Coolclub.it n.68/69 (Ottobre - Novembre 2010)

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anno VII numero 68/69 ottobre/novembre 2010

PENNE ALLA ROCK&ROLL



PENNE ALLA ROCK&ROLL I critici musicali sono persone che non sanno scrivere che intervistano persone che non sanno parlare per un pubblico che non sa leggere. Così il mitico Frank Zappa apostrofava il giornalismo musicale. É una frase certamente d’effetto, molto usata dopo di lui da musicisti incompresi o semplicemente senza alcun talento. La scrittura musicale (mi piace chiamarla così, da sempre, per una sorta di assonanza, come se le parole avessero il suono stesso della musica che raccontano, il suo ritmo e i suoi colori) è fatta invece di grandi pagine che raccontano storie bellissime di uomini speciali. Chi scrive di musica (e non solo) deve aver il dono di creare un’immagine definita o evocativa di qualcosa che non è materiale. Io che da anni ci provo, ho trovato in alcune firme una corrispondenza d’amorosi sensi e ho scelto non solo il mio genere musicale ma anche il mio genere di scrittura musicale. Ancora ricordo la prima volta che ho letto la scrittura rock Lester Bangs, oppure le visioni di Simon Reynolds o il “metapop” di Paul Morley. Alcuni giornalisti sono vere e proprie star, in qualche modo hanno tracciato la storia della musica, hanno definito i generi, aiutato destini e rovinato carriere. Il giornalista musicale, soprattutto prima dei blog, del download e compagnia bella, era la pri-

ma ed autorevole parola su musica non ancora sentita. Oggi il giornalismo musicale che conta vale ancora di più, è una materia da preservare e a cui riconoscere la giusta autorevolezza. Esiste la cultura della musica, quella fatta di vinili consumati, di infiniti chilometri per vedere un concerto, di incontri incredibili e di dischi che valgono mille ascolti. Ed è questo che abbiamo scelto di raccontare in questo numero di Coolclub.it attraverso tre penne rock ‘n’roll veramente speciali: Pierfrancesco Pacoda, Federico Guglielmi e Giancarlo Susanna. Si sono espressi sul loro mestiere di scrivere e ci hanno regalato un’intervista realizzata nel corso della loro carriera. Ecco che solo per questo numero abbiamo l’onore di ospitare le parole di Robert Wyatt, Tom Morello dei Rage Against the Machine e Fabrizio De Andrè che offrono non solo la testimonianza di grandi vite in musica ma anche una finestra sulla cifra stilistica degli autori. Come per ogni numero troverete le rubriche di sempre e gli appuntamenti d’autunno. Per questa nuova stagione (2010/2011) Coolclub.it diventa bimestrale, l’unico modo che abbiamo per resistere e regalarvi ogni volta 64 pagine gratis da leggere. Ci vediamo a dicembre. Osvaldo Piliego Editoriale 3



CoolClub.it Via Vecchia Frigole 34 c/o Manifatture Knos 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno 7 Numero 68/69 ottobre/novembre 2010 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Cesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, Tobia D’Onofrio Si ringraziano per il contributo: Federico Guglielmi, Pierfrancesco Pacoda, Giancarlo Susanna Hanno collaborato a questo numero: Dario Quarta, Alfonso Fanizza, Dino Amenduni, Gabriella Morelli, Luciano Pagano, Stefano Donno, Nino G. D’Attis, Lori Albanese, Maria Grazia Piemontese, Stefania Ricchiuto. In copertina: Tom Morello dei Rage Against The Machine Ringraziamo Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Cooperativa Paz di Lecce e le redazioni di Blackmailmag. com, Radio Popolare Salento, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Radiodelcapo, Musicaround.net. Progetto grafico erik chilly Impaginazione dario Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione il 10/10/10 (forse...) Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: pierpaolo@coolclub.it 3394313397

PENNE ALLA ROCK&ROLL

Federico Guglielmi 6 Rage against the machine 10 Robert Wyatt 14 Fabrizio De Andrè 20 musica

Dylan Leblanc 24 Non voglio che Clara 26 Recensioni 28 Salto nell’indie - Vina’s Records 40 Libri

Michael Gregorio 42 Enrico Remmert 44 Recensioni 48 Cinema Teatro Arte

Aureliano Amedei 54 Recensioni 56

Eventi

Calendario 60 sommario 5


In foto: Guglielmi e i Blonde Red Head

FEDERICO GUGLIELMI Quando la musica va a braccetto con la vita

È sempre emozionante intervistare qualcuno che in qualche modo ha influenzato la tua crescita. In questi pochi anni che scrivo di musica ho notato con estremo piacere che non ho la fascinazione per i musicisti ma piuttosto per personaggi che stimo per passione, coraggio, storia. Uno di questi è sicuramente Federico Guglielmi, classe 1960, curriculum di quelli che pesano. Attualmente sulle pagine di Mucchio Selvaggio, Mucchio Extra e Audio Review, già sulle pagine di Velvet, Rockerilla e Bassa Fedeltà, è autore di libri sul punk come su Carmen Consoli e conduttore radiofonico. Con lui abbiamo parlato di vita e musica due elementi che, nel suo caso, camminano di pari passo. 6

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Quello del giornalista musicale è un mestiere strano, è una pratica di scrittura che mette a nudo la sensibilità di chi scrive e quindi lo espone moltissimo. Allo stesso tempo, però, il giornalista rischia sempre di rimanere nell’ombra perché parla di star, di personaggi mitici. Detto così sembra romantico, cosa pensi a riguardo? La storia del giornalismo musicale, a livello planetario e non solo qui in Italia, è piena di miei colleghi che sono divenuti “star”: la maggior parte solo nell’ambiente e pochi anche al di fuori di esso, ma non si può negare che questo mestiere può dare una certa visibilità. Personalmente mi rendo conto di avere acquisito, visto il mio muovermi tra scrittura, radio, produzioni


discografiche e apparizioni pubbliche di vario genere, una discreta fama: insomma, non mi sento “nell’ombra” ma, al contrario, fin troppo alla luce del sole. È un effetto collaterale del mio lavoro che, comunque, non mi esalta né mi disturba… ma che non ho mai cercato: ho scritto sempre e solo quello che ritenevo giusto scrivere, con il mio stile comprensibile e sobrio. Peccato, invece, che esistano giornalisti che in una recensione o un articolo vedono uno strumento utile per farsi notare: ad esempio, con stroncature volutamente esagerate, o con prose cervellotiche e poco decifrabili che li faccia sembrare più brillanti. La scrittura musicale ha varie forme, varie scuole di pensiero. Tu quante ne riconosci? Tantissime: c’è chi preferisce raccontare le storie che stanno dietro gli artisti e i dischi, chi si lancia in dissertazioni di tipo tecnico, chi punta ad analisi di tipo “impressionistico”, chi affronta le questioni partendo dal proprio vissuto, chi nelle recensioni descrive nel dettaglio le canzoni e chi non ne nomina affatto, chi cerca tutti i collegamenti di ogni disco e vuole enumerarne tutte le influenze… E ci sono anche quelli che, semplicemente, copiaincollano i comunicati e ci mettono sotto la loro firma. Chi scrive di musica, vive di musica. Spesso travalica le pagine e diventa altro. Ci racconti la tua avventura di produttore? Il primo disco, nel 1983, lo feci senza pensarci troppo su, per gioco… poi, tre anni dopo, le cose divennero più serie e la mia etichetta - la High Rise - fu il mezzo attraverso il quale cercare di “restituire” al rock almeno una piccola parte di ciò che mi aveva dato, realizzando dischi che probabilmente nessun altro avrebbe pubblicato: ci perdevo soldi sapendolo in partenza, ma andava bene lo stesso. Mi piaceva molto soprattutto seguire le band in studio, collaborare alle strutture e agli arrangiamenti dei brani, organizzare le registrazioni: l’ho fatto per la mia piccola label ma anche conto terzi… per la Hiara (Rats), la Spittle (Not Moving), la Electric Eye (Sick Rose), la RCA/BMG (Fasten Belt). Nel 1995 avevo deciso di smettere definitivamente per mancanza di tempo, ma l’anno scorso sono tornato “in cabina di regia” per gli Strange Flowers, il cui ultimo album è uscito per la Go Down. Però di sicuro non avrò mai più un’etichetta, e sono dubbioso se proseguire, se capitasse, l’attività di produttore artistico: da un lato temo che i gruppi potrebbero volermi ingaggiare non per le mie capacità - reali o presunte - ma per cercare di ottenere benefici promozionali grazie alle mie

conoscenze, dall’altro non vorrei che qualche mio “protetto” fosse penalizzato dal mio non essere simpatico proprio a tutti… Sei stato in qualche modo un personaggio chiave nel processo di documentazione di anni cruciali per il rock italiano. Ce ne racconti qualche sprazzo o episodio più significativo? Ci sarebbe materiale per un libro… e infatti, prima o poi… Comunque, sì, ne ho viste parecchie: gli Skiantos che sul palco cucinavano gli spaghetti invece di suonare, i Litfiba esibirsi davanti a qualche decina di spettatori per lo più disinteressati nel loro primo concerto romano, Ferretti e Zamboni dietro il banchetto della “I dischi del mulo” a un “Independent Music Meeting”, cioè il papà del MEI… Credo che potrei avere uno o più aneddoti per ciascuna band o solista potresti nominarmi… ma ci vorrebbe, appunto, un libro. Il giornalismo musicale in questi anni si è evoluto o per lo meno è cambiato. Dove credi si stia indirizzando l’editoria musicale? Verso un baratro fatto di “copiaincolla” in Rete e di pur volenterosi ragazzini che dopo aver ascoltato cento album scaricati dalle Rete si

In foto: Ian Curtis

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sentono già legittimati a scrivere di musica, magari avendo solo una vaga idea della lingua italiana? Questo è il presente, fatto di giornali che vendono pochissimo ed editori preoccupati solo di riempire le pagine con gli scritti di gente che è disposta a lavorare gratis, di siti che per lo più - ci sono ovviamente eccezioni - imitano le riviste di carta e di blog che nessuno legge. Credo che avrà una possibilità di futuro solo chi riuscirà a porsi come “filtro” autorevole dell’insostenibile tsunami di musica senza senso di questi giorni, sapendo contemporaneamente raccontare e “spiegare” in modo interessante e stimolante quella del passato. Fare “cultura”, 8

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insomma, anche se per i pochi ai quali la cultura interessa. Inutile dire che Internet ha abbattuto molti confini. Oggi molti si improvvisano critici. Quali credi siano gli ingredienti fondamentali per un critico musicale? Al termine “critico” preferisco “giornalista”. Per risponderti: miglior conoscenza possibile di tanta musica di generi diversi, passione, buona capacità di utilizzo della lingua italiana, coraggio di esprimere il proprio pensiero. Hai attraversato decenni incredibili per


In foto: Kurt Cobain

il rock. Ricordi l’emozione del primo ascolto di qualcosa di assolutamente rivoluzionario? Non è detto che una grande emozione debba per forza derivare da musica innovativa. Riferendomi a scoperte “in tempo reale”, mi vengono in mente i Talking Heads di I Zimbra, i Cure di Killing An Arab, i Joy Division di Love Will Tear Us Apart, i Nirvana di Smells Like Teen Spirit… Si capiva immediatamente che si trattava di canzoni e band che sarebbero rimaste, e infatti… Domanda di rito: consigliaci tre dischi imprescindibili per capire il rock. Solo tre? Un bel problema. Te ne dico tre per

inquadrare, a grandissime linee, il “mio” rock: il primo dei Velvet Underground, Goodbye And Hello di Tim Buckley, No Control dei Bad Religion. Senza questi non potrei vivere, così come senza altri… boh, almeno trecento che non mi permetti di elencare. Ancora una domanda di rito: la cosa più bella che stai ascoltando in questo momento. Cattive abitudini, il ritorno dei Massimo Volume: è come una droga. Osvaldo Piliego

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RAGE AGAINST THE MACHINE Il castello dello zio Tom

a cura di Federico Guglielmi 10


Per un giornalista, le interviste costituiscono importanti momenti di confronto e di verifica. D’accordo, spesso si riducono a scambi di ovvietà, ma avendo di fronte interlocutori con qualcosa da dire (e con la voglia di farlo) e preparando domande adeguate, è facile raccogliere belle soddisfazioni. Fra le centinaia di chiacchierate del mio archivio ho scelto questa con Tom Morello dei Rage Against The Machine, pubblicata su Rumore nel 1999: erano i giorni del terzo album della band californiana The Battle Of Los Angeles.

Un sorridente Tom Morello esce con passo svelto dall’ascensore che lo ha condotto all’ultimo piano dell’Hotel Hilton di Roma. “Sono andato a visitare la Basilica di S. Pietro”, mi dice stringendomi cordialmente la mano e scusandosi per il leggero ritardo, “visto che qualche anno fa non mi avevano fatto entrare perché indossavo pantaloni corti”. La suite nella quale ci siamo nel frattempo accomodati è esageratamente grande e lussuosa, ma non mi pare opportuno inaugurare l’intervista con la domanda forse più logica: se non sia un po’ un controsenso, cioè, che la mente di uno dei gruppi rock più “schierati” del pianeta alloggi in un albergo così da ricchi e in un mini-appartamento che potrebbe tranquillamente ospitare tre famiglie. “Meglio partire dal nuovo album”, rifletto tra me e me estraendo dalla borsa il registratore, “e rimandare a dopo eventuali domande polemiche”. “È meglio che cominci dal nuovo album”, sembrano dirmi gli occhi furbi di Tom, “so bene cosa pensi e non hai nessuna possibilità di fregarmi”. L’atmosfera, comunque, è rilassata, anche se il mio interlocutore - per fortuna senza che ciò vada a scapito della comprensibilità delle sue risposte - parla veloce come se avesse inghiottito una confezione maxi di eccitanti. Dalle cinque canzoni ascoltate in anteprima mi sembra che il nuovo album, pur rimanendo legato alla vostra abituale formula, presenti qualche innovazione nei suoni e nell’uso delle chitarre. È un’impressione corretta? L’idea di base era sostanzialmente quella di realizzare il disco “definitivo” dei RATM, senza snaturare il nostro stile ma cercando anche di compiere qualche passo in avanti: non c’è stata premeditazione, ma solo un naturale processo di crescita che, per esempio, ha portato Timmy a Brad a diversificare maggiormente le loro parti di basso e batteria. Per quanto mi riguarda, il fatto di aver composto in studio di registrazione mi ha permesso di sfruttare fin dall’inizio un’ampia scelta di effetti e quindi di migliora-

re le possibilità espressive e inventive del mio strumento. Le chitarre dei RATM sono mai state così dure ed estreme e nello stesso tempo così vicine alle tradizioni rock: se ci fai caso, molti riff hanno un feeling da tardi anni ‘60, tipo Jimi Hendrix o MC5… Le tastiere e l’elettronica sono ancora banditi, vero? Sì, in questo continuiamo a essere controtendenza: non è sciocca testardaggine, ma solo ferma convinzione che le opportunità sonore offerte dall’amalgama di chitarra, basso, batteria e voce non sono ancora state del tutto sperimentate. Noi non ci sentiamo affatto limitati, e per andare avanti preferiamo affidarci alla nostra immaginazione e alla nostra creatività invece di entrare in un negozio e comprare un sequencer o qualsiasi altro marchingegno. Dietro la consolle c’è sempre Brendan O’Brien? Questa volta Brendan si è occupato non solo della produzione ma anche del mixaggio: volevamo che tutte le fasi di realizzazione del disco fossero seguite da un’unica persona, e Brendan è eccezionale sia nella fase elaborativa che in quella strettamente tecnica. So che dirlo è una banalità, ma siamo tutti concordi nel ritenere The Battle Of Los Angeles il miglior album dei RATM, specie sotto il profilo della potenza. A mio parere, sarà difficile riuscire a eguagliare la bellezza e l’importanza dell’esordio. RATM ha indubbiamente avuto un enorme impatto e i suoi picchi sono forse inarrivabili, ma credo davvero che con questo lavoro ci siamo superati: dall’inizio alla fine non ha un solo attimo di cedimento, e l’esserci spinti in più direzioni ha conferito all’insieme grande freschezza e grande senso di eccitazione. In che modo il vostro clamoroso successo ha modificato la tua vita e il tuo approccio al quotidiano? Beh, dal punto di vista pratico ha senza dubbio cambiato parecchio, se conti che quando mi sono trasferito a Los Angeles avevo sì e no mille dollari in tasca e nessuna garanzia sul futuro: adesso ho una casa e i soldi per fare il pieno di benzina alla mia macchina, ma frequento gli stessi amici di sempre… penso che, tra quelle che hanno venduto milioni di dischi, i Rage Against The Machine siano la band meno supponente che esista. La differenza sostanziale tra il “prima” e il “dopo” riguarda però il nostro ruolo di attivisti PENNE ALLA ROCK&ROLL

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politici: la notorietà ci ha posto su una specie di pulpito, e dunque possiamo diffondere le nostre idee su una scala di gran lunga più vasta di quanto avremmo mai immaginato di fare. Il parlare di concetti pesanti a così tanta gente è una grande responsabilità. Non siete mai un po’ spaventati delle possibili conseguenze delle vostre dichiarazioni? No, assolutamente: i RATM mirano a propagandare argomenti-chiave come la solidarietà e la necessità di lottare per l’affermazione dei propri giusti diritti, e non a raccontare storie pur piacevoli di ragazze ed automobili. Uno dei nostri intenti è proprio colpire le persone per rafforzare la loro sensibilità a certi valori: non c’è da aver paura, anche se ovviamente bisogna stare attenti a ciò che si dice e a come lo si fa. È un bene che la nostra voce sia così forte da poter essere ascoltata da milioni di individui e che sia quindi in grado di denunciare più efficacemente le tantissime cazzate che di norma vengono spacciate per verità. Non credi che nei precedenti decenni i bersagli contro cui sparare fossero più facilmente identificabili? Oggi i confini tra “bene” e “male” e tra “giusto” e “sbagliato” appaiono forse molto meno netti di un tempo. Sì, sotto il cielo c’è notevole confusione, ma gli obiettivi da colpire sono in realtà più numerosi. Se è diventato difficile metterli a fuoco, la colpa è della manipolazione dell’opinione pubblica operata dai media: questo è un punto cruciale su cui si basano molte delle aberrazioni del mondo odierno, ed è nostro dovere sensibilizzare sul problema e offrire il nostro contributo per eliminarlo. È una domanda che avrai già sentito mille volte, ma te la rivolgo lo stesso: non è in qualche misura contraddittorio portare avanti una lotta contro il sistema e poi incidere per le multinazionali del disco che di questo sistema sono uno degli ingranaggi? Per ogni dollaro guadagnato dai RATM, almeno cinque vanno alla vostra etichetta. Sai una cosa buffa? Tali considerazioni ci vengono sottoposte solo dai giornalisti del settore musicale, mentre gli attivisti politici - da Leonard Peltier a Mumia Abu-Jamal, dal Subcomandante Marcos alla Anti-Nazi League - approvano pienamente la nostra strategia e il nostro operato. Sinceramente, non vedo contraddizioni: vedo solo che siamo stati capaci di diffondere per i quattro angoli del globo ben otto milioni 12 PENNE ALLA ROCK&ROLL

di dischi-manifesti di propaganda sovversiva e di raccogliere un milione di dollari per le cause che sosteniamo. Vuoi dire che non siete mai stati sfiorati dal dubbio che la strada da seguire non fosse quella delle multinazionali? No, all’inizio avevamo molte perplessità: soprattutto io, che ero reduce da un contratto grazie al quale la Geffen era riuscita ad imporre la sua visione artistica alla mia vecchia band, i Lockjaw. Però devo ammettere che il nostro conflitto interiore rispetto al legarsi ad una major non aveva nulla a che vedere con il fatto che l’etichetta fosse, appunto, major: la prima cosa che cercavamo era il totale controllo creativo su qualsiasi aspetto della nostra carriera. Magari adesso potreste fondare un vostro marchio. Sì, si può decidere di metter su un’etichetta, ma poi sarebbe inevitabile diventare uomini d’affari e ciò si rifletterebbe in negativo sull’attività di musicista. Tra le persone che conosco ci sono un mucchio di proprietari di label indipendenti, e quasi tutti odiano le loro aziende perché li hanno allontanati dalla musica e trasformati in businessmen. Alla fine, tra discografici major e indie non ci sono grandi diversità: la più rilevante è che questi ultimi, almeno di solito, hanno tagli di capelli più fighi… Da dove è derivato il tuo interesse per la politica? In America non puoi non essere in qualche modo segnato dal nascere nero: sono cresciuto in una città prevalentemente bianca, e ti assicuro che non è difficile sviluppare una coscienza politica quando hai occasione di vivere sulla tua pelle una cosa come il razzismo. Comunque i miei genitori si sono sempre impegnati in questo ambito, e andando avanti con gli studi ho voluto approfondire le mie conoscenze in materia. Ho addirittura lavorato per due anni nella segreteria di un senatore, e questo mi ha aiutato a capire dall’interno come funziona la macchina: gli Stati Uniti sono una “democrazia da libretto di assegni”, le mie mansioni consistevano nel telefonare ai ricchi per chieder loro denaro… Pensi che gli Stati Uniti stiano andando sempre più a rotoli? Dipende dai punti di vista: non c’è una sola America, per i ricchi le cose stanno andando sempre meglio. Il gap tra ricchi e poveri sta crescendo: tra le nazioni industrializzate, gli USA


sono quella con il più alto numero di miliardari e contemporaneamente la maggior quantità di gente che patisce la fame, la maggior quantità di case e il maggior numero di senza tetto. I Rage Against The Machine parlano per l’altra America, quella dei non rappresentati. La famosa libertà di scelta esiste solo nel senso che i ricchi possono scegliere tra Mercedes e Lamborghini, e i poveri in quale scatolone di cartone trascorrere la notte. Tua madre è bianca, ma dai tuoi discorsi mi sembra che tu ti senta al 100% nero. Nonostante sia cresciuto in una società bianca mi sono sempre ritenuto un nero, e solo verso i vent’anni ho realizzato appieno il fatto di essere per metà bianco. Però sono rimasto nero come mi sentivo da ragazzino: sai, in America non ha importanza se nella tua famiglia solo il tuo bis-bis-bisnonno aveva la pelle scura, per i tuoi coetanei sarai sempre un negro. Nei Rage Against The Machine la musica conta più o meno della politica? I due aspetti sono strettamente collegati: se non fosse per la musica il nostro messaggio non sarebbe così ascoltato, ma senza la spinta del messaggio le nostre canzoni non sarebbero suonate con lo stesso trasporto. Una diversità, comunque, esiste: tutti noi della band ci troviamo d’accordo, con minime e occasionali eccezioni, sulle faccende politiche, mentre sulla musica abbiamo gusti assai differenti. Finché si tratta di decidere se partecipare o no a un concerto di beneficenza non ci sono problemi, ma quando si deve decidere quali tre accordi usare in un pezzo, sono dolori. I RATM hanno anche un volto ludico? Siamo un gruppo rock più o meno normale, ridiamo e ci divertiamo anche nello studio di registrazione… Persino la nostra musica non è priva di sense of humour: magari non nelle liriche, ma senz’altro nella mia ricerca di parti di chitarra che divertano o che catturino l’attenzione dell’ascoltatore. Probabilmente l’unico momento in cui siamo davvero seri è quando discutiamo a proposito dei pezzi. Un tempo il rock’n’roll era spesso una cosa da disadattati e perdenti, se non addirittura da ignoranti. Credi che esso abbia ricavato qualche beneficio dalla generale crescita culturale dei musicisti? Non saprei, ma la mia esperienza mi dice che grande r’n’r e cultura vanno d’accordo di rado.

Quasi tutti i miei gruppi preferiti di tutti i tempi erano composti da gente per lo più ottusa… non penso che comporre testi intelligenti e ricchi di spessore culturale sia davvero necessario per fare del buon rock’n’roll, anche se tali elementi possono certo rendere la proposta più interessante. I RATM si sentono in qualche modo parte della gloriosa tradizione combat che si avvia con gli MC5 e arriva ai Public Enemy passando per i Clash? Sì, senza dubbio, anche se non pensiamo che il nostro ruolo nella storia del rock sia stato determinante come il loro. Per noi essere accostati a queste band è un grande complimento, e ci sentiamo orgogliosi di proseguire il loro discorso militante. Però i RATM hanno anche dato il “la” a una scena della quale altri - Korn e Limp Bizkit, per esempio - hanno mostrato altre sfaccettature. Anche se noi, per quanto riguarda i contenuti dei brani, ci muoviamo su piani diversi da loro, apprezzo moltissimo il lavoro musicale portato avanti da queste due band: they rock!, e lo fanno sul serio. Mi piace il fatto che non si scusino del loro desiderio di suonare rock: all’epoca del grunge c’era questa sorta di senso di colpa per il successo ottenuto e per il proprio background hard, e questo sfociava in una bizzarra ricerca di una “credibilità indipendente” che strideva un po’ con le vendite di milioni di dischi. La maggior parte dei gruppi di oggi non vive questo genere di conflitti e sfoga soprattutto dal vivo la propria voglia di suonare, senza aver paura dei riff poderosi e del fare spettacolo… Qual è la cosa migliore dell’essere nei RATM? Non saprei stilare una classifica, ma una delle più belle è senz’altro che grazie alla band la musica è diventata il mio lavoro. Mi credi se ti dico che non ci avrei mai sperato? “Ti credo, ti credo”, gli rispondo, ringraziandolo per la lunga e illuminante chiacchierata. Nei sedici passi che separano il divano dalla porta d’ingresso della stanza ripenso all’albergo non proprio da rivoluzionari, ma mi astengo da commenti: fa parte del gioco, e in fondo la Sony non avrebbe certo destinato a fini nobili la cifra risparmiata nel caso Tom avesse chiesto di essere ospitato in una capanna invece che in un castello. Federico Guglielmi PENNE ALLA ROCK&ROLL

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ROBERT WYATT “Io faccio solo degli esperimenti”

a cura di Pierfrancesco Pacoda 14


Quest’intervista a Rober Wyatt è stata realizzata a Londra, nella sua casa di Twickenham nell’estate 1980, come omaggio a uno dei musicisti che più hanno influenzato il pop contemporaneo e la new wave, che io esploravo durante quel soggiorno inglese. Certo, non pensavo avrebbe fatto parte di un libro.

Robert, come mai dopo un periodo di silenzio così lungo, hai deciso di ritornare a incidere un disco, e perché lo hai realizzato per Rough Trade, un’etichetta indipendente che si sta distinguendo essenzialmente per il materiale new wave del suo catalogo? Il motivo principale è che sentivo l’esigenza di lavorare, non si può stare sempre seduti a pensare. Ho scelto di incidere per Rough Trade perché non sono per nulla interessato alla politica culturale delle grosse case discografiche, la Virgin ormai si avvia a diventare la Cbs americana, e, sinceramente, i vantaggi che poteva offrirmi non mi allettavano. I responsabili di quella label mi ripetevano di poter contare su un’ottima distribuzione, ma vendere dei dischi in Giappone non è la mia massima aspirazione, in questa momento. Rough Trade, almeno, non fa del colonialismo culturale. Quali sono stati i motivi che ti hanno indotto a interrompere la tua attività per un lasso di tempo così lungo? Se devo essere onesto non sono stato mai felice di fare il musicista, suonare, per me, non è stato mai naturale, e ancora adesso non lo è completamente. Sono diventato un musicista perché non c’era veramente null’altro che potessi fare, i risultati a scuola erano pessimi, ho cambiato tantissimi lavori, il cameriere, il modello in un istituto d’arte, ma era molto più facile e più divertente fare il musicista rock. Se non hai molti soldi il rock’n’roll è una maniera fantastica di invecchiare senza grossi problemi, potrà sembrarti semplicistico, ma è questo che mi ha spinto a tornare all’attività discografica. Quali ritieni siano le più interessanti differenze tra la scena musicale psichedelica, di cui facevi parte quando suonavi con i Soft Machine, e la situazione attuale? Non penso che, in fondo, ci siano stati dei cambiamenti radicali, allora come adesso il musicista rock non è per nulla pericoloso, ma anzi corrisponde in tutto e per tutto all’immagine dell’eroe romantico totalmente integrato. Quando nel 1976 il punk scosse l’apatia totale che sembrava aver avvolto il rock, ti

sei sentito coinvolto dalla cosa? La mia prima reazione è stata di nostalgia, vedevo un’altra generazione credere di poter cambiare il mondo con la musica, sperare che l’establishment britannico potesse essere scosso dal punk ma Jonnhy Rotten era un’altra figura di eroe romantico, un bravo ragazzo buono per le pagine dei giornali, ma null’altro. Tu, adesso, ritieni di essere parte del movimento new wave? Non lo so, certo apprezzo moltissimo gruppi new wave, come le Raincoats, ma mi sento molto più vicino a musicisti come Dudu Pukwana o Mongezi Feza, african dance music di qualche anno fa. E la tua scelta di incidere una versione di At Last I’m Free degli Chic? Adesso va di moda dire che la musica degli Chic è pessima, è disco music, non fa pensare, senza accorgersi che così si rinchiude in delle definizioni una materia che, per sua stessa natura, le rifugge. Non parliamo poi di chi accusa la disco di essere fascista, è solo dance music, il suo scopo si ferma lì. E la tua versione di Caimanera? Qui il discorso è un po’ diverso, attualmente sono interessato a ristabilire un eventuale collegamento tra la folk music e la rock music, è un argomento sul quale si è fatta molta confusione ancora adesso mi è difficile comprendere fino in fondo quali possano essere le connessioni tra questi due tipi di musica. Ascoltando alcuni gruppi della nuova ondata, Scritti Politti in particolare, il primo riferimento musicale che mi è venuto in mente è stata la scuola di Canterbury… Per quel che riguarda gli Scritti Politti, ed anche altre band, probabilmente l’influenza maggiore viene dai musicisti reggae. Insomma, così come la mia generazione non è riuscita a sottrarsi al fascino dei rifugiati sudafricani che suonavano qui (come Feza), adesso bisogna confrontarsi con la cultura giamaicana, senza scordare che un batterista rock difficilmente può competere con un suo collega giamaicano. Il punk era una musica nichilista, amava scagliarsi contro tutto e tutti. Tu ritieni che la musica, invece, debba avere degli obiettivi precisi? Se parli di obiettivi politici, non credo sia possibile, io sto solo facendo degli esperimenti che ritengo estremamente interessanti, realizzando PENNE ALLA ROCK&ROLL

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i remake di cui dicevamo prima, di certo non voglio essere accusato di esotismo, di accostamento di stampo colonialista a culture musicali che non sono le mie. Si parlava precedentemente delle influenze palesi che certa new wave, la più innovativa, in definitiva, ha ricevuto da situazioni musicali ormai lontane un po’ di anni. Allora di veramente nuovo non c’è nulla. Non è per nulla vero! Ci sono state delle innovazioni di carattere tecnico, ad esempio nella registrazione dei dischi di Public Image, e poi è mutato lo stile, il modo di porsi nei confronti della materia musicale. C’è molta meno riverenza adesso, più velocità, e poi ci si è scrollati di dosso la deleteria influenza della tradizione accademica, che invece è stata una costante della mia generazione. Vedi ancora la gente con cui suonavi all’epoca di Canterbury? Sono ancora amico di Dave Stewart e Pip Pyle (morto nel 2006, ndr), ma non ho più molti contatti con tutta quella gente, né ricordo con molto piacere quel periodo, francamente non è un bel posto Canterbury, soprattutto per viverci. Ma come è stato possibile che in una città di provincia del genere, esplodesse tutto quel fervore musicale?

Guarda che la famigerata scena di Canterbury non è mai esistita fino a quando noi non ci siamo trasferiti a Londra, tutta la mitologia è nata da nostre discussioni a Londra. Finché son vissuto a Canterbury, quello che si faceva era ascoltare dischi di Ornette Coleman e Max Roach e della Tamla Motown. Non c’erano altre attività possibili, Canterbury è una chiesa più alcune banche, tutto qui. Poi c’era un gruppo di studenti che facevano gli anarchici e che suonavano, giusto perché non sapevano cos’altro fare. Io, Kevin Ayers, Daevid Allen, tutta gente proveniente da famiglie agiate, e che quindi poteva permettersi di non conformarsi al grigiore della città. Pensi che in termini di feeling sia possibile un paragone tra il periodo dei Soft Machine e quello attuale? Certamente! Io sono fermamente convinto che il motivo fondamentale del grande successo del punk sia nella nostalgia della pericolosità di un gruppo rock, naturalmente questa pericolosità è solo un’illusione, credo faccia piacere sentirsi in qualche modo partecipi di un atto che si immagina ai confini con il lecito. Per me è questa, poi, la ragione del mod revival e dei trionfi che una band come i jam, palesemente ispirata agli Who degli anni cattivi, sta ottenendo. Pierfrancesco Pacoda (intervista tratta dal volume New Wave. La scena post punk inglese 1978/1982, Nda Press)


MUSICA 80 La critica musicale e la vita

Dodici mesi che valgono una vita. Ha battuto il tempo di un anno esatto, e forse non poteva essere altrimenti, Musica 80, il magazine che, all’inizio di quel decennio, per soli dodici numeri, ha scritto le pagine più emozionanti della relazione tra suono e vita, tra rumore e quotidianità. Una rivista che, riletta oggi (ma praticamente impossibile da trovare), svela le trame ‘necessarie’ della trasformazione, allora in corso dei generi in linguaggi, degli stili in serrata narrazione. Questo è stata Musica 80, un team vertiginoso di giornalisti all’apice della libertà espressiva, molti provenienti da quelli altri straordinari gioielli della critica (critica?, racconto, forse, trama politica e visionaria, gioia e rivoluzione per citare gli Area) che erano stati Muzak e Gong. Qui, però, per la prima volta alle prese con un orizzonte che faceva presagire il futuro, quello nel quale il noise e la disco avrebbero convissuto, il punk avrebbe sposato il funk, la più rigorosa musica contemporanea, da glaciale e accademica, sarebbe diventata lovely, amorevole, come si chiamava una delle scene, la Lovely Music di Peter Gordon appunto, che Music 80 strappò allo sfondo per farle conquistare il ‘primo piano”. Qualche nome, allora, Roberto Gatti, Franco Bolelli, Riccardo Bertoncelli, Maurizio Torrealta, Gianni Emilio Simonetti, un “passato comune” che continua a essere, mese dopo mese “terra straniera”, territorio da esplorare dove, come amava scrivere Franco Bolelli, ‘Il deserto avanza e invade la metropoli’. Un continuo “esercizio di stile” che prova, per la prima volta a scardinare i canoni di una estetica che doveva necessariamente essere etica. Pagina dopo pagina. Time after time.

Se il mondo impazzisce per Patti Smith, ecco sulle ruvide pagine (carta povera ma di grande suggestione, per nulla patinata), di Musica 80, l’irruente arrivo di Lydia Lunch e della compagine della No Wave con il disco manifesto dallo tesso nome, che segna il ritorno “at the control” di Brian Eno, un album che, grazie ai reportage di Musica 80, ci porta nei bassifondi della città, dove la musica “negativa”, il rumore puro, la pornografia, l’eccesso cullato oltre il punk, generavano un gruppo di musicisti tra i quali spiccava il giovane Arto Lindsay (con i Dna), il genio maledetto del sax James Change (con i Contorsions) e lei Lydia Lunch della quale Bertoncelli scrisse che al confronto “la Smith Patrizia si fa piccina piccina”. Questo il vero segno riconoscibile di Musica ‘80, prenderci e portarci via, in quella “wild side” dove tutto accadeva. La no wave certo, ama anche le promesse mantenute della disco e dell’hip hop che si incontravano dalle parti del Bronx (un bellissimo reportage di Maurizio Torrealta) con l’apoteosi di Rapper’s Delight degli Sugarhill Gang con la loro oscenità dichiarata sulla base funk di Good Times degli Chic. E, naturalmente, i due episodi che hanno fatto degli albori degli anni ‘80, un momento significativo per comprendere tutti decenni successivi. Parlo della pubblicazione di Remain in Light dei Talking Heads’ e dell’uscita di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Un film che, come scrisse Franco Bolelli, “rappresenta il qui e l’altrove”. Con una piccola nota personale. Su Musica 80 c’è una mia traccia, una intervista ai Killing Joke. Pierfrancesco Pacoda

Pierfrancesco Pacoda (1959), critico musicale, saggista, scrive di stili di vita e culture giovanili su GQ, L'espresso, Il Resto del Carlino e altri giornali. Ha scritto, tra gli altri libri, Hip Hop Italiano (Einaudi), Potere alla parola e Sulle rotte del rave (Feltrinelli), Io, dj (insieme a Claudio Coccoluto, Einaudi), La rivolta dello stile (con Ted Polhemus, Alet), New Wave. La scena post punk inglese 1978/1982 (Nda Press). PENNE ALLA ROCK&ROLL

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LA CRITICA ROCK La critica rock italiana nasce sul finire degli anni ’60, quando era una realtà abbastanza consolidata in Inghilterra e negli Stati Uniti (fermo restando il vero e proprio giro di boa del Sgt. Pepper). Non ci fu il ritardo cui si pensa in genere, considerando che il primo saggio storico/critico, quello scritto da Lillian Roxon, risale alla fine del 1969. La palestra dei primi critici fu il settimanale Ciao 2001, sul quale comparve una pagina, “Underground”, curata da Enzo Caffarelli. Ed è su Ciao 2001 – nonché sulle copie di Melody Maker e di Rolling Stone acquistate in alcune edicole di Roma – che mi sono formato, soprattutto come semplice appassionato. Io però sono arrivato a scrivere recensioni e articoli in modo professionale soltanto nel 1980. Conservo ancora e guardo con grande tenerezza l’unico numero di Dark Star, che realizzai con alcuni amici nell’autunno del ’73, un tentativo di emulare Freak, il ciclostilato che Riccardo Bertoncelli scriveva in solitudine a Novara. Nel ’75 ci fu la radio – non la Rai, che mi appariva (ed era) irraggiungibile, ma quella libera in FM. Per almeno cinque anni ho lavorato nel microcosmo delle emittenti private, imparando il mestiere facendolo direttamente. Poi fui chiamato a Radio 3 da Pierluigi Tabasso – artefice e creatore, tra le tante cose da lui inventate, di Rai Stereonotte – e cominciai ad allargare il mio raggio d’azione. La scrittura è stata per molto tempo un’attività minore e parallela, coltivata con la medesima passione di autodidatta e insieme a colleghi cui sono sempre molto legato. Oggi ci sono scuole e seminari di giornalismo musicale, all’epoca c’era una professionalità non meno valida ma coltivata sul campo, parlando al microfono o scrivendo e una cosa ha influenzato l’altra. Ricordo che un funzionario di Radio 3 che stimavo molto, Pasquale Santoli, mi accusò di fare “informazione bruta”, poco analitica, poco meditata: si trattava – credo – di due modi differenti di intendere il linguaggio radiofonico. Questo per dire come io fossi legato a una pratica quotidiana; forse non avevo proprio il tempo di riflettere. Anche sulla scrittura… recensioni e interviste.

Una scrittura molto emotiva, poco meditata. Nonostante l’obiettivo principe mi fosse sempre ben chiaro: informare chi leggeva o ascoltava, far sapere delle scoperte che andavamo facendo in tempo reale. Tante cose le ho imparate dai miei compagni di avventura, oltre che dai colleghi già affermati come Giuseppe Videtti o Carlo Massarini. Studiavo, sì, ma in un modo non ortodosso. Credo che la mia scrittura sia sempre stata poco “immaginifica” e molto concreta. Il che non vuol dire che non mi emozionassi. Tutt’altro. La prima intervista – io amo soprattutto questo aspetto del mio lavoro – la feci a Peter Hammill, il carismatico leader dei Van Der Graaf Generator. Ne ho fatte tante, di interviste. Ho incontrato tanti dei miei eroi e se non avessi la manìa di farmi firmare foto e copertine di dischi, potrei pensare di aver sognato. Di aneddoti ne avrei tanti, ma io mi auguro che chi legge queste poche righe capisca che non sono io il protagonista del mio mestiere di cronista. Se non ci fossero i musicisti, io non esisterei. Un paio di esempi però li farò. Un mio collega e amico, Leonardo Rossi, mi chiese una volta se potevo sostituirlo per intervistare Antonio Banderas, che era a Roma per promuovere “Lègami”. Niente musica, per una volta. È una persona incredibile. Gentile, disponibile, affascinante. Ho il press book di Lègami autografato, ovviamente. E un ricordo bellissimo. L’intervista a Fabrizio De André che troverete su queste pagine è forse la più bella che io abbia fatto. Via fax, perché Fabrizio, che peraltro avevo incontrato anni prima, voleva essere sicuro che le sue parole fossero riportate fedelmente. L’ha scritta lui. Ha il suo modo inimitabile di parlare (e di scrivere). Ora, con la posta elettronica, questo metodo ricompare. Ed ecco Dylan LeBlanc, per cui ho cercato una traduzione fedele alla sua scrittura. Un giovane artista speciale. Un altro incontro da ricordare, sia pure mediato dalla tecnologia. Giancarlo Susanna

Giancarlo Susanna è critico musicale per periodici specializzati e quotidiani quali Mucchio Selvaggio, Rockerilla, Rockstar, Fare Musica e Audio Review. Ha pubblicato per Arcana editore libri su Neil Young, Jeff Buckley, R.E.M. e Coldplay e a 50 anni dalla morte di Fred Buscaglione, il libro Nientepopodimeno che. Ha condotto per molto anni programmi a Rai Radio 1 ed è “una delle voci storiche” di RAI Stereonotte. PENNE ALLA ROCK&ROLL

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STORMY WEATHER Le nuvole di Fabrizio De Andrè Questa intervista a Fabrizio è stata realizzata via fax nell’autunno del 1990,ed è stata pubblicata su “Music”, il mensile dello stesso gruppo editoriale di “Ciao 2001”, il settimanale musicale fondato a Roma nel 1969.

Il lungo silenzio tra Creuza de mä e Le nuvole ha creato una grande attesa tra tutti i tuoi estimatori. Come mai Le nuvole ha richiesto tanto tempo per essere completato? Ho avuto semplicemente altro da fare. Mi è capitata una serie inenarrabile di disgrazie che ho cercato di dimenticare in qualsiasi modo che non fosse quello di far canzoni. Perché per fare canzoni occorre riflettere ed ogni volta che riflettevo il dolore veniva a galla, si gonfiava come una torta nel forno. Mauro (Pagani) da parte sua aveva i suoi problemi. È solo due anni fa che ci siamo messi seriamente a pensare di lavorare ad un nuovo album.

a cura di Giancarlo Susanna

siete messi voi, a dire che Creuza era un capolavoro, a riempirci la giacca di medaglie fino a quando la gente prima si è incuriosita e poi ha cominciato ad apprezzare. Così le prime 45.000 copie sono diventate le oltre trecentomila di oggi. E questo ve lo dobbiamo, ma purtroppo, come ti dicevo prima, credo sia imparagonabile l’attenzione alla critica di sei anni fa con quella di oggi.

Quanto è importante per te il parere della critica? Purtroppo la critica sta diventando una faccenda sempre più privata tra noi e voi. Non vorrei che finisse per risolversi in una forma di corrispondenza, peraltro utilissima. La quasi totalità di coloro che dovrebbero essere ascoltatori è diventata una massa di videodipendenti: così si acquistano i dischi a seconda del numero e della frequenza con cui i venditori ambulanti riescono ad entrare nelle case attraverso la televisione per reclamizzare i loro prodotti.

Vorrei che mi spiegassi il riferimento alle Nuvole di Aristofane. Le Nuvole, per l’aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri, secondo lui, che insegnavano ai giovani a contestare; in particolare Aristofane ce l’aveva con i sofisti che indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti del governo conservatore dell’Atene di quei tempi. La Nuvola più pericolosa, sempre secondo Aristofane, era Socrate, che lui ha la sfacciataggine di mettere in mezzo ai sofisti. Ma a parte questo, e a parte il fatto che comunque Aristofane fu un grande artista e quindi inconsapevolmente un grande innovatore egli stesso, le mie Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Nella seconda parte dell’album, si muove il popolo, che quelle Nuvole subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta.

Ti aspettavi che Creuza de mä sarebbe stato accolto con tanto (giustificato) entusiasmo? Appena uscito, Creuza non sollevò nessun tipo di entusiasmo che non fosse quello di qualcuno di voi critici. La casa discografica non ci credeva, qualche rappresentante mi chiese se ero diventato matto ed in particolare il venditore della Liguria mi fece sapere, stizzosamente, che neppure a Genova c’era qualcuno che ci avesse capito un cazzo. Nel giro di un paio di mesi Creuza aveva venduto qualcosa come 45.000 copie, perfettamente corrispondenti alle previsioni mie e di Pagani. Poi vi ci

Nella busta interna del disco c’è una frase del corsaro Peter Bellamy (“... io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare”), mi piacerebbe sapere qualcosa di più di questo personaggio. Non se ne sa un gran che, a parte alcuni dati: 1) non ebbe mai nessuna “lettera di corsa” da parte di nessun sovrano dell’epoca: fu quindi un pirata e non un corsaro. 2) Non uccise mai nessuna delle sue vittime limitandosi a portar via loro le navi, e talvolta neppure quelle, ma sottoponendo PENNE ALLA ROCK&ROLL

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i proprietari e le loro ciurme a lunghe ed accorate prediche moralistiche del tipo “Voi non siete che dei pavidi conigli, lavorate per degli immondi sfruttatori davanti a cui strisciate facendovi imbottire il sedere di pedate” ecc. ecc. 3) Morì annegato nella seconda metà del ‘700 dopo aver costituito una sorta di Repubblica Libertaria in un isolotto del Medio Atlantico. 4) Rimbaud chiamò Bellamy il proprio panfilo con il quale, pare, si diede anche al commercio di schiavi, cosa che Bellamy si era guardato bene dal fare.

dell’album, Le nuvole, chiamai un’anziana signora di origine nuorese da vent’anni residente a Milano. Appena sistemata davanti al microfono e dopo alcune prove di voce, al momento della prima registrazione, si mise a parlare traducendo simultaneamente il testo italiano in sardo; addusse come giustificazione il fatto che quel testo le ricordava l’infanzia, quando sua nonna la prendeva in braccio e le raccontava “sas historias”: fu un momento molto emozionante per tutti anche perché il sardo suonava stupendamente.

Che difficoltà hai incontrato nell’usare (e nel cantare) il napoletano e il sardo? Il napoletano mi ronza nelle orecchie e nel cuore fin dai tempi del neorealismo cinematografico dell’immediato dopoguerra, dal teatro dei De Filippo, dalle poesie di Di Giacomo e dalle canzoni dei Murolo; se è vero che una delle doti dell’interprete è la capacità emulativa, e nel caso della canzone, l’orecchio, non ho proprio avuto nessun problema. Nel caso del gallurese, poi, il contatto con l’idioma è stato assolutamente diretto, senza neppure il filtro dello schermo cinematografico o televisivo o del supporto fonomeccanico. C’è comunque da dire che non sono nato e cresciuto né a Napoli né in Gallura, quindi un certo affaticamento fonetico espressivo lo si percepisce in entrambi i casi.

Come funziona, dopo tanto tempo, la collaborazione con Mauro Pagani? Più che una collaborazione ha rischiato di diventare una forma di simbiosi con tutti i rischi che comporta da un punto di vista lavorativo un rapporto di questo tipo. Così siamo andati vagando in barca in mezzo all’Egeo per quattro mesi senza scrivere né una nota né un verso: semplicemente raccontandoci i fatti nostri. Non so dirti se collaboreremo ancora ma posso dirti che sicuramente rimarremo amici.

Molti saranno sorpresi e incuriositi dalla parte vocale di Ottocento. C’è una voce differente da quella cui il pubblico è abituato. È un modo di cantare falsamente colto, un fare il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza enfatica di un personaggio che più che un uomo è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti, affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali dimostra un univoco atteggiamento mentale: la possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l’immaginario falso-romantico di un mostro incolto e arricchito. È vero che sei abbastanza severo ed esigente con le persone con cui lavori? Anche nell’ebanisteria esistono artigiani di grande valore, di valore medio e semplici falegnami. Quello che li distingue è l’attenzione e la cura che mettono nel proprio lavoro, dalla scelta dei materiali fino alla meticolosità con cui vengono assemblati. Io sono un meticoloso, e tale meticolosità pretendo dalla mia bottega. C’è qualche episodio avvenuto durante la registrazione del disco che ricordi volentieri? Per leggere una parte del testo del primo brano

Nel testo della Domenica delle salme citi il tuo “illustre cugino De Andrade”. Ci puoi dire qualcosa di Oswald De Andrade. Tra i molti poeti sudamericani che conosco, Oswald De Andrade è uno dei miei preferiti, probabilmente per quel suo atteggiamento comportamentale oltre che poetico totalmente libertario, per quel suo anticonformismo formale che lo fa essere qualcosa di più e di meno e comunque di diverso da un poeta in senso classico. E poi è dotato di un umorismo caustico difficilmente riscontrabile in altri poeti dei primi del Novecento. A proposito di poesia e letteratura, che libri stai leggendo in questo periodo? Sto aspettando che Jenning, dopo L’Azteco, Il viaggiatore e Nomadi, esca con il suo quarto romanzo. Nel frattempo possono bastare i quotidiani e proprio ultimamente, una rilettura del reportage di Pigafetta dal suo viaggio intorno al mondo con Magellano. È curioso come Pigafetta mescoli un encomiabile sforzo da rigoroso reporter a fantasticherie apocalittiche tipiche del suo tempo: così ogni tanto sulla spiaggia di una baia minuziosamente descritta compaiono strani uomini con la testa di cane. Ma l’aspetto più curioso e più tenero è dato dalla malcelata invidia che ogni tanto affiora nei confronti di quei popoli così liberi di fronte agli Europei che con i loro angoscianti pregiudizi già ai primi del Cinquecento avevano trovato modo di rovinarsi la vita. Giancarlo Susanna PENNE ALLA ROCK&ROLL

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MUSICA

DYLAN LEBLANC Soul deep

La prima cosa da dire, parlando di Dylan LeBlanc – classe 1990 - è che la sua capacità di evocare un mondo poetico molto personale e del tutto fuori dagli schemi può spiazzare chiunque. È vero che negli Stati Uniti è molto facile imparare a suonare uno strumento fin da piccoli, ma qui siamo di fronte a un disco d’esordio di assoluto rilievo. Nel suo caso la musica è soltanto una delle componenti di un modo di scrivere e cantare complesso e profondo. Paupers Field è senza dubbio il mio “disco dell’anno” e so di essere di parte (voglio esserlo), ma provate a cercare su You Tube il video di Emma Hartley, una canzone d’amore disperata che Dylan canta e suona da solo con la sua Gibson acustica. Impossibile non pensare alla copertina di Bryter Layter di Nick Drake: LeBlanc è seduto su uno sgabello al centro di un loft. La cinepresa accarezza il suo bel 24 MUSICA

volto, riprende l’arpeggio della mano destra ed è pura magia, quel qualcosa di inafferrabile e irripetibile che fa di lui - adesso, subito - un artista e un poeta da amare senza riserve. Nato a Shreveport, in Lousiana, Dylan è figlio di James LeBlanc, un musicista molto bravo e versatile nonché un autore di canzoni di grande esperienza arruolato dai famosi Muscle Shoals Studios. Dylan è cresciuto quindi in mezzo alla musica, la respira come l’aria. La presenza di suo padre in Paupers Field – al basso, alle tastiere - è importante quanto discreta. Proprio come quella di Emmylou Harris, la regina del country rock, in una sola canzone, The Creek Don’t Rise. Abbiamo cercato di saperne un po’ di più, senza turbare la timidezza di Dylan, che ancora ringraziamo per la sua cortesia di gentiluomo del Sud.


Ciao Dylan. È un grandissimo piacere poter parlare con te. Io amo il tuo album… è il numero 1 nella mia playlist del 2010. Ti faccio qualche domanda, allora. Ehi, grazie… è gentile da parte tua.. Ti aspettavi un’accoglienza così calda per Paupers Field? Hai ricevuto messaggi dai luoghi più disparati e hai toccato il cuore di tante persone. Non so mai cosa aspettarmi. Ma sono molto grato alle persone che hanno apprezzato questo album. E a quelli che sono stati così gentili da dire alcune buone parole a questo proposito. E anche a quelli che non hanno detto nulla. Hai cominciato a suonare e a scrivere canzoni seguendo l’esempio di tuo padre? Non c’è dubbio che io abbia imparato moltissimo da lui. Ma dal punto di vista della scrittura siamo molto diversi. Ho sempre avuto difficoltà a suonare per lui le mie canzoni, quando eravamo insieme. È un autore di canzoni incredibile ed è anche un critico sincero. Tendo ad essere più sensibile alle sue osservazioni che a quelle di chiunque altro. Così sono cresciuto facendo le mie cose in ogni loro aspetto, cercando di crescere nella musica e nella scrittura. Continuo a farlo ogni giorno che passa. Hai avuto la tua prima chitarra come regalo per il tuo undicesimo compleanno, vero? Chi ti ha insegnato a suonare? Tuo padre? Sì. Ma ho imparato anche da solo, ascoltando dischi di rock’n’roll e di blues. Ho cercato di apprendere i vari stili e non ci sono mai riuscito. Ma ci sto lavorando. Non riesco a suonare con la velocità di alcuni chitarristi con cui sono cresciuto, così ho cercato di inventarmi dei modi per fare delle cose semplici ma al tempo stesso belle. Hai prodotto da solo anche Paupers Field. Da solo non puoi fare nulla di dignitoso, ma ho fissato le idee di base intorno a questo disco. Onestamente non c’era una struttura precisa nel modo di registrarlo. Volevo mantenere la sensazione del live e dare a chi lo ascolta qualcosa di realistico. Ci sono un sacco di sbagli che amo, in questo disco, che non cambierei per niente al mondo. Piccoli meravigliosi incidenti. Cosa ci puoi dire dei musicisti che hanno suonato nel disco? Sono molto bravi. Hanno la tua età? Sono dei grandi musicisti, tutti. Penso che portino qualcosa di speciale alla tavola. Hanno quasi tutti dai 25 ai 30 anni. Mi piace suonare con persone

che hanno un’esperienza derivata dall’età e cerco di circondarmi di questo tipo di persone perché in questo modo imparo molte cose più rapidamente. E i tuoi punti di riferimento musicali? Ho letto di Townes Van Zandt, di Neil Young, dei Fleet Foxes… e di Spooner Oldham, che hai anche conosciuto. Ho incontrato Spooner la prima volta quando ero molto giovane. Non sapevo chi fosse e che persona e musicista speciale fosse. Soltanto quando sono diventato più grande ho capito che era un autore che aveva scritto della grande musica in passato e che lo fa ancora oggi. L’ho rivisto qualche volta e ci ho parlato un po’. Mi piace la sua personalità. Tu hai una voce bella e al tempo stesso fragile… è davvero “soul deep”, come ha scritto qualcuno. A me ha fatto pensare a quella di Gram Parsons. Immagino che tu lo conosca. Ho passato un po’ di tempo con Grievous Angel. Lo amo, ma non posso dire di aver davvero scavato in profondità nel repertorio di GP. Ho un enorme rispetto per la sua musica. Dovrei rivisitare alcune di queste cose. A questo punto diventa inevitabile chiederti di Emmylou Harris. Lei è tutto quello che puoi immaginare e anche di più. Ha talento, grazia, bellezza e molto altro ancora. È uno dei miei eroi. Pieces of the Sky è un disco che ho suonato a casa per tante notti. Insieme a tanti altri grandi album di Mrs. Emmylou. Come e quando hai incontrato Geoff Travis, il “grande capo” della Rough Trade? La prima volta che l’ho incontrato di persona è stata a gennaio, quando è venuto a Nashville a vedermi suonare. Mi sono subito reso conto che capiva la mia musica. A suo modo è veramente un artista in questo freddo e oscuro music business. Ho guardato negli occhi un altro uomo gentile e serio e ho capito che era la persona giusta. Sento che è molto onesto riguardo quello che gli piace e quello che non gli piace. Non ti terrebbe alla catena. Mi piace anche che permetta ai suoi artisti di essere se stessi e di crescere come individui. Stai per andare in tour? Da solo o con la tua band? A ottobre sarò in tour con Lissie, una cantante di grande talento e sono abbastanza emozionato. Sarò da solo con il mio pianista, ma a novembre/ dicembre verrò in Europa con il mio gruppo. Giancarlo Susanna MUSICA 25


NON VOGLIO CHE CLARA Il pop che ama citare Majakovskij Sono passati quattro anni dal loro ultimo acclamato lavoro. Acclamato da una critica che vede i Non Voglio Che Clara come la prosecuzione di una tradizione cantautorale che ha radici negli anni ’60 e che tendeva a scomparire. Fabio De Min e compagni hanno una visione complessa quanto approfondita della musica, tutto questo muovendosi comunque nei terreni del pop. Il 26 MUSICA

nuovo lavoro segna un passo ulteriore, un crescita dal punto di vista stilistico e compositivo. Dei cani è un disco importante, atteso, un disco che cita Majakovskij, che racconta l’amore, l’estate, la vita. Un disco che ci presenta anche un suono nuovo, più maturo, merito anche della produzione di Giulio Favero. Tra gli ospiti dell’album Port


Royal, Diana Tejera (cantautrice romana, già autrice per Tiziano Ferro), Mia Julia Schettini (voce della band romana Palomino Blitz). Dei Cani è un disco che suona come il passaggio all’età in cui le esperienze si metabolizzano, il momento in cui assaporare l’amaro in bocca, in cui l’amore finisce e da lontano sembra avere nuovi contorni. Cosa racconta? Il disco si basa in realtà su un corpus narrativo unico. Attraverso il racconto, frammentato e poi scomposto, di un delitto passionale ho cercato di mettere in relazione il protagonista con il pensiero comune, la moralità, la società che ci circonda e tutto il condizionamento che ne deriva. Per Dei Cani chiamate in causa Majakovski, quali rimandi letterari penetrano in modo più o meno evidente e consapevolmente nei vostri brani? Tutto quello che leggo potenzialmente può diventare un riferimento o influenzare il mio lavoro. Majakovski ha fornito una sorta di giustificazione ad un’idea che avevo in merito ai temi del disco. La figura del cane, oltre a riferirsi alla situazione di abbandono che si incontra ne L’estate, rispecchia il senso di sottomissione e impotenza che si avverte spesso di fronte alla società degli uomini. Una società che fa di ogni verità una menzogna e rende ogni valore un non-valore, per dirla alla Nietzsche. Da sempre la vostra musica è stata definita con un forte riferimento alle atmosfere orchestrali e cantautorali anni 60, in questo album il suono sembra prendere nuove direzioni pur non rinunciando a una radice “classica”. Cosa è successo in questi anni? Con Dei cani abbiamo cercato di realizzare un disco più immediato ed essenziale negli arrangiamenti, anche in considerazione della sua esecuzione dal vivo. È un disco concepito e realizzato in maniera diversa rispetto ai dischi precedenti ma pure frutto della stessa ricerca, che si sviluppa nella scelta di metodi compositivi differenti e che in passato ci aveva portato a prediligere orchestrazioni e arrangiamenti più articolati. Non si ha più paura di parlare di pop, non si nasconde l’amore dietro muri di chitarre e rigidità indie. Ci sono pianeti musicali un tempo lontani che oggi si sovrappongono. Merito di alcune etichette indipen-

denti che hanno investito sulla “canzone”? Del mercato che cambia? Delle band che si approcciano alla musica e ai testi in modo diverso? Ognuno a modo suo cerca di scrivere delle “canzoni”. Seguendo i propri modelli, un proprio percorso, magari facendo proprio un linguaggio. Poi alle etichette,alle definizioni ci pensa qualcun altro. E immancabilmente non ci trova d’accordo... Cosa ne pensi di questa nuova stagione della musica italiana (penso a gruppi come Baustelle, Amor Fou, Brunori Sas, Dente)? Non ho sentito tutti i rispettivi lavori quindi ho un po’ di difficoltà ad entrare nel merito della tua domanda. Mi permetto però una considerazione: in Italia abbiamo un problema di cifre, ovvero qualsiasi siano i termini di riscontro si parla sempre di numeri piuttosto bassi. Si rischia quindi che le cosiddette scene musicali nascano e muoiano sui blog e a volte ho la sensazione che l’entusiasmo di cui si legge attorno a nuovi fenomeni giovi più a chi scrive di musica che non agli artisti in sé. Nelle vostre canzoni conciliate fascinazioni straniere e tradizione italiana. Ci segnali due dischi (uno italiano e uno straniero) fondamentali per Non Voglio che Clara? Due dischi che rappresentino le fondamenta per Non voglio che Clara e che si possano sensatamente citare, e anche a dieci anni di distanza dai nostri primi passi… Ti dico In a priest driven ambulance dei Flaming fra gli stranieri e un cd fatto in casa con i brani migliori (il meglio per me ovviamente) di Sergio Endrigo per gli italiani. In questo disco avete molti ospiti a partire dalla produzione, ce ne parli? Abbiamo chiesto a Giulio Favero di intervenire, ad una certa fase dei lavori. Considerando la stima che nutro verso il suo lavoro ero certo che avrei condiviso le sue scelte a livello di produzione, e così è stato. Giulio ha avuto il merito, fra gli altri, di aver saputo cogliere alcuni lati nascosti di Dei cani e di averli messi in luce meglio di quanto avrei potuto fare da solo. Ogni collaborazione di questo disco ha comunque un significato umano e affettivo particolare, perché in fondo si è trattato di affidare a qualcun altro la custodia di un pezzo di se stessi. Osvaldo Piliego 27


ARIEL PINK’S HAUNTED GRAFFITI Before Today 4AD

WILDBIRDS & PEACEDRUMS Rivers Leaf

Ariel Pink, negli anni ’90, ha inciso tonnellate di cassette. In pochi, purtroppo, ricordano i suoi piccoli gioiellini lo-fi. Soltanto adesso si può storicizzare quella poetica eclettica e frammentaria per comprendere quanto abbia influenzato, o quantomeno anticipato, l’ondata di artisti che un decennio dopo avrebbe spolverato i registratori a cassetta. Non è un caso, dunque, che la “riscoperta” di Ariel sia opera proprio degli Animal Collective. Questo Before Today, a differenza dei dischi precedenti, è registrato in alta fedeltà sulla prestigiosa etichetta 4AD. Le coordinate sono sempre le stesse, ovvero tutte e nessuna. Canzoni che non temono di passare dal goth anni 80 al funky-soul anni 70, piuttosto che alla dance à la Prince, al flower-power e chi più ne ha più ne metta. Una vulcanica sensibilità pop, dunque, in linea con lo “stile frammentario” che è stato definito hypnagogicpop. Ora che le canzoni di Ariel hanno incontrato il filtro della produzione non possiamo fare altro che godere del risultato finale: un’uscita ricca di spunti geniali che, lungi dall’essere un mero collage di stili, evidenzia una scrittura assolutamente a fuoco, capace di navigare in tutti gli sconfinati territori della musica pop. (Tdo)

Arrivati al terzo capitolo in studio, la coppia formata da Mariam (Uccelli selvatici) e Andreas (Tamburi della pace) abbandona i tratti sperimentali e le asperità free-jazz dei precedenti lavori, per abbracciare una forma canzone che unisce minimalismo pop (quasi sempre solo percussioni e voce) e melodie orientali. Mancano i frenetici gorgheggi di Mariam in favore di atmosfere più dark e meditative. Al tavolo di missaggio troviamo il Valgeir Sigurdsson già collaboratore di Bjork, Mùm, Cocorosie e Bonnie Prince Billy. E in effetti proprio con Bjork (in particolare con Vespertine) e Cocorosie potremmo individuare alcuni punti di contatto. Le splendide Fight For Me, The Course e The Lake mostrano i nuovi sentieri da battere nel futuro prossimo, tanto ormai abbiamo capito che il duo svedese aggiorna la sua proposta musicale da un album all’altro, come solo i grandi riescono a fare. (Tdo)

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THE BOOKS The Way Out Temporary Residence

“Benvenuti ad un nuovo inizio, perché questa cassetta vi servirà come nuovo inizio. La musica su questa registrazione è stata creata appositamente per dare effetti piacevoli alla vostra mente, al corpo e alle

vostre emozioni…”. Così recita lo psichiatra (?) che ascoltiamo nel primo brano, campionato da qualche vecchio nastro come gran parte delle voci dell’album, assemblate con maestria e originalità per creare dei collage postmoderni. Gli innumerevoli campionamenti sono schegge impazzite e vengono accostati a parti suonate trascendendo la formula folktronica e secondo una destrutturazione della forma canzone intesa come accostamento di musica e voci con effetti in progressione. Nonostante le premesse “intellettuali”, però, la compattezza dei brani è disarmante. Ascoltiamo pezzi costruiti su frenetiche ritmiche dance, acide battute hip-hop, cavalcate inarrivabili, ballate in reverse, controcanti lisergici old-school, raga indiani, confessioni folk, suoni e rumori di ogni sorta. Che siano canzoni o costruzioni astratte, i brani sono compatti, coinvolgenti e pieni di sorprese. Senza dubbio questo The Way Out figurerà tra i migliori dischi dell’anno. (Tdo)

UOCHI TOCHI Cuore Amore Errore Disintegrazione La Tempesta

I Uochi Toki mi ricordano un po’ gli Offlaga Disco Pax. Due gruppi in cui la musica fa quasi da sottofondo allo tzunami di parole che travolge l’ascoltatore. Come nel precedente lavoro del duo milanese, che non a


caso si chiamava Libro Audio, ancora una volta la formula resta più o meno la stessa: hiphop, break-core, noise ed elettronica sperimentale (le basi di Rico) su cui poggiano i monologhi frenetici di Napo. I testi intelligenti e torrenziali copulano con tessiture musicali che fanno impallidire buona parte dei “nuovi rappers italiani”. Emozionanti e innovativi, i Uochi Toki sono semplicemente una delle migliori proposte musicali del Bel Paese. Peccato che si siano ritagliati una nicchia tutta loro, e che difficilmente sfonderanno a livello commerciale: basi troppo sperimentali per gli amanti del rap e testi troppo lunghi e rimati per gli amanti dell’avanguardia musicale. (Tdo)

INTERPOL Interpol Matador

SCUBA Triangulation Hotflush

Ascolti Triangulation e ti sembra di stare sott’acqua. Suoni minimali e textures ambient pian piano gonfiano l’atmosfera fino a creare una bolla d’aria. Le forme all’interno iniziano a muoversi diventando entità fuori controllo che rimbalzano, s’intrecciano, sfondano la bolla e si lanciano nell’oceano. I viaggi subacquei di Scuba amano la minimal, quella vera, in cui ogni singolo suono ti racconta un mondo infinito. E la sinuosità del dubstep condita con reminiscenze anni 90 (triphop in Before, jungle in So You Think…) ed estasi technoidi

Il nuovo attesissimo album degli Interpol, pionieri del revival new-wave, conferma il progressivo abbandono della psichedelia degli esordi in favore di una più pulita, seppur cupa, canzone pop. Ormai gli Interpol sembrano più i REM che i Joy Division. I brani del’album sono intensi, ma raramente si discostano dal formato canzone e presentano contribuisce a massaggiare la mente dell’ascoltatore inducendo una levitazione di sensi. In altri tempi avremmo detto techno-dub o electro-funk, ma siamo in continua evoluzione e Scuba è già pronto a passare oltre. (Tdo)

poche melodie appiccicose. Tra questi spiccano sicuramente l’apertura Success, il cantato scorbutico di Memory Serves e le due cavalcate Lights e Barricades. D’altronde la band accompagnerà gli U2 durante il tour americano: gli Interpol non potevano certamente immaginare un futuro più glorioso... o forse si? Tobia D’Onofrio

HAPPY SKELETON Coffee & Cigarette Club Seahorse Recordings

Dopo un incidente mortale a cui è sopravvissuto per miracolo, il pugliese Davide Delmonte incanala la sua creatività in MUSICA 29


un album di noise-rock oscuro e a tratti sperimentale. Visioni attraversate da schitarrate soniche galoppano a cavallo di un basso che “pompa” spesso oltremisura (32 Noir). When the Fish Was A Flower omaggia i Nirvana di Bleach. Talvolta si utilizza una drum machine, sempre nel’ambito di una forma canzone figlia dell’alternative-rock anni 90. Il fantasma di Cobain aleggia ancora in Cut This Vein e nei testi dell’intero album (“Sorry if I cry, sorry if I smile, sorry if I love”… piuttosto che “we are not dead, we are not there, we are the sun, we are the sun”). I Wish I Could Tell You è una ballata romantica, l’altra faccia di un lavoro intriso di atmosfere “plumbee”. Un artista da tenere sott’occhio. (Tdo)

ERYKAH BADU New Amerykah Part Two (Return Of The Ankh) Universal Motown

Pochissimi artisti stanno cercando di aggiornare il verbo soul, hip-hop e R’n’B. Erykah Badu è una di questi. Dopo l’enciclopedico lavoro New Amerykah Part One, ecco la seconda parte del suo viaggio alla scoperta della nu-black music. Congelando momentaneamente le involuzioni wonky e gli accenti sperimentali della Part One, la Badu predilige atmosfere più rilassate ed intimiste, ma con una freschezza di modi e una purezza d’intenti che incantano tanto quanto la 30 MUSICA

sua lucida visione della vita. I dieci minuti di Out My Mind, Just In Time sono un’improvvisazione ipnotica e delirante che ben rappresenta lo spirito della Badu. E dopo il tocco più convenzionale di Window Seat, il teatrino prog di Agitation e l’ispirato funky-soul di Turn Me Away, si chiude con Gone Baby Gone che è già un classico tormentone pop. Tobia D’Onofrio

NO-AGE Everything In Between Sub Pop

Pochi anni fa i due canadesi erano diventati i beniamini della critica, ancora imberbi e in piena botta adolescenziale, armati di un’ispirazione e di un gusto che li avevano assolti a principini dell’universo shoegaze e lo-fi (Katerpillar). Qui manca l’effetto sorpresa di un esordio fulminante (ormai declinato in tutte le salse dalla miriade di gruppi shitgaze che sono venuti dopo di loro). Il loro college-noise-pop fa sorridere quando emula i Dinosaur Jr (Depletion) e i Sonic Youth (Chem Trails), l’emo di Common Heat fa sbadigliare, ma il riff stonesiano di Skinned colpisce nel segno e la trance sciamanica di Dusted vale forse quanto l’intero disco. I due pargoli No-Age ritornano più rilassati, ma devo dire che li preferivo di gran lunga quando facevano più fracasso. (Tdo)

THOUSAND MILLIONS Rock days Tannen Records

Suonano “british” più che mai i nuovi giorni del rock dei Thousand Millions. Esce per l’etichetta Tannen Records Rock days il nuovo disco del sorprendente trio salentino. Immediato e piacevole, per capire le caratteristiche di questo secondo lavoro (uscito a due anni dal brillante esordio Here and Back Again), che tanto sa di conferma, è sufficiente ascoltare l’apertura affidata alla title-track. Tre minuti appena, all’insegna di un rock che fila dritto, essenziale e diretto, pulito e senza fronzoli, privo di lustrini e patinature. Impressione confermata, e rafforzata, da Song for satellites, Treason, Planet’s Headache, Alone again e, più o meno, da tutte le altre tracce di un lavoro con il quale il terzetto ha voluto recuperare l’attitudine punk-rock. Quella che emerge chiara dal suono di Rock days, ed evidenziata anche dalla durata dei brani, brevi e intensi. I tre “milionari” prendono così le distanze da quella che definiscono “l’estetica ormai stucchevole e spesso troppo ammiccante dell’universo indie”. Ciò che sorprende è la naturalezza delle dodici tracce, che si fanno ascoltare tutte d’un fiato, che suonano bene e sono ben suonate, ricche di spunti e riferimenti, vere e immediate, sia quelle di matrice più “powerpop” che quelle “alternative rock”, per citare due generi nei quali sono “eti-


chettati” i tre e il loro cd. E, in effetti, già al primo ascolto, è difficile non essere coinvolti da sorrisi e malumori, da melodie e sfuriate, da perle di dolcezza e dal loro retrogusto amaro. Un azzeccatissimo cocktail, un miscuglio di note e sensazioni che, come ispirazione, parte da lontano. Ma che arriva, e colpisce, assai forte. (da.qua)

ARCADE FIRE The Suburbs Merge

ANTONIO CASTRIGNANÒ Mara la fatìa Felmay

Il Salento contadino, quello dei canti e degli incanti, di faticose zappate e di momenti di festa, di poesia semplice ed essenziale, come la vita di allora, di una quotidianità dura e spesso amara, come il lavoro nei campi. “Se lo canta e se lo suona” proprio tutto il suo amore per “quella terra” Antonio Castrignanò, che di quella terra è “ambasciatore e servitore orgoglioso”. Lo definisce così Mauro Pagani nella presentazione di Mara la Fatìa, il nuovo disco di Castrignanò in uscita per Felmay (e distribuito anche in Francia e Germania). Il secondo lavoro (dopo la colonna sonora di Nuovomondo) del tamburellista e cantore salentino che racchiude “canti, cunti e migrazioni” di una terra che conosce bene, che ama da sempre, con il suo passato di fascino e contraddizioni, di suoni e poesia che Castrignanò rispetta e coltiva. Invitando a fare altrettanto. È così che le 11 tracce del cd, tanto i brani riproposti e riar-

Gli Arcade Fire negli anni 0 hanno rimescolano l’indierock sposando la melodia pop con eclettismo, intelligenza e atmosfere trascinanti. Hanno scritto canzoni che prendendo strade oblique mutavano di forma e intensità. In questo terzo album la materia sonora si fa meno insidiosa rispetto ai due vecchi lavori, ma si perde un po’ in ispirazione e rangiati quanto quelli originali, diventano solchi profondissimi sul percorso della sua memoria. Denominatore comune di queste sue storie sono il lavoro e la notte, chiamati quasi a rappresentare il tempo e lo spazio che intrecciandosi, aprono quegli scenari e spaccati di vita quotidiana, tanto cari al musicista, dai quali emergono sogni, amori, umori e speranze, ma anche fatiche di “gente abituata a cantare la terra”. (da.qua)

compattezza. Le “pop songs” sono composte con gusto e stile da invidiare, e inoltre crescono con i ripetuti ascolti. Se soltanto i canadesi non si fossero dilungati in ben sedici brani, forse avremmo evitato l’eccessiva durata e le conseguenti cadute di tono che non consentono al lavoro di decollare come un “classico”. Tobia D’Onofrio

THIS ORDER Inner island New model label

Il new metal ci ha un po’ distratti, ci ha disorientati, facendoci dimenticare del rock sanguigno di gruppi cardine come i Pearl Jam o i Tool. Monumenti di un suono che ha caratterizzato un decennio e che ancora vive e pulsa tra le corde di gruppi che da lì partono per scrivere nuova musica. (O.P.) MUSICA 31


Un’onda anomala che porta con sé cross over, grunge, stoner e che travolge tutto ciò che incontra, fa rotolare pietre e macigni… Il suono è granitico grazie alla produzione di Justin Shturtz (Fall Out Boy, My Chemical Romance, Seether e Slipknot) e ha sdoganato definitivamente l’italianissima band dandole una veste assolutamente internazionale. Antonietta Rosato

BRAINKILLER The Infiltration RareNoiseRecords

Avere la libertà e la capacità di esprimersi musicalmente in modo complesso e vario è un dono, un talento che appartiene a pochi musicisti. Gente che nell’infinita gamma di scelte possibili è guidata dalla misura, dal controllo. Quando ci si muove in ambiti jazz poi il pericolo di lasciarsi prendere la mano è dietro l’angolo. Si rischia di cadere nel manierismo strumentale senza avere niente da dire. Nel caso di questo lavoro dei Brainkiller il pericolo è superato egregiamente. Il segreto è nella poliedricità musicale del terzetto capace di plasmare materia musicale viva, trascinante senza mai perdere di vista la misura. E se di jazz si può parlare per la forma, molto e molto altro si può trovare negli angoli di ogni piccola perla di modernità che quest’album ci regala. Osvaldo Piliego

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DILATAZIONE The Importance Of Maracas in the Modern age Acid Cobra

Math rock e kraut rock, disco music del prossimo millennio e voglia di non prendersi troppo sul serio pur suonando seriamente. sono tutti elementi di questo The importance of maracas in the modern age. Un titolo che è tutto un programma ma che è anche un indizio per esplorare il disco, un disco fatto di variazioni progressive e apparentemente minime capaci di innestare nello stesso brano rimandi a culture musicali apparentemente agli antipodi. E invece tutto si regge ammiccando con spericolatezza musicale ora alla musica colta ora alle colonne sonore italiane anni ’70 per poi macinare roboticherie anni ’80. Più che canzoni le loro sono diaboliche evasioni. Dario Goffredo

PHINX Login Irma Records

Giovani elettrorocker crescono. Dai banchi di scuola ai sinth, una matrice rock che sposa senza farsi problemi l’elettronica da dancefloor. Vorrebbero essere i Soulvax ma di strada (e il tempo ce l’hanno) ne devono ancora fare. Potrebbero, per qualche verso, essere i cuginetti dei Motel Connection o dei Planet funk ma sono giovanissimi e più freschi e per questo evidentemente più vulnerabili.

Il progetto è vestito ad hoc per approdare in classifica e su Mtv, uno scenario musicale che guarda molto alla forma. Le carte in regola per conquistare un certo pubblico le hanno tutte, potrebbero passare con una stagione o magari “crescere”. Antonietta Rosato

JACKEYED The Sleeper’s Sunday Grid Atracoustic

Prende il nome da una canzone di Micah P. Hinson, un ottimo punto di partenza per entrare nel mondo di Jackeyed, un personaggio che ama immergere la sua biografia in un alone fiabesco quasi a voler rafforzare il suo mood musicale fatto di ballate acustiche. Canzoni che richiamano alla mente il già citato Hinson, ma anche Elliot Smith e una serie di interpreti dal tessuto sonoro sottile e fragile. Un facile raffronto è con il conosciutissimo Damien Rice, ma c’è una scrittura a suo modo italiana nella mani di Federico Babbo. Una delle nuove voci dell’indie italiano che ci regala un album intenso. (O.P.)

GARDENYA Disegnando pareti Autoprodotto

I Gardenya sono pugliesi, fanno pop, due elementi che ultimamente portano bene. Ragazzi cresciuti all’ombra del grunge e folgorati, a un certo punto, dall’Inghilterra in classifica. Mitigare passione e appartenenza crea, delle volte, strane germinazioni. Proprio come questa Gardenya, fiore strano, che condensa anche troppe cose in una forma canzone per alcuni versi epica. E il disco cavalca con incedere imperioso attraverso canzoni sicuramente ispirate da un’interpretazione a tratti drammatica.


Con gruppi come questi c’è da distinguere la destinazione d’uso. A Sanremo potrebbero sortire l’effetto sorpresa, in altri contesti risultare un po’ caramellosi. (O.P.)

Antony and the Johnsons Swanlights Secretly Canadian

KINGS OF LEON Come around sundown Columbia

Questa band è l’erede dichiarata di dinosauri della portata degli U2 e non è un male. Sono dei bei ragazzotti di campagna, parenti, figli di pastori e questo fa piacere. Riescono a mantenere, nonostante i numeri sempre più esorbitanti di vendite, una genuinità southern che te li fa comunque percepire come i ragazzi della porta accanto, e la sincerità nel rock è quasi tutto. E poi c’è la musica. Le loro canzoni, sarà la gola al vetriolo di Anthony, sembrano fatte per essere cantate a squarciagola… roba da stadio per intenderci. Nonostante la virata pop degli ultimi episodi si sente ancora la forte vena rock sudista, un certo impeto springstiniano mitigato da dolcezze e piccole divagazioni indie. Osvaldo Piliego

SIR FRANKIE CRISP It’s five o’ clock Autoprodotto

Amare i Beatles è un processo di iniziazione alla musica, una sorta di battesimo che apre le porte alla conoscenza di tanto altro. Per alcuni il primo amore non si scorda mai, per altri è anche un punto di partenza per fare nuove esperienze. E i Beatles e in particolare George

È un disco vibrante il nuovo di Anthony, riverbero di un animo che diventa musica quasi ne avesse bisogno, come un passaggio doloroso che produce bellezze inedite, altezze difficili da immaginare. In questo episodio sceglie più corde che tasti producendo celestiali visioni, tra minimalismo, opera, go-

Harrison sono stati l’occasione in cui i Sir Frankie Crisp si sono incontrati. Prima di tutto una band tributo capace di girare il mondo omaggiando il repertorio di uno dei Fab four. Poi con l’amicizia e l’affiatamento nasce sempre qualcosa di buono. Ed è qui che arriva questo It’s five o’clock, sette brani originali che partono dai Beatles e intraprendono percorsi nuovi alla luce del tempo trascorso e delle sensibilità musicali di tutta la band. È infatti tutta la band a cimentarsi alla voce, proprio come i maestri insegnano, e unire uno stile vintage a escursioni più propriamente brit pop anni 90. Il risultato è accattivante, fresco e maturo allo stesso tempo. (O.P.)

spel, e si spinge verso drone psichedelici a cui Anthony si attorciglia per spingersi in salti. Come tutti i grandi artisti è nel sottrarre che Anthony raggiunge le sue vette, perché non ha bisogno di altro se non della sua voce che filtrata diventa strumento, bordone, materia viva. Antonietta Rosato

PIET MONDRIAN Misantropicana Urtovox

I Piet Mondrian sono crooner dei nostri giorni, una sorta di Adam Green che prende in prestito le basi degli Stereototal, cantautori dell’assurdo e allo stesso tempo del quotidiano, spietati e feroci e al contempo leggeri e non sense. Una coppia lui/lei che armeggia con poche cose, che si diverte a MUSICA 33


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citare i CCCP o il primo Battiato, a pescare nella new wave (sentite Apocalippo) come ad azzardare exploit chitarra batteria alla White Stripes. Il pastiche sonoro è voluto e riuscito, arte pop del citare senza soluzione di continuità, pop caustico, irritante, pornografico. Forse questo è amore suona clericale come qualcosa dei Baustelle ma senza spocchia, con semplicità e piccole deliziose trovate. Un disco che sulla carta dovrei odiare ma non riesco a smettere di ascoltarlo. Osvaldo Piliego

FATHER MURPHY No room for the weak Boring Machines

Forti delle critiche positive guadagnatesi con il disco precedente, il trio veneto continua il suo surreale viaggio musicale attraverso gli angoli più oscuri della mente umana, ulteriore conferma del loro straordinario momento di forma. Quello che ne viene fuori sono quattro brani strazianti e angoscianti nei quali il trio esterna il proprio pensiero, combinando tra loro sacro e profano e proferendo sul misticismo teologico, sull’espiazione tramite autoflagellazione e su di una difficile quanto faticosa redenzione, mostrando, però, un occhio di riguardo per le rifiniture e lo sviluppo dell’architettura sonora. Aprono con We now pray with two hands, we now pray with true anger, una preghiera psycho-noise dilatata nel tempo, tra chitarre inquiete, rintocchi di campane e l’alienante voce del Reverendo. La stessa cosa accade nell’episodio successivo, Until the path is no longer, mentre in You got worry è la voce di Chiara Lee ha dominare la scena con il Reverendo in secondo piano, fino all’intenso duetto finale. A chiudere, l’omaggio a Leonard Cohen con la loro drammatica, estraniante e straordinaria rivisitazione del brano, There is a war. Un lavoro superbo degno di

una delle band italiane più interessanti in circolazione. Alfonso Fanizza

BROKEN SOCIAL SCENE Forgiveness Rock Record City Slang

Si parte con World Sick all’insegna di un’appiccicosa psichedelica pop alla Flaming Lips. Si procede con una Chase Scene che sembra uscita dall’accademia di Saranno Famosi (ricordate Leroy e compagnia bella?); poi, tra frenesia ritmica e vocalizzi, si fa avanti l’immagine rifratta dei migliori Talking Heads. Texico Bitches gioca a mescolare ludici paradisi artificiali in odor di Cure e Pavement, mentre All to All ricopre di dilatazioni anni ’80 un etereo cantato femminile. Non basterebbero tre pagine per descrivere tutti i colori del disco, riflessi in alchimie sonore che occultano riferimenti e citazioni; vi basti sapere che l’ispirazione è sempre altissima e ogni brano, a modo suo, risulta perfettamente riuscito. La produzione del Tortoise-guru John McEntire definisce i volumi di un album che rappresenta la consacrazione, per questi meravigliosi menestrelli canadesi. Tobia D’Onofrio

LCD SOUNDSYSTEM This Is Happening DFA/EMI

Il caro James Murphy non ha bisogno di presentazioni e certamente questo nuovo album confermerà lo status del ragazzotto newyorkese, andando a riempire le piste da ballo di mezzo mondo. C’è da dire, però, che se otto anni fa questo sound indicava la strada da seguire per la dancetronica-pop del nuovo millennio, oggi la miscela sonora risulta sbiadita e addirittura in ritardo sui tempi. Punk-funk, new wave, house-pop, citazioni colte (David Bowie in Drunk Girls e All

I Want) e progressioni al silicio. Tutto perfettamente confezionato, ma assolutamente già sentito, persino monotono. È ora di cambiare registro, per il caro James, o si rischia di finire nel mercatino del modernariato più scadente. Tobia D’Onofrio

THE CORAL Butterfly house V2 Records

Ad ascoltare la voce del frontman Skelly, ci si può sentire in qualche modo fortunati di ritrovarsi per le mani un qualsiasi disco dei britannici Coral, ché anche in momenti meno ispirati della loro carriera (siamo al 6° LP), sono stati una spanna sopra gli altri. A ciò aggiungiamo che di solito una nuova uscita dopo il classico gratest heats (2007 per loro) suona un po’ strano, bizzarro, specie se gente poco spocchiosa come questi boyz afferma che è “il loro miglior disco di sempre”, non vi pare? La spiegazione è dietro l’angolo: Butterfly House (forse) è davvero il migliore LP dei Coral, sicuramente è già nella top 5 di molti, lo sarà anche a fine anno, specie per gli adepti del verbo “Byrds e Stone Roses su tutti, fratello”. In cabina di regia troviamo il fido John Lockie, conosciuto ai più come tra i primi a scoprire e produrre i Radiohead, che sembra aver colto (quasi) del tutto le intenzioni della band, a voler usare la nostalgia come fine ultimo e non come atteggiamento. Se dicono che l’opener More than a lover è venuta giù tra una birrozza e l’altra, allora mettetevi comodi oppure uscite a fare jogging e deliziatevi con Walking in the Winter e Two faces e 1000 Years. Potranno anche essere ripetitivi, un po’ come le loro copertine, ma i Coral sono e rimarranno uno dei gruppi più originali degli anni 2.0, capaci anche con una sola canzone di svoltarti la giornata. Scusate se è poco. Al Miglietta MUSICA 35


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AVANTI POP

Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub Eliza Doolittle - Pack up Nemmeno un’estate intera ha cambiato il corso della storia musicale contemporanea. A ottobre come a maggio c’è da parlare dell’ennesimo mezzo talento e mezzo marketing proveniente da Londra. Classe ‘88, etichetta pesantuccia (Parlophone), genere meticcio tra ska, pop e soul (da noi si sarebbe chiamata Nina Zilli), talento sufficiente per sparare un buon singolo (Pack up, per l’appunto), ma non certamente per tirare avanti per una vita intera ad altissimi livelli. Godiamocela senza pregiudizi, ma senza che ve ne innamoriate troppo. Jamiroquai - White knuckle ride Primo novembre 2010, torna Jamiroquai. Dopo cinque anni e un best of che suonava di resa, Jay Kay ci stupisce con il suo settimo lavoro di studio. Il resto è obiettivamente marginale: chi si aspettava un suo ritorno? Chi pensava potesse tornare con un singolo di buona fattura, che non aggiunge nulla al suo repertorio ma che proprio per questo è rassicurante per i molti che lo hanno amato? E invece, si riparte dal giorno di Ognissanti, con Rock dust light star, titolo ambizioso come Jamiro, che per fortuna ha deciso di rinviare la sua dipartita artistica. Statuto - Una città per cantare Rimanendo nella categoria “sorprese” e, anzi, spostandoci nella categoria “sbalorditivo”, salutiamo il nuovo singolo degli Statuto. Una scelta ruffiana, forse troppo, visto il trascorso della band di Torino, punto di riferimento per gli amanti dello ska, i cultori del mod

e molte tifoserie organizzate del nostro calcio, che hanno visto un baluardo artistico nella band di Oscar Giammarinaro. Riprendere questo storico brano, scritto da Francesco De Gregori per Ron (che collabora proprio per questo singolo), appare più come una riuscita operazione commerciale che come un sincero tributo alla musica italiana. Se vi va, però, andate oltre la superficie. Kings of Leon - Radioactive Una delle migliori band dei nostri tempi è tornata sulle scene. Da Franklin, Tennessee, i tre fratelli Collowill, ovvero i Kings of Leon. Assai regolari nella loro produzione, pubblicano un album ogni due anni. Se riusciranno a ripetere il successo di Only by the night (4 singoli e 6,2 milioni di copie), non faranno sentire mai la loro mancanza, come se incidessero in continuazione da anni. E le premesse in questo senso sono confortanti: Radioactive funziona alla meraviglia, anche se il video e il brano, per larghi tratti, sembrano qualcosa in più di una citazione dei The Killers. Fabri Fibra - Vip in trip Chi non conosce il ritornello di questa canzone? Su, non fate i timidi. Non lo diciamo a nessuno che avete ascoltato questo brano dall’inizio alla fine almeno una volta, che avete molto apprezzato la citazione di Rock the Casbah dei Clash nel video, che siete d’accordo con Fibra sui politici italiani quaquaperepè. Non vi confonderemo con quella gentaglia che lo ha portato in testa alle classifiche con Controcultura, che più che un album sembra il sottotitolo di ciò che di incredibile è successo. Come il tunnel del divertimento di Caparezza, Fabrizio Tarducci sta facendo cantare testi durissimi agli italiani che ne sorridono acriticamente. Dino Amenduni 37


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DAMMI UNA SPINTA Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse... Phil Selway – By some miracle Come si diventa giovani a 43 anni? Grazie a un qualche miracolo. È così che inizia la carriera da solista del batterista dei Radiohead, Phil Selway, che per tenere basse le aspettative ha subito evocato Ringo Starr come suo modello (poi i giornalisti si sono divertiti evocando anche Dave Grohl e Phil Collins, ma questa è un’altra storia). Il suo primo disco, Familial, ha ottenuto recensioni contrastate, ma se appartenete a quella nicchia nemmeno troppo ristretta di appassionati dei Radiohead a tal punto che dovete possedere qualunque cosa prodotta che a loro si richiama, siamo certi che vi divertirete. Come in una seconda giovinezza. Magnetic Man – I need air Possiamo spingerli a vita, ma loro in Italia non arriveranno mai. Sono Benga, Skream e Artwork, tre perfetti sconosciuti nel Belpaese, tre geni assoluti nella perfida Albione. Sono tre tra i più influenti produttori di dubstep che hanno inventato questa supersquadra che opera con tre portatili, uno che gestisce i campionamenti, uno coi bassi e l’altro con le percussioni. I loro set sono potentissimi anche dal punto di vista scenico: i Nostri si muovono nella penombra all’interno di un’installazione metallica. In Italia non arriveranno mai, ma se così non fosse, preparatevi a un pellegrinaggio laico. Katy B – On a mission I signori di cui sopra non si sono però distratti a giocare con i loro computer portatili. C’è tantissima roba che le periferie di Londra sfornano continuamente, figlia dell’intersezione tra rap, pop, grime e dubstep. Rinse.fm è la radio di riferimento, popolarissima come una delle sue regine, Katy B, prodotta proprio da Benga, giovanissi-

ma, con una voce al limite dell’insopportabile ma ideale per le basi su cui si muove. Così efficace che gli addetti ai lavori hanno dovuto inventarsi l’espressione “pop-step”. Lei, forse, in Italia ci arriva senza gli zii. Afrojack – Take over control (Adam F remix) Il fenomeno-dubstep è qualcosa in più di qualcosa di musicale. Non si spiega, altrimenti, la durata della moda nonostante il genere non offra, di per sé, eclatanti variazioni sul tema. Le innovazioni sono tutte in direzione pop, proprio perché questa musica sta diventando una cultura, un fenomeno di costume contemporaneo. Perché tutto questo preambolo? Perché anche Adam Freeland, tornato al suo nome di battaglia, quando faceva drum’n’bass durissima, si è adattato, remixando un pezzaccio dance e trasformandolo in una piccola perla. Antony – Thank you for your love Antony Hegarty è come un dolce buonissimo ma pieno di zucchero. È stucchevole se consumato con costanza, è squisito se mangiato una volta ogni tanto e in un momento di golosità. E proprio quando si iniziava ad avere voglia di qualcosa di buono, torna con i suoi Johnsons per il suo quarto album, Swanlights, la cui copertina non chiarisce le intenzioni sul tono delle sue composizioni, sempre in bilico tra amori disperati e delusioni ancora maggiori. Nella tracklist spicca lo scambio di favori con Bjork, che dopo averlo ospitato in Giamaica per le sessions del suo album, canta in Fletta ricomponendo una delle coppie più suggestive e al tempo stesso improbabili della musica mondiale. Dino Amenduni

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SALTO NELL’INDIE

VINA’S RECORDS Il viaggio continua. Questa volta arriviamo a Biella e incontriamo i ragazzi di Vina’s records. Studio di registrazione, etichetta discografica, agenzia di booking e ufficio stampa. Quando si dice: chi fa da sé fa per quattro. Abbiamo parlato con Davide Diomede. Quando e come nasce Vina records? Vina records è nata nel 2007, da poco pochissimo. In quel periodo, io e Francesco eravamo impegnati in ambiti musicali differenti, ciascuno lungo il proprio percorso, ma entrambi convinti 40 MUSICA

che fosse arrivato il momento di creare qualcosa di diverso, supportati dal fatto di avere intorno le persone e l’energia giuste per farlo. L’idea di una nostra etichetta ci ronzava in testa già da qualche anno, dai tempi in cui studiavamo da fonici a Milano; e di colpo ci siamo decisi. A Torino avevamo i locali da convertire in studio di registrazione e uffici, a Milano alcune conoscenze legali nell’ambito del diritto d’autore e, sparsi in giro per l’Italia, moltissime band e amici pronti a supportarci.


Perché? C’era bisogno di un’altra etichetta discografica? Domanda difficile. È un pò come quando in una strada dove ci sono già tanti bar ne apre uno nuovo e tutto il paese si stupisce? Forse sì, e forse no. Credo che per come abbiamo concepito fin dall’inizio il nostro rapporto nei confronti dei musicisti e dell’etichetta stessa, la nostra sia stata più un’esigenza artistica che economica (quest’ultima, allo stato attuale del sistema culturale italiano, è praticamente un miraggio lontano). Cercavamo un modo per unire insieme la nostra esperienza di musicisti, fonici e appassionati di musica; il fatto che l’aspetto economico non sia preponderante poi, ci ha sempre dato la possibilità di lavorare alle produzioni direttamente dal basso, insieme alle band, da quella posizione in cui la visione è poco contaminata dai budget e tutto è ancora ruvido e passionale. Che suono ha Vina records, cosa vi piace produrre? Nella selezione dei gruppi e delle produzioni cerchiamo di seguire istinto e nostro gusto, ovviamente. Questo ci ha portato (e ci porta continuamente) ad un suono eterogeneo, un crossover all’interno del catalogo stesso. Di base Io e Francesco proveniamo da una matrice sicuramente garage, nel senso attitudinale del termine. Ci piacciono le cose suonate in modo diretto, senza troppi fronzoli. Se una take non è convincente dal punto di vista tecnico ma ha cuore e appeal, la teniamo! Diciamo quindi che ciò che lega insieme tutte le produzioni e le band dell’etichetta è questo spirito, questa attitudine, sia che si tratti di folk cantautoriale oppure di garage beat come nel caso degli Helene’s mates. Ci parli brevemente delle vostre ultime uscite? In senso cronologico ci sono stati gli Inner vision per i quali ci siamo immaginati di ritagliare una nicchia amarcord del seattle sound anni novanta rivisitato in chiave attuale. E devo dire che il riscontro degli addetti ai lavori e del pubblico è stato al di sopra di ogni aspettativa. Recensioni e passaggi radiofonici molto incoraggianti e positivi. Poi è stata la volta dei NAIMA gruppo giovanissimo e talentuoso dell’asse Mestre-Torino che si muove su un suono più riconducibile se vogliamo a Deftones e Tool.

A maggio invece è uscito It’s easy to beat degli Helene’s mates, un frullatone in spirito garage di beat, punk e sixties la cui promozione è partita da poco ma che lascia presagire ottimi risultati. Attualmente, invece, stiamo lavorando su un progetto post-rock elettronico, i MUI, e sul secondo disco del cantautore italo greco Alessandro Castagneri. Come vi muovete nella jungle di proposte che affollano il mercato dell’indie? Come accennato prima, il nostro obbiettivo è quello di creare in primis un rapporto artistico con la band. Di rappresentare all’interno del gruppo l’elemento aggiunto, indispensabile come gli altri membri anche se poi non suona fisicamente sul palco con loro. Per questo abbiamo un nostro studio di registrazione dove non esistono orologi, timer (a parte quello del microonde) e costi orari quando si tratta di lavorare su di una nuova produzione. La nostra esperienza come tecnici del suono poi, ci aiuta a gestire direttamente l’intero processo di registrazione e mix vivendo la lavorazione del disco a stretto contatto con i musicisti e in un certo senso mantenendo sotto controllo (e in casa) i costi stessi. Da un anno circa abbiamo finalmente trovato un ufficio stampa in grado di rispettare gli accordi economici e commerciali (ti posso assicurare che ne esistono tantissimi che vendono aria fritta) che lavora le nostre uscite attraverso la carta stampata specializzata e le emittenti radiofoniche, organizzando show case, interviste e live promozionali. Per il 2011 le cose che bollono in pentola sono sicuramente la necessità di allargare la promozione a livello europeo e creare una booking agency in grado di supportare il nostro lavoro e quello dell’ufficio stampa. Quale futuro immaginate per la vostra creatura? Per Vina abbiamo in mente un futuro da femme fatale. Il fascino ce l’ha ma sappiamo che non basta. Bisogna aiutarla a crescere giorno per giorno in un mondo, quello musicale, in continuo mutamento e pieno di contraddizioni cercando di non farla cadere nei trabocchetti commerciali e nelle scelte di comodo. È difficile dire adesso cosa succederà, siamo ancora a testa bassa in mezzo alla mischia, cercando di trovare un rifugio dalla tempesta, per citare il vecchio Bob, e inventariare le ferite subite e i colpi andati a segno. Antonietta Rosato MUSICA 41


LIBRI

MICHAEL GREGORIO La nuova indagine del procuratore Hanno Stiffeniis Michael Gregorio, pseudonimo di Daniela De Gregorio e Michael G. Jacobs, è uno scrittore per metà inglese e per metà italiano e il suo stile è una perfetta miscela di queste due anime così diverse: quella del Bel Paese e quella della gelida Albione. Mike e Daniela sono due persone gentilissime, tra i pochi scrittori che amano stringere amicizia con i loro lettori, entrambi insegnanti e sposati da trent’anni, riescono a creare nei loro romanzi (celeberrimo il loro debutto Critica della ragion criminale che scomodava niente meno che Immanuel Kant in persona alle prese con efferati delitti con la scientificità e il distacco di un Gill Grissom ante litteram) intrecci mozzafiato e ambientazioni nerissime. Da quel primo romanzo Michael Gregorio è rimasto nella Prussia di inizio ottocento, dove tra la dominazione francese, la paura delle malattie, le prime spinte della scienza e la pressione del pietismo, religione quasi di Stato, si muove Hanno Stiffeniis, procuratore che, dopo aver indagato al fianco di Kant nel primo fortunato romanzo, si trova di nuovo suo malgrado coinvolto in una indagine complessa e pericolosa che metterà a repentaglio non solo la sua vita ma anche le sue certezze e la sua saldezza morale. Ambientato sulle rive del Baltico tra le raccoglitrici di ambra, principale fonte di ricchezza per la Prussia, ora nelle mani della Francia napoleonica, questo Luminosa tenebra è un romanzo dalle tinte scure dove la precisione dei riferimenti storici, la vividezza dei personaggi (anche i minori, che anzi in alcuni casi raggiungono tratti indimenticabili), le vicende che si dipanano in modo mai scontato confermano Michael Gregorio come uno scrittore decisamente da tenere d’occhio. In attesa di leggere il loro quarto romanzo, già uscito in America e Inghilterra, abbiamo raggiunto (telematicamente) Mike e Daniele che hanno accettato volentieri di ripondere alle nostre domande. 42 LIBRI

Nei vostri romanzi l’ambientazione storica è ben più che una “ambientazione”, una sorta di carta da parati che faccia da sfondo alla storia; e nel contempo il “noir” è ben più che un pretesto per raccontare un periodo storico. Insomma, credo che siate riusciti a raggiungere una fusione quasi perfetta tra romanzo storico e romanzo noir. Ma voi vi sentite più scrittori di romanzi noir o di romanzi storici? Sarebbe facile rispondere tutti e due, ma dobbiamo dire siamo partiti prima dalla storia. Dal personaggio del filosofo Immanuel Kant. Un Kant molto insolito, ma anche molto plausibile. E siccome a tutti e due noi piace il mistero, il giallo, il noir o in qualunque modo lo vogliamo chiamare quel genere letterario in cui c’è un morto o più morti e bisogna scoprire chi li ha ammazzati, abbiamo cominciato a scrivere di assassini avvenuti in quel periodo storico. L’uomo ha assassinato i propri simili in tutte le epoche, ma le motivazioni per cui lo fa sono legate ai diversi momenti storici. Come mai la vostra scelta è caduta sulla Prussia di inizio ‘800? E da dove vi è nata la curiosità per la raccolta dell’ambra sulle coste del Baltico? La scelta della Prussia, cioè, la Germania prima che diventasse Germania, è stata determinata, per il nostro primo libro Critica della Ragion Criminale dal fatto che Kant è nato ed è vissuto in quello scenario. Ma poi nei nostri libri successivi (è uscito ora in Inghilterra e negli Stati Uniti la quarta indagine di Hanno Stiffeniis) siamo rimasti in quel periodo e in quella zona, perché è uno dei momenti i cui il contrasto fra razionale ed irrazionale, comportamento morale e scelte emotive, intuizioni scientifiche e


nebbie delle superstizioni sono forse più forti. La Germania di quel momento era uno dei luoghi, non solo geografici, ma dello spirito, più “gotici” ed interessanti. Per quello che riguarda l’ambra, era una delle ricchezze che veniva raccolta sulla costa del mar Baltico. E, come dicevamo del periodo storico in cui i nostri racconti sono ambientati, l’ambra è un materiale incredibile con aspetti che vanno dal campo scientifico, a quello economico (era una fonte di ricchezza per la nazione) da quello spirituale a quello superstizioso. Un po’ come i diamanti oggi. O il petrolio. Solo che il petrolio è meno affascinante e misterioso nella sua composizione. Ambientazioni e personaggi realmente esistiti in Luminosa tenebra? Oh sì, eccome!! E proprio quelli che sembrano più “inventati”. Se si vuole, quelli più carichi di fantasia. Due su tutti: Jakob Philipp Spener, uno dei fondatori della religione Pietista che era la fede più diffusa in quel periodo. Un modo di sentire Dio come un giudice feroce che si nasconde dentro di noi. E Daniel Lorenz Salthenius un altro personaggio nato in Svezia, convertitosi al Pietismo ed arrivato a Konigsberg inseguito dalla fama di aver firmato un patto di sangue con il Demonio. E che succede nella coltissima Konigsberg nella cui università insegnavano fiori di menti illuminate? Le chiacchiere sulle pratiche demoniache di Salthenius riprendono con forza. Questo quando Kant era un giovane studente e si aggirava per le strade di quella stessa città. Come dicevamo prima, la Germania era un luogo dove l’altissima capacità di pensiero logico andava a braccetto con il satanico. Insomma la tradizione della magia del ’500 così forte in quel paese, rispunta fuori proprio nel periodo in cui Hanno Stiffeniis indaga su dei delitti feroci. Voi siete due persone estremamente gentili, fate un mestiere bello e interessante (entrambi insegnanti), siete sposati da 30 anni, vivete in uno dei luoghi più incantevoli d’Italia. Da dove spuntano dunque queste ambientazioni cupe e queste storie nerissime? Forse proprio dall’avere una specie di radar per il lato oscuro delle cose più normali. Insegnare è un mestiere interessante, ma spesso incappi in comportamenti che non decifri e non spieghi. Siamo sposati da 30 anni, ma c’è un momento, un attimo in cui la persona che ti sta vicino ti mostra un lato che tu non avevi mai visto. E anche in uno dei luoghi più incantevole di Italia, svolti l’angolo e ti trovi davanti ad un orrore che deturpa. Un’altra curiosità: perché avete deciso di adottare uno pseudonimo che riassumesse i vostri nomi invece di firmare semplicemente con i nomi reali? Un fatto tecnico: il nostro editore inglese riteneva, secondo noi a ragione, che due nomi distraggono e confondono il lettore. A parte il fatto che se vuoi

pubblicare più di un libro di quegli autori, temi che possano poi dividersi. Un nome solo dava più garanzia. Se divisione doveva esserci ce la saremmo vista fra noi due ed il vincitore si sarebbe firmato Michael Gregorio. Scherziamo. Ma questa è veramente la ragione. Abbiamo passato una mattina intera, anni fa prima della pubblicazione di Critica della ragion Criminale a decidere come ci saremmo chiamati. Ognuno dei due doveva perdere una parte del suo nome e mantenerne un’altra. Le variazioni erano molte, poi il nostro editore ha deciso per Michael Gregorio Come organizzate il lavoro? Riuscite a conciliare il lavoro e la vita familiare? Certo. Le discussioni, anche feroci, sono limitate al lavoro. Quando abbiamo finito di scrivere un capitolo ed è di soddisfazione di entrambi, anche se abbiamo strillato fino a quel momento, ci ritroviamo davanti ad un piatto di pasta ed un bicchiere di vino. Quali sono i maestri a cui vi ispirate? Tutti e due leggiamo molti thrillers e sarebbe difficile dire quali preferiamo fra gli autori. Ce ne sono tanti. Ma le influenze più profonde, secondo noi, arrivano dagli amori letterari giovanili. Charles Dickens per la parte inglese di Michael Gregorio. Franz Kafka per quella italiana. Com’è la situazione della narrativa di genere in Italia secondo voi? Dove sta andando il noir? In Italia l’interesse per il noir è molto recente e c’è una tendenza a farne più uno strumento di lettura politica e sociale piuttosto che una narrazione. E c’è anche una certa facilità a definire “giallo” o “noir” qualunque libro che abbia un morto o parli di violenza. Gli anglosassoni invece, forse perché hanno una tradizione più antica alle spalle, sono molto attenti ai meccanismi. Non basta un morto o anche molti morti, Vogliono anche le motivazioni dei personaggi, una trama che regga, espedienti ben oliati per tenere la tensione tirata fino alla fine. E quello che ci sorprende sempre della produzione letteraria gialla in Inghilterra è la varietà dei generi all’interno del genere. Praticamente infiniti. Voi avete organizzato un festival della letteratura noir a Spoleto. Come reagisce secondo voi il pubblico italiano a questo tipo di sollecitazioni? Reagisce molto bene e con grande interesse. Quello che avevamo fatto era iniziare proprio un discorso di confronto fra il modo di intendere il thriller in Inghilterra ed in Italia. Che era anche un modo di riflettere più in generale sulla violenza e sul male. Purtroppo sono stati i politici locali a prendere sottogamba la manifestazione. Non gli interessa tanto che una cosa sia fatta bene, ma solo dire che è stata fatta. Noi l’avevamo presa sul serio. Dario Goffredo LIBRI 43


ENRICO REMMERT

La parola è il mattoncino di ogni costruzione narrativa

Scrittore, giornalista free-lance, consulente marketing e comunicazione, autore di canzoni, sceneggiatore: il quarantaquattrenne torinese Enrico Remmert sorprende per la sua poliedricità. Dopo i romanzi Rossenotti (1997) e La ballata delle canaglie (2002), e la trilogia dedicata a Bacco, Tabacco e Venere, curata con Luca Ragagnin, ha da poco pubblicato, sempre per Marsilio, Strade bianche. Partiamo da te e dalla tua storia professionale piuttosto movimentata. È questa la ragione per cui trascorrono tanti anni tra l’uscita di un libro e l’altro? Da Rossenotti a Strade Bianche son passati 13 anni. Non credo di essere una mosca bianca. La maggior parte degli scrittori che conosco si destreggiano in molti altri ambiti per sopravvivere, esattamente come me. Quanto ai lunghi periodi tra un libro è l’altro, il fatto è semplice: vivo per scrivere ma non scrivo per vivere. Sono fondamentalmente contrario al romanzo ogni dodici mesi che trasforma molti miei colleghi, anche bravi, in funzionari della scrittura. Io scrivo solo se ho qualcosa che devo davvero raccontare e, quando capita, cerco di farlo in modo il più possibile personale, cercando una strada mia e uno stile mio, cercando di unire profondità e superficie, spessore e leggerezza. Ovvio che un approccio del genere non aiuta a essere prolifici... 44 LIBRI

Strade Bianche ha un ritmo incalzante. Un viaggio raccontato a tre voci sulle statali italiane, da Torino a Bari, dove i destini dei tre protagonisti si mescolano attraverso l’esplosione delle loro voci narranti. È giusto definirlo un road movie dell’anima? La definizione “un road movie dell’anima” arriva dalla scheda della casa editrice: a me non è che faccia impazzire, anche perché “anima” è una di quelle parole che il troppo uso ha svuotato. Però sicuramente è una road-story, ovvero una di quelle 6/7 storie archetipe della letteratura. Quando si parla di viaggio, tutti citano Kerouac o Chatwin, quasi dimenticando che si parte da lontanissimo: l’Odissea è il viaggio, ma lo è anche la Divina Commedia oppure Cappuccetto Rosso. Parliamo della scrittura. Nei tuoi romanzi c’è sempre un’ondata di parole che travolge e accompagna i protagonisti, che riempie i loro pensieri. Questo sembra essere la caratteristica principale dei tuoi libri: la parola come leva fondamentale della tua scrittura. Sei d’accordo su questa cosa? Non vedo come non potrei essere d’accordo. La parola è il mattoncino di qualunque costruzione narrativa, non ci sono alternative. In questo senso sono un perfezionista, riscrivo molto, cerco un risultato il più possibile nitido, pulito, ma anche musicale. In-


somma, un lavoraccio, ma per me è indispensabile. Il viaggio può avere molti significati, il viaggio come “ricerca” o “ritorno” è un tòpos letterario e culturale. In Strade bianche la strada da percorrere diventa per i protagonisti un occasione per cercarsi o smarrirsi. Mi piaceva esplorare quella sorta di latenza mentale che il viaggio provoca, il vedere le cose da una prospettiva diversa. Parlo del viaggio non come mero spostamento da qui a lì, ma come attraversamento di uno spazio, non necessariamente fisico. Insomma, il contrario di quella strana frenesia occidentale, per cui sembra che si viva solo per scappare via. Da qui nascono certe riflessioni, come quella di Vittorio quando dice: “Nella mia visione, le agenzie di viaggio sono luoghi di smistamento emotivo. E leggo in questa frenesia di viaggiare dei miei coetanei non curiosità per il mondo, ma un tentativo di esportare il proprio disagio: cambiare posto all’insoddisfazione mettendola in un altro scenario, chiedere tutto in una volta alla distanza quello che il tempo non potrebbe concedere se non a poco a poco”. I tre protagonisti attraversano l’Italia da nord a sud. Il viaggio si snoda da Torino a Bari. Il legame con la tua città Torino è fortissimo. C’è fermento, un grande recupero urbanistico, sociale, artistico. Leggi qualche similitudine con la Puglia di questi ultimi anni? Torino l’ho descritta molto nei miei due precedenti romanzi: Rossenotti e La Ballata delle canaglie. È una città che amo, un “luogo” in contrapposizione a certe città che sono dei “non-luoghi”. Abito in San Salvario, vicino a Piazza Madama Cristina, ed è un quartiere in cui mi sento a mio agio, dove i negozianti li conosci per nome e aleggia su tutto la dimensione del borgo. Non conosco quanto vorrei la Puglia, tranne i posti turistici ovviamente, il Gargano, il Salento sia a nord che a sud. Ho viaggiato molto in Puglia, è una regione che amo molto e infatti una delle scene principali del libro è ambientata nelle saline di Santa Margherita di Savoia, ma parlo anche di Manfredonia e di Barletta. Però lo ripeto: vorrei conoscerla molto più a fondo. Perciò non mi sento di dare giudizi: sicuramente Lecce mi è sembrata un bel posto dove vivere, ma lo dico come persona di passaggio. Tu lavori anche per il cinema, il teatro e la televisione. Come cambia, se cambia, il tuo modo di scrivere rispetto a ciascuno di essi? Totalmente. Il romanzo richiede energie non confrontabili con nient’altro ed è uno sforzo totalmente individuale. Cinema e tv in genere sono scritte a più mani, e poi il vero lavoro è soprattutto un’estenuante “trattativa diplomatica” tra produttore, regista e autori: io lo trovo logorante, anche perché non mi son mai seduto a un tavolo di questo genere senza che fosse presente almeno un minchione, che pur

non capendo un beneamato cazzo, purtroppo in genere aveva voce in capitolo. Comunque, dopo un periodo intenso, sto lavorando poco nel settore: ho solo una sceneggiatura fra le mani, scritta insieme a Gero Giglio e al regista tunisino Hedy Krissane e, ovviamente ambientata a Torino. Scrivere si dice che sia un esercizio solitario. Come scrittore hai un rapporto diretto coi tuoi lettori? Come è cambiato, se è cambiato, il tuo pubblico in questi anni? Sono facile da contattare: sul mio sito c’è la mail e sono anche su facebook. Questo permette un contatto diretto con un pubblico molto vasto, che dice cose diversissime e ogni volta mi restituisce una consapevolezza “proustiana”: e cioè che la vera magia dei libri consiste nel fatto che ogni lettore, in realtà, legge se stesso. Bella la copertina di Strade Bianche. Negli ultimi anni nell’editoria si legge un tentativo di ripensare l’oggetto libro. Qual è il tuo rapporto tra il contenuto del libro e la sua copertina? Scarso. Però la copertina è importante, e quella di Rossenotti era talmente brutta che Augias, nel recensirlo, lo segnalò. In quella della Ballata c’era la citazione di un disco di Ben Harper, ma non credo sia venuta benissimo. Questa di Strade bianche, invece, mi piace molto, anche se la mia agente dice che è orribile. Insomma: siamo nel territorio dei gusti. Sul tuo sito c’è il book trailer di Strade bianche. Pensi che possa portarti più lettori? Non è realmente il booktrailer, che invece stiamo preparando. Non so quanto servano i booktrailer: forse a qualcosina, ma vuoi mettere il vecchio sano tam tam tra lettori? Quello è più potente di qualsiasi altra cosa. Un’ultima domanda. Parliamo di musica. Sei coautore dei testi del Motel Connection e nel tuo primo romanzo Rossenotti racconti della vita notturna nei club della tua città, Torino. Che rapporto hai con la musica? Cosa ascolti? Cosa ti piace? Quello è un esempio di com’è strana la vita. Molti anni fa andavo a vedere i concerti dei Subsonica, oggi scrivo canzoni gomito a gomito con Samuel, il loro cantante. E poi c’è dj Pisti, uno con cui puoi parlare di Fenoglio o di Norman Cook, di Herzog o di Massimo Campigli, e sei sicuro che ha sempre qualcosa di interessante da dire. In generale questa è la vera soddisfazione nell’aver scritto dei libri che sono piaciuti: per esempio, una volta andavo alle mostre di Daniele Galliano, per me uno dei vertici della pittura contemporanea, e oggi stiamo mettendo in piedi un progetto insieme. Questo sì che non ha prezzo... Comunque, tornando alla musica, ascolto principalmente tre cose: rock, rock e poi rock. Gabriella Morelli LIBRI 45


EVA CLESIS Uomini e donne a confronto Eva Clesis, la trentenne scrittrice barese, da un paio di anni trasferitasi a Roma per lavoro, è tra le figure più eccentriche del panorama letterario italiano. Chi assiste alle sue letture pubbliche di certo rimarrà stupito dal suo modo di porsi sempre in bilico tra maledettismo e smodata ironia. Dopo due romanzi, A cena con Lolita e Guardrail, la Clesis abbandona la finzione per dedicarsi alla scrittura di un manuale divertente e scanzonato, 101 motivi per cui le donne ragionano con il cervello e gli uomini con il pisello, edito da Newton Compton, con l’obiettivo di sviscerare cavillosamente uno dei più condivisi ed abusati luoghi comuni che caratterizzano le relazioni tra uomini e donne. Perché dopo la pubblicazione di due romanzi hai deciso di scrivere questo manuale? Ho scritto i 101 motivi per cui le donne ragionano con il cervello e gli uomini con il pisello perché la Newton Compton me l’ha proposto come un progetto su misura ed è il primo libro che accetto di fare. L’ho trovata un’esperienza gratificante. Altre proposte da parte di altre case editrici, vere e proprie commissioni anche da ghostwriter le ho scartate, anche rimettendoci, perché l’argomento non mi interessava minimamente, ergo non mi sarei divertita a scrivere. Invece con questo libro è stato come accettare una piccola 46 LIBRI

sfida: scrivere di uomini e donne senza cercare di saltare i luoghi comuni, ma affrontandoli uno per uno con ironia e citazioni per lo più cinematografiche e letterarie e uno stile che fosse brillante e non banale. Da quali fonti hai attinto per arrivare a portare alla luce 101 motivi? Oltre che da film divisi in due macrocategorie (demenziali e romantici), ho raccolto una serie di studi sul comportamento sociale e non solo sessuale di uomini e donne, che nel libro sono elencati. Si tratta di studi di ricerca, in genere da parte di Università e Associazioni mediche, reali al cento per cento, anche se a vedere gli argomenti (perché gli uomini s’impappinano di fronte a una bella donna?) io per prima avrei detto che fossero stati fatti per scherzo. Inoltre ci sono spunti presi da canzoni, da opere liriche e persino da parabole bibliche! Insomma, per trovare questi 101 motivi non mi sono fatta mancare niente. Qual è un capitolo del tuo libro che consigli assolutamente ad un uomo e quale ad una donna e perché? Occorre sapere che il bello del libro è che i motivi sono gli stessi, solo declinati al maschile e al femminile. Ci sono insomma 101 motivi, divisi in quattro categorie, per cui le donne sono cervello-


tiche e gli uomini sessuomani, o almeno si parte da questa premessa. Per gli uomini, consiglio di leggersi il motivo per cui alle donne piace l’uomo mascalzone, dove è rivisitata la parabola del figliol prodigo, mentre per le donne consiglio la successiva tecnica Teorema, punti 36 e 37 del libro. Li consiglio perché partono da luoghi comuni molto ricorrenti. Ma anche i tre modi che hanno gli uomini e le donne di “viverla come in un film” sono molto divertenti. Qual è la reazione più curiosa ricevuta da qualche lettore dopo la pubblicazione del volume? La più curiosa è venuta da un signore molto simpatico, che ha letto il libro “rubandolo” alla moglie. Mi ha detto che ne capisco io molto di più di parecchie donne sposate, il che mi fa ridere, dato che non sono sposata e per il momento non ho alcuna intenzione di farlo. Progetti futuri? Il mio prossimo romanzo si svolge in un giorno, coinvolge adulti e adolescenti ed è tutto fuorché un romanzo di formazione. Sarà pubblicato agli inizi del prossimo anno proprio dalla Newton Compton per la collana di Nuova Narrativa e ne sono molto contenta, anche perché lavoro bene con loro. Attualmente invece sto lavorando a un romanzo importante per me e “grosso”, nel senso di voluminoso. Quando pubblicai Guardrail rimasi stupita dalle reazioni di molti lettori che concordavano sul fatto che il libro dovesse essere più lungo, e ora è giunto il momento di cimentarmi in un romanzo complesso, che ha già richiesto un anno di lavoro e molta documentazione. Un’altra storia di piccola provincia, ma per scaramanzia non dico di più. Rossano Astremo

ROSSANO ASTREMO 101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato Newton Compton Editori

Quando dici che vieni dalla Puglia la risposta tipica è: “Beato te”! Anche se io ancora non ho capito appieno per cosa dovrei gioire e festeggiare, il più delle volte incasso con un sorriso per evitare di fare polemica e vado avanti. La Puglia è, come tutte le regioni del sud, una realtà complessa, ricca di contraddizioni. Ma è una regione viva e curiosa. Dopo 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita lo scrittore e giornalista tarantino Rossano Astremo cura, sempre per Newton Compton Editori, 101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato. Storie che delineano una Puglia diversa da quella che è ormai su tutti i giornali per i suoi “lati positivi”, per il suo laboratorio politico. Difficile fare un censimento degli aneddoti e delle esperienze da raccontare dalla notte dei tempi sino ai giorni nostri. Forse qualcosa manca (qualche salentino si è lamentato per l’assenza di Rina Durante) ma come puoi sintetizzare una regione (che qualcuno vorrebbe trasformare in due) in solo 101 storie? Praticamente impossibile. Il merito di Rossano Astremo è quello di aver selezionato e alternato bene queste storie. “L’idea, nella scelta delle 101 storie, è quella di rappresentare l’immaginario vario e stratificato della Puglia, alternando vicende curiose e piacevoli e racconti meno accomodanti, a volte persino dolenti. L’obiettivo è quello di donare ai lettori pagine di intrattenimento e di riflessione”, precisa nell’introduzione. E il libro centra l’obiettivo raccontando la nascita delle “pettole”, il mistero della costruzione del campanile di Soleto, il rifugio pugliese dopo il gran rifiuto di Celestino V, la battaglia di Canne con il capolavoro di Annibale, la scapece gallipolina, la nascita della ciliegia ferrovia, l’insegnamento di Don Tonino Bello, l’arte di Ugo Tapparini, la vita e l’omicidio di Giuse Dimitri, inventore dell’omino della Bialetti, le vittorie sanremesi di Nicola Di Bari, la tragica morte dell’attaccante del Taranto Erasmo Iacovone e il Foggia spumeggiante di Zeman, la poesia di Salvatore Toma, Claudia Ruggeri e Antonio Toma, la pornodiva Rossan Doll e le gag di Toti e Tata. L’ultima storia è dedicata al collega giornalista e amico Michele Frascaro, fondatore del giornale d’inchiesta Impaziente e improvvisamente a 37 anni, “un atto dovuto nei confronti di un uomo che facendo della passione il suo unico mestiere ha reso migliore la sua Puglia”. (pila) 47


GILLES DEL PAPPAS Il bacio del gronco Edizioni Controluce

Nel 1998 Gilles Del Pappas dava alle stampe per i tipi delle Editions Jigal il romanzo intitolato Le Baiser du congre, oggi tradotto per la prima volta in Italia e pubblicato dalle Edizioni Controluce, casa editrice che con questo titolo conferma la sua vocazione di pubblicare una scelta del meglio che offre il mercato della recente letteratura internazionale, con una finestra aperta sulla narrativa di casa nostra. Il bacio del gronco costituisce un caso particolare, una ghiottoneria per gli appassionati del genere noir e non solo. Tanto per cominciare questo titolo inaugura il ciclo delle avventure di Costantin il greco, personaggio che si muove a suo agio tra il porto e la città di Marsiglia, nella apparente tranquillità datagli dalla sua piccola impresa di pesca. Tanto è vero che il romanzo si apre con una scena sobria che invita alla quiete: dopo avere pescato diverse ore, quando l’acqua è immobile come un tappeto d’olio, Costantin e il suo socio, il più anziano e saggio Féfé, stanno per gustare un aperitivo a poche centinaia di metri dalla costa, per suggellare il momento di relax. Ciò che sta per accadere ci metterà in guardia e ci farà capire fin da subito che le storie che seguiranno sono meritevoli di una lettura che accelera l’immissione di adrenalina nel nostro organismo. 48 LIBRI

La maestria dei dialoghi e la rapidità di esecuzione hanno reso Gilles Del Pappas un maestro del genere, il ‘polar’, ovvero sia il noir-thriller che vede tra i protagonisti poliziotti pronti a tutto e dalla fedina penale non troppo limpida. Quello che il lettore potrà augurarsi una volta chiuso il volume è che anche i successivi capitoli di questo viaggio in una Marsiglia così affascinante e pericolosa vengano tradotti e pubblicati nella nostra lingua. Luciano Pagano

LUCIANO PAGANO È tutto normale Lupo editore

“Fuori dall’utero ogni uomo è perso“, si legge sulla quarta di È tutto normale (Lupo Editore, 2010) di Luciano Pagano. L’idea di base è che una volta nati siamo in balia di tanta indeterminatezza che alla fine soggiace a un destino nebuloso e poco scrutabile. Concetto rimarcato dalla splendida cover di Nicoletta Coccoli intitolata Evidently Goldfish: una bambina che porta al guinzaglio un pesce rosso in un mondo di sogno. Ma entriamo nel dettaglio della vicenda. Non ci sarebbe nulla di strano nel raccontare di due genitori che attendono con trepidazione il ritorno nella loro villa in Salento del loro figlio unico, neolaureato in Architettura,

trasferitosi a Roma appena compiuti i diciotto anni. Tutto sarebbe normale, se non fosse che il giovane Marco Donini, rampollo di una famiglia che possiede un’azienda casearia che distribuisce i suoi prodotti in tutto il mondo, sta tornando a casa insieme a una persona il cui sesso non è stato specificato, e il cui nome, Kris, non lascia a intendere nulla. Tutto sarebbe normale se non fosse che ad attendere Marco non ci sono il padre e la madre del ragazzo, bensì due padri, Carlo Donini e Ludovico Carrisi. La descrizione della scena iniziale è l’impalcatura su cui verranno innestati i flash-back di una vita passata, quella di Carlo e di sua moglie Eleonora. I due giovani sposi, nel Salento degli anni ottanta, vivono spensierati e felici una vita fatta di gite al mare e pomeriggi trascorsi al circolo del tennis cittadino oppure a ascoltare musica a casa del loro migliore amico, Ludovico. Proprio Ludovico diventerà l’amante e poi il compagno di Carlo, con il quale crescerà il figlio Marco, una volta che Eleonora scomparirà per via di una malattia. Sono passati quasi trenta anni. Carlo oggi insegna Antropologia all’Università, Ludovico Carrisi è un notaio, i due vivono insieme. Eleonora si fa sentire pur nella sua completa assenza. Il romanzo si svolge in una giornata, riportandoci indietro a poco meno di una trentina d’anni fa, nel periodo in cui Carlo e Eleonora si sono conosciuti e sposati, fino alla nascita di Marco. È tutto normale è un testo maturo, che si caratterizza per una scrittura misurata e vigile, veramente imperdibile! Stefano Donno


CARLO MCCORMICK, MARC & SARA SCHILLER, ETHEL SENO Trespass. A History of Uncommissioned Urban Art Taschen

Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Spencer Tunick, Jean Tinguely, Jenny Holzer, Os Gemeos, Gordon Matta-Clark, Barry McGee, Shepard Fairey, Blu, Billboard Liberation Front, Guerrilla Girls sono i

GABRIELLA GENISI La circonferenza delle arance Sonzogno

La commissaria Lolita Lobosco è una bella tipa. Generosa, sensuale, intelligente. Non ha l’ar-

nomi più importanti (insieme a quello dell’inglese Banksy, chiamato a firmare la prefazione) del volumone che la Taschen dedica alla street art. Un libro illustrato a cura di un team formato dal critico Carlo McCormick, Marc e Sara Schiller (fondatori a New York del Wooster Collective) e di Ethel Seno, editor della casa editrice tedesca. L’elenco completo degli artisti citati supera i 150, ma l’aspetto più interessante è dato, più che dalle immagini inedite provenienti dagli archivi degli artisti (Haring e Basquiat, ma non solo), dai contributi di Anne Pasternak (direttore della Fondazione Creative Time) e dell’avvocato Tony Serra, specialista in diritti civili. Sì, perché la storia dell’arte urbana, oggi sicuramente accettata in più larga misura rispetto al passato, terreno che ha prodotto fenomeni mediatici (Bansky e Thierry Guetta, superstar chiamate a curare le copertine dei dischi dei Blur e di Madonna), transita necessariamente per il varco della questione dei muri e dei

mezzi pubblici sporcati: denunce per vandalismo, contromisure istituzionali, vuoti creati dal degrado urbano, sfide alla legalità, bilanci comunali che ogni anno devono destinare cifre consistenti per pulire strade e metro. Luoghi pubblici e illegalità. Provocazione e libertà d’espressione in quelle che sono a tutti gli effetti gallerie a cielo aperto dove non si paga per entrare, non si è costretti dagli sguardi indignati di qualche campione del presenzialismo radical-chic a sentirsi delle merdine che di arte non capiscono niente. Dalle periferie di Philadelphia fine anni ’60 agli esiti più maturi della New York del decennio ’80 (l’ascesa incontrastata di Haring, che nel 1989 viene chiamato in Italia da Elio Fiorucci per decorare le pareti del punto vendita di Galleria Passarella a Milano), l’epopea dell’arte non commissionata è legata a filo doppio con la controcultura e i suoi testimoni più ferventi.

guzia di Montalbano (che nel libro compare brevemente come special guest), né la goffaggine irresistibile dell’avvocato Vincenzo Malinconico di De Silva, ma con la sua passione per le arance e le sue tette quinta misura, la Loli, impegnata a scagionare da un’accusa infamante una vecchia fiamma giovanile, affronta le duecentoquindici pagine di questo libro difendendosi con un certo stile. Gabriella Genisi (già nota per Il pesce rosso non abita più qui, per La Fenice, e i due romanzi usciti per Manni Editore Come quando fuori piove e Fino a quando le stelle) è brava nel costruire un giallo non complicato, ma tutto

sommato avvincente, e nel definire una protagonista leggera ma complessa, con debolezze di donna e caparbietà da commissario. Sapere che la ritroveremo in una storia successiva fa stare più sereni. La sola perplessità sta nella scrittura, e nell’uso di un linguaggio fin troppo eterogeneo. La storia è ambientata a Bari, e frequentata per lo più da baresi; e sì che la commissaria ha nelle vene sangue siculo (da parte di madre) e napoletano (da parte di padre), ma forse quest’assenza di inflessioni indigene e incursioni dialettali ha tolto un po’ di piacevolezza alla lettura. Lori Albanese

Nino G. D’Attis

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PEPPE RUGGIERO L’ultima cena Edizioni Ambiente

con i beni di Liberaterra, prodotti nelle terre confiscate alla mafia. Pierpaolo Lala

MAURO EVANGELISTI Johnny Nuovo Carta Canta Editore

Dopo aver letto questo libro vi passerà letteralmente la fame. E non perché si tratti di un thriller alla Stephen King o di un romanzo splatter ma perché il giornalista napoletano Peppe Ruggiero delinea, con il suo coraggioso L’ultima cena. A tavola con i boss un quadro decisamente allarmante della situazione enogastronomica italiana. Attraverso una dettagliata inchiesta l’autore racconta come i boss della camorra controllino la produzione e la distribuzione di moltissime leccornie italiane, quelle che ci hanno resi famosi in tutto il mondo. Dalla tazzina di caffè alla mozzarella di bufala, dalla pizza alla carne di cavallo, dalla spigola ai frutti di mare, molti prodotti che finiscono sulle nostre tavole sono manipolati dalla criminalità organizzata attraverso il pizzo, la coltivazione in zone contaminate, l’uso di anabolizzanti, la farina tagliata male. Una denuncia forte che Ruggiero, già autore del fortunato documentario Biùtiful cauntri, argomenta con dati e dichiarazioni. Ma c’è una speranza? “C’è un’Italia che combatte contro le mafie, quotidianamente e in silenzio”, precisa Ruggiero, che in chiusura del libro propone una serie di ricette realizzate 50 LIBRI

Dopo la scomparsa della madre, uccisa dal marito perché adultera, e la fuga della moglie, annoiata da una vita troppo regolare, K decide di cambiare il corso della sua esistenza. Vagando da uno stato all’altro, lontano da casa sua, K comincia a nutrire un terrificante desiderio: plasmare la mente di un essere umano. Come un macabro Grande fratello, per 18 anni K osserva in modo maniacale le reazioni del neonato che ha rapito e che tiene rinchiuso in un bunker di cemento grande quanto un campo di calcio. Un ambiente lontano dalle influenze esterne, il tutto per proteggerlo. Prigione e libertà, giusto e sbagliato. Tutto si confonde nella mente del lettore che si interroga costantemente su gesti e pensieri dei personaggi. La storia è scandita da ritmi serrati, da frasi brevi o spezzate da molte virgole che tengono alta la tensione nel lettore chiamato non solo a seguire le fila delle storie che si intrecciano, ma anche a passare da un piano temporale all’altro. Passato, presente e futuro. Maria Grazia Piemontese

MASSIMO DEL PAPA Happy (l’incredibile avventure di Keith Richards) Meridiano Zero

Non ci sono più le rock star di una volta, molte sono morte vittime di vite troppo veloci, altre si sono imbolzite dietro a una vita fatta di vizi, soldi, campando di rendita e lasciando affievolire la fiamma. Quella stessa fiamma che ancora oggi brucia negli occhi del grande del rock di tutti i tempi: Keith Richards. Un miracolo musicale quanto medico, un uomo che è sopravvissuto a se stesso, che ha attraversato le decadi indicandoci la strada con il manico della sua chitarra, un musicista capace di rivoluzionare il mondo del rock a suon di riff. Una vita di per sé romanzesca, fatta di battute epocali, cadute agli inferi e risurrezioni, raccontata con ritmo e vitalità da Massimo Del Papa. Molti hanno scritto di Keith ma la sua storia infinita è come una di quelle favole che da piccolo vorresti farti raccontare ogni santo giorno e l’autore la racconta con un andamento musicale con la capacità di chi è padrone della materia e conscio della proprie passioni. Osvaldo Piliego


LORIANO MACCHIAVELLI Strage Einaudi Editore

Avevo appena sei anni quando a settembre del 1980 andai a Bologna con i miei genitori. Non appartiene ai miei ricordi diretti ma ai racconti dei miei quello squarcio nel muro della sala d’attesa della stazione, come una bocca spalancata a urlare il proprio dolore e il proprio sgomento al mondo intero. Appartiene invece ai miei ricordi di studente universitario quello stesso squarcio, quella bocca ancora spalancata anche se tappata da una lastra di vetro, quell’urlo diventato silenzioso, nel pudore di una città, Bologna, che delle proprie tragedie ha sempre cercato di fare tesoro e memento per le generazioni future. In un modo o nell’altro la strage di Bologna, l’atto terroristico più sanguinoso della storia della repubblica italiana, è impresso nella memoria, diretta o inderetta, di ciascuno di noi. Un po’ come l’11 settembre, è un momento che ha cambiato il nostro modo di pensare. Viene ripubblicato quest’anno un romanzo la cui storia editoriale ben si inserisce in quel clima di mistero, depistaggi, intimidazioni, processi farsa che hanno accompagnato la vicenda di Bologna fin da subito e che la accompagnano ancora oggi, visto che non si conoscono i nomi dei reali mandanti della strage e che anche su quelli degli esecutori i dubbi sono ancora tanti. Strage uscì in libreria nel 1990 e vi rimase solo una settimana. Uno degli imputati nel processo denunciò Macchiavelli per diffamazione e tutte le copie del romanzo furono ritirate dal commercio. Loriano Macchiavelli, che aveva firmato il libro con uno pseudonimo venne assolto e oggi, nel trentesimo anniversario dell’esplosione che uccise 85 persone, il romanzo torna in libreria, praticamente inedito. Macchiavelli, in questo romanzo che è più una spy story che un giallo a cui il maestro bolognese

ci ha abituati, traccia una sua personale e romanzata storia di quello che è successo quel giorno in cui tutto saltò in aria. Macchiavelli scrive qui il suo personale “romanzo criminale” fatto di mafia, servizi deviati, logge massoniche, eversione di destra, spionaggio industriale a cui ormai siamo stati abituati da scrittori come Giancarlo De Cataldo, Giuseppe Genna, Simone Sarasso e tantissimi altri e disegna scenari che, a parte alcune trovate forse un po’ troppo cinematografiche, sono tutt’altro che inverosimili. Certo, si tratta di un romanzo e non dobbiamo cadere nell’errore fatto da chi ne ha denunciato vent’anni fa l’autore pensando che il colonnello, e poi generale, dalla Vita sia in realtà il generale Dalla Chiesa, o che il dottor Rigolari, banchiere decisamente poco pulito, sia Michele Sindona. e nemmeno che lo Zombi, ministro e faccendiere dalle frequentazioni un po’ ambigue sia in qualche modo da riferire ad Andreotti. o, ancora, che tale Voratore, detto Vora e Francesca Dirusso siano in qualche modo riconducibili a Giusva Fioravanti e a Francesca Mambro, condannati con sentenza definitiva come gli esecutori della strage. O forse, se vogliamo, invece è proprio così, ma è ovvio che se un romanzo parla di eventi realmente accaduti, nella realtà dovrà pur pescare. Ma il finale del romanzo non lascia dubbi: è opera della fantasia dell’autore, e questo distingue un’inchiesta giornalistica da un romanzo, per quanto documentato esso sia. Forse questo non è il Macchiavelli migliore, foprse questo non il migliore romanzo del genere pubblicato in Italia, ma sicuramente è un romanzo importante e il fatto che oggi sia possibile finalmente leggerlo è altrettanto importante. Dario Goffredo 51


EDIZIONI AMBIENTE

Edizioni Ambiente è uno di quei mondi veri che avverti come “necessari”, quando percorri il tuo paese e inciampi ovunque in una sgradevole assuefazione alla catastrofe. La cappa di remissività che ci sovrasta è soporifera: invade i cataloghi delle case che consideravi più resistenti, gli scaffali della libreria amica che sapevi essere l’unica invulnerabile, i tavoli da studio di compagni una volta irremovibili, ora “variabili” anche loro. Nell’aria fasulla generale, una realtà capace di darti la sveglia è ossigeno autentico e ha un che di confortante, anche se fa libri tutt’altro che rasserenanti. L’inquietudine che la muove, è per missione concentrata sullo spazio umano naturale, preda delle nostre piccole/grandi disattenzioni quotidiane, ma anche delle altrui sin troppo interessate “accuratezze”. Incontrando entrambe nella lettura di saggi e narrativa, l’invito urlato è alla riconquista collettiva di una dimensione vitale che sia condivisa e custodita con cura, e reca con sé il nostalgico sapore di quel “riprendiamoci la strada” di qualche tempo fa. Ce ne offrono un assaggio le risposte del direttore editoriale Marco Moro (MM) e del curatore di VerdeNero Alberto Ibba (AI), che insieme alla responsabile dell’ufficio stampa Maddalena Cazzaniga hanno avuto disponibilità infinita nei confronti miei e delle mie domande. Avete dato avvio alla vostra attività editoriale nel 1993, quando il concetto di impegno ambientale era ancora “limitato” alla pulizia delle spiagge malcurate, o alla salvaguardia delle specie animali a rischio. Le vostre pubblicazioni ponevano attenzione, già allora, alla urgenza di un’informazione 52 LIBRI

che indagasse tutti i contesti coinvolti nel rapporto comunità umana/dimensione naturale, in primis quello economico. Come sono stati gli inizi di questo sentimento differente? (MM) Complicati ed entusiasmanti. Complicati perché si trattava di far conoscere contemporaneamente un marchio editoriale nuovo ed un tema che stava prendendo forma in quello stesso momento, tema che sin dall’inizio abbiamo affrontato in modo ampio, cercando di rivolgerci a tutti i soggetti che in diverso modo sono toccati dal tema “ambiente”. Quindi non solo il mondo dell’ambientalismo, ma anche le imprese, i settori professionali e produttivi che con questa tematica si confrontano quotidianamente, senza dimenticare enti e amministrazioni locali e centrali, oltre all’università. Una molteplicità di soggetti che rispecchia la quantità di saperi, competenze, campi di attività e di ricerca, che attorno alla parola “ambiente” si coagulano e si intrecciano. Entusiasmanti perché ci rendevamo conto di avere di fronte un ambito di lavoro veramente enorme e destinato ad acquisire via via maggior peso negli anni. C’era la consapevolezza di esserci collocati su quello che sarebbe diventato gradualmente “il” tema, centrale per la cultura, l’economia e la società. La parola attorno a cui tutto avrebbe iniziato necessariamente a ruotare. Che ruolo hanno avuto, ai vostri esordi, le associazioni ecologiste presenti in Italia? Si è creata da subito una comunità di sostegno, un “fare rete” che provasse ad attuare, attraverso la lettura d’impegno, anche un’evoluzione socio-culturale fatta di reali


coerenze quotidiane? (MM) La collaborazione con le associazioni ambientaliste risale addirittura a prima della nascita di Edizioni Ambiente ed è una aspetto che ha caratterizzato fortemente la nostra attività editoriale. Tuttora alcuni dei nostri titoli più autorevoli nascono da questa collaborazione, in particolare con Legambiente e WWF Italia. L’intento comune era evidentemente quello di far crescere la sensibilità del pubblico rispetto ai temi dell’ambiente, qualcosa che si traducesse in un effettivo cambiamento a livello socio culturale. La capacità di “fare rete”, di veicolare verso la base di soci e simpatizzanti i contenuti che venivano prodotti è invece ancora un “lavoro n corso”, anche se, soprattutto con Legambiente, si sono raggiunti buoni risultati. Di maggiore efficacia è stata a volte la collaborazione con associazioni più piccole, che si rivolgono ad un settore di pubblico molto identificato, come nel caso di ANAB, l’associazione nazionale per l’architettura bioecologica, con cui sono state attuate iniziative editoriali di grande successo. L’impatto sulla cultura dei professionisti è stato senza dubbio più “palpabile” e si traduce in un effettivo cambiamento, nel consolidamento di quelle che definisci “reali coerenze quotidiane”. Uno dei vostri progetti, VerdeNero, è articolato in tre collane: Noir, Romanzi, Inchieste. La prima propone storie - riprese dai fatti denunciati nel Rapporto Ecomafia - dalla struttura piuttosto elaborata, che ben rende la sofisticatezza di vicende animate da deviazioni criminal-politiche e scandali ambientali. Perché trasportare la realtà nella forma del noir ecologista? La denuncia è percepita con più efficacia? (AI) Siamo giunti alla scelta di genere quasi spontaneamente. Già lo svolgimento delle inchieste raccolte nel Rapporto Ecomafia di Legambiente alludevano inconsapevolmente al noir. Inoltre una buona parte degli autori che avevo in mente di coinvolgere e che sapevo essere sensibili alle tematiche ambientali, erano noiristi. Il noir da sempre è il genere più adatto a disvelare i meccanismi del potere. Si può parlare di “narrativa critica militante”? (AI) Mi pare eccessivo, nel senso che parlerei più volentieri di autori che si sono messi al servizio di una denuncia condivisa. La narrativa militante mi richiama ad un livello di partecipazione intellettuale che in questo momento non scorgo nel nostro paese. Come hanno reagito ai vostri inviti gli

scrittori contattati? Qualcuno ha rifiutato, timoroso dei possibili esiti di una presa di posizione – un autentico atto politico - così evidente? (AI) Devo dire che hanno tendenzialmente reagito tutti bene, tanto che oggi sono gli autori a proporci le loro idee. I pochi che hanno declinato l’invito non l’hanno fatto per motivi politici, fosse altro perché scegliamo esattamente chi non dovrebbe avere di questi problemi. Di solito si tratta di impegni con altre case editrici, o più banalmente problemi di budget. Siete comunque una casa editrice tematica, il che può comportare il “rischio della nicchia”. Avete scelto di collaborare con Einaudi anche per sciogliere questo nodo? (AI) La questione paradossalmente è inversa. Non siamo noi che collaboriamo con Einaudi, ma è la casa editrice torinese che ha chiesto a noi se poteva riprodurre la collana VerdeNero nei Tascabili. Quando siamo riusciti a strappare il nostro marchio in quarta di copertina, ho capito che era un’operazione senza precedenti e per noi una vetrina promozionale importante. (MM) La nostra strategia è stata quella di rivolgerci a quante più “nicchie” di pubblico possibile. Per arrivare negli ultimi anni, consapevoli della maggiore penetrazione del tema nella quotidianità, ad accettare la sfida del “grande pubblico”, elaborando diverse linee di prodotto mirate. Le collane Verdenero e la nuova serie dei Tascabili dell’Ambiente vanno in questa direzione. Evidentemente la cosa non è passata inosservata e il rapporto con Einaudi ne è una prova. Di fatto, la riproposta di alcuni nostri titoli da parte di una casa editrice così importante non fa che favorire la maggiore percezione del tema in fasce di pubblico che per noi sarebbero difficili da raggiungere. Un “effetto megafono” che non può farci che bene. Di “rimbalzo”, ci aiuta ad attenuare il rischio dell’effetto nicchia. Per concludere, tutte le vostre pubblicazioni sono dei quadri reali spiazzanti, capaci di veicolare non solo delle informazioni accuratissime, ma anche una dose insostenibile di indignazione. Una vostra novità “portatrice di rabbia sana”? (MM) Un libro che spiega nel dettaglio cosa si può fare per uscire da un “business as usual” che sta spingendo le società e le economie verso scenari imprevedibile e preoccupanti: “Piano B 4.0”, di Lester Brown. Se mentre lo si legge si pensa a quanto accade nel nostro paese, provare una sana indignazione è il minimo. Stefania Ricchiuto LIBRI 53


CINEMA TEATRO ARTE

AURELIANO AMEDEI Venti sigarette è il film d’esordio del regista sopravvissuto alla strage di Nassiriya

L’esordio cinematografico di Aureliano Amedei non è passato inosservato. Vincitore di controcampo italiano alla Mostra del cinema di Venezia ha provocato, sin dalla sua prima visione (e prima ancora dell’uscita) lacrime, applausi e molte polemiche. Il regista è infatti l’unico civile soprav54 cinema teatro arte

vissuto alla strage di Nassirya nel 2003 e da anni racconta la sua tragedia prima con un libro, poi a teatro, infine, con questo film. Ma Amedei era in Iraq da anarchico, antimilitarista e aspirante regista. Il ventottenne ebbe giusto il tempo per ambientarsi (il tempo di venti sigarette, appun-


to) prima che l’attacco terroristico coinvolgesse la base dei militari italiani. Ferito e invalido (zoppo, con i timpani perforati e con in corpo centinaia di schegge), racconta il suo viaggio di ritorno a casa e le attenzioni ricevute. Lui fermamente contro la guerra si ritrovò ad essere una specie di eroe. I protagonisti sono Vinicio Marchionni (che interpreta Amadei) e Carolina Crescentini (l’amica Claudia contraria alla sua andata in Iraq che diventerà poi la madre di suo figli). Prima libro, poi teatro, ora un film. Questo è un modo per elaborare un’incredibile storia che ti ha coinvolto in prima persona? Credo che questo sia lo sbocco naturale di un’esperienza che ho vissuto, in fondo ero lì per fare l’aiuto regista, ho sempre ricordato l’attentato in “fotogrammi”, come una sequenza cinematografica. Il film ha avuto per me anche un aspetto terapeutico ma credo che questo sia riduttivo nei confronti dell’opera. L’elaborazione di un evento così passa per il ricordo e la condivisione quotidiani, sto facendo un po’ della mia terapia in questo momento con te. Da un punto di vista contenutistico e artistico, sono felice che il film sia frutto di anni di elaborazione. In questo modo, anche attraverso il libro, ho potuto padroneggiare meglio la narrazione della storia e raccogliere il materiale necessario a farsi un’idea delle cose più certa e articolata. Tu sei arrivato a Nassiriya da antimilitarista. La tua visione della guerra e della pace è in qualche modo cambiata? Ecco, la visione articolata è una delle chiavi più importanti per l’elaborazione di un’esperienza come la mia, io ho cambiato, o cercato di cambiare, il mio atteggiamento, non le mie idee. Resto comunque un pacifista convinto, forse più di prima. Resto fermamente contrario all’invio di soldati italiani all’estero, sotto qualunque veste. Quello che è cambiato è che non riesco più a distinguere la differenza tra me e un soldato in missione. Mi sento responsabile sia dei suoi eventuali omicidi che della sua eventuale uccisione. Per questo, anche nel lutto, non accetto né chi grida agli eroi, né chi gioisce per la loro morte. Per me saranno sempre individui, esseri umani che bisogna conoscere prima di poter giudicare. È la tua opera prima. Subito premiato a Venezia. Qual è stata la tua sensazione al momento della vittoria? Durante il discorso per la premiazione ho fatto finta di svenire, per poi rialzarmi e dichiarare

la boutade... La verità è che stavo per svenire veramente! Anche perché quell’infamone di Valerio Mastandrea aveva fatto di tutto per farmi intendere che ero lì solo ad accompagnare Vinicio Marchioni (premiato con la menzione come migliore attore). Il tuo film ha ingenerato molte polemiche, cosa che accade spesso quando si parla di guerra. Te lo aspettavi? Quali sono le critiche che più ti hanno ferito? Le critiche che mi feriscono di più sono quelle di spettatori che hanno pagato il biglietto, gente a cui il film non è arrivato, persone con cui non mi sono saputo far capire. Per il resto, le polemiche sono spesso pezzetti di frasi, sui quali alcuni giornalisti costruiscono interi articoli. Persone che continuano a volerci infilare in dei cliché, perché la vita reale, con tutta la complessità delle sue componenti, non fa “notizia”. Nonostante ormai si viva in uno stato di guerra permanente si parla poco delle guerre in tv, sui giornali, anche al cinema. Le stragi di civili, le bombe nei mercati sono relegate a notizia breve. Perché, secondo te il pubblico si è assuefatto alle immagini? I morti civili non fanno più notizia? Nella post-fazione del libro da cui è tratto il film, Venti sigarette a Nassiriya, c’è una citazione di Tiziano Terzani che il mio coautore, Francesco Trento ha voluto fortemente: “purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore”. Mi sento di sposarla parola per parola. Per un giovane regista come te la domanda è d’obbligo. Hai già qualche idea per il tuo futuro? Il futuro sembrerebbe riservarmi un lungo tour di presentazione del film, scuole, università, rassegne e festival... Ho fatto il film per condividere la mia storia ed è d’obbligo portarla a più persone possibile, specialmente ai giovani. Certo è che quest’opera prima ha tracciato in me un percorso di urgenza nel raccontare una storia, sarà difficile trovare una storia che mi stimoli in questo modo. Ho avuto una vita abbastanza movimentata, chissà... (pila) cinema teatro arte 55


CHRISTOPHER NOLAN Inception

Un evento sociale planetario, certamente l’uscita più attesa e commentata dell’anno. Cast di assoluto livello (Leonardo Di Caprio, Marion Cotillard, Cillian Murphy, Ken Watanabe, Joseph Gordon-Levitt, Ellen Page), budget da duecento milioni di dollari, una sceneggiatura visionaria e stratificata - scritta e riscritta da Christopher Nolan (Memento, Batman Begins, Il Cavaliere Oscuro, The Prestige) per dieci anni su molteplici livelli di sogno, in bilico tra apparenza e realtà. La trama è complessa, e il film, con un eccesso estremo di semplificazione, è un thriller fantascientifico che mischia, sovrappone ed esplora mondo onirico, mondo reale e subconscio del protagonista Cobb (Di Caprio) e quello dei suoi compari. L’obiettivo (sempre semplificando), instillare un’idea nella mente di un ricchissimo rampollo che sta per ereditare un impero, entrando nei suoi sogni. Da qualche parte si è letto che lo script di Nolan è un complicatissimo progetto onirico-ingegneristico, roba da ricorrere a schemini semplificativi per evitare di perdere il filo nel corso dei cento-esagerati-quarantadue minuti di film. In realtà, il filo - e certamente il rimando mitologico non è casuale - è sempre lì, visibile, nelle mani di Arianna (Ellen Page, la piccola Juno alla sua consacrazione con cast e regista stel56 cinema teatro arte

lari), che nell’affiancare Cobb in tutte le fasi della missione, e persino nei recessi più profondi del suo subconscio, riceve da tutti spiegazioni dettagliate e puntuali, e ce le serve su un piatto. Fortuna che nel finale lei non c’è. E un dubbio resta. Almeno quello. Lori Albanese

SAVERIO COSTANZO La solitudine dei numeri primi

Le immagini e le parole sono linguaggi spesso intraducibili e giudicare questo film di Saverio Costanzo andando a caccia di analogie e differenze, fedeltà e tradimenti rispetto al romanzo di Paolo Giordano sarebbe niente di più di un passatempo per enigmisti disoccupati. Tanto più che sia il regista che l’autore chiariscono di non aver cercato in alcun modo un copia-incolla dalla pagina allo schermo. In effetti, alcuni scostamenti dall’originale risultano inevitabili. Soprattutto Costanzo interviene scombinando la sequenza temporale degli eventi attraverso un alternarsi spesso psicotico di frammenti di presente e passato che disseminano indizi sul “segreto” di Mattia (intorno ad Alice c’è meno thriller) e ne rimandano il più possibile la rivelazione: il ritmo cresce e la pellicola mantiene alto l’interesse fino ai titoli di coda, nonostante la pesante semplificazione del testo originario, privato dei nume-

rosi intrecci secondari. Spesso però il meccanismo va troppo oltre, portando alla soppressione di passaggi fondamentali (il rapporto di Alice con il marito, la madre e il cibo) e a falsificazioni gratuite della trama (il discorso sui numeri primi finisce in bocca a Viola, Mattia viene a sapere del matrimonio di Alice solo quando la rincontra). Lo spettatore rischia di fraintendere o di non capirci nulla. Tra i pregi della pellicola ci sono i dialoghi volutamente spogli e le interpretazioni di Luca Marinelli e Alba Rohrwacher: basta questo a rendere nel migliore dei modi l’essenza del legame tra Alice e Mattia. Francesca Maruccia

ROB EPSTEIN, JEFFREY FRIEDMAN The Howl – Urlo

Non è un fim sulla beat generation e neanche un film su un poeta della beat generation. È un film sul poema simbolo della beat generation: The Howl (L’Urlo). È un film su più piani, un film dove non c’è azione ma narrazione, l’unico movimento ampio, un volo è concesso al suo lato immaginifico, quello affidato all’allucinata animazione del poema stesso, alla materializzazione del pensiero e delle parole. Per il resto il film si divide tra un’intervista ad Allen Ginsberg interpretato dal bravo James Franco, la prima lettura pubblica del poema e il processo all’editore che venne inten-


tato con l’accusa di oscenità. Queste tre angolazioni compongono in un mosaico il ritratto perfetto di un momento cruciale della letteratura contemporanea. Il tema dell’omosessualità, il jazz, l’icona di Kerouak, Neil Cassidy sono elementi che compaiono con naturalezza e che animano senza mai prendere il sopravvento sul vero protagonista di questa pellicola: il pensiero e la sua libertà. Osvaldo Piliego

ALIONA SEMIÒNOVA E ALEKSANDR SMIRNÒV The rowan waltz

Una scommessa (vinta) “di documentare poeticamente il conflitto armato”: nel film The Rowan Waltz di Aliona Semiònova e Aleksandr Smirnòv c’è la Russia degli anni a ridosso

della seconda guerra mondiale e un gruppo di donne che si ritrova a fare “cose da uomini”, perché gli uomini sono ancora lontani da casa, alcuni per sempre. Ci sono i passi cadenzati e lentissimi di giovani sminatrici che raccolgono mine seminate come fiori di morte, e poi ci sono i balli frenetici e ubriachi, l’allegria imposta dalla fisarmonica perché quando qualcuno salta in aria bisogna dimenticarsene presto, far festa e non pensarci, che certi pensieri fanno tagliare male i fiori. Marusya è bella come un’attrice e suona la chitarra. Polina ricomincia ad amare e si sente in colpa. Lena osserva dalla sua stanza un campo che si è ammalato e per guarire si ciba di vite umane, allora lei costruisce bambole di pezza con le facce dei suoi cari ed esce di notte

per offrirle al campo, sperando che bastino a saziarlo, sperando che non uccida più nessuno. La vita del capitano Smirnov è costruita sulle menzogne, ma è pur sempre una vita. Tutti ballano il loro “valzer del sorbo”, prudenti e incoscienti come fiori dall’esistenza fragile e breve su una terra che minaccia di sputarli senza preavviso verso il cielo. È il valzer della vita che osserva immobile e attonita se stessa, le sue violenze e le sue assurdità, per poi accelerare bruscamente, voracemente e calarsi in un nuovo amore o in un campo minato. Originale metafora dell’incontrollabilità del destino, seppur con piccole cadute nella facile retorica dei film di guerra e alcune fasi narrative rese lente dall’indugiare in dettagli troppo tecnici. Francesca Maruccia

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DONNE CONTRO L’ILVA DI TARANTO

Un documentario della giornalista Valentina D’Amico racconta le contraddizioni di una città

Taranto è a pochi chilometri da Lecce, dove vivo. Eppure, io, a 33 anni, ci sono andato poche volte. La prima è stata nel febbraio 1995. Faceva freddo. Presi il treno, anche quello per la prima volta, con molti altri ragazzi, e arrivai nella città dei due mari per la mia visita militare in marina. Tre giorni e tre notti da tarantino non sono certo bastate per capire quello che nella città si muoveva. Nel corso di questi quindici anni sono andato a Taranto credo tre o quattro volte. Una città vicina eppure così distante. Da piccolo, ricordo, 58 cinema teatro arte

pensavo a Taranto come una grande città lontana, come Bari, e ricca. Perché, così ci insegnavano a scuola, a Taranto c’erano le fabbriche, c’erano le industrie, c’era il lavoro, c’erano gli operai. E a Lecce no. E poi quando passavo vicino Taranto vedevo il fumo rosso e un po’ mi impressionavo, pensavo a realtà da fumetto come Gotham City. A distanza di anni ho imparato a conoscere le contraddizioni di quella città, leggendo le cronache della crisi, i romanzi di Cosimo Argentina e Mario Desiati e guardando gli spettacoli teatrali di Ales-


sandro Langiu. Quella Puglia tanto amata fuori dalla Puglia, portata ad esempio come virtuosa immagine di un’Italia che cambia eppure ancora ricca dei fumi delle sue ciminiere peggiori come quelle dell’Ilva. Da qualche mese si parla molto di Taranto anche grazie al documentario La Svolta. Donne contro l’Ilva, firmato dalla giornalista Valentina D’Amico, che racconta la battaglia di sei donne: Francesca e Patrizia, mogli di operai morti all’Ilva; Vita, mamma di un giovane operaio finito ammazzato sotto una gru nello stabilimento; Margherita, ex dipendete sottoposta a soprusi, mobbizzata, licenziata; Anna, finita sulla sedia a rotelle, e Caterina, mamma di un bambino autistico: malattie diverse, entrambe probabili conseguenze dell’inquinamento. “L’indignazione. Ecco cosa mi ha spinto ad occuparmi di Taranto, dell’Ilva”, spiega la regista Valentina D’Amico. “Da qualunque direzione ci si avvicini, ci si imbatte in una città violentata. Imponenti strutture industriali sbuffano fumi di tutti i colori che soffocano quartieri, bruciano palazzi, raschiano polmoni. Taranto non è solo l’Ilva certo. È anche Eni, Cementir, Sidercomit… In nome dello sviluppo si è annientata una città, il suo ambiente, i suoi abitanti, la loro salute. Perché allora prendersela solo con l’Ilva? Perché per anni l’Ilva è stata, ed è tutt’ora, Taranto. L’Ilva vanta il primato delle morti sul lavoro in Italia (43 dal 1995 ad oggi) e il primato italiano di inquinamento da diossina (il 92% del totale, l’8% in Europa)”, prosegue la regista. “Se oggi tutti conoscono la tragedia dei sette operai arsi vivi nell’officina della ThyssenKrupp a Torino, troppo pochi conoscono la vicenda dei 180 operai morti (tanti dalla prima apertura dei cancelli nel 1961) e della devastazione ambientale provocati dal terzo stabilimento siderurgico del mondo. Perché? Perché siamo al Sud e al Sud tutto è lecito? Nel 2005 un analogo stabilimento di produzione dell’acciaio è stato fatto chiudere a Genova. E Taranto? A Taranto la maggioranza della popolazione non vuole la chiusura dello stabilimento”. La fabbrica dà lavoro (sempre meno, giacché si è passati in venti anni da 20 a 13 mila occupati) ma che uccide e mortifica l’ambiente. Il titolo del documentario si rifà a quello del racconto che Francesca Caliolo, una delle donne protagoniste, ha scritto dopo la morte di suo marito, Antonino Mingolla, qui interpretato da Alessandro Langiu. Dopo la proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori, e al Milano Film Festival, il documentario ha iniziato a girare in tutta Italia ed è stato recensito da molte testate nazionali. Pierpaolo Lala

ECOLOGICO FILMFESTIVAL La Puglia è una regione di cinema. Sono numerose le produzioni che decidono di girare da queste parti, anche grazie al lavoro dell’Apulia Film Commission, ma ci sono piccole realtà locali che con grandi sacrifici continuano a proporre il proprio lavoro. Nonostante le difficoltà economiche e politiche (l’amministrazione comunale che ospita la manifestazione dopo una crisi perenne è caduta) anche quest’anno infatti si è tenuto a Nardò l’Ecologico International Film Festival, giunto alla sua terza edizione e nato dall’impegno e dalla passione di Roberto Quarta e dei suoi collaboratori. Dopo alcune anteprime, dal 16 al 19 settembre il festival è entrato nel vivo, ospitando le pellicole provenienti da tutta Europa nelle varie categorie dedicate a studenti, emergenti e professionisti. La giuria, composta dal vicepresidente dell’Apulia Film Commission Luigi De Luca, dal direttore artistico del Cinema Elio di Calimera Gabriele Russo e dalla nostra collaboratrice Lori Albanese, ha visionato tutti i film e selezionato i vincitori. Moby Dick di Oscar Carrara è stato il miglior film sull’ambiente, Bouquet di Walter Mazo quello sulla diversità, Life for sale di Yorgos Avgeropoulos sulla società. Nella sezione scuole hanno vinto Storia del paese di Ucchebbello di Tilde Di Dio e Rita Stivale - I°Circolo Didattico” E. De Amicis” – Enna per la categoria scuole primarie, Lenti da contatto di Daniela Recchia - Scuola “I Care” - Andria (BA), per la categoria scuole secondarie inferiori, La Migliore Amica di Daniele Santonicola - Liceo scientifico-classico “Don Carlo la Mura” - Angri (SA), per la categoria scuole secondarie superiori. Nella sezione autori sono stati premiati invece Carpa diem di Sergio Cannella (cortometraggio), Il Vincitore di Davide Labanti (mediometraggio) e Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo (lungometraggio). Due menzioni speciali sono andate a Every day - Ogni giorno Checkpoint di Betlemme di Mara Beccafarri e Massimo Miricola e a Rosita no se desplaza di Alessandro Acito e Leonardo Valderrama. Un’altra occasione, come accade in luglio per il Cinema del Reale di Big Sur, per visionare pellicole che nella maggior parte dei casi non passeranno sugli schermi o in tv. Info www. ecologicofilmfestival.it 59


EVENTI VENERDÌ 15 OTTOBRE Luca Alemanno e Marco Bardoscia al Vite di Nardò (Le) Metal Fest all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Folkabbestia al Kursaal di Bari Super reverb al Molly Malone di Lecce SABATO 16 Chat Noir al Vite di Nardò (Le) Tobia Lamare all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) MARTEDÌ 19 Adria al Teatro Paisiello di Lecce GIOVEDÌ 21 Voodo Doll dj set al Molly Malone di Lecce VENERDÌ 22 Giorgia Santoro duo al Vite di Nardò (Le) Cadabra e Play on tape all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Francesco Giannico al Molly Malone di Lecce SABATO 23 Italian Swing Connection trio al Vite di Nardò (Le) Dj Gruff e Roberto Chiga all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) GIOVEDÌ 28 Raffaele Casarano & Ippolito Chiarello alle Cantine Menhir di Minervino (Le) Rocco Morano al Molly Malone di Lecce VENERDÌ 29 Livio Minafra “Solo” al Vite di Nardò (Le) Muffx e Jack in the head all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) 60 EVENTI

Canzoniere Grecanico Salentino al Teatro Paisiello di Lecce Black Garden al Molly Malone di Lecce SABATO 30 Andrea Baccassino al Vite di Nardò (Le) Ballarock all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) DOMENICA 31 Halloween Party alle Officine Cantelmo di Lecce Insintesi e Blackstarline all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Halloween Party al Molly Malone di Lecce OGNI GIOVEDÌ Giovedì Colturale alla Masseria Ospitale di Lecce (strada Torre Chianca) GIOVEDÌ 4 NOVEMBRE Soulmakossa feat. Soulfiero al Molly Malone di Lecce VENERDÌ 5 Le strisce all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Walter Vitale “Drum Juice - drum solo” al Vite di Nardò (Le) Open Mic Session al Molly Malone di Lecce SABATO 6 Tobia Lamare all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) GIOVEDÌ 11 Marco Bardoscia e Dario Muci alle Cantine Menhir di Minervino (Le) VENERDÌ 12 Dufresne all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Alex Napolitano e Viz Maurogiovanni al Vite di

Nardò (Le) Dino Fumaretto alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) Joe Pesci Blues Band al Molly Malone di Lecce Urge di e con Alessandro Bergonzoni al Teatro Kursaal di Bari SABATO 13 Moa Anbessa feat Sister Aisha all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Robin Scheller & Dado Tedeschi con William Greco al Vite di Nardò (Le) Ministri al Demodè di Modugno (Ba) Adrian Belew Power Trio al Teatro Kursaal di Bari MARTEDÌ 16 Il Buio, il fuoco, il desiderio con Gino Castaldo, Giovanni Sollima, Gennaro Tosto e Pietro De Silva al Teatro Kursaal di Bari Fuzztones all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) La più importante garage-band della nuova corrente degli anni ‘80, una vera e propria colonna portante del genere, capiscuola per migliaia di band che hanno visto in Rudi Protrudi il loro eroe e profeta. Il suono dei Fuzztones è inconfondibile. A 30 anni di distanza dal loro esordio propongono un nuovo disco “Preaching To The Perverted” e un imponente tour europeo che toccherà tutta l’Italia, dal sud al nord. Ingresso 12 euro. Info 0832303707 GIOVEDÌ 18 Str3aker (Ballarock) al Molly Malone di Lecce Tortoise al Teatro Kursaal di Bari VENERDÌ 19 Diaframma all’Istanbul Cafè


di Squinzano (Le) Fabio Accardi al Vite di Nardò (Le) Teatro degli orrori al Demodè di Modugno (Ba) The fillers al Molly Malone di Lecce Iancu ai Cantieri Koreja di Lecce Rene’ Aubry al Teatro Kursaal di Bari SABATO 20 Co’ Sang all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Rafael Didoni & Fausto Solidoro al Vite di Nardò Iancu ai Cantieri Koreja di Lecce Murcof al Teatro Kursaal di Bari MARTEDÌ 23 E MERCOLEDÌ 24 The Kuleshov Affaire ai Cantieri Koreja di Lecce GIOVEDÌ 25 Alberto Parmegiani e Sergio Langella alle Cantine Menhir di Minervino (Le) Sonic The Tonic al Molly Malone di Lecce VENERDÌ 26 Froben e Pensieri in Volgare all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Alberto Parmegiani & Sergio Langella al Vite di Nardò (Le) Bach ai Cantieri Koreja di Lecce SABATO 27 Cast Thy eyes, Dsa Commando e Hobophobic all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Germano Lanzoni & Enrico Veronica al Vite di Nardò (Le) Bach ai Cantieri Koreja di Lecce Alexis Gideon al Teatro Kursaal di Bari

PUGLIA SOUNDS Nasce a Bari la Casa delle Musiche

È partito il viaggio di Puglia Sounds, il nuovo programma per il sostegno e lo sviluppo della produzione musicale della Regione Puglia, che sosterrà, appunto, nuove produzioni (non solo pugliesi), che aiuterà i musicisti a viaggiare nel mondo portando la loro musica (sono in partenza Nidi D’Arac, Sud Sound System e Apres La Classe) e farà arrivare il mondo in Puglia con concerti, incontri, dibattiti. Il 9 e 10 ottobre la nuova Casa delle musiche Puglia Sounds (per ora nel Teatro Kursaal di Bari in attesa della sede in allestimento presso la Fiera del Levante) è andato in scena Way To Blue/The Songs Of Nick Drake, un omaggio alla musica del cantautore inglese prematuramente scomparso nel 1974 a cura di Joe Boyd, produttore, oltre che di Drake anche di Pink Floyd, Fairport Convention, Rem e molti altri. Un viaggio intenso nella breve carriera di Drake condotto da tredici musicisti (compreso il contrabbasista dei suoi dischi) e da un parterre vocale di tutto rispetto composto da Vashti Bunyan, Green Gartside (Scritti Politti), Robyn Hitchcock, Teddy Thompson, Krystle Warren e Scott Matthews affiancati dagli italiani Roberto Angelini (già protagonista del disco tributo Pong Moon) e Violante

Placido (la voce più “debole” del concerto). Questo spettacolo (come gli altri finanziati) girerà in tour con la firma Puglia Sounds, un po’ come accade per le pellicole sostenute dall’Apulia Film Commission. Tra le prossime produzioni Vasco Rossi, Gianna Nannini, Anna Oxa, Daniele Silvestri, i Pooh, Emma Marrone e la giovane cantautrice Lucia Manca (a cura di Coolclub) che preparerà (dal 6 al 9 dicembre) e presenterà (il 10 al Teatro Comunale di Novoli) il suo nuovo spettacolo affiancata dal chitarrista, cantante e produttore Giuliano Dottori. La Casa delle Musiche proseguirà la programmazione (anche con spettacoli ospiti non finanziati di Puglia Sounds) sino alla fine di maggio. Nelle prossime settimane si esibiranno Folkabbestia (15 ottobre), Ana Moura (16), il pianista e compositore piemontese e Maestro concertatore della Notte della Taranta Ludovico Einaudi con il suo nuovo spettacolo Nightbook (25 e 26), tutti gli appuntamenti del festival TimeZones (in particolare i Tortoise il 18 novembre), Paolo Fresu e Uri Caine in Barocco in Pispisi (29 novembre) e molti altri appuntamenti. Tutte le info su www.pugliasounds.com (A.R.) 61


LA TARANTA NELLA RETE / FESTA FINALE Calimera e Melpignano (Le) 29 ottobre / 1 novembre

Dopo circa due anni di seminari, workshop, incontri d’autore, concerti, un concorso per giovani band e per tesi di laurea si conclude con una tre giorni il progetto culturale La Taranta nella Rete organizzato dal Comune di Melpignano (Le)

e dall’Istituto Diego Carpitella, a cura di Vincenzo Santoro (Responsabile Ufficio Cultura e Politiche Giovanili Anci) e Sergio Torsello (Responsabile Scientifico dell’Istituto Diego Carpitella). Venerdì 29 ottobre (ore 20.00 – ingresso gratuito) il Cinema Elio di Calimera ospita lo spettacolo Danzare col Ragno con Brizio Montinaro e l’Ensemble Terra d’Otranto preceduto da un’intervista di Sergio Torsello e Vincenzo Santoro all’attore e antropologo. Sabato 30 Ottobre (ore 18.00 – ingresso gratuito) presso l’ex Convento degli Agostiniani di Melpignano si terrà un seminario su Canti di lavoro e canto sociale in Puglia a cura di Gianni Amati. A seguire sarà proiettato il documentario Muretti a secco. Voci di Puglia di Francesco Sossio Sacchetti. La serata si chiuderà con lo spettacolo Memorie della Terra. Racconti e canti di lavoro e di lotta del Salento e con la presentazione

del libro/cd (Squilibri) tratto da esso. Lo spettacolo, di e con Vincenzo Santoro e numerosi musicisti, è una lettura “cantata” di alcuni racconti - tratti da una ricerca condotta a partire dalle testimonianze orali dei protagonisti della protesta delle tabacchine di Tricase del 1935. Lunedi 1 Novembre (ore 18 – ingresso gratuito) sempre a Melpignano la Taranta nella rete si conclude con la presentazione della Mappa Sonora a cura dell’Associazione Culturale Follevola, del dvd Musiki, a cura di Bigsur, del libro Sui patrimoni immateriali del Salento e del Gargano (Squilibri) e del cd allegato che racchiude invece quattordici brani delle band che hanno partecipato al concorso Note per la Notte. In chiusura concerto del Massimiliano Morabito Ensemble, guidato dall’organettista di Cisternino, che presenterà i brani del suo lavoro discografico Sendë nà rionettë sunà.

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