua e là nell’album) e ci regala il suo primo lavoro da solista. Seasoned eyes were beaming è un disco che sottolinea una personalità musicale molto definita e sensibile. Atmosfere bucoliche, intime ballate, e papabili successi radiofonici (ascoltate ad esempio la perfetta pop song A thousand bees) sono solo alcuni dei tratti somatici di questo bel “ritratto di signora”. Intriso di ricordi, giovinezze che occhi hanno visto, interrogativi sospesi, questo disco esalta i colori di una voce bellissima e particolare nelle sue piccole asprezze melodiche. Il tutto è avvolto da produzione e arrangiamenti che non aggiungono ma esaltano le piccole perle folk, i rimandi country old style, il pop più europeo, il respiro, la leggerezza che oggi, più che mai, non è mai troppa. Osvaldo Piliego

za aver nulla da perdere. Pochi si possono permettere questo in musica. Poche ad oggi sono le voci testimoni di un’epoca, feroci come poetiche sentinelle. Quest’ultimo periodo di Neil Young può essere definito per certi versi militante. Dopo l’invettiva contro Bush Living the War arriva questo Fork in the road. Qui i temi mettono

da parte la politica per toccare la tematica dell’ambiente. In attesa di Archives, una mastodontica opera di 10 dischi che raccoglierà alcuni dei brani che hanno caratterizzato la sua lunghissima carriera e, gioia dei più feticisti, molti brani inediti, questo Fork in the road è il nuovo capitolo di un’artista che non ha perso la strada. MUSICA 33


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AVANTI POP

Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Beyoncé – Halo

Nessuno avrà il coraggio di ammetterlo e qualcuno penserà anche che sono impazzito: questa canzone è perfetta. Epica, drammatica, con un video da musical stile “Saranno Famosi”, con un ritornello in cui l’ennesima erede di Aretha Franklin si dimostra all’altezza dell’ennesimo paragone. Tre o quattro ottave tra la parte da gatta e quella da star. Di sti tempi, potrebbe anche diventare la canzone pop dell’anno. Qualcuno continuerà a pensare che sono impazzito. Saranno gli stessi che aspetteranno Beyoncé alla prova-concerto per un brano sì perfetto, ma difficilissimo. Green Day – Know your enemy Primo singolo dall’ottavo album della band californiana (note a margine: 74 minuti, produttore Butch Vig, mr. Garbage ma sopratutto mr. Nevermind dei Nirvana). Niente di nuovo sotto al sole, né nel titolo né nelle intenzioni. In realtà questa traccia sembra fatta apposta per nascondere l’esplosività di 21th Century Breakdown, accolto con tutti i crismi dalla stampa internazionale. Billie Joe è in grande forma, amici miei. Prepariamoci a una bella annata per la musica rock. Calvin Harris – I’m not alone Non ha mai brillato per stile. Anzi, Calvin Harris è proprio tamarro. E la perfida Albione gli da ragione. La tastierina da super-dj dance anni ’90

mixato con un bel po’ di eredità eighties è l’unica cosa davvero significativa di questo pezzo. Detto niente, però: l’intuizione è geniale, seppur ignorante. Non a caso è partita la caccia al remix, senza esclusione di colpi bassi. Calvin ha creato un mostro. Franz Ferdinand – Womanizer I concerti italiani hanno visto le prime improbabili cover di Britney Spears, che qualcuno con folle lucidità ha definito nuova icona punk. Forse la spiegazione è meno romantica: Womanizer è un divertissement gradito a molti musicisti perché facile da replicare, montare e ricomporre. I Franz non fanno altro che replicare lo spartito con il loro incedere meravigliosamente nevrotico, con il loro marchio di fabbrica. E così, facile facile, giunge un brano che potrebbe anche diventare hit dell’estate. Malika Ayane – Come foglie

“Ma allora come spieghi questa maledeeehta nostalgia?” La cantante che può vantare già più tentativi di imitazione, alcuni perfettamente riusciti, impreziosisce il suo inizio di carriera con una delle rare perle del Festival di Sanremo 2009. Testo di Giuliano Sangiorgi (Negramaro), presenza scenica unica, somiglianze spiccate con Ornella Vanoni. Anche perché, pur se molto diverse nei lineamenti, l’aurea meneghina è spiccata. Basta ascoltare le vocali, la E in particolare. Dino Amenduni 35


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DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse... Oi Va Voi – Everytime

Band inglese, origini israeliane, terzo disco auto-prodotto (ed etichetta propria, un dato interessante per una band policulturale sin dalla sua ragione sociale), video girato da due ragazzi polacchi. KT Tunstall, cantante della prima ora, si è oramai messa in proprio. Everytime è forse il brano più radio-friendly di questo collettivo che prova a fare il grande salto di qualità. E noi, nel nostro piccolo, diamo la spinta. Bjork – Nattura

Pazza Islanda. Crisi economica profonda, un primo ministro omosessuale, un rapporto tra abitanti (300mila) e qualità della produzione musicale che non ha eguali nel mondo. I loro abitanti ritengono che la loro terra sia la più bella del mondo. Bellissima. Così tanto che ai primi segnali di crisi ambientale i Sigùr Ros hanno chiamato Bjork e hanno deciso di realizzare un documentario per raccontare i rischi del riscaldamento globale e dell’inquinamento. È seguita una spaventosa produzione artistica. Ed è spuntato questo brano fuori di testa. Collaborazione di Thom Yorke, remix di Switch. Pazza Islanda. Bombay Bicycle Club – Always like this Cercando disperatamente informazioni su Internet su questa band che può stare simpatica anche solo per il suo nome, finisco su Google Maps e scopro che il Club della Bicicletta di Bombay esiste veramente. Dopo essermi fermato a sorridere, continuo a cercare e scopro che dopo 4 anni di vita, questo quartetto londinese si concederà

l’ebbrezza del primo album. Ed era anche ora: Always like this è a prova di testa che si muove in tutte le sale da ballo e gli uffici in cui proverete a farla suonare. Camera Obscura – French Navy Una piccola gemma di questa band scozzese che ha all’attivo 13 anni di età e nessun brano degno di nota. Ora sono spuntati sulle pagine dei giornali inglesi con il quarto album, My Maudlin Career che sembra fatto apposta per colmare quel vuoto che i Belle and Sebastian, scozzesi anche loro, hanno forse lasciato nel cuore dei fans. A noi non resta che fare un percorso a ritroso e scoprire questa band che, proprio come i più famosi cloni, riesce a creare atmosfere dolci e sognanti in un posto come la Scozia, che ispira tutt’altri immaginari al sapore di luppolo. Chissà, forse le cose da qualche parte si ricongiungono. Marmaduke duke – Rubber Lover Sono un duo di rock concettuale, dicono. La definizione è forse più concettuale dell’etichetta, quindi preferisco concentrarmi su questo esperimento. Scozzesi come i Camera Obscura, solari come loro (si infittisce il mistero sullo speciale ingrediente che si può respirare nell’aria di Glasgow), sono già nella top ten inglese quindi la spintarella potrà apparire un po’ pleonastica. Al più è una succosa anticipazione di un successo che, ad occhio e croce, non andrà oltre questo singolo. Maledetto rock concettuale. Dino Amenduni 37


SALTO NELL’INDIE

SEAHORSE RECORDINGS 38


Questa puntata di salto nell’indie incontra un’etichetta che piace molto a noi di coolclub. it per sonorità e scelte artistiche. Abbiamo parlato con Paolo, anima, mente e mani di questo cavalluccio marino amante della musica. Un progetto che nasce dall’amore per la musica, quella suonata, un musicista che passa dall’altra parte, ci racconti il tuo percorso? La tua scelta? Se non fossi stato musicista probabilmente non sarei stato né produttore né discografico. Dico questo perché a me interessa la musica sotto i tutti i suoi risvolti… e da quando ero piccolo ero letteralmente additivo a tutti i percorsi che le indie label inglesi ed americane propinavano dalla metà degli ‘80… conoscevo tutte le vicissitudini legate ad una etichetta discografica che amavo… seguivo anche le interviste ed i fenomeni legati alle scene musicali che non erano che risvolti di una politica a sfondo socio-culturale che le stesse etichette erano interessate a divulgare. In Italia ora proviamo a fare la stessa cosa in un contesto ben diverso e con un’attitudine non esclusivamente esterofila. Non solo produzione ma anche registrazione, fate tutto in casa? Si, ho uno studio impiantato in un piccolissimo centro della bassa toscana vicino a Cortona. È un posto ideale per registrare sia per la serenità che si coglie dall’ambiente naturale sia dal contesto sociale fatto a misura d’uomo. Dunque niente stress, orari di lavoro liberi e possibilità di accoglienza nella mia casa per tutti gli artisti. Avete uno sguardo decisamente internazionale, come si muove e come sceglie Seahorse? Ho un certo sesto senso verso gli artisti che hanno qualcosa da dire e lo diranno nel futuro… è un po’ come guardare me stesso e i miei percorsi esistenziali; personalmente avendo avuto non poche difficoltà ad affermare le mie potenzialità di musicista e songwriter mi sono messo nei panni di coloro che ora hanno questa urgenza; ed ogni volta che scelgo le bands guardo soprattutto alla loro consapevolezza di essere talvolta

piuttosto soli in questo marasma musicale odierno… ma forti e soprattutto consapevoli delle loro doti… ciò porta vantaggi e benefici in tutto il contesto in cui mi muovo. Tale discorso è ovviamente valido quando vado a proporre un gruppo italiano “consapevole” all’estero. Ci racconti brevemente le vostre produzioni? Amo le emozioni forti, non mi accontento del gruppo ben preparato ma essenzialmente piatto e stereotipato… La Seahorse fa musica di confine e dunque non è identificata in un genere musicale predefinito… piuttosto accade che le bands che produco si sentano accomunate da un sound che negli anni sono riuscito a tirare fuori dalle mie produzioni e questo credo che si evinca dai dischi che faccio. Dunque emozioni e profondità e sguardo comunque attento ad una certa dolce leggerezza “pop”. Essere indipendenti è una condizione possibile? Il paese è reale? È più che altro una condizione sottile, che aiuta meglio a far comunicare gli addetti ai lavori con la label e di conseguenza con i musicisti… la realtà è parimenti legata alle potenzialità che gli artisti riescono ad esprimere attraverso i canali su cui noi discografici lavoriamo assiduamente. Attualmente il mio lavoro mi ripaga sufficientemente dalle grandi energie umane e materiali profuse. Producete un sacco di dischi, cosa avete in cantiere? Le prossime uscite su cui lavorerò saranno il primo album dei !Golemmings Go! Un delicato e profondo musicista di Pescara. Il disco uscirà a Giugno. A luglio uscirà il secondo album dei sassaresi Goose. La settimana prossima andrò a chiudere il disco... è un fantastico gruppo Pop di matrice americana ma con testi in italiano. Da settembre in poi aprire le serrande della “Red Birds” la prima sottoetichetta della Seahorse. Tratterà di una serie d’artisti con progetti individuali. Dunque songwriters con attitudini folk ma non solo. Ci saranno sorprese anche dal versante della musica d’avanguardia. Il calendario del 2010 e già quasi ultimato. Antonietta Rosato MUSICA 39


ON THE ROCK Dischi da ascoltare tutto d’un fiato Questo mese si parte con una segnalazione: l’ora alla settimana di Theme Time Radio Hour in cui Bob Dylan fa il DJ. La trasmissione va in onda ogni domenica notte sino all’una. Purtroppo l’accesso tramite iplayer dal sito della BBC è disponibile solo per il Regno Unito, nel prossimo episodio il tema sarà ‘Truth and Lies’ (“Verità e Bugie”) e le selezioni includeranno tra l’altro Don’t Lie To Me di Fats Domino, Don’t Play That Song di Aretha Franklin, Guitar Slim’s Twenty Five Lies and La-La-La Lies degli Who. Ho controllato, comunque, e sul mulo trovate tutte le puntate del 2008 e tante altre ancora. Restiamo in tema di grandi, Leonard Cohen, lui difficilmente sbaglia un colpo, ed anche questo nuovo doppio CD (con allegato oramai inseparabile dvd) ne è l’ennesima testimonianza. Live In London documenta l’eccezionale ultimo tour europeo (del quale abbiamo contato ben oltre cento date) ed in modo particolare il concerto del 17 luglio scorso a Londra. In tutto 26 canzoni. Cercate su YouTube Democracy e ne avrete una 40 MUSICA

gustosa anteprima. Settantaquattroanni ed ancora stupisce; costretto a ritornare sui palchi, dopo un’assenza durata 15 anni, per far fronte al buco milionario lasciatogli dalla ex manager (e amante?) Kelly Lynch mentre lui per 5 anni si era ritirato in uno Zen Center a Mount Baldy a meditare, a disintossicarsi dall’alcohol, dal Prozac e soprattutto da una devastante depressione. Quando è ritornato alla vita pubblica si accorto di non avere più il becco di un dollaro. E quindi…. Da Leonard Cohen ai Lowlands il passo è... lungo. Ma lo azzardiamo. 7 ragazzi di Pavia amanti del polveroso roots rock il cui album d’esordio The Last Call è stato completamente autoprodotto. Bé, mi direte, sei rimbambito, qual è la novità? Eccovela: 4 stelle su 5 dai critici di Maverick, bibbia del country, l’irruzione nella «top ten» di Miles of Music, il principale negozio online di musica folk, un giudizio esaltante (9 su 10) da Americana UK, avamposto britannico di


quel rock dal sapore antico. Vi basta, se no andate sul loro sito (www.lowlandsband.com) ed oltre che ascoltare la loro musica leggerete una rassegna stampa incredibile. I singoli sono stati accolti nel palinsesto delle radio di mezzo mondo. In un recente intervista al Corriere dicono: «Abbiamo cominciato mandando una pioggia di email alle redazioni di radio e riviste musicali degli Stati Uniti, volevamo far conoscere le nostre canzoni agli esperti del genere: è andata bene. All’inizio siamo stati trasmessi da una manciata di radio universitarie, poi si sono accorti di noi alcuni importanti siti specializzati. Qualche mese più tardi, la nostra musica si ascoltava dall’Australia all’Inghilterra, siamo finiti persino sulle frequenze della Bbc». State aspettando che vi dia un riferimento verso qualcosa che conoscete? Green On Red su tutti. Vi sarete accorti, oramai siamo alla terza puntata di questa paginetta, che difficilmente scrivo di dischi appena pubblicati. L’ho fatto per tanti anni, incapsulato nella catena test-pressing/cartellastampa/ascolto/recensione. Qui vi racconto di dischi che ascolto e uno di questi è stato pubblicato lo scorso fine marzo (magari anche recensito tra le nostre pagine, risparmiatemi la ricerca…), si chiama Lovetune For Vacuum ed è l’esordio (preceduto lo scorso anno da un ep con 4 brani) di una ragazzina di 18 anni Anja Plaschg in arte Soap&Skin. Di nazionalità austriaca, studia piano al conservatorio di Vienna. Tanto è leggiadra la sua musica tanto è oscuro il suo modo di interpretarla. John Cale compositore, co-fondatore dei Velvet Underground e produttore della maggior parte degli album più rinomati di Nico presenta proprio in questi giorni (Il 10 maggio a Ferrara) un tributo live alla sua amata icona a vent’anni dalla sua tragica scomparsa. In questo evento Cale e il suo gruppo sono accompagnati da una line up d’eccellenza che include Lisa Gerrard (Dead Can Dance), Mark Lanegan (Queens of the Stone Age, The Gutter Twins, collaborazione con Isobell Campbell) il cantante degli Sparklehorse Mark Linkous, Peter Murphy (Bauhaus), i Mercury Rev, e lei, la nuova stella austriaca. Tutti loro interpreteranno le canzoni di Nico, reimmaginandole e reinventandole. Cavolo a 18 anni! Ma restiamo sul concerto, il progetto si chiama A Life along the Borderline: A

Tribute to Nico (Una vita sulla linea di confine: Omaggio a Nico). Già portato in giro sui palchi di mezza Europa John Cale ha assicurato alla stampa inglese che lo scorso 11 ottobre il concerto al Royal Festival Hall è stato registrato e che presto potrebbe essere pubblicato. E a proposito di Isobel Campbell e Mark Lanegan è uscito lo scorso anno Sunday At Devil Dirt, secondo episodio, a due anni di distanza dal precedente, della loro collaborazione. Folk-pop e blues malato continuano a contaminarsi come non mai e il duo è ormai capace di una simbiosi perfetta, come Sonny & Cher, Kenny Rogers & Dolly Parton o Marvin Gaye & Tammi Terrell. L’antica storia degli opposti che si attirano ha sempre avuto un posto speciale nella biografia della musica pop, sin da quando Lee Hazlewood e Nancy Sinatra si sono riuniti nel 1966 a cantare These Boots Are Made For Walking. L’archetipo della Bella e la Bestia ha raggiunto il culmine con Serge Gainsbourg e Jane Birkin insieme in Je t’aime... Campbell è stata l’angelico sussurro dietro Belle e Sebastian, Mark la bestia dietro Screaming Trees e i Queens of the Stone Age. Tutti si domandano, anche all’indomani di questa uscita, se la loro collaborazione sarà duratura nel tempo. In una recente intervista all’Indipendent la Campbell ha assicurato: “Quando siamo sul palco, tutto sembra avere senso. Cantare con Mark ed è una esperienza speciale, quasi religiosa. Mi rende felice. Amo la sua voce, mi piace cantare con lui, mi piace scrivere per lui, e io amo sentir cantare da lui le mie canzoni”. Una dichiarazione d’eterna fedeltà? Infine chiudiamo con Bruce Cockburn mia grande passione giovanile. Canadese autore di alcune delle più belle pagine di songwriting moderno (recuperate In the Falling Dark del ‘76 e Circles in the Stream dell’anno successivo) torna con un doppio album (Slice O’ Life, Solo Live) dal vivo in acustico, solo voce e chitarra. Sul sito ufficiale della casa discografica (http://truenorthrecords. com/Albums.php?album_id=536) è possibile ascoltare tutti pezzi nella loro interezza. Brani che si muovo fra passato e presente della sua lunga carriera. Una sorta di greatest hits dal vivo. Buon ascolto... Vittorio Amodio MUSICA 41


LIBRI

CHI HA UCCISO TECLA DOZIO? L’autore di Assassinio in libreria, atipica crime story italiana ci racconta come è nato il suo libro

Lello Gurrado, barese, giornalista di lunga esperienza, ha pubblicato libri di cronaca, cultura e storia (Mamma eroina, Se ho smesso io, Don Mazzi, un prete da marciapiede, Gli sdrogati, San Siro, la scala del calcio). Con il tempo è scivolato verso la narrativa, e questo romanzo ne è, per ora, la conseguenza più estrema. Una storia divertente, ambientata nella Libreria del giallo di Milano, la mitica Sherlockiana che ora purtroppo ha chiuso i battenti, dove un assassino si aggira tra gli scaffali di libri e tra i migliori giallisti italiani e del mondo. Questo libro inaugura la collana marcosultra, narrativa italiana estrema, paradossale, sovversiva abbinata a una nuova grafica d’artista. Ogni anno le copertine ultra saranno firmate da un diverso artista italiano emergente, che verrà promosso insieme ai libri. Il 2009 è l’anno di David Dalla Venezia, pittore veneziano. Con Gurrado abbiamo scambiato due chiacchiere divagando sul mondo del giallo. Come nasce l’idea di un romanzo con personaggi reali e peraltro famosissimi come quelli che popolano il tuo libro? Non avevi paura di confrontarti con dei mostri sacri della letteratura gialla mondiale? Ho voluto scrivere una storia credibile, con luoghi reali e personaggi veri. Non ho scelto gli scrittori famosi per confrontarmi con loro, ma semplicemente per rendere più plausibile la vicenda. Per capirci, se avessi scritto un romanzo 42 LIBRI


sul calcio avrei messo tra i protagonisti Buffon, Totti, Del Piero, Cassano, Mourinho... Se l’avessi fatto sul cinema avrei scomodato la Bellucci, Scamarcio, Brad Pitt, Angelina Jolie. Sembra che tu ti sia divertito molto a giocare a prevedere le reazioni degli scrittori, come in una sorta di ricerca di plausibilità e verosimiglianza di ciò che accade. È stato un po’ come giocare a scacchi provando a immaginare le mosse dell’avversiario, o hai trattato i tuoi personaggi come normali personaggi di un racconto giallo? Il mio intento iniziale era quello di trattare Camilleri e compagni come normali personaggi all’interno della storia, ma è vero che, nell’evolversi della storia, ho subito la loro personalità e mi sono sforzato di intuire quali sarebbero state le loro mosse se la vicenda fosse stata vera. È comunque vero che mi sono divertito. Seppur con tutto ciò che comporta la trama insolita che hai scelto di dipanare, il tuo romanzo rispetta molte delle regole del giallo classico, non ultima la trovata, molto simpatica ed efficace, di coinvolgere nella storia un enigmista... Il giallista ha l’obbligo di rispettare certe regole, ovviamente non scritte, ma essenziali. Tra queste concedere al lettore la possibilità di risolvere il caso. Altrimenti la sfida scritttore-lettore sarebbe impari. L’ho fatto anch’io, anche se in modo “enigmatico”. Come hai effettuato la scelta dei giallisti che entrano nel tuo romanzo? Credo di aver capito che per quanto riguarda gli italiani sono effettivamente i migliori amici della Libreria del giallo. È così anche per gli stranieri o hai seguito un po’ il tuo gusto personale nello stilare la classifica dei dieci più grandi scrittori di crime stories del mondo? E se è così non pensi che uno come Ellroy avrebbe potuto dare un po’ di verve a tutta la situazione? Hai capito bene. I giallisti italiani sono effettivamente quelli più legati alla Libreria del giallo e a Tecla Dozio. Per quanto riguarda gli stranieri, anche per loro ho fatto un’operazione “pro

veritate”. Tutti quelli citati sono realmente stati nella libreria di Tecla Dozio e sono suoi amici. Per capirci meglio: avrei voluto inserire anche Patrizia Cornwell, ma Tecla Dozio mi ha chiesto di non farlo perché non la conosceva personalmente (e non la ama, come scrittrice...). Ellroy? Avrebbe dato verve, eccome, ma anche tanti altri, se è per questo. Si assiste alla rivincita degli autori di casa nostra di fronte alle star internazionali. Credi che il giallo e il noir italiani abbiano qualcosa da invidiare a quello per esempio americano o ormai anche i nostri autori hanno raggiunto una consapevolezza e una maturità tali da non aver paura dei colleghi stranieri? A mio parere siamo ancora indietro. Non soltanto agli americani e agli inglesi, tradizionali leader del genere, ma anche agli spagnoli, ai francesi, ai nordici, vedi la trilogia di “Millennium”, che hanno più inventiva, forse più coraggio di noi. E attenzione perché si stanno imponendo anche i greci, i turchi, i sudamericani... Credo che dovremmo darci una mossa lasciando indietro gli stereotipi del giallo tradizionale e inventando qualcosa di diverso. Ovviamente in questa operazione è indispensabile la collaborazione degli editori che, invece, spesso hanno meno coraggio degli stessi scrittori. Il Daily telegraph nelle sua classifica dei “cinquanta scrittori gialli da leggere prima di morire” ha incluso Andrea Camilleri, unico tra gli italiani. Non credi che forse anche qualcun altro avrebbe meritato di entrare in quella classifica? Beh, se prima di morire un lettore del Daily Telegraph leggesse Il nome della rosa di Eco o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda potrebbe forse morire più contento. Ultima domanda. Un romanzo giallo italiano e uno straniero di cui assolutamente non si può fare a meno. Quelli italiani li ho appena citati. Per gli stranieri: tra i classici l’inarrivabile Dieci piccoli indiani di Agatha Cristie, tra i contemporanei uno qualsiasi di Fred Vargas, forse L’uomo a rovescio. Dario Goffredo LIBRI 43


MARCO ROVELLI Lo scrittore ci racconta chi muore al lavoro

Lavorare uccide è un libro sulla morte sul lavoro, su quella tragedia ininterrotta che abita l’Italia, e che è trattata dai media ordinari nella sola rappresentazione dell’esteriorità, quindi in modo o distratto o sguaiato. In questa inchiesta narrativa, invece, non compaiono né disattenzione né volgarità: ogni pagina è uno scavo penetrante nel lavoro contemporaneo, nei suoi meccanismi annientanti, nel suo operare sempre più distanza da qualunque forma di umanità. Ne abbiamo discusso con l’autore Marco Rovelli, nel mese che celebra il lavoro e i diritti ad esso legati. Hai iniziato a documentarti per il tuo libro in tempi per nulla attenti alla morte sul lavoro: ai tanti casi non era dedicato neanche uno sparuto trafiletto sul giornale. Eppure, nonostante l’assenza d’informazione, hai percepito l’insostenibilità di ciò che pareva non degno di uno spazio adeguato. Come sei riuscito a “non distogliere mai lo sguardo”, ad andare ben oltre quel che ci era dato di vedere? Bella domanda, spero di esserne all’altezza. Come con tutte le cose che mi piace raccontare, anche in questo caso ci sono arrivato in maniera casuale. Lo sguardo fa da sé: le cose significative ti balzano agli occhi. Comunque, tutto è partito, come scrivo nell’introduzione del libro, dal mio lavoro sui migranti in Lager italiani. Ho continuato il viaggio in Italia, e ho notato che il terreno più comune, sia ai cittadini che ai non-cittadini, è proprio quello del lavoro, in cui si rintraccia una continuità davvero concreta. Basti pensare allo slogan del movimento anti-razzista “siamo tutti clandestini”, che suona un po’ falsante visto che la condizione del clandestino reale è distante da quella di chi è cittadino: di fatto attraversa il 44 LIBRI

solco del diritto negato. Nel lavoro questa distanza è annullata. A proposito dei migranti... sono i funamboli del lavoro negato, in biblico continuo tra diritti sospesi e discriminazioni ignobili. Dedicherai a loro un’ulteriore pubblicazione... Esce a settembre, si intitola Servi d’Italia. È un’altra parte del viaggio, attraverso i soggetti del diritto negato. Prova a rispondere alla domanda “perché esistono i clandestini?”, quei clandestini che realizzano quello che un tempo si sarebbe definito “sottoproletariato”, cioè una classe sociale più debole, meno garantita, e che trascina sulle spalle tutto il peso di un’economia basata sul lavoro nero. Il lavoro nero in Italia è essenziale: basti pensare che il “sommerso” cresce più del PIL ufficiale, e raggiunge una quota pari al 20%. Torniamo a Lavorare uccide, e all’informazione relativa alla morte sul lavoro. Non c’è più una lacuna vera e propria, ma forse il problema ora sta nel modo in cui l’informazione stessa è presente… Come in ogni progresso, c’è un regresso. È positivo che i giornalisti, quei giornalisti che facevano fatica a vedersi pubblicato un trafiletto, ora ne parlino. Dopo i moniti del Presidente della Repubblica, certe notizie compaiono con più frequenza. Ma negli ultimi mesi si è presentato anche il rischio dell’assuefazione, del dare visibilità ad un evento senza però indagarne i “perché”. La notizia in sé non comunica nulla, non è significativa. È rilevante andare a fare un’inchiesta, scovare le responsabilità, seguire i processi… Restando sul “come” se ne parla, Lavora-


re uccide è anche un attacco lucidissimo all’uso improprio di espressioni come “morti bianche” e di termini come “martiri”. Quali sono i rischi dell’assoggettamento, spesso inconsapevole, ad un lessico superficiale e inopportuno? A volte è inconsapevole anche da parte degli stessi produttori delle parole. È interessante ragionare sulla percezione delle stesse, ma questo in genere non lo si fa perché andare a vedere cosa c’è “dentro” dischiude un mondo… e il linguaggio, si sa, è un atto performativo, produce mondi, ed è fatto apposta per occultare… Leggerti in quest’ultima tua fatica è stato come affrontare un viaggio privo di una sua geografia. Mi ha colpito il fatto che ogni differenza fosse come indistinta: Napoli e Treviso, fabbrica e cantiere portuale, precariato e assunzione a tempo indeterminato... È una notazione interessante… c’è un terreno - quello del lavoro - che smaterializza le geografie e gli spazi, e ho costruito la successione dei capitoli proprio perché mi interessava la omogeneità “materiale”, che non è data dalle differenze, ma da quella continuità di cui parlavo prima. In più di un brano, poi, sottolinei spesso l’esigenza di giustizia manifestata dai parenti delle vittime, e la loro richiesta continua di “sanzioni pesanti”: c’è una disperazione ansiosa di individuare le responsabilità e di punire i colpevoli. La tua formazione, però, è dichiaratamente libertaria, quindi piuttosto diffidente nei riguardi di qualunque intervento di tipo

autoritario-istituzionale. Cosa ha significato far incontrare il tuo orientamento di pensiero con l’afflizione di “chi è rimasto”? Io non sono certo uno di quelli che afferma che il carcere sia una soluzione. Però questa è una società che sta divenendo sempre più produttiva di carcere, sempre più carceraria, per cui se la legge è uguale per tutti, lo devono essere anche le pene. Poi, sul senso della punizione, sull’efficacia della detenzione, o anche sulle possibili alternative, si può discutere. Ma intanto, bisogna ricorrere per esempio alle sanzioni pecuniarie, oppure impedire l’attività di imprenditore a chi è risultato responsabile di determinati incidenti. Concludo chiedendoti questo: nel tuo precedente libro, Lager italiani, descrivi i Centri di Permanenza Temporanea e le tante “vigliaccherie autorizzate” all’interno delle strutture di contenzione. Quali somiglianze hai riconosciuto, confrontando un’istituzione totale come il CPT con una dimensione lavorativa che “totalizza” tanto da condurre addirittura alla morte? Una confronto di questo genere si può fare da un punto di vista sociologico, ma ci sono in gioco condizioni di vita abissalmente diverse. I gradi di intensità sono distanti, e la comunanza può esser data solo dalla “precarietà”. Il diritto si fa importante strumento in tutto questo, perché produce il possesso della cittadinanza, mentre il CPT è finalizzato proprio alla precarizzazione, a costruire un’indotta docilità, che faccia stare il clandestino nell’invisibilità. Finché si è invisibili, di fatto non si può essere soggetti di disordine. Stefania Ricchiuto LIBRI 45



GIANFRANCO MANFREDI Ho freddo Gargoyle Books

Manfredi è un autore poliedrico, complesso, problematico. Per abbracciare tutta la sua multiformità d’estro, basti ricordare che dagli anni’70 ad oggi non c’e stata zona di resistenza culturale che si sia sottratta al suo demone geniale. Musica, teatro, fumetto, cinema, narrativa: in ogni dove artistico si può rintracciare più di un suo seme. Da ricercatore penetrante qual è, ha sempre mosso una sinergia raramente rintracciabile in altre scritture, e cioè la concordia tra una documentazione incontestabile - composta da letture rarissime e sopralluoghi spesso eccezionali - e un’apertura generosa verso l’inafferabilità del mistero. Facendolo continuamente, ha creato suo malgrado un non-genere, il gotico-filosofico, in cui rientra pienamente anche questo ultimo Ho freddo, che si rivela sin dalle righe iniziali una lettura irresistibile in qualunque tempo, ma indispensabile in questo momento storico. Calarsi nelle sue pagine ora, in un’Italia targata 2009 e affannata da paranoie securitarie pressoché quotidiane, concede di fatto un esercizio di cautela importante contro l’emergere piuttosto sbrigativo di deliri fobici ed ossessioni fanatiche. Le derive del terrore sono le protagoniste incorporee di questo libro notturno, che fa coabitare luoghi sinistri, personaggi inquietanti, ma soprattutto interrogativi angosciosi. La storia narrata è un teatro cupo a misura di lotta tra intelletto e irrazionalità, con due delle figure “fisiche”, i gemelli Aline e Valcour, a fare da ciceroni tenaci tra le traiettorie impensabili della paura collettiva. Esperti in malattie epidemiche e razionalisti convinti, i due giungono nel Rhode Island del ‘700, e in pieno territorio puritano assistono alla nascita del vaneggiamento di un’intera comunità. Un morbo ignoto sta mietendo delle vittime tra le fanciulle del luogo, e l’incomprensibilità della malattia sta spianando la strada ad una rinnovata caccia alle streghe. Risuona ovunque la parola “vampiri”, e l’ossimoro del morto vivente, non recepito nella sua assurda contraddizione, scatena pratiche dettate da un’ignoranza perversa: così, le tombe sono profanate, i cadaveri vengono straziati, l’in-

telligenza è ormai offesa. I cimiteri rimuovono il senso del riposo eterno, divenendo laboratori insensati della superstizione più scellerata. Stefania Ricchiuto

ALAIN VIRCONDELET La vera storia del Piccolo Principe Edizioni Piemme

New York, 1942. Antoine de Saint-Exuperie si trova nella grande mela da più di un anno, in esilio volontario dal regime di Vichy, dalla presenza saturante della compagna Consuelo, dal malessere che lo corrode. Saint-Exuperie vaga intollerante per i grandi viali di New York, per le case della cricca francese, fa la spola tra i diversi volti di se stesso. Il Piccolo Principe nasce lì e allora come placebo di una crisi esistenziale, ma la sua sorte sarà ben diversa. La vera storia del Piccolo Principe racconta la gestazione febbrile del racconto naif a cui Saint-Exupery finì per affidare la grande verità di se stesso, attraverso l’esperienza tangibile dei propri incontri e delle contraddizioni che intrecciavano quei legami. È così che ritornano e si sovrappongono le immagini di Consuelo, delle molte amanti, delle notti newyorkesi, della guerra, della casa d’infanzia, compresenti in Antoine come un assurdo mosaico in cui ogni tessera si sovrappone a un’altra eppure non la offusca. All’apice di questo paradosso la vita amorosa dello scrittore, costellata di amanti eppure capace di essere devota a Consuelo, la sposa legittima “male amata e insieme tanto amata”, che Antoine elegge a imperativo sacro e con cui tuttavia non riesce neanche a convivere. È lei la rosa del Piccolo Principe, come le viene confessato in una lettera. In sostanza, per la vita dell’uomo Saint-Exupéry il libro è forse l’epigrafe di un fallimento esistenziale, quello di colui che è stato capace di consegnare un’illuminazione tanto profonda, ma incapace di negarsi il male. Dentro l’amarezza di ciò che viene tanto crudamente demistificato, c’è la speranza che il limite di ogni uomo contenga un potenziale di riscatto tanto vasto quale è il messaggio del libro. Il magico insegnamento del Piccolo Principe non perde il proprio richiamo: semplicemente diviene un po’ più agrodolce, e per questo più autentico. Giorgia Salicandro LIBRI 47


ALESSIO SPATARO Dark Country Self Comics

“Se Alessio Spataro fosse musica per me sarebbe i Fugazi”. Questa la dedica appassionata di Giovanna Cacciola, voce delle storiche noise band catanesi Uzeda e Bellini, che appare in quarta di copertina del volumetto tascabile “Dark Country”, fumetto “senza parole” del disegnatore Alessio Spataro, realizzato in monocromia rossa edito da Self-Comics. I Fugazi, formazione post punk americana, ha scritto la storia dell’autoproduzione musicale, svincolandosi completamente dall’industria discografica, regalando e diffondendo il suo suono nervoso ed attento tramite una rete di appassionati e sostenitori fra fans, seguaci del genere, produttori discografici indipendenti, promoter ed organizzatori. Una scelta di vita, quella dell’indipendenza, che presenta fin da subito il suo prezzo dal punto di vista economico, ma che disegna e crea rapporti veri, basati su scelte e principi sani e quindi destinati a durare agli affanni ed al logorio del tempo. Pesare le parole in momenti in cui gli affetti sfuggono involontariamente come le ombre, fare l’elenco delle cose che avrei voluto dirvi, delle cose che avrei voluto fare, della vita che vorrei fosse tutta mia, anzi, tutta nostra. Lo stesso Alessio, persona dall’indole serena e pronta al confronto, diffonde in questa maniera la sua esperienza ed il suo punto di vista da “artigiano della vignetta”, fidandosi di chi guarda al mondo nella stessa maniera in cui lui guarda al mondo.Non mi capita spesso, ma appena ho avuto modo di conoscerlo di persona, ho avuto la sensazione di conoscerlo da sempre. Una stretta di mano ed un sorriso sincero restano il miglior social network possibile al mondo. Il libro è un comic book di 48 pagine, brossurato, senza parole ma con la musica protagonista. Parla della tragica lotta di un giovane chitarrista che cerca ispirazione ritirandosi in campagna, mentre dall’altro lato c’è una vecchia massaia che non sopporta il chiasso dell’amplificatore. Parliamo di un duro confronto generazionale, dell’eterna lotta fra il bene ed il male, dando ancora una volta per scontato cosa sia il bene e dove risieda il male. Parliamo di sogni, desideri, esigenze. In realtà non parliamo davvero di nulla, perchè il 48 LIBRI

nulla avanza in tutti i sensi. Se Alessio avesse voluto comunicare qualcosa in più avrebbe aggiunto le parole ai tratti delle sue penne e matite, parole che non gli mancano data l’esperienza e le collaborazioni raccolte in giro. Ancora una volta emerge la nostra presunzione di avere un parere, anzi un ardito parere su tutto, soprattutto su quello che non c’è. Le parole non ci sono, questa volta non servivano. Ci sono giorni in cui il vento soffia davvero forte, al mattino ti svegli favorevole a qualcosa e la sera rimugini la noia nei confronti di quel “qualcosa” prima di concederti al sonno. Pensi di aver capito tutto, in realtà non hai capito proprio un bel nulla, perchè chi va avanti realmente nella vita è solo l’orologio, e tu cavalchi il tempo come un surfista si adopera sulle onde, cadendo di volta in volta in un mare sempre più profondo e pericoloso, ma l’esperienza lo ha reso tuo amico ed ormai conosci innumerevoli tecniche per non affogare. Sempre meno forza per risalite sempre più difficili, ma alle volte ci si diverte solo così. Le idee buone non muoiono mai, per quelle bastano poche parole, anzi pochissime. A volte nessuna. Ennio Ciotta

YOANI SANCHEZ Cuba Libre Rizzoli

Yoani è una blogger cubana poco più che trentenne, e da desdecuba. com/generaciony rende al mondo i dettagli scomodi del vivere in un’isola ribelle, che è da sempre riferimento assoluto per tutti i popoli in lotta dell’America Latina. Aggiorna il blog spedendo e-mail ad amici di rete sparsi per il mondo - nella sua terra non le è consentito l’accesso al portale che la ospita - e lo fa barcamenandosi tra gli internet point degli alberghi, pagando costi e tempi salatissimi. Tutto questo, per continuare ad esistere nonostante l’ipnosi collettiva che la circonda, e nonostante la sua condizione insostenibile di “prigioniera insulare” – ha dovuto rifiutare mille inviti all’estero perché “non autorizzata a viaggiare”. Ora, esce in Italia con un libro in cui si scaglia contro il doppio sistema monetario e il mercato nero, il condizionamento ideologico e l’informazione di regime, e in cui restituisce una Cuba contemporanea che non piacerà ai fidelisti


convinti. Unica pecca di questa testimonianza mai rabbiosa: l’assenza di un minimo riferimento all’embargo terrorista che da cinquant’anni soffoca l’isola. Da leggere, per rendersi conto che Rivoluzione Cubana significa un passato di conquiste intoccabili, ma anche una realtà di traiettorie oppressive indifendibili. Stefania Richciuto

G. ZAPPATORE - P. FUMAROLA - V. D’ARMENTO All’ombra di Georges Lapassade Sensibili alle foglie

Sintetizzare la ricerca di Georges Lapassade è impresa irrealizzabile: la sua vita di uomo nomade e di studioso multidisciplinare si è snodata attraverso infiniti campi di elaborazione, per segnare ogni volta – indiscutibilmente – quelle zone del pensiero resistente rappresentate dalle discipline dell’etnometodologia e dell’analisi istituzionale. Proprio a causa della quantità, e soprattutto della “densità”, dei suoi contributi, tutti determinanti, è opportuno abbracciare le teorie e le pratiche di questo ricercatore differente procedendo per geografie, come suggerisce la casa editrice Sensibili alle foglie con questa uscita tematizzata, dedicata alle testimonianze sulle tracce salentine di Lapassade. Nel Salento, infatti, il filosofo e sociologo francese ha penetrato il territorio scavando finemente nella cultura locale, e avvisando dei rischi di una “modernità che travolge” e che porta a smarrire l’autenticità della tradizione. Ad un anno dalla scomparsa, solo gli autori raccolti in memoria in questo testo gli rendono l’omaggio dovuto: il Salento istituzionale non l’ha finora fatto, nonostante Lapassade sia stato il creatore reale – mai riconosciuto – di un evento come La Notte della Taranta. Stefania Ricchiuto

VITO BRUNO Il ragazzo che credeva in Dio Fazi Editore

Viale Magna Grecia, rione Tamburi, i fumi dell’Ilva, il ponte girevole, la periferia sporca e polverosa, la salita verso Martina Franca. Il romanzo di Vito Bruno si staglia su una Taranto lontana dalla modernità e lacerata dal fallimento. Priva

di speranze e di sogni. Il protagonista è Carmine, un prete che sulla soglia dei cinquant’anni sente vacillare la forza della sua vocazione e della fede che lo ha sorretto fino a quel momento. Le sue certezze si infrangono di fronte ad una domanda posta da una prostituta venuta dal Montenegro: qual è il senso del dolore? Don Carmine non riesce a rispondere ma inizia a sentire dentro un profondo senso di inquietudine mischiato alla consapevolezza di non essere più all’altezza dell’abito che indossa. Da quel momento in poi la Taranto dei giorni nostri si fonde con la narrazione e diventa “un posto perfetto per soffrire tutti insieme”. Gli eventi incalzanti e veloci vedono il prete coinvolto in situazioni più o meno lecite, con il solo scopo di salvare Alena e donarle un destino più fortunato. Il futuro non sembra esistere, tutto è schiacciato sul presente. E ogni singolo essere umano è costretto a covare da solo la propria pena. Finché le acque inquinate e placide del Mar Piccolo benedicono una tanto agognata salvezza… Lucio Lussi

FABRIZIO CANCIANI - STEFANO CROVI Delitti e canzoni Todaro Editore

In origine Delitti e canzoni era uno spettacolo di cabaret portato in scena da Fabrizio Canciani, scrittore, e Stefano Crovi, cantante e cabarettista. Dallo spettacolo i due “criminologi della canzone italiana” hanno tratto l’idea di questo libro, con l’intento di ricreare l’atmosfera di una jam session o quello che succede normalmente in uno studio di registrazione dove non è raro che un musicista intervenga nelle registrazioni di un altro gruppo o nascano collaborazioni quasi per caso davanti alla macchinetta del caffè. E così Canciani e Crovi hanno invitato i loro amici, musicisti, scrittori, cabarettisti, comici, poliziotti, a scrivere qualcosa sul tema delitti e canzoni. Ne viene fuori un libro leggero, leggibilissimo e non scontato su un rapporto, quello tra il crimine e la canzone, che in Italia ha le sue radici nelle canzoni della mala, cantate dalla Vanoni, o nei testi di De Andrè e tanti altri, ma che riserva ancora tante sorprese che questo libro vuole svelare. Dario Goffredo LIBRI 49


TODARO EDITORE

Todaro editore è una piccola casa editrice ticinese, con un’anima profondamente italiana e con un occhio di riguardo puntato al mondo del noir. La collana Impronte, che vanta tra i suoi autori alcuni dei nomi di punta del genere poliziesco italiano è curata nientemeno che da Tecla Dozio, animatrice della mitica libreria del giallo di Milano, la Sherlokiana, punto di riferimento per autori e lettori. Coolclub.it ha fatto due chiacchiere con Veronica Todaro. La Todaro editore è una casa editrice svizzera, ma ha un legame molto forte con l’Italia. Il mercato editoriale italiano è un mostro strano, si legge pochissimo e si pubblicano 40.000 titoli l’anno. Come si pone una casa editrice come la tua nel mondo editoriale italiano? La nostra casa editrice ha una doppia anima: svizzera e italiana, in quanto parte della mia famiglia risiede a Lugano da molti anni e io stessa 50 LIBRI

ho compiuto parte dei miei studi lì, però sono italiana. Comunque un editore di lingua italiana, a meno che non si concentri sulla realtà locale ticinese, non può prescindere dal rivolgersi al pubblico italiano: in termini assoluti il bacino di lettori in Ticino non è così ampio, anche se in termini percentuali i ticinesi leggono più dei loro cugini italiani. Quali sono la linea editoriale e il progetto che vi contraddistinguono? Quando siamo nati, nel 1996, avevamo diverse collane: di cultura gastronomica, di fiabe e mitologia, di viaggi etc. Nel 1999 abbiamo iniziato (tra i primi in campo editoriale) a dare spazio agli autori di gialli in lingua italiana con la nostra collana “Impronte”. Negli anni questa collana è cresciuta e per concentrare le nostre forze su questo progetto, abbiamo messo in stand-by alcune altre collane. Oggi pubblichiamo gialli/ noir, libri di viaggio e qualche fuori collana che ci sembra interessante.


Il vostro catalogo spazia dalle fiabe e dalla magia, al noir e al giallo, passando per la storia, la cucina e i vostri bellissimi manuali semiseri. Come avvengono le scelte editoriali? Come già detto alcune collane sono state sospese, per motivi commerciali o per mancanza di materiale “buono”. Inoltre, per un piccolo editore, la specializzazione in uno o due argomenti “paga”, in termini di distribuzione nelle librerie e di fidelizzazione dei lettori. Le scelte editoriali vengono effettuate con diversi criteri: qualità della scrittura, della storia narrata, della vendibilità in primis. Poi possono esserci motivi contingenti: interesse del momento a un determinato argomento, originalità del progetto, “innamoramento” vero e proprio! Che tipo di politica attuate nei confronti dei manoscritti? Riceviamo moltissimi manoscritti e vengono tutti esaminati. Non tutti vengono letti dall’inizio alla fine, in quanto dopo poche pagine è chiaro se l’autore sa o non sa scrivere (non in termini di grammatica o sintassi, ovviamente, ma deve avere ritmo, dialoghi che funzionino, personaggi che possano incuriosire etc). Una buona storia scritta male non fa un buon libro. Dicevo, esaminiamo tutti i manoscritti, i tempi di lettura sono lunghi, circa 4/5 mesi mediamente. Se il libro ci interessa (deve avere l’approvazione mia e della curatrice della collana, Tecla Dozio) contattiamo l’autore per verificare che il romanzo sia ancora disponibile e che abbia voglia di apportare le modifiche richieste (sempre piuttosto leggere, che non stravolgono il progetto iniziale dell’autore e che comunque vengono sempre motivate). A quel punto si fa il contratto, si impagina, si corregge, si sceglie la copertina, si stampa, si distribuisce e... si spera! Non chiediamo mai la partecipazione alle spese all’autore! Paghiamo poco (come ogni piccolo editore che si rispetti) ma non chiediamo un euro (o un franco). Questo numero di coolclub.it è dedicato al giallo e al noir. Ci parli della collana Impronte? Impronte nasce nel 1999, da un progetto mio e di Tecla: dare spazio agli autori italiani di giallo, in particolare quelli esordienti o emergenti. Negli anni abbiamo pubblicato quasi 40 titoli: alcune antologie tematiche (Delitti sotto l’albero, Capodanno nero, Innamorati da morire, Uccidere per sport) con racconti di autori famosi (Carlotto, Lucarelli, Fois, Macchiavelli, Vallorani, Comastri,

Montanari etc.; addirittura nell’ultima antologia abbiamo ospitato due “mostri sacri” stranieri; Deaver e Lansdale), molti esordienti che sono poi diventati scrittori Todaro con 3 o 4 romanzi pubblicati e scrittori già noti al pubblico che ci hanno concesso di pubblicare una loro opera ( Mino Milani, Franco Foschi, Roberto Mistretta, Massimo Marcotullio). Un’altra caratteristica importante della nostra collana è l’ambientazione italiana; il territorio diventa co- protagonista del romanzo. Abbiamo così romanzi ambientati sull’Appennino abruzzese, a Sassuolo, Milano, Pavia, in Sicilia, Campania... ci manca la Puglia! Se qualcuno volesse cimentarsi in un giallo ambientato nel Salento, per esempio... siamo qui! Ci sono dei libri a cui sei particolarmente affezionata tra quelli da voi pubblicati? O ci sono delle storie legate a un titolo? Un po’ come una mamma, sono legata a tutti i libri che abbiamo pubblicato. Con alcuni vado più d’accordo con altri meno, ma non potrei sceglierne uno. Come lettrice ho i miei personaggi preferiti, e ci sono libri che ci hanno dato maggiori soddisfazioni e altri (spesso non per colpa loro) che non hanno raggiunto la diffusione che ci aspettavamo, ma l’editoria non è una scienza esatta, le variabili sono tante e imprevedibili. Sono molto orgogliosa della nostra ultima antologia Delitti diVino, perchè per la prima volta abbiamo pensato di interpellare, al posto dei soliti noti, i nostri autori. E il risultato, in termini qualitativi, è stato ottimo. Anche sul piano delle vendite sta andando molto bene. Quali sono le novità e le prossime uscite in catalogo? Verso fine aprile usciranno: Sentieri invisibili di Giuseppe Battarino, un magistrato di Varese che ha ambientato il suo primo romanzo nella procura di una cittadina del Nord Italia, e ci racconta come lavora realmente una procura; Delitti e canzoni di Fabrizio Canciani e Stefano Covri, una jam session letteraria con contributi di oltre 30 tra scrittori, musicisti, giornalisti, cabarettisti. Piuttosto divertente. A maggio uscirà Lunaris. Dal diario di un Licantropo, una storia raccontata in prima persona da un giovane uomo che si accorge di essere diventato licantropo. Non è un horror, è piuttosto una biografia un po’ inquietante. Si possono trovare le schede delle nostre novità consultando il nostro sito: www.todaroeditore. com Dario Goffredo LIBRI 51


CINEMA TEATRO ARTE

KUBRICK Dieci anni senza

Capita purtroppo sempre più spesso che si assista a celebrazioni di ogni tipo, a memorial, a retrospettive, a rassegne. Non per Stanley Kubrick. O almeno non come avrei desiderato. Ho contato fino a 10 da quando, stroncato da un infarto, si è spento nella sua casa di campagna all’età di 70 anni. E la sua eredità appare oggi, a distanza di due lustri, pesantissima. Inutile citare la sua filmografia, che vede al suo interno per citarne alcuni Shining e Lolita, Barry Lindon e il postumo Eyes wide shut. In un numero di Coolclub.it dedicato al giallo, 52 cinema teatro arte

meglio soffermarsi sulla pellicola che più di tutte ha costituito per Kubrick l’incontro con il genere: Rapina a mano armata. Nel noir del 1956, terzo film del regista diretto a soli 28 anni, si ritrovano tutti i tratti distintivi del giallo classico, con un qualcosa in più: il flashback. In un continuo andirivieni di eventi, idea mutuata da Clean break, libro di Lionel White da cui la pellicola è tratta, Rapina a mano armata scombina temporalmente le idee dello spettatore, che assiste alla stessa rapina vista attraverso gli occhi dei diversi protagonisti. Il


risultato è fenomenale, per pubblico e critica. Ma lo è innanzitutto perché il film di Kubrick, a suo modo, introduce nel cinema alcuni degli elementi che qualche decennio più tardi faranno la fortuna di autori considerati di culto, come Quentin Tarantino (vedi Le iene e Pulp fiction). Fulcro del film un colpo per l’appunto, che una banda variegata, che ricorda gli Ocean’s di Steven Soderbergh, intende realizzare ai danni di un ippodromo a New York. Tutto sembra filare liscio fino a quando l’avidità di uno degli elementi non manda a monte un piano quasi perfetto, fino al clamoroso finale a sorpresa.

Ma il giallo è solo uno dei generi che l’eclettico cineasta americano sposa nella sua carriera. Esploratore di generi e comunicazione, il regista Kubrick lavora la pellicola e l’inquadratura con la difficile arte del mosaico; avaro di concessioni produttive, preferisce costruire film che alla lunga si rivelano opere sì impeccabili tecnicamente, ma soprattutto sincere spiritualmente. Rifiuta qualsiasi morale il cineasta americano, che anzi inserisce nelle sue opere un solo e grande protagonista: il dualismo. In Arancia Meccanica, il teppista Alex viene messo in condizione, da una società conformista, di non poter più scegliere tra il bene e il male; in Barry Lindon emerge l’insanabile conflitto tra amore ed odio; ne Il dottor Stranamore si racconta come l’uomo sia capace di amare quanto di sterminare con disinvoltura suoi simili e, come detto prima, l’avidità contrapposta all’accontentarsi diventa un elemento decisivo in Rapina a mano armata. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, quanti sono i film di Kubrick, quanti sono i momenti di pura e aperta riflessione da essi generati. A un’analisi prettamente da spettatore si uniscono poi centinaia di teorie che vedono i film del regista vicini a diverse filosofie. Celebre è il filone che accomuna alcune opere di Kubrick, in particolare 2001 – Odissea nello spazio al pensiero di Nietzsche. Il millenario viaggio dell’essere umano da primate a creatura dello spazio rappresenterebbe per molti il punto d’arrivo del superuomo di Nietzsche, con tutte le contraddizioni che questo comporta. Una teoria affascinante senza dubbio, forse basata sul nulla, ma che rende bene l’idea su quanto i film del cineasta di New York siano ancora lontani dall’essere “decifrati”, o semplicemente di quanto siano immortali nel loro continuo richiamo a caratteri fondanti dell’umano modo di essere. E questo rappresenta forse il premio più grande per Kubrick, passato a miglior vita con il rimpianto di un Oscar mai concesso e che ha tutto il sapore della vendetta di chi non aveva mai tollerato un genio fuori dagli schemi, capace di non farsi ricattare, ma di vivere la costruzione di un film come un momento sacro, lontano da ogni compromesso. D’altronde è noto, la storia, almeno inizialmente è fatta dagli uomini, ma alla lunga sono i compromessi a non essere fatti per la storia. C.Michele Pierri cinema teatro arte 53


SHAMELESS Si potrebbe giustamente affermare che il cinema sia ormai entrato nelle nostre case. Megaschermi digitali, audio dolby-surround e film scaricati da Internet prima ancora di essere proiettati nelle sale. Inoltre la televisione ci ha resi dipendenti dalle serie tv che a cavallo del nuovo millennio si sono moltiplicate esponenzialmente, portando al successo planetario produzioni eccellenti che impiegano tecniche, attori e registi mutuati dal grande cinema. Si è quindi assistito a una proliferazione di serie televisive per tutti i gusti e le fasce di pubblico. Tra le più geniali ed esilaranti troviamo certamente Shameless, pluripremiata fiction britannica ideata e trasmessa da Channel 4. Doppiata per l’Italia a quattro anni dall’uscita, e messa in onda solo su canali a pagamento, Shameless (Spudorato/Indecente) nasce dall’idea semplice e brillante di mostrare al mondo uno scorcio della vera Manchester, una verosimile panoramica dei Council Estates; una visione autentica, cruda e criminale, ma non per questo meno British di quella di un tranquillo villaggio scozzese. In due parole, lo spettatore gettato in pasto ai leoni, in un angolo di ghetto. E così sia. Il compito di mettere insieme i cocci di quest’illustrazione neorealista è affidato a Frank Gallagher, l’alcolizzato capofamiglia che veste spesso i panni della comica voce narrante (voce che in ogni puntata cambia da un personaggio all’altro), facendosi così ambasciatore della working-class, assai cara alle genti d’oltremanica. Un personaggio sull’orlo del baratro, simbolo del sottoproletariato urbano, ingabbiato fra dinamiche familiari e personaggi che incarnano gli archetipi della società inglese. Microcosmo metropolitano su un ottovolante in corsa frenetica. La trovata geniale dello show, a mio avviso, consiste nell’aver cercato il modello ispiratore nelle popolarissime fiction britanniche; in quelle serie televisive seguite in modo maniacale da grandi e piccini di ogni ceto o religione, animali domestici inclusi (in Italia potrebbe essere La Piovra). 54 cinema teatro arte

Stereotipi e ambientazioni che di soap in soap continuano a soddisfare i gusti del pubblico, questa volta vengono infarciti di epica proletaria e riscritti in una visione stravolta, nel quadro della sceneggiatura più esilarante e politicamente scorretta che la TV in terra d’Albione abbia mai prodotto. In Shameless il riferimento alle fiction si perde quasi subito sotto l’occhio iperrealista dell’attenta regia di Paul Abbot che, impiegando una telecamera mobile, distilla con mano ferma tensione e poesia, cinismo e dramma, in un film/baccanale à la Danny Boyle, ben confezionato dal punto di vista formale. Ottima la fotografia, trascinante la colonna sonora (un combat-folk squisitamente British), bravi gli attori. I temi trattati sono molto forti, ma puntualmente stemperati dall’umorismo. Molti cenni autobiografici e innumerevoli attacchi pungenti alla realtà sociale e politica inglese, scandagliata dallo sguardo anarchico e cinico dei Gallagher, in perenne lotta contro il mondo. Una realtà contraddittoria che puntualmente diventa nonsense. Una realtà in cui i figli si prendono cura del padre. Una raffica di situazioni in cui la criminalità è la norma (o quantomeno una necessità) e in cui il giudizio perbenista rischia di rimanere sospeso per miracolo, lasciando che la morale sbocci quando meno te l’aspetti, dalle situazioni estreme e dagli angoli oscuri dell’anima che ciascuno di noi trascina più o meno consapevolmente dentro di sè. Si potrebbe giustamente osservare: d’accordo, ma tutto quel cinismo? Chi può ridere di fronte a uno spirito tanto blasfemo e spregiudicato? Mi viene da rispondere: il cinismo è proprio la chiave. Forse il cinismo è come uno scudo per osservare la realtà senza restarne accecati; il cinismo per non essere annientati e trovare la forza di reagire; il cinismo perché è la vita, per prima, ad essere spietata, assurda e indecifrabile… Tobia D’Onofrio


STEVEN SODERBERGH Che - l’argentino

L’impresa di Soderbergh ha dato i suoi frutti in 4 ore di pellicola divisa in due capitoli - Che - l’argentino e Che - il guerriero, atteso per i primi di maggio - interpretati e interpretabili dall’unico possibile Guevara: Benicio Del Toro. Che - l’argentino racconta in 131 minuti l’incontro e la traversata dei ribelli rivoluzionari sino a Santa Clara. Il 26 novembre del 1956 il medico argentino Ernesto Guevara salpa alla volta dell’isola di Cuba con un giovane avvocato di nome Fidel Castro e altri 80 ribelli determinati a rovesciare la dittatura di Fulgencio Batista. Medico, stratega e instancabile guerrigliero, il Che, dopo un lungo faticosissimo periodo sulla Sierra Maestra, conquista la città di Santa Clara e si riunisce ai compagni per marciare su L’Avana. Questo lavoro portato avanti dal regista per ben sette anni, ricalca “di passo in passo” la rivoluzione del Che, dall’incontro con Fidel sino alla sua morte. Ricerche, sopraluoghi, interviste e varie stesure della sceneggiatura per capire una delle personalità più note al mondo. Il dinamismo nel film manca e non ce n’era bisogno, l’energia è nella storia e Soderbergh l’ha saputa calibrare bene. Lunghe soste tra i monti, pesanti fardelli da portare in spalla, paura degli spari e una voce che ti accompagna per tutto il film, carica di passione e speranza. Tutto questo lo senti addosso e ti sfiora con prepotenza nell’animo. Piccoli aneddoti che raccontano l’uomo, il pensiero, la violenza, guidati da ragioni di libertà e uguaglianza, perché come dice lui stesso a chi pensa che tutto ciò sia un gioco: “la nostra è una rivoluzione non un colpo di stato”. Il film alterna immagini in bianco e nero del discorso di Guevara all’ONU del 1964 con la rivolta fisica e mentale che affrontò in prima linea sul campo, tratta dal Diario di una rivoluzione cubana. Piani sequenza, camera a spalla, primissimi piani: così viene raccontato uno degli uomini più famosi al mondo. Le parole del Che si scagliano come un monito sul grande schermo. Soderbergh ricalca l’impresa di quest’uomo, che al di là dell’etichetta politica e della mercificazione del suo volto, riesce comunque ad emozionare e a riverberare nel tempo.

“Ti dico una cosa, anche se potrà sembrarti ridicola: un vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d’amore, amore per l’umanità, amore per la giustizia e per la verità.” In questo periodo storico parole del genere non possono lasciarci indifferenti. Giusi Ricciato

COSTA-GAVRAS Verso l’Eden

Verso l’Eden, presentato anche al Festival del cinema Europeo di Lecce, racconta la storia di Elias (Riccardo Scamarcio), un giovane clandestino che si getta a mare nel momento in cui le motovedette della guardia costiera greca stanno per catturarlo. A nuoto arriva in un villaggio vacanze per turisti. Trovati degli abiti da inserviente è scambiato per tale e richiesto per prestazioni, sia di manodopera sia sessuali. Costretto a fuggire se non vuole essere arrestato, Elias ha una meta precisa: Parigi. L’obiettivo? Incontrare un mago prestigiatore che forse gli cambierà la vita. Dov’è andato a finire il regista Gavras di una volta? Colui che accendeva discussioni politiche e infervorava animi e “stomachi”? Lo stesso di Z l’orgia del potere, di Missing o L’affare della sezione speciale? Gavras si è lanciato in un tema già esaminato, discusso e di difficile portata: il clandestino. Trovando un titolo, a mio parere significativo, Verso l’Eden, rappresenta per alcuni popoli il “luogo mitico”, il posto in cui arrivare e in cui raggiungere una facile serenità. Il sottile intento però è stato sciupato da un viaggio irreale, stra-ordinario o forse concesso a pochi. Ad Elias non accade nulla o meglio, è molto fortunato. Uno dei pochi superstiti di un barcone stracolmo di gente, approda su una spiaggia turistica, che per lui sarà la culla di Mosè nella “ricca casa del faraone”. È nutrito, aiutato, saziato delle sue voglie, fugge alla polizia, si orienta in posti che non sa, senza parlare o pronunciando solo qualche parola, trova passaggi facili da sconosciuti, cibo e letti comodi. Questo film è una bella favola, lontana, però dai problemi che questo tema porta con sé. Forse potrebbe diventare o addirittura essere una speranza futura, assicurando a tutti l’Eden, sottraendolo ai clichè della globalizzazione. Giusi Ricciato cinema teatro arte 55


LE RAGIONI DELLA LEGGEREZZA Odissea, di CĂŠsar Brie chiude strade Maestre 56 cinema teatro arte


Con Odissea, l’ultima produzione del Teatro de Los Andes, per la regia di César Brie, in scena a Koreja il 2 e 3 maggio, si chiude la stagione 2008/2009 di Strade Maestre, che, almeno per quest’anno, è riuscita ad assicurare nomi importanti del panorama teatrale nazionale ed internazionale. Per l’anno prossimo, con la crisi che taglia, vedremo cosa aspettarci. Stagione generosa di successi, grandi emozioni e grandi nomi; per citarne alcuni, Roberto Herlitzka, Alfonso Santagata, l’attesissimo Peter Brook e il sempre benvenuto César Brie: maestri nel proporre un modo di raccontare che ha nella semplicità la sua chiave di volta. Una semplicità mai fine a se stessa, ma necessaria e commovente nella sua essenzialità. Abbiamo conosciuto, dunque, un teatro che racconta sostenendo le ragioni della leggerezza, come fa il teatro di César Brie; dove la leggerezza non è inconsistenza o esteriorità, ma prende le forme di un dire poetico, di una sinergia tra il movimentato spettacolo del mondo e il ritmo interiore. Leggera è, allora, la scenografia, composta esclusivamente da canne di bambù che “si aprono, si chiudono, ruotano, si spostano avanti e indietro. Creano strade, case, boschi, recinti, mura. Un marchingegno semplice che sembra complessissimo”: sottili e fragili canne creano sipari invalicabili, suggeriscono spazi diversi, moltiplicano le presenze. Leggeri sono anche gli attori, preparatissimi ed esperti, come sempre nei lavori di César: si impongono sulla scena con i loro canti, le loro danze, le acrobazie, e sono perfetti, puntuali e precisi nel gestire gli oggetti, i cambi di personaggio e di scenografie. I loro gesti sono sicuri e rigorosi, come se anche loro facessero parte di quel marchingegno scenografico di cui, allo spettatore, viene svelato davanti il meccanismo. Leggera è la storia raccontata, quella dell’omerico Ulisse, che con l’avanzare dello spettacolo, si arricchisce di sfumature e influenze letterarie e reali. Dieci anni fa, lavorando sull’Iliade, Brie intraprende il suo percorso di riscrittura contemporanea dei classici ed ora, per mettere in scena l’Odissea, alle tante influenze letterarie (quella di Joyce prima fra tutte), intreccia gli spunti che vengono dalle vicende personali di ognuno dei suoi compagni del Teatro de Los Andes. “Per affrontare l’Odissea siamo partiti da noi; quali sono i nostri naufragi, le nostre passioni, i nostri mostri? Cosa abbiamo abbandonato? Dove si nasconde la nostra Itaca?” Partire da se stessi per capire chi siano gli Ulisse di oggi: “Gli artisti nel loro perenne viaggio attraverso le forme; gli impiegati, ancorati nei loro uffici che vanno via immobili con la loro immaginazione; i migranti che arrivano sulle nostre

spiagge naufraghi, fuggendo dai mostri della miseria e della guerra, e la cui fuga si vuole sanzionare come delitto. Di tutto questo parla l’Odissea. Il racconto dei racconti agli albori dell’uomo”. La riscrittura dell’Odissea parte, dunque, da questa preliminare indagine su di se e sul mondo, di cui si sente con forza l’eco in tutto il primo atto, che è compatto, denso, carico di un tono corale, mentre si perde un po’ nel secondo, in cui i riferimenti al contemporaneo appaiono un po’ forzati, mediati da passaggi intellettuali, razionali e non emotivi. Se Ulisse è un migrante, come un terzo della popolazione boliviana, allora il suo racconto diventa il tentativo dei sudamericani di entrare negli Usa (straordinaria e fortemente suggestiva la trasformazione da uomini in porci che la maga Circe compie a suon di Coca-Cola e hamburger!); Polifemo diventa il capo della banda che assalta il treno su cui viaggiano i poveracci verso nord (potenti, in questa scena, le invettive di Ulisse contro quel mondo che ti attrae e ti sputa via); Cariddi sono le acque del golfo del Guatemala, dove in tanti finiscono annegati; Scilla è il deserto, dove ti attendono i cani da guardia, corrotti e dissoluti; le umiliazioni e la cacciata di Ulisse da parte dei pretendenti hanno il tono e le parole delle aggressioni razziste scoppiate in Bolivia mentre la compagnia sta lavorando allo spettacolo. Se questo è il viaggio dei nuovi Ulisse, il ritorno ad Itaca non può concludersi se non come una deportazione: da qui si parte e qui si torna, sconfitti, umiliati, espulsi, marchiati come vinti. Leggero è, infine, il teatro di César e della sua compagnia: “Noi non abbiamo né soldi né risorse, ma una ricchezza che spesso si smarrisce nella voragine del teatro contemporaneo. Abbiamo tempo. Lo sfruttiamo. Ci siamo dati il tempo necessario per approfondire la nostra ricerca. E’ questo il filo che tiene insieme gli altri”. Lavorare con i miti impone di non avere fretta. Come ci insegna Calvino, “è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini”. Ragionarci sopra, meditare su ogni dettaglio: sono passate due ore e mezzo dall’inizio dello spettacolo, e ancora non sei stanco. Poi lo spettacolo finisce, e ti ritrovi ancora a pensare al tuo di viaggio, verso dove o lontano da cosa: un viaggio intrapreso senza fretta, verso la tua meta, qualunque essa sia. In scena Lucas Achirico, Cynthia Callejas, Gonzalo Callejas, Mia Fabbri, Alice Guimaraes, Karen May Lisondra, Paola Oña, Ulises Palacio, Juliàn Ramacciotti, Viola Vento. Michela Contini

cinema teatro arte 57


FANCULO IPPOLITO!

Ippolito Chiarello lancia la pietra, con grande nonchalance, e la tira dritta sulla fronte dello spettatore che, stordito, lo osserva, e osserva come di fronte a sé ci sia la rappresentazione teatrale del pensiero comune, quello dell’uomo che si domanda: “Perché non abbandonare tutto una volta per tutte? Perché non ve ne andate a fan…? Mo me ne vado io a fan... e chi s’è visto, s’è visto!”. Dare una spinta, quindi, uno strattone al rallenty della quotidianità che quello stesso uomo, comodo, in poltrona, ha creato attorno a sé “Ogni uomo è artefice del proprio destino” recita un adagio dei più antichi. Lo spettacolo, Fanculopensiero - Stanza 510, è liberamente e ironicamente (per fortuna) ispirato al romanzo di Maksim Cristan, scrittore croato che per un periodo della sua vita decide di mollare tutto per vivere la strada, un uomo che, da giovane manager in carriera, si ritrova a riscriverla la strada, uno che ce l’ha fatta a fare quel passo... quello dettato dall’istinto e dal coraggio di dare un taglio netto! Dopo aver dato un assaggio in alcune piazze salentine con Fanculo a se stessi, fanculo al proprio personaggio, fanculo al ruolo!, dove si è spogliato delle sue vesti d’attore, e del personaggio di Chiarello non è rimasto che un naso irriverente, Ippolito porta in scena al Politeama Greco di Lecce nelle date dell’8-9-10 Maggio, un pensiero al quale i molti evitano di dare spazio. Si sa, il quieto vivere. L’arrivo di Fanculopensiero sugli scaffali delle librerie è stato, per Cristan, la fine della sua vita di scrittore da strada; per Chiarello, forse, l’inizio di una missione per l’umanità; per lo spettatore, che siederà sulla poltrona del Teatro, un momento per entrare in contatto con i propri pensieri più nascosti, cercando la cura migliore per provare meno dolore possibile dopo il lancio del sasso di un Ippolito Chiarello che con il suo indiscutibile talento, regge la scena per 55 minuti nascondendo la mano! Eleonora Leila Moscara 58 cinema teatro arte

SUPER

SENTIERI NEOBAROCCHI TRA ARTE E DESIGN

Il progetto “Super - sentieri neobarocchi tra arte e design” inserito in “Puglia Circuito del contemporaneo”, si propone di indagare la tendenza neobarocca che attraversa il mondo dell’arte, del teatro e del design della contemporaneità. Opere ed eventi che tracciano itinerari culturali inediti attraverso cui ritrovare pratiche etiche di produzione e progettazione artistica capaci di proiettare i tratti identitari del territorio salentino in una dimensione globale e aperta. Primo appuntamento dal 17 maggio al 12 luglio con Super - sezione design a cura di Marco Petroni che, nella ex Chiesa S.Francesco della Scarpa, presenterà i lavori di: Jurgen Bey, Marijn van der Poll, Marcel Wanders (Droog Design) una selezione di opere inedite di Accademia di Eindhoven - Fabio Novembre - Fernando e Humberto Campana - Riccardo Dalisi. All’interno della mostra la sezione “Il design che pensa”, curata da Giovanni Innella e Agata Jaworska, presenterà 12 progetti degli studenti della prestigiosa Design Academy di Eindhoven. Da giugno a dicembre partirà la sezione gli “Antefatti” a cura di Antonio Cassiano tra il Museo Sigismondo Castromediano e S. Francesco della Scarpa con la presenza di maestri ancora attivi e propositivi. Un percorso evolutivo della produzione salentina tra architettura e arti applicate. La terza piattaforma espositiva, a novembre, curata dai Cantieri Teatrali Koreja, è dedicata ad installazioni e pratiche performative basate sulla commistione tra vari linguaggi artistici dalla pittura, alla scultura, all’architettura, alla musica, alla poesia, al teatro ed a complessi meccanismi di visione. Il progetto sarà accompagnato da un’intensa attività di formazione con convegni, conferenze, seminari, proiezioni ed incontri a tema con i protagonisti del panorama nazionale.


EVENTI DAL GIOVEDÌ ALLA DOMENICA Appuntamenti alla Svolta di Lecce Proseguono e si intensificano gli appuntamenti della Svolta, un nuovo ristorante e jazz bar di Lecce, che si presenta con una ricetta i cui ingredienti principali sono la cucina semplice, rispettosa dei cicli naturali degli alimenti, e la musica jazz. Ogni giovedì serata “Casinò”, ogni venerdì spazio alla rassegna “Svolta classic jazz live”, serata all’insegna della purezza del Jazz e della buona tavola, ogni sabato jam session. La domenica infine (dalle 19.00) aperitivo a buffet e musica dal vivo brasiliana. Info 329 8455974 – 3924300512 MERCOLEDÌ 13 Tobia & The Sellers alla Suite 77di Maglie (Le) Il nuovo progetto di Tobia Lamare, leader degli Psycho Sun, è fatto di ballate acustiche che uniscono il folk di Neil Young alle asprezze dei Violent Femmes. Una manciata di canzoni che compongono un album dal titolo The party (in uscita nel 2009). Tobia Lamare mette da parte la chitarra elettrica e imbraccia la sua acustica per omaggiare, con i suoi nuovi brani, la musica che da sempre ha amato (Bob Dylan, Elvis, il blues, il country, gli Eagles). Insieme a lui il Seller Alfonso alla chitarra. The Phonems and Forest City Lovers alle Officine Cantelmo di Lecce Quante storie per un Caffè al Caffè Letterario di Lecce Mauro Pagani al Castello di Copertino (Le) GIOVEDÌ 14 La Banda del Tarantino al Jack & Jill di Cutrofiano (Le) Proseguono gli appuntamenti con la musica dal vivo al Jack and Jill di Cutrofiano (Le). Tutti gli appassionati dei film di Quentin Tarantino troveranno pane per i loro denti con l’esibizione della Banda del Tarantino. Sei musicisti alle prese con le più belle e famose canzoni tratte dalle colonne sonore di Kill Bill, Pulp Fiction, Le Iene, Dal Tramonto all’Alba, Jackie Brown, Grindhouse. Festival dell’energia – Lectio magistralis Decidere oggi l’energia di domani Piergiorgio Odifreddi al Cinema Massimo di Lecce La Lectio magistralis è tenuta da Piergiorgio Odifreddi (Professore di Logica matematica, Università di Torino). Tra i più noti divulgatori scientifici in Italia, Piergiorgio Odifreddi. nella Lectio Magistralis che apre il Festival, indaga le ragioni profonde che stanno alla base della necessità di un approccio laico alla scienza e alle questioni energetiche. Festival dell’energia – Grande Salento Orche-

KEEP COOL V EDIZIONE

Prosegue Keep Cool, la rassegna organizzata da CoolClub che questa’anno giunge alla sua quinta edizione. Mercoledì 13 maggio è la volta di The Phonems and Forest City Lovers all’istanbul Cafè di Squinzano. I Forest City Lovers realizzano canzoni potentemente e intimamente “strappacuore”. I Phonems sono un gruppo canadese basati sul songwriting di Magali, meglio conosciuta come chitarrista e batterista degli Hidden Cameras. Si prosegue sabato 23 maggio, all’Arci Novoli, con Casador e i Tecnosospiri. Casador è il nuovo capitolo in inglese nella carriera di Alessandro Raina, cantautore già voce dei Giardini di Mirò e oggi frontman degli Amor Fou. I Tecnosospiri, sono ispirati da un mondo culturale che va molto oltre le influenze musicali e di cui i Tecnosospiri si servono, per descrivere l’attuale “Stato in Crisi” dei nostri tempi. Sabato 30 maggio, sempre all’Arci Novoli, è la volta degli Ulan Bator. Il gruppo si forma a Parigi nel 1993 e fonde una miscela di post-rock dilatato, krautrock tedesco anni 70 e new wave. A giugno Keep Cool ospita i mitici Morlocks (13 giugno). Info: 0832303707; info@coolclub.it stra/Larry Ray in Piazza Sant’Oronzo a Lecce Il direttore d’orchestra è il Maestro Marco Della Gatta che conduce venti abili esecutori tutti diplomati al conservatorio e residenti nelle tre province del Grande Salento. Larry Ray è un soul singer di razza che stupisce per la capacità di mescolare Soul, Funky, Blues, Gospel, Jazz, Rap, Hip-Pop, Rhythm&Blues. Mascarimirì all’Obelisco di Lecce VENERDÌ 15 Fabio Mercuri al Kalì di Melpignano (Le) A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce Antonio Scarcella racconta “Ipotesi su Ulisse” di eventi 59


Antonio Mercurio. A seguire “Il complesso d’inferiorità” presenta “Senti nella nebbia il dire è la messa in Croce”. L’Odissea non è, come molti credono, un romanzo d’avventure né una celebrazione del “ritorno” a Itaca come altri pensano. È un libro sapienziale, così come lo è la Bibbia per gli Ebrei e per i Cristiani. Ulisse è l’archetipo principale dell’essere umano ed è una vera stupidità il fatto che sia conosciuto dai più per la sua astuzia e per i suoi inganni e non per la sua saggezza e per il suo coraggio con cui trasforma sé e gli altri che stanno rinchiusi nella loro solitudine narcisistica. Festival dell’energia – Energy Dancefloor SmartShortCut DJ/VJ set in Piazza Sant’Oronzo a Lecce Il collettivo di giovani artisti italiani si nutre dell’alchimia che le più attuali tecnologie dell’audio e del video permettono per la progettazione e la realizzazione di performance live. Produzione Elettronica, improvvisazioni Jazz e proiezioni su grandi schermi sono gli elementi che si mescolano per confondere gli spazi e trasformare la piazza in Club e DanceFloor. Il DJ/VJ set sarà accompagnato dalla simulazione di un Sustainable Dancefloor: una pedana che produce energia elettrica proporzionalmente alla quantità di pubblico danzante. Amorosi sensi – omaggio a Rina Durante a Villa excelsa a San Nicola (Le) Skatafashow – Cesko in ricordi di una vita al Teatro Don Tonino Bello di Presicce I Treni all’Alba alla Masseria Valente di Crispiano (Ta) Stonecutters + Cancrena + Reveries all’Arci 37 di Giovinazzo (Ba) SABATO 16 Festival dell’energia – Mondo Marcio + Piero Pelù con il progetto “Acquasantissima” in Piazza Sant’Oronzo a Lecce

Accolto con grande entusiasmo dalla stampa specializzata e indicato come un’ autentica rivelazione dai quotidiani e dai magazine più noti in Italia, Mondo Marcio è stato tra i primi a por60 EVENTI

tare il fenomeno dell’hip hop italiano agli occhi del grande pubblico. Il progetto di Piero Pelù con gli Acquaragia Drom, “Acquasantissima”, è un progetto originale ed unico nel panorama musicale italiano che vede sul palco un cantante e un chitarrista rock con una formazione di chiaro stampo tzigano. Nello spettacolo di 2 ore sono completamente riarrangiati in chiave “Rock and Rom”, brani del repertorio di Piero Pelù e degli Acquaragia Drom. Mavado, Nandu Popu e Don Rico al Finis Terrae di Lequile (Le)Ballarock dj set all’Istanbul Cafè di Lecce A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce Vito Bruno racconta il suo “Il ragazzo che credeva in Dio”, edito da Fazi, interviene Mauro Marino, a seguire Gianluca Longo, concerto di mandole per “Il mandolino storie di uomini e suoni nel Salento”. DOMENICA 17 Super - Design a San Francesco della Scarpa Lecce

Si inaugura, con un’intervista ad Achille Bonito Oliva sul tema “Lo stato delle arti”, domenica 17 maggio la mostra internazionale di design “SUPER”, curata da Marco Petroni nell’ex Chiesa S. Francesco della Scarpa nel centro storico di Lecce. All’interno della mostra la sezione “Il design che pensa”, curata da Giovanni Innella e Agata Jaworska, presenterà 12 progetti degli studenti della prestigiosa Design Academy di Eindhoven, centro di formazione d’avanguardia. Mannaggia a’ mort al Teatro Don Tonino Bello di Presicce MERCOLEDÌ 20 Sir Frankie Crisp alla Suite 77di Maglie (Le) GIOVEDÌ 21 Toromeccanica al Jack & Jill di Cutrofiano (LE) Maggio all’infanzia Bari


Si rinnova in Puglia, per il dodicesimo anno, il tradizionale appuntamento con il festival Maggio all’Infanzia della Fondazione Città Bambino, ideato e curato dal Teatro Kismet OperA di Bari e quest’anno realizzato in collaborazione con il Cerchio di Gesso/Oda Teatro di Foggia e con la compagnia La luna nel letto di Ruvo di Puglia: l’appuntamento è fissato dal 22 al 25 maggio. Spettacoli,laboratori, animazione, presentazioni di libri, la presentazione della rivista ‘Unduetrestella’ e incontri animeranno le piazze e le strade di tutti e tre i centri in cui il festival sarà presente, invitando tanto i bambini quanto adulti e famiglie e partecipare a momenti diversi e colorati. VENERDÌ 22 Dente al Kalì di Melpignano (Le) Giuseppe Peveri alias Dente, si avvicina alla musica dapprima come chitarrista dei Quic, passando per la band La Spina, per poi intraprendere la carriera solista, che lo porta nel 2006 a firmare per Jestrai, esordendo con il suo primo album ufficiale “Anice in bocca”. Nell’aprile 2007 esce “Non c’è due senza te” sempre per Jestrai. L’album è subito accolto con calore da pubblico e critica. A febbraio del 2009 è uscito “L’amore non è bello” (Ghost Records/Venus). Maggio all’infanzia Bari A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce Lino Angiuli presenta “Puglia in versi. I luoghi della poesia, la poesia dei luoghi” edito da Gelso Rosso, intervengono Maurizio Nocera, Antonio Errico, Pierluigi Mele, Piero Rapanà. A seguire “Da qualche parte Sandra” con Claudio Prima, Emanuele Coluccia e Sandra Caiulo Puglia, una e trina, costruita di Parole. Di sospensioni, di vertigini che salgono le cime dei campanili e caracollano nell’infinito della polvere di tufo. Che sanno il soffoco della pianura, la

LA TARANTA NELLA RETE

carezza e l’abbaglio del mare. Una Puglia cruda, amara dove “La migrazione del tempo collima con un canto sfibrato, l’aria è irrespirabile, (e) si va verso un futuro di privazione” così la leggiamo nell’Abbecedario dei migranti di Vittorino Curci dove Gamal “ha conosciuto una tristezza nuova”. Una Puglia una e trina, mai scontata, mai prigioniera di cartoline o dei doveri del marketing territoriale. La Puglia dei poeti, di chi, nell’essenza sa, la necessità del canto! Molti i nomi. Quelli a noi più vicini: Vittore Fiore, i due Vittorio: Bodini e Pagano, Girolamo Comi, Aldo Bello, Maurizio Nocera, Antonio Errico, Pierluigi Mele. SABATO 23 Casador e Tecnosospiri all’Arci di Novoli (Le)

Maggio all’infanzia Bari A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce Gino Pisanò presenta la poesia di Umberto Valletta; Fernando Rausa legge dal suo “Terra mara e nicchiarica” edito da Manni Focus sul Caucaso - Caucasian Chamber Orchestra al Palazzo dei Celestini di Lecce Il Focus si chiuderà con il concerto della Cauca-

Una mappa sonora territoriale, un concorso per band musicali, borse di studio, workshop e incontri d’autore, per un’iniziativa di respiro nazionale che parte dal Salento. La Taranta nella Rete è un progetto culturale organizzato dal Comune di Melpignano (Le) in collaborazione con Istituto Diego Carpitella, nell’ambito del programma Rete dei Festival aperti ai giovani, promosso dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e sostenuto dal Ministro della Gioventù, Giorgia Meloni. Le attività sono rivolte a laureandi, dottorandi, musicisti e studiosi con documentato curriculum. Sono inoltre previste, tramite bando pubblico, 10 borse di studio (sottoforma di vitto e alloggio) per garantire ai giovani non residenti nel Salento la partecipazione ai workshop e agli incontri. Il programma prenderà il via a maggio con il concorso nazionale Note per la “Notte” per giovani band (al di sotto dei 30 anni) che interpretano o rielaborano le musiche di tradizione, in collaborazione con il Mei di Faenza. La prima band classificata si esibirà sul palco del Concertone estivo di Melpignano, mentre la seconda e la terza band classificata terranno un concerto durante il Festival itinerante della Notte della Taranta.


sian Chamber Orchestra, diretta da Uwe Berkemer: il repertorio punta su pagine classiche e autori delle regioni caucasiche. Fondata nel 2003 da Uwe Berkemer, l’orchestra ha suonato in importanti sale da concerto europee quali Konzerthaus di Berlino, Hofburg di Vienna, Dôme des Invalides di Parigi, Sala Grande del Conservatorio di Bruxelles, ma dal punto di vista finanziario, il futuro dell’ensemble è in crisi e il complesso può permettersi di esibirsi solo nell’ambito di singoli progetti. OSS + Hobophobic + No Thanx alla Masseria Valente di Crispiano (Ta) DOMENICA 24 Maggio all’infanzia Bari Vernice Fresca - Lucia Manca in concerto al Convento dei Frati Minori Salice Salentino Persae ad Astragali Teatro a Lecce LUNEDÌ 25 Maggio all’infanzia Bari MERCOLEDÌ 27 Valeria Noceto trio alla Suite 77 di Maglie(Le) GIOVEDÌ 28 Rino’s Garden - Tributo a Rino Gaetano al Jack & Jill di Cutrofiano (Le) VENERDÌ 29 Intensive Jazz Quartet al Kalì di Melpignano (Le) A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce Giuse Alemanno racconta il suo “Le vicende no-

tevoli di Don Fefè, nobile sciupafemmine grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo”. Intervengono Elisabetta Liguori, Antonio Errico e Piero Rapanà. SABATO 30 Ulan Bator all’Arci di Novoli (Le) Zat + Ninive alla Masseria Valente di Crispiano (Ta) DOMENICA 31 A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce La poesia e i poeti. Irene Leo legge dal suo “Sudapest” edito nei Poet/bar di Besa; Ilaria Solazzo legge dal suo “Gocce nel deserto” edizioni Mancarella; Rita Rucco legge dal suo “Sensi di Versi” edizioni il Filo; Fernando Rausa legge dal suo “Terra mara e nicchiarica” edito da Manni. DALL’1 AL 5 GIUGNO “K- NOW” Showcase del teatro pugliese alle Manifatture Knos di Lecce Induma Teatro e Luoghi Comuni in collaborazione con le Manifatture Knos, ripropone, in continuità con lo scorso anno, la nuova edizione di “K-now”: cinque giornate dedicate interamente al teatro e, quest’anno, alla drammaturgia contemporanea. SABATO 6 GIUGNO Jonny Kaplan and the lazystars in concerto“Alli Matonni” ad Erchie (Br).

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