anno VI numero 57 ottobre 2009
PLETTRO E CALAMAIO
PLETTRO E CALAMAIO Ci fossero miliardi di parole, lo stesso non basterebbero a raccontare la musica e se le note fossero mille e non sette, da sole non potrebbero contenere quello che le pagine conservano. Si dice che dietro ogni canzone c’è una storia, un libro consumato o una poesia mandata a memoria e si dice anche che ogni volta che si scrive, o semplicemente si legge, la musica è lì a farci da colonna sonora. La musica e la scrittura sono arti permeabili che a vicenda si lasciano attraversare e influenzare. Da sempre, o più o meno, prima della scrittura e della stampa, la parola e la sua diffusione dipendeva dalla musica che attraverso ritmo e melodia restava impressa nella memoria e tramandata. Con il tempo musica e parole hanno cambiato il loro rapporto, entrambe si sono evolute senza mai allontanarsi al punto di separarsi. La poesia è e sarà sempre musicale e alcune delle più celebri canzoni della popular music sono pagine di letteratura, testi pregni di lirismo. C’è poi la narrativa che racconta la musica, la sua storia, le sue figure, le sue storie e quella che dalla musica è fortemente influenzata. E ancora musicisti che si misurano con la poesia e la scrittura e poeti che collaborano con musicisti. Le varianti sono quasi le stesse che permettono alle note di diventare canzoni sempre nuove e alle parole di trasformarsi in storie mai lette. Simbolo vivente del rapporto tra musica e letteratura è, secondo me, Bob Dylan.
La grandezza di un artista come Bob Dylan è di compiere gesti immensi con estrema facilità. Prima di lui musica e poesia sembravano dialogare attraverso il jazz, o per lo meno il jazz sembrava essere in qualche modo influente nella composizione stessa della poesia. Dylan è riuscito a unire nella sua arte narrazione, musica, poesia, spettacolo a scavalcare il limite facendo dialogare il rock con la cultura alta. Rappresenta un feedback, una frattura se vogliamo, che ha forzato alcune resistenze e ha unito linguaggi musicali e letterari apparentemente lontani. Non a caso il poeta Allen Ginsberg salutò il suo arrivo nelle radio con la frase “La poesia nei juke box” e non a caso a lui riserviamo la copertina del nostro nuovo numero. Numero di Coolclub.it dedicato al rapporto tra libri e musica così come una serie di incontri che si stanno svolgendo a Lecce nell’ambito della manifestazione nazionale Ottobre piovono libri: i luoghi della lettura e che abbiamo intitolato, proprio a farla apposta, “La poesia nei jukebox”. Abbiamo interrogato alcuni scrittori su questo tema, lo abbiamo chiesto anche alle band intervistate. Abbiamo cercato di delineare i profili di questo tema anche grazie al contributo eccezionale di Giancarlo Susanna che ci ha regalato il ricordo e le parole di Pier Vittorio Tondelli. E poi dischi libri, film, appuntamenti come per ogni numero e, speriamo, per molti altri. Osvaldo Piliego Editoriale 3
CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 6 Numero 57 ottobre 2009 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Pierpaolo Lala Hanno collaborato a questo numero: Giancarlo Susanna, Marco Chiffi, Rossano Astremo, Tobia D’Onofrio, Rino De Cesare, Camillo Fasulo, Francesco Spadafora, Dario Quarta, Alfonso Fanizza, Dino Amenduni, Vittorio Amodio, Ennio Ciotta, Nino D’Attis, Stefania Ricchiuto, Lori Albanese, Vito Lubelli, Gabriella Morelli, Roberto Conturso, Daniela Miticocchio In copertina: Bob Dylan Ringraziamo Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag. com, Radio Popolare Salento di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Musicaround. net.
PLETTRO E CALAMAIO
Il ritmo della scrittura - Carlo Lucarelli 6-7 La colonna sonora di Pier Vittorio Tondelli 10-11 Nanda Pivano e la controcultura 12-13
Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione per l’ultima volta con questo computer Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: pierpaolo@coolclub.it 3394313397
musica
Giardini di Mirò 16-17 The Zen Circus 20-21 Recensioni 24 Salto nell’indie - Unhip Records 35 Libri
Giancarlo De Cataldo 38-39 Pierfrancesco Pacoda 40-41 Marco Montanaro 42-43 Recensioni 45 Cinema Teatro Arte
Roman Polanski 52-53 W Zappatore 54-55 Recensioni 58 Eventi
Calendario 61 sommario 5
IL RITMO DELLA SCRITTURA Intervista a Carlo Lucarelli
Abbiamo incontrato Carlo Lucarelli a Soleto in occasione della prima Notte Noir del Salento. Carlo era l’ospite principale della serata e si esibiva in uno spettacolo dal vivo con i Radiodervish dove le parole dello scrittore, tratte dal suo ultimo romanzo L’ottava vibrazione si fondevano con i suoni dei Radiodervish creando un’atmosfera carica di suggestioni e di idee. Quello spettacolo rappresenta un po’ la realizzazione pratica di quello a cui dedicato questo numero di Coolclub.it, il rapporto tra la musica e la scrittura, la capacità di queste due arti di suggestionarsi a vicenda, di creare giochi e rimandi. Ogni libro ha una colonna sonora sia per chi lo legge che per chi lo scrive. Alle volte coincidono alle volte divergono, ma quello che è certo è che anche la parola scritta, quando è di buon livello, è capace di rimandare il lettore a mondi lontani, ad atmosfere insolite, così come fa un disco, quando è un buon disco. A Lucarelli abbiamo chiesto che cosa ne pensa di tutto ciò, anche alla luce di questa sua collaborazione con i Radiodervish e del suo libro L’altra faccia della luna, da poco in libreria e dedicato ai misteri nel mondo della musica e dello spettacolo. Hai raccontato che mentre lavoravi al tuo ultimo libro la musica che ascoltavi è stata una componente fondamentale nel tuo lavoro e una fonte di ispirazione. Mentre scrivevo il mio ultimo romanzo, L’ottava vibrazione, ho ascoltato molta musica etnica. E questo ovviamente è normale, dato che stavo scrivendo un romanzo ambientato in Eritrea. Però non ascoltavo solo la musica del posto. Quello che cercavo era una musica che mi facesse pensare: “Sto andando lontano”, quindi ho ascoltato molta musica popolare, anche salentina, o per esempio i Radiodervish, con i quali ho avviato una vera e propria collaborazione senza che loro lo sapessero, nel senso che ho attinto alle loro suggestioni, alle loro atmosfere anche ai loro testi. Poi da qui è nato uno spettacolo che abbiamo portato in scena in un paio di belle occasioni e che spero possa proseguire e crescere. È così per ogni libro che scrivi? Ogni libro ha la sua colonna sonora. Serve a darti suggestioni, idee, comunicarti atmosfere. Per Almost blue il discorso è stato leggermente diverso. Lì c’è una vera e proprio colonna sonora, che poi è più o meno quella del film. C’è ovviamente Almost blue di Costello, e poi c’è il
jazz che ascolta uno dei personaggi e poi un paio di pezzi dei Nin Inch Nails, o il metal che ascolta un altro personaggio. Spesso quando scrivo ascolto anche musica che con me non c’entra niente. Per esempio quando ho lavorato a L’isola dell’angelo caduto, ambientato nel 1925, ascoltavo moltissima musica dodecafonica. Ho acquistato moltissimi dischi di Shoenberg e altri compositori contemporanei come se fossi un grande appassionato di quel genere, quando invece non lo sopporto e non lo ascolto, ma per quel romanzo avevo bisogno di quelle suggestioni. Come è nato il tuo libro sui misteri e i delitti del mondo della musica e dello spettacolo? L’altra faccia della luna raccoglie materiali preparati per XL e per Radio Dj. Si tratta, nel caso dei pezzi per XL, di racconti scritti in fretta dati i tempi di stampa di un mensile, mentre per il materiale per Radio DJ, addirittura sono pezzi nati per essere letti in radio. L’idea è venuta contemporaneamente a Linus di Radio Dj e ai redattori di XL. Mi hanno chiamato e mi hanno detto: “Senti, perché non prepari del materiale sul tipo di Blu Notte lavorando sui misteri del mondo della musica e dello spettacolo?” Poi ho raccolto tutto ed è nato questo libro che racconta belle storie. Storie belle da raccontare, perché ovviamente parliamo di personaggi eccezionali che si muovono nel mondo spietato dello spettacolo. Un mondo dove se non sei particolarmente equilibrato vieni stritolato. Ecco io racconto chi si è fatto stritolare. Non sono veri e propri misteri, sono più storie drammatiche, tragiche. Questo numero di Coolclub.it è dedicato al rapporto tra la musica e la scrittura anche da un punto di vista stilistico, di “mestiere”. Penso per esempio al ritmo che nella scrittura a mio avviso è una componente essenziale. Il rapporto tra musica e scrittura è strettissimo. L’affinità principale è il ritmo. Lo scrittore deve riuscire a far riconoscere al lettore il ritmo della sua scrittura che non è immediato come nella musica. La difficoltà dello scrivere sta proprio nel riuscire a mettere nella testa del lettore dei suoni che sono le parole. E con quei suoni creare suggestioni, atmosfere, rimandare ad altro. Il musicista lo fa con le note, ma in fondo il lavoro è lo stesso. Dario Goffredo pLETTRO E cALAMAIO 7
UN GIOCO A PIÙ VOCI
Quanti libri in quelle canzoni
Musica e letteratura esercitano un’influenza reciproca perché parti integranti del nostro mondo. Sia le canzoni che la scrittura non fanno che nutrirsi di vita e pertanto finiscono per incontrarsi. Spesso involontariamente, a volte per scelta finiscono per entrare una nell’altra. Lunga è la lista di canzoni e dischi interi ispirati dalla letteratura e tanti i libri in cui in un modo o nell’altro la musica finisce per diventare protagonista, personaggio o elemento caratterizzante. Solo la curiosità può guidare nella ricerca della citazione perché l’ispirazione è quasi sempre frutto di un caso, un attimo. Abbiamo provato a trovare canzoni che parlano di libri, che ne traggono spunto o ne citano frammenti. Uno dei più grandi parolieri della storia del pop è Morrisey (leader degli Smiths), un innovatore 8
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nell’uso della metrica ma anche ispirato da tanta letteratura e immaginari letterari (Oscar Wilde ad esempio). La sua Billy Bud fa riferimento ad un racconto di Melville. Diversi artisti si sono ispirati poi alle pagine profetiche di 1984 di George Orwell. Diamond Dogs, ad esempio, è un concept album di David Bowie del 1974 direttamente ispirato dal romanzo. Così come anche i Radiohead nel loro bellissimo Ok computer hanno più volte fatto riferimento allo stesso libro. Sempre Orwell, ma questa volta con La fattoria degli animali ha contribuito alla nascita di Animals dei Pink Floyd che si ispirano all’ I Ching in Chapter 24 e per la loro The Gnome a Tolkien, autore che ha influenzato l’immaginario di tantissime band metal oltre a quello dei mitici Led Zeppelin. Ma non finisce qui. I Cure ad esempio citano Be-
renice di Edgar Allan Poe nella loro famosissima Lullaby e si ispirano a Lo straniero di Albert Camus. E chi lo avrebbe mai detto che Simphaty for the devil dei Rolling Stones ha a che fare con Il maestro e margherita di Michail Bulgakov. Neanche i Beatles sono immuni allo zampino della letteratura. Le storie illustrate e il non sense di Edward Lear sembrano aver contribuito a delineare il mondo descritto dai quattro di Liverpool. Nella produzione del più volte citato in questo numero Bob Dylan sono confluite le sue numerose letture (Whitman, D.H. Lawrence, Rimbaud, Eliot solo per citarne alcuni). Anche un animo ribelle come Jimi Hendrix aveva passioni letterarie. Gran parte dei suoi testi un po’ criptici facevano in realtà riferimento a temi di fantascienza di cui sembra fosse un ap-
passionato lettore. La sua All along the watchtower, ad esempio, si riferisce a Frankenstein. C’è poi chi la poesia l’ha proprio trascritta in musica. È il caso di Georges Brassens che ha fatto diventare i versi di François Villon delle bellissime canzoni. E non si può parlare di Brassens senza parlare di Fabrizio De Andrè. Esemplare la sua opera Non al denaro, non all’amore, né al cielo che riscrive e racconta e musica L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Questi sono solo pochissimi esempi di un rapporto amoroso lungo e indissolubile che non tiene conto della differenza di età, di genere, di nazionalità. Un gioco a più voci che fa della musica un lavoro a scoprire sempre nuove storie che fanno delle canzoni piccoli mondi pieni di cose scoprire, basta leggere bene. Osvaldo Piliego pLETTRO E cALAMAIO 9
“SCRIVO SEMPRE CON LA MUSICA” La colonna sonora di Pier Vittorio Tondelli
Era tanto che non ci pensavo, forse perché la musica rock – o pop che dir si voglia – è entrata definitivamente nella scrittura di tanti autori italiani. Ma allora, negli anni ‘80, quando Pier Vittorio Tondelli fece il suo esordio bruciante e scandaloso con Altri libertini, non era ancora così. Il libro mi aveva colpito anche per questo. C’era un ritmo febbrile, nella scrittura di Tondelli e c’erano anche citazioni esplicite:
a scrivere, un po’ come con la radio. Ora utilizzo i CD, durano abbastanza, non devi cambiarli continuamente. Scrivo sempre con la musica e devo sempre avere un sottofondo. Per Camere separate è stato anche abbastanza divertente perché la musica mi aiutava a calarmi nelle diverse situazioni. Quando scrivevo della Spagna c’erano i Gypsy Kings, in un’altra parte del libro Joe Jackson o Morrissey...
«(…) Poi nella casa di Dilo distesi sul letto a sentire dei dischi, lasciare che la musica entri nella testa e la riposi, luce morbida… Like a bird on the wire, like a drunk in a midnight choir I have tried in my way to be free, like a worm on a hook, like a knight from old-fashioned…fingere che tutto sia passato, ma il silenzio imbarazzato del dopopranzo dice tutto il peso che ho dentro, che mi prende il respiro e il cervello e non basta Tim Buckley, I am Young, I will live, I am strong I can give You the strange Seed of day Feel the change Know the way, Know the way… e non basta che le mie dita giochino fredde con quelle di Dilo».
Della colonna sonora di Rimini si diceva poco fa, ma subito dopo questo romanzo, Tondelli, sollecitato dal direttore di Rockstar Giuseppe Videtti, tenne per molto tempo una rubrica dedicata al dialogo con i lettori, un dialogo che teneva naturalmente conto del contesto in cui era collocata. Una scelta di brani di “Culture Club” – così si chiamava la rubrica, con l’ennesimo richiamo alla pop music, a Boy George – fu poi raccolta in un piccolo volume pensato come un omaggio allo scrittore prematuramente scomparso e diventato un oggetto di culto per i suoi lettori. Anche Un weekend postmoderno, corposa antologia di articoli, interventi e testi sparsi curata dallo stesso Tondelli, teneva conto della musica. Sempre con uno sguardo a 360 gradi e un’assoluta mancanza di pregiudizi. Con una leggerezza e una sensibilità che servono ancora come esempio per chi voglia fare il duro mestiere del critico con una forte ambizione. L’andamento ondivago delle mode culturali e lo sfascio che tormenta la parte pensante del nostro paese hanno relegato Pier Vittorio Tondelli in una sorta di cono d’ombra, ma i suoi libri – Camere separate in modo particolare – hanno un valore che trascende e supera il trascorrere inesorabile del tempo. Come Songs From A Room di Leonard Cohen (nella foto) o Blue Afternoon di Tim Buckley, per citare due album di cantautori molto amati dallo scrittore emiliano. Giancarlo Susanna
Non mi era mai capitato di trovare frammenti dei testi di Leonard Cohen (nella foto) o di Tim Buckley in un romanzo pubblicato in Italia. Tondelli rifuggiva dalla separazione tra cultura “alta” e “bassa” tipica dei letterati e se c’è un filo rosso che scorre in tutti i suoi libri è proprio questo. Non fu un caso che lo intervistassi sempre per delle riviste musicali: la prima volta nel 1986 per telefono all’indomani della pubblicazione di Giovani blues, il primo volume dedicato agli autori Under 25; la seconda nel 1989 di persona per parlare di Camere separate. Fra le domande che gli feci ce n’era una proprio sull’importanza di versi, ritmi e melodie nella sua scrittura: La musica è stata sempre presente nei tuoi libri, alla fine di “Rimini” c’era addirittura un elenco di canzoni, quasi un’indicazione per un’ideale colonna sonora. Quanto spazio occupa la musica nelle tue giornate? Quando scrivevo Altri libertini avevo sempre la radio accesa. Poi ho cominciato a scrivere con il sottofondo di Videomusic… Da un po’ di tempo in qua però parlano troppo e allora mi distraggo. Mi piaceva molto perché ogni tanto alzavo gli occhi, seguivo un po’ una canzone e poi tornavo
Altri libertini, Feltrinelli, Milano, 1980. Under 25, Giovani blues, Il lavoro editoriale, Ancona, 1986. Rimini, Bompiani, Milano, 1985. Camere separate, Bompiani, Milano, 1989. Un weekend postmoderno, Bompiani, Milano, 1990. Culture Club su Rockstar, Rockstar, Roma, 1992. Opere, Cronache, saggi, conversazioni, Bompiani, Milano, 2001.
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NANDA PIVANO E LA CONTROCULTURA Un ricordo a due mesi dalla scomparsa Per ricordare Fernanda Pivano, scomparsa all’età di 92 anni ad agosto, il modo migliore è ripescare il suo amore per la letteratura americana del secondo Novecento tra le pagine dei suoi libri. Ne cito uno su tutti, Beat Hippy Yippie, testo pubblicato nel 1972 dall’editore Arcana, all’interno del quale la Pivano analizza alcune delle figure più importanti e rappresentative della scena underground americana di quegli anni, con riferimento particolare agli scrittori della Beat Generation da lei tanto amati. Nel capitolo È morto Neal Cassady, il protagonista della beat generation, la scrittrice rievoca con nostalgia il primo incontro con il protagonista di Sulla Strada di Jack Kerouac (nella foto): “Quando lo incontrai, nel 1962, stava scontando nove mesi di libertà vigilata a Los Gatos, una cittadina a una cinquantine di chilometri da San Francisco dalla quale teoricamente Neal non avrebbe mai dovuto allontanarsi e nella quale aveva ripreso a fare il suo antico mestiere di parcheggiatore. Mi ero messa in testa di ritrovare il manoscritto del suo romanzo, Il Primo Terzo di cui tutti gli amici mi avevano molto parlato e che Ginsberg mi aveva citato nella sua dedica a Urlo; e a forza di rompere le scatole a tutti c’ero riuscita e il manoscritto era saltato fuori da una vecchia scatola di detersivo dove Philip Whalen aveva tenuto alla rinfusa i suoi inediti per i molti anni in cui non ebbe abbastanza denaro per pagarsi l’affitto di una camera, e io portai con me questo manoscritto a Palo Alto e Lawrence Ferlinghetti venne da San Francisco a prenderlo per portarlo con sé a Big Sur e poi lo fece copiare a macchina e ora, sei anni dopo, probabilmente finirà per pubblicarlo. Neal lo aveva chiamato Il Primo Terzo perché descriveva il primo terzo della sua vita, ma nessuno, e lui meno di tutti, avrebbe mai sospettato che la sua vita sarebbe stata così breve”. Questo brano, scritto subito dopo la morte di Cassady, l’8 febbraio 1968, è dominato da toni di tristezza e nostalgia, per un periodo di grande creatività che stava volgendo al termine, portandosi con 12 pLETTRO E cALAMAIO
sé lentamente i suoi protagonisti. Di particolare interesse sono i brani dedicati dalla scrittrice al cantante rock Bob Dylan, incontrato nel dicembre 1965: “Gli amici mi parlarono di Dylan sul Camper Volkswagen di Ginsberg, mentre andavamo a raggiungere il poeta-cantante, che quella sera era già a San Francisco, per il concerto dell’indomani. Ogni volta che si suonava Mr. Tambourine Man tutti i ragazzi nel locale lo cantavano in coro, più o meno come i ragazzi del 1957 recitavano in coro i versi di Urlo”. La letteratura beat, che ha avuto nella musica jazz nera uno dei suoi motivi ispiratori, è stata, a sua volta, nuova linfa per un gran numero di cantanti rock bianchi, che vedevano nel messaggio dell’ansia di vivere e della suprema ricerca della folle libertà beat un mezzo attraverso il quale raggiungere il ‘miglior mondo possibile’. La seconda parte di Beat Hippy Yippie, dopo l’analisi delle principali figure della cultura beat, si sofferma sulla scena dell’underground europeo, delineando la storia di riviste quali Oz e UFO e le difficoltà di diffusione legate alla censura limitante e repressiva. Nella terza parte la Pivano si sofferma sul teatro underground, nato dalle stesse esigenze di libera espressione beat, e in particolar modo sull’esperienza del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Le ultime due parti del testo ritornano su questioni che esulano da esperienze propriamente letterarie per soffermarsi sulla Nuova Sinistra americana e sulla politica del Movimento Nero volta all’affermazione dei propri diritti, contro la logica razzista dei bianchi dominatori. Libro questo della Pivano che ci fa toccare a piene mani l’atmosfera di un’epoca ricca di creatività, libertà, ideali di difficile replicazione. Dopo l’edizione Arcana del 1972, molte sono state le riedizioni del libro. Io possiedo un’edizione del 1977 edita da Bompiani. Potete ordinarlo in libreria, sempre edito da Bompiani, nell’ultima edizione datata 2004. Rossano Astremo
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SCRIVERE IN BLUE
Breve carrellata di racconti jazz e blues
Sonny Liston andava avanti per ore ad allenarsi sparando a tutto volume Night Train di Jimmy Forrest, una cavalcata blues giù dritto nel fango e nella notte dove Sonny era abituato a pascere. Ce lo racconta Nick Toshes nella sua biografia del pugile nero e cattivo Sonny Liston e il diavolo. Jazz e blues sono stati e sono tuttora grandi muse ispiratrici di splendide pagine di letteratura. Leo Percepied, il protagonista de I sotterranei di Kerouac, passa lunghe serate nei jazz bar di San Francisco ad ascoltare il be bop dei neri e in particolare di Charlie Parker. E proprio il grosso e maledetto Bird è uno dei protagonisti di Natura morta con custodia di sax, capolavoro di Geoff Dyer che raccoglie storie sui musicisti jazz il cui filo conduttore, oltre alla musica, vera principale protagonista del libro, è la disperazione e la continua ricerca del fango depositato sul fondo. Lo stesso fango in cui si rotolava Sonny Liston, con cui abbiamo iniziato questo pezzo. Il ritmo lento, contorto, ossessivo, sincopato di certo jazz e di certo blues è la colonna sonora ideale per storie drammatiche che hanno i colori della notte come certo hardboiled americano. Del resto fa parte di tutti i cliché creati da quel meraviglioso genere il detective solo e triste che cammina nel cuore della notte pensando alla sua bella e al bourbon che sta per bere. Nell’aria ovviamente non può che risuonare A night in Tunisia di Dizzie Gillespie (nella foto). James Ellroy ci ha regalato alcuni ritratti indelebili di musicisti come in Dick Contino’s Blues dove è lo stesso fisarmonicista italo-americano a raccontarci la sua musica e le sue avventure e disavventure con la mafia. O ancora Frank Sinatra che diventa un personaggio simbolo dell’Ameri14 pLETTRO E cALAMAIO
ca senza più innocenza in Tijuana, mon amour, American Tabloid e Sei pezzi da mille. Tanto per parlare ancora un po’ di fango e disperazione. La stessa America che perde l’innocenza nella narrativa Southern gothic dei vari Truman Capote, William Faulkner, Flannery O’ Connor e Tennessee Williams. E che musica ti arriva alle orecchie quando leggi A Sangue freddo o Il cielo è dei violenti? Ma naturalmente un lento, caldo e triste blues. È la stessa parola “Blues” che in qualche modo entra di prepotenza nei titoli di moltissimi romanzi come a rappresentare fin dal titolo una predisposizione, uno stato d’animo. Chi si accinge a leggere un libro che reca nel titolo quella parola magica si aspetta già qualcosa dal libro, anche senza sapere di che tratta, anche senza sapere a che genere letterario appartiene. Ed ecco che, se facciamo un breve e rapido elenco di alcuni famosi libri con la musica del Delta nel titolo come Tokio Blues, di Haruki Murakami, Piccolo blues di Jean-Patrick Manchette, Blues di Bay City di Raymond Chandler, New York Blues di Cornell Woolrich, o Miami Blues di Charles Willeford (da cui è stato tratto un indimenticabile film con un giovanissimo Alec Baldwin e una bellissima Jennifer Jason Leigh), o Tishomingo Blues di Elmore Leonard è inequivocabile che pur diversissimi tra loro, questi libri hanno in comune un’atmosfera dimessa, triste, blue, come dicono gli americani per definire quell’umore. Quello stesso umore che ti resta addosso quando scavi nel fango e nel fondo della notte, magari ascoltando Night Train di Jimmy Forrest con un paio di guantoni alle mani, come il buon vecchio Sonny Liston. Dario Goffredo
LEGGIMI UNA CANZONE Storia d’amore tra libri e canzoni Il rapporto tra musica e carta stampata non è mai stato florido. Frank Zappa non sopportava i giornalisti e così un giorno se ne uscì sentenziando che il giornalista musicale è ‘uno che non sa scrivere che parla di qualcosa che non conosce per gente che non sa leggere’. Ma la questione non è tra le righe di una recensione musicale (che comunque resta un processo estremamente soggettivo) ma tra la musica e la scrittura come parole che diventano libri o romanzi, al posto di note che diventano album o EP. Il musicista non sempre riesce a capire lo scrittore. E questo avviene perché prima di tutto la materia è molto diversa ma anche il processo compositivo è totalmente opposto o quasi. Diversi sono i tempi di preparazione e diversi sono i tempi di consumo e digestione. Una canzone è come un caffè al bar: lo aspetti, lo bevi e vai via. Mentre un libro è più come un pranzo domenicale in famiglia: sai quando ti siedi a tavola e ignori quando ti rialzerai. Una canzone in quattro minuti deve raccontare qualcosa, un’emozione quanto una storia, e perciò scrivere un testo musicale si riduce a poche precise parole. Non può esserci la divagazione perché c’è il tempo che detta le regole. E anche la melodia che accompagna a braccetto il testo deve illuminare e trascinare chi ascolta in tempi stretti. Un libro invece, un romanzo ad esempio, ha tutto il tempo che vuole. Ha la libertà di divagare, anzi deve farlo. Deve scendere nei dettagli, quegli stessi dettagli che una canzone magari lascia all’immaginazione del lettore. Ad una prima occhiata parrebbero quasi discipline lontane. E invece. Invece ti trovi autori che senza la musica non avrebbero mai scritto un libro. Prendete Nick Hornby, scrittore inglese, che non manca mai di permeare le sue storie con delle belle colonne sonore. Il suo Alta Fedeltà ne è un esempio, ma anche 31 Canzoni, che pare quasi una compilation su carta. E Nick Hornby non è un musicista, è uno scrittore. Scrive recensioni di dischi e libri ed è forse l’esponente più noto di una generazione di romanzieri che senza musica non avrebbe mai iniziato a scrivere. In Alta Fedeltà c’è il protagonista che vive facendo delle Top Five. Mette in classifica qualunque cosa: dai primi pezzi degli Lp agli amori finiti. E in più possiede un
negozio di dischi. Ed è anche snob con chi ne sa meno di lui in fatto di cultura musicale. In Italia abbiamo Enrico Brizzi che con il suo Jack Frusciante è uscito dal gruppo ha formato una generazione intera. Sfogliando il libro viene fuori una colonna sonora perfetta per i tempi in cui è stato scritto. Senza quella, senza quei rifacimenti alla musica il libro non funzionerebbe. E anche Brizzi non è un musicista. Scrive accompagnandosi con la musica ma non suona, non ha una band, non è mai salito sul palco imbracciando una chitarra. Cosa che invece ha fatto Andrea De Carlo, scrittore milanese, che oltre a scrivere libri noti come Treno di Panna e Due di Due è anche musicista. In alcune edizioni dei suoi libri De Carlo allega anche un cd contenente delle sue canzoni. Ne ha già pubblicati due di dischi e uno in collaborazione con Arup Kanti Das, percussionista bengalese di fama internazionale. Ed ecco perciò uno scrittore che diventa musicista. Ma accade a volte anche il contrario. Davide di Leo ha pubblicato nel 2004 il romanzo Un’ora e mezza e nel 2006 Dianablu. Nulla di strano se non fosse che Davide di Leo è conosciuto al grande pubblico col nome d’arte di Boosta, tastierista della band torinese dei Subsonica. Bingo! Ecco un musicista che si fa scrittore. E non è certo l’unico esempio. Non si parla di musicisti che scrivono le proprie autobiografie: l’hanno fatto tutti da Johnny Cash a Michael Jackson (bonanima) a Pino Scotto (o almeno poco ci manca). Qui è l’arte che cerca l’arte. Affinare le proprie tecniche per esprimersi in modo diverso. Perché alla fine la materia prima è la stessa, cambiano giusto i modi di svilupparla. E poi sarà anche che un artista cresce e ha altre necessità, ha voglia di sperimentare e di sperimentarsi. Ad esempio Alex Kapranos leader degli scozzesi Franz Ferdinand cura una rubrica di critica culinaria sul Guardian e da poco ha raccolto i suoi articoli in un libro. Certo, qui il discorso è generalista e forse troppo sommario. Ma è giusto per legare due discipline che seppur diverse sono arte e hanno insita l’immortalità dell’arte, il lasciare un segno tangibile del proprio esprimersi. Marco ‘Marvin’ Chiffi 15
MUSICA
GIARDINI DI MIRÒ La vita di un amore
Ci sono casi in cui la musica supera se stessa, oltrepassa il genere trasformandosi in altre forme d’arte o più semplicemente fondendosi con loro. È così che la musica si sposa con le immagini e diventa colonna sonora, struttura stessa delle immagini e non solo commento. Succede poi che la musica possa riportare in vita immagini che il tempo aveva dimenticato. È successo ai Giardini di Mirò che con Il fuoco incarnano una nuova forma musicale della loro cangiante evoluzione all’insegna della sperimentazione. Il Fuoco è un film del 1915. Il Museo Nazionale del Cinema di Torino ne ha commissionato la sonorizzazione alla band emiliana. Adesso è un disco, il nuovo album dei Giardini di Mirò, una suite in tre movimenti (La Favilla, La Vampa e La Cenere) e dodici brani che ben traspongono in note la fasi della vita di un amore. Abbiamo parlato con Corrado Nuccini chitarra, voce e tra i fondatori della band.
zione nuova, adesso, sembra essersi aperto per voi un nuovo percorso. Credi appartenga al normale evolversi delle cose, a un processo di ricerca o a tutte e due le cose? Non so, solitamente non pensiamo a questo tipo di cose, proviamo a scrivere musica secondo il nostro modo di sentire le cose, poi tutto il resto sono ragionamenti posteriori, sarà per questo che si chiama post rock? Prima lo fai poi lo pensi...
Siete la dimostrazione che dopo il post c’è ancora qualcosa, già con il vostro precedente album avevate inforcato una dire-
Il vostro ultimo lavoro supera la musica per abbracciare anche le immagini, come nasce questa esperienza e com’è stato lavo-
16 MUSICA
La classificazione delle cose è irrimediabilmente parziale, nella vostra musica intervengono i risultati di molteplici ascolti e il contributo di personalità musicali diverse, come convivono e come si incrociano? Siamo consapevoli che la diversità è un valore quindi cerchiamo di trovare, all’interno, nostre personalità, uno spazio comune dove produrre cose che ci rappresentino.
rare a una colonna sonora? Una bella esperienza che ha stimolato una parte del nostro immaginario che col disco prima s’era assopita, quella più profondamente scura e malinconica. Quella densa a notturna. La mia preferita. L’esperienza nasce con la richiesta da parte del museo del cinema di Torino di sonorizzare l’omonima pellicola, per un evento live che si è tenuto nel 2007 al cinema Massimo di Torino. Essere i Giardini di Mirò in Italia è una responsabilità? Credi che ogni artista abbia una responsabilità rispetto il proprio pubblico o al contrario sia libero di creare senza pensare al dopo? Parlare di responsabilità è eccessivo. Preferirei pensare che sia importante avere cura del proprio pubblico. Avere cura non significa però essere ciò che loro si aspettano, significa piuttosto fare del proprio meglio per essere all’altezza delle attenzioni e dell’interesse. Come si fa? Beh, questo non te lo dico, mica posso svelarti tutti i segreti! No?
Il Fuoco è un album frutto di un’esperienza nata da una proposta, legato a uno spettacolo che portate in giro. Arriverà un nuovo album dei Gdm in linea con Diving Opinions? State lavorando a delle “canzoni” o questa è la vostra nuova strada? La vostra musica avrà di nuovo “voce”? Abbiamo già diversi pezzi nuovi, almeno una decina. Alcuni di questi li stiamo suonando e li suoneremo nei prossimo concerti. Uniscono i giardini di mirò di Dividing opinions con quelli de Il fuoco. Macedonia again. Questo numero del giornale è dedicato alla musica che finisce nei libri, ai libri intrisi di musica, alle colonne sonore dei libri… più in genrale al rapporto tra letteratura e musica. Cosa ne pensi? Sono assolutamente legati ad un nodo stretto. Musica e letteratura, suono e parola sono espressioni che si inseguono, si cercano e qualche volta si trovano. Antonietta Rosato MUSICA 17
PORT ROYAL Un’entità fluida e continua
È una delle realtà elettroniche italiane più famose all’estero. Dopo diversi tour in tutta Europa (e Russia) e collaborazioni di rilievo nel ruolo di remixers per Ladytron e Felix Da Housecat esce Dying in time nuovo capitolo della loro discografia. Abbiamo intervistato i genovesi Port Royal. Spesso le vostre tracce presentano ritmiche dance o comunque ballabili che occupano però, solitamente, una scarsa metà del brano. Sono brani che nascono gradualmente e si dissolvono in ambientali liquidi amniotici. È forse una sorta di attrazione/ repulsione nei confronti dell’elettronica ballabile, visto anche che il titolo del precedente album era Afraid To Dance? O piuttosto le vostre suggestioni non raggiungono mai una quiete definitiva? La tua è un’osservazione corretta. Quando componiamo un brano, in effetti, sentiamo spesso l’esigenza di inserire un ritmo incalzante e ben definito, a volte in 4/4, a sostegno dello scorrere delle tastiere e delle melodie; è qualcosa che appartiene al nostro gusto sin dagli inizi, e con cui abbiamo fatto i conti già in certi frangenti di Flares (2005) e persino del nostro primo Kraken EP (2002). Dall’altra parte, è pure vero che facciamo per vari motivi fatica a immaginare ed accettare che un nostro brano viva per intero sopra quelle cadenze ritmate: forse troppa regolarità ci stufa; più probabilmente si tratta di un espediente che se abbracciato in toto finirebbe con stonare con la sostanza del nostro suono, che ha bisogno di spazio e di respiro per vivere. Sembra che non amiate palesare, quanto piuttosto “abbozzare”, dare piccoli e fuggevoli assaggi, tratteggiare brevi paesaggi un po’ come in un flusso di coscienza psichedelico che non ha il tempo di fermarsi su immagini nitide e immutabili. È un po’ lo stesso principio alla base di molta musica ambient e post-rock: come spiegate questa scelta compositiva, se è una scelta, e quali 18 MUSICA
sono le maggiori influenze provenienti da questi due “generi” musicali? Sì, quello che descrivi è sicuramente un aspetto cui da sempre prestiamo la massima attenzione, sin dalle nostre prime produzioni: se è vero che al fondo il nostro suono consiste in un’entità fluida e continua, è pure inevitabile dire che questa entità muta continuamente e appare come in perenne movimento. È il frutto della nostra sensibilità, affinata in anni di ascolti nei generi che citi, e della pazienza che mettiamo nel pensare e rendere le strutture dei pezzi e nel lavorare sui dettagli, cose che da sempre possiamo fare in tranquillità, dato che seguiamo personalmente ogni fase del processo (creativa e compositiva, ma anche di produzione in senso lato) e lavoriamo costantemente nelle nostre camere davanti al computer senza le scadenze tipiche degli studi di registrazione (e soprattutto senza delegare a nessun altro la produzione dei nostri pezzi). Tecnicamente procediamo di solito da un’idea melodica di base e per poi declinarla in svariate maniere, sotto il profilo della strumentazione, dei timbri, delle stratificazioni e delle note stesse, posizionando strategicamente i vari momenti all’interno della composizione ed effettuando continui sottili rimandi a distanza; già le due trilogie contenute in Flares rappresentano un perfetto esempio di questo nostro modo di pensare e realizzare la musica. Detto così il tutto può sembrare un processo fatto a tavolino in maniera un po’ fredda ma in verità, a parte che in questo senso è vero che fare musica significa essere un po’ una sorta di artigiano, tutto viene in modo molto naturale. Del resto questo stile ha un preciso riflesso di contenuto e sostanza perché, a nostro modo di vedere, in questa maniera per certi versi si riesce a rispecchiare quello che in fondo è la vita a tutti i suoi livelli, da quello chimico/ biologico e quindi microscopico a quello macro dell’umano, esistenziale, culturale e sociale. Di solito le voci disegnano linee melodiche eteree e affogate nei suoni; talvolta si percepisce un cantato difficile da decifra-
re, alla maniera dei gruppi shoegaze. A questo proposito The Photoshopped Prince rappresenta forse un caso anomalo, con i suoi battiti più costanti ed un cantato quasi canonico e comprensibile… Il finale poi tradisce un amore spassionato per il sound anni 80… quali sono i vostri ascolti preferiti dell’epoca e di cosa parla la “canzone”? Guarda, abbiamo, in effetti, letto da più parti, nei commenti vari al nuovo lavoro, questi riferimenti agli anni ’80, ma la verità è che non possiamo dire di amare spassionatamente quelle sonorità, tutt’altro. Forse per via di certi frangenti, come in The Photoshopped Prince, qualcuno ci ha persino accostati a bands come i Depeche Mode e gli Human League. Che pure, onestamente, non abbiamo mai ascoltato e a cui non ci siamo mai ispirati (e che, a dire il vero, per quel poco che abbiamo avuto modo di sentire manco ci piacciono)… Poi è chiaro che molta roba che abbiamo come riferimento proviene alla fine e per certi versi anche da lì, che lo shoegaze nasce alla fine di quel decennio, che come tutti amammo in gioventù i Joy Division, eccetera; ma per noi si va fuori strada a pensare che Dying In Time possa anche solo in parte essere inteso come un omaggio moderno a quell’epoca (come, invece, forse può dirsi più propriamente per gli ultimi lavori di un gruppo come gli M83, per esempio…). Per rispondere all’ultima parte della tua domanda, il testo di The Photoshopped Prince parla della perdita dei capelli e dei sentimenti ad essa connessi. Exhausted Muse sfoggia una chitarra impalpabile e ricorda le atmosfere del Badalamenti più etereo ma soprattutto dei Mogwai, anche se poi il sound liquido si cristallizza in un sincopato treno svizzero tra le frequenze disturbate. Anche la prima e la terza parte di “Hermitage” sono più lineari rispetto agli altri brani e sembrano ricalcare sonorità care al gruppo scozzese. Avete scelto di utilizzare la sei corde solo dov’era strettamente necessario? I port-royal nascono nel 2000 come gruppo fondamentalmente chitarristico e all’epoca sicuramente tra i nostri punti di riferimento imprescindibili c’erano i Mogwai (ma attenzione, rigorosamente quelli di Young Team e del 4satin EP per intenderci). Con il tempo pensiamo di esserci del tutto affrancati da quella matrice, ma di chitarre (in special modo di chitarre utilizzate con l’effetto delay) ne abbiamo sempre usate: all’inizio (vedi Flares) ancora per scrivere i pezzi, successivamente sempre più, più che altro, per andare ad arricchire una base che ormai nasce
con le tastiere. In Dying In Time c’è la trilogia conclusiva che fotografa un momento antico (giugno 2001), pur rielaborato con la nostra sensibilità odierna: si tratta di uno dei primi pezzi che provavamo in saletta, indietro nel 2000/2001, tra l’altro vero e proprio cavallo di battaglia dei nostri primi concerti; è quindi naturale sentirvi dei richiami anche al mondo degli scozzesi. Come sono nate le collaborazioni che vi hanno portato a remixare Ladytron e Felix da Housecat? I remixes per Ladytron e Felix Da Housecat sono state belle esperienze ottenute insieme ai nostri manager Carlo e Laura: occasioni che noi abbiamo poi colto al volo divertendoci anche nella lavorazione dei pezzi. Comunque nel prossimo futuro pensiamo di continuare avanti a fare tali piccole collaborazioni, sia con artisti più famosi che meno famosi. Siete reduci da un tour in Europa e Russia. E ho letto che citate la storia del comunismo asiatico come vostra primissima influenza. Che impressioni avete avuto viaggiando nell’Est e quali le differenze rispetto al nostro continente? Ti devo correggere: non asiatico, bensì slavo. Asiatico era un aggettivo dispregiativo che usavano i nazi-fascisti (ma anche i vari liberali) negli anni Venti e Trenta per descrivere il comunismo sovietico (slavo-europeo), in quanto barbaro e incivile (secondo loro). Noi siamo molto affascinati dal mondo slavo (e non propriamente quello asiatico – anche se l’Asia ci incuriosisce parecchio – che è cosa ben diversa) in tutte le sue sfaccettature e quella del comunismo è sicuramente una delle più famose e famigerate, ma non necessariamente la predominante. Le impressioni sono tante e multiformi, in generale si può dire che suonare in Est-Europa, secondo noi, gratifichi di più, in quanto c’è lì un pubblico più “caldo” e partecipante allo show, gente che si lascia davvero trasportare e che si vuole divertire (anche per recuperare il tempo perduto…). Spesso all’Ovest si vede gente che va ai concerti non per godersi lo spettacolo, divertirsi, ma puramente per criticare come se fossero tutti recensori e critici. Un po’ più di sana naturalezza immediata non farebbe male e penso che questa sia una delle cose positive delle persone dell’Est in generale. Un’altra bella differenza è che lì si suona a volumi molto più alti! Ecco, all’Est la gente non ha davvero “paura di ballare”… Tobia D’Onofrio MUSICA 19
THE ZEN CIRCUS Una nuova storia italiana 20
Dopo anni di militanza nel panorama indie con il loro folk punk di matrice Violent femmes gli Zen Circus fanno il salto con questo disco che ha tutti i contorni di un concept album sull’Italia. Scelgono di cantare in italiano e non risparmiano nessuno con una sana dose di ironia e cinismo. Per essere il vostro primo disco italiano, direi che cominciate con un titolo che è tutto un programma. Andate tutti affanculo è una di quelle espressioni che nel suo essere diretta nasconde in realtà molti significati (almeno mi sembra di cogliere questo ascoltando i nuovi brani). È punk, nichilista, cos’è? Non siamo un gruppo nichilista, ma siamo cresciuti tutti e tre con il punk. Puoi considerarlo un titolo puerile oppure di cattivo gusto, e sappiamo già che verrà completamente travisato. Con questo disco volevamo fare un ritratto del bel paese, il meno sognante possibile, un commento aperto all’Italia di oggi, con i suoi rituali borghesi, le sue liturgie, le sue maschere liberiste,una realtà dove ti viene costantemente venduto il sogno di essere il vincente, sempre e ovunque, mettendola nel culo a chiunque, ma col sorriso. Questo disco è il nostro piccolo giudizio sul paese a forma di scarpa. Tutto questo chiaramente filtrato dall’ironia e dal giusta forza del dissacrare.Non abbiamo la verità in tasca e nemmeno vogliamo averla. Cosa c’è di Italiano, a parte la lingua intendo, in questo album? Per la prima volta nella nostra storia abbiamo attinto quasi completamente dall’Italia, nazione popolo e vita. Abbiamo girato questo paese molte volte, lo abbiamo scoperto piano piano, data dopo data,nei suoi immensi difetti, ma anche nei suoi numerosi pregi. Le canzoni di questo disco sono dieci storie, esperienze personali e storie di personaggi di provincia della nostra piccola Italia. Quello che emerge dal disco è una visione cinica, ma anche ironica del periodo che viviamo, in generale amara. È un momento in cui anche la musica rock indipendente in Italia prende della posizioni, o per lo meno offre delle visioni del mondo, cosa che fino a poco tempo fa era rara. Credi sia un impulso a reagire o cosa? Sinceramente anche io sto notando questa tendenza in molti gruppi italiani e mi fa molto piacere, soprattutto perché non c’è il classico tuffo a bomba nel politico che spesso cade nel ridicolo.
Amiamo tutti e tre molto i testi del Teatro degli orrori che a nostra opinione danno una bellissima e spietata visione del periodo odierno. Spesso il meglio viene fuori quando si è sotto pressione e schiacciati. In un periodo di totale sottomissione come questo in Italia, di mancanza di luce alla fine del tunnel, l’unica cosa che rimane da fare è reagire. L’impulso a reagire in molti gruppi c’è, per fortuna. Non posso non chiederti della vostra amicizia con Brian Ritchie (Violent Femmes). Ti va di raccontarci com’è andata? Un gruppo di nostri amici andò a vedere i Violent Femmes a Dublino e diede a Brian il nostro cd Nello Scarpellini. Quando nel 2006 aprimmo il concerto dei Violent Femmes a Bologna, a fine serata dietro il palco incontrammo Brian,che incredibilmente ci riconobbe. Aveva ascoltato il nostro disco, gli era piaciuto. Ci chiese se avevamo in cantiere un nuovo lavoro e si propose di produrlo. Quando volò dall’Australia a Ferrara per le registrazioni di Villa Inferno capimmo subito che non sarebbe stato solo un semplice produttore. Suonò nel 90% dei pezzi e coinvolse nel disco persone come Jerry Harrison dei Talking heads e Kim Deal dei Pixies. E a gennaio partì con noi per la prima parte del tour. Voi siete spesso in tour, avete viaggiato moltissimo. I viaggi sono occasioni di incontri e gli incontri spesso fanno nascere amicizie e collaborazioni. Avete molti amici in Italia (e non) e spesso finiscono per far parte della vostra musica. Che rapporto avete con la “scena” nazionale? E con quella internazionale? Abbiamo la fortuna di fare questo lavoro bellissimo che è il suonare e di essere costantemente in tour, incontrando cosi molte persone. Nei tour italiani come in quelli esteri, abbiamo trovato sempre personaggi bellissimi con cui condividere il palco e lo studio; da Fiona Burnett e Eugene Chadbourne, durante il tour australiano (nel quale ci accompagnava il grande Davide Toffolo) a Giorgio Canali, Federico Fiumani e i Lombroso in quello italiano, alle collaborazioni in studio con Nada, Jerry Harrison e Kim Deal. In questo caso veramente tutto il mondo è paese… ed in tutto il mondo c’è un palco. Osvaldo Piliego MUSICA 21
KIDDICAR
La solennità della lentezza
Esce per Rai Trade il nuovo album dei Kiddycar, una band che fin dagli inizi non si è mai fermata nell’definizione di indie italiano ma si imbarcata in un’avventura che ha fatto arrivare la sua musica in giro per il mondo. In sintonia con le tendenze del nuovo pop sofisticato europeo Sunlit silence ha in sé il suono e il colore di questo autunno. Alle nostre domande hanno risposto Stefano e Valentina. Sono cambiate molte cose dal vostro album precedente: collaborazioni, una nuova etichetta e un riconoscimento generale incoraggiante. Cosa è successo da Forget about ad oggi? È successo che si cresce, sia professionalmente che umanamente. Di cose ne sono accadute tante, siamo più “seri”, più rigorosi, organizzati. La nostra macchinina a pedali ha dei pedali più solidi, siamo seguiti e guidati da un gran manager, e siamo soddisfatti del nostro lavoro ma, per fortuna, mai abbastanza! (Valentina) Le atmosfere intime, l’elettronica mai invadente, le sonorità acustiche a tratti un po’ retrò fanno della vostra musica qualcosa di onirico, da alcuni definito dream pop. Cosa ne pensi? Penso che è una bellissima definizione nella quale ci accomodiamo volentieri, come entrare in una bella casa dove ti attende un caminetto acceso, un 22 MUSICA
buon profumo, un bel silenzio dove ti senti a tuo agio e ti viene da sorridere…(Valentina) Per definire il vostro sound hanno scomodato nomi eccellenti come Lali Puna, Notwist, Blonderedhead. Quanto vi sentite vicini a questi gruppi e cosa vi influenza? Beh, sì. Hanno scomodato nomi illustri che naturalmente ammiriamo ma dai quali non ci sentiamo “influenzati”. Anche se poi questa espressione è davvero curiosa per come la vedo io… tutto è stimolo, dovrebbe esserlo, tutto ciò che osserviamo, ammiriamo, percepiamo, elaboriamo. È ovvio che il glitch-pop teutonico degli anni novanta è una sorta di “punto di non ritorno”, ne comprendemmo all’epoca il valore, la portata, e naturalmente ne fummo rapiti. Ma ad oggi, a dire il vero, ci sono tante assonanze quanto enormi distanze tra noi e i gruppi sopra citati, il mio cantato ad esempio, che è l’elemento che subito i critici accomunano ai Lali Puna è in realtà molto diverso ad un ascolto attento. È un cantato estremamente mediterraneo quanto a colori e intenzione, vi traspare il mio background di attrice. Inoltre, se ciò non bastasse, in nessuno dei tre dischi pubblicati, abbiamo mai usato la tecnica del glitch. Ancor meno probabile l’assonanza con i Blonderedhead. Forse potremmo dire che ad ispirarci - ecco si molto meglio il concetto di ispirazione che la parola “influenza” – è stata più la sensualità di Gainsbourg o le atmosfere raccolte
di Nick Drake, la solennità dei primi lavori dei Sigur Ros e del rock nordico in generale, il filone più intimo e casalingo del post punk, un certo filone più morbido e sognante del post-rock, i toni scuri e apocalittici di un disco come Kid A, non ultime certe geniali sorprese di Ennio Morricone (Valentina). Rallentare, trovare un ritmo nuovo per scandire la pausa sembra essere nel vostro suono. Il vostro disco sembra una boccata d’aria, un respiro lungo che diventa sussurro. Eppure si sente una continua tensione emotiva che anima i brani, quali emozioni animano le vostre canzoni? Sentiamo un gran bisogno di solennità e la solennità, guarda caso, è inversamente proporzionale alla velocità. In poche parole troviamo molto più spesso nella lentezza e in un atteggiamento il più possibile intimo la dimensione di un morbido tappeto su cui adagiare i nostri sentimenti più fragili. E forse è proprio questa la condizione in cui le tensioni emotive si fanno più rumorose e gigantesche, si sente vibrare l’universo che ci circonda, un universo inospitale e terrificante. Così noi ci ritroviamo a giocare con le nostre stesse emozioni come bambini, cercando di assemblarle in qualche modo, di formare un qualcosa che ci illuda di avere un senso… un brano musicale per esempio (Stefano). Il gioco musicale, ma anche linguistico appartiene a voi come a molti gruppi, la lingua è strumento? Il gioco come ho detto prima deve essere sempre alla base di tutto, tutti i cuccioli imparano a vivere attraverso il gioco e la curiosità, l’essere umano ha un’intelligenza più sviluppata forse solo perché ha l’infanzia più lunga di tutte le specie animali. Proprio in questi giorni mi sono riascoltato tutti i dischi dei Beatles nella nuovissima veste ri-masterizzata e, in definitiva, mi sono detto che i loro maggiori punti di forza erano proprio la curiosità e il gioco. (Stefano) La lingua è uno strumento, certo, assolutamente. Non so spiegarti razionalmente, si tratta di un curioso sentore al quale mi affido: quando nasce una composizione e io comincio a cantarci sopra la melodia che mi viene fuori, istintivamente, canticchio in inglese, oppure in francese, frasi o parole a caso naturalmente all’inizio ma quello che conta è il suono. Naturalmente al momento uso suoni di lingue che conosco bene, che sento istintivamente sgorgarmi da dentro, sono praticamente madrelingua francese tra l’altro, e poi inglese e francese sono lingue classiche della
storia del pop e del rock. Ma mi piacerebbe molto usare anche altre lingue, il tedesco ad esempio, o l’italiano che, tra l’altro, è una lingua che amiamo profondamente ma che è particolarmente difficile da usare nel pop o nel rock. (Valentina) Quali gruppi italiani sentite vicini? Sicuramente sentiamo più vicini quelli che come noi si sforzano di parlare il più possibile un linguaggio musicale internazionale. Mi viene in mente Christian Rainer che nonostante il nome è un’artista italiano a tutti gli effetti ma che, appunto, scrive e arrangia brani di respiro globale. Nutriamo una forte simpatia, spero reciproca, verso il mondo della Canebagnato Records e di tutti gli artisti satelliti intorno ad essa, e poi tanti altri artisti tra cui, non so, gli Albanopower ad esempio o Le man avec les lunettes. Esportare la musica italiana non significa cantare in italiano: significa piuttosto cercare un “linguaggio” per rendere la più intima e potente tradizione musicale italiana capace di parlare al mondo e di farsi capire. Il segreto sta nella conoscenza profonda e nell’amore per la nostra musica uniti ad un altrettanto profonda conoscenza e amore per la musica internazionale. (Valentina) Cosa ascoltate? Per quanto mi riguarda ascolto ogni settimana decine di dischi in anteprima, oltre che dischi passati. Purtroppo a parte qualche perla illuminata e illuminante come Sufjian Stevens e le produzioni della sua Asmatick Kitty, questo decennio non ha dato certo nulla di paragonabile ai cinque decenni che l’hanno preceduto. E poi ci sono i dischi e gli artisti di una vita, quelli che, per forza di cose, ti risuonano dentro e che spesso ti ritrovi ad ascoltare, e sarebbe un bel viaggio troppo lungo per poterlo raccontare qui dalla musica rinascimentale e barocca (Claudio Monteverdi - Gesualdo da Venosa etc…) alla classica contemporanea di inizio ‘900, agli albori del rock…dagli anni ’60 passando per i Velvet, i Love, i Byrds…inutile dirti i Beatles... scivolando su un certo filone di pop francese di cui Serge Gainsbourg è sicuramente il più vicino a noi, un certo post-rock, i Pram, i Labradford, la musica industriale, l’elettronica di matrice europea, la scena musicale tedesca il Kraut-rock, i Can, i Kraftwerk, i Popul Voh, i Tangerin Dream, i grandi cantautori, i menestrelli delle emozione, Leonard Cohen, gli chansonnier francesi. Te l’ho detto il viaggio è lungo, troppo lungo per questo breve spazio. (Valentina) Osvaldo Piliego MUSICA 23
PEARL JAM Backspacer Universal Music Group
perché la band ha fatto una scelta molto netta: canzoni che vanno dritte al punto con una varietà di suoni e una leggerezza musicale che i più recenti album non avevano. Rino De Cesare
AKRON/FAMILY Set ’Em Wild, Set ’Em Free Roadrunner / Warner Bros.
Una strada vuota e diritta, in pieno deserto, sotto uno splendido cielo blu e luminoso. In primo piano un segnale di dare precedenza pur non scorgendo alcun incrocio. È la sommaria descrizione della copertina di Yeld. Bene, a quasi una dozzina di anni di distanza, ci piace immaginare che lì, nei pressi, poco oltre la leggera rampa in salita che si intravede nella foto, in realtà c’era un crocevia. Era l’incrocio temporale/ musicale che portava dritto a Backspacer. Ad accomunare quest’ultimo e splendido lavoro a Yield è il ritorno in cabina di regia, dietro alla consolle, di Brendan O’Brien. È semplicemente fondamentale il suo apporto. I suoni escono, finalmente, proprio come dovrebbero essere: chiari, puliti, cristallini. Viene reso perfettamente quel feeling “live” che tanto si addice ad un vero e proprio rock-album come Backspacer, con chitarre potenti e definite, basso e batteria che escono gagliardi con un suono spontaneo e non artefatto. Backspacer è il segno dei tempi, è la maturità che non perde l’incanto della giovinezza. Maturità discografica, anzitutto, perché è il primo disco di studio totalmente indipendente per i Pearl Jam, ma anche maturità musicale: 24 MUSICA
un ibrido folk-rock dai tratti psichedelici, incendiato qua e là da improvvise digressioni elettriche e da sghembe visioni collettive. Album per certi versi irrisolto, quindi, Set ‘Em Wild… ma ricchissimo d’idee e di trovate musicali spesso geniali. La formazione rimaneggiata non è una scusante valida e non credo, del resto, che la band abbia bisogno di una scusa, perché è chiaro che, viste le premesse, questo lavoro segni l’avvio di una nuova avventura. Camillo Fasulo
CLUTCH Strange Cousins From The West Weathermaker Music
Gli Akron/family nascono nel 2002 a New York, come collettivo musicale aperto, attorno ad un gruppo di quattro persone – Dana Janssen, Seth Olinsky, Miles Seaton e Ryan Vanderhoof – in cui ogni musicista non ha un ruolo pre-definito. Gli Akron/family del 2009 sono di meno. Succede spesso che una band perda per strada qualche componente e ne subisca un contraccolpo negativo. È accaduto anche agli Akron/ family (Ryan Vanderhoof, in preda ad una crisi mistica, ha abbandonato la famiglia ed è diventato membro di una comunità buddista americana) con la piccola ma non secondaria differenza che loro non sono una band qualunque. Tanto è vero che, accusato il colpo, hanno subito voltato pagina e dato alla luce Set ‘Em Wild, Set ‘Em Free, album di grande caratura artistica ma che riparte proprio laddove il precedente Love Is Simple (2007) si era fermato:
Nell’ostinato revival contemporaneo del più classico 70s sound, i Clutch rappresentano una convincente garanzia di qualità. Sarebbe ora che venga riconosciuto loro il giusto valore, di certo superiore a quello di molte altre band che cercano nuove idee nel passato. Veterani della scena southern-stoner americana, i quattro del Maryland, guidati come sempre dall’indistruttibile Neil Fallon, perseverano nella conservazione del proprio marchio di fabbrica, incuranti delle mode, ma senza per questo risultare anacronistici. La qualità della loro produzione si è fin qui mantenuta su livelli ottimali ed in alcuni casi è salita su fino
ad eccellere anche se la grande massa li ha quasi sempre snobbati ignorando perfino che la loro esistenza sia di fondamentale importanza per la comparsa di nuove grandi band come Minsk o Mastodon, ad esempio. A parte tutto ciò, Strange Cousins From The West è uno di quei dischi che sarebbe gravissimo lasciarsi sfuggire perché questa è roba di un certo spessore, robusta ed artisticamente valida. Se volete del sano e solido rock suonato da valenti musicisti che mettono il cuore in ciò che fanno... beh, l’avete trovato. Camillo Fasulo
JAVA Maudits Français Blackeye
Gruppi del genere possono nascere solo in città come Parigi, luoghi in cui si respira il mondo, dove il crossover di suoni e tradizioni è reale, dove la vita è nelle strade e finisce direttamente nella musica. Ecco che la musica africana, l’hip hop, la musica tradizionale francese possono non solo convivere ma creare materia musicale nuova. Il tutto senza una regola, una soluzione di continuità che è, solo per fare un esempio, nella spontaneità di rappare su trame rubate al folklore. O semplicemente di alternare le cose. Perché tutto questo è la Francia, un paese che guarda al proprio passato ma che non
SONIC YOUTH The Eternal Matador
La gioventù sonica continua a non scendere a compromessi e, come fa da ormai quasi un trentennio, innalza impenetrabili muri di suono dietro ai quali, ogni tanto, emerge ancora la melodia... a ben cercarla naturalmente. The Eternal non aggiunge nulla di nuovo alla loro discografia, se non alcune semplici ma intriganti variazioni, eppure conferma la grandezza di una band che riesce ancora una volta ad emozionare. Non è, quindi, un album fondamentale ma si può considerare come una specie di riassunto della loro storia. È ipnotico, allucinante, coinvolgente, si lascia ascoltare facilmente ed ha il merito di aver fatto uscire il gruppo da una crisi artistica che, almeno secondo il parere di molti, durava da qualche anno. Quando si dice, andare contro corrente. Dopo quasi 20 anni passati alle dipendenze della Geffen, i Sonic Youth tornano ad accasarsi presso l’indipendente Matador per consegnare al proprio pubblico uno degli album più compatti e meno astratti della loro produzione. Camillo Fasulo
ha mai smesso di guardarsi intorno. Il risultato è un disco dall’andamento festoso, r&b, funky, caraibico, rap, jazz, rock, reggae… ascoltare per capire. Osvaldo Piliego
ELFIN SADDLE Ringing For The Begin Again Constellation
Immaginate se Bill Callahan aka Smog, dopo il fidanzamento con Joanna Newsom, si fosse trasformato in un folletto portavoce di un arcano misticismo sonoro. È l’immagine che mi
è venuta in mente ascoltando Hammer Song, un visionario numero prog-folk tratto dall’album dei canadesi Elfin Saddle. Un disco di avant-folk denso e trascinante che nei saltuari rimandi al prog non presenta tracce di artificiosità. Musica che incanta con scenari fiabeschi e trascina con ritmiche ipnotiche. Sakura è una danza liberatoria per banjo e violoncello addolcita dai vocalizzi nipponici di Emi Honda, la metà femminile. Muskeg Parade un rituale per xilofono e fisarmonica che mescola minimalismo, canti sudamericani e cadenze celtiche. Living Light MUSICA 25
creatura degna del miglior psych-folk anni 70. The Procession un funerale balcanico cantato in giapponese, e Ocean un docile brit-folk per flauto, fisarmonica, violoncello e feedback che cresce gradualmente sterzando in direzione del continente asiatico. Una rivelazione. Tobia D’Onofrio
SOULSAVERS feat MARK LANEGAN Broken V2 Records
Quando i Soulsavers pubblicarono il loro secondo lavoro, It’s Not How Far You Fall, It’s The Way You Land (2007), siamo stati travolti da una vera e propria tempesta emozionale. Un album il cui ascolto si rivelò un’esperienza trascendente, un viaggio, lungo paesaggi soul, gospel, rock, jazz e country, raccontato dalla voce unica dell’infaticabile Mark Lanegan. Ora, a due anni di distanza, il suo successore, Broken, si addentra ulteriormente in quei territori rivelandosi un’opera ancora superiore, un classico nel quale l’esperienza live maturata dal gruppo porta il suono delle chitarre in primo piano regalando diversi episodi memorabili. Broken, come il precedente disco, è stato realizzato tra California e Inghilterra, ed annovera una serie di collaborazioni eccellenti: Mike Patton duetta con Mark Lanegan su 26 MUSICA
Unbalanced Pieces, il pezzo dalle tinte più elettroniche del disco, Jason Pierce degli Spiritualized accompagna il crooner di Ellensburg in Pharaohs Chariot e la voce di Richard Hawley, ex membro dei Longpips, fa da sognante tappeto alla splendida Shadow Falls, uno dei momenti più ispirati del disco. Il disco s’impreziosisce, infine, introducendo la voce di Red Ghost, alias Rosa Agostino. La ragazza di Sidney duetta con Lanegan in Rolling Sky, autentica perla noise, in cui il suono nasale della chitarra, adagiato su un tappeto di eleganti sassofoni, conferiscono al mix tra la voce intensa e calda di lei e quella profonda di lui, un gusto dal sapore vagamente diabolico: la gemma mancante nel pur eccellente ultimo lavoro dei Portishead. Rino De Cesare
BANDADRIATICA Maremoto / Rotta per Otranto Finis terre
Approdi e tempi dispari a scompigliare animi e cuori. Maremoto, il nuovo progetto – curatissimo nella confezione – della Bandadriatica, scuote e ristora gli ascolti naviganti. Un viso di donna si fonde con la geografia delle coscienze, metafora di un viaggio multiforme nel suo approdare, un cercare continuo, in uno spazio apparente chiuso e definito, come quello Adriati-
co. Un progetto, concepito per condurre alla sublimazione artistica, allo scuotimento contemporaneo, attraverso la sovrapposizione gioiosa di suoni, ritmi e speranze che nell’unione di due sponde, trova essenza ed espressività. Un disco che anche nei suoni rimanda al rimescolamento irruente, con un approccio mosso, a ritmiche sfioranti il rock e il progressive e si fanno più sfrontate e dure. Una scelta che, pur diversificandosi, rispetto al lavoro d’esordio (Contagio) non ne snatura la valenza del racconto. Ragionare attraverso la musica di quali e quante siano le potenzialità dei nostri dirimpettai costieri è quanto di più affascinante la Bandadriatica si propone di offrire al proprio pubblico. Un apprendere e un dare, in un continuo divenire di storie e note, sugellato da Rotta per Otranto, dvd che dona immagini e visioni al sogno d’oltremare. Francesco Spadafora
RAFFAELLA APRILE Papagna Anima Mundi
Gradevole, leggero, essenziale e, volutamente, “senza troppe pretese”. Lo dice il titolo: c’è tutta l’atmosfera più vera, gioviale e semplice della musica popolare salentina in Papagna, disco (prodotto da Anima Mundi) di Raffaella Aprile. Il primo lavoro da solista della cantante salentina, protagonista del
periodo d’oro (a metà anni ’90) dell’Officina Zoè e di una costante presenza in conviviali e bucoliche “cantate” come su festosi palchi. “Raffaella Aprile è interprete di grandi ascolti, di esperienze lunghe, traversate d’un fiato, accudite poi, e maturate all’ombra della tradizione”, scrive Mauro Marino nella presentazione del cd. E si sente tutto il periodo di ascolti nel disco dall’ammiccante titolo, una papagna, quella procurata dalle nove tracce, che è però sereno trastullamento più che torpore o intontimento. Stornelli, canti, strofe, filastrocche nei quali Raffaella Aprile canta e racconta quello che è il suo rapporto - intenso come pochi - con la musica di tradizione grico-salentina, con i suoi protagonisti e le sue fonti. E lo fa con l’aiuto di colleghi e amici (Emanuele Licci, Michela Bruno, Giancarlo Paglialunga, Francesco Abbatiello e, ancora, con la partecipazione di Enza Pagliara, Antongiulio Galeandro, Silvia Gallone, Marco Marinelli “Vitello”, Cosimo Romano, Marco Tuma, Cristiano Costantini, Mario Rugge) chiamati ad arricchire di “intimità” e “familiarità” il suo disco. Dario Quarta
MARGARET Cromoliquido Venus
Agli inizi della loro carriera i torinesi Margaret sono sta-
JOHN & JEHN John & Jehn Faculty Music Media
Una coppia di parigini di base a Londra registra questo debutto in camera da letto. Un album intenso che pesca dalla new wave e dal folk-rock senza mai citare apertamente alcun artista in particolare. L’incedere dei brani è spesso cupo e sofferto, ma la scrittura non lesina emozionanti aperture melodiche o drammatici crescendo. Alla triade chitarra-basso-batteria si aggiungono cascate di tastiere analogiche, coretti, impennate di feedback e poco più. Numerose suggestioni si affacciano alla mente, ma solo per pochi istanti, prima di essere capovolte da questo stream of consciousness techno-dark-pop. C’è una attitudine psichedelica che macina decenni di avanguardia rock, dai mitici Fugs ai VelvetUnderground, dai Suicide ai Wall Of Voodoo per arrivare ai Cramps. E ciò che viene fuori è un pugno di canzoni sorprendentemente fresche ed intense, che meritano di figurare fra le migliori produzioni in ambito new wave e lo-fi. Tobia D’Onofrio ti rubricati alla voce “indie rock”. Passati gli anni questa loro tendenza a scovare linee melodiche basandosi su determinate sonorità non cambia, anche se con Cromoliquido mostrano rilevanti combinazioni sonore denotando un’innata sperimentazione musicale destinata a sovvertirne gli schemi. Una nuova dimensione
creativa raggiunta con il cambio di line-up, con l’ingresso di Alessandro Branciforti (basso) e Matteo Dainese (batteria) anche conosciuto come Dejligt o Il Cane. Un tragitto esistenziale tra musica e parole verso la ricerca di un senso sulla condizione umana, sul ritrovarsi e sulla necessità di comprendere la vita e viverla in ogni suo MUSICA 27
istante. Dieci singolari episodi che affrontano temi quotidiani come amore, morte, religione e droga attraverso la giusta combinazione degli elementi fondamentali alla realizzazione di questo viaggio introspettivo di cui i Margaret si fanno portavoce. Tra gli esempi migliori brani come Tra la polvere, Frammenti di vetro, Commuove gli angeli, Più altro e Alba. Un ottimo disco per una band tutta da scoprire. Alfonso Fanizza
low, memore di gruppi come i My Bloody Valentine. Prodotto da Cambuzat e pubblicato per la giovane etichetta Acid Cobra Rec., di proprietà dello stesso musicista francese, il disco vede la partecipazione illustre di Daniele Carretti degli Offlaga Disco Pax. Un disco che mescola al classico atteggiamento postrock, influenze di new wave, psichedelia e shoegaze, meritevole di essere ascoltato dalla prima all’ultima nota. Alfonso Fanizza
VEGETABLE G Calvino Olivia Records
THE MARIGOLD Tajga Acid Cobra/ Venus
CALIFONE All my friends are uneral singers Dead Oceans
In apparenza ci sono cose che sembrano non avere punti di contatto. Una band e Italo Calvino ad esempio sulla carta sembrano essere “pianeti” lontani. Ma se si tratta delle Cosmicomiche ecco che le normali meccaniche celesti lasciano lo spazio a un universo in cui tutto è possibile. Con questo nuovo album i Vegetable G omaggiano lo scrittore e il suo immaginario con brani che segnano e rimarcano la loro capacità di plasmare il pop dalle reminescenze anni ‘80 impreziosendolo di lapislazzuli indie ed elettronica a pochi beat, e tastiere giocattolo. Lo spazio in cui si orbita in questi brani guarda dall’alto l’Inghilterra anni ‘90, gli anni ‘60 e i già citati ‘80, mettendo a bordo della stessa capsula spaziale Blur, David Bowie e i Beatles. La conferma di una scrittura eclettica, aliena ma allo stesso tempo fedele alla regola aurea della canzone pop. (O. P. )
Figli illegittimi del profeta del post-rock francese Amaury Cambuzat e dei suoi Ulan Bator, gli italiani Marigold propongono Tajga, terzo sigillo della loro decennale carriera artistica, proseguendo in quel cammino verso la decostruzione più cupa, fatta di sonorità oscure, intime e riflessive. Un cammino intimo e personale nelle cavità più intime dell’alienazione umana, un viaggio surreale attraverso i sentieri più oscuri dell’animo umano che trova il suo equilibrio nelle oscure ambientazioni di canzoni come Exemple de violence, Eleven years, Novole, Degrees, Alone e la title-track capaci di darti una forte sensazione di smarrimento, “de confusion”. Apparente spiraglio di luce: le incantevoli ritmiche di Tundra e l’immediato shoegaze di Swal28 MUSICA
In un’intervista Tim Rutili, leader dei Califone, ha definito il suo rapporto con la tradizione musicale americana come qualcosa di interiore, che fa parte inevitabilmente del proprio essere. Quello che poi diventa musica né è pura trasposizione con i mezzi gli ascolti, il tempo che vive. C’è poco da stare dietro alle etichette, non si parla di alt-country o di new-folk ma di canzoni nate da una band che maneggia con le cose di cui ha bisogno sia l’elettronica, l’avanguardia, un banjo o un feedback. Tutto con la semplicità di chi tratteggia dei bozzetti, senza la fatica di cercare la pulizia del tratto ma immortalando la bellezza dell’incompleto. Osvaldo Piliego
THE ANTLERS Hospice Frenchkiss
La solitudine è una compagna che può fare male al punto da uccidere, oppure può lasciare uno spiraglio dal quale nascono opere di rara bellezza. Proprio come questo Hospice nato dall’esperienza Peter Silber-
man (vocalist della band) e poi diventato concept album incentrato su temi quali la malattia e la morte. Teso ad un lirismo glaciale, elevato dove la musica sembra non essere più terrena (vedi Sigur Ros), il disco si lascia avvolgere dallo shoegaze che abbraccia momenti in cui la voce sembra ricordare un angelo irraggiungibile come Jeff Buckley. Drammatico nel suo svolgimento Hospice è soul nell’essenza, non musicale ma emotiva, riesce a essere inquietante e drammatico anche quando si concede aperture più leggere. Se vi piacciono Arcade fire, Goodspeed you! Black Emperor questo disco vi conquisterà. (O. P. )
SIX ORGANS OF ADMITTANCE Luminous night Drag city
Ben Chasny ha intrapreso una strada che ha mille svincoli e le più disparate diramazioni. L’arteria principale di questo suo ramificarsi creativo sembra essere, ormai da dieci anni, il progetto Six organs of admittance, esperienza musicale che nasce e cresce sotto l’egida di John Fahey e Popol Vuh. Psycho folk con venature progressive, un’ipnosi lunga otto tracce, drone, chitarre in finger picking, tabla, archi, flauti tutti al servizio di un orchestrazione onirica, di raga psichedelici con
JIMI TENOR, TONY ALLEN Inspiration information Strut
Cominciamo con il precisare che questo disco è un capitolo di un’operazione musicale affascinante quanto interessante. Si intitola Inspiration Information questa serie di album arrivata al quarto episodio che nasce e cresce con il fine di unire gruppi del momento con gli artisti che più di altri li hanno ispirati nella loro formazione. Così come nel precedente episodio era stato il turno di the Heliocentrics e Mulatu Astatke questa volta è il turno di Jimi Tenor e Tony Allen. Il musicista Finlandese già noto per le sue incursioni nei generi e alle collaborazioni incontra Tony Allen colonna ritmante dell’afrobeat, batterista nigeriano già con Fela Kuti e recentemente tornato sotto i riflettori con il progetto di Damon Albarn, The good, the bad and the queen. Il risultato è a dir poco esplosivo: la ritmica di Allen capace di caratterizzare il suono di un paese e connotare un intero genere musicale, dirige e guida le peripezie funky/jazz di Tenor in continuità con il suo il suo ultimo 4th Dimensions già avventuratosi nei territori dell’ultimo Miles Davis e di Sun Ra. Il disco splende per espressione musicale degli strumentisti e amalgama delle parti. Questo come gli altri della serie Inspiration Information suona come un ponte un dialogo a due su cosa è stata la musica e cosa potrà ancora dire. Osvaldo Piliego
tanto di tabla. Un disco capace di catapultarci verso lande sonore fiabesche, a volte inquietanti, in un’esperienza sonora capace di suggestionare, colonna sonora per lo spirito dal
gusto un po’ vintage. Un disco e un’artista che sembra non seguire nessuna corrente se non la sua… da dodici anni. (O. P. )
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AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Jay-Z + Rihanna + Kanye West - Run this town Non tutti i lettori condivideranno. Anzi, temo che questa scelta possa essere addirittura troppo pop. Due rapper che hanno fatto scuola si fanno accompagnare da un oggetto misterioso della musica contemporanea, sempre a metà strada tra il talento, l’immagine e la furbata. Eppure, se Rihanna compare in mezzo a due mammesantissime, non deve poi essere così male. Oppure è tutta una trovata commerciale? Insomma, il dubbio resta. Ma se si spegne il cervello per quattro minuti, non si pensa ai curricula dei tre protagonisti la canzone funziona, eccome se funziona. Anche i lettori che non condivideranno, in cuor loro, mi daranno ragione. Calvin Harris - Ready for the weekend A 25 anni può già dirsi arrivato. “Ho dovuto bere molti drink prima di incontrare Kylie Minogue”, ha raccontato alla stampa: la diva del pop, 15 anni meno giovane di lui, aveva deciso di puntare proprio sul giovanotto di Dumfries, Scozia, per la produzione di X, album dell’orgoglioso ritorno sulle scene dell’australiana dopo lo spavento causato dal tumore al seno. La sua leggerezza, nel 2007, lo aveva fatto esordire con un album che si chiama I created disco, ovvero, “ho creato la musica per pista da ballo”. E così continua, remixando chiunque (abbia venduto milioni di copie nella sua carriera). E producendo piccole trappole come questa Ready for the weekend. Mini viva - Left my heart in tokyo Uno dei nomi di band più brutti che la storia del pop ricordi, per una delle coppie più interessanti degli ultimi tempi. Non sono belle, forse non sanno cantare, sicuramente non sanno ballare, ma lavorano con gente che ci sa fare, la Xenomania, una casa di produzione di musica house che in passato aveva sdoganato gente del calibro (?) di Sugababes, Sophie Ellis-Bextor e Gabriella Cilmi. Il revival anni ’80 paga sempre di questi tempi, se poi azzecchi un ritornello come in questo caso il gioco è fatto. Anche qui, come per il trio delle meraviglie rap di due bra-
ni sopra, o come per l’elettorato di Berlusconi, tutti schifano, ma tutti ascoltano. Muse - The uprising
Messaggio subliminale: prendete Womanizer di Britney Spears, rallentatela di una decina di Bpm, prendete un metronomo e fate partire i brani in contemporanea. Si fa un gran parlare dei Muse in questo periodo, anche perché l’ultimo album, The resistance, non è apparso proprio irresistibile. Si parla dei Muse anche per la favolosa messinscena ordita alle spalle della Ventura a “Quelli che il Calcio”. C’è da dire che questa The Uprising riaccenderà l’entusiasmo di tutti i fan in vista dei concerti autunnali di Bologna e Torino (già sold out) del trio del Devon, amatissimi in Italia. E lo riaccenderà perché ci sono tutti gli ingredienti che hanno reso i Muse una band da stadio: muri di chitarre, un po’ di melodramma, gran voce e grandissimi effetti sonori. (avete fatto l’esperimento suggerito nel messaggio subliminale, nel frattempo?) Florence and the machine - Drumming song Nemmeno il tempo di incensarla, che è già partita la controffensiva mediatica contro Florence Welch, classe ’87, talentuosa cantante folk, soul, indie, pop, non si sa bene cosa. Sicuramente chi ne cura l’immagine ci ha messo del suo, lanciandola in una coreografia improbabile per i video di Drumming Song, terzo singolo estratto da Lungs”. Qualcuno prova già ad appiattirne il talento, definendola “una nuova Lily Allen o Katy Perry”, proprio dopo averla vista sculettare in malo modo. Aspettando che qualcuno corra il rischio di paragonarla a Lady Gaga, dimostrandosi del tutto incompetente, noi ci godiamo il talento di Florence, sperando che non si metta a ballare mostrando le sue bianchissime e inadattissime gambe in favore di telecamera. Dino Amenduni 31
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DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse... Uochi toki - Il ladro
Fare un concept album di questi tempi appare assai anacronistico. Ma è abbastanza evidente che agli Uochi Toki interessa molto poco ciò che il mondo pensa, soprattutto di ciò che il mondo pensa di loro. Il ladro è solo una delle meraviglie contenute in Libro Audio, quinto album del duo di Alessandria, il primo per un’etichetta degna di questo nome, la Tempesta, fondata dai Tre Allegri Ragazzi morti, un’altra band che ha sempre amato disinteressarsi dell’opinione pubblica. Dodici soggettive, dodici affreschi di proto-tipi che la società italiana fa convivere ogni giorno, senza rendersene conto. E così, nell’indifferenza generale, passano anche le bombe linguistiche e musicali di Napo e Rico. Se cantassero in lingue anglofone, sarebbero superstar. Quando il sole tornerà? God help the girl - Funny little frog La cover di un brano da cui si è appena venuti via per un progetto solista: ecco cos’è Funny little frog. La colonna sonora di un film che deve ancora uscire e di cui non si hanno ancora notizie ufficiali, ecco cos’è il progetto “God help the girl”, un terzetto guidato da Stuart Murdoch, deus ex machina dei Belle and Sebastian, e arricchito da Neil Hannon dei Divine Comedy, e da Asya, cantante degli Smoosh, formazione indie di Seattle. La composizione eclettica della formazione è figlia di una sperimentazione che dura già da un paio d’anni: Murdoch ha costruito la colonna sonora su Internet, raccogliendo proposte e provini dai musicisti alle prime armi. Pop purissimo figlio del meticciato sonoro. L’esperimento musicale che non avevamo ancora né visto né tantomeno immaginato. Florence and the machine - Drumming song (8-bit boy remix) No, non è un errore di stampa. Questo singolo compare anche nella rubrica “Avanti pop”, nella sua versione originale. Questa rivisitazione è però così tanto diversa dal brano di partenza da riuscire a dotare Drumming song di una seconda identità,
altrettanto degna e forse addirittura più interessante. Florence continua a brillare nonostante un remix destrutturante, ma ciò che maggiormente colpisce è la capacità di utilizzo massiccio del quattro quarti che, nonostante sia a dir poco invasivo, non soffoca i punti di forza della versione originale. Un inno da dancefloor intelligente. Con tanto di arpa inclusa. Thom Yorke - The hollow earth Niente di nuovo da Oxford. Il solito Thom Yorke solista, alla ricerca di sonorità sicuramente più asciutte e ancora più cupe di ciò che i suoi Radiohead sanno offrire. La solita voce fastidiosa per alcuni, paradisiaca per altri. Da solo, Yorke è molto più difficile da digerire e questa The hollow earth non fa eccezione. Per quanto si possa dare una spinta a questo singolo, difficilmente conoscerà l’airplay radiofonico. Ed allora ci tocca aspettare il video cult, già ampiamente pubblicato su Youtube (e altrettanto ampiamente rimosso), in cui è bastato far trapelare la collaborazione di Banksy, il più influente street artist del mondo, per generare un putiferio. Eels - That look you give that guy È periodo di licantropia nella musica. Trascuriamo la lupa Shakira e concentriamoci sull’Hombre Lobo raccontato dagli Eels. Anche qui, come per gli Uochi Toki, abbiamo un concept album. Anche qui dubitiamo che Mark Everett sia particolarmente attento alle mode del momento. E così gli Eels, pur apparendo oscuri e inarrivabili, orsi più che lupi, fanno ruotare il loro Hombre Lobo attorno al concetto di desiderio. Quattro anni dopo la loro ultima fatica di studio, si ritorna sparigliando le carte dell’immaginario che loro stessi hanno saputo creare, occupandosi di una parola così abusata, ma così difficile da definire. Gli Eels, da sempre seguiti da un pubblico fedelissimo (memorabile la ricerca dei titoli delle canzoni attraverso un contest via mail nel 2001), tornano e colpiscono. Dino Amenduni 33
SALTO NELL’INDIE
UNHIP RECORDS
Il nostro viaggio alla scoperta delle etichette indipendenti italiane prosegue con la bolognese Unhip records che ha appena sfornato due dei dischi del momento: Andate tutti affanculo dei The Zen Circus e Il fuoco dei Giardini di Mirò. Coolclub.it ha deciso in questo numero di capire cosa c’è dietro questo successo dando spazio ai due gruppi (trovate le interviste a pagina 16 e 20) e all’etichetta. Ha risposto alle nostre domande Giovanni Gandolfi anima della Unhip e 34
storica voce di Radio Città del Capo. La vostra è una lunga storia, comincia nel 2002 mantenendo un forte legame con il nostro paese ma anche con tutto quello che di bello c’è fuori dai nostri confini. Ci racconti come siete partiti? Siamo partiti per gioco, pubblicando split su vinile 7 pollici di gruppi già “affermati” che erano su altre etichette e che ci concedevano brani inediti. Il fatto di aver pubblicato gruppi come Lali
Centrale Elettrica. In quegli anni c’erano moltissime piccole etichette sparse per il mondo, il mercato discografico era in flessione ma non era morto per cui è normale ci sia un po’ di nostalgia per un’epoca ormai andata. Vi sentite in qualche modo di rappresentare un’altra Bologna? Bologna è una città con una storia musicale densa. Da quale parte vi sentite? Credete sia un clima generale a rendere una terra così prolifica? Bè certamente è una Bologna un po’ più sotterranea rispetto ai vari Dalla, Morandi e Cremonini. Non ci sentiamo però in antagonismo con nessuno, ognuno fa le sue cose. Certo che Unhip si colloca più sulla tradizione di etichette indipendenti tipo Italian Records (Gaz Nevada), Bologna ha sempre avuto una florida scena musicale underground. In realtà in Emilia-Romagna in generale c’è molta passione per la musica, basta vedere quante date fanno i gruppi nella nostra regione. C’è una rete di realtà (locali, etichette, booking, artisti di varie discipline) che creano le premesse perché esca qualcosa di valido. Nel caso di Bologna poi c’è il fatto che è una città universitaria abbastanza importante per cui arrivano stimoli anche da fuori. La vostre produzioni sono decisamente eclettiche. Come conciliate le vostre anime? Mi piace pensare che il filo conduttore sia la qualità, i miei gusti sono sempre stati molto eclettici per cui è normale che il roster dell’etichetta rifletta questa predisposizione.
Puna, Pan American, Melt-Banana e Fantomas ci ha permesso di trovare una capillare distribuzione mondiale già dalla prima uscita. Per cui, dopo cinque split, abbiamo iniziato a fare sul serio pubblicando album interi, anche su formato cd, di gruppi italiani che ritenevamo meritevoli e soprattutto “esportabili”. Siamo partiti con Setllefish (nella foto) e Disco Drive, per poi ampliare il roster nel corso del tempo fino a sette gruppi e parallelamente pubblicando le versioni in vinile di Offlaga Disco Pax, Afterhours e Le Luci Della
Tra le vostre ultime uscite ci sono tra le migliori cose in circolazione. La vostra scuderia di artisti è sempre osannata dalla stampa, cosa ne pensate? Che non è mai abbastanza! Sarebbe bello se la stampa si sbilanciasse di più sulle formazioni nostrane più “internazionali”, ci sono state situazioni paradossali in cui si parlava di loro più all’estero che in Italia... comunque fa sempre piacere che ci siano altre persone (giornalisti ma anche appassionati) che supportino i nostri progetti. Le vostre band svolgono anche un’intensa attività live, sintomo che si può lavorare, promuoversi. Voi vivete di musica o per la musica? Uhm, direi la seconda e si cerca anche di fare in modo di viverci, però è dura, sicuramente per i gruppi il suonare live è essenziale per poter aspirare a “vivere di musica”. Antonietta Rosato MUSICA 35
ON THE ROCK Dischi da ascoltare tutto d’un fiato 36
Non c’è cosa al mondo che mi affascini più della bellezza. Ed il massimo della bellezza la scopro nel mare.... ma questa mattina il risveglio è stato brusco. Si lo so... scrivere d’estate ad ottobre ha lo stesso effetto di un bicchiere di coca-cola a colazione, ma un po’ di speranza la nutrivo ancora... invece niente, stamani si è scatenato il diluvio. Se c’è una cosa al mondo che odio è la pioggia. Non mi resta che rifugiarmi in quello che considero l’espressione della bellezza numero due: la musica insieme allo charme femminile. Quindi un paio di segnalazioni da condividere con voi, per rompere il ghiaccio, dopo la pausa estiva: Kate Moss sul video dei White Stripes una struggente ballata resa ancora più straordinaria dal soft-strip, ripreso rigorosamente in chiaro-scuro, dell’icona delle passerelle mondiali, ma non solo, visto che aveva già prestato la sua bellezza nei video di John Cash, Primal Scream, Marianne Faithfull... anzi proprio con i Primal Scream, in Some Velvet Morning ha anche cantato, come del resto aveva fatto al fianco del suo ex Pete Doherty (per il quale aveva anche scritto dei testi...). La seconda segnalazione è per il nuovo video degli Eels, That Look You Give That Guy protagonista Padma Lakshmi; la modella indiana nell’occasione meno strappamutande della collega, cena con Bobby Jr. e familiarizza con il suo cane. Anche in questo caso l’occhio della telecamera rigorosamente in bianco/nero. Bene.... mi sento un po’ meglio.... l’estate sembra ancora più lontana, ma anche l’autunno ha il suo fascino... magari aiutati dall’ascolto del nuovo lavoro di John Fogerty, classe 1945 chitarra e voce degli storici Creedence Clearwater Revival. Pubblicato dopo lo splendido Revival (2007), questo nuovo disco raccoglie al meglio la passione per la tradizione musicale americana di Fogerty; due brani su tutti: Garden Party, gran brano di Ricky Nelson, già suonata con Don Henley e Timothy B. Schmit (vi dicono niente gli Eagles?) e When Will I Be Loved degli Everly Brothers, nella quale John duetta con “The Boss”. Per restare in tema fugace segnalazione per un “grande” vecchio: Willie Nelson, American Classic, inciso per la Blue Note, una manciata di classici della canzone americana. E se vi sentite orfani di Johnny Cash un rimedio, qualcosa in più di un palliativo però, e il nuovo lavoro del settantatreenne texano Kris Kristofferson. L’album si chiama Closer To The Bone. Struggente la dedica all’amico scomparso in Good Morning John. Di loro sicuramente (?) si scriverà anche in qualche altra parte del giornale io mi limito a
citarlo: la nuova fatica dei Wilco conferma il loro stato di grazia. A proposito sold out il concerto del 14 novembre a Milano, ancora disponibile un numero limitato di biglietti per la data fiorentina del 13 novembre. Magari più spazio dedichiamo ai cugini minori: Son Volt, American Central Dust è il loro esordio per la Rounder. Grandioso il violino in evidenza e la voce di Farrar. Bella sorpresa invece il ritorno su disco di Holly Williams dopo l’incidente stradale che l’ha costretta per lunghi cinque anni a stare lontana dalla scena. Here with me mostra come la giovane sia figlia di quel pop-rock che hanno reso celebri Jackson Browne e Joni Mithcell. Certo il cognome ingombrante che porta ( suo padre è Hank Williams, Jr. e naturalmente suo fratello è Hank Williams III) la tiene costantemente sotto i riflettori della critica americana, ma lei non si lascia di certo intimidire e non cede alle lusinghe di chi la vorrebbe interprete di country song tradizionali. Altra voce di grande impatto è quella della giovanissima Angela Easterling, che dopo l’album di debutto del 2007, pubblica questo Blacktop Road ottimo esempio di roots music. Ora magari di me potete non fidarvi da leggete cosa dice di lei Roger McGuinn (fondatore di The Byrds): “Angela Easterling è una stella luminosa che brilla sul nella alt.music americana! Mi ha portato indietro nel tempo quando registravo con i Byrds”. Infine vi segnalo un’iniziativa molto interessante di Beck. Una nuova area del suo sito deve necessariamente finire tra i vostri preferiti. Si tratta del progetto denominato Record Club nel quale il musicista californiano renderà disponibili delle canzoni registrate con i suoi amici più intimi. L’idea è di ri-registrare un disco celebre in un solo giorno e poi metterlo a disposizione sul sito un brano alla settimana. Dopo il primo album, The Velvet Underground and Nico (e qui siamo già al massimo) ora è la volta di Songs of Leonard Cohen. Sia in questa registrazione che in quella precedente collaboratore fisso è Devendra Banhart. Inutile dirvi che si tratta di splendide, anche se grezze, interpretazioni. Per ringraziarmi della segnalazione potete inviare una donazione a Coolclub. Vittorio Amodio MUSICA 37
LIBRI
GIANCARLO DE CATALDO
In attesa della seconda serie di Romanzo criminale, il magistrato tarantino incontra i lettori di Coolclub.it
Ci sono autori che non hanno bisogno di molte presentazioni per la loro capacità di farsi conoscere e amare dal grande pubblico mantenendo intatta la loro sensibilità artistica e la loro voce naturale. Giancarlo De Cataldo è uno di questi. Il magistrato scrittore sin dai suoi esordi nella letteratura con Acido fenico e Teneri assassini ha fatto capire che qualcosa di nuovo stava succedendo nella narrativa di genere italiana. E non ha deluso le aspettative con il suo capolavoro Romanzo criminale - da cui sono stati tratti un film e una serie televisiva, entrambi di altissimo livello e di grande successo - e con il seguito (non da meno del primo capitolo della saga sui misteri italiani) Nelle mani giuste. Intanto è in preparazione la seconda serie tratta da Romanzo Criminale (i bene informati dicono che dovrebbe andare in onda a gennaio). Abbiamo fatto a De cataldo alcune domande per i lettori di Coolclub.it. Partiamo da Romanzo Criminale, il romanzo, il film, la serie TV. È soddisfatto delle 38 LIBRI
riduzioni per il cinema e per la televisione? Pensa che ci sarà un seguito per la serie, magari ad arrivare fino alle tematiche trattate nel romanzo Nelle mani giuste? Sono contentissimo delle due riduzioni, molto diverse fra loro, più elegante il film, più robusta e stradaiola la serie. Ne sono contento perché vi ho preso parte e le sento, entrambe, profondamente “mie”. Circa la seconda serie, è già in fase di avanzata scrittura. Poi, che cosa ci sarà dentro... beh, mi permettete di conservare un po’ di mistero? La serie di Romanzo Criminale mi sembra un buon lavoro come in Italia ce ne sono pochi. Crede che la distanza che separa le serie italiane da quelle americane (CSI, Dexter, Senza Traccia, Cold Case, solo per citarne alcune) sia solo una questione di budget, o anche di scelte più o meno coraggiose nelle tematiche trattate e nel modo di
Italia. Secondo lei dove sta andando adesso il genere noir? Sta andando verso una sempre più convinta dissoluzione (allontanamento dai modelli classici, ricerca di nuove strade) e verso un sempre più deciso racconto della crisi della democrazia. Lo stesso enorme successo della trilogia di Stieg Larsson- e del bellissimo film che è stato tratto da Uomini che odiano le donne- dimostra che la vera vittima è oggi più che mai la democrazia, e gli assassini sono i poteri occulti che la stanno spolpando giorno dopo giorno.
trattarle? L’una e l’altra cosa. Il budget per la serie Romanzo è stato generoso, anche se meno di quanto si creda, e soprattutto ha brillato la grande qualità produttiva di Cattleya. Sky ci ha messo il coraggio delle scelte: nel duplice senso delle loro scelte, e dell’incoraggiamento, a noi autori, ad oltrepassare sempre qualche frontiera... coraggio e mezzi, insomma, in felice connubio. E per quanto riguarda il cinema, che stato di salute godono, secondo lei, gli autori e le produzioni italiane? Le produzioni e gli autori stanno benissimo. È il pubblico, narcotizzato da venticinque anni di pessima disacculturazione, che latita. Un paio di anni fa abbiamo assistito a un vero e proprio boom del noir, che ha portato (penso anche grazie al suo Romanzo Criminale) a uno sdoganamento del genere in
Nei suoi libri Romanzo Criminale e Nelle mani giuste lei racconta, come parte integrante delle vicende narrate e non come semplice sfondo, anni e vicende cruciali nella storia recente del nostro Paese. Per questo motivo Giuseppe Genna ha detto che “Romanzo criminale potesse intitolarsi Italian Tabloid, visto l’amore incondizionato che De Cataldo nutre per Ellroy, era più che giustificabile”. Come vede questo paragone e soprattutto crede che gli italiani siano pronti per recepire un’operazione come quella che lei ha condotto in Nelle mani giuste? Bah, non esageriamo! Si fa quel che si può... l’operazione, come dice lei, è stata ben recepita, visto il successo del libro (parlo di vendite reali, che sono poi le uniche a contare). Ma non dimentichiamo che prima di Ellroy c’erano Balzac, il grande romanzo ottocentesco, e che la strada di raccontare un’epoca attraverso i suoi crimini non è nè nuova nè originale. Anche in questo caso, si tratta di un felice incontro fra l’autore e un pubblico pronto e ricettivo. Che cos’è per lei il noir? Oggi? Oggi è soltanto un’etichetta, un contenitore nel quale convivono scritture agli antipodi l’una dall’altra. Serve, soprattutto, a differenziare un certo genere di romanzi da quelli nei quali, semplicemente, la presenza inquietante del Male è espulsa. Ci consiglia due libri di cui non si può assolutamente fare a meno? Le illusioni perdute di Balzac e Delitto e castigo di Dostojevksji I suoi progetti per il futuro? Sto scrivendo. Chi vivrà vedrà.
Dario Goffredo LIBRI 39
PIERFRANCESCO PACODA Quando è il musicicista a fare l’abito
La musica è il linguaggio per eccellenza delle culture giovanili. È diventata espressione del loro modo di essere e di conseguenza del loro modo di vivere. Nelle metropoli - e non solo l’appartenenza a un gruppo basato sulle radici e sulla tradizione conta sempre meno: i ragazzi fondano la loro identità proprio sui suoni di cui si circondano. Quegli stessi suoni che non sono più semplici canzoni, ma generano linguaggio, abbigliamento, consumi. Quello, insomma, che viene definito “stile di vita”. I capitoli che compongono La rivolta dello stile - saggio pensato a quattro mani da Ted Polhemus, sociologo, antropologo, mass-mediologo americano, e dal critico musicale e saggista Pierfrancesco Pacoda, edito da Alet nella collana Diorami , sono dedicati ai diversi aspetti del lifestyle contemporaneo, un’analisi della cultura e dei consumi visti attraverso la loro relazione con la musica. Il libro, prefato da Renzo Rosso, è illustrato dalle immagini di Doriano Zunino, che ricostruiscono l’evoluzione dei 40 LIBRI
generi e del loro rapporto con la moda. Abbiamo intervistato Pierfrancesco Pacoda che presenterà il libro al Fondo Verri di Lecce venerdì 9 ottobre (ore 21.00) nell’ambito della Poesia nei Jukebox. Innanzitutto vorrei sapere quanto la musica ha cambiato il tuo stile di vita. La musica mi ha fatto capire, più di quasi altra espressione artistica, che la molteplicità delle esperienze, la scoperta, lo stupore di fronte al nuovo sono la maniera migliore per sviluppare il proprio arricchimento culturale. Non finire mai, dunque, di esplorare, in luoghi inaccessibili, come tra i risvolti dei posti dove abitiamo. L’abito fa il monaco? No, l’abito no fa più il monaco. Viviamo in un universo dominato da quello che Ted Polhemus definisce Il Supermarket dello Stile, e ogni influenza, ogni attimo della nostra vita entra a far
della scena mainstream, che grazie alle sue caratteristiche di “paesone” riesce a gestire al meglio l’impulso della creatività, esattamente come è successo a New York negli anni settanta, quando proprio da quartieri periferici ed apparentemente addormentati, quella falsa tranquillità darà vita al rock d’avanguardia. Parliamo di una calma utile e necessaria per reinterpretare la realtà, esattamente come fanno i dj, che remixano i suoni. La parola Glocal, sintesi di Global e Local significa proprio questo, cioè che ogni realtà racconta casa sua. Prendendo in considerazione ciò che hai scritto sul libro, esiste secondo te un filo rosso che unisce il suono e lo stile di Londra, la Giamaica, Berlino, Barcellona... Si, il filo esiste ed è la conseguenza più bella della rilettura, della trasformazione delle geografie. Non viviamo più in una realtà dove la cultura giovanile è anglocentrica, come per decenni è successo con il rock. I fili si intrecciano, le esperienze si mescolano, ed il Raval di Barcellona, Kreutzberg a Berlino, Bethnal Green a Londra, il Salento, i Balcani irrompono finalmente sulla mappa.
parte del nostro stile. Non è più possibile definire un gruppo in base al sua immagine. Tutto cambia a velocità vorticosa, postmoderna, la continua sovrapposizione tra le radici ed il futuro è il vero ‘abito’ dei nostri tempi. In questo momento, secondo te, qual è il suono del Salento? Come per ogni area ‘evoluta’ del pianeta, il Salento è rappresentato da suoni diversi, se dovessi fare qualche nome, il post folk dei Mascarimirì, l’elettronica ascetica di Populous, l’ansia urbana di Congorock. Il Salento è un esempio unico in Italia e non solo, è un ibrido eccezionale il cui tratto d’unione principale può essere la lingua, intesa proprio come linguaggio. Il salento può essere considerato il vero simbolo della Rivolta dello Stile, luogo di contaminazioni, storicamente terra di mezzo, luogo di incontro e scontro di civiltà e culture,luogo di nascita di una nuova identità ibrida, lontana dai riflettori del centro,
Come mai hai scritto questo libro insieme a Ted Polhemus Innanzitutto perchè siamo amici da molti anni, abbiamo avuto modo di tenere alcune lezioni insieme al Dams di Bologna. I nostri sono due punti di vista differenti sullo stesso tema. Da un lato il punto di vista storico di Ted, che da bravo antropologo analizza l’irruzione della parola giovane nel linguaggio, dall’altro lato il mio punto di vista, strettamente geografico. In poche parole due libri separati con un’unica storia. Consigliaci un disco, un libro, un evento. Com’è difficile indicare un solo oggetto. Tra le cose uscite di recente,The Liberty of Norton Folgate, il disco del ritorno dei Madness; Goodbye Logo (brutta traduzione in italiano di Bonfire of the Brands) di Neil Boorman, un libro passato inosservato ma più incisivo di No Logo; l’Exit Festival a Novi Sad in Serbia, il più bel festival musicale del mondo. Ennio Ciotta LIBRI 41
MARCO MONTANARO La fortuna di essere libro
Un libro che è la storia di un esordio, anzi di un doppio esordio. Quello di Marco Montanaro come scrittore e quello di Coolibrì, una collana piccola piccola per un piccolo editore, Lupo, ma con una idea grande e ambiziosa: quella di uscire dai generi, percorrendoli tutti e cercare di creare una linea editoriale dove contano solo le belle storie raccontate bene. Sono un ragazzo fortunato (SURF) è una raccolta organica di racconti dove diversi personaggi (anche improbabili) si muovono tra le pagine del libro cercando, appunto una storia che possa essere raccontata. E così abbiamo chi decide di diventare un Libro, chi vorrebbe inscenare una piece teatrale, chi lotta per un amore perduto ma si trova incastrato in altre storie e chi per amore vorrebbe morire ma si accorge di non poterlo 42 LIBRI
fare. Il filo conduttore del libro sono, appunto, le storie, la loro necessità impellente, la loro capacità di salvare la vita. Partiamo dal titolo del libro. Ce lo puoi spiegare? Inizialmente i racconti che compongono il mio libro sono apparsi su un blog che aveva come sottotitolo proprio Sono un ragazzo fortunato. All’epoca credo di averlo usato per esorcizzare un periodo negativo. Era anche autoironico. Ed era ispirato da una scena del film Aprile di Nanni Moretti, in cui il regista e attore balla la canzone di Jovanotti col figlio piccolo in braccio. È una scena comica e tenera allo stesso tempo. Mi piace molto. E poi Sono un ragazzo fortunato, abbreviato, fa SURF. Che è un titolo d’ac-
chiappo, visto che viviamo in California. E poi potrebbe piacere ai fan di Eddie Vedder, non so se mi spiego. Io comunque mi ritengo un ragazzo mediamente fortunato. Nei tuoi racconti si respirano atmosfere surreali e a volte improbabili che ricordano per certi versi Boris Vian o certa nuova narrativa americana. A quali riferimenti letterari ti ispiri? Per me la scrittura non funziona come la musica. C’è della musica che non potrei mai ascoltare, poca, ma ce n’è. I libri no, non c’è un solo libro che non mi sia piaciuto. Da tutti cerco di imparare. Mi piacciono persino le opere minori di alcuni autori, quelle in cui magari ci sono delle ingenuità clamorose. L’errore, l’ingenuità, l’imperfezione: sono tutti elementi che rendono umano un autore. Tornando ai riferimenti, comunque, ogni cosa mi incuriosisce: dalle storie surreali e strampalate a quelle più crude e realistiche. Non mi piace però la pretesa di passare dal realismo alla realtà. È tutta finzione. Comunque, a un certo punto ti accorgi che riesci ad assorbire senza imitare. Non so a che punto sono. Boris Vian però non l’ho ancora incrociato. Lo farò al più presto. Non posso prescindere da Kurt Vonnegut e Richard Brautigan. Uno dice: ma come, sono americani! E allora?, dico io. Anche se è stato un titolo italiano – credo poco conosciuto – a farmi decidere di provare una strada tutta mia, e cioè: Gardo Mongardo di Claudio Menni. C’è un personaggio in particolare nei tuoi racconti che ami più degli altri? E uno che odi? Non è corretto odiare i propri personaggi. I lettori se ne accorgono. Una volta ho assistito a una presentazione di due libri, c’erano due giovani autori. Non credo lo facessero per cattive-
ria, credo fosse per inesperienza, ma quei due autori, parlando dei loro personaggi, usavano un certo distacco. Non già odio, ma distacco. Certo, si trattava di storie diverse dalle mie, molto dure, ma non va bene. Penso a Cormac McCarthy, che ha creato l’incarnazione del male con Anton Chigurh in Non è un paese per vecchi: sono certo che il vecchio Cormac adori quel personaggio. Diciamo che nel mio libro c’è il dottor Ludovico Brachini che rappresenta in qualche modo il nemico, il bersaglio. Ma poi si riscatta. Infatti lo infilerò in qualche altra storia. La mano mozzata di Anselmo è ovviamente il personaggio che più amo. Insieme a Sal e Vittorio. Come è nata l’idea di questo libro? Ero sotto un albero e una mela mi ha colpito in testa. Ho pensato subito di scrivere un trattato sulla gravità o cose del genere. In realtà la mela l’aveva lanciata lo gnomopapero Erik Chilly, un grafico che lavorava alla Lupo. Voleva propormi di raccogliere del materiale e inviarlo in casa editrice. Il mio manoscritto ha poi seguito la consueta trafila. Ho conosciuto così il mitico Cosimo Lupo, poi ho incontrato voi di Coolclub ed eccomi qui. Stai già lavorando alle tue prossime storie? Vuoi anticiparci qualcosa? Pensi di affrontare la forma romanzo o percorrerai ancora la strada del racconto? Non credo sia un fatto di racconto o romanzo. Sono due forme diversissime, è vero, ma il punto è la storia, come dici tu all’inizio della domanda. Vorrei cimentarmi con una storia “pura”. Senza troppi fronzoli. Ho scritto soprattutto racconti con molta introspezione pur cercando di renderli quanto più universali possibile. Però il tempo del racconto e quello della storia non coincidono, per così dire. Melville riesce a permettersi introspezione e storia insieme, ma Melville era folgorato e benedetto dalla luce del Signore, quando scriveva Moby Dick. Ho comunque scritto molto in questi anni. Cose d’ogni genere e forma, ma non so se sono pronte per uscire. Cerco di avere grande responsabilità prima di proporre qualcosa a qualcuno. Si tratta di trovare un equilibrio tra appagamento del proprio io e disordine dell’universo, oltre che una casa editrice, a volte. Dario Goffredo LIBRI 43
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WILL SELF Dr Mukti e altre sventure Mondadori
Will Self è tra i più grandi autori di satire viventi e, se ci tenete a saperlo, uno dei miei scrittori preferiti. Inglese, classe 1961, ammirato da Martin Amis, Ian McEwan e Salman Rushdie, fece scalpore quando, nel 1997, inviato a seguire la campagna elettorale di John Major da The Observer, venne successivamente licenziato dal giornale britannico per aver assunto eroina sul jet del Primo Ministro. Capito il soggetto? Che scriva per il New York Times o per GQ, che si occupi di Scarlett Johansson o di Nick Cave, il suo atteggiamento non cambia: caustico, beffardo, fuori dagli schemi. Si deve alla sua penna una tra le migliori dichiarazioni sul rugby: “gioco tipicamente omosessuale, in effetti adottato dalle scuole inglesi che, coltivando l’omosessualità, fingono d’ignorarla”. Un peccato che la sua fortuna presso i lettori italiani sia circoscritta ad una cerchia piuttosto esigua e che quasi tutti i titoli finora tradotti nella nostra lingua siano pressoché introvabili. Will Self è, a tutti gli effetti, l’omologo letterario di John Lydon (o Johnny Rotten, se vi pare). I cinque racconti contenuti in quest’antologia sono fuochi d’artificio in prosa, realtà denudata da ogni ipocrisia, istantanee pornografiche (e dunque vere) di una società messa alla berlina. È odioso, il Dr. Mukti della novella che intitola la raccolta: uno psichiatra dei poveri, frustrato e rancoroso, misero e tormentato proprio come la maggioranza degli esseri umani lì fuori. Il lavoro è una carognata, la bellissima moglie non gli permette di sfiorarla a letto, i parenti indiani gli hanno invaso la casa e deve anche sopportare la spocchia del potente dottor Busner, un uomo che lo porterà a perdere definitivamente le staffe. Non occorre essere squilibrati per apprezzare questo scrittore, però aiuta. Dopo, i vostri sonni diventeranno più tranquilli, la noia friggerà in una pentola di pensieri migliori tipo: “Ne voglio ancora! Ne voglio ancora!” Sentite il profumo? È Will Self a preparare questi deliziosi manicaretti. Menzione speciale per il traduttore Vincenzo Latronico: ottimo lavoro! Nino G. D’Attis
CHECCHINO ANTONINI ALESSIO SPATARO Zona Del Silenzio Minimum fax
Quando il fumetto e la parola scritta si ritrovano, creano sempre una sinergia di indicibile potenza. Se accade per narrare un evento truce, oscuro, brutale, questa sinergia si intensifica, sino a divenire via d’accesso a sincerità emozionali, ma soprattutto a verità ansimanti e faticose. Succede con la morte violenta di Federico Aldrovandi, trasmessa all’indignazione collettiva attraverso la storia personale del giornalista Checchino Antonini, che per primo in Italia ha dato ascolto e spazio ad un episodio ingiustificabile, altrimenti condannato a disattenzione certa. Con il disegnatore Alessio Spataro - con il quale ha mosso penna, matita e reciproche r/ esistenze – Antonini ha però scelto di non rendere la crudezza di quel 25 settembre 2005, ma piuttosto di rielaborare l’intreccio sofferto tra le percezioni private e quegli accadimenti che, da Genova 2001 ma non solo, appaiono sempre più di “ordinaria” sopraffazione. Un caso di sopruso insostenibile, che ha visto quattro poliziotti accanirsi su di un corpo sino a ridurlo cadavere, è tradotto così in strisce d’arte penetrante, con i personaggi resi in una indovinata forma animale ibrida, tipo poliziotti-maiali, giornalista-topo, vittima-gatto: ogni riferimento all’oppressione totalitarista rappresentata ne La fattoria degli animali di George Orwell, è coerente con quanto si ripete al di là dei tempi e dei regimi. Anche la mosca, che nel finale di storia si poggia su una moto d’ordinanza facendola capitolare a terra, si fa allegoria di quello sdegno dei piccoli che, solo se unito ad altri simili risentimenti, può animare la “zona del silenzio” con il fastidio della rabbia comunicata. Rabbia che è ora custodita in una condanna per eccesso colposo in omicidio colposo , e in una novella grafica lancinante,nonché nella prefazione altrettanto micidiale – anticipatrice di ulteriori nefandezze a venire- di Girolamo De Michele. Stefania Ricchiuto LIBRI 45
SUBCOMANDANTE INSURGENTE MARCOS Così raccontano i nostri vecchi IntraMoenia
L’Altra Campagna è un itinerario audace di migliaia di chilometri, che il Delegato Zero - Subcomandante Marcos - ha percorso nel Messico più invisibile, per raccogliere le rivendicazioni delle genti oppresse e le urgenze delle popolazioni dominate. Tante voci, tanti gesti, tante resistenze si sono ritrovate in quel passaggio di appena tre anni fa, e infiniti animi e corpi - in stato di rabbia degna - hanno tratto nuova linfa e rinnovata sostanza da un cammino per niente agevole eppure concretizzato. Ora un progetto di Ya Basta! custodisce in forma di libro i racconti che il Subcomandante Marcos ha scritto e letto durante quegli incontri, e che lo hanno visto muoversi per trenta e passa stati federali, per condividere tensioni e desideri con le soggettività sociali più irriducibili: le comunità che osteggiano con tenacia l’oppressione neoliberista; i movimenti che costruiscono forme insolite, eppure efficaci, di democrazia dal basso; gli uomini e le donne che credono che equità sociale e giustizia distributiva non siano solo accostamenti d’utopia dalla suggestione avvenente. Il cammino di autonomia narrato, tradotto da Claudio Dionesalvi, celebra così radici indigene e urgenze contemporanee, con incursioni frequenti nell’espressività più poetica, nel segno magico, nella formula d’incanto. La soavità del linguaggio, però, mai si fa velo di copertura di una realtà vessata come quella dei Maya del Chiapas, ma vivifica sempre - con la bellezza della parola - le pagine combattive, e il senso dell’ascolto costante e condiviso dei popoli, della loro memoria, della loro dignità. Stefania Ricchiuto
LUCA MORETTI Cani da rapina Purple Press
Quando sei bravo ma hai fretta di vedere pubblicato il tuo primo romanzo, il rischio di far del male ai tuoi personaggi, alla storia che volevi raccontare è sempre dietro l’angolo. Luca Moretti è bravo, nessun dubbio in proposito, e ha scritto un romanzo tiratissimo, con una cura cer46 LIBRI
tosina verso la lingua delle borgate romane, il gergo criminale, le facce, i corpi, gli odori della periferia. C’è sangue di cane e sangue d’uomo in queste pagine che pagano un forte debito di riconoscenza a Pasolini e a De Cataldo (oltre al Tarantino di Le Iene – Cani da Rapina) nel loro raccontare la parabola nera e senza redenzione di un giovane mucchio selvaggio deciso a svoltare alla prima chance degna di nota: un chilo di cocaina sfuggita a una coppia di corrieri extracomunitari in viaggio verso la villa dell’implacabile boss Carminiddu da Mezzagno. Pure, Lo Storto, Davide, Nanni Discomusic, Er Gettone e tutta la fauna che accoglie il lettore con un abbraccio violento fin dalle prime pagine (con pochi ma significativi lampi di tenerezza), avrebbe meritato un respiro più ampio, soprattutto nella prima parte. Intendiamoci, è pura questione di lana caprina: Moretti, fondatore della rivista letteraria online terranullius.it, autore di racconti per il mensile Linus e di due raccolte di novelle culinarie in team con il famoso chef Antonio Bufi, batte ai punti qualsiasi scrittore della domenica di vostra conoscenza, qualunque pivello convinto di essere un genio non ancora pubblicato. Ha voce, ha carattere e conosce il buio di certe strade pericolose. La sua opera prima ha l’effetto carta moschicida: leggi le prime righe e senza rendertene conto hai mollato qualsiasi impegno per arrivare alla fine tra dialoghi secchi e una colonna sonora che passa dalle Supremes a Califano. Occorrente per spararselo in modo confortevole: un panino con la mortazza, una cassa di birra gelata (Moretti, of course!), una Browning Pro-9 cal.9x21 carica per minacciare l’autore una volta giunti a pag. 152: “La prossima volta, con dei personaggi così mi tiri fuori 10 volumi”. Nino G. D’Attis
LAURA LIBERALE Tanatoparty Meridiano Zero
Non leggo molte scrittrici. Non nego che il mio possa apparire come uno spiacevole pregiudizio, ma sono convinto che nell’arte (tutta), la donna fallisca ogni volta che insegue l’uomo. Le prove ci sono, e puntualmente ci privano della possibilità di accedere all’incredibile universo del femminile. Oltre alle prove, esistono per fortuna anche le eccezioni: tra queste, ho il piacere di segnalare l’esordio nel romanzo di Laura Liberale,
torinese, poetessa, traduttrice e bassista in una band di scrittori. Il suo Tanatoparty, opera breve dai toni dark, è una sorpresa che si traduce in un gioco in cui il lettore viene spinto a interrogarsi sulle regole sociali e morali che lasciano saldamente nascosto alla vista (e anche alle parole) l’indicibile della morte. Interamente occupato da uno dei grandi tabù della nostra società, ovvero il rapporto che abbiamo con le spoglie mortali, il romanzo ruota intorno alla figura di Lucilla Pezzi, performer estrema alla maniera di Orlan, Stelarc e di Marcel-Li Antunez Roca che, in occasione della sua dipartita, organizza un evento spettacolare incentrato sull’arcano del corpo, sul suo essere portatore di molteplici significati anche oltre l’atto di esistere, aldilà dello smorzarsi del soffio vitale. Coniugando elementi naturali e artificiali, Lucilla pensa al nostro relazionarci con la tragedia: ecco la morte che si fa spettacolo. Libro di geometria del dolore, potrei definirlo. Esorcismo delle estreme conseguenze, crudo e liricamente sconveniente come gran parte della produzione letteraria di Ballard o di Dennis Cooper. La prosa della Liberale scaglia il lettore ad anni luce di distanza dal romanticismo patinato dei non-morti di Stephenie Meyer, proponendosi di scardinare le convenzioni, le ipocrisie dell’“inenarrabile” in letteratura. Un party virato al nero. Un appuntamento con le nostre paure ancestrali. Da leggere ascoltando qualsiasi cosa dei Coil. Nino G. D’Attis
TERRY RICHARDSON Terryworld Taschen
C’è l’uomo che esibisce il grosso pacco infilato in un paio di slip bianchi che sulla fascia elastica recano la scritta “Papi”. C’è l’ormai celebre scambio di effusioni tra Batman e Robin, poi ritratti di stelle del cinema mainstream e hardcore (l’incantevole Sasha Grey, ad esempio), primi e primissimi piani di organi genitali maschili e femminili, ironici autoritratti (ovvero ciò che l’autore scopre di sé e su se stesso fotografandosi), animali, anziani naturisti, scorci d’America, oggetti di uso comune (assorbenti, tazze del cesso), baci focosi, pompini e cumshots. È un mondo folle, e in quanto tale dobbiamo smascherarlo, soprattutto quando la follia è malcelata da infiniti strati di ipocrisia. La Taschen ha rimesso in circolazione (tra l’al-
tro a prezzo più che appetibile) il grande volume monografico con il meglio di Terry Richardson. Si trova nella collana “25th Anniversary” e già solo a sfogliarlo rapidamente rivela la sua appartenenza alla sfera dei grandi romanzi per immagini. Senza filtri, esattamente come ci presentiamo la mattina davanti allo specchio, oppure al cospetto di un amante con tutte le carte in regola per accogliere i nostri pensieri più segreti al netto dei rumori di fondo. Il baffuto e tatuato figlio del fotografo Bob Richardson ha fatto soldi a palate lavorando per le principali holding della moda, ha immortalato Barack Obama durante la corsa alle primarie, firmerà il calendario Pirelli 2010. E continua a seminare scandalo con le sue mostre vietate ai minori, attraverso le copertine per riviste di fama planetaria (Vogue, The Face, GQ, Harper´s Bazaar), con una visione personale che oggi ha assunto lo status di marchio di fabbrica. Ingredienti base: narcisismo, sarcasmo, spiccata tendenza a superare i limiti della decenza. Dal porno, Richardson mutua lo stile gonzo di orientamento amatoriale: le facce, i corpi, non hanno trucco; le scenografie in interni e in esterni non presentano addobbi glamour in una rinuncia della perfezione formale che diventa potente poetica dell’immediatezza. Frase celebre del ragazzaccio: “Qualcuno deve forzare i limiti di quello che è rassicurante ma privo di fantasia”. Nino G. D’Attis
VINCENZO SANTORO Il ritorno della taranta Squilibri
Chi ha composto la musica di “Fimmene, fimmene”? Chi ha reinventato i passi della pizzica? Ma soprattutto, è vero, come dice la canzone, che “la taranta è viva e non è morta”? C’era un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui la musica popolare nel Salento era considerata un retaggio di tradizioni contadine da cancellare. Come è potuto succedere che nel giro di quaranta anni la pizzica sia diventata vessillo identitario di una comunità, macchina da soldi e fenomeno da esportazione lo racconta attraverso una ampia ricostruzione Vincenzo Santoro che è stato, almeno nell’ultimo decennio, uno dei vettori della rinascita della musica popolare nel Salento. Il ritorno della Taranta è una storia fatta di tanLIBRI 47
te storie: di pionieri che, per passione politica, ricerca identitaria o gusto musicale sono andati a recuperare le ultime testimonianze dei canti e della musica di tradizione in momenti e luoghi diversi del Salento e in alcuni casi, anche fuori dai confini pugliesi. È la storia di un passaggio di testimone (come nelle migliori tradizioni) in cui chi è arrivato prima ha trasmesso, a volte inconsapevolmente e a volte suo malgrado, ai nuovi arrivati un bagaglio “aggiornato” di testi, musiche e danze popolari. Dall’esperienza di Rina Durante e del Canzoniere Grecanico Salentino negli anni Settanta, attraverso la fase di crisi del decennio successivo fino alla rinascita degli anni Novanta e all’esplosione dell’ultimo decennio con tutte le contraddizioni che ha provocato e lo scontro (culturale) fra gli opposti sostenitori di tradizione e innovazione. Attraverso il recupero di vecchie pubblicazioni e la testimonianza diretta dei protagonisti di questa stagione Vincenzo Santoro ha risposto a molte domande sulla storia recente della Taranta, raccontando anche aneddoti curiosi e significativi di come la sopravvivenza della tradizione passi attraverso imprevedibili, ma inevitabili mutamenti. (F.T.)
PIERLUIGI MELE Da qui tutto è lontano Lupo Editore
“C’è voluto del tempo, per mettere il punto. Quindici anni, a mettere il punto alla fine”. Scrive così, Pierluigi Mele, autore impastato di teatro, poeta fino al midollo, a proposito del suo Da qui tutto è lontano. Un libro delineatosi quasi senza l’intervento dell’autore, ostaggio di personaggi rimasti a lungo nascosti, presi dal sogno o dai racconti di fiaba, e di storie che si collocano fuori dal tempo, fuori dal vero, dove il solo elemento reale, che rivela il Salento a far da sfondo, è la Torre di Sant’Emiliano. È un libro nato dalla lentezza, dall’abbandono, dal gioco. Ed è così che ci si dovrebbe accostare a questo compendio di poesia in forma di romanzo: lenti, soprattutto, senza fretta, né speranza di ottenere subito una trama - poiché più d’una è possibile trovarne, ma non si sa dove, né quando - e senza volerne conoscere fino in fondo i complessi protagonisti: il re Mezzaluna, sovrano anarchico, annoiato e indolente, così sfacciatamente simile al Caligola consegnato al mito da Camus, che si svela uma-
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no solo a poche pagine dalla fine, solo quand’è a un passo dalla morte; il suo fedele servo Masì, ritratto dell’apatia, del vuoto dell’anima; i subdoli consiglieri; le splendide figure femminili. Occorre addentrarsi tra le pagine arrendevolmente, curiosi e indulgenti. Perché quello che Mele descrive, con sapienza e bellezza, attraverso le parole più dolci, più lievi, odorose di mediterraneo e di spezie, come la pelle delle donne di cui parla - la regina dei girasoli Voisàva; Violetta, “addetta vanesia” del re - è forse, nel suo complesso, un impietoso ritratto del potere, e del delirio cui soccombono coloro che son presi dalle sue spire. Ma è anche un romanzo che parla d’amore, dipendenza, impossibilità, alternando la descrizione della pochezza umana a quella forte e rigogliosa del paesaggio del sud. A fare da supporto al libro, poi, un cd in cui Mele interpreta alcuni frammenti del romanzo. Una lettura che sembra pensata per trasmettere l’atmosfera di sogno della storia e che, di fatto, al sogno consegna l’ascoltatore... Sia inteso nell’accezione più pura, deliziata e ammirata possibile. Lori Albanese
FEDERICO CAPONE Cesare Monte Kurumuny
Federico Capone cura per l’editore Kurumuny un libricino intitolato a Cesare Monte e dedicato ai suoi Canti del Salento (comprensivo di cd con quattordici tracce scelte tra i pezzi più celebri e significativi composti e cantati dal maestro e menestrello leccese, e un lungo ricordo della figlia Marilena). Ma chi era Cesare Monte? Forse non tutti lo ricordano: al tempo stesso erede e capostipite della musica popolare salentina, cantore e cantautore, Monte ha rappresentato il punto di riferimento per il genere folkloristico di Terra d’Otranto, quella grossa fetta della tradizione popolare accantonata prima e sopraffatta poi dal travolgente revival della pizzica e delle tarantate. Merito principale di Monte è stato, secondo Capone, oltre naturalmente all’enorme lavoro di ricerca e composizione del canto tradizionale, quello di avere creduto più di tutti nell’identità della canzone urbana, difendendola dai detrattori e dagli intellettuali che la rinnegavano e la consideravano kitsch. L’Autore, descrivendo l’opera di Monte, critica l’eredità di De Martino, perché – sostiene – dal tempo de La Terra del
Rimorso la cultura salentina dell’epoca, bloccata nella dimensione romantica del ragno, della pizzica, della campagna, non è più stata ri-analizzata, contribuendo così a far credere che questa tradizione fosse immutabile, oltre che egemone. Il risultato è oggi un altro stereotipo, una Terra presuntivamente ferma al 1960, dove il tempo non scorre mai. Ma se è vero che il Salento non è solo barocco, la stessa dimensione artistica è variegata e altra rispetto all’esuberanza della pizzica. Il ricchissimo repertorio di Cesare Monte si pone dunque come pilastro su cui fondare una rilettura complessiva della tradizione canora, musicale, di danza e in generale artistica di Terra d’Otranto. Vito Lubelli
FABIO DE SANTIS Io ce la potevo fare Fazi
Metti insieme atleti e personaggi sportivi diversissimi tra loro e lontanissimi nel tempo, dagli automobilisti di Formula 1 Eddie Irvine e Alessandro Nannini, il tennista Pat Cash, il ciclista francese Poulidor e quello italiano Belloni, i centravanti Zigoni e Cassano, il cestista Peter Maravich, detto Pistol Pete, Thierry Vigneron nel salto con l’asta, il discobolo Tosi, i pugili Wepner, Chuvado e Jacopucci, il motociclista Randy Mamola, fino ai Buffalo Bills nel Wild Card Game del ’93. Che cosa accomuna questi nomi quasi del tutto sconosciuti ai più? Ce lo racconta lo scrittore leccese Fabio De Santis, classe 1977, originario di Casarano ma trapiantato a Rimini, che raccoglie quindici storie di campioni sportivi geniali e sregolati, fermi per scelta o per caso a un passo dalla gloria, immortalati per un motivo o per l’altro sul secondo gradino del podio (e spesso i podi, come nel pugilato o nel tennis, sono solo due). Le quindici storie sportive di De Santis, unendo cronaca e romanticismo, narrano di talenti sprecati e di eccessi, ma anche di rincorse frustrate e di sogni di riscatto finiti male. Leggetevi queste storie, raccomanda Italo Cucci nella prefazione, perché c’è più carne, più anima, più sugo nei Secondi che nei Primi. Vito Lubelli
FILIPPO BOLOGNA Come ho perso la guerra Fandango Libri
Follia dissennata e amarezza, amore e lotta di classe, dolore, tradimento, sconfitta. C’è un elemento diverso per ogni capitolo di questa storia. Come se fossero tanti piccoli racconti legati dallo scorrere delle acque termali, che negli anni modellano i tratti di un paese del centro Italia. In Come ho perso la guerra Filippo Bologna racconta in prima persona (ma la storia è solo in apparenza autobiografica) dell’opposizione di un gruppo di giovani a un modello di sviluppo locale che, sventolando le opportunità di ricchezza e benessere collettivo, finisce per violentare il patrimonio socio-cultuale e artistico di una comunità. Lo sfruttamento delle acque termali del paese viene dato in gestione dal Comune a un potente imprenditore che costruisce un grande resort riattivando l’economia locale grazie all’aumento delle possibilità di lavoro e all’arrivo di nuovi turisti. All’inizio il paese si mobilita contro questo modello di sviluppo, che in parte cambia i connotati della città, ma col tempo l’opposizione si affievolisce grazie a un sapiente gioco imprenditoriale fatto che alterna concessioni agli indecisi e maniere forti per gli intransigenti. Alla fine rimangono pochi giovani a tentare un disperato e velleitario sabotaggio del progetto. Nel libro la storia attuale si alterna con un continuo rimando alle vicende degli antenati del protagonista, una famiglia di proprietari terrieri che, nel periodo fascista, erano tra i pochi privilegiati a sfruttare le acque termali. È un gioco di avvicinamento e presa di distanze a metà tra il personale e il politico, in cui trova spazio la triste storia del nonno del protagonista e del suo gemello. E alla fine della storia, dietro le vicende romanzate dall’autore (ma che ugualmente hanno suscitato l’irritazione del sindaco, quello vero, di San Casciano dei Bagni) è facile leggere centinaia di storie simili, quasi quanti sono i comuni italiani. (F.T.)
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Intervista al direttore editoriale Mario Desiati La Fandango Libri nasce nel 1999 dalla Fandango Produzioni Cinematografiche. Da allora la casa editrice ha pubblicato oltre cento titoli, prestando grande attenzione anche alla loro grafica. Numerose le collane: Mine Vaganti di narrativa, Documenti di saggistica e la collana principale Fandango Libri che accoglie generi diversi tra cui anche poesia e teatro. Nel 2005 Fandango Libri si rinnova con un assetto unico nell’ambito editoriale. Oltre a Domenico Procacci, tra i soci 50 LIBRI
si annoverano gli scrittori Alessandro Baricco, Carlo Lucarelli, Edoardo Nesi, Sandro Veronesi e la sceneggiatrice Laura Paolucci. Prima che una casa editrice, la Fandango è un’idea, un progetto culturale. Ne parliamo con Mario Desiati, scrittore e direttore editoriale di Fandango Libri. Partiamo dalla tua esperienza, dal tuo percorso editoriale. In sintesi dalle riviste letterarie, al lavoro come consulente editoria-
le, dalla Mondadori alla Fandango in veste di direttore editoriale. Le riviste letterarie sono una palestra eccezionale per gli scrittori affermarti e un buon campionato primavera per gli aspiranti scrittori. Mondadori e Fandango sono due mondi molto diversi, Mondadori è una grande azienda dove i ruoli sono ben definiti, Fandango è una factory e in Italia forse è l’unico caso in cui un’azienda si mischiano le diverse arti dalla letteratura al cinema passando per la musica. Il tuo ruolo ti porterà a decidere strategie editoriali e creative all’interno della Fandango. Negli anni hai maturato una profonda comprensione e una diretta conoscenza della complessità dell’attuale sistema dell’editoria. In che direzione e quali le scelte e le novità che, a tuo parere, saranno determinanti nella tua gestione editoriale? Valorizzare la nostra letteratura e la voce degli scrittori italiani, sia gli esordienti, sia quelli che non hanno avuto la giusta attenzione editoriale. E poi storie che raccontino questo paese che viviamo. L’anno scorso è nata Galleria Fandango, una collana di narrativa italiana proprio con queste finalità. Restando alle vostre collane: molte le cose attualmente in catalogo, qualche anticipazione per questo inverno? Ci saranno in primavera diversi libri italiani tra cui un romanzo sulle periferie imbiancate dalla coca e uno sotto forma di memoir familiare molto originale. C’è un nuovo modo di conoscere e lanciare libri attraverso il linguaggio cinematografico: il book trailer. Cosa ne pensi? Per adesso su questo mezzo di promozione non ci sono dati certi. Certo in rete un libro con un booktrailer ha più appeal, ma non necessariamente più lettori. In internet c’è una grande vivacità rispetto al mondo della letteratura e dello “scrivere”. Ci sono discussioni, critiche, recensioni. È possibile auto prodursi, esistono riviste letterarie e blog. Come vedi questo fenomeno? Si può parlare di una nuova società letteraria/spontanea on-line? Si. È un grande territorio dove c’è anche la possibilità di sperimentare e di scoprire nuove voci. Essendo uno scrittore, tu hai anche un rapporto diretto coi lettori. Come è cambiato,
se è cambiato, il pubblico dei lettori in questi anni? Sono ancora i lettori a determinare il successo dei libri? Esistono lettori e consumatori di libri che magari comprano senza leggere o leggono solo un genere. L’età dei consumatori è più bassa (fenomeno Harry Potter, Moccia, Vampiri), i lettori forti restano sempre le donne dai quarant’anni in su. I libri hanno successo se escono da queste due fette di mercato. Quanto invece influiscono le nuove figure degli editor o dei manager nell’editoria? Sui libri che pubblicano tantissimo. Sul loro successo niente. La narrativa vive una stagione interessante. Ci sono libri di resistenza e impegno civile che fotografano anche le realtà più dure e diventano bestseller. E c’è una letteratura che invece si traduce solo in intrattenimento. Guardando al futuro, qual è la tua opinione? I libri possono migliorarci ed essere davvero motore di cambiamento o saranno sempre di più prodotti e pubblicizzati come una qualunque merce? Se non esistessero libri che cambiano il mondo e le nostre vite la letteratura non esisterebbe. Tra la generazione di scrittori trentenni, alcuni tra gli esponenti più interessanti viene dal Sud. In particolare c’è una Puglia, paradigma dell’Italia presente, che affida agli scrittori il compito di narrare il suo tempo, di mostrarne ferite e rimedi. Voci di autori che, da luoghi diversi della nostra regione, tracciano uno scenario di un futuro che sempre più spesso sembra ancora troppo in là. Qual è, a tuo parere, il registro più efficace per rappresentare questo territorio? Un registro che tenga conto delle contraddizioni, lontano dal folclore, ma con le tradizioni nel cuore, lontano dalle mode, ma con una lingua adeguata al proprio tempo. Come immagini la Puglia del futuro? Spero più giovane e senza centrali nucleari. Qual è il tuo rapporto con la musica? Sono un bruto. Ballavo la peggiore commerciale negli anni Novanta facendomi anche cento chilometri di autostop tra andata e ritorno. Oggi ascolto solo musica elettronica, ma lo dico perché fa molto chic dirlo. Gabriella Morelli LIBRI 51
CINEMA TEATRO ARTE
PECCATO, QUESTO NON Ăˆ UN FILM La vera storia di Roman Polanski Quella di Roman Polanski è una vita segnata dalla guerra, dalla violenza e dalla fuga. Nato nel 1933 a Leone, trascorre quattro anni in Francia prima di trasferirsi in Polonia, terra di origine 52 cinema teatro arte
del padre, a causa del crescente antisemitismo che serpeggia fra la popolazione francese. Il ritorno a casa segna il primo indelebile trauma nella vita del piccolo Roman. Internati nel
ghetto di Varsavia, nel 1941 si separa dalla madre, deportata ad Aushwitz, mentre lui riesce a fuggire trovando rifugio in alcune famiglie cattoliche. Gli orrori della guerra porteranno il piccolo Roman a sviluppare un forte interesse per l’arte, quale strumento per evadere da quella prigione fisica e mentale in cui è stato costretto a vivere. La sua passione crescente per il cinema, lo porterà nel 1959 a frequentare la Scuola di Arte di Cracovia e a soli 22 anni ad esordire come regista nel suo primo cortometraggio, Rower. Un precoce talento quello di Polanski, che nel 1963 gli vale una nomination all’Oscar come miglior film straniero con il lungometraggio Il coltello nell’acqua. Una pellicola che mostra l’abilità del regista nell’interpretare le tensioni sociali e quelle perversioni dell’animo umano che caratterizzano negli anni gran parte della sua filmografia. Film come Repulsion (1965), in cui il regista intraprende un viaggio a ritroso fra i traumi infantili e le ossessioni di una giovane Catherine Deneuve, o come Rosemary’s baby (1968), una fiaba nera in cui l’avidità si mischia al fanatismo e ad una minaccia soprannaturale, consacrano Polanski al grande pubblico. Purtroppo la fama e il successo sembrano intrecciarsi con il satanismo e la violenza descritti in Rosemary’s baby, poiché nel 1969, nella sua casa di Los Angeles un gruppo di adepti della “Charles Manson’s family” uccidono Sharon Tate, attrice e moglie del regista, insieme a quattro suoi amici. Un massacro che scuote l’opinione pubblica per la brutalità e la modalità con la quale gli assassini si accaniscono contro l’attrice, allora incinta di otto mesi. La notizia dell’assassinio raggiunge il regista in Gran Bretagna, impegnato a girare Macbeth, un film che ritrae con pregnante realismo e crudezza la tragedia shakesperiana. Nel 1972 Polanski torna alla commedia con Che? una produzione italiana interpretata da Marcello Mastroianni. Un film che assume tinte grottesche, come la maggior parte delle sue opere, e che lo avvicina a pellicole surreali quali Cul de Sac (1966), o Per favore, non mordermi sul collo (1967). Ma è nel 1974, con il suo amico Jack Nicholson e Faye Dunaway, che riacquista un enorme successo. Chinatown è un omaggio alla letteratura hard boiled ed in particolar modo a Raymond Chandler. Proprio Nicholson rappresenta l’anello di congiunzione con un altro evento che sconvolgerà la vita del regista. Nel 1977 al termine di una festa nella casa dell’attore statunitense, Polanski viene arrestato con l’accusa di stupro ai danni della tredicenne
Samantha Geiger. Il regista dopo aver trascorso 52 giorni presso un ospedale psichiatrico, ammette la sua responsabilità, nonostante la ragazza fosse consenziente. L’ammissione apre uno spiraglio nella vicenda, ma la paura che il giudice rifiuti il patteggiamento spingono Polanski a lasciare il paese prima del verdetto. Un esilio durato 32 anni durante il quale il regista ha continuato a lavorare e a riscuotere successo di critica e pubblico. Nella sua filmografia si alternano il romantico Tess (1979) dedicato alla moglie Sharon, o il thriller politico di stampo hitchcockiano Frantic (1988) con Harrison Ford, passando per il blockbuster La Nona Porta (1999) con Johnny Depp, che appare ben lontano dalle atmosfere cupe ed inquietanti di Rosemary’s baby. La definitiva consacrazione avviene nel 2002 con Il pianista, opera nella quale Polanski ripercorre le tappe della sua infanzia attraverso la solitudine di Wladyslaw, giovane e talentuoso pianista di Varsavia che assiste alle violenze e all’orrore dello sterminio durante l’occupazione nazista. Un film che sottolinea ancora una volta l’aspetto biografico che permea le sue produzioni. Nonostante l’Oscar per la Regia Polanski non torna negli Stati Uniti, lasciando che sia Harrison Ford a ritirare il premio per lui. Ma quella che sembrava una vicenda dimenticata e con la quale il regista e soprattutto Samantha Geiger avevano imparato a convivere, torna in questi giorni di attualità in seguito all’arresto di Roman Polanski durante il Festival del Cinema di Zurigo. La notizia ha creato un’imponente mobilitazione internazionale di familiari, amici, politici, cineasti ed intellettuali, schierati contro quello che appare un accanimento nei confronti del regista, anche alla luce delle dichiarazioni della Geiger, la quale ha chiesto più volte che questa storia fosse dimenticata. Le autorità svizzere si difendono spiegando che sul regista pende ancora un mandato di cattura internazionale, per questo motivo ora stanno spingendo per l’estradizione negli Stati Uniti. L’inaspettata detenzione di Polanski ha interrotto la lavorazione di Ghost, la sua ultima pellicola, tratta dal romanzo di Robert Harris, Ghostwriter, incentrata sulla relazione fra un uomo politico e lo scrittore ingaggiato per scrivere la sua biografia. Un film che riporta Polanski al thriller e forse a quelle opere, a metà tra follia e realtà, alle quali il cineasta franco polacco ci ha abituato. Roberto Conturso cinema teatro arte 53
PROTAGONISTA NON ATTORE Iniziano a Lecce le riprese di W Zappatore 54
Il bravo giornalista dovrebbe far sempre finta di essere distaccato e imparziale. Difficile però per me, che sono un non bravo giornalista, parlare di Marcello Zappatore senza ammettere che è un amico di vecchia data, mio compagno anche di suonate cabarettistiche. Quando però mi è arrivata la mail del casting per il film W Zappatore di Massimiliano Maci Verdesca ho pensato: questo è pazzo! Una pazzia lucida che accompagna Marcello in tutte le cose che fa. Abile chitarrista ha suonato con tantissimi gruppi salentini e non solo, svariando dal metal dei Kiss of Death ai suoni in levare degli Apres La Classe, dal jazz (anche come batterista) alla bossa nova di Agnese Manganaro, dal rock alle sue personali composizioni difficili da definire. “Dal grande compositore Frank Zappa credo di aver (immeritatamente) ereditato l’approccio ironico e autoironico alla composizione, la voglia di stupire con repentini mutamenti di atmosfere sonore e l’amore per le costruzioni musicali eccessive, ai confini del masochismo. Non so se il mio cognome ha qualcosa a che fare con il mio amore per Zappa...forse era destino.....” sottolinea Marcello. Pochi mesi fa è uscito il suo nuovo cd La ciliegina sulla torta (che arriva dopo le autoproduzioni Suonare da cani e La goccia che fa traboccare il naso) e si appresta a girare da protagonista W Zappatore, prodotto dalla Apnea Film, che vedrà al suo fianco, tra gli altri, anche Sandra Milo. W Zappatore? Un titolo un po’ presuntuoso... di cosa si tratta? Il titolo sarebbe apparso senz’altro presuntuoso qualora lo avessi scelto io, ma così non è stato, in quanto è tutto farina del sacco del regista Massimiliano Maci Verdesca; peraltro è un titolo ancora provvisorio, o se vogliamo “provvisoriamente definitivo”, data l’evidentissima somiglianza col titolo del film W Zapatero. Quali sono le tue affinità con Zapatero? Sicuramente sono un grande ammiratore del film sopracitato; per quanto riguarda le affinità con Zapatero in quanto uomo politico, vi è una sicura assonanza di cognomi (simile peraltro all’assonanza Zappatore - Zappa celebrata dallo spot andato in onda su MTV che il solito Maci Verdesca ha realizzato su di me nel 2002). Tu sarai il protagonista ma sarai affiancato anche dalla mitica Sandra Milo. Come ti senti? Mi sento onorato di poter lavorare accanto ad una colonna portante del cinema e dello spettacolo
italiani, ho avuto occasione di conoscerla ed oltre alla professionalità senza pari è anche dotata di una simpatia e di una genuinità davvero apprezzabili, considerando l’importanza del personaggio. Non sottovalutiamo però anche gli altri attori coinvolti, tutti bravissimi, tra i quali senza dubbio è necessario almeno citare le validissime Guya Jelo e Monica Nappo. Oltre che attore affermato sei anche un musicista. Da poco è uscito il tuo La ciliegina sulla porta com’è nato il disco? In realtà non sono per niente un attore, diciamo che esistono in gergo gli “attori non protagonisti”, ed io in questo caso mi ritengo un “protagonista non attore”. Sono sempre stato un musicista e spero di continuare sempre ad esserlo, al di là di questa esperienza cinematografica in cui sto per tuffarmi; il mio nuovo disco La ciliegina sulla porta, edito da Note Volanti, è il frutto di una mia continua esperienza compositiva che senza sosta si produce nella scrittura di nuovi brani; da notare che è un disco che registrai qualche anno fa, e che esce solo ora, nella speranza che abbia lo stesso effetto del buon vino che, dopo qualche anno, è ancora più gustoso. Suoni tutto: dal metal al jazz, dal rock alla bossa, dalle tue composizioni a cover. Che chitarrista ti senti? C’è da premettere che a me piace tutta la musica, mi ritengo un musicista che si è imbattuto nella chitarra principalmente per il fatto che a casa dei miei c’era solo quella. Magari se ci fosse stata la cornamusa o il kazoo il mio destino sarebbe stato molto diverso. Credo inoltre che in ogni genere musicale ci siano buone cose e cattive cose, dunque non bisogna indossare paraocchi equini ma essere pronti a recepire le buone vibrazioni contenute in tanta e diversa buona musica. Attore, musicista, comico, probabilmente scrittore... ti senti un po’ come Giorgio Faletti? In effetti ho anche un libro in serbo (però in italiano) sulle mirabolanti avventure di Jonas Polipson, personaggio di fantasia elaborato da uno dei miei cugini, che forse non vedrà mai la luce se non mi decido a terminarlo. Non credo però di meritare il paragone con l’immenso Giorgio Faletti, o se proprio vogliamo potrei paragonarmi solo ed unicamente al Giorgio Faletti che impersonava la Suora del Convento del Beato Albergo del Viandante del Pellegrino. Pierpaolo Lala cinema teatro arte 55
ECOLOGICO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL Il contestato Oil e Uso Improprio conquistano la seconda edizione della rassegna cinematografica La cultura vive un momento difficile in Italia tra attacchi della politica e tagli ai fondi; i piccoli Comuni, in difficoltà, decidono repentinamente di chiudere i rubinetti in quei settori che vengono considerati “superflui” per i propri cittadini; il pubblico è in calo - maledetta crisi – e preferisce lo svago all’impegno: così numerose manifestazioni che difficilmente riuscirebbero a sopravvivere senza un intervento pubblico, anche minimo, rischiano di chiudere. È stata quindi una lieta sorpresa vedere per il secondo anno consecutivo a Nardò l’Ecologico Film Festival, organizzato da un manipolo di coraggiosi guidati da Roberto Quarta, psicologo e film maker. La seconda edizione (dal 16 al 20 settembre) ha visto numerosi film in concorso sia nella sezione dedicata alle scuole, sia in quella riservata agli autori provenienti da tutta Europa. Roberto Quarta ci racconta alcune delle difficoltà incontrate nel mettere in piedi questa seconda edizione. “La questione è un po’ complicata da spiegare, diciamo che se un’Amministrazione Comunale sposa l’Ecologico Film Festival e si impegna a presentare il progetto per la richiesta di cofinanziamento alla 56 cinema teatro arte
Regione questo significa che vuole realizzare il Festival? Controintuitavamente devo rispondere “no”! Ora l’ho capito e quindi ne farò tesoro, ma quando a Nardò sono cominciati i problemi a Palazzo di Città e sono rimasti quasi tre mesi senza giunta, praticamente da giugno a settembre, io avevo già selezionato i film per il concorso, e mi trovavo davanti a una scelta: bloccare tutto perdendo il finanziamento Regionale o rischiare (come ho fatto) facendo riferimento soltanto al finanziamento Regionale che, seppure insufficiente alla realizzazione del Festival, riusciva però a garantire il monte premi del concorso. Io ho deciso di rischiare e di realizzare ugualmente il Festival per dare senso e continuità a una manifestazione culturale che di anno in anno cresce e accoglie sempre maggiore interesse di pubblico”. Nonostante le difficoltà il Festival si è tenuto comunque e nella sezione lungometraggi ha visto la vittoria (ex aequo) di Uso Improprio di Luca Gasparini e Oil di Massimiliano Mazzotta. Oil parla della più grande raffineria del Mediterraneo che si trova in Costa Azzurra, di proprietà della famiglia Moratti. La società ha chiesto al tribunale civile
di Cagliari di inibire l’ulteriore proiezione, comunicazione e diffusione del documentario. Inoltre i Moratti hanno chiesto al regista i danni patrimoniali e non. “Sinceramente non mi sono posto il problema del film e le ragioni per cui i Moratti ne volessero inibire la proiezione”, sottolinea Roberto Quarta. “Io ho semplicemente guardato il film e l’ho valutato come “utile”, come un film da far vedere perché poteva far capire qualcosa alla gente. Questo è stato il mio criterio, che poi è il mio criterio guida per la scelta dei film da proiettare durante il Festival. Quando poi, durante il Festival mi arrivavano le telefonate dei giornalisti di alcune testate nazionali che mi chiedevano se Oil era effettivamente in programmazione ho compreso che questa storia dei Moratti stava facendo nascere una questione di “censura” che non ha trovato sponda nell’Ecologico Film Festival”. Uso Improprio del bergamasco Luca Gasparini narra l’incontro impossibile, eppure a suo modo vitale e fecondo, tra Luca, un uomo alle soglie dei cinquant’anni, e un gruppo particolare di giovani che dà vita ad Acrobax, un centro sociale occupato che ha sede nell’ex Cinodromo di Roma. Nella stessa sezione sul podio sono arrivati Una montagna di balle di Nicola Angrisano e
Peace with seals di Miloslav Novak. La giuria, guidata dal regista Giuseppe Ferrara, ha inoltre assegnato una menzione speciale per A li tiempi miei era tutta campagna della salentina Chiara Zilli che racconta “i veleni” del Salento provocati da Ilva di Taranto, Cerano di Brindisi, Copersalento di Maglie, discariche straripanti. “Il cinema di denuncia sociale dovrebbe aiutare la gente a capire, dovrebbe aiutare i politici a programmare diversamente gli interventi sociali e dovrebbe aiutare, per questo, tutta la società a svilupparsi in una maniera più consapevole” sottolinea Roberto Quarta. “Il cinema sociale, secondo me, ha una funzione di “specchio” serve a far prendere consapevolezza a uscire fuori dalle suggestioni del nostro presente “costruito” per non farci pensare: insomma in poche parole, il cinema di denuncia sociale ci restituisce il pensiero, la capacità di pensare”. Si pensa già alla prossima edizione. “L’anno prossimo cercheremo di fare il festival anche perché abbiamo raccolto molti consensi da parte degli autori e del pubblico e tanta solidarietà in generale”. Tutte le info sui vincitori delle altre sezioni sul sito www.ecologicofilmfestival.it Pierpaolo Lala
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GIUSEPPE TORNATORE Baarìa
ria è un coinvolgente affresco corale, che ci riporta alla mente le indimenticabili pellicole neorealiste degli anni ’40, in grado di emozionarci ma anche di farci sorridere. L’opera, che vanta la presenza di tanti volti noti del nostro star system e della straordinaria colonna sonora del maestro Ennio Morricone, riporta in auge il cinema made in Italy, ricco di memoria ed idealismo, e ci auguriamo che rappresenti il nostro Paese alla prossima premiazione degli Oscar. Daniela Miticocchio
STEVEN SODERBERGH The informant! Sono stata sempre affascinata dai racconti di mia nonna, della sua difficile infanzia trascorsa in una masseria, immersa fra i rilievi dei monti dauni. Tante volte ho cercato invano di immaginare la sua storia, ma solo ora sono riuscita a riviverla, grazie all’ultimo capolavoro del resigta Giuseppe Tornatore, Baaria. Il film è una sorta di viaggio, tra gli anni trenta e gli anni ottanta, che ci fa scoprire la gioventù di Tornatore a Bagheria, in provincia di Palermo, attraverso gli occhi e le parole di tre personaggi: Cicco, il nonno, Peppino, il padre e Pietro, il nipote. Cicco (Gaetano Aronica) è un umile pastore che adora la letteratura e il cinema muto; il figlio, Peppino (Francesco Scianna), è un sognatore, un fervente giovane comunista che, grazie al sostegno della sua amata moglie Mannina (Margareth Madé), lotta per diventare deputato, senza però mai riuscirci. Pietro, infine, influenzato da tali passioni, decide di lasciare la Sicilia pr inseguire la sua aspirazione: diventare regista. Considerato un kolossal, Baa58 cinema teatro arte
0014 perché è furbo il doppio di James Bond, e agisce in gran segreto con l’FBI per mostrare l’esistenza di fantomatiche truffe compiute dalla sua compagnia ai danni dello Stato. Dopo diversi anni di scottanti registrazioni, numerosi arresti ed estenuanti collaborazioni con le forze dell’ordine, tuttavia si viene a scoprire che il nostro “eroe” non è altro che un bizzarro menzognero. Tratto da una storia vera e acclamato alla 66° Mostra del Cinema di Venezia, The Informant! appare, sin dalle prime sequenze, una dark comedy stravagante ed insolita, a tratti abbastanza contorta. Il film è originale e divertente, anche se molti, senza dubbio, resteranno perplessi per un tipo di montaggio spesso troppo veloce, ellittico e, per buona parte, indecifrabile, in linea dunque con il protagonista, un uomo strano ed enigmatico, interpretato dal brillante Matt Damon. Daniela Miticocchio
LUIGI SARDIELLO Piede di Dio
La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere? Se ancora non lo sapete, beh, forse è il caso di vedere The Informant! di Steven Soderbergh. Mark Whitacre, biochimico americano, è l’astro nascente e il futuro manager della famosa Archer Daniels Midland (ADM) Company. A Mark, però, tutto questo non basta perchè il suo desiderio più grande è quello di diventare un eroe. Spinto dalla sua folle aspirazione e da una personalità alla dottor Jekyll e Mr Hyde, il protagonista si finge informatore, il suo numero di riconoscimento è lo
Esordio incoraggiante per Luigi Sardiello, giornalista toscano, direttore della rivista Film Maker che propone “una commedia nel solco della tradizione della commedia
all’italiana anni ‘60, capace di far ridere e piangere al tempo stesso”, come dice egli stesso. Il film, girato tra il Salento e Roma, racconta la storia di Michele (Emilio Solfrizzi) osservatore di calcio in cerca di un campione da vendere a qualche grossa squadra, che si imbatte su una spiaggia del Salento in Elia (Filippo Pucillo), il Piede di dio, un talento purissimo che non ha mai sbagliato un calcio di rigore. Elia ha però un problema per il quale viene irriso nel paese: ha diciotto anni ma con un cervello da dodicenne. Michele convince la madre di Elia (Rosaria Russo) e porta il ragazzo a Roma per una serie di provini. Calciopoli, il mondiale 2006 vinto dall’Italia, una società intrisa di televisione e modelli culturali negativi fanno da sfondo a questa storia che parte dal calcio (con immagini di repertorio che fanno venire i brividi agli appassionati) per raccontare i sentimenti umani, l’amicizia, la dignità, la paura, la voglia di emergere. Nel cast anche Antonio Stornaiolo e Antonio Catania. Una buona commedia senza pretese. (pila)
DAVIDE BARLETTI Radio Egnatia Anima Mundi (Dvd + cd)
Radio Egnatia, film documentario di Davide Barletti da un’idea di Matteo Fraterno e Davide Barletti, percorre la via Egnatia, naturale proseguimento dell’Appia in terra balcanica, l’antica strada romana costruita per connettere Roma a Costantinopoli passando attraverso l’Italia meridionale, il Canale d’Otranto, l’Albania, la Repubblica di Macedonia, la Grecia e la Turchia. Radio Egnatia è una stazione radio immaginaria il cui palinsensto è costituito dall’intreccio di suoni ed informazioni reali,
WOODY ALLEN Basta che funzioni
A distanza di un anno dalla disinibita commedia Vicky Cristina
Barcelona, torna sul grande schermo il prolifico Woody Allen con il colto e disincantato Whatever works – Basta che funzioni. Ambientato interamente a New York, il film ci mostra le vicissitudini personali del misantropo prof Boris Yellnikoff (Larry David) alle prese con Melody (Evan Rachel Wood), un’ingenua ragazza del sud, fuggita dal suo paese “troppo puritano” per trovar fortuna nella Grande Mela. L’incontro fortuito con la giovane “stupida”, come la definisce lo strampalato scienziato, cambia il modus vivendi del protagonista, e non solo, ed offre una ventata di freschezza nella sua esistenza intenzionalmente noiosa, metodica e, talvolta, maniacale. Basta che funzioni è un’opera che riflette pienamente il punto di vista e lo stile di Allen poiché guarda il mondo e gli uomini in maniera esageratamente cinica ed estremista. Il regista, attraverso i divertenti monologhi del protagonista, si rivolge frequentemente al pubblico in sala e gli ricorda che ciò che occorre nella vita è responsabilità della sorte ed è, senza ombra di dubbio, meglio essere fortunati più che essere buoni. Daniela Miticocchio
come relitti di programmi radio di vere emittenti, testimonianze, suoni e canti, raccolti durante numerosi viaggi in terra balcanica. Il film è composto da vari episodi, ognuno dei quali è rappresentato simbolicamente da una lastra di pietra leccese (chianca) che viene creata e poi “dispersa” a testimonianza del passaggio dei protagonisti sulla vecchia strada romana. Il
cofanetto (pubblicato da Anima Mundi) oltre al dvd presenta anche il cd con la “mappa sonora” a cura di Raffaella Aprile e Antongiulio Galeandro realizzata con suoni, canti, musiche e poesie raccolti lungo la Via Egnatia. Un’audioguida per potersi districare tra i bivi,i crocicchi, gli sterrati di una strada fatta di conoscenze, di utopie, di idee. cinema teatro arte 59
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EVENTI MUSICA VENERDÌ 9 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Risonanze Folk VENERDÌ 9 – Masseria Copertini a Strudà (Le) Lola and the lovers VENERDÌ 9 OTTOBRE – I sotterranei di Copertino (Le) Io Monade Stanca SABATO 10 – Alessano (Le) Musiche di pace per Don Tonino con Nabil e Ambrogio Sparagna SABATO 10 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Amia Venera Landscape, Shank, No Sec To Lose SABATO 10 – Demodè di Bari La fame di Camilla SABATO 10 – Spazio Off di Trani (Ba) The Collettivo - Indie Electro (Napoli) DOMENICA 11 – Serre di Sant’Elia tra Trepuzzi e Squinzano (Le) Luoghi d’Allerta GIOVEDÌ 15 – I sotterranei di Copertino (Le) L’Enfance Rouge VENERDÌ 16 – Largo I maggio a Martano (Le) Toromeccanica VENERDÌ 16 – Masseria Le Palmentelle di San Cesario di Lecce Adria e Radicanto SABATO 17 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Leit Motive SABATO 17 OTTOBRE – Spazio Off di Trani (Ba) Dente DA SABATO 17 A GIOVEDÌ 22 – Salento Sound Res DOMENICA 18 – Piazza Libertà a Campi Salentina (Le) Ensemble Notte della Taranta LUNEDÌ 19 – Samarcanda Caffè a Lecce Demetrio Stratos e il prog, incontro per ricordare il grande cantante. Partecipano Gianpaolo Chiriacò, Gianluca Milanese, Gabriele De Blasi e
Richard Sinclair LUNEDÌ 19 – Centro Polifunzionale di Trepuzzi (Le) Faber Saudade – omaggio a Fabrizio De Andrè MARTEDÌ 20 – Teatro Politeama Greco di Lecce Fiorella Mannoia GIOVEDÌ 22 – Nordwind di Bari Carion e The Lorean VENERDI 23 - Spazio OFF di Trani (Ba) Cube Dance Friday con Carlo Chicco VENERDI 23 – Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Bruise Violet e Bubble Bullet SABATO 24 OTTOBRE - – I sotterranei di Copertino (Le) Regressive SABATO 24 OTTOBRE – Spazio OFF di Trani (Ba) Esdem VENERDÌ 30 OTTOBRE – Spazio OFF di Trani (Ba) I Hate 80’s “Thriller night” special guest Dj Titan VENERDÌ 30 – Saletta Della Cultura a Novoli (Le) Elisir – vincitori del Premio Tenco 2009 SABATO 31 – Officine Cantelmo di Lecce Halloween Party con Tobia Lamare SABATO 31 - Teatro Royal a Bari Eri Yamamoto e Mirko Signorile per Time Zones SABATO 31 OTTOBRE – – I sotterranei di Copertino (Le) Neo SABATO 31 - Masseria Argentoni a Erchie (Br) Santuscemu 2009 – dodicesima edizione del Festival demenziale più grande del Sud Italia SABATO 31 OTTOBRE – Spazio OFF di Trani (Ba) Halloween Party con Le Vie Del Folk MARTEDÌ 3 - Auditorium Vallisa a Bari Teho Teardo per Time Zones VENERDÌ 6 - Auditorium Vallisa a Bari Nine Rain per Time Zones VENERDÌ 6 – Istanbul Café di
Squinzano (Le) Muffx DOMENICA 8 - Teatro Royal a Bari Terence Blanchard Quintet per Time Zones LUNEDÌ 9 - Teatro Royal a Bari Wim Mertens per Time Zones
TEATRO SABATO 10 e DOMENICA 11 – Teatro Koreja di Lecce No pesa el corazón de los veloces della compagnia di danza Erre Que Erre di Barcellona LUNEDÌ 12 E MARTEDÌ 13 – Teatro Politeama Greco di Lecce Corrado Guzzanti MERCOLEDÌ 14 - Convento dei Francescani Neri a Specchia (Le) Spettacolo di teatro-poesia Calicanthùse con Marthia Carrozzo, Margherita Macrì e Nabil Salameh VENERDÌ 16 E SABATO 17 - Teatro Koreja di Lecce Carmina Burana della Compagnia Balletto del Sud di Lecce DA VENERDÌ 23 A DOMENICA 25 E SABATO 31 – Teatro Kismet di Bari La principessa sirena di Teresa Ludovico - debutto nazionale per il nuovo spettacolo del Teatro Kismet DOMENICA 25 - Masseria San Biagio a Calimera (Le) La cantatrice calva - uno spettacolo di Somnia Theatri liberamente ispirato all’opera di E. Ionescu GIOVEDÌ 29 - Convento dei Francescani Neri di Specchia (Le) Da una stanza all’altra viaggio nella letteratura femminile del ‘900
CINEMA VENERDÌ 9 – Palazzo Legari ad Alessano (Le) Joni Mitchell – documentario sulla vita della cantante VENERDÌ 16 – Palazzo Legari ad Alessano (Le) La posta in gioco di Sergio Nasca che racconta la vita di Renata Fonte MARTEDÌ 20 OTTOBRE – CineEditoriale 61
ma Santalucia di Lecce I love radio rock di Richard Curtis VENERDÌ 23 – Palazzo Legari ad Alessano (Le) Madri di Barbara Cupisti MARTEDÌ 27 OTTOBRE – Cinema Santalucia di Lecce Riunione di famiglia di Thomas Vintenberg VENERDÌ 30 – Palazzo Legari ad Alessano (Le) Annemarie Schwarzenbach, una svizzera ribelle di Carole Bonstein
LIBRI VENERDÌ 9 – Fondo Verri a Lecce Pierfrancesco Pacoda presenta La rivolta dello stile (Alet) VENERDÌ 9 – Palazzo Marchesale di Taviano Pierlugi Mele presenta Da qui tutto è lontano (Lupo Editore) SABATO 10 – Libreria Gutenberg di Lecce Inaugurazione con la presentazione del libro Lezione di nuoto di Valentina Fortichiari SABATO 10 – Fondo Verri a Lecce Alessio Viola presenta il suo romanzo Ghiaccio (Palomar) DOMENICA 18 – Libreria Ergot
a Lecce Incontro con Marco Philopat, una figura simbolo della controcultura italiana MERCOLEDì 21 - Biblioteca Civica Pietro Acclavio a Taranto Il giornalista Giuliano Foschini presenta Quindici passi (Fandango) MERCOLEDÌ 21 – Palazzo Legari di Alessano (Le) Incontro con la scrittrice Toni Maraini VENERDÌ 23 – Teatro di Novoli (Le) Armando Tango presenta Salento’s Movida SABATO 24 – Officine Cantelmo a Lecce Gianluca Morozzi, una della voci più interessanti della nuova letteratura italiana. A seguire concerto degli Street Legal SABATO 24 – Teatro di Novoli (Le) Luca Rinarelli presenta In perfetto orario DOMENICA 25 – Teatro di Novoli (Le) Pierluigi Mele presenta Da qui tutto è lontano VENERDÌ 30 OTTOBRE – Libreria Ergot a Lecce
Un incontro dedicato alla vita e alla ricerca di Georges Lapassade, una delle figure più importanti della psicosociologia, dell’etnologia e della pedagogia. VENERDì 30 - Biblioteca Civica Pietro Acclavio a Taranto Andrea Satta presenta I riciclisti (Ediciclo). A seguire concerto dei Têtes de Bois SINO AL 5 NOVEMBRE Transiti a oriente - Il Comune di San Nicandro Garganico, in collaborazione con la Regione Puglia – Assessorato al Mediterraneo, e con l’Associazione Culturale Nemesi bandiscono la prima edizione del Premio letterario Transiti ad Oriente per racconti brevi. La terra dei vigneti e degli ulivi , è stata da sempre luogo di transito, di passaggio, d’incontro verso e dai paesi del Mediterraneo. La presenza ebraica nel ‘900 ha coinvolto zone diverse della Puglia, creando legami, contraddizioni, silente solidarietà, attorno al destino profugo di un popolo. Dal Gargano al Salento ci sono le tracce sparse del passaggio del popolo ebraico, ed della sua presenza ancora oggi. Tante le storie, tanti i racconti. Info su www.alessandrolangiu.it o www.comune.sannicandrogarganico.fg.it
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Stecca, Bar Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio, Associazione Tha Piaza Don Chisciotte), Calimera (Cinema Elio), Cutrofiano (Jack’n Jill), Gallipoli (Libreria Cube), Maglie (Libreria Europa, Music Empire, Suite 66), Melpignano (Mediateca, Kalì), Corigliano D’Otranto (Kalos Irtate), Otranto (Anima Mundi), Alessano (Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo della Cultura), Nardò (Libreria i volatori), Leverano (Enos), Novoli (Saletta della Cultura Gregorio Vetrugno), Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento (Sinatra Hole), Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini), Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee), Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli, Kismet teatro, New Demodè, TimeZones), Taranto (Associazione Start, Trax vinyl shop, Gabba Gabba, Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì Phone’s Center, Artesia, Radiopopolaresalento), Manduria (Libreria Caforio) e molti altri ancora...