Coolclub.it n.59 (Novembre 2009)

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anno VI numero 58 novembre 2009

ALLEGRIA!



ALLEGRIA! Quando è morto Mike Bongiorno ero incredulo, non perché ci tenessi, ma perché la televisione non contempla la morte. La manda in onda ma non fa parte di lei. Ogni cosa nella televisione può essere riprodotta all’infinito e pertanto diventare immortale. Mike Bongiorno era sempre stato lì, fin da quando sono nato, ogni giorno, e pensavo che sarebbe stato sempre così: semplicemente questo. La mia generazione è di quelle cresciute con la televisione al posto della baby sitter che a suon di cartoni animati giapponesi, pupazzi di pezza e varietà ci ha fatto sentire super eroi in un mondo fantastico con la famiglia sempre invitata alle serate di gala più esclusive. La stessa televisione che è stata la nostra iniziazione sessuale, il “colpo grosso” consumato senza volume quando tutti erano a letto. Una cattiva maestra capace di creare esperienze, addirittura ricordi che sentiamo come nostri. Ecco perché è difficile parlare di televisione, come di qualsiasi cosa che noi riconosciamo come enorme. Non si sa da dove partire, quale direzione intraprendere e soprattutto dove si va a finire. Non si può essere oggettivi con la televisione. Non esiste una televisione di qualità, è quasi una contraddizione, perché credo personalmente che

la democratizzazione dell’offerta a cui è costretto un mezzo come la televisione crei inevitabilmente un appiattimento del livello culturale. Ma poi ci sono le eccezioni, sono tantissime, e si finisce per percorrere il tutto in direzione contraria. C’è l’altra informazione di Report, il nuovo modo di fare tv di Current, l’idea di fare un altro teatro in Tv di Marco Paolini, tutte persone ed esperienze che abbiamo raccolto per questo nuovo numero di Coolclub.it. Anche la musica è oggetto della tv: Mtv docet (ma non solo) e che anche l’intrattenimento può essere intelligente (il caso dell’ispettore Coliandro). Questo numero del giornale dedicato al più popolare dei media esce in concomitanza con This is it docu film che racconta gli ultimi giorni del re del pop Michael Jackson, un uomo ucciso anche dalla televisione. Segno che esiste anche una tv che fa male, quella spazzatura (la mia preferita), quella della lacrime a buon mercato, quella degli orrori, della finta informazione, della propaganda e potremmo continuare quasi all’infinito. Perché la tv è come lo specchio di Alice solo che dall’altra parte non c’è affatto il paese della meraviglie. Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 6 Numero 58 novembre 2009 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Pierpaolo Lala Hanno collaborato a questo numero: Massimo Arcangeli, Marco Chiffi, Valeria Blanco, Gabriella Morelli, Federico Baglivi, Alfonso Fanizza, Tobia D’Onofrio, Oscar Cacciatore, Vito Lubelli, Stefania Ricchiuto, Dino Amenduni, Vittorio Amodio, Roberto Conturso, Antonio Iovane, Valeria Blanco, Mauro Marino, Francesca Maruccia, Daniela Miticocchio, Fulvio Totaro In copertina: Mr Monoscopio Ringraziamo Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag. com, Radio Popolare Salento, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Radiodelcapo, Musicaround.net.

ALLEGRIA!

Un Bongiorno d’allegria 6 Parlate due o tre per volta 8 Dal palco al piccolo schermo - Marco Paolini 12 L’inchiesta nasce dalla curiosità - Milena Gabanelli 15

Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione con calma, contro ogni aspettativa. Non è vero non ci credete. Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: pierpaolo@coolclub.it 3394313397

musica

Giuliano Dottori 20 Radiodervish 22 Recensioni 24 Salto nell’indie - La Tempesta dischi 36 Libri

Nicola Lagioia 40 Demetrio Paolin 42 Recensioni 45 Cinema Teatro Arte

Jason Reitman 52 Dieci anni di koreja a Lecce 54 Recensioni 58 Eventi

Calendario 61 sommario 5


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UN BONGIORNO D’ALLEGRIA Mike, l’italiano e gli italiani C’era una volta la paleotelevisione. Era quella degli anni del monopolio (1954-1976), con la sua precisa identità di format e collocazione di generi, il suo deciso impegno educativo (anche sul versante della letteratura), le sue escursioni nel popolare e nel popolaresco, la cognizione del piacere dell’intrattenimento. In tanti, ipnotizzati dal piccolo schermo, hanno imparato dal maestro Manzi che non è mai troppo tardi; ma anche lui, il Mike nazionale, ha portato acqua al mulino dell’apprendimento dell’italiano, della sua diffusione dal nord al sud della penisola. È stato Umberto Eco, in un memorabile saggio, ad affrontare per primo il profilo comunicativo, fra il surreale e l’imbarazzante, di un “fenomeno” che avrebbe poi attirato l’attenzione di generazioni di studiosi e addetti ai lavori: semiologi e massmediologi, sociologi e linguisti. La sua allegria, di là dall’iniziale materializzazione del pressante desiderio di svago di un paese segnato dalla guerra, è stata soprattutto emblema di uno spettacolo che non può interrompersi qualunque cosa avvenga. L’evergreen Michele Bongiorno, decennio dopo decennio, ne è stato il più cinico, straordinario interprete: “Eccola qua” disse imperturbabile – era La ruota della fortuna – mentre una concorrente, accusando un mancamento, si accasciava a terra; la poverina si ripeteva una seconda e poi una terza volta e lui, sempre come nulla fosse: “Sta per svenire un’altra volta”; “Un momento sta svenendo di nuovo”. Con la neotelevisione, e quindi la neo-neotelevisione, quasi tutto è cambiato. Si è dissolto il diaframma fra format e generi, il ruolo formativo guai anche solo a nominarlo, pericolose le derive o le inarrestabili chine: dal terapeutico divertissement di un tempo, con i suoi felici scantonamenti nel ruspante sentimentale, alla cognizione del dolore dell’emotainment, con le sue teorie di piagnistei, le confessioni stracciacuori, gli intenerimenti a comando. Volgarità gratuite, risse da taverna, notizie-spazzatura hanno fatto il resto. Come si fa, in questo clima, a invocare allegria? Eppure Mike c’è riuscito. Ha recitato fino all’ultimo da Bongiorno mentre, intorno a lui, tutto precipitava. In quell’allegria c’era intero il senso di un italiano picaresco e un po’ briccone, impertinente

e farsesco, etichettato in tanti modi: deficitario, irriflesso, povero, informale standard… Era in realtà, l’italiano di Bongiorno, non molto diverso da quel che si potrebbe definire “parlato semplice”, incomparabilmente migliore dell’“urlato complice” di tanta sconcia, becera, cialtrona tv del Terzo Millennio. Gli perdoniamo così volentieri tutti gli strafalcioni (“Era ora che se ne vada a casa!”), le gaffe leggendarie, il machismo e i doppi sensi, gli impareggiabili slogan involontari di cui è stato campione. “Peccato, signora Longari, peccato”. Quanti giovani, che seguivano allora Rischiatutto, l’avranno detto negli anni Settanta per ironizzare su un insuccesso scolastico altrui. E quanto si sarà riso nel 1958, quando, di fronte a una concorrente che aveva avuto la stravagante idea di portare in trasmissione un gatto di pezza “collerico”, Mike pensò si trattasse del “nome di una nuova razza di felini” (“Corriere della Sera, 5 dicembre); quando pronunciò Pioics e Paolovì i nomi dei due papi Pio X e Paolo VI; quando, a una concorrente che gli aveva detto di lavorare in una legatoria, rispose quasi con candore: “E cosa lega?”; quando fece diventare una licenziosa bernarda l’innocente berlanda del testo consegnatogli dagli autori, correggendosi un attimo dopo l’esplosione d’ilarità generale (“Allora, attenzione donne, qual è il titolo di questa canzone? La filanda, La belinda, La bernarda? No, La berlanda, La berlanda”). “Guarda che più si è ignoranti meglio si funziona, eh sai, te lo dico io. Io per esempio sono ignorante, che son qua da quarant’anni”, disse una volta. Ignorante? Forse. Ma di quella geniale ignoranza che se ne infischiava degli svantaggi culturali e si rimetteva interamente al giudizio del suo pubblico. “Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo. E il pubblico lo ripaga, grato, amandolo”. Lo ha scritto Eco nella sua Fenomenologia. Si sarebbe volentieri appropriato, il re dei gaffeurs, di una nota affermazione di Sant’Agostino: “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi”. Ma chissà come sarebbe uscita dalla sua bocca. Massimo Arcangeli ALLEGRIA! 7


PARLATE DUE O TRE PER VOLTA

Dal pozzo di Alfredino ai tuttologi della domenica Mercoledì 10 giugno 1981, tardo pomeriggio. Alfredo Rampi, un bambino di sei anni, cade in un pozzo artesiano a Vermicino, vicino Roma. I tentativi di recuperare il piccolo saranno tanto disperati quanto vani, ma soprattutto in diretta televisiva. La Rai per la prima volta appronta una non stop di circa 18 ore – a tre reti unificate - per seguire l’azione dei soccorritori. Alfredino diventa in poche ore il figlio di tutti gli italiani. Circa 21 milioni di persone seguono questo avvenimento, come fosse Truman Show. Il bambino diventa protagonista del primo reality show all’italiana. Le immagini dei nani, dei contorsionisti, degli speleologi, dei vigili del fuoco che provano a calarsi nel tunnel scavato per raggiungere Alfredino fanno emozionare tutti. La voce rantolante del bambino raggela milioni di cuori. Le immagini del vecchio partigiano Presidente Pertini che si infuria con i soccorritori sono il simbolo di una Italia in difficoltà, sconvolta pochi mesi prima dal terremoto in Irpinia, dilaniata dallo scandalo della Loggia P2, preoccupata dal misterioso attentato al Papa e colpita dai ripetuti rapimenti e omicidi delle Brigate Rosse. Secondo molti, la storia di Alfredino segna la nascita della nuova televisione. Se quella delle origini era infatti una televisione pedagogica e pudica, dove i giornalisti Rai non potevano neanche permettersi di dire “membro del parlamento” e le Kessler dovevano coprire le proprie gambe lunghissime, dove un ombelico della Carrà creava scandalo e dove le spalle al pubblico di Celentano a Sanremo venivano considerate atto di lesa maestà, tra il finire degli anni ’70 e soprattutto l’inizio degli anni ’80 succede qualcosa. Intanto arriva il colore, considerato un male dal comunista Berlinguer, e poi approdano sul piccolo schermo le emittenti private. Come per


le radio libere, le tv private cambiano il mercato, aprono nuovi linguaggi, danno un senso al telecomando. Finalmente non esiste solo Carosello (morto nel 1977) ma esistono nuovi volti, sempre meno ingessati, che propongono un modo diverso di fare televisione. Una battuta ricorrente era: “L’unità d’Italia non l’ha fatta Garibaldi, ma l’ha fatta Mike Bongiorno”. Come l’hanno fatta Pippo Baudo, Corrado, Raimondo Vianello, Ugo Tognazzi, Enzo Tortora, Gianfranco Funari, Raffaella Carrà, Mina, Loretta Goggi, Renzo Arbore, Francesco Benigni, Maurizio Seimandi: ognuno a suo modo. L’Italia cambia e cambia intorno e davanti alla tv. Gli anni ’80, quelli del riflusso, hanno forse modificato in maniera indelebile questo paese. “La tv della gente per la gente ha modificato anche il rapporto con il pubblico”, sottolinea Norma Rangeri, critico televisivo de Il Manifesto. “Ormai la tendenza è invertita: la televisione (in particolare il servizio pubblico) ha smesso la sua funzione pedagogica, non raccoglie più il meglio del mondo artistico e giornalistico, ha abbassato il livello critico. I telegiornali sono la macchina della disinformazione e lo strumento principale attraverso il quale gli italiani formano un giudizio e decidono per chi votare”. Si è arrivati a tutto questo attraverso un imbarbarimento costante. Un primo scossone arrivò da Drive In la trasmissione cult degli anni ’80, la madre di tutte le veline. All’epoca si chiamavano Le ragazze Fast Food. Tutta una generazione di comici è nata o transitata dal contenitore creato da Antonio Ricci. Francesco Salvi, Zuzzurro e Gaspare, Giorgio Faletti, Teo Teocoli, Sergio Vastano, Carlo Pistarino, Maurizio Milani, Enzo Braschi, Mario Zucca, i Trettrè, Massimo Boldi oltre ai mattatori Enrico Beruschi, Gianfranco D’Angelo e Ezio Greggio (che poco dopo avvieranno la giosiosa macchina da guerra di Striscia la notizia) lanciano un nuovo modo di fare intrattenimento in televisione. Quelle che fino a pochi anni prima sembravano cose impossibili da dire e fare diventano normali. Ma è solo l’inizio perché da quel momento in poi il driveinismo sarà il modo costante di fare televisione. Da lì la tv è andata sempre peggio (o sempre meglio, dipende dai punti di vista) fino all’arrivo (ma siamo già nei 2000) 9


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del Grande Fratello e dei suoi derivati. “I reality hanno cambiato il volto e la funzione del piccolo schermo”, prosegue Norma Rangeri. “Hanno allargato il buco della serratura, modificando i confini tra pubblico e privato, riverbandone gli effetti sul brutto spettacolo della politica. Cancellando dalla tv la professionalità di un tempo con l’invasione della gente”. Inutile tirare in ballo la cattiva maestra televisione di Karl Popper, ma gli esempi negativi propinati dal tubo catodico sono veramente infiniti. Basti pensare a tutte le -ine nate in questi anni: veline, schedine, letterine, scossine e chi più ne ha più ne metta. Ma anche linguisticamente gli esempi negativi sono infiniti. E come non sottolineare la fama e la gloria di personaggi come i tronisti o i sip (self important person) famosi solo nel giardino di casa e per pochi istanti nei salotti degli italiani, che venderebbero anche la propria dignità pur di avere quei quindici minuti di celebrità preconizzati da Warhol. E poi c’è la cosa più fastidiosa di tutte: la tuttologia tautologica. Approfondimenti in cui ognuno può dire qualunque cosa su qualsiasi argomento. Una wikipedia gigante in tv e chi ascolta e vede è convinto che quella sia la verità. Una televisione che può ridere sguaiatamente, che è cafona, ricca di insulti ma che spesso non accetta di sorridere. “Abbiamo sempre fatto satira, irridendo anche personaggi di sinistra come D’Alema o Rutelli”, sottolinea Serena Dandini, che quest’anno ha avuto un po’ di difficoltà a tornare con il suo programma Parla con me su Rai Tre, accusata di essere eccessivamente di sinistra. “Il nostro stile è quello di una volta. Se non va più bene, non sono certo cambiata io, ma qualcosa attorno a me. La lottizzazione c’è sempre stata, ma prima lasciavano fare i programmi a chi li sapeva fare. Ora succedono cose che non avevo mai visto prima: se inviti un poeta, qualcuno si informa sul partito che ha votato e, se ha votato a sinistra, ti viene chiesto di invitarne uno che ha votato a destra. Così viene meno la voglia di osare, che è alla base della creatività”. La politica in tv è diventata spettacolo. Da Funari in poi, le ingessate tribune elettorali sono state sostituite dai talk show come Maurizio Costanzo Show, Porta a Porta, Matrix, Ballarò, i Santoro, i Lerner, i Piroso, i Telese e molti altri ancora. In Tv il politico non parla solo di politica ma cucina, canta, recita versi, si umanizza. Nell’era del bipolarismo imperfetto, il politico è una sorta di opinionista che a volte commenta distaccato addirittura quello che lui stesso ha fatto. Per non parlare del turpiloquio, delle baruffe in parlamento, delle risse in tv, del parlarsi addosso. Il grande Aldo Biscardi durante

una puntata del Processo del lunedì precisò: “Non parlate tutti insieme, al massimo due o tre per volta”. La televisione cambia, si evolve. Dal monopolio Rai siamo arrivati alla difficoltà di scegliere tra satellitare e digitale terrestre con centinaia di canali a disposizione. “Quando inventarono la televisione a schermo piatto dissero che la forma avrebbe cambiato in meglio anche il contenuto”, precisa la Rangeri. “Purtroppo così non è stato. Ora il digitale amplia l’offerta, quantitativamente. Per la qualità invece il discorso è diverso: perché l’aumento delle piattaforme senza una effettiva modificazione del mercato, senza la fine del duopolio, lascia le cose come stanno. Al contrario, Sky ha introdotto elementi di qualità”. In effetti non si può generalizzare sulla tv. Resistono ancora sacche di programmi interessanti e intelligenti sia sui canali tradizionali, sia su quelli satellitari. Ma è il bombardamento la cosa preoccupante. E l’emulazione è il dato peggiore. Chi come quelli della mia generazione è cresciuto a pane e televisione, vedeva i personaggi come qualcosa di inarrivabile, come qualcosa che era palesemente finto (tranne qualcuno che sperava di essere Brandon di Beverly Hills o Ridge di Beautiful). Perché quella era finzione, era fiction. L’emulazione scattava per una rock star, per un attore cinematografico, per uno scrittore, per un regista, per un calciatore (per quello che faceva in campo e non tra le lenzuola). Ora il tronista è il tuo barista, la star di Amici era la findanzata di uno che abita vicino casa tua, la velina era tua compagna di banco all’università: la televisione è reale. La storia fortunata di chi becca un pacco milionario è anche la tua. Non devi saper fare nulla, devi solo essere te stesso e sperare in una botta del “lato b”. E qualcuno invece di preoccuparsi di cosa passa il convento riapre l’annosa discussione sull’abolizione del Canone Rai. “La Rai è un’azienda pubblica e deve coprire i gusti di tutti, anche delle minoranze”, prosegue la Dandini. “Mi sbalordisce che si pensi di inviare il Governo a controllare se un programma politico è o non è conforme al contratto di servizio, come sta avvenendo per Santoro. Però mi fa venire l’idea per una nuova rubrichetta che potrebbe trovare spazio a Parla con me: si potrebbe chiedere alla gente per quali trasmissioni paga il canone e per quali vorrebbe non pagarlo”. La straordinaria storia della televisione italiana ovviamente continua... Pierpaolo Lala ha collaborato Valeria Blanco ALLEGRIA! 11


DAL PALCO AL PICCOLO SCHERMO

Marco Paolini torna su La7 con lo spettacolo Miserabili. Io e Margareth Thatcher in diretta dal porto di Taranto

“Ma come faccio senza pubblico?”. Si poneva questa domanda Edoardo De Filippo prima di registrare qualche sua commedia per la televisione. Il teatro senza pubblico, senza i respiri dello spettatore, senza la sua attenzione o i suoi sbadigli sembrava strano, innaturale al maestro napoletano. Nei primi anni della Rai la riproposizione televisiva fu usata molto. Ma quella era la Rai che doveva educare le masse. In Tv in questi cinquantacinque anni sono passati moltissimi spettacoli e sono stati fatti tanti esperimenti. Non sempre però il teatro in tv funziona: a volte annoia, a volte è collocato così male nel palinsesto che restare svegli diventa un’impresa. Raramente invece lo spettacolo teatrale diventa un evento televisivo. Cosa che accadde invece il 9 ottobre 1997. Prima serata su Rai Due. Un attore sul palco. Alle sue spalle le alte mura di una diga. Marco Paolini raccontò in un monologo serrato e struggente, la tragedia del Vajont che nella notte del 9 ottobre 1963 provocò circa duemila morti. Da quel giorno la storia del teatro sulle tv italiane forse non è stata più la stessa. Eppure il rapporto difficile tra televisione e teatro continua a esistere. Dodici anni dopo quel Vajont e con alle spalle numerose esperienze in tv, Marco Paolini torna su La7 (lunedì 9 novembre alle 21.30) affiancato dai Mercanti di Liquore con Miserabili. Io e Margareth Thatcher in diretta dal porto di Taranto. Abbiamo approfittato della sua presenza in Puglia per fargli qualche domanda. Il suo rapporto con la televisione è stato molto stretto, lei ha dato il via al ritorno del teatro, e soprattutto del teatro civile, sul piccolo schermo. Come è nata l’idea del Vajont in tv e come nascono questi nuovi progetti per La7? La televisione richiede lo sforzo di costruire il 12


contesto giusto senza l’artificio della finzione. Ci sono storie per le quali non esistono una diga di calcestruzzo (come per Vajont) o un hangar con rottami di aereo (come per I-TIGI Canto per Ustica). Per il Sergente era importante trasmettere il gelo, la fame, la desolazione e la disperazione della ritirata nel lungo inverno russo, abbiamo scelto una cava nel cuore di una montagna perché capace di evocare quel sentire senza il bisogno di scenografare la neve. Per Miserabili, che affronta temi economici, abbiamo scelto un porto sul tacco d’Italia, punto di incontro (e incrocio) tra merci e culture, luogo di contraddizioni e di economia reale. La diretta di uno spettacolo teatrale in TV non deve essere solo una ripresa di gesti e parole dentro una scatola. È una sfida aperta con un mezzo potente, che usura. E ogni volta che scelgo di andare in televisione è anche una sfida culturale. La7 ha condiviso con me un progetto, che si è articolato con le dirette televisive, ma anche con la produzione di documentari (Chi ga vinto, In tempo ma rubato, Ci resta il nome ndr), mi ha dato la disponibilità di passaggi in prima serata senza interruzioni pubblicitarie, ma soprattutto ha costruito percorsi articolati attorno al tema dello spettacolo. I palinsesti vengono ripensati per collegarsi all’evento della diretta. Ecco che la programmazione non ha un valore estemporaneo, ma prevede un progetto editoriale. Miserabili racconta della crisi economica. Miserabili è una riflessione sul contemporaneo che viviamo tutti. Si parte dell’economia, ma si parla soprattutto di cultura. Oggi non ci manca il pane, ma siamo “miserabili” perché abbiamo abdicato alle scelte sul futuro per affidarle all’onnipotenza del Mercato. È una “miseria” culturale, più che economica, quella di cui parlo nello spettacolo. Margaret Thatcher diventa un’icona di questa visione del mondo mercato-centrica. Nella sua visione, siamo tutti “uomini donne famiglie”, è scomparsa l’idea di comunità. Nel 1979 è cominciata una rivoluzione, anche se nei libri di storia non c’è. Vanno al potere l’ayatollah Komeini in Iran e Margaret Thatcher in Inghilterra. Da un lato si consuma il divorzio tra oriente e occidente, dall’altro inizia il “pensiero unico, pensiero stupendo”: il dominio del Mercato. Dopo la Thatcher - hanno scritto i giornali - tutto era in vendita. Perché ha scelto Taranto? Volevamo lavorare a Sud, volevamo rovesciare la prospettiva. Taranto è un crogiuolo di contraddizioni, dunque corrisponde all’universo che ci circonda, ma è anche punto d’arrivo delle merci dal mercato asiatico all’Europa. Faremo lo spettacolo sul mare,

a qualche km dalla terraferma. Da una parte c’è il porto, con i container e le merci dall’Oriente, dall’altra c’è l’Ilva, economia pesante. Questo luogo è l’incrocio dei mari e di mondi in movimento. In Tv oltre a lei sono passati spettacoli di Dario Fo, Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Marco Baliani (solo per fare qualche nome), ma spesso in orari ostici. Qual è il criterio seguito dai direttori di rete nella selezioni degli spettacoli? Forse la domanda va posta ai direttori di rete. Io ho avuto l’occasione di incontrare persone intelligenti, capaci, curiose. E i progetti si sono fatti, con cura. Il risultato è venuto, anche in termini di share. Credo che, in generale, il teatro possa far bene alla televisione nella misura in cui non si snatura. L’esperienza degli artisti che ha citato parla chiaro: un ripensamento dello spettacolo per essere portato sullo schermo è, in qualche modo, uno stimolo a crescere ulteriormente con quel lavoro. Qual è la differenza tra una sua “inchiesta teatrale” e trasmissioni televisive come Report o Blu Notte? Io non sono un giornalista. Io faccio teatro. Ho una stima sincera e anche personale per Milena Gabanelli e la sua coraggiosa redazione, ma Report fa giornalismo mentre io sono un attore. Blu notte è costruito ugualmente sotto forma di inchiesta, anche se più “romanzata”. Il mio lavoro, invece, nasce dall’urgenza di costruire un progetto artistico, un percorso di ricerca che mescola invenzione e storia, denuncia e ironia. Io posso permettermi di dire cose che un giornalista non può dire, perché l’informazione non è il mio mestiere. Ma allo stesso tempo ho bisogno di dire cose diverse da un giornalista, ma anche di mantenere il suo stesso rigore e precisione. Il mio lavoro nasce da un punto di vista, articolato e problematico, ma uno e personale. Credo invece che il buon giornalismo abbia bisogno di indagare i fatti osservandoli da più punti di vista. La musica è molto presente nei suoi spettacoli. Come mai? Dall’incontro con i Mercanti di Liquore è nato un lavoro che mette in musica parole e pensieri. Credo sia uno strumento efficace per raggiungere il pubblico, per colpire con alcuni concetti, ma anche per applicare un’ironia che nel parlato non ha altrettanto senso. Mi sono cimentato anche nella scrittura di testi per le canzoni ed è stata un’esperienza divertente, utile, mi ha fatto crescere. Pierpaolo Lala ALLEGRIA! 13


OUI, COLIANDRO C’EST MOI

Intervista a Matteo Bortolotti uno degli autori della fortunata serie Tv in onda su Rai 2 Oltre due milioni di spettatori a puntata per la fiction nata dalla penna di Carlo Lucarelli e giunta ormai alla sua terza serie. Gli ingredienti per il successo ci sono tutti: un attore bravo e telegenico come Giampaolo Morelli, una storia che funziona, personaggi comprimari originali e simpatici, i Manetti Bros alla regia e, forse soprattutto, una squadra di sceneggiatori, capeggiati da Lucarelli, che sanno decisamente il fatto loro. Matteo Bortolotti, scrittore bolognese classe 1980, autore di Questo è il mio sangue romanzo uscito con Mondadori, è uno di loro. Con lui abbiamo parlato di televisione, cinema e scrittura. Tu hai fondato una società che si occupa 14 ALLEGRIA!

di scrittura per il cinema e la televisione, dal significativo nome di Story First (la storia prima di tutto). Se è vero che negli Stati Uniti questa è una pratica consolidata è anche vero che in Italia è un’iniziativa del tutto nuova. Ci vuoi raccontare brevemente da dove nasce l’idea di creare una struttura del genere? Story First nasce dalla forte richiesta di professionalità nel campo della narrazione. Parlare di scrittura è riduttivo. Abbiamo cercato, negli anni, seguendo gli esempi del mercato anglosassone, di costruire una struttura, un laboratorio d’idee e non solo, che fosse qualcosa di più di un


gruppo di autori e creativi, abbiamo messo assieme una sana predisposizione all’impresa con una fondamentale tendenza all’artigianato, senza abbrutirci nel gioco perverso dell’artismo che domina il nostro Paese. Story First è un marchio che garantisce progettualità e autorialità, in grado di mettere in atto progetti sperimentali (abbiamo scritto videogiochi, pubblicità narrative, creato sinergie tra il mondo della letteratura e quello del cinema) oltre al lavoro pre-produttivo in cui ci siamo specializzati. Aiutiamo le produzioni a far nascere i loro film e telefilm, siamo ostetriche e dottori delle storie. Hai lavorato tra le altre cose alla sceneggiatura dell’Ispettore Coliandro, a mio avviso una delle migliori serie televisive italiane. Quanto conta nel successo di Coliandro il fatto che a lavorarci ci sia una “squadra” di scrittori? La squadra è tutto, e quella de l’Ispettore Coliandro è diventata ormai una grande famiglia che si estende dagli addetti alla scrittura fino a tutti quelli che partecipano alla realizzazione. Ci conosciamo tutti e siamo molto uniti. Il lavoro di Carlo Lucarelli è quello di un instancabile direttore d’orchestra, e lo fa con suoi colleghi di sempre come Giampiero Rigosi, me, Andrea Cotti... Tutti di Bologna, tutti amici da anni. Devo molto a ciascuno di loro, per la mia formazione di scrittore e sceneggiatore. Tranne in alcuni e pochi casi (penso alla serie di Romanzo Criminale, all’Ispettore Coliandro, o ad alcuni episodi di Crimini) la distanza tra la fiction italiana di genere e quella d’oltreoceano (e citiamo soltanto alcuni esempi come 24, The Shield, l’intramontabile C.S.I., Cold Case, Senza Traccia, i recenti Shark e Life on Mars) è ancora enorme. Secondo te si tratta soltanto di una questione di budget o è dovuta anche al coraggio di alcune scelte, come i temi trattati e il modo di trattarli? Il budget è comunque importante, ma dipende da come lo si spende... la storia viene prima di tutto. Se le produzioni in Italia investissero di più nella scrittura, probabilmente avremmo una televisione migliore, e chissà, anche un Paese migliore. Ok, ho dato una risposta troppo idealista per essere uno scrittore di noir. Una recente tendenza nella fiction americana è quella di scomodare giganti del cinema come Glenn Close, Harvey Keitel, James Woods, Tim Roth, che prestano il loro

volti ai protagonisti delle serie. Credi che questa potrebbe essere una strada che potrebbe prendere piede anche in Italia? Da quello che so, sono proprio gli attori del cinema che vogliono partecipare ai serial, e questo perché in America attualmente la migliore scrittura per l’audiovisivo è nella serialità. Le idee più coraggiose, i temi più pruriginosi, le passioni più coinvolgenti. La sperimentazione. In Italia da diversi anni i film tv hanno come protagonisti diversi grandi attori, ma dobbiamo combattere contro la superstizione che tende a distinguere troppo tra cinema e televisione e ci fa pensare che un prodotto televisivo dev’essere per forza studiato per un pubblico ebete. Sono sciocchezze tutte italiane. Più una storia è popolare, più dev’essere stupida? Andatelo a dire a Hugo, Zola, Checov... Come è cambiato secondo te il modo di scrivere per la televisione in Italia dal 1954 a oggi? All’inizio ci si arrangiava, ma lo si faceva bene. In Italia abbiamo avuto grandi autori televisivi e grandi sceneggiatori... non abbiamo mai avuto una vera e propria industria (nel senso buono del termine, perché c’è un senso buono). Ci abbiamo provato negli anni ‘60 e ‘70... poi qualcosa è cambiato. Si è creato un monopolio, non c’è più stata concorrenza (nel senso buono, come sopra). Chissà con l’apertura del mercato europeo... La televisione può essere ancora in qualche modo un mezzo potenzialmente “educativo” o è ormai definitivamente compromessa dall’affollamento di veline e programmi spazzatura? Trovo le veline molto educative. Ci dicono molto della direzione che sta prendendo la comunicazione in questo Paese, un’arma a doppio taglio, lo dico a tutti quelli del “partito del culo in primo piano”. La fiction di qualità può essere il nuovo veicolo per trattare temi sociali anche scomodi, mascherandoli magari con la facciata dell’intrattenimento? Le storie sono questo. L’intrattenimento può essere un mezzo velocissimo per comunicare agli altri, divertendo si possono dire molte cose. È importante non concentrarsi troppo su quello che si vuole dire o si rischia di diventare degli autori impegnati e soporiferi, bisogna far lavorare assieme l’autore e il bambino che sono in noi. Dario Goffredo ALLEGRIA! 15


In foto: Kurt Cobain

LA EMME MAIUSCOLA

Breve storia della musica in televisione È un dopopranzo infrasettimanale qualunque. Per strada ci sono macchine col tergicristalli acceso e pozzanghere che rischi di annegarci dentro. In casa non piove ma fa freddo uguale. Per assecondare la digestione salto con un agile e veloce gesto dalla ‘sedia del pranzo’ al ‘divano del tutteleore’. Parte lo zapping compulsivo e tra le centinaia di canali alla fine mi fermo sul più famoso canale musicale del pianeta dove c’è un programmino in diretta per adolescenti condotto dalla fidanzata di George Clooney (apparentemente sembrano parole messe a caso ma giuro che è vero). Total Request Live è uno dei programmi più fortunati di Mtv Italia. È all’undicesima edizione e conta quasi 2000 puntate. Peccato che secondo indiscrezioni sta per essere chiu16 ALLEGRIA!

so, o meglio ‘ridimensionato’, dopo che la crisi ha invaso anche i corridoi della direzione centrale dell’emittente. Ad inizio estate 2009 Mtv Italia ha licenziato 100 persone e per la prima volta ha dovuto affrontare uno sciopero dei dipendenti con tanto di striscioni e slogan. C’è crisi dappertutto, parafrasando Bugo. Quando si mette in mezzo Mtv ci sono sempre diverse scuole di pensiero. Una la vuole come il primo vero contenitore musicale mediatico, che ha favorito la diffusione e la popolarità di molti artisti e sviluppato il modo di fare musica ‘in video’; dall’altra parte invece c’è chi sostiene che Mtv sia la morte dell’indie-pendenza e di tutto ciò che è sotto-cultura (si sa che le cose alternative hanno il trattino in mezzo). Certo la tv più


amata/odiata dal mondo musicale è cambiata molto negli ultimi anni. Così per onor del confronto riesumo da un vecchio scaffale una VHS impolverata. È datata 1994. C’è registrato sopra uno speciale di Mtv sui Nirvana che qualche mese prima avevano pubblicato ‘In Utero’ e che poche settimane dopo avrebbero visto trapassare il loro leader. Il filmato è interamente in inglese visto che in quegli anni il segnale europeo era unico e tutta la programmazione e le classifiche e le pubblicità erano in inglese. I video di Cobain e soci sono inframmezzati da filmati di Pearl Jam, Depeche Mode, Stone Temple Pilots e tanta tanta pubblicità finché non esce anche Krist Novoselic che in un’intervista parla della difficile situazione in Bosnia all’epoca, e penso ‘diamine, questa è tv di qualità’. Le differenze tra il programma patinato e digitale del 2009 e la programmazione di 15 anni prima sono evidenti. Ma nel 1994 Mtv aveva già diversi anni di esperienza e di programmi di successo alle spalle. Il 1° agosto 1981 Mtv Music Television, canale televisivo statunitense di proprietà della holding Viacom, trasmette le sue prime immagini. Dopo un breve spot (l’allunaggio dell’Apollo 11 modificato con il logo dell’emittente), il primo video trasmesso fu Video Killed The Radio Star dei Buggles. Nel 1987 l’emittente sbarca sul vecchio continente e diventa Mtv Europe trasmettendo prima da Amsterdam e poi da Londra. Mtv arriva in Italia appoggiandosi a piccole emittenti locali per poche ore al giorno finché nel 1995 firma un accordo con Telepiù e trasmette così sulle frequenze del canale Telepiù 3 per 13 ore al giorno. Due anni dopo nasce ufficialmente Mtv Italia, il cui segnale sarà trasmesso sulle frequenze di ReteA. Il 1° settembre del 1997 viene organizzato il primo Mtv Day che lancia il canale tutto italiano della storica tv. Un sostanzioso cambiamento si ha nel 2001 quando Mtv Italia Srl viene rilevata dalla Telecom Italia Media che ha acquistato i canali TMC e TMC2 trasformandoli rispettivamente in La7 e Mtv. Questa è l’ultima vera trasformazione del canale musicale che in Italia diventa ormai tra i più seguiti dai giovani. Nel frattempo ReteA avvia la collaborazione con il canale tedesco Viva, cambiando nome in ReteA-All Music fino al 2004, restando però sempre un gradino indietro rispetto alla varietà che Mtv riesce a costruire sia a livello di programmi che di pubblico. L’offerta infatti cresce col passaggio al segnale satellitare. Nel 2003 nascono Mtv Brand New e Mtv Hits, due canali spin-off con una programmazione più mirata.

Mtv è una televisione che è cresciuta molto, sia a livello economico che di influenza culturale sui giovani e certo oggi non potrebbe pubblicizzare le camicie di flanella di 15 anni fa perché è cambiato tutto, dalle persone alla musica, al modo di fare/vendere musica. Non entro nel calderone internet e prendo in considerazione solo le tv. Nel 2006 ad esempio nasce Qoob un canale molto più alternativo e meno commerciale rispetto ad Mtv. In realtà già nel 2005 si chiamava Yos e trasmetteva filmati underground, cortometraggi e videoclip indipendenti. Poi divenne Flux e infine Qoob. Ora Qoob è anche un canale visibile in streaming sul web e produce diversi contenuti video e non. Eppure anche Qoob nel suo essere ‘diverso’ è un prodotto della Mtv Italia Srl. E il cerchio si chiude. All’esterno del cerchio poi c’è da ricordare Rock Tv, nata nel 2001 ad opera di Adriano Galliani (si, il figlio del vicepresidente del Milan; no, lui i capelli ce li ha e pure lunghi, da metallaro) e che si occupa di generi come rock, metal e varianti avendo anche un discreto successo. Riuscire ad essere credibili in tv è difficile. Se poi un canale come All Music ti propina anche The Club (una specie di community per idioti che è diventata la parodia di se stessa) allora si che non ci si riprende più. Però la credibilità non sempre coincide con la qualità. Il punto sta nel fare ascolti e avere pubblico. Il pubblico porta sponsor. Gli sponsor finanziano i prodotti. La solita storiella della domanda e dell’offerta. La stessa storia di qualunque rivista con molta pubblicità dentro che viene subito tacciata di essersi ‘svenduta al business’. Del resto anche Mtv nei suoi inizi aveva molta pubblicità e passava anche spot di truzze compilation dance che poco avevano a che fare con lo spirito della buona musica. I media sono business ed è inutile che ci si convinca del contrario. La musica prima di Mtv e delle televisioni musicali non prestava molto spazio all’aspetto video. C’erano i booklet dei dischi, c’erano le scenografie dei concerti o i costumi di scena che si prestavano alla sperimentazione di nuove forme e nuovi modi di esprimere la creatività oltre al nastro registrato. Con lo sbarco in televisione la musica ha sviluppato nuove forme, sia di realizzazione di videoclip, che negli anni è diventata una scuola anche per registi di professione, che di merchandising. Così Mtv è cambiata come son cambiati gli strumenti per ascoltare musica. E non chiedetemi che ci faccio ancora con delle VHS ed un videoregistratore funzionante in casa. Marco Chiffi ALLEGRIA! 17


L’INCHIESTA NASCE DALLA CURIOSITÀ Intervista a Milena Gabanelli, ideatrice e conduttrice di Report Quando si parla di buona televisione si cita sempre Report, la trasmissione di inchiesta di Rai Tre condotta e coordinata da Milena Gabanelli. La giornalista nel 1991 abbandona la troupe e inizia a lavorare da sola con la sua videocamera. Inizia a insegnare video giornalismo nelle scuole. “Ho iniziato per caso, con una collaborazione a Rai3 nel 1981. Un passettino alla volta, ho accumulato esperienza in una direzione che già da allora mi era ben chiara”. È difficile continuare a fare inchiesta in Italia. Report quest’anno ha rischiato, tra l’altro, di non avere la tutela legale. “Togliere la tutela legale, in un Paese come l’Italia, vuol dire che il giornalismo d’inchiesta non si fa più. Mi spiego meglio: nel nostro Paese si possono intentare cause civili per diffamazione anche in assenza del fatto diffamatorio. Ciò significa che si fanno richieste di risarcimento danni miliardarie solo per intimidire. In altri Paesi ciò non accade, perché chi intenta la causa per soli scopi intimidatori poi rischia, a sua volta, una sanzione per lite temeraria”. Report ha tredici anni di vita e molte querele alle spalle. “Sono in corso una trentina di processi. In tanti anni di trasmissione, però, le cause penali si sono sempre concluse con sentenza di assoluzione o archiviazione. Sul piano civile, invece, finora abbiamo avuto solo una condanna alla quale abbiamo presentato ricorso”. Le inchieste di Report sono serie e articolate, spesso durano anche mesi. “L’inchiesta nasce da una curiosità, da una documentazione, da fatti di cui siamo a conoscenza che poi si vanno ad 18 ALLEGRIA!

approfondire. In media, realizzare un’inchiesta richiede tre o quattro mesi, a volte anche un anno. Insieme al direttore di Rai3 io mi occupo di indirizzare, supervisionare e coordinare i collaboratori. E, ovviamente, conduco”. Spesso dai servizi di Report si riceve una spinta per cambiare le cose. “Quasi tutte le inchieste hanno conseguenze, se non altro perché qualche milione di persone che prima non sapeva una cosa, poi la sa. I cambiamenti veri, però, possono arrivare solo col mutamento dei comportamenti dei cittadini. Occorre cambiare i modelli di riferimento. Quando la classe dirigente è composta in gran parte da persone che agiscono nell’interesse personale e non per servire quello generale, o da persone incompetenti che invece di essere mandate a casa fanno carriera, è difficile sviluppare una cultura “morale”, in cui sia chiaro il confine fra ciò che è lecito e ciò che non lo è”. Non tutto però in Italia non funziona. “Abbiamo un modello di servizio sanitario pubblico che ci invidiano nel mondo. Lo dimostrano quelle regioni dove le cose funzionano perché i dirigenti sono scelti in base al merito e non con criteri clientelari. Certo, anche qui ci sono casi in cui la politica cerca di esercitare malamente il controllo”. Milena Gabanelli è anche un’attenta telespettatrice. “Si è portati a pensare che io guardi solo programmi impegnati, d’informazione. Non è vero: in tv guardo un po’ di tutto. Tutto quello che mi diverte e mi coinvolge, basta che sia ben fatto”. Valeria Blanco


DAL WEB ALLA TV

Davide Scalenghe racconta l’esperienza di Current Italia

Current Tv è un network televisivo internazionale fondato nel 2005 da Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti e premio Nobel per la pace. Si fonda sull’interazione tra web e tv e sul concetto degli User Generated Content, dunque conta sulla partecipazione attiva del pubblico che propone e fruisce dei contenuti. L’Italia è il primo paese non anglofono dove Current tv ha deciso di approdare poiché Al Gore è rimasto colpito “dal grande dinamismo degli italiani, dalla loro creatività, dal loro ingegno”. Current Tv ruota attorno al sito internet ma negli ultimi tempi si è anche affermata tra le emittenti più seguite in onda su Sky (Canale 130). “La partecipazione del pubblico al canale avviene su livelli diversi”, ci spiega Davide Scalenghe, trentenne Director, International Reporting e host del Vanguard per Current Italia. “Il primo è l’upload diretto sul sito dei video di breve durata realizzati direttamente dagli utenti. Tutti i membri della community possono così guardare, votare e commentare. In questo modo i video vengono portati alla nostra attenzione. La redazione sceglie così se acquistare il video e se mandarlo sul canale satellitare. Il secondo livello interviene poiché non possiamo pretendere che tutti sappiamo realizzare un prodotto televisivo valido. Abbiamo dunque deciso di accettare non solo video ma anche suggerimenti sulle storie da raccontare. Siamo poi noi a realizzare il video e a seguire questo approfondimento”. Internet e la tecnologia stanno cambiando radicalmente il modo di fare comunicazione, le fonti sono molteplici. Tutto questo rappresenta per molti la possibilità di fare informazione anche se con rischi sulla qualità dei prodotti che alla fine vengono proposti. “I limiti ci sono e sono grandi. Finché un prodotto rimane on

line è facile da gestire. Un video non montato bene è accettabile on line, il problema è trasportarlo in televisione soprattutto in un palinsesto come quello di Sky dove gli utenti hanno sottoscritto un abbonamento. A chi fa zapping non interessa da dove o da chi provengano i video. Si ferma se la qualità è di un certo livello. Quindi tutti i video che arrivano dal pubblico vengono finalizzati per cercare di massimizzarne l’impatto audio video”. Ma quali sono i temi di Current? “Non ci sono temi particolari. La maggior parte delle notizie e dei video che sono su Current non vengono trattati dagli altri canali. Pensiamo alle indagini sul Vaticano o ai video su Berlusconi. Poi ci sono i temi internazionali, i servizi di costume e società e la rubrica senza censura, dove si mandano spezzoni di video senza commento”. La trasmissione di punta del palinsesto è Vanguard. “Il team è composto da cinque giornalisti che firmano i servizi internazionali e che noi mandiamo semplicemente in onda. In Italia invece scegliamo dei contenuti e cerchiamo di realizzare il servizio coinvolgendo i video maker che avevano già proposto qualcosa sul sito. In questo momento collaboriamo con almeno una quindicina di persone, tra i 20 e i 40 anni, non tutti giornalisti professionisti o con il tesserino ma che abbiano la voglia di fare inchiesta, di raccontare una storia. Una volta che viene selezionato un tema si lavora a stretto contatto, sul concetto, sul testo, su come girare, su come montare. Cerchiamo comunque di non mandare in un posto qualcuno che non conosce la zona. Come dire cerchiamo sempre di scegliere giornalisti che conoscano bene il giardino della propria casa”. Gabriella Morelli ALLEGRIA! 19


MUSICA

GIULIANO DOTTORI Niente canzoni d’amore

Giuliano è un amico, una persona capace di conquistarti in poche battute. E la sua musica gli somiglia. Dopo l’esordio nel 2007 con Lucida Giuliano torna con questo Temporali e rivoluzioni. Registrato alle Officine Meccaniche di Mauro Pagani con la produzione del sempre prezioso Giovanni Ferrario il disco segna una nuova stagione musicale ed emotiva di Giuliano, un disco molto personale e intimo per certi versi per altri una riflessione sul tempo e i luoghi che viviamo. Canzoni che danno del tu ed un bellissimo invito all’ascolto. Lucida ci aveva conquistato, questo tuo nuovo Temporali e rivoluzioni ne rappresenta in un certo senso l’ideale continuazione, ma ci sono piccole grandi “rivoluzioni” al suo interno. Prima di 20 MUSICA

tutto nel suono, che appare più intimo per certi versi, più curato anche più aderente al senso steso delle canzoni. Che lavoro hai fatto? Di sottrazione? Di ricerca? O semplicemente passa il tempo? Per passare, ahimé, il tempo passa! Di base la differenza più importante rispetto a Lucida consiste nel diverso approcccio al lavoro. Il mio disco d’esordio è stato frutto di un lavoro molto lungo e a tratti maniacale, mentre Temporali e Rivoluzioni è in qualche modo una risposta a un momento emotivo molto preciso. C’è un’urgenza enorme in questo disco. Per questo è stato finito in un paio di mesi, mixato su banco, senza possibilità di tornare indietro. Il suono è molto più crudo, senza arrangiamenti sofisticati.


Inno nazionale del mio isolato è una canzone che parla della tua città, ma non è la sola occasione in cui ciò che ti circonda entra nelle tue canzoni. Quanto Milano, la sua scena musicale ma anche il suo clima in generale influenza la tua scrittura? Inno nazionale del mio isolato è una canzone sull’Italia di oggi, sui suoi orticelli e sull’individualismo sfrenato regalatoci da quindici anni di berlusconismo. Poi Milano, certo, è emblematica da questo punto di vista. Milano è piena di persone che si sfiorano ma non si toccano, che si salutano ma non si parlano.

di scrivere una canzone come Pezzi di vetro mi ritirerei subito dalle scene.

E poi l’amore, è in qualche modo il motore che muove molte delle tue canzoni, ma c’è di più c’è speranza, c’è resa, ci sono case e partenze. Il tuo modo di scrivere sembra vivere una nuova stagione fatta di liriche più tese legate ai sensi, alle metafore, ma anche al racconto. Ce ne parli? Sai sull’argomento “amore nelle mie canzoni” ormai me la vivo con rassegnazione. Credo che da un certo punto di vista sia colpa di Alibi che è senza dubbio la mia canzone più celebre e mi ha appiccicato l’etichetta di cantautore acustico che canta d’amore. Pensa che il primo disco era stato da alcuni criticato perché troppo incentrato sull’amore dimenticando canzoni come Nel cuore del vulcano o Milano e io, che sono per altro centrali in quel lavoro. Fino a qualche tempo fa me la prendevo pure per questa cosa, ma ora come ti dicevo mi sono rassegnato! In Temporali e Rivoluzioni non c’è nemmeno una canzone d’amore, né tantomeno una che si muova sulla solita tematica lei-mi-ha-lasciato-oddio-comesono-disperato. È un disco che parla di me, ma parla tanto di quello che mi circonda. Parla della difficoltà di cambiare il proprio sentire, dell’impossibilità di rinnovare ciò che ci circonda. È un disco molto amaro.

Questo disco segna una nuova avventura anche dal punto discografico, cosa è cambiato? Tra le tante cose, in cosa sei impegnato? Sappiamo di progetti anche qui nel Salento, ce ne vuoi parlare? L’esperienza del “Re non si diverte”, la mia prima etichetta, finì pochi mesi dopo l’uscita di Lucida. Vengo di fatto da due anni di totale autonomia e di totale autoproduzione, tranne che per i concerti. Se da un lato è certamente bello aver quel tipo di libertà, dall’altro mi sono reso conto che avere un team di persone con cui cofrontarsi e decidere ti apre molte possibilità. Da questo punto di vista mi trovo benissimo con Via Audio, una realtà senz’altro piccola che però ha molta voglia di crescere e ha le idee molto chiare su cosa fare e su cosa non fare. Per rispondere alle altre due domande, attualmente ho due grandi progetti oltre al mio personale percorso di cantautore. In primis ci sono gli Amor Fou, una band in cui sono ormai impegnato al cento per cento e con cui stiamo facendo belle cose. Abbiamo finalmente trovato una formazione stabile dopo le peripezie iniziali e questa cosa sta dando ottimi frutti. Stiamo ultimando il nuovo disco che dovrebbe uscire a inizio primavera 2010. L’altro grande progetto si chiama Jacuzi ed è il mio studio oltre che la realizzazione di un sogno (molto comune fra i musicisti, lo so), un luogo dove poter produrre, arrangiare e provare in totale tranquillità. Questo secondo progetto coinvolge in qualche modo il Salento perché in Jacuzi ho cominciato a lavorare con Lucia Manca, una cantautrice che ho conosciuto l’anno scorso in occasione di un concerto di Amor Fou. Siamo all’inizio del lavoro e dunque è difficile fare previsioni. Per ora l’obiettivo è semplicemente mettere insieme le canzoni del suo disco. Ma il talento c’è, quindi contiamo di tirar fuori qualcosa di bello. Osvaldo Piliego

Abbiamo già avuto modo di parlare della nostra passione per Ed Harcourt, il tuo sound non è propriamente italiano eppure le tue canzoni lo sono molto (nel senso più positivo del termine). Quali sono gli ingredienti di questo disco? Ed Harcourt resta sempre nel mio cuore, così come tanti altri artisti inglesi e americani: penso a Joseph Arthur, a Patrick Watson, a Sufjan Stevens. Dopodiché il sound di questo disco, grazie al produttore Giovanni Ferrario, è molto ‘old style’, vira più verso i Beatles o i Television. In Italia i miei riferimenti sono pochi: un disco per tutti, Rimmel di De Gregori. Fossi capace

Alla fine del disco si ha una strana sensazione … sospesa nel giudizio, come se il viaggio portasse a una mezza sconfitta, l’uomo che racconti, alla fine, vince? O è un pareggio? Questo disco ha un percorso tematico al suo interno e il finale è volutamente sospeso proprio per dare all’ascoltatore questa sensazione. Dunque ognuno è libero di darne l’interpretazione che vuole.

MUSICA 21


RADIODERVISH

Ascoltare il mare per raccontare storie Due anni dopo L’immagine di te i Radiodervish tornano nei negozi con Beyond the sea, da poco uscito per Il Manifesto. Un disco molto diverso dal precedente per scelta linguistica e sonorità. Il cantante palestinese (cittadino italiano da due anni) Nabil Salameh e il musicista barese Michele Lobaccaro, da oltre venti anni protagonisti di questo interessante esperimento musicale, abbandonano l’italiano (tranne un brano) e ripropongono invece un disco ricco di lingue. Nove brani in cui si alternano arabo, inglese, francese, spagnolo e italiano. Due anni fa Nabil sottolineava come “all’inizio venivamo etichettati come un gruppo italo palestinese ma la definizione credo sia molto più semplice. Noi siamo un gruppo dell’Italia di oggi, siamo il mosaico che rispecchia questa società multiculturale che è si evoluta che produce, crea, lavora”. Oggi i Radiodervish sembrano invece un gruppo dell’Europa contemporanea anzi del Mediterraneo per scelta di lingua e di suoni. “Non siamo un gruppo italiano o arabo”, sottolinea Michele Lobaccaro, bassista e autore con Nabil di testi e musiche, “e con questo disco abbiamo pensato ad un respiro 22 MUSICA

europeo e mediterraneo. Le lingue in cui scriviamo i pezzi sono legate alle sensazioni delle idee iniziali. Alcune sono rese meglio con una lingua piuttosto che con un’altra. Dietro ogni lingua ci sono una serie di emozioni, di paesaggi, c’è un immaginario che ti permette di navigare e di rendere più efficace emozionalmente il pezzo. Noi scegliamo le lingue come si scelgono gli strumenti. Ogni lingua ha un suono, ha determinate frequenze. È una questione di sonorità. È una scelta molto di pelle”. Anche le sonorità sono decisamente meno pop del precedente lavoro. Questo disco nasce sul concetto del mare, sull’idea che esso sia un contenitore, uno scrigno nel quale si sono riversate storie delle varie epoche. Volevamo far parlare il mare e metterci in una posizione di ascolto. Il disco è nato tra la Puglia e Gerusalemme, città ricca di sfumature spirituali diverse ma che allo stesso tempo richiede essenzialità. A partire dalle composizioni e dagli arrangiamenti, realizzati con Alessandro Pipino e Saro Cosentino, siamo andati alla ricerca


due protagonisti della Gerusalemma liberata di Torquato Tasso, o dalla Bibbia, come in Jonas. Dopo il primo concerto a Betlemme siamo tornati molte volte in Israele, abbiamo anche suonato a Tel Aviv. In questi viaggi abbiamo incontrato e conosciuto i musicisti dell’Orchestra, abbiamo condiviso molte esperienze e abbiamo voluto che fossero presenti nel disco. L’Orchestra è una realtà interessante perché rappresenta un esempio ideale di convivenza artistica e religiosa con musicisti cattolici, ebrei e musulmani.

dell’essenziale. Volevamo mettere nelle canzoni giusto il necessario, restando fuori dalla logica pop. Il disco coinvolge anche alcuni solisti dell’Orchestra di Nazareth. I vostri viaggi in Terra Santa sono sempre più frequenti. Nel dicembre 2007 abbiamo suonato a Betlemme in chiusura del Festival Salento Negroamaro. Era la prima volta in terra santa. Quello è stato il primo seme che ha generato questo disco. È nata infatti l’idea di un disco che si incentrasse, partisse e prendesse spunto dalla ricchezza di Gerusalemme. Da quel primo seme poi è cresciuto un progetto che si è allargato di molto, anche grazie all’esperienza della residenza che abbiamo fatto a Sannicandro. È nato un disco liquido perché ci siamo ispirati all’acqua, capace di penetrare dappertutto e di non rimanere mai uguale a se stessa, di adattarsi alle situazioni. Raccontiamo in qualche modo la grande saggezza dell’acqua. Le storie che narriamo nei brani attraversano il tempo, sono reali o fantastiche, ispirate dalla letteratura, come nel caso Tancredi e Clorinda,

Quest’anno avete portato in giro uno spettacolo con lo scrittore Carlo Lucarelli. Com’è nata questa esperienza? Qual è il tuo rapporto con la letteratura? Abbiamo scoperto che Carlo Lucarelli aveva scritto il suo romanzo L’ottava vibrazione ascoltando la nostra musica. È nata così l’idea di realizzare questo spettacolo con la presenza di Carlo sul palco. Una esperienza, quella di ospitare qualcuno che legge sul palco, che avevamo già fatto con Giuseppe Battiston per Amara Terra mia e con Teresa Ludovico per In search of Simurgh. Mettere insieme parole lette e canzoni è una dimensione che ci piace perché una cosa arricchisce l’altra. Le canzoni al fianco della lettura acquistano nuove sfumature. Si crea un gioco di specchi e di immagini più gustoso. La letteratura ha un ruolo fondamentale. È molto importante frequentare libri, romanzi, poesia, filosofia. Nello scrivere ti dà chiavi per poter leggere pensieri che hai dentro e che vuoi mettere nella forma canzone. Letteratura e musica possono diventare uno strumento di comunicazione efficace, i dischi nei quali c’è questa vicinanza sono dischi più interessanti. Secondo me anche la musica deve raccontare qualcosa che ti trasporta in qualche dimensione altra e che ti racconta. Il 20 novembre sarete in concerto al Db d’Essai di Lecce. Che tipo di live avete preparato? Quali musicisti vi accompagneranno? Che tipo di sonorità dobbiamo aspettarci? Sul palco io e Nabil saremo affiancati da Alessandro Pipino (tastiere, fisarmonica e clavietta), Riccardo Laganà (tamburi a cornice, darbouka, cajon, djembé, tombak) e Davide Viterbo (violoncello). Proporremo otto pezzi del nuovo cd e molti brani dei vecchi lavori. Il suono che abbiamo raggiunto e che proponiamo è quello più vicino a ciò che abbiamo sempre avuto in mente con sonorità orientali molto marcate. Pierpaolo Lala MUSICA 23


AMARI Poweri Riotmaker

THE CLEAN Mister Pop Morr Music

FRIGIDAIRE TANGO L’illusione del volo La Tempesta

In principio c’era un cono gelato, quello della copertina del disco, che cadendo(ci) di mano non toccò terra ma prese una forma nuova e diventò ‘coneta’. Con questa storiella semplice semplice gli Amari spiegano da cosa nasce il loro ultimo lavoro. Poweri parte da considerazioni sugli ultimi tempi nella penisola, da quel senso di perdita che diventa mutamento che diventa continua dinamica. Oppure no. Magari la storiella non vuol dire nulla e gli Amari ci stanno di nuovo prendendo in giro bonariamente. Però resta il disco, più vario e sempre efficace rispetto al precedente Scimmie d’Amore (2007). Ci sono pezzi che dopo pochi ascolti già ti ritrovi a canticchiare come Cronaca Vera e Dovresti Dormire. Poi quattro pezzi in inglese che se non sapessi che loro vengono da Udine magari sembrerebbero di qualche band elettro-qualcosa delle parti di NY. Il valore aggiunto degli Amari è di essere riusciti a evadere dai generi predefiniti e di avere un seguito molto eterogeneo. Con quel modo sempre un po’ giocoso e cialtrone che nasconde però un’attitudine tutta loro, quel ‘pop sbagliato’ che coltiva la Riotmaker da una decina d’anni. Insomma, assaggiate il cono e gustatevelo. Marco Chiffi

Per chi non li conoscesse, arrivano dalla Nuova Zelanda e sono attivi dal 1978, ma state attenti che l’anno di formazione inganna. Questi ‘ragazzi’ (?) hanno prodotto un disco - Mister Pop uscito su Morr ad Ottobre 2009 - che pare creato da indiekids, al massimo trentenni, che hanno immerso la loro adolescenza negli ultimi dieci anni di pop indipendente; ma altro che indie kids... qui mi ritrovo di fronte a gente che ha iniziato a suonare un anno prima che io nascessi! Ad un ascolto più accurato effettivamente la maturità del gruppo salta fuori e ritornano all’orecchio, nascoste da melodie twee-pop dolci e soffici, un insieme di storielle rock pescate tra new-wave, folk, psichedelia ed un po’ di shoegaze. Vogliamo scrivere che di tanto in tanto vi è anche una certa attitudine ai feedback da ricordare i Giovani Sonici? Scriviamolo. Dieci i pezzi che compongono il lavoro; tra i migliori del disco: Loog con organo un po’ Doors e feedback davvero eccezionali e sognanti sotto una voce che dire che ricorda la suadenza degli Air è dire poco; buona anche la ballata All Those Notes e la psichedelica Asleep in The Tunnel. Un disco molto piacevole, un bel colpo per la nuova Morr postelettronica. Federico Baglivi

Gli anni 80 sono stati per il rock indipendente italiano anni di fermento e contraddizioni, destinati a consolidare equilibri sociali, oltreché musicali, destabilizzati dall’avvento del punk. Un modo alternativo d’intendere e fare musica che coinvolse chiunque fosse in qualche modo interessato al fattore musica, un pentolone ribollente di creatività artistica. In questo pentolone traboccante d’innovazioni ci sguazzavano benissimo i veneti Frigidaire Tango. La band veneta ritorna finalmente in pista, con l’incontenibile Giorgio Canali alla produzione e il supporto logistico de La Tempesta Dischi: un sodalizio che ha fruttato un lavoro di pregevole fattura. Le canzoni sono coinvolgenti, ricche di estro e ben curate, sospese tra quel gusto tipicamente new wave e una tendenza a scavare nella canzone d’autore, mescolando tra loro le diverse culture. Ogni brano è una storia a se, frammenti di ´pura´ poesia musicata (Milioni di parole, L’acqua pensa, Paura del tempo e Poesia di luce) o veri e propri inni new wave (Normalmente triste, Natural mente, Dreamcity e New wave anthem). L’illusione del volo è un’opera di notevole spessore che entusiasmerà i vecchi fan e di sicuro ne attrarrà dei nuovi. Alfonso Fanizza

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CLOWNS AND JUGGLERS A tribute to Syd Barret Octopus records

DARIO CONGEDO & NADAN Le strade i clown

Shine on you, crazy diamond, lo splendore dell’opera di Syd Barret sopravvive al passare degli anni e ci presenta ad ogni ascolto una scintilla creativa ancora sorprendente per vitalità e originalità. il cofondatore dei Pink Floyd presto ritiratosi dalle scene ci ha lasciato poche ma fondamentali tracce. Dalla rivoluzione copernicana di The paper gets of down con in Pink Floys ai suoi the Madcaps laugh e barret il suo stile ha influenzato generazioni di musicisti ed è ancora oggi soggetto a cover e tributi. Come questo bel Clown and jugglers pubblicato da Octopus records, che coinvolge 14 artisti italiani più uno straniero (Roses King Castles progetto solista di Adam Ficek dei Babyshambles). La bellezza di operazioni come questa risiede nella sensibilità delle band che vi partecipano. Un gioco, a volte, che stravolge la natura del brano regalandogli una veste inedita e sorprendente. A volte invece è l’amore per l’artista che traspare ( ascoltate le versioni di Atari e Moltheni). (O.P.)

A chi ascolterà la sua musica per la prima volta, Nadan del musicista salentino Dario Congedo, rivelerà uno strato sonoro indipendente, pieno di immagini che partono da un impressionismo jazz ma solo per allontanarsene. Quattro strumenti sovrapposti per soffiare nelle strutture di fuoco dei brani originali di un batterista/ compositore appena ventiseienne che supera la prova dell’opera prima regalando agli ascoltatori dall’orecchio fino tracce piene di grazia. È prodotto e distribuito da Blue Serge questo piccolo capolavoro di cui certamente sentiremo parlare. Per chi ancora non conosce lo stile di Congedo, Nadan sarà una sorpresa felice. Un lavoro ispirato che rivela la straordinaria intesa tra il musicista salentino e le percussioni del suo set in continua evoluzione in grado di creare un mood fluttuante e ipnotico, visionario. Questa è musica onirica di grande presa mentale, i motivi strumentali del quartetto diretto da Congedo sembrano dar voce all’equivalente di quelle parti di sogno dimenticate e che improvvisamente ritrovano la strada della memoria come cellule melodiche che chiudono un tema aperto. Strepitoso il dinamismo di tutti i brani che compongono Nadan, sublunari e pieni di nuances crepuscolari certi processi di rivelazione ai quali Congedo ha dato titoli letterari con qualche omaggio alla poetica di Jodorowsky e al cinema di Fellini, basti pensare a Le strade e i clown, La pietra bianca, Il viaggio dell’eroe. É difficile trovare un ritmo così dilatato e al tempo stesso intimo, sulfureo, elegante, registri inconsueti, brillanti perché capaci di variare, improvvisi sprazzi di gioia musicale in un unico lavoro. Il risultato è a portata d’ascolto, una magica sospensione tra la musica che Congedo ha scritto oggi e che è già il suono di domani. (L.R.)

KIDDUS I Green fa Life Makafresh

Rockers è un mitico film del 1978 che racconta la cultura

reggae. A un certo punto del film compare lui Kiddus I in una scena che è emblema del reggae, lui in studio si toglie il cappello scioglie i dread e intona Graduation in Zion. Sembra incredibile ma un personaggio cardinale nella storia del reggae arriva al primo disco

nel 2005 grazie a un’etichetta francese. Da lì la rinascita di un mito che oggi pubblica un album bellissimo. Green fa life, è un disco in cui il reggae roots si lascia accarezzare da suggestioni caraibiche, piccole incursioni rock. A breve sarà pubblicato anche il suo album MUSICA 25


perduto Rebel music. Da non perdere. (O.P.)

FUCK BUTTONS Tarot Sport ATP

Per chi avesse perso il debutto un anno fa, i Fuck Buttons sono l’espressione psichedelica dell’elettronica noise, come AnimalCollective e BlackDice. Più misurati e meno dadaisti rispetto ai colleghi americani, i due ragazzi di Bristol adorano l’elemento tribale affogato dentro fiumi di rumore e lente progressioni lisergiche. Più accessibile di quanto si possa pensare, la loro musica è una versione testosteronica delle intuizioni fluttuanti di Labradford-Mogway e l’apripista del nuovo lavoro, con un trascinante beat dance, non è poi così distante dai rigurgiti ritmici di “port royal”. L’abusato termine harsh è quindi, a mio avviso, fuori luogo, soprattutto per la forte componente melodica di questa musica, abrasiva sì, ma non spaccatimpani, quindi distante dal noise tout-court. Il carattere epico delle melodie è evidenziato da Olympians, un possibile remix degli U2 eseguito da un Vangelis strafatto, e dalla conclusiva Flight…, dove sembra quasi di udire in sottofondo gorgheggi da soprano. Rispetto al debutto, l’album abbandona il cantato distorto 26 MUSICA

in favore, forse, di più orecchiabilità, ma il talento del duo è assolutamente confermato. Tobia D’Onofrio

PAPIK Rhythm of life Irma Records

PARAMORE Brand new eyes Universal

Nuova prova in dodici tracce per i Paramore, dopo il grande successo di pubblico per il precedente “Riot” e soprattutto per la composizione di Decode (nella colonna sonora di Twilight), brano tra l’altro inserito in questo disco e forse il più memorabile all’ascolto. In un lavoro dalle sonorità fresche e omogenee, tra l’emo e il pop-punk-rock, i Paramore si confermano attenti alle melodie anche un po’ ‘facili’ ma rese più interessanti da linee di chitarra semplici e funzionali soprattutto a supportare ed enfatizzare le eccezionali linee vocali di Hayley Williams, ottima la sua prova, specialmente nella succitata Decode e nella ballad The only exception; il resto del disco si assesta su un medesimo livello espressivo e strutturale e i pezzi della tracklist finiscono inevitabilmente con l’assomigliarsi tutti tra di loro: questo non è necessariamente un connotato negativo dal momento che non vengono assolutamente mai intaccate freschezza e godibilità complessive, coadiuvate anche da una produzione e un mixaggio impeccabili. Oscar Cacciatore

Questo new lounge capitolino sa di dolce vita, quella di oggi, dai ritmi che spingono sull’acceleratore del tropicalismo, hanno impresso nel ricordo l’acid jazz rivisto sotto l’egida onnipresente del “nu”. Ci sono poi fascinazioni orchestrali in stile swing cross over tra il grande Frank Sinatra e il più insipido Michael Bublé. Se fino a qualche tempo fa approcci musicali alla canzone jazz erano in Italia destinate a un pubblico di nicchia, il caso Mario Biondi sembra aver fatto il miracolo al punto da far sembrare la calda voce di Alan Scaffardi familiare. Tanti gli elementi musicali che compongono questo disco, come i musicisti che collaborano un disco sicuramente alla moda. Da segnalare le cover di E la chiamano estate, brano indimenticato di Bruno Martino, e Crazy degli Gnarls Buckley. (O.P.)

THE DEVILROCK FOUR First in line Unconform Records

Se avete almeno una t-shirt degli Ac/Dc nell’armadio, se nutrite sincero rispetto nei confronti di Danko Jones First in line fa per voi. The devil rock four sono l’ennesimo prodotto della scena rock and roll e come sempre la


qualità è ottima. Chili di hard rock una tonnellata di chitarra, ettolitri di birra e chilometri e palchi consumati. Questo trasuda dai riff, dalla voce graffiata, l’essenza di un genere che anche ripetendosi all’infinito non potrà mai stancare. Sembrano i cuginetti degli Hellacopters ma si presentano bene e hanno tutti gli elementi per diventare una grande band rock. (O.P.)

NDIDI O Move Together Naive

SOUL-JUNK 1960 SoundFamilyre

Geniale. Era geniale ai tempi di Trumans Water, quando incarnava l’avanguardia lo-fi degli anni 90, ed è geniale adesso, che prosegue nella sua destrutturazione-contaminazione della canzone rock, travestita da personale esperienza mistica. So parlando di Greg Galloway, qui ribattezzato Greg Galaxy per i Soul-Junk, che partendo dal titolo 1950, in un percorso di 13 anni e 11 album, arriva oggi a 1960. Sul fil-rouge della sua conversione al Cristianesimo (i testi sono biblici, ma c’è poca retorica), Galaxy ripropone un lungo lavoro fatto di 22 brani ed infinite suggestioni. Tanto power-pop, confessioni folk, incursioni hardrock, momenti crossover (Saturn Ring, Hangtime che quasi scimmiotta i Deftones), episodi più “regolari” che rimandano a Sebadoh e Afghan Whigs (la splendida ballata Forever O Lord), uno strambo hip-hop per fischi e xilofono (Ahasuerus), citazio-

Promettente debutto europeo per Ndidi O, ragazza canadese di origini afro-germaniche. Finally Over You parte col botto sfoderando fiati tex-mex e andamento funky in un brano che sarebbe stato un successone, se solo l’avessero scritto gli Spin Doctors o Jamiroquai. Poi No Everybody incalza restando fedele alla musica delle origini e accelera nel finale ricordando un’energetica Lily Allen priva dei vari orpelli ruffiani e techno-trendy. Wicked Lady è morbida e intensa: commuove l’angelica voce, graffiante e intrisa di soul, alle prese con atmosfere desertiche fra Neil Young e Morricone. Sorprende la naturalezza con cui Ndidi passa dal blues al jazz al folk, inscenando sobri teatrini in forma canzone. Goodnight si fa accompagnare da un violino folk che sobbalza in stridori singhiozzanti. La title track è un gospel blues per battiti di mani e slide guitar in cui Ndidi mostra la sua potenziale acidità, impennandosi in un’istrionica interpretazione (scomodiamo Billie Holiday?). Forever alterna un dolente soul ad un euforico cabaret anni ’30. In un periodo in cui la black music vanta un vasto pubblico e grandi interpreti bianchi, come NorahJones o AmyWinehouse, Ndidi non merita di restare confinata ad un localistico successo Francese. Tobia D’Onofrio

ni Sonic Youth (Sweeter Than Honey), duetti folk psichedelici (Zizzer), numeri incatalogabili e la cavalcata noise Teeth, trascinata da un cantato alla Donald Fagen, che si perde in elucubrazioni jazz-prog. Tanta urgenza creativa, poca maniera. Tobia D’Onofrio

DODOS Time to Die Frenchkiss

Dopo l’acclamato Visiter del 2008, il duo di San Francisco fa centro con un nuovo album prodotto da Phil Ek (Shins, Fleet Foxes, Built To Spill). MUSICA 27


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Ormai diventato un trio, grazie all’aggiunta di un componente al vibrafono, il gruppo californiano presenta subito il nuovo entrato su un ibrido incedere sincopato che unisce noise-rock e cantato latino. Poi Longform, tra gli episodi più intensi del disco, riparte con l’art-rock rocambolesco che li ha resi unici, fatto di instancabili parti percussive, fingerpicking schizoide (ed inarrivabile!) e melodie vocali in perfetto stile psichedelico, come quelle di un esotico Mc Cartney perso tra i Diamanti nel Cielo. Rasoiate e feedback di chitarra elettrica completano quindi il quadro, impreziosendo i (pochi) climax di brani altrimenti acustici. La riconoscibilità del trio è evidente e i pezzi si differenziano l’uno dall’altro. Tra momenti più riflessivi e virate più epilettiche e corpose, spiccano il chitarrismo sfrenato su percussività hardcore di This Is A Business, il disilluso acquerello di Two Medicines, il country-rock alla Andrew Bird di Acorn Factory e Fables che si lascia andare appena - nel finale. Tobia D’Onofrio

BLOODY BEETROOTS Romborama Universal

Spesso i talenti nostrani passano inosservati finchè non arriva la stampa inglese o americana ad additarceli. Sicuramente, il più delle volte, questi

talenti non cercano neanche un riconoscimento in patria. Sta di fatto che la musica dell’italiano Bob Rifo aka Bloody Beetroots è già stata consacrata all’estero, grazie a serie tv come CSI e famosi videogames come FIFA 09. Qui i territori di riferimento sono il DJing con approccio hardcore, l’elettronica onnivora stile Justice, così come la dance aggressiva dei primi Prodigy. Non mancano gli episodi più sinfonici che rimaneggiano musica classica (Have Mercy On Us, con il clavicembalo velocizzato su tanto di canto gregoriano, oppure 2ndStreets, con archi enfatici e vocoder), il digital hip-hop (Awesome), la citazione Aphex Twin-iana (Little Stars), il techno-dubstep (Its Better a DJ), il grime (Warp 1.9), l’immancabile omaggio al dark anni 80 (Make Me Blank), l’acid alla Chemical Brothers (I love). Il fiore all’occhiello dell’album è la copertina originale disegnata da Tanino Liberatore. Bob “Cornelius” Rifo ha certamente studiato bene la lezione. Tobia D’Onofrio

ENZA PAGLIARA Frunte de luna Anima Mundi

Enza Pagliara non ha bisogno di presentazioni. Non le occorrono per il suo volto e il suo corpo danzante, che la stigmatizzano come una delle principali e più note interpreti della tra-

dizione popolare e della pizzica salentina. Ma, ancora di più, non occorrono preamboli e presentazioni alla sua voce, unica e sempre più inconfondibile, che offre – se mai ce ne fosse bisogno – la prova della piena maturità artistica in questo Frunte de Luna, quindicesima pubblicazione nel sempre più ricco e completo catalogo di AnimaMundi. Non solo un cd con le limpide interpretazioni della voce leccese, dunque, ma un capitolo di una collezione pregiata e assolutamente di rilievo. L’artista riesce a farci ascoltare tutti i brani del repertorio senza momenti di stanchezza o ripetitività, cantando ogni brano, ogni riga, come se davvero fosse una continua scoperta. C’è sicuramente un grande lavoro di ricerca, per esempio nella scelta di pezzi poco conosciuti, accompagnati anche dalle voci (stornelli, cori, strofette recitate) delle contadine di Torchiarolo o, tra gli altri, di Raffaella Aprile e Pietro Orlando; ma anche nell’elaborazione di pezzi tradizionali, riletti appunto in chiave quanto più fedele e semplice possibile, con il supporto però di uno stuolo di musicisti che non ha lesinato sull’uso di moltissimi strumenti della tradizione pugliese e mediterranea: fisarmonica, mandola, tamburelli, violoncello, chitarra portoghese, cucchiai e persino la cetra corsa. Senza dimenticare che l’elemento di forza, il cuore solido di ogni brano è la parola. Testi d’amore, certo schematici, ciclici, ma sempre veri, penetranti, ancora più preziosi quando a cantarli è la voce della Pagliara. Che è, come ricorda Antonio Errico, sospiro e seduzione, eco ed energia, memoria e desiderio. Vito Lubelli

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MARCO ROVELLI LibertAria Autoprodotto

Sedici tracce indocili e riottose, narrate in forma di fumetto d’autore in un libretto interno altrettanto disobbediente. Ognuna è un punto di resistenza, un respiro di inquietudine, ma soprattutto una memoria fatta ad arte, distante da qualunque passato canonizzato e lontana dalla rabbia inibita della nostra contemporaneità. La ricerca di Marco Rovelli, e dei suoi compagni di progetto, recupera eventi della storia più incollerita, dalla Comune di Parigi- autentico tentativo di smantellamento dello stato nonché prefigurazione della società liberata- a Genova 2001 e alla mattanza che fu, passando per la rivolta delle nazioni indiane già narrata dai Wu Ming nel romanzo Manituana. Di tutti gli avvenimenti, Marco Rovelli e i suoi fanno battiti da ballata sgarbata, con la presenza costante di note armate e “corpi in guerra”, accalorati dalla ferocia dei giusti per rianimare ora la realtà della rivoluzione, ora l’esercizio della strada, ora la pratica della dignità. Ma c’è spazio anche per modulazioni più intimiste e contenuti personali - pur sempre attraversati da un sentimento collettivo, ché niente è solo interiore a questo mondo-, e infine per la ripresa dei temi affrontati dal Marco Rovelli scrittore, che nei due brani Il dio dei denari e Il campo ripropone le esistenze sacrificate ai processi di produzione,

LUDOVICO EINAUDI Nightbook Decca

Grande l’attesa per Nightbook, ultima creatura di Ludovico Einaudi. I fedelissimi non resteranno delusi perché viene confermata quella fortunatissima cifra stilistica che contraddistingue ogni uscita discografica del Maestro torinese. Le atmosfere in generale sono molto assorte e sospese come nella traccia di apertura, In principio. Il pezzo più efficace del disco è Lady labyrinth, sfoggio di sensibilità da parte di Einaudi e dell’ensemble ‘scomodato’: riuscitissimi e accattivanti gli interventi del leccese Mauro Durante (qui ai tamburi) e del violoncellista Marco Decimo. La title-track Nightbook appare ben ‘disegnata’ da loop melodico-percussivi al pianoforte che si accompagnano a gradevoli fill di archi e batteria. Indaco sembra ricalcare la struttura melodica di Primavera (da Divenire) per poi lasciare il passo ad una configurazione quasi da ballata pianistica. The Crane dance ricorda una ninna nanna e The planets ha un sapore marcatamente ambient: qui Einaudi tratteggia un loop ‘sospeso’ al pianoforte elettrico, il computer di Lippok fa il resto. Solo è la versione in piano solo di Nightbook, opportunamente rivista nel tempo e nelle dinamiche. Berlin song è la traccia di congedo, finale perfetto per un disco suonato con il cuore, come se ne sentono pochi di questi tempi. Oscar Cacciatore

e quelle consegnate ai luoghi di pena destinati ai migranti. Per un cd d’ascolto combattente che è soprattutto prassi poetica e politica dell’incontro, con i vari Daniele Sepe, Maurizio Maggiani, Wu Ming 2, Erri De Luca, Roberto Saviano, Yo Yo Mundi, Otto Gabos - per citarne solo alcuni- a fare più che capolino,

in grafiche e scritture e pentagrammi, tra un atto d’amore e una testimonianza d’eresia. Il tutto, richiamando in vita quella possibilità di movimento trasformativo oggi poco desto, e misurando ciò che è stato osato nell’attesa ansiosa che venga osato ancora. Stefania Ricchiuto MUSICA 31


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AVANTI POP

Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Paramore – Ignorance

Un siluro irrompe nelle playlist di molte radio. Era da un bel po’ di tempo che non si sentiva un pezzo capace di entrarti in testa così in fretta, pur non essendo spiccatamente commerciale. Certo, i puristi del punk storceranno un po’ il naso, ma questa rubrica si chiama Avanti Pop ed è vissuta come una sorta di provocazione al contrario. Il quintetto guidato da una strabordante Hayley Williams si candida a diventare punto di riferimento non solo per gli amanti del rock: Timbaland, ovvero colui il quale è riuscito a garantire l’ottava vita a Madonna, ha già preannunciato un’imminente collaborazione. Un brutto periodo per i puristi, davvero. Pearl Jam – The fixer

È il primo singolo del nono album (Backspacer) per la band di Seattle, che torna dopo 11 anni a collaborare con Brendan O’Brien. Ma questo ritorno al passato coincide con un insospettabile slancio verso il futuro. Eddie Vedder sembra vivere un momento di grazia, anche dal punto di vista dei testi, finalmente solari, forse come la stessa band, che ha probabilmente pagato l’eredità di “cugini dei Nirvana”, ma più come loro tara psicologica che nellla sostanza delle cose. Adesso sembrano liberi e liberati. Forse dobbiamo ringraziare Obama, citato dalla band come principale fonte d’ispirazione per Backspacer. Dopo il premio Nobel, un altro tributo, forse più pagano, sicuramente non meno nobile per chi ama la musica d’autore. Friendly Fires – Kiss of life Un singolo rimasto sciaguratamente in sordina per una band tenuta sciaguratamente in sordina. Difficilmente abbiamo sentito tanta sperimentazione in questi ultimi mesi un po’ grigi per la creatività musicale. Unire lo shoegazing

e la psichedelia, le chitarre e le percussioni, può essere sintomo di bulimia artistica, o, al contrario, di grande controllo. In questo caso, sembra emergere il secondo aspetto, ovvero la consapevolezza di essere in grado di maneggiare diversi stili e registri senza fatica. In Inghilterra, sono arrivati al successo anche se hanno dovuto penare. In Italia saranno ignorati? Julian Casablancas – 11th dimension Ha già 31 anni, ma riesce ad apparire eternamente giovane. Ha già 8 anni di carriera, sin da subito di altissimo livello, ma riesce a far sembrare innovativo il suo esordio da solista. Non sposta di molto l’immaginario già creato dai suoi Strokes, ma i giornali musicali di tutto il mondo rincorrono l’intervista esclusiva, manco fosse un dio sceso in terra. É Julian Casablancas, figlio del creatore della più importante agenzia di moda del mondo. Un ragazzo a cui non è mai mancato niente nella vita, bellezza inclusa, ma che ha avuto l’indiscutibile merito di essere diverso da tutti gli altri. E ancora più interessante. Kasabian – Underdog

Erano considerati gli eredi degli Oasis, che a loro volta erano considerati la copia sbiadita dei Beatles. Amatissimi sin da subito nella perfida Albione, sono chiamati ora a portare alta la bandiera del brit-pop in giro per il mondo. Una bandiera ai minimi storici in quanto a credibilità: i Gallagher si menano, i Blur giocano a nascondino, le chitarre hanno lasciato da tempo il posto alle voci femminili (soul, quando va bene; super-pop, negli altri casi), Pete Doherty si droga. Ora tocca a loro. Eterni gregari, “costretti” ad esplodere. E questa Underdog, a dirla tutta, lascia ben sperare. Dino Amenduni 33


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DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse... Burial – Fostercare

Il brano celebrativo per i 5 anni della Hyperdub, l’etichetta che ha permesso al Dubstep di diventare nuova frontiera del suono britannico, elaborazione malata e ancora più oscura del trip-hop, non sposta una virgola della cifra stilistica di Burial. E questo, per moltissimi, è un bene. Sonorità eteree e allo stesso tempo capaci di entrare nelle ossa, la ricerca ossessiva della decomposizione della voce, percussioni liquide. Tutto questo regala la sensazione che questo dj dall’identità ancora nascosta (persino agli addetti ai lavori) lavori perennemente sotto la pioggia. E invece, con tutta probabilità, si diverte a prenderci in giro con il suo laptop. Un brano forse impossibile per la radio o per MTV, ma sognare non costa niente. Florence and the Machine – You got the love (xx remix) Pur essendo un grande cultore dell’arte del remix, sarei un pazzo se pensassi che questo genere di rilettura sia in grado di migliorare gli originali. Qui, però, siamo davanti a un’eccezione. Questa versione di you got the love, quarto singolo dal fortunatissimo Lungs, album d’esordio di Florence Welch, è impreziosito dalla seconda voce, quella maschile, di Oliver Sim, frontman di questo quartetto in rapida ascesa. Giusto per farvi capire di che pasta sono fatti, gli XX si hanno studiato nella Elliott School di Londra. Se questo nome, come è logico che sia, non vi dice niente, vi interesserà sapere che qui si sono format il succitato Burial, i Four Tet e gli Hot Chip. Una specie di paese di balocchi dell’elettronica. Chase and Status feat. Plan B – End credits È possibile unire il pop con il drum’n’bass? É la missione impossibile di Chase and Status. Abili remixer, ma ad ora incapaci di produrre sforzi di

lunga gittata, sembrano aver imbroccato la strada giusta per l’inversione di tendenza. E lo fanno con Plan B, un altro musicista mostratosi sino ad ora piuttosto acerbo. Ad occhio questa collaborazione sembrerebbe un’unione impossibile, proprio per la diversità dei percorsi artistici. Ma andando a scrutare bene, noterete una certa comune “cattiveria” (C&S nei suoni, Plan B nei testi). L’unione, questa volta, ha fatto davvero la forza e non è possibile immaginare che l’anonimato duri ancora per molto tempo. Massive Attack – Pray for rain Non so dirvi se sette anni di attesa valgono questo brano, anche perché non è possibile notare grosse evoluzioni nel suono dei Massive. Un elemento abbastanza sorprendente, a fronte, invece, di un travagliatissimo percorso di avvicinamento al quinto album della formazione guidata da Robert Del Naja, che ha cambiato nome provvisorio non meno di tre volte e che ha conosciuto altrettanti rinvii. LP5, questo il titolo della prossima fatica della formazione di Bristol, aumenta l’attesa e la confusione. Aldilà del gossip, però, si continua a navigare su distese sicure, anche grazie alla voce di Tunde Adebimpe dei TV on the Radio, che impreziosisce proprio questo singolo. La Roux – I’m not your toy (datA remix) Stravedo per La Roux, non è un mistero. Ma qui non c’entra il campanilismo: abbiamo a che fare con una potenziale hit, buona almeno per le sale da ballo. La voce stridula di Elly Jackson si fonde con l’elettronica postFrench touch di datA, la combinazione sembra perfetta e schiude due carriere: quella della brixtoniana dal ciuffo celeberrimo, e quella del produttore e dj parigino, misterioso e inafferrabile come molti dei suoi illustri predecessori e, forse, ispiratori (Daft Punk e Justice su tutti). Dino Amenduni 35


SALTO NELL’INDIE

LA TEMPESTA DISCHI Ancora una tappa, ancora un appuntamento, un salto nell’indie. Questo mese tira vento di “tempesta”, etichetta nata sotto la guida dei Tre allegri ragazzi morti che può contare su un catalogo di tutto rispetto (Moltheni, Uoki Toki, Zu, Fine before you came, Giorgio Canali e tanti altri). Gli ingredienti sono semplici: amicizia e tanto rock and roll. Alla soglia dei dieci anni La Tempesta dischi è una carovana di artisti molto eterogenea, ma che sembra ritrovarsi e accomunarsi per un qualche strano collegamento empatico o musicale. Ce lo sveli se esiste? 36 MUSICA

Esiste eccome. Se hai passato più ore della tua vita dentro un furgone che da qualsiasi altra parte sei già un buon candidato. Poi c’è la poesia, e la poesia non è merce. Quando capisci questo, sei a tre quarti dell’opera. Tre allegri ragazzi morti sono sicuramente il punto di partenza e quello a cui tutto torna, da dove nasce l’idea di produrre, o comunque di investire su nuova musica? Sai com’è, andando in giro per tanti anni abbiamo avuto l’occasione di conoscere un circuito musicale che difficilmente trovi alla radio o su Mtv. Insomma, abbiamo cercato l’unione per avere più


forza. E perché crediamo profondamente nella forza sociale, politica e onirica di una canzone. Oltre a un evidente odore di amicizia ci sono nel vostro catalogo anche un fiuto non indifferente, mi riferisco ad esempio a Le luci della centrale elettrica, come si svolge il vostro “scouting”? Beh, Vasco Brondi era già in odore di santità col suo demo casalingo. Non ci voleva certo fiuto straordinario per capirlo, bastava avere le orecchie pulite. Inoltre Max Stirner ci ha aiutato a coglierne lo spirito ed è stato amore vero. Se il musicista è anche produttore, si abbatte quella sorta di gerarchia che è tipica del mercato? L’importante è che il produttore non sia uno che viene da un altro mercato, chessò, quello delle lavatrici, senza aver mai comprato un disco in vita sua. A mio avviso in ogni settore l’esperienza è fondamentale, e chi più di un musicista può capire un musicista, oltre alle groupie? Ci parli delle vostre ultime uscite? Beh, c’è pronto A sangue freddo de Il teatro degli orrori. Una bomba a mano. Poi sono appena usciti Cosmetic, Fine Before You Came, Frigidaire Tango. Stanno per uscire una raccolta dei brani migliori di Moltheni ri-registrati e il nuovo album de I melt. A gennaio: Il pan del diavolo. Ce n’è. Il disco in sé è fuori moda o credi sia un materiale resistente? È sicuramente fuori moda, ma in fondo io continuo a vestirmi con la camicia a quadri di quando avevo vent’anni e con le Clarks. La moda è una cosa che non mi interessa. Credi che la sopravvivenza per l’indie sia ancora e sempre nel furgone e nei chilometri? Ah ah, ho accennato a questa cosa nella prima domanda. “Indie” è un termine che non capisco più. Se esisti, fai un buon disco, vai in giro a suonare e la gente viene a vederti, se sposti anche solo di un millimetro chi compra un tuo disco: è fatta. Non hai certo bisogno che sia Radio Deejay a farlo capire alla gente. È chiaro che un grande pubblico fa piacere a tutti e lo raggiungi coi grandi media, ma forse i grandi media non possono sbilanciarsi verso qualcosa che trovano fuori standard, perché hanno paura di perdere lo stesso grande pubblico e quindi sono un po’ fifoni. È un gatto che gioca con la coda. Osvaldo Piliego

VASCO BRONDI Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero Baldini Castoldi Dalai edizioni

È decisamente buffo e inusuale leggere un libro e canticchiarne alcune frasi, alcune parole. È buffo e inusuale ma ti dà un senso di familiarità con il libro che leggi. Ti sembra di conoscere la persona che lo scrive, ne riconosci lo stile, alcune espressioni ricorrenti. E così mentre leggevo Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero di Vasco Brondi aka Le luci della centrale elettrica uscito l’anno scorso per una libreria indipendente bolognese e ripubblicato adesso da Baldini Castoldi Dalai con una nuova veste e nuovi contenuti era come se in realtà stessi ascoltando il disco del cantautore ferrarese. Il libro è stato definito un libro fotografico senza immagini per la capacità di Vasco di creare con le sue parole veri e propri affreschi. È un romanzo monologo, dove il vero protagonista è il vuoto. Vuoto fuori e vuoto dentro. Si ritrovano alcune delle frasi più belle delle canzoni che nel disco Brondi urla a squarciagola e nel libro assumono un nuovo ritmo, una nuova sonorità, più dimessa, più lirica e dal respiro più ampio. alcuni concetti vengono spiegati, approfonditi, ma sempre con uno stile estremamente criptico ed ermetico, sempre con un linguaggio, che poi è a mio avviso la forza dei testi delle Luci, un linguaggio che salta con grande facilità dal gergo giovanile e tossico ad alcune trovate linguistiche degne di nota. Finito di leggerlo il libro lascia in bocca un sapore amaro, acido, ti lascia addosso un senso di vuoto, che poi è sicuramente l’intenzione dell’autore. Ecco: l’intenzione. Sono sicuro che Vasco Brondi non avesse la minima intenzione di scrivere un manule ad uso delle nuove generazioni su come deprimersi guardando fuori e dentro dalla finestra. Quello che mi arriva non è un lamento, non è un urlo disperato. È, piuttosto, una fredda analisi, gelida quasi, di come stanno le cose. senza la voglia di cambiarle. Che, volendo, può anche andare bene. Dario Goffredo 37


In foto: Kings of Convenience

ON THE ROCK Dischi da ascoltare tutto d’un fiato 38


Sarà un caso che scrivo questo pezzo qualche giorno dopo l’unica apparizione in TV di musicisti degni di nota? L’appuntamento della Dandini è una delle poche cose che provo a non perdere (un attimo: non sono tra coloro che dicono “io la televisione, non la vedo... ecc”, no: non mi perdo neanche una puntata di Don Matteo, Un medico in famiglia, Santoro, Ballarò, Exit, Doctor House, Niente di personale... e Gad Lerner. Come faccio? Semplice, Fastweb registra per me, senza che io muova un dito, gli ultimi 3 giorni di programmazione delle 7 reti nazionali e io costruisco il mio palinsesto senza pubblicità...). Ma non divaghiamo, dicevamo dell’altra sera quando sul palchetto di “Parla con me” due ragazzini cantavano Mrs. Cold. Indossano calzini celesti e occhiali retrò... ricordano, mica poi tanto vagamente, Simon & Garfunkel dei tempi migliori. Certo non li scopre né la Dandini né io: i Kings of Convenience. Ma vederli lì, accanto al divano rosso di “Parla con me”, fa un certo effetto e stenti a riconoscerli. Il loro ultimo lavoro Declaration of Dependence, terzo album della loro breve discografia, registrato dopo una pausa di cinque anni, è, nelle loro intenzioni, “una protesta silenziosa contro la solitudine”. Music your parents like too recita il loro myspace e allora torniamo a Simon & Garfunkel che lo scorso 29 ottobre a New York hanno partecipato ai 25 anni della Rock ‘n’ Roll Hall of Fame, un quarto di secolo di una fondazione (e relativo museo entrambi con sede a Cleveland, in Ohio) nata per celebrare un’era musicale. Due giorni “stellari”, la prima sera sul palco si alternano Crosby, Stills & Nash, Simon & Garfunkel, Stevie Wonder e Bruce Springsteen con la E Street Band. Nella seconda sera, venerdì 30 ottobre, ci sono Aretha Franklin, i Metallica e gli U2. Crosby, Stills e Nash hanno cominciato il loro set con Woodstock e Marrakech Express prima di invitare sul palco Taylor, Browne e Bonnie Raitt. Paul Simon, che ha suonato pezzi del suo repertorio solista prima di presentare ed esibirsi con il suo partner Art Garfunkel. David Crosby e Graham Nash hanno eseguito con Simon Here Comes the Sun, scritta dall’ex Beatle George Harrison. Springsteen e John Fogerty dei Creedence Clearwater Revival hanno cantato insieme Pretty Woman di Roy Orbison e The Boss seguita da London Calling, un omaggio ai Clash. Il Boss inoltre ha presentato Sam Moore, metà del duo soul/rhythm and blues Sam and Dave, per eseguire Hold On, I’m Comin’ e Soul Man. Il canale americano HBO il 29 novembre dedicherà all’evento uno speciale di quattro ore, nel corso del quale verranno riproposti i momenti salienti delle due serate. Ad esserci...

Certo, se fosse stato ancora vivo, Johnny Cash avrebbe meritato un posto e a tenere viva l’attenzione sulla sua storia ci pensa ora anche Rosanne, primogenita nata dal primo matrimonio con Vivian Liberto. Quando era piccola, suo padre le diede una lista di 100 canzoni da memorizzare, le sue cento canzoni. Ora quelle cento canzoni sono diventate solo dodici e con l’aiuto di Springsteen, Costello, Jeff Tweedy e del produttore John Leventhal ne ha fatto un bel disco (sinora la sua carriera discografica non mi aveva entusiasmato). Tutte cover: The Long Black Veil, Heartaches By Numbers, Miss The Mississippi and You, Sea of Heratbreak, 500 Miles, Girl From the North Country alcuni dei titoli. Segnalazione d’obbligo per Guy Clark, uno che in 34 anni di carriera ha inciso solo 13 album, l’ultimo dei quali, pubblicato lo scorso mese, con il titolo Somedays the Song Writes You. Guy Clark è stato a lungo uno di quegli artisti molto amati da altri artisti di grande successo. Bob Dylan ha recentemente detto all’Huffington Post che Clark è uno dei suoi cantautori preferiti. Lui non è il solo. Clark è stato un pilastro della comunità Nashville, firmando brani classici, molti dei quali sono diventati successi per altri artisti tra cui George Strait e Rodney Crowell. A differenza del suo amico, il grande e compianto Townes Van Zandt, le canzoni di Clark sono sempre state di facile ascolto, ma ancora in grado di contenere livelli di profondità. Un ascolto è molto consigliato. Ed ora un capolavoro, non capita spesso, ma questa volta si tratta proprio di un gran bel disco. Tim Buckley, Live At The Folklore Center, NYC, March 6, 1967 è la registrazione di un concerto che vede Tim solo sul palco davanti a 35 spettatori presso quella che sarebbe diventata una delle più famose librerie di New York (di recente trasferita da MacDougal Street alla Sixth Avenue). Sedici brani di cui 6 mai pubblicati (avete letto bene) Just Please Leave Me, What Do You Do (He Never Saw You), If The Rain Comes, Cripples Cry, Country Boy and I Can’t Leave You Loving Me. Dopo aver inciso nove album che spaziano dal folk al avant-garde, nel corso di nove anni, Buckley è morto di overdose di eroina nel 1975 all’età di 28 anni. Suo figlio Jeff ha composto una delle pagine più belle della storia recente, quel Grace del 1994. Come suo padre, Jeff Buckley è morto troppo giovane, all’età di 30 anni dopo un annegamento accidentale il 29 maggio 1997, 12 anni fa. Una raccolta dal vivo di Jeff Buckley sarà pubblicata a breve. Per questo mese è tutto... Vittorio Amodio MUSICA 39


LIBRI

NICOLA LAGIOIA Non si esce vivi dalla Bari degli anni ‘80 Tre ragazzi, compagni di liceo, nella Bari di metà anni Ottanta, attraversano i quartieri per andare in periferia a cercare risposte al disagio che respirano in città. Una città che sta cambiando: il benessere sta raggiungendo nuove fasce della popolazione, la televisione commer40 LIBRI

ciale è da poco entrata nelle case degli italiani, ma “i cambiamenti scavano la fossa al vecchio mondo in modo che il suo crollo sia spesso molto silenzioso”. Il rapporto con i genitori, le amicizie, le prime esperienze erotiche e la scoperta della droga


sono gli elementi di un romanzo di formazione in cui la tensione non viene mai meno, accompagnata dalla sensazione di una catastrofe imminente. Ma Riportando tutto a casa va oltre il racconto di un’adolescenza. L’ostinazione del protagonista (e voce narrante) che molti anni dopo, torna sui passi di quella catastrofe silenziosa che ha colpito il suo gruppo di amici ci offre uno sguardo inquieto che, attraverso le vicende di un gruppo di ragazzi di una città della provincia italiana ci mostra uno spaccato dell’Italia degli anni Ottanta. La televisione è il tema di questo numero di Coolclub.it. Che ruolo ha nella storia che racconti? Negli anni Ottanta c’è l’arrivo della televisione commerciale in Italia e la televisione ha creato una vera e propria espropriazione dell’immaginario. L’impoverimento del nostro vocabolario, non soltanto alfabetico, ma emotivo ha seguito i destini della televisione. La televisione commerciale esisteva già negli Stati Uniti e in altre parti d’Europa, ma in Italia, essendo da questo punto di vista un paese un poco più arretrato, eravamo poco preparati a quel tipo di televisione, al crollo di quella diga e l’impatto è stato più forte, più disastroso. Nel libro alcuni eventi spartiacque sono la nascita del “Drive in” di Antonio Ricci (che in realtà critica il potere utilizzando la stessa lingua del potere cosa che succede anche oggi con Striscia la notizia); poi c’è la tragedia dell’Heysel che noi abbiamo vissuto televisivamente ed è stato una specie di reality dell’orrore. E poi Chernobyl che pure abbiamo visto in televisione ed è stata la prima paranoia del disastro ecologico, anche giustificata. Questa trasformazione di immaginario che è stata accompagnata, presa per mano dalla televisione commerciale, irrompe sulla scena in Italia negli anni ottanta. Il romanzo è ambientato a Bari. Che città era in quegli anni? Negli anni Ottanta io ero adolescente e Bari era un luogo in cui fare esperienza, era molte città in una. C’era il centro murattiano, fighetto, opulento, pieno di paninari. Poi bastava spostarsi un poco in motorino e c’era roba più alternativa. Era una città piena di gruppi musicali votati per lo più al post-punk e alla new-wave. Ti spostavi un altro poco e trovavi il CEP e Japigia, cioè i quartieri popolari. E Japigia era una sorta di Scampia ante litteram, all’epoca, un luogo di spaccio in cui i ragazzi di buona famiglia, come me, andavano a respirare un’aria completamente diversa. Scoprivano che c’erano persone con problemi,

facce, modi di vivere e di vestire completamente diversi dai tuoi. Come vivevano i ragazzi degli anni Ottanta le profonde mutazioni sociali di quel periodo? In quegli anni, quelli della mia generazione iniziavano sia pur confusamente, perché erano ragazzi, a prendere coscienza che saremmo diventati la prima generazione a crescere con minori prospettive rispetto a quelle dei nostri padri. Tutte le conquiste del Novecento cominciano a ribaltarsi negli anni Ottanta. I nostri genitori avevano vissuto la rivoluzione sessuale, a noi è toccato il fantasma dell’Aids. Le nostre mamme avevano creduto, grazie agli elettrodomestici, entrati in casa negli anni ‘60, che la tecnologia le avrebbe salvate, noi abbiamo vissuto con l’incubo di Chernobyl. I nostri genitori con una laurea avevano un lavoro, noi abbiamo capito che la laurea valeva e vale oggi quanto una licenza media poteva valere 40 anni fa. Quindi gli anni ‘80 sono una sorta di giro di boa in negativo per il nostro paese. In questo senso, questo romanzo è stato anche un modo per fare i conti con la mia generazione, un po’ tradita dalle promesse che le erano state fatte. Tutto il libro è percorso dalla sensazione di una catastrofe imminente sui giovani protagonisti. A distanza di molti anni dagli eventi raccontati, la voce narrante sottolinea come questa catastrofe ha cambiato il modo di essere delle persone. È qualcosa che ha colpito solo quella generazione? Non so se riguarda solo quella generazione, da quella generazione in poi è stato vero. Il concetto di romanzo di formazione è un po’ entrato in crisi perché il romanzo di formazione è la storia di qualcuno che ha una serie di problemi, di crisi di identità e poi si risolve. Per noi è accaduto esattamente il contrario, una specie di doppio salto mortale. Si inizia bene, c’è un guasto e poi ti devi riprendere da quel guasto. Da ragazzi si è più scoperti, ci si mette più in gioco, ti fidi più dell’altro. Io ti racconto di un incontro erotico, il lato sentimentale, quello più nascosto se credo di potermi fidare di te di potermi mettere nelle tue mani. Se la diffidenza quindi l’ostilità diventa il sentimento dominante come poi accade crescendo, e anche un poco l’aria che respiriamo, ti dai di meno e dandoti di meno si atrofizza ciò che è capace di entrare in contatto con la parte più profonda di te. A un certo punto si è prodotto un guasto. F.T. LIBRI 41


DEMETRIO PAOLIN Recuperiamo il senso del tragico

C’è un autore, in Italia, che rende l’inquietudine una risorsa di comprensione dell’autenticità, propria e del mondo. E lo fa con una scrittura che è atto di turbamento continuo e molesto. Anche per quest’atto, che io considero politico oltre che letterario, ho voluto porre alcune domande a Demetrio Paolin, ricevendo da questo scrittore “in tormento” risposte fedeli alla spietatezza narrativa che ho conosciuto come sua lettrice. Il mio nome è Legione è un libro “fastidioso”, incentrato sulla tematica del male come fonte di grazia. Nello scriverlo, avrai dovuto - credo - osservare e affrontare le inquietudini umane, i lati oscuri tuoi e degli altri, le bassezze più ignobili di cui anche gli animi candidi sono capaci. Come ha avuto inizio il tuo volgere lo sguardo verso tutto questo? E da quale momento lo sguardo si è fatto scrittura? L’evento che ha scatenato Il mio nome è Legione è il suicidio di un ragazzino di 11 anni avvenuto nei primi anni ‘90 al mio paese. Quella morte, così strana, senza un ragionevole o apparente motivo, mi ha colpito e mi ha portato a riflettere su quel mistero scandaloso che è il male. In questi anni, mentre andavo ragionando sul ro42 LIBRI

manzo, ho immaginato il male come una sorta di strato di polvere infrasottile che stava dentro ognuno, sopra ognuno, che copriva ogni cosa. Il male diventava veramente qualcosa di “panico”, che riguardava tutta la natura, i sassi, le rogge dei fossi, le piante e le persone. Era componente costitutiva del mondo e del suo esserci. Ho guardato queste cose e ho provato a dirle senza infingimenti. Forse questa scelta retorica, cioè di stile, ha reso il libro fastidioso e in alcuni casi sgradevole. Io non volevo ammiccare o fare l’occhiolino al lettore, al critico o al giornalista, ma dire quello che con sgomento in questi anni avevo sentito ed esperito su di me. La deriva psicologica che narri è intervallata spesso dal male sociale, e finanche “politico”. Tra le righe del tuo romanzo, interviene in più di un’occasione la memoria collettiva a “tappare i buchi” di quella più personale. Che significato ha avuto, per te autore, scegliere di incastrare tra loro questi due piani così complessi? Nel libro esistono alcuni personaggi pubblici come Renato Curcio, Moamed Atta e “la ragazza”. Tutti questi personaggi sono come delle figure che non rappresentano solo se stessi, ma


possiedono una sorta di sovrasenso che può essere così riassunto: quanto di bene c’è nel male che uno compie. Questi tre personaggi hanno, in maniera diversa, ucciso, fatto uccidere e compiuto stragi tremende. Penso che nessuno di loro tre pensasse di fare del “male” o di compiere del “male”, ma anzi agisse per un bene superiore. Credo anche che la deriva del protagonista Demetrio sia certamente psicologica, ma anche storica e sociale. Demetrio è figlio di dell’Italia che ha vissuto il terrorismo, dell’Italia che si domanda esterrefatta come possano succedere vicende come quella di Novi Ligure. Quando Demetrio imputa la colpa della sua esistenza a Renato Curcio, credo che voglia proprio sostenere questo: il suo essere un animale sociale. È corretto affermare che Il pasto grigio, tuo precedente romanzo, ha fatto da terreno preparatorio a Il mio nome è Legione? Il pasto grigio è un piccolo romanzo a cui sono legato in maniera particolare. Ha rappresentato per me la prima volta. La prima volta che ho preso la parola in pubblico e ho deciso di farmi pubblicare. Matteo, il personaggio del romanzo, ha qualcosa di Demetrio, in particolare la spietatezza con cui osserva i corpi altrui. Quella furia anatomica, una furia calma, mai sopra le righe, è la stessa che ho voluto che avesse Demetrio nell’osservare sé e gli altri. C’è anche un discorso legato alla lingua. Con Il pasto grigio ho incominciato ad affinare l’idea di una scrittura che non fosse in sé bella, ma che fosse a servizio delle cose che volevo dire. È una idea che mi sono fatto leggendo le lettere di Paolo, dove la vertigine e la bellezza del testo non derivano tanto dalla sua capacità come scrittore, ma dal piegare la lingua alle sue idee a quello che vuole comunicare. Sei sempre distante da qualunque “cancellazione del tragico”, una condizione letteraria - non solo letteraria - che hai indagato nel tuo saggio Tragedia negata, in cui offrivi una passerella critica dei romanzi, dei racconti e delle inchieste che avevano raccontato gli anni di piombo… La cancellazione del tragico porterebbe le storie che raccontiamo a una sorta di “non senso”. Le svuoterebbe, le svilirebbe. Io il tragico lo vedo come una possibilità che noi diamo ai nostri romanzi, alle storie che coviamo per anni, affinché diventino veramente universali. Recentemente hai curato un’intensa postfazione in forma di appunti per il libro Corpo morto e corpo vivo di Giulio Mozzi, in cui scrivi, tra l’altro, della pericolosità del “sentimento istantaneo” e dell’“indignazione a comando” nei

confronti di vicende di pubblico dominio… Il libro di Giulio su Eluana Englaro è uno dei libri più importanti e belli che io abbia letto. Il fatto di averne potuto scrivere una postfazione mi rende orgoglioso. Quello che tu noti è vero, nel mio intervento, dal titolo “Il corpo e il rito”, cerco di analizzare anche le forme della nostra indignazione. Mi pare che, volenti o nolenti, tutti siano molto simili al nemico che vogliono combattere. Non vedo differenza tra chi si indignava perché la povera Eluana doveva essere lasciata in vita o chi si indignava perché venisse concessa al padre la libertà di scegliere per lei. Entrambi gli schieramenti erano da una parte o dall’altra per partito “politico” preso. Nessuno in realtà è andato nel profondo di questa vicenda, nessuno ha guardato lo scandalo che apriva nella coscienza di ognuno. Non a caso, finito il can can mediatico tutto è tornato come prima. Questo è un libro importante anche per il periodo in cui è stato scritto. Giulio l’ha scritto in un mese, ad agosto, e io ho scritto la mia postfazione in una settimana, sempre in agosto. Questo significa che è un libro scritto in “vacanza”, nel vuoto, quando nessuno più pensava ad Eluana e alla sua vicenda. Cosa ha significato, per te che sei padre di una bimba, ripercorrere la vicenda di Eluana e Beppino Englaro? È stata molto dura. C’era in me un disagio forte che mi spingeva a tacere, a non riuscire a scrivere niente di preciso. Ho cercato di capire questo malessere mio e ho compreso che era legato al fatto che io avevo una figlia e stavo scrivendo non solo di un caso politico, ma del delicato rapporto che si instaura tra padre e figlia. Concludo chiedendoti di raccontarmi qualcosa in proposito ai tanti spostamenti che affronterai a novembre… A novembre sarò a Varsavia, all’Università, e interverrò all’interno di un convegno sulla letteratura italiana e le sue ultime tendenze. Parlerò di alcuni romanzi usciti tra il 2008 e il 2009, che mi sono molto piaciuti e che io ho visto legati, perché hanno messo sulla pagina un “discorso sul corpo”. Il titolo provvisorio del saggio è «Corpo e male». Sempre in quel mese, poi, sarò a Verona, Padova, Milano, Torino e Perugia, per «Il mio nome è Legione». Sono contento di poter presentare il mio libro alle persone, perché io scrivo per questo motivo, per poter vedere loro, per mettermi davanti a loro. Dopo averle turbate, commosse o schifate, sono lì, pronto a discutere e a mettermi in gioco. Stefania Ricchiuto LIBRI 43


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SIMONE SARASSO E DANIELE RUDONI United We Stand Marsilio

Passato presente e futuro. United we stand è un viaggio a ritroso nel passato, una spietata visione del nostro recente futuro, una riflessione fantapolitica che è critica del nostro presente. Famiglia, amore, politica. In United we stand i sentimenti, i legami di sangue, la guerra e la fuga diventano un gioco a svelare una trama che si dipana senza risparmiare bruschi colpi di scena. Carta, musica, web. United we stand nasce come una graphic novel per diventare una graphic net novel. Sul sito è infatti possibile accedere a contenuti speciali come i trailer, la colonna sonora, un “fonodiario”. Questo fa del libro un’opera totale, immaginata e realizzata per tutti i sensi. United we stand è l’inizio di un’avventura: quella di scritture tangenziali che allargano ed espandono il progetto di Simone Sarasso e Daniele Rudoni. Ma UWS è anche la continuazione, o meglio la proiezione nel futuro, del lavoro cominciato da Sarasso con i primi due volumi della sua trilogia

(Confine di Stato e Settanta). La visione apocalittica di un 2013 con una guerra termonucleare, un colpo di stato, un presidente del consiglio donna, lasciano comunque trasparire chiari riferimenti alla nostra politica e ricostruzioni precise a cui Sarasso ci aveva già abituato. In questo confine tra realtà e immaginazione il tratto di Rudoni aderisce con precisione creando tavole dinamiche, drammatiche e intense dallo stile dei grandi fumetti americani. In questo periodo in cui la graphic novel si impone come la nuova tendenza della lettura (e di conseguenza delle scrittura) UWS è una sceneggiatura robusta, un fumetto d’autore, un progetto in divenire, non è il primo caso di collaborazioni tra scrittori e illustratori, ma è certamente tra le migliori. Osvaldo Piliego

MARIA LUISA MASTROGIOVANNI Il sistema Il Tacco d’Italia

Peppino Basile, consigliere comunale a Ugento e in Provincia di Lecce (per l’Italia dei Valori) fu assassinato nella notte del 14 giugno 2008 con 40 coltel-

late. I media si affrettarono a liquidare il caso come omicidio passionale. I fatti portano invece a ben altri moventi che la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni cerca di ricostruire nel libro-inchiesta Il sistema. Scrive Antonio Di Pietro che ha curato la prefazione: “C’è un delitto, nel profondo sud di questo Paese, che non ha colpevoli. L’assassino circola liberamente, ormai quasi certo dell’impunità, ancor più tranquillo se garantito da complici o mandanti. Poi c’è un piccolo mensile, nel profondo sud di questo Paese, il Tacco d’Italia, che non si rassegna ad archiviare questa storia perché su quel territorio ha speso molte delle sue risorse etiche e professionali, smascherando grandi imbrogli edilizi, silenzi istituzionali, connivenze e indifferenze, che spesso sono peggiori delle prime. Anche in questo caso, il Tacco d’Italia fa il suo mestiere, come lo farebbero grandi testate nazionali per delitti più eclatanti: indaga, intervista, trova carte. E scrive. Del coraggioso lavoro di questa piccola testata non si accorgono i giornali e le tv locali, ma si accorgono l’Unità e Rai Tre che dedica al delitto due puntate, partendo dalle inchieste del mensile. Quella gran mole di documentazione è diventata oggi un libro”. Il sistema parte dalle intuizioni di Basile e dalle sue denunce, per ampliarle e approfondirle. È un doveroso omaggio postumo al suo impegno e verso le centinaia di ugentini e salentini che dalla sua morte hanno tratto il coraggio per uscire allo scoperto, in un movimento crescente di impegno etico e sociale. È l’eredità più bella che Basile ha lasciato: la voglia di riscatto, la rabbia, la nausea. L’impossibilità a girarsi dall’altra parte. La necessità di guardare la verità in faccia. Ma anche credere che il cambiaLIBRI 45


mento sia una strada percorribile, per “questa nostra tanto amata terra”.

NICOLÒ AMMANITI Che la festa cominci Einaudi

Mmh, insomma, così così. Con un rapido montaggio alternato, schizzano lungo le prime pagine la storia di una squinternata setta satanica che cerca un’occasione di riscatto; e quella di Fabrizio Ciba, scrittore in disarmo creativo che vive della spinta propulsiva di un suo ormai vecchio romanzo. Le due vicende confluiscono nella megafesta che il palazzinaro Salvatore Chiatti ha allestito (a. d. 2004) nella romana Villa Ada, ora di sua proprietà, che ha riempito di bestie esotiche. E qui si innesteranno un safari (con epilogo alla Jurassic Park), e la vicenda di alcuni atleti sovietici dissidenti che, durante le olimpiadi romane del ’60, erano fuggiti, si erano nascosti nelle catacombe di Priscilla e ora riemergeranno come zombie proprio in occasione della festa. Che la festa cominci è un libro nato già vecchio. Nulla di male a raccontare una storia totalmente improbabile. Ma imperdonabile è la sensazione di 46 LIBRI

un libro scritto in una caverna platonica dove fumetti, cinema e fantasy ispirano altri fumetti, cinema e fantasy, in una catena seguendo la quale non si atterra mai. Ecco, in Che la festa cominci manca l’atterraggio non sulla realtà, ma sul vero. I dialoghi sono falsi. I pensieri sono falsi. Nessuno parla e pensa come i personaggi del libro. Non ci si riconosce mai, qui dove la fantasia si ispira alla fantasia, quasi nulla è autentico, tutto è superficie. Si salva la lezione calviniana sulla rapidità (ma non è detto che non sia un sentiero dannoso), l’uso sempre esplosivo della metafora, l’effetto comico di questa setta de noantri e la breve lectio magistralis sulla “figura di merda”. Ma forse è il momento di dichiarare che un’epoca – postmoderno, cannibali, riflusso fantastico – è fatalmente morta. Antonio Iovane

TODD HASAK LOWY Prigionieri Minimum fax

Uno sceneggiatore in crisi esistenziale, un rabbino attratto da droghe sintetiche ed un eccentrico agente con disturbi di personalità, sono i personaggi di Prigionieri, primo romanzo dello scrittore americano Todd Hasak Lowy. Daniel Bloom è

uno sceneggiatore e Prigionieri, o meglio Luna di miele a Helsinki come viene riadattata per il grande schermo, è la sua opera di maggior successo, in cui azione e violenza sono direttamente proporzionati agli incassi al botteghino. Malgrado la fama, Daniel è alle prese con una serie di dilemmi esistenziali. La nuova sceneggiatura alla quale sta lavorando parla di un serial killer che semina il panico fra le famiglie dei dirigenti di alcune multinazionali, una trama che alimenta la sete di vendetta del pubblico desideroso di veder soffrire, anche solo per pochi minuti, coloro che infliggono dolore e perdite a migliaia di famiglie americane, ma che fatica a trovare spazio nell’omogeneo mercato hollywoodiano, nonostante il lavoro di Max, Holden, Kane, o quale che sia la nuova identità ricoperta dal suo agente. Sul fronte familiare, invece, Daniel tenta di ricucire il rapporto con la moglie Caroline e di stabilire un dialogo con il figlio Zack, in età di Bar Mitzvah. Il passaggio del figlio all’età adulta offre a Daniel la possibilità di organizzare insieme un viaggio in Israele. Quella che doveva essere una vacanza di famiglia, si trasforma ben presto in un viaggio solitario che avvicina Daniel verso le radici della propria fede e verso il lisergico rabbino Brenner. Todd Hasak Lowy debutta con un romanzo divertente, che utilizza la satira per porre in evidenza la difficile realtà economica e sociale dell’America post undici settembre, una società tenuta sotto il controllo di una classe dirigente che fa della strategia del terrore la sua arma vincente. Una scrittura brillante e ritmata da lunghi ed inconsueti dialoghi che come in una sceneggiatura, rappresentano il punto di forza del tessuto narrativo. Roberto Conturso


ALESSIO ARENA L’nfanzia delle cose Manni Editore

Forse le affinità tra il rione Sanità di Napoli e il quartiere Lavapiés di Madrid, il quartiere dei gitani, non sono poche. E non sto parlando di quei semplici e banali luoghi comuni ch potrebbero venire in mente a chiunque associando due popolazioni così diverse eppure forse così vicine, almeno nell’immaginario comune, per colori, suoni, riti. Ne L’infanzia delle cose di Alessio Arena, uscito per Manni nella bella collana Punto G, di luoghi comuni non ce n’è nemmeno uno. Ci sono grandi invenzioni piuttosto. Linguistiche, in un coloratissimo e dolcissimo pastiche tra lingua dolescenziale napoletana, spagnolo e gitano. Di personaggi, uno più incredibile dell’altro eppure tutti realistici. Di situazioni, che si muovono in equilibrio perfetto tra comicità, tragedia, umorismo e commozione sincera. Il tutto legato da una magia che protegge e spaventa, che incuriosice e ammalia. La storia è quella di Antonio, che racconta in prima persona

le sue avventure, quindicenne napoletano che dopo la morte per overdose del padre, cantante neomelodico in odor di camorra, si trasferisce con la madre e la sorella a Madrid, nel quertiere di Lavapiés, appunto, in una strada dove tutti i negozi sono stati rilevati dai gitani, che “sono i padroni del mercato. I gitani sono i padroni di tutti i negozi di Lavapiés. I gitani sono i padroni di Lavapiès”. La vicenda si sviluppa scoppiettante in un crescendo, orchestrato perfettamente da Alesio Arena, di situazioni e colpi di scena, dove si inseguono e rincorrono violini e cani, incendi e scarafaggi, cadaveri e monnezza. Dario Goffredo

MARCO ROVELLI Servi Feltrinelli

L’ultimo agghiacciante reportage narrativo di Marco Rovelli svela il sottoproletariato contemporaneo, composto dai tanti individui clandestini che in Italia - e non solo in Italia – sono ridotti a oggetti di fastidio, e nello stesso tempo a fattori di

ricchezza. Ad uso e consumo di pregiudizi insostenibili e infiniti maltrattamenti, la loro invisibilità è adoperata al fine di fabbricare dispositivi da “negazione del diritto”, e meccanismi utili alla logica del “razzismo culturale”. Nella cosiddetta “irregolarità”, di fatto si annidano ingranaggi stritolanti la dignità umana, che producono una classe di lavoratori impercettibili ma esistenti, la cui inosservabilità accresce e rafforza un’economia italico/globale fondata sugli abusati dall’attuale capitalismo. Per dare voce ai nuovi dannati della produzione, Marco Rovelli anche stavolta va oltre ciò che ci è dato di vedere, e aguzza lo sguardo tra le maglie strette del sistema, allertando la capacità critica, scatenando l’opposizione della penna, e raccogliendo le tante storie che abitano la quotidianità di una “potenza totalitaria”- il lavoro scorretto- drammatica e non riconosciuta, che non contempla garanzie ed attua solo prevaricazioni. E lo fa componendo un diario brutale, a tratti quasi importuno, che registra la condizione dei tanti corpi adoperati dalle strategie del mercato, poco evidenziata dall’informazione e più che trascurata – chissà perché- dalla politica. Oltre che all’inchiesta, però, Marco Rovelli apre le pagine soprattutto alla riflessione sensibile, esplorando il senso puro del sommerso, il significato autentico della clandestinità, e il loro essere laboratori più che attivi di paranoie fobiche utili a diffondere insicurezza collettiva. Costringendo il lettore a volgere un occhio critico anche ai nuovi modi del lavoro regolare, flessibile ed atipico, e a porsi domande inquietanti sulle ripercussioni delle forme attuali dell’occupazione sul piano della comunità, sempre più determinata, nonostante le LIBRI 47


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coperture liberali, da processi repressivi e metodi autoritari. Stefania Ricchiuto

OSCAR GLIOTI Fumetti di evasione (Vita artistica di Andrea Pazienza) Fandango

Di Andrea Pazienza non si parla mai abbastanza. Artisti come lui meritano continue riletture, una vita se pur breve, intensissima da tutti i punti di vista. Una vita così vicina e astratta dalla realtà che finisce per sconfinare e invadere anche il suo immaginario artistico. Ecco che è possibile ricostruire vita e opera di Andrea Pazienza con un registro che sembra essere letteratura e cronaca dei fatti al contempo. Quando si dice una vita da romanzo, o in questo caso, una vita da fumetto. E tre sono i personaggi raccontati in queste pagine, tre capitoli, tre periodi della formazione umana e artistica di Andrea. Pentothal, Zanardi e Pompeo. “Il giogo mentale di Pentothal, la valvola di sfogo di Zanardi”, e poi la liricità di Pompeo “il ritorno alla carne, al dolore, a una testimonianza sincera e senza mediazione”. Emozioni e vita insieme. Pentothal incarna il Pazienza del

77, il suo utopismo in controtendenza con l’ideologismo del tempo, Zanardi è la perdita dell’innocenza, il lato oscuro di Andrea, quello malato e poi Pompeo, la fine, l’ultimo capitolo di una vita e di un’opera. E in tutto questo c’è la sperimentazione, la voglia e la capacità di oltrepassare il limite per trovare nell’equilibrio o disequilibrio tra immagini e testo nuove forme per l’illustrazione. Fumetti di evasione è un bel libro, si legge come un “film”, nel suo associare immagini a una storia speciale. “Il fumetto è evasione, è sempre evasione, deve essere evasione, del resto la parola evasione è una bellissima parola, evadere è sempre bello, la cosa più saggia da fare... Poi se c’è qualcos’altro ben venga.” (Andrea Pazienza, 1984) Osvaldo Piliego

STEFANIA DIVERTITO Amianto Verdenero

È un pugno in faccia questa inchiesta di Stefania Divertito, giornalista napoletana responsabile nazionale della cronaca di Metro. È un pugno in faccia perché racconta senza mezzi termini la storia dell’amianto e della polverina impercettibile che solo in Italia uccide 4000 persone all’anno. “Dal dopoguerra fino alla messa al bando del 1992,

in Italia sono stati usati 20milioni di tonnellate di amianto e prodotte 3,75 milioni di tonnellate di amianto grezzo”. Numeri impressionati. E l’amianto era ovunque: nelle fabbriche, nelle nostre scuole, negli edifici pubblici, anche nei giardini del vicino. “Non riesco a guardare una tettoia senza pensare che ne possa essere piena e che potrebbe sfilacciarsi da u momento all’altro. Tutto m’insospettisce e mi genera un dubbio: la mia vita è veramente al sicuro?”. Una domanda dalla risposta scontata: no. Amianto è una indagine rigorosa che passa attraverso il racconto dei medici, dei processi, delle leggi, dei malati e dei loro familiari in giro per l’Italia da Pordenone a Torino, da Brindisi a Padova, da Napoli a Taranto, da Roma a La Spezia, la città che detiene il poco invidiabile record mondiale di malattie collegate all’amianto. Il più grande processo europeo per morti sul lavoro, quello contro il magnate elvetico Stephan Schmidheiny e il barone Jean Louis de Cartier del gruppo Eternit (parola che proviene dal latino aeternitas, eternità) proprietari degli impianti italiani di lavorazione dell’amianto a Cavagnolo, Casale Monferrato, Bagnoli e Rubiera, ha preso il via il 6 aprile 2009, il giorno del terremoto in Abruzzo. “Quel giorno la notizia del terremoto piombò come una scarica elettrica tra le migliaia di persone assiepate davanti al tribunale di Torino. Erano arrivati con i pullman dalla Puglia, da Napoli, dalla Francia, dalla Svizzera”. La causa collettiva coinvolge ben 2889 vittime dell’amianto ed è ancora in corso. E tutti attendono per capire come andrà a finire. Il libro ha la prefazione di Alessandro Sortino ed è aperto da una frase agghiacciante di Carlotto “Risarcire un operaio morto costa meno che salvargli i polmoni”. Pierpaolo Lala LIBRI 49


In foto: Kurt Vonnegut

ELÈUTHERA La cultura libertaria è una dimensione drammatica, in bilico precario tra la bellezza dell’utopia concreta e lo strazio della realtà immodificabile. Più di altri contesti di critica, necèssita di una cura attenta che la custodisca solida e instancabile, perché il suo sguardo d’affondo non ceda alla constatazione mortificante di una contemporaneità ormai avviata verso la catastrofe finale. Alimentare quello sguardo, renderlo sempre più penetrante, vivificarne la sua affilatezza:queste le finalità dei libri proposti da Elèuthera, che 50 LIBRI

sono armi di percezione dell’andamento reale dell’umanità. A differenza di tanti altri piccoli editori, voi volete restare tali, per cui non ambite ad alcun salto nella produzione editoriale più vasta e diffusa. Un atto di coerenza ostinata, il vostro, contro gli imperativi del mercato del settore. Come si traduce, questa intenzione, nella quotidianità di una realtà che deve comunque sopravvivere?


Elèuthera continua a pubblicare (pochi) libri e non a “produrre” libri, questa intanto la scelta. Il mercato ci sembra un luogo paradossale, un nonluogo per dirla à la Marc Augé, nel quale riusciamo comunque a occuparci di progetti che ci interessano, che seguiamo in modo collettivo confrontandoci costantemente pur nelle differenze e nelle diversità dei singoli componenti del collettivo. La vostra nascita e la vostra evoluzione sono strettamente legate alle attività del Centro Studi Libertari e dell’Archivio Giuseppe Pinelli. È una sinergia importante, reciprocamente osmotica… Il Centro Studi Libertari e l’archivio Pinelli rappresentano il tempo che ci attraversa e che ci permette di essere oggi ciò che siamo. La relazione con quella storia determina le nostre scelte quotidiane. Quindi, anche quelle editoriali. L’archivio raccoglie la memoria di molta storia libertaria, sistematizzata e quindi messa a disposizione di tutti, per lo studio come per l’approfondimento dello spirito e del pensiero libertario. Quelle pubblicazioni hanno formato il nostro pensiero, sono le idee che ci proponiamo di realizzare nel nostro “spazio”. Molto attenti alla cultura materiale resistente, siete tra le poche realtà che dedicano dei percorsi di lettura specifici all’arte culinaria e all’espressione erotica, permeando entrambi i contesti con ricerche di sostanza. La volontà di cambiare il mondo passa anche per la liberazione del gusto e del desiderio… Il libero pensiero è un’etica, e dunque non ha ambiti specifici, è una condizione umana. Alcuni dei libri che abbiamo pubblicato negli anni, parlavano di ambiti specifici come la cucina o l’espressione erotica, ma dal tema scelto si analizza sempre la relazione dell’uomo con il (suo) mondo: alcuni esempi, dalle provocazioni di Luigi Veronelli sulla cucina, in cui – come nel pensiero – è “Vietato vietare”; agli itinerari liber(tin)i della “Guida erotica al Louvre”; fino a una delle ultime pubblicazioni “Ricette scorrette” di Andrea Perin, dove la cucina diviene spazio di condivisione e creazione, di métissage antropologico e quindi di incontro tra individualità e culture. Riservate molta attenzione anche alle derive della scienza, alle pratiche di manipolazione e invasione che rischiano di recludere sempre più l’esistenza umana… Ciò che ci interessa è la relazione tra pratiche di dominio e forme di Potere, compreso quindi anche quello della Scienza, che a volte si struttu-

ra come religione, altre volte segue le logiche di comodo che l’epoca comanda, in questo momento storico, con l’Economia. Tra i vostri autori, un maestro della letteratura americana come Kurt Vonnegut, scomparso da pochi anni, e uno dei più noti linguisti e pensatori viventi come Noam Chomsky. Entrambi possono contare sull’attenzione dell’editoria più commerciale. Perché pubblicarli anche con Elèuthera, che in genere abbraccia opere perseguitate ed escluse, e di più complessa diffusione? Perché entrambi sono autori del pensiero libertario, che quindi potevano “reggere” molto bene nel nostro, pur “di nicchia” e selezionato, catalogo. Nel catalogo più recente compare una conversazione con un personaggio indiscutibilmente dotato di pensiero critico, legato però al contesto dello star-system televisivo: Morgan. Un libro dedicato al percorso di un’artista anarchico, eppure inserito in una dimensione tutt’altro che libertaria, non toglie nulla alla vostra coerenza? In quel caso ci interessava approfondire il legame tra artista e tematiche, in qualche modo, libertarie. Il libro – in forma di dialogo - ha il merito, anche discutibile, di mettere in discussione molti preconcetti, senza sconti per nessuno. Oltre a parlare ovviamente di musica, della libertà dell’atto creativo, di personaggi della tradizione musicale anarchica come Fabrizio De André, o artisti individualisti come Luigi Tenco. Il progetto editoriale poi era nato ben prima del successo “mediatico” di Morgan. Nel libro si parla certamente, nell’ultima parte, della mediamacchina dello spettacolo. Se ne discute apertamente, anche in maniera auto-critica, cosciente. Dello star-system, inteso come spazio della realtà moderna, un sistema dove si può entrare proprio per scompaginare, come i diavoli di Bulgakov… Concludiamo con dei consigli di lettura: una vostra novità assoluta e una ristampa… Come novità: “Spagna 1936. L’utopia e la storia”, un cofanetto composto da un dvd che propone immagini originali dell’epoca, con un testo di Pino Cacucci e le voci narranti di Paolo Rossi e Francesca Gatto, e dal libro “Anarchia e potere nella guerra civile spagnola” di Claudio Venza. Come ristampa: “Incontri libertari”, antologia di Simone Weil, a cura di Maurizio Zani, riproposta nel centenario della nascita della filosofa francese. Stefania Ricchiuto LIBRI 51


CINEMA TEATRO ARTE


JASON REITMAN Intervista al regista di Thank you for smoking, Juno e il recentissimo Up in the air «George Clooney? È la moviestar meno moviestar con cui ti capiterà di lavorare». Parola di Steven Soderbergh cui Jason Reitman - regista di Up in the air e già vincitore del Marc’Aurelio d’oro al Festival internazionale del film di Roma con Juno, nel 2007 - ha chiesto consigli prima di iniziare a lavorare con George Clooney. Il film, in concorso al festival di Roma, uscirà nelle sale il 15 gennaio. Racconta la storia di un licenziatore di professione, un “tagliatore di teste” che, dopo anni spesi a zonzo tra gli aeroporti di tutti gli Stati Uniti, incontra una donna e si sente pronto a cambiare la propria vita con una più stabile e sedentaria. A lavoro ultimato, Reitman si dice soddisfatto: “Ho iniziato a lavorarci sette anni fa - racconta - e allora la disoccupazione non era ancora un’emergenza mondiale. La crisi economica di questo periodo rende il mio film estremamente attuale”. Reitman è entusiasta soprattutto del protagonista: “Mai, quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, avrei immaginato che il mio Ryan potesse essere proprio George Clooney”. Com’è stato lavorare insieme? Estremamente semplice. George è un attore che pensa da regista: mentre recita riesce a pensare alla luce, alla posizione della camera e a tanti altri dettagli tecnici che chi non è un regista non considera. Abbiamo ripetuto le scene poche volte: due o tre ciak al massimo. È stata una delle esperienze più belle della mia vita. Clooney ti ha definito un regista che non soffoca. Tu come lo definisci? L’attore che tutti vorrebbero avere. Ho persino modificato intere parti della sceneggiatura perché gli potessero calzare meglio addosso. Up in the air è tratto da un romanzo di Walter Kirn, ma se ne discosta molto. Come mai? Avevo in mente una mia storia e a un certo punto mi sono imbattuto in questo romanzo e ho pensato: “Wow, questo ha trovato le parole per dire

quello che voglio”. Poi, però, ho sentito l’esigenza di aggiungere delle cose, come i personaggi femminili che, nel libro, sono praticamente assenti. Nel frattempo mi sono sposato e ho avuto una bambina: io sono maturato e il mio personaggio è cresciuto con me. Come mai tutta questa attenzione ai personaggi femminili? Sono sempre stato attratto dal modo in cui le donne sono venute fuori dopo il femminismo. La nostra è la prima generazione di donne senza lavoro, oppure di donne che lavorano tanto e a un certo punto si rendono conto desiderano dei figli e una famiglia, e devono pensare a come conciliare le due cose. Mia moglie mi ha aiutato molto. È a lei che ho chiesto cosa desiderava per la sua vita quando aveva 18 anni, per poi trasferirlo pari pari nella sceneggiatura. In che modo la sua vita personale ha influito sul film? La vita si evolve e io ho smesso di pensare ad essa in maniera superficiale. Ho ancora solo 31 anni, ma ora che sono padre, mi sembra naturale cercare la sostanza, andare a misurare il peso delle relazioni umane nella vita. Si dice che un regista fa sempre lo stesso film. Anche nei suoi è facile vedere un filo conduttore: quello dei rapporti interpersonali... Sono contento che si veda un filo rosso nei miei lavori: significa che faccio cose personali. Ed è vero, parlo dei rapporti tra le persone perché, di base, le persone mi piacciono. Che rapporto hai con tuo padre Ivan, il regista di Ghostbusters? Mio padre è il mio eroe e sono fiero di essere suo figlio. So bene, però, che non arriverò mai dove è arrivato lui. A proposito... Attenti, sta preparando Ghostbusters 3. Valeria Blanco cinema teatro arte 53


In foto: Teatro della Valdoca

DIECI CANDELINE 1999-2009 Strade Maestre festeggia alla grande Dieci anni fa a Lecce apriva un nuovo spazio dedicato al teatro, i Cantieri Teatrali Koreja, uno spazio industriale riconvertito in teatro da una compagnia, Koreja, nata circa dodici anni prima ad Aradeo. Contemporaneamente iniziava, sempre a Lecce, una nuova stagione teatrale, Strade Maestre, che prevedeva un doppio cartellone: da un lato, negli spazi di Koreja, era possibile assistere a spettacoli di teatro di ricerca, e dall’altro lato, nel Teatro Politeama Greco, il tempio della stagione lirica leccese, era possibile assistere a spettacoli di teatro di tradizione. Ma che tipo di pubblico del teatro c’era a Lecce dieci anni fa? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Tramacere, direttore artistico dei Cantieri teatrali Koreja. “Sicuramente a Lecce c’era molta quantità di pubblico, generico certo, ma comunque voglioso e desideroso di vedere, di sapere, un pubblico in qualche modo generoso”. Da qui quindi la ne54 cinema teatro arte

cessità di conciliare la propria storia con quella della città in cui la compagnia di Aradeo stava sbarcando, e cioè continuare a fare ricerca senza però allontanare dal teatro, con proposte troppo “difficili” un pubblico abituato alla tradizione. “Noi eravamo un gruppo che per principio, per formazione, per cultura era minoritario nel senso che pensavamo ‘meno erano meglio era’ ma il tempo ci ha cambiati perché abbiamo capito che non è detto che meno è meglio anzi molto spesso meno è peggio. Il problema non si può porre in termini di quantità ma di qualità. Quello che conta alla fine è se fai teatro bene o male. L’importante è riuscire a trovare il modo di parlare in maniera chiara per poter affrontare anche grandi problemi. Se lo si fa in maniera elitaria si può stare a parlare per anni senza risolvere niente”. Ma se dieci anni di Strade Maestre hanno cambiato il pubblico leccese, adesso più abituato


alle proposte anche più ricercate e difficili sicuramente sono cambiate anche le proposte e le produzioni della Compagnia Koreja. “Lo spazio ha modificato il nostro modo di produrre e non è un caso che da quando siamo entrati qui dentro abbiamo iniziato a fare produzioni con la partecipazione di altri artisti come i Sud Sound System o Raiz, perché ci interessava istaurare un rapporto con un pubblico più ampio. Questo ha modificato la nostra maniera di produrre, ha modificato il tempo delle produzioni, ha modificato il modo di affrontare lo spazio. Col tempo capisci che è cambiato tanto”. Eugenio Barba, Peter Brook, Cesar Brie, Cesare Ronconi, Ascanio Celestini, Danio Manfredini, Romeo Castellucci, Marco Paolini, Marco Baliani. Sembra che Lecce sia una tappa obbligata per i mostri sacri del teatro nazionale e internazionale ma anche un trampolino per giovani attori e compagnie di grande talento. Teatro di parola, teatro danza, teatro di immagini, teatro politico, teatro sociale e teatro estetico. Da Lecce in dieci anni di Strade Maestre è passato veramente di tutto. Il filo conduttore però è sempre quello della qualità e, come dice Tramacere, “dell’onestà del lavoro, cioè la totale adesione a quello in cui si crede, lo spettacolo come risposta a una domanda progettuale, la coerenza”. La stagione 2009/2010 di strade Maestre si apre con uno spettacolo, Spazio della quiete del teatro Valdoca, che è un ripensare e ripercorre il proprio passato, richiamare e rileggere le proprie origini. Non è un caso che questa stagione, che vuole essere non solo un momento di festa, ma anche e soprattutto un momento di riflessione e ripensamento ospiti questo spettacolo di Cesare Ronconi di cui Mariangela Gualtieri scrive: “Tornare alle proprie radici è a volte un atto necessario, di ordine interiore”. “Non è un caso - dice ancora Salvatore - che una generazione di persone tra cui ci riconosciamo ha la necessità di puntualizzare le cose. La nostra è stata una generazione distrutta, lacerata, frantumata, usata e questo è il momento in cui chissà perché si ha il desiderio di mettere un punto, di puntualizzare delle cose. Tornare al passato non è nostalgia, è semplicemente il desiderio di formalizzare una pratica, di dare parole precise e concrete alla propria pratica”. Dieci anni portati benissimo e festeggiati alla grande con una stagione ricchissima che parte con una settimana dedicata alle produizoni Koreja e che vede ospiti nel corso dell’anno oltre alla già citata Valdoca, la Societas Raffaello Sanzio e tantissime altre compagnie interessanti. Dario Goffredo

SENSO PLURIMO dal 4 al 24 novembre Speech di Davide Faggiano Cantieri Teatralii Koreja.

Si inaugura mercoledì 4 novembre alle ore 18,00 nel foyer dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, il progetto Senso Plurimo a cura di Marinilde Giannandrea con la collaborazione di Salvatore Luperto e Anna Maria Panareo. In occasione dei festeggiamenti per i dieci anni della struttura leccese, i Cantieri Teatrali Koreja riaprono le porte all’arte contemporanea con una idea originale di Rune Ricciarelli che ha progettato un Box polifunzionale dentro lo spazio del foyer. Senso Plurimo parte dall’idea che l’arte contemporanea contenga una promessa di pluralità che ci affranchi dagli inganni di chi dirige il nostro immaginario visivo e il nostro pensiero estetico in una direzione unica e univoca. Gli artisti in mostra non appartengono a un gruppo omogeneo ma esprimono visioni molteplici. Ad inaugurare la rassegna Speech di Davide Faggiano. Con la chirurgia plastica, con i cosmetici, con il colore, con il fango, con la schiuma o con qualsiasi sostanza, si può cambiare l’aspetto fisico di un volto. Si può dare al volto una sembianza tenera o dura, feroce o mansueta, ma non si può modificarne lo sguardo. Anche dietro i volti resi statici, duri, pietrificati dal tempo, dal dolore, dalla fame o semplicemente da una maschera di unguento si avverte il vitale sentimento di uno sguardo serrato, spiritato o smarrito. I ritratti neri di Davide Faggiano esprimono sentimenti provenienti dall’interiorità più profonda. Sono occhi “speech” che parlano a chi sa leggere. Sono tanti volti spalmati che si trasfigurano in nuove fisionomie, in nuovi sentimenti che accentuano i moti dell’animo riflessi negli occhi. 55


Foto di Claudio Longo

C’ERA LYSISTRATA A CALIMERA

Al debutto il nuovo spettacolo di Astragali Teatro

Al debutto lo scorso martedì 27 ottobre, all’Elio di Calimera, “Lysistrata, primo studio sull’oscenità del potere” di Astragali Teatro. Una completa riscrittura della Lysistrata di Aristofane (411 a.c.), operata da Fabio Tolledi (creatore dello spettacolo) con Benedetta Zaccarello. Abbiamo visto Lysistrata, ci ha accolto, proprio lei, seduta a gambe larghe, sulle tavole di una lunga pedana che invadeva per metà la platea del Teatro Elio di Calimera. La “grika” era lì, “apertura” d’una scena che in quasi due ore di spettacolo s’è animata di canti, di atti di poesia, di scontri visivi, di gag esilaranti, di eccessi erotici, di silenzi. Una “pittura” registica accolta in un essenziale bianco e nero, unico “luogo” dove il colore può vibrare, esaltarsi, vivere la sua naturalezza. Materia gli oggetti, cose di natura: zucchine, salame, un’anguria, uova, due cipolle! Legno a far le misure al duro dei falli e vino, rosso ad aprire gli atti, viatico e pharmacon della malinconia. Una grande damigiana verde accoglie un amplesso! È venuta, Lysistrata, a Calimera, proprio lei, con tutta la sua carica eversiva a raccontare di ora, del tempo che ci tocca vivere. Dell’oscenità di un potere che assoggetta negando la verità, nascosta dalla patinatura mediatica, instupidita dal denaro, dalla malìa dell’apparire, confusa dall’impermanenza. Sono passati secoli e secoli 56 cinema teatro arte

dal suo ‘debutto’, era il 411, non era venuto ancora Cristo, quando per prima tentò la sua rivoluzione. C’era la guerra del Peloponneso a quei tempi, e quante ne sono venute dopo di guerre, quante? Molte, tante, troppe! E come è cambiata la guerra, a volte fa a meno degli spari. Aristofane già sapeva. Pensava al Femminile. Unico “eversivo” possibile in un Mondo che già subiva (l’ha subito da sempre) il primato del Maschile. È venuta, Lysistrata, a Calimera, Callistrato l’accompagnava, un regista-chitarrista che, con Gaetano Fidanza alla fisarmonica, ha accompagnato dalla consolle un coro allevato ed allenato all’acerbità. Valore femminile, spontaneo, fuori regola, come canto che viene a dire l’inespresso. La canzone accompagna la vita. È di tutti la canzone? No, è di chi “sente”! E questi “sentono” e l’oscenità del potere la ridono, le girano intorno con lo sberleffo e tessono un musical popolare che ricorda e rinnova l’opera totale di Bertolt Brecht, il graffio politico delle sue opere. Nell’urgenza del dire, corpi nella loro bellezza fanno fronte, “raccontano”, semplicemente stanno. Bravi e..., appena finito vien voglia di rivederlo! Sarà impresa impossibile raggiungerli in Palestina che lì andranno prossimamente a confrontare, di là dal mare, i diversi modi del ridere. Mauro Marino


Foto di Pippo Affinito

SULLA GIOSTRA DI KAFKA

Odradek è il nuovo spettacolo di Asfalto Teatro Messo in scena dal 28 ottobre al 1 novembre presso il Cnos di Lecce, nel reparto laboratorio saldatura adibito a palcoscenico, Odradek è il terzo e ultimo lavoro della trilogia dedicata da Asfalto Teatro a Franz Kafka, iniziata con La descrizione di una battaglia e proseguita poi con La condanna. Ma chi è, o che cos’è Odradek? Per rispondere bisogna anzitutto sapere che Kafka fu un artigiano notturno della scrittura, che procedeva a frammenti, e forse, con l’invenzione dell’Odradek, ha voluto descrivere il suo processo creativo. Una parola né slava né tedesca, una creatura finita di diritto nel Manuale di zoologia fantastica di Borges. Un altro personaggio è Pietro il Rosso, interrogato in apertura di spettacolo perché racconti la sua esistenza. Cinque anni separano lo scimpanzé Pietro, oggi umanizzato, dalla sua precedente vita scimmiesca: anni di duro addestramento, tanto che Pietro diviene in grado di argomentare davanti alla comunità scientifica. È una parabola sull’identità umana portata in scena da Asfalto, sulla scimmia che si vuole distinguere dalle altre scimmie, accomunata in questo a tutti gli animali antropomorfi dell’immaginario kafkiano, un bestiario in cui tra sogni, favole e leggende lo scrittore praghese espone la sua visione grottesca dell’umanità. Così le bestie di questo circo sono uomini e donne con la maschera da bestie, sono animali che hanno appreso le leggi e le regole del-

la convivenza civile: un’inversione che rappresenta, attraverso la confusione tra uomo e fiera, lo scetticismo di Kafka verso la ricerca e la verità scientifica, e quindi lo scetticismo sull’esistenza di una verità, della Verità. Tutto lo spettacolo riflette i temi tipicamente kafkiani: una lucida follia di fondo, la metamorfosi che si trasfigura nelle maschere, tic nervosi e strampalate storie da raccontare, l’attore che pare costantemente un fuorilegge davanti al suo tribunale. I personaggi resi dai ragazzi di Asfalto Teatro sono buffi, fantastici, ma neri e crudeli: se Kafka fosse vivo, approverebbe la trasposizione. Il lavoro è serio, profondo, curato anche nei particolari della luce, dei macchinari, dell’impianto scenico, in linea con la scelta di meticolosa ricerca teatrale – intrecciata alla fotografia e alla scrittura. Dal 2003 stabilmente presso il Laboratorio Saldatura del Cnos, vera e propria officina creativa, gli attori di Asfalto hanno conosciuto, approfondito e portato in scena Klossowski prima e Lewis Carroll poi, tutti autori a loro modo fiabeschi e assurdi, come Kafka. Lo spettacolo merita di essere visto perché è una prova teatrale rara a queste latitudini e restituisce la giusta dimensione allo scrittore praghese: non tenebroso e soffocante, ma al più impietosamente sarcastico, tragicamente assurdo. Con la speranza di nuove repliche, che si consiglia di non perdere. Vito Lubelli cinema teatro arte 57


MARIANO COHN, GASTON DUPRAT L’artista

Primo lungometraggio di finzione degli argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat, L’Artista imbastisce un discorso semi-serio sulla natura dell’opera d’arte e sul concetto di autore. Con un’intuizione inverosimile per un uomo che nulla sa dell’arte né da creatore né da appassionato, Jorge Ramirez, infermiere in un istituto geriatrico, riconosce il valore estetico dei disegni di un suo paziente, Romano, e se ne appropria, diventando l’artista del momento. La scelta di individuare l’autore dei disegni in un vecchio autistico, seppur romanzesca e conforme a un concetto di “arte da seduta psicanalitica”, appare tuttavia giustificata nel sistema di contrasti interno alla storia, dal momento che mette in evidenza le discrepanze fra due mondi, quello in cui l’arte si produce e quello- troppo luccicante- in cui si consuma, e fra due modi di essere artisti, artisti putativi come Jorge o “materiali” come Romano. Con il suo riconoscimento Jorge crea una seconda volta l’opera, fornendole un’intenzionalità comunicativa in assenza della quale i disegni 58 cinema teatro arte

di Romano sarebbero solo il vomito interiore di un alienato. Citazioni contraddittorie e silenzi increduli corrodono la serietà di un mondo che galleggia nell’arbitrio e copre la sua sostanziale vuotezza con l’eleganza verbale, mentre l’arte è la grande presente/assente: lo stesso Romano la crea senza la consapevolezza di farlo e i suoi disegni non vengono mai inquadrati, come se più che la materialità dell’opera contassero gli effetti che questa produce sullo spettatore. E se nessuno sa come mai quella cosa semplicissima che è l’arte riesca solo a pochi, si potrà concludere che- teoricamente, certo- artisti possono esserlo tutti. Anche una fotografa di orsacchiotti o una che brucia plastici nel microonde. Pellicola disorientante e dall’ironia allibita per chi non cerca risposte ma domande. Francesca Maruccia

ERIK GANDINI Videocracy

Parte un filmato in bianco e nero, anno 1977. Il conduttore siede al tavolino di un bar trasformato in studio televisivo e riceve telefonate dal pubblico a casa: una domanda, una rispo-

sta esatta e si vince uno spogliarello in diretta. La voce fuoricampo sussurra misteriosa che tutto inizia da qui: il primo sexy-quiz delle reti italiane, la tv di Berlusconi (“Il Presidente”) e la rivoluzione culturale della videocrazia, con il suo culto del godereccio e del disimpegno, del trash e delle donnine nude. Se il male fu generato dal Presidente e s’incarnò da principio nelle carni mercificate di una casalinga disinibita, c’è qualcosa che non torna, dato che quella prima Maja desnuda mostrava le sue grazie su “Spogliamoci insieme”, programma di un’emittente, Tele Torino International, che non apparteneva a Berlusconi, ma a un’agenzia di pubblicità, la Sapier. Il grossolano errore storico puzza di partigianeria, ma il punto debole di Videocracy non sta in questo particolare, quanto in una struttura argomentativa che accozza alla rinfusa tutto il più trito ciarpame mediatico italiano fra veline, grandi fratelli, tronisti, Lele Mora e Corona, senza spiegare a fondo come la cultura dello spettacolo sia giunta a contaminare anche la politica, spostando l’attenzione degli elettori dai programmi all’immagine dei leader. Converrebbe ricordare le origini della videocrazia - gli Stati Uniti degli anni ’60- per capire che non si tratta né di un’esclusiva italiana né di un parto di Berlusconi. Ma Gandini non lo dice e si ferma a una condanna moralistica del fenomeno. Il suo documentario stigmatizza la società televisiva mentre ne usa le stesse formule narrative del personalismo e della semplificazione, riducendo complesse trasformazioni del costume all’azione di un singolo. Francesca Maruccia


KENNY ORTEGA This is it

Dopo una carriera ricca di eccessi e di successi e una vita piena di scandali e di debiti, il 25 giugno 2009, l’indiscusso re del pop, Michael Jackson, ci ha lasciati inaspettatamente all’età di cinquant’anni. Anche se orfani del suo talento e della sua energia, Michael continua a vivere attraverso la sua straordinaria musica nei nostri cuori e nelle sale cinematografiche, anche se per breve tempo, con il docu-film This is it. Diretto da Kenny Ortega, esso vuole offrire ai milioni di fans, sparsi in tutto il mondo, che ancora piangono la prematura scomparsa del loro idolo, uno sguardo dietro le quinte dell’ultimo show che Jackson, insieme allo stesso Ortega, stava preparando e che avrebbe tenuto a luglio alla 02 Arena di Londra. La pellicola non solo intende mostrare il genio e il carisma sen-

za pari dell’artista ma anche, e soprattutto, l’umiltà e allo stesso tempo l’autorità di Jacko, nei confronti dei suoi collaboratori e del suo staff. Questo lavoro, dunque, rappresenta l’eredità più significativa lasciataci da Michael, il suo testamento arti-

stico che, in due ore di coreografie spettacolari, magistralmente montate, e di magia senza tempo, consegna un’intera carriera musicale alla storia. Insomma, come recita il titolo stesso, questo è davvero tutto. Daniela Miticocchio

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EVENTI MUSICA VENERDÌ 6 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Muffx VENERDÌ 6 – Arena Live Music di Carpignano (Le) Dj Kosmik e Emanuele Pagliara VENERDÌ 6 – Molly Malone di Lecce Open Mic Session VENERDÌ 6 – Kalì di Melpignano (Le) Negro & Legari Duo VENERDÌ 6 – Auditorium La Vallisa di Bari Steven Brown & Nine Rain (Time Zones) SABATO 7 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Happy Birthday Istanbul - Dj set Tobia Lamare SABATO 7 – Arena Live Music di Carpignano (Le) Killacat e Gioman SABATO 7 – Arci 37 di Giovinazzo (Ba) Marco Notari & madam SABATO 7 - Officine Cantelmo di Lecce Dario Congedo & Nadan SABATO 7 - GabbaGabba di Taranto 59 ’Ers LUNEDÌ 9 – Teatro Team di Bari Charles Aznavour DOMENICA 8 – Teatro Royal di Bari Terence Blanchard Quintet GIOVEDÌ 12 – Molly Malone di Lecce Dj Sorge GIOVEDÌ 12 – Spazio Off di Trani Bum bum baby san VENERDÌ 13 – Molly Malone di Lecce Marc Duradeau VENERDÌ 13 – Kalì di Melpignano (Le) New Harlem Acoustic VENERDÌ 13 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Cast thy eyes + Gerda

VENERDÌ 13 – Saletta della Cultura di Novoli (Le) Marco Notari & Madam VENERDÌ 13 – Target di Bari Vision Divine e Ashram Inside VENERDÌ 13 – Cinema Visconti di Monopoli Carl Palmer VENERDÌ 13 – Spazio Off di Trani Two left shoes SABATO 14 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Vibronics featuring Jah Marnyah SABATO 14 - GabbaGabba di Taranto Telesplash e Gap SABATO 14 - Officine Cantelmo di Lecce Happy Birthday Cantelmo SABATO 14 – Masseria Valente di Crispiano (Ta) Hardcore & Hip Hop night SABATO 14 – Spazio Off di Trani Bud Spencer Blues Explosion SABATO 14 – New Demodè di Bari Il teatro degli Orrori MERCOLEDÌ 18 – Caffè Letterario di Lecce Irene Scardia GIOVEDÌ 19 – Molly Malone di Lecce Dj Noerz VENERDÌ 20 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Ytsejam Kr. Official Dream Theater Tribute VENERDÌ 20 – Kalì di Melpignano (Le) Hot Hat Contry VENERDÌ 20 – Molly Malone di Lecce Super Reverb VENERDÌ 20 – Db d’Essai di Lecce Radiodervish VENERDÌ 20 - GabbaGabba di Taranto Piroth e 6 O’clock VENERDÌ 20 E SABATO 21 – Sotterranei di Copertino Sottosuono festival

SABATO 21– Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Tecnosospiri, Marco Ancona e Amerigo Verardi SABATO 21 – Masseria Valente di Crispiano (Ta) Munnizza SABATO 21 - GabbaGabba di Taranto (All My Friendz Are) Dead SABATO 21 – Sinatra Hole di Ugento (le) Rino’s Garden SABATO 21 – Spazio Off di Trani The forty Moostachy LUNEDÌ 23 – Teatro Politeama Greco di Lecce Wim Mertens MARTEDÌ 24 – Teatro Team di Bari George Benson GIOVEDÌ 26 – Molly Malone di Lecce Dj Populous VENERDÌ 27 – Kalì di Melpignano (Le) Tobia Lamare & The Sellers VENERDÌ 27 – Saletta della Cultura di Novoli (Le) Wasabi trio VENERDÌ 27– Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Dolce mente e La teoria dei giochi VENERDÌ 27 – Molly Malone di Lecce Flavio Jordan VENERDÌ 27 - GabbaGabba di Taranto Silenzioinsipido e Lenula SABATO 28 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Tayone, Paura, Clementino SABATO 28 – Masseria Valente di Crispiano (Ta) Effetti Collaterali SABATO 28 – Sinatra Hole di Ugento (Le) Big Mama SABATO 28 - Officine Cantelmo di Lecce Blue Hole SABATO 28 – Spazio Off di Trani Dufrense Editoriale 61


SABATO 28 – New Demodè di Bari Nina Zilli, Giuliano Palma & The BlueBeaters DOMENICA 29 – Presicce Canzoniere Grecanico Salentino TEATRO GIOVEDÌ 5 - Cantieri Koreja di Lecce Doctor Frankestein VENERDÌ 6 - Cantieri Koreja di Lecce Il calapranzi DAL 6 ALL’8 – Piccolo Tearo di Bari Fanculopensiero Stanza 510 di e con Ippolito Chiarello SABATO 7 - Cantieri Koreja di Lecce La passione delle troiane DOMENICA 8 E LUNEDÌ 9 Taranto Miserabili. Io e Margareth Thatcher di Marco Paolini MERCOLEDÌ 11 E GIOVEDÌ 12 - Teatro Kismet di Bari Juana de La Cruz – ovvero Della Libertà della Compagnia

Le Belle Bandiere di e con Elena Bucci VENERDÌ 13 E SABATO 14 Cantieri Koreja di Lecce Lo spazio della quiete del Teatro Valdoca GIOVEDÌ 19 E VENERDÌ 20 - Teatro Kismet di Bari Dittico tarantino da Stranieri di Antonio Tarantino regia di Marco Martinelli SABATO 21 E DOMENICA 22 - Teatro Kismet di Bari Rosvita di Ermanna Montanari - Teatro delle Albe DA VENERDÌ 27 A DOMENICA 29 - Teatro Kismet di Bari Irruzione Pubblica a cura di Fibre Parallele, Reggimento Carri, Radice Quadrata e Nodo DOMENICA 29 – Teatro Politeama Greco di Lecce Sabina Guzzanti MARTEDÌ 1 DICEMBRE – Teatro Politeama Greco di Lecce Lillo e Greg

LIBRI DOMENICA 8 - Carpe Diem di Crispiano (Ta) “Ballata ignorante per destini comuni” di Mino & Massi VENERDÌ 13 – Biblioteca Comunale di Calimera (Le) Il ritorno della Taranta di Vincenzo Santoro VENERDÌ 13 – Libreria Gutenberg di Lecce Le donne non invecchiano mai di Iaia Caputo DOMENICA 15 – Teatro Comunale di Aradeo Il ritmo del tacco DOMENIC A 15 - Carpe Diem di Crispiano (Ta) Ritratto di una donna allo specchio di Angela Greco DOMENICA 22 - Carpe Diem di Crispiano (Ta) Lettera a Leontine di Raffaello Mastrolonardo GIOVEDÌ 26 E DOMENICA 29 – Campi Salentina Città del libro DOMENICA 29 - Carpe Diem di Crispiano (Ta) Voglio Dirti di Gianni Tursi

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