Raccolta dei racconti del concorso Cooperazione Noir 2013

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Cooperazione Noir 2013

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Quando il museo si tinge di «noir» Autori diversi

La raccolta dei racconti del concorso «Cooperazione Noir 2013»


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Quando il museo si tinge di «noir» Autori diversi

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Il racconto vincitore — Michèle Annen Corpi di gesso “Gennaio 1992-2012. A vent’anni dalla sparizione di cinque ragazze della nostra regione, si brancola ancora nel buio. Le giovani donne all’epoca avevano quindici anni, e i corpi non sono mai stati ritrovati; sono seguite numerose indagini, ma il caso rimane tutt’oggi irrisolto. Il municipio di residenza delle ragazze, su richiesta del sindaco, già presente all’epoca dei fatti, organizza una giornata in loro memoria.” L’articolo continuava con l’elenco dei nomi, corredati da fotografie, delle cinque ragazze scomparse. “Poverette”, pensò Max. “E pensare che una era proprio la figlia del sindaco”. La voce del bus che indicava la sua fermata interruppe i suoi pensieri, e lui si incamminò nell’aria frizzante del mattino. Max era al suo primo giorno di lavoro al Museo di Arte Contemporanea; era stato assunto come magazziniere in vista di una mostra di gessi che si sarebbe tenuta di lì a una settimana, e il museo ferveva d’attività. Si presentò puntuale al magazzino del museo, dove un camion stava scaricando casse di legno con la scritta “fragile” su tutti i lati. Max salutò i colleghi e cominciò a scaricare; una volta terminato il lavoro diede una mano ad aprire le casse. All’interno c’erano delle sculture di gesso bianco, le quali rappresentavano uomini e donne, splendidamente rifiniti nei dettagli; Max non era certo un esperto d’arte, ma cominciava a capire il perché di tanta pubblicità per questa mostra. I gessi erano il dono di un benefattore, il quale nella lettera di presentazione delle opere asseriva di aver trovato le sculture nella cantina di una vecchia proprietà che aveva appena acquistato. Il direttore ancora non credeva alla sua fortuna. Il museo esponeva spesso opere d’arte di un certo valore, in via temporanea, ma senza una mostra im-


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portante che risvegliasse la curiosità del pubblico gli affari non avrebbero promesso nulla di buono. I magazzinieri cominciarono a togliere l’imballaggio dalle statue e a portarle al piano di sopra, dove avrebbe avuto luogo l’esposizione. Max stava appunto sollevando una scultura con l’aiuto di un argano, quando un moscerino cominciò a ronzargli fastidiosamente attorno; spazientito, si distrasse un secondo, che bastò a fargli perdere il controllo, e improvvisamente si udì lo schianto dell’opera che si frantumava a terra. In un attimo calò il silenzio sui presenti. Max, superato lo stupore iniziale, si precipitò a controllare l’entità del danno, sperando in un miracolo. Ma quando giunse in prossimità del gesso in pezzi, sorpresa, e poi sgomento, si impadronirono di lui. A terra c’era il corpo di una giovane donna, ancora parzialmente ricoperto di gesso. Le implicazioni di quella scoperta gli erano chiare, doveva chiamare subito la polizia, ma non riusciva a muovere un muscolo: aveva riconosciuto il volto, sorprendenemente ben conservato, della donna. L’aveva visto per la prima volta quel mattino sul giornale. La polizia era sul posto, tutte le statue erano state distrutte e cinque di loro avevano rivelato i corpi delle ragazze, morte da ormai vent’anni. Max era seduto in un angolo del magazzino, ancora intorpidito dalla scoperta. Non riusciva a credere a ciò che aveva visto, e cominciava a rendersi conto che, se non fosse stato per la sua goffaggine, probabilmente i corpi delle donne sarebbero rimasti occultati per sempre. Chi avrebbe mai pensato di cercare all’interno di una scultura? C’era qualcosa di estremamente freddo e calcolato nella metodica dell’assassino, che a quanto aveva sentito dire dai poliziotti, prima aveva soffocato a morte le ragazze, per poi imbalsamarle e infine ricoprirle di gesso. Questi pensieri stavano divorando Max, che voleva solo andarsene, ma essendo lui il testimone chiave gli era stato chiesto di restare; quindi si alzò e decise di dare una mano. Si avvicinò agli uomini in divisa, e sentì che discutevano a proposito dell’unico sospettato, una donna che aveva vissuto


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nella proprietà, in seguito acquistata dal beneffatore del museo, all’epoca dei rapimenti; ma c’era solo un problema: la donna in questione, morta due anni dopo i fatti, aveva vissuto gran parte della sua vita su una sedia a rotelle, e non poteva certo aver rapito le ragazze ed essere scesa in cantina. Visto che le indagini erano a un punto morto, a Max fu permesso di andare. Voleva schiarirsi un po’ le idee, così optò per una lunga camminata; si avviò verso il vecchio nucleo del paese, che consisteva in una stradina acciottolata costeggiata da vecchie case su entrambi i lati. Immerso nei suoi pensieri, si addentrò sempre di più nel paese, fino a giungere alla casa dove tutto aveva avuto inizio. Era una dimora modesta come tutte le altre, e lui rimase lì a fissarla, forse aspettandosi che gli rivelasse il nome dell’assassino. Ma ciò non accadde, e presto cominciò ad avere freddo. Si girò per tornare indietro, quando notò la proprietà che si trovava proprio di fronte a quella della vecchia signora; c’era solo il viale acciottolato a separle. D’improvviso Max venne folgorato da un’idea, e tutto gli apparve chiaro: anche casa sua e quella di fronte avevano la cantina comunicante. Estrasse il cellulare dalla tasca e chiamò la polizia. Erano passate settimane dalla cattura del killer, ma lo scandalo aveva fatto sì che la notizia rimanesse in prima pagina per giorni, e i giornali ci andavano a nozze. Max cercava di tenersi aggiornato sulla vicenda, sentendosi in parte coinvolto, ma era difficile discernere tra realtà e pura invenzione; ogni testata giornalistica riversava sui lettori teorie di ogni tipo, alcune davvero assurde. La più accreditata restava quella di un padre, per qualche motivo arrabbiato con la figlia, che per nascondere la sua uccisione aveva rapito e ucciso altre quattro ragazze, per poi nasconderle nel gesso per sempre. Per sempre, se non fosse stato per lui. Max sorrise, e sfogliò il resto del giornale; l’occhio gli cadde su un trafiletto che avvertiva la popolazione delle imminenti votazioni. Era ora di procurarsi un nuovo sindaco.


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Paola Ghedini Gli occhi cioccolato Gli occhi cioccolato, lampi verdi quando si appassionava, e succedeva spesso, una di quelle donne che quando le vedi ti si impiantano dentro. Alta, bella, bella speciale, non il viso da bambola di porcellana, bella vera, con qualche difetto che te la rendeva umana, simpatica, empatica. Insegnava diritto. Tutte le mattine usciva di casa e si recava a scuola di corsa anche quando avrebbe avuto tempo per andare tranquilla, ma era fatta così, tranquilla era un aggettivo muto per lei. A scuola ci andava volentieri, i ragazzi le piacevano, insegnare le piaceva, le piaceva quel rumore di vita che permea le scuole, così piene di sogni e speranze, occhi che si interrogano sul futuro, sguardi da cuccioli, anche se i cuccioli sono belli grossi e le cucciole splendide star. Amava l’arte, adorava la pittura, si immergeva nei dipinti con occhi trasognati, sfogliava libri pieni di bellezza, perdeva il senso del tempo con un pennello o una spatola in mano. Il tempo e la gioia si fondevano insieme, trascendevano il qui ed ora, lei volava via sulle ali in un altro mondo. Ora la famiglia era meno pesante, le figlie cresciute avevano fame di spazi altrove, dove lei non veniva contemplata. Quando le era possibile quindi raggiungeva un museo e come una vestale vestiva panni diversi, lasciandosi ispirare dai colori, le immagini, i sogni e le opere di artisti che avevano avuto le vite più diverse, le visioni piu opposte. Lei era vorace, amava tanto e profondamente, immersa e sospesa nella sua aura interiore. Purtroppo il mondo invece la notava bene, e quando camminava con passo veloce non si accorgeva mai di nulla, soprattutto se persa nel suo mondo di arte. Non aveva mai sospettato di essere seguita, non aveva notato nulla di strano nella sua vita


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chiara. Non diffidente per natura, anche se era una persona prudente, non aveva timori di suscitare perversioni o malsane inclinazioni. Lo stalker era un ragazzo bruno, dai tratti forti e dalle mani lunghe, le dita affusolate. Gli occhi blu di un particolare tono intenso, faticavi a fissarlo a lungo, era una lama. Non aveva problemi con le donne, o almeno così era convinto, troppo affascinante per doversi affaticare alla conquista. Chi voleva aveva, famoso nelle discoteche per le sue numerose conquiste. Poi un giorno era passato dalla scuola e l’aveva vista. Quella signora così, così come? Così matura e così intensa, l’aveva vista colloquiare con i suoi studenti e maledizione quanto gli era piaciuta. Con una scusa un pomeriggio l’aveva fermata, ma aveva capito immediatamente che non era cosa, una così se la poteva scordare, mica era una delle solite belle signore in cerca di brividi caldi. Questa era una perbene, irraggiungibile, intoccabile, di una categoria a lui sconosciuta. Al momento si era preso un pò in giro, ma che vuoi bischero? Tu che te ne puoi fare a mazzi, che vuoi: questa qua che se la tira? E poi era successo l’inspiegabile. I sogni di notte, gli incubi di giorno. Andava al lavoro con la moto e lei era lì, infilata fra i cilindri. Lavorava fra i giovani colleghi e lei era lì, ne scorgeva il sorriso. Rientrava la sera nel suo appartamento silenzioso e lei era lì, ne vedeva lo sguardo. Era così che aveva incominciato a seguirla, svegliandosi prima la mattina per vederla raggiungere la scuola, ritagliandosi pause pranzo da solo per vederla rincasare, attendendo la sera sotto la sua finestra che uscisse per un impegno, o semplicemente aspettava lo spengersi delle luci nella casa.


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Sognando di poter esserle accanto almeno per un poco, per sentire il profumo dei suoi capelli. Un’ossessione. Ecco inspiegabilmente cosa era diventata. E non comprendeva il tarlo tagliente che lo feriva ogni giorno di più, sempre più in profondità. Soprattutto lo irritava il modo incurante in cui lei lo guardava quando lui aveva cercato di rendersi visibile ai suoi occhi. Un’informazione o una richiesta che si era trasformata in un invito gentile, tutto veniva accolto dapprima con corretta educazione e poi quando la cosa si era ripetuta aveva incontrato la sua freddezza ed il diniego. E qualcosa di molto strano era avvenuto in lui. Una trasformazione della quale non si dava spiegazione immediata. Non era uno disposto ai no. Non lo era mai stato. Da ragazzino un bulletto carino che amava provocare col suo fare impertinente, a volte maleducato. Si era poi trasformato in un giovane uomo che dava per scontate troppe cose, che aveva sempre avuto molto senza dover lottare troppo. E così dal desiderio di conquista negato si era fatta strada dentro di lui una malvagia forma di asserzione di potere. Il potere dell’uomo che non potendo ottenere l’oggetto del suo desiderio lo voleva con forza, chissenefrega in che modo, purchè fosse. Era facile seguirla quando si recava al museo. L’aria sua svagata, di chi si accinge a perdersi nella bellezza, nella cultura, ma lui come poteva raggiungerla? Solo fisicamente. Il museo a quell’ora del pomeriggio era semivuoto, le stanze si rincorrevano silenziose tra i capolavori del passato. Ed erano capolavori scaturiti dalle mani di un’artista, Artemisia, vittima anche lei di un uomo violento. Rilucevano imponenti le sue opere di Giuditta e Oloferne decapitato...


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La ritrovarono composta come un dipinto perfetto ma senza vita. La lotta era stata cruenta, si vedeva dalle dita di lei, belle mani insanguinate, congiunte nella morte avvenuta per strangolamento. L’abito sgualcito rimesso in ordine per coprirne le nudità. L’opera di un folle? L’ispettore incaricato del caso non faticò a trovare il colpevole. Vagava con occhi smarriti nei dipressi del luogo, chiedendosi perchè, perchè non si fosse arresa. E perchè in lui fosse scattato quel malsano desiderio di vendetta, di prevaricazione, di annichilimento, che gli aveva costretto le mani in una morsa d’acciaio intorno al bel collo di lei. L’ultima cosa che aveva visto era quello sguardo color cioccolato coi lampi verdi. Il suo invece rimase per sempre una lama d’acciaio blu conficcato nel muro di una cella in cemento.


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Giovanni Paolo Bortone Giallo alla sala delle Cariatidi Al teatro museo Dalì di Figueres, decisi che la mia aspirazione era di diventare un artista. Ne informai Mamma, e lei mi disse: - Un artista? A diciannove anni? Perché no, dopotutto? Gli occhi dei giovani sono così acuti! Si, è un idea meravigliosa. Allora devi andare a Parigi! È in quella città che ci sono gli artisti migliori. Due giorni dopo mi trascinò lei stessa all’aeroporto. Pianse un poco, mi baciò con grande effusione. Stammi bene, Vincent caro. Due ore dopo ero sistemato in un confortevole appartamento, che si affacciava sui giardini del Lussemburgo. Incontrai Christine al Bleu café. Anche lei come Mamma, pensava che i quadri migliori vengono dipinti a Parigi. Questa era la mia situazione quando morì Anna Rossini io, e Christine si stava andando al cinema Super: vi proiettavano una fra le prime pellicole di mamma. Passammo accanto a un tale che stava leggendo Paris Soir. Da dietro vidi un titolo di testa: LA DIVA ANNA ROSSINI MUORE IN SEGUITO AD UN MALORE CADENDO DALLE SCALE. La notizia della morte di Anna mi colpì. Non da addolorarmi, forse, perché ai ricevimenti, per quanto ricordavo, Anna, era sempre ubriaca. E quando mi vedeva, virava verso di me ondeggiando pericolosamente, e stringendomi contro il suo esuberante seno, tubava: Vincent! Il bambino di Dana! Non è una bellezza? Io me lo mangerei! Cosa che mi faceva venire la pelle d’oca. Ma, Anna era pur sempre la prima persona di mia conoscenza che fosse morta, e questo aveva la sua importanza. Inoltre, Anna e suo marito erano amici intimi di Mamma. Così poco dopo, eravamo, seduti intenti a guardare il primo film: Gelo dell’anima. L’aveva proiettata dalla fame alla fama, girato diciotto anni prima, era il suo unico film francese. Mentre Christine si sdilinquiva enfatizzando la potenza di espressione, e la misura dei gesti, io guardavo la mamma senza fare a meno di pensare ad Anna che cadeva in modo tanto brutto da morire. Una sensazione spiacevolissima, proprio per la presenza sullo schermo di una madre che stava


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scegliendo se farsi monaca o continuare ad essere una donna misteriosa nata a Belgrado. E pensare che prima di partire Aldo Can si era innamorato di Mamma come un ragazzino, e visto, che la carriera di Anna era in netta fase discendente il fatto che suo marito avesse preso una sbandata per la sua più vecchia e più cara amica non la rese particolarmente felice. Mentre mamma mi guardava dallo schermo io immaginavo scandali paurosi. I miei nonni materni erano acrobati svizzeri, e la mamma è nata fra i bauli in Romania o Bulgaria il che la faceva svizzera, o romena, o bulgara, secondo come le capitava. Il produttore Aldo Can aveva annunciato il ritorno sul grande schermo della moglie Anna in un film ispirato alla vita di Nina Lenclos. La diva è morta alla Mostra di quadri, disegni ed oreficerie di Salvador Dalì alla sala delle Cariatidi. L’astuto e pratico Aldo, puntava 60 milioni su una dubbia riaffermazione di Anna? Che cosa poteva averlo convinto a fare una speculazione del genere? Christine chi è Nina Lenclos? – domandai per tutta risposta. – Nina Lenclos è stata una delle più famose cortigiane francesi. Quanti anni aveva ? Anni? Secoli, vorrai dire. Intorno ai novanta era ancora subissata dagli ammiratori. Un pensiero orribile mi attraversò la mente. Adesso che Anna era morta, chi l’avrebbe sostituita nel ruolo della cortigiana novantenne? Anni prima, nel mio affetto per Mamma avevo stabilito che lei fosse capace di qualsiasi cosa. Arrivò il mattino. Il telefono squillò. Pronto - risposi . – Caro, sono Mamma devi immediatamente tornare a Milano. Sentii accapigliarsi in me sensazioni forti. Lasciare Parigi, e Christine? Proprio quando cominciava la vita! - Sono terribilmente dispiaciuta ma è troppo complicato spiegarti. Arrivato a casa, mi fermai un attimo davanti alla porta. Sentivo in me eccitazione, e disagio come un ragazzino che ha combinato qualche guaio. Mamma se ne stava sul letto ricoperto di giornali. Tutta raggomitolata intenta a leggere un soggetto cinematografico. Accorgendosi che era entrato qualcuno, e vedendo che si trattava di me, rinchiuse il copione, e sorrise beata. – Vincent, caro! - risposi Perché non mi hai detto subito tutto? Si può sapere che cosa è successo? – Ma,Vincent! Non si è saputo in Francia della povera Anna?


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Oggi pomeriggio c è il suo funerale. Tu non potevi mancare! Mamma mi consideri un aggeggio indispensabile per la grande scena del funerale? Anna era nostra amica. Una cara, vecchia amica. Questa è una tragedia! Stavo pensando. - incominciai. – Pensando cosa? – Che potrebbe nascere un grosso guaio, visto che Aldo è innamorato di te. Vincent caro, Aldo non è innamorato di me. Quello che Aldo prova per me è soltanto un dolce affetto del tutto innocente. Il mattino seguente trovai una lettera sotto la porta della mia stanza. “Carissimo Vincent può darsi che tu non riesca a credere quanto sto’ per dirti, ma sei rimasto ingannato dalla falsa apparenza di quell orribile uomo che è mio marito, e di quella stagionata attrice svizzera . Ti prego di considerare come Vangelo ciò che saprai, e di rivelare al mondo la vera natura di questi due inconcepibili mostri. Mio marito non si è limitato a imbrogliare il governo per anni, ma adesso sta tramando di concludere assieme a Dana il più criminale accordo con la ESH Cinema –TV, cosa che gli frutterà alcuni miliardi. Non occorre che ti dica che questi introiti, non verranno dichiarati al fisco. Per quanto riguarda Dana, non solo ha cercato in tutti i modi di portarmi via mio marito e la mia parte di Nina, ma ci sono sul suo conto da far gelare il sangue nelle vene. Lei sa, che io so, e sa che tenterò di dirtelo. Sono terrorizzata lei è spietata, e niente la fermerà. Vincent caro, ho paura che mi stiano avvelenando come hanno fatto con Socrate. Le prove sugli affari di Aldo, e le informazioni su Dana, sono sigillati col testamento dall’avvocato P. Succinto, Via Caio Cassio 13. Tu sei l’erede universale. In fede: Anna Rossini.


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Daniele Lazzarini Sola Se non altro, intuiva tutto ciò che accadeva intorno a lei e udiva le domande che gli venivano poste, anche se non riusciva a dare alcuna risposta. La vita l’aveva sempre terrorizzata, ma la voglia di ricchezza e potere la metteva in ogni momento alla prova. Ed ora eccola lì, sola in una piccola stanza a lottare nella battaglia più dura, contro il nemico più temibile. Un raggio di sole, l’ultimo della giornata, illuminava la parte più intima della camera, dove in un vaso si trovavano i fiori che a lei piacevano più di ogni altra cosa, le margherite. Molte persone entravano ed uscivano ordinatamente dalla sua stanza. Lei le osservava, ma non riusciva malgrado tutti gli sforzi a comunicare con loro. Alcuni volti gli apparivano familiari e giurava di averli già incontrati, ma la stragrande maggioranza risultava estranea alla sua memoria. Si ripromise che, a battaglia finita, avrebbe fatto di tutto per conoscerli. Lei che fino a poche ore prima si sentiva potente, invincibile e che mai e poi mai avrebbe osservato la gente attorno a lei in questo modo, ora si sentiva sola, indifesa, vulnerabile. D’altronde al museo Arni Magnusson di Rykjavik più di una volta, da buona islandese, c’era stata e la commissione ricevuta da un grande magnate della finanza inglese e collezionista di antichi manoscritti medievali, la stimolava. Avrebbe dovuto rubare il Flateyjarbok (libro dell’isola piatta), prezioso manoscritto miniato che raccoglie la maggior parte delle saghe dei re norvegesi. Inoltre il suo amico Alsir, addetto alle pulizie del museo l’aveva informata sui sistemi d’allarme. Trentasette minuti. Tanto sarebbe dovuto durare quest’ultimo lavoretto, un affaruccio che l’avrebbe fatta diventare ricca. Dopotutto il coraggio non le mancava. Aveva pianificato ogni se-


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condo dell’azione, ma un inconveniente dell’ultimo minuto l’aveva spiazzata. Un volto conosciuto, la sua compagna di scuola Hildur, rivista ora dopo tanti anni e della quale, sua unica colpa, era quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. In un’altra circostanza l’avrebbe abbracciata, baciata e avrebbero trascorso alcune ore a ricordare i momenti vissuti insieme, ma ora non era possibile. Adesso non era più sua amica, l’aveva sorpresa a rubare il prezioso manoscritto e l’altro sorvegliante dietro di lei le aveva intimato di posare il prezioso documento. Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, un colpo sordo. La sua amica e nemica si accascia per terra. Lei, la coraggiosa, si dilegua, scappa in direzione della sua casa. Tutto il suo coraggio svanisce nel nulla. È appena stata riconosciuta e ora? Vaneggia e in preda al delirio, la sfiora il pensiero di farla finita, ma non ne ha il coraggio. Poi è di nuovo lucida, spietata, anche se il terrore l’attanaglia in una morsa. Loro la staranno sicuramente già cercando. Conoscono il suo nome e presto arriveranno... eccoli, li sente... Poi... più nulla... un muro. Dal suo letto cerca ancora di farsi sentire dai dottori che in camice bianco le girano attorno, ma non ci riesce. È immobile eppure vede tutto. Cerca di farsi coraggio. È solo prigioniera della sua mente e non riesce ad uscire da essa. Ha paura, sente tutto e vede tutti. Loro non la sentono. Cerca di convincersi che la battaglia non può finire adesso, così, da sola. E pensare che doveva essere la sua ultima rapina.


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Emanuele Ganser UN CURIOSO ORSO BIANCO Ero appena stato da nonno Peter, un uomo che aveva fatto la guerra, vero tedesco ma scuro di capelli. Ogni volta mi raccontava di affascinanti avventure passate, quando il cielo era nero dal tanto fumo che lasciavano gli aerei della Luftwaffe. Quella volta in particolare, mi raccontò di come era riuscito a salvarsi la pellaccia aiutandosi con un coltellino che teneva sempre nella tasca destra dei suoi vecchi pantaloni. Così, dopo un lungo formale discorso, decise di regalarmi quel coltellino ‚‘da portare sempre con te, anche quando io non ci sarò più‘‘ disse. Lo presi e lo mostrai con orgoglio a tutti gli amici di scuola. A dire il vero però gli amici non erano molti, e nemmeno i compagni lo erano: vivevo in un paesino di montagna di 300 abitanti sparsi qua e là tra le colline. L‘unica cosa veramente speciale nel paese era il museo di scienze naturali, forse anche l‘unico punto d‘orgoglio del nostro sindaco. Vi erano una cinquantina di animali imbalsamati, forse anche di più, tra cui un bellissimo orso bianco che era diventato il simbolo del museo e anche il simbolo del paese. Il guardiano del museo era il fierissimo signor Beschini, italiano medio, fronte stempiata e occhi scuri, era anche il sarto del paese. Lavorava al museo e in parallelo gestiva la piccola sartoria di famiglia, la ‚‘Beschini stoffe e ricami‘‘ dove lavoravano i suoi due figli. Con l‘arrivo di un nuovo compaesano, le già poche visite diminuirono ulteriormente. Abitava proprio nella vecchia casa accanto al museo, si diceva che fosse venuto qui perchè in città non era benvisto. In effetti questo strano signore era solito picchiare la moglie, povera donna lei, che non poteva nemmeno uscire di casa. Il punto è che la casa in cui il farabutto viveva, aveva delle grosse finestre che si affacciavano sul museo, e chi si avviava da quelle parti poteva scorgere ciò che accadeva dentro la casa. Ecco perchè nessuno voleva più visitare il museo. E‘ vero, le voci in


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un piccolo paese volano come i pollini in primavera, ma questa volta nessuno voleva impicciarsi. I panni sporchi si lavano in casa e ai panni altrui ci pensano gli altri. Tutto proseguiva come sempre, zio Sergio curava le galline e la mamma aveva ripreso a dipingere, la vita era monotona ma tutto sommato piacevole. Un giorno qualcuno bussò alla nostra porta, bussò piano e poi più forte. La mamma andò ad aprire: era la polizia. Cominciarono a farci domande sul signor Maier, così si chiamava quell‘uomo che abitava affianco al museo, quello che picchiava sua moglie. Era sparito. Non era mai capitata una cosa del genere in paese e tutti ne parlavano. Dopo qualche settimana di inutili ricerche la confusione cessò e si smise di preoccuparsi del signor Maier. La vita tornò al solito ritmo, la signora Maier aveva persino cominciato a passeggiare nel nucleo del paese, ad andare a messa la domenica e le visite al museo tornarono quelle dei tempi migliori. Di quando in quando il signor Maier mi tornava in mente. Un pomeriggio mi fermai al museo, Beschini fu gentilissimo e mi fece fare l‘intero giro del museo dicendomi per l‘ennesima volta i nomi di tutti gli animali e spiegandomi da che parte del mondo venivano. Amavo gli animali imbalsamati, zio Ernesto li collezionava. L‘unica cosa che Beschini non mi fece vedere però era l‘orso bianco, ‚‘stanno ritoccando gli occhi, sarà pronto tra qualche settimana‘‘ mi disse. Quella notte sognai di volare, se non vi è mai capitato ve lo auguro di cuore, è una sensazione bellissima. Ad un certo punto però mi svegliai di sobbalzo e non riuscii più a riprendere sonno, nessun altro sogno avrebbe potuto competere con quello. Decisi di uscire, era estate e faceva caldo, molto caldo. La notte era nera e silenziosa. Decisi di fare una visita segreta al museo, l‘avevo già fatto prima non era poi così difficile: bisognava arrampicarsi sul balconci-


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no e poi bastava sporgersi fino a raggiungere la maniglia della grande finestra, quella che Beschini teneva sempre socchiusa per arieggiare. Distesi ancora un pò il braccio e voilà il gioco è fatto. Ero dentro. La in fondo c‘era il grosso orso, dietro ad una tenda bordeaux. Mi avvicinai ancora e lo fissai negli occhi, erano quelli di sempre. Lo accarezzai e lo guardai nei particolari. Sotto al muso vi era un taglio richiuso per mezzo di grossi punti di sutura, ma non era come quelli delle bestie di zio Ernesto, era molto più irregolare e interrotto a tratti, la pancia leggermente deformata. Volevo capirci di più e sapevo quel che stavo rischiando, ma la curiosità di un ragazzino non ha limiti. Misi la mano in tasca e ne trassi fuori il coltellino di nonno Peter. Cominciai a togliere i punti col coltellino, ma quanto era dura quella grossa pelle! Un odore penetrante, fetido e nauseabondo mi avvolse, e con me tutta la stanza. Finito di togliere i punti dall‘interno del grosso orso uscirono i resti non ancora completamente putrefatti del signor Maier. Vomitai sul pavimento cena, pranzo e colazione. Non pensavo nemmeno di aver mangiato tanto. Ecco l‘avevo trovato, il signor Maier. Dietro le mie spalle c‘era il signor Beschini, che mi fissava con aria seria e minacciosa. Doveva avermi visto entrare. Non avevo paura, lo conoscevo era un brav‘uomo non mi avrebbe fatto del male. Stranamente non ebbi l‘istinto di scappare, forse ero paralizzato dallo schifo. Dentro di me cominciò a crescere un senso di rispetto nei confronti di quel guardiano tanto gentile. Del resto non aveva poi fatto niente di così terribile. Era un gesto d‘altruismo il suo, aveva tolto dalla circolazione un criminale e aveva salvato una donna da una vita da reclusa e maltrattata. Oppure il suo scopo era soltanto quello di riportare il suo museo agli antichi splendori, toglierlo da quell‘ombra di negatività nel quale era caduto con l‘arrivo di Maier in paese. La verità non mi importava. Lo fissai con fermezza come lui faceva con me e dissi ‚‘non si preoccupi signor Beschini, la aiuto a rimetterlo dentro, nessuno lo scoprirà‘‘.


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Mauro Fasola Ebbi appena varcato la soglia dei bagni siti al pianterreno della vicentina galleria palladiana quando scorsi per terra un braccio uscire da sotto la porta di un gabinetto, non completamente rinchiusa: era quello di un’adolescente di colore, che teneva stretto nell’altra mano un piccolo sacchetto di plastica strappato . Respirava ancora; chiamai immediatamente gli addetti alla sicurezza affinché provvedessero a far venire un’ambulanza. Restai accanto al giovane fin quando non fu caricato sulla lettiga. Dovetti in seguito testimoniare dell’accaduto presso la polizia comunale del capoluogo. Purtroppo mi avvisarono, pochi giorni dopo, che il poveretto non ce l’aveva fatta. Ma come si fa a morire così, nella latrina di un museo, a quell’età? E perché? Gl’ interrogativi sono sempre gli stessi; le risposte, a volte banali, si assomigliano un po’ tutte. Nel sacchetto che teneva stretto nella mano destra si trovava della droga: cocaina, credo, che forse avrebbe dovuto servirgli per sbarcare il lunario spacciandola a peso d’oro. Ormai Omar, così si chiamava, non c’era più. L’unica soddisfazione era quella di poter collaborare alla scoperta dell’assassino. Giocai così a fare il poliziotto, stando sempre a disposizione delle forze dell’ordine ma desiderando anche condurre un’inchiesta mia, basata sulle poche immagini che avevo impresse nella mia mente dopo l’allucinante scoperta. Ho sempre taciuto, ad esempio, di aver trovato, assieme al sacchetto, un piccolo amuleto, apparentemente d’argento, raffigurante una racchetta da tennis. Non l’ho raccontato alla polizia, chissà, forse perché non mi sembrava cosa importante, forse perché in cuor mio volevo serbare qualcosa di personale da quell’orribile avventura.


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Iniziai quindi parallelamente ad indagare sul fatto partendo proprio da quella piccola racchetta in metallo che ora custodisco gelosamente nel cassetto del mio comodino. Logico andare al locale circolo del tennis e chiedere se mai avessero conosciuto quel poveretto di cui ormai tutti i giornali parlavano. Il mio stupore fu grande nel venire a conoscenza del fatto che Omar lavorò per un certo periodo proprio come raccattapalle al locale club tennistico. L’amuleto gli venne quindi regalato da qualcuno dei soci del club? In compenso di quale favore? In paga di quale subdolo mestiere? Parlando con gli addetti alle pulizie degli spogliatoi capii che Omar era un ragazzo ben visto; i clienti gli volevano bene e alcuni lo chiamavano anche a casa loro per delle piccole faccende domestiche. Si trattava ora di conoscere proprio queste persone. Riuscii ad ottenere un incontro con un paio di loro, facendomi passare per un rappresentante di oggetti in peltro, e pubblicizzando i miei prodotti; naturalmente nulla interessò ai potenziali clienti, ma questi colloqui mi permisero di capire che una signora di mezza età dall’aspetto molto giovanile, e direi piuttosto altezzosa, mostrò un certo imbarazzo quando le feci vedere, fra il campionario degli oggetti in vendita, una racchettina metallica. Ebbe come un sussulto: insomma, quella visione non le fu del tutto priva di significato. Presi alcune informazioni sulla signora: giovane vedova, dedicò tutta la sua vita al tennis. Giocatrice di scarso valore, si iscriveva ad ogni torneo e, non riuscendo a vincere con il talento, cercava di ottenere i risultati con il doping. La conoscevano ormai tutti al club: dicevano quasi per ridere che “quella si bombava” quando vinceva alcune partite dei campionati regionali. Non era mai doma e quando otteneva le sue vittorie era perché riusciva a portare allo sfinimento tutte le sue più giovani avversarie. Capii che la droga c’entrava in quelle strane vittorie. Ne infor-


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mai la polizia dicendo che avrebbero dovuto indagare presso quella vedova e probabilmente avrebbero anche trovato qualche traccia per scoprire l’assassino del giovane Omar. Si venne poi a sapere che il convivente della signora, in un momento di difficoltà finanziaria, volle strappare al giovane la droga richiesta senza pagare il dovuto. Omar fece resistenza e si arrivò così alla tragedia. Non feci mai menzione della racchettina metallica. La tengo ancora gelosamente custodia nel comodino. Sono però felice di aver contribuito a fare chiarezza su un bruttissimo caso nel quale, purtroppo, ha perso la vita un giovane che avrebbe certamente meritato di vivere più a lungo.


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Andrea De Vittori CARO DIARIO … 11 settembre 2001. In un gelido pomeriggio estivo, un uomo entrò nella sua stanza. Esso sapeva cosa voleva ed estrasse un diario dal suo concio armadio. Un libro piuttosto ben tenuto, se paragonato al locale in cui si trovava. Lo aprì e cominciò a sfogliarlo con gioia, come se gli ricordasse un fantastico giorno della sua vita. L’uomo, giovane d`età, quarant`anni al massimo, cominciò a leggere il diario ad alta voce. Il caos quotidiano di una città, in quella stanza proprio non si sentiva. Le prime frasi pronunciate erano: -Ieri mi è successa una bella cosa.- Il quarantenne allora parlò assai velocemente: -Lo dicevo a Mario, che era una pessima idea, eppure lui l’ha voluto fare!- Il posto poteva essere attraente, lì c`era quello che cercavamo!- - Però, da piccolo sentivo delle brutte storie su quel posto e se Mario mi avesse ascoltato le cose sarebbero finite diversamente.- mugugnava con tono triste. Finalmente dopo altre affermazioni, io capii. Quell’uomo aveva commesso qualcosa ad un museo. Io, timido come un topo alla vista di un serpente, restai nascosto e ascoltai attento. Vidi contro luce una cicatrice fresca sulla sua faccia. Quando però riprese il racconto, non ci feci più caso. - Era stato organizzato nel modo giusto!- esclamò e poi anche - Nei giorni precedenti c`eravamo ben informati.- Io, dalla mia postazione nascosta udivo tutto. Capii pure, da un’esclamazione, che Mario era fratello del personaggio che parlava ad alta voce. Sentivo, che i due erano riusciti a entrare nel museo, proprio all’ultimo istante, dopo il loro lavoro. Segui un lungo e freddo minuto di silenzio. Poi ad un tratto urlò: - Lurido schifoso, poliziotto malato, vorrei vederti io nella mia situazione!-


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Cosciente dell’urlo, riabbasso immediatamente la voce e si guardò in giro sospettoso. Vidi io, che stava guardando dei bellissimi quadri e la fotografia del fratello morto. Ammirava pensieroso quella fotografia e disse: -Ora ucciderò suo fratello: proprio come lui ha fatto con il mio!Si alzò, estrasse una lama e si avviò verso la porta. Io mi spaventai e feci un urlo: avevo capito tutto! Mi resi conto di ritrovarmi involontariamente informato di un’intenzione criminale. Il criminale stava per andare a giustiziare con un coltello il poliziotto che aveva ucciso suo fratello. Lui sentì il mio urlo. Guardo un attimo e mi trovò. Impugnò il coltello e me lo scagliò contro. Poi se ne andò. Arrivò anche la mia ragazza. Piegò velocemente le sue dolci gambe e mi osservò. Mi vide ferito e chiamò immediatamente un’ambulanza. Per le gravi ferite alla mia gamba, ma specialmente alla mia mente, entrai in coma. Ora mi trovo una clinica psichiatra, con il terrore dei musei, con la ragazza che mi ha lasciato e con la convinzione che la mia esperienza non era solo una finzione.


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Franco Dellea Morte a Villa dei Cedri In una calda giornata di fine settembre si inaugurava , a Villa dei Cedri a Bellinzona, un’importante mostra di pittori ticinesi del periodo tra fine ottocento e inizio novecento. L’occasione era di quelle importanti sia per gli appassionati di arte sia per coloro che, più che ammirare i quadri, partecipavano solo per farsi ammirare. Poiché le elezioni cantonali erano previste nella primavera successiva, alla mostra si notavano anche parecchi politici. Lauro Portoni, avvocato e membro del Gran Consiglio nonché sindaco di un paese della Valle Leventina, non perdeva l’occasione, tra un paesaggio di Filippo Franzoni e un ritratto di Luigi Rossi, di stringere mani ed elargire sorrisi. Fu visto lasciare la mostra verso le sedici e dirigersi da solo verso il parco della villa. La mattina dopo fu ritrovato da un’impiegata del museo, accasciato in un’aiuola, morto da parecchie ore, senza portafoglio e senza telefono. “Cui prodest?” “A chi giova ?” “Chi trae vantaggio da questa morte ?” Era questa la domanda che si poneva l’ispettore di polizia Gino Roveri in casi del genere. Quindi, pur indagando anche nella direzione dell’omicidio a scopo di rapina – pista che i giornali domenicali indicavano come la più probabile accusando come al solito immigrati e richiedenti d’asilo - , decise di approfondire la situazione all’interno della cerchia famigliare. Dall’indagine dell’ispettore risultò che l’esimio avvocato, capo gruppo in Gran Consiglio, sindaco, presidente del Patriziato e


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del Consiglio Parrocchiale non era esattamente la persona integerrima che aveva sempre sostenuto di essere. In polizia furono convocate per essere interrogate formalmente due persone. Carla, la moglie di Lauro Portoni e Giorgio Barzi cugino della vittima da poco rientrato in Ticino dopo un lungo periodo passato in Canada. La moglie ammise senza difficoltà di avere avuto da poco le prove, da un investigatore privato, che il marito la tradiva da tempo con una donna di 25 anni più giovane di lui. Aveva intenzione di divorziare e, se possibile, di rovinarlo sia economicamente che politicamente ma non lo aveva certo ucciso. “ Quel porco non vale 20 anni di prigione” aveva detto testualmente. Il cugino negò di aver visto il Portoni quella domenica dicendo di essere andato, da solo, a passeggiare in montagna. Ma quando il commissario gli mostrò la fotografia di un’impronta, trovata vicino al cadavere, che mostrava un curioso logo a forma di foglia di acero a tre punte, che corrispondeva esattamente a quello sulla suola dei suoi stivaletti canadesi, il Barzi capitolò e confessò tutto. Giorgio Barzi disse di essere rientrato da pochi mesi in Ticino, per motivi di salute, dopo più di 40 anni passati in Canada. Non aveva voluto tornare ad abitare al paese natio in Valle Leventina, un po’ perché la sua partenza di tanti anni prima era stata piuttosto burrascosa per una storia di donne e un po’ perché si vergognava di non essere rientrato in Ticino ricco sfondato, quindi si era sistemato a Bellinzona. Aveva sempre pagato i contribuiti AVS anche dall’estero perciò aveva diritto alla pensione minima che, assieme a qualche risparmio, gli permetteva di vivere anche se non certo nel lusso.


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Una sera aveva incontrato un suo vecchio compagno di scuola che, tra un bicchiere e l’altro, gli aveva chiesto come mai restasse a Bellinzona invece di abitare nella sua casa in valle. Il Barzi cadde dalle nuvole. “Quale casa ? Chiese all’amico. Lui non aveva niente. La vecchia zia Angiolina, malgrado le promesse, aveva poi finito per lasciare tutte le sue proprietà al cugino Lauro che, come notaio, si era premurato di fargli avere copia del testamento . Eppure, sostenne l’amico, in paese tutti sapevano che la zia Angiolina aveva diviso le sue proprietà in parti uguali tra i due cugini. Proprietà che, oltre alla casa di 2 appartamenti , comprendeva il vigneto che era stato affittato ad un noto produttore di vino della zona e più di 10’000 metri quadri di terreno in pianura. Terreno che molto opportunamente era entrato in zona edificabile un paio di anni dopo la morte della zia grazie ad una modifica del piano regolatore voluta proprio dal sindaco Lauro Portoni. Inoltre, aveva continuato l’amico, lui stesso aveva sentito dire dal notaio Portoni che amministrava anche la parte del cugino Giorgio che viveva in Canada.

C’era voluto un po’ di tempo per sentire amici e conoscenti in paese ma alla fine il Barzi si era convinto di essere stato truffato.

Non aveva ancora deciso come agire nei confronti del cugino quando, per caso, se lo era trovato davanti nel Parco di Villa dei Cedri quella domenica. Lo aveva affrontato dicendogli che, se non gli avesse restituito la sua parte di eredità, lo avrebbe mandato in galera. Il Portoni gli aveva riso in faccia dandogli del pezzente e scatenando l’ira del Barzi che lo aveva afferrato per il collo.


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A questo punto Giorgio Barzi giurava di aver stretto il collo del cugino solo per pochissimo tempo prima di rendersi di conto di quello che stava facendo e di mollare la presa. Ma il cugino sebbene senza piĂš costrizioni aveva continuato a respirare affannosamente e, portandosi le mani al petto, era crollato a terra. Dopo aver costatato che il cugino era morto il Barzi, preso dal panico, gli aveva tolto il portafoglio e il telefono, per far credere ad una rapina, e si era incamminato verso casa.

L’autopsia aveva poi rivelato, in seguito, che Lauro Portoni non era morto per soffocamento ma a causa di un infarto. Era in pratica morto per la paura di morire o, forse, era stato ucciso dal senso di colpa e dal rimorso.


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Mariangela Rosiello-Agnola Cane morto Racconto del custode del museo che risponde al giudice Sì, sono stato io a trovare il filo metallico e la corda. Come ogni mattina ho acceso le luci, aperto le imposte e fatto una ronda. La faccio sempre, perché di questi tempi non si sa mai… Dove li ho trovati? Nella sala 4, quella a nord dell’edificio. Il filo metallico va da una parete all’altra ed è ancorato al muro grazie a due ganci a forma di uncino. Non immagina la fatica che ho fatto a fissarli, perché le mura sono vecchie quanto il museo! La corda, invece, serviva per tenere legata quella povera bestia. L’artista non era d’accordo, lui voleva solo filo metallico. La corda toglieva forza al suo pensiero, così mi aveva detto, ma ho fatto di testa mia! Almeno quella povera bestia si poteva muovere senza strozzarsi! Non era lunga quanto avrei voluto, ma cosa vuole, ho dovuto trovare un compromesso. In che condizioni era tenuto il cane? Se non fosse stato per me che gli davo un po’ d’acqua e gli avanzi della mia cena, sarebbe morto molto prima! Lo facevo di nascosto, ovviamente. Come portarlo a fare i bisogni. Comincio presto a lavorare perché non mi servono troppe ore di sonno e perché… non ho altro da fare! Mia moglie è morta: Rosa, pace all’anima sua! Se ho notato qualcosa di strano? In effetti no. La lattina con la “cacca” dell’artista era al suo posto. Sul piedistallo. Ho detto “cacca” perché non mi piace usare quell’altra parola… Cosa penso dell’artista? Le dico solo questo: - perché di arte non capisco niente e non posso certo giudicare i lavori dei cosiddetti artisti - sulla parete di fronte a quella povera bestia, ha insistito per farmi appendere un’immagine di un cane, con delle ali che gli spuntavano dalla schiena e un’aureola sopra il capo! Cosa c’entra? Per me è chiaro: è stato lui!


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Racconto di un bambino che risponde al giudice Non è che se parlo le devo restituire i soldi? … ho portato io il cane al museo! Perché? Un amico, di un amico, di un amico, mi aveva detto che qualcuno stava cercando un cane: zoppo, malnutrito e vecchio. Dove abito io ce ne sono molti e ho pensato che era un modo come un altro per guadagnare un po’ di soldi. Se sono stato pagato? Certamente! Quando sono arrivato al museo, che era il posto dove questo amico, di un amico, di un amico mi aveva detto di portare il cane, ho trovato quell’uomo, quell’artista di cui parlano tutti. Quando mi ha visto insieme al cane, mi ha sorriso come se gli avessi portato una torta al cioccolato! Poi mi ha fatto vedere tutte quelle cose che sono dentro al museo e per ogni cosa mi ha raccontato, di cos’era fatta e altre cose che non ho capito molto bene. Non ero mai entrato in un posto come quello e non osavo interromperlo! Poi, quando ormai non c’era più nulla da vedere, il mio stomaco ha borbottato. Era da un giorno che non toccavo cibo e lui mi ha offerto il pranzo e mi ha pagato per il cane!

Confessione dell’artista Se è vero che avevo legato un cane ad una corda? Sì è vero. La mostra è aperta al pubblico solo un paio d’ore al giorno e il cane restava legato per quel lasso di tempo soltanto. Perché? Il mio intento é quello di far riflettere le persone! La voce che al museo ci fosse un cane incatenato e lasciato morire di inedia era girata in fretta e aveva attirato molta gente. Questi curiosi, visitando la mostra, vengono costretti a pensare attraverso le mie opere e con l’ausilio di immagini e di scritte li conduco per mano a scoprire quello che sono in realtà: degli ipocriti! Cosa intendo dire? La gente fa la fila per vedere o indignarsi per un cane che viene messo a morire di fame, ma gira la testa per la strada di fronte alla stessa scena! Lei come li definirebbe?


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Racconto del direttore del museo che risponde al giudice Se c’era un cane? Certo che c’era un cane! Era stato adottato dai dipendenti del museo. Inizialmente mi ero opposto. Temevo che passata l’euforia iniziale nessuno si sarebbe occupato di lui. I dipendenti hanno insistito e ho concesso loro un periodo di prova. Scaduto tale periodo mi sono reso conto, non solo che si prendevano amorevolmente cura di lui, ma del fatto che avesse suscitato un certo interesse mediatico e lei sicuramente saprà, quali difficoltà affronta la cultura oggi in termini finanziari! L’interesse dei media scatena la curiosità della gente e di conseguenza il nostro cane e il nostro museo, avevano acquisito un folto numero di nuovi visitatori. Qual era lo stato di salute del cane? Buono! Se il cane risulta scomparso? Purtroppo sì. Una mattina semplicemente non c’era più! Se è vero che all’interno del museo ci sono un filo metallico e una corda? Sì, certamente! Si tratta di un’opera concettuale in mostra. In che senso? L’artista è di una certa caratura e il suo pensiero provocatorio è il filo conduttore dell’intera mostra!

Racconto del cane Rango, ehilà! Come ti butta Ercole? Io sto benone, tu che mi dici amico, mi era giunta voce ti avessero catturato? Sì, in effetti quel moccioso è stato veloce e con la mia povera zampa, non ho avuto scampo… Ti fa molto male? Dipende, quando cambia il tempo o quando non riesco a trovare del cibo decente! Le mie vecchie ossa sono diventate troppo sensibili e deboli. A chi lo dici! Anch’io con la mia cataratta ho dei seri problemi: l’altro giorno, un camion, mi ha quasi investito! Nonostante i nostri acciacchi siamo ancora qua, eh Rango! Hai proprio ragione amico mio! Dimmi, come hai fatto a fuggire? Da solo non ce l’avrei mai fatta! Avevo perso le speranze. Ogni giorno vedevo gente nuova, che mi fissava, ma nessuno si è mai degnato di avvicinarsi. Finché è arrivata una donna. Era bellissima e gentile. Mi ha accarezzato a lungo e mi ha fatto davvero piacere! Era passato tanto tempo


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dall’ultima volta! Poi mi ha sollevato il muso, mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: ciao Rango, adesso ti libero. E tu cos’hai fatto? L’ho leccata, non potevo andarmene senza prima averla ringraziata! Già, che brava donna! Pensa che non l’avevo mai vista prima, so solo che si chiama Rosa.


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Isabella Alder Il museo dei ricordi Quel giorno mi ero svegliato nervoso, la sera prima mi ero addormentato con la pioggia e io odiavo il ticchettio della pioggia sulla finestra. Risvegliandomi lo sentivo ancora. Fortunatamente quella mattina c’era molto lavoro da sbrigare, i cattivi pensieri lasciarono spazio alla concentrazione. Ricevetti una telefonata da mio fratello, che non sentivo da mesi, non per cattiveria mia o sua, ma perché entrambi molto impegnati. Mi disse che chiamava dall’ospedale, la mamma aveva avuto un malore. Fu l’ultima volta che la vidi: sdraiata su un alto letto bianco, inerme. Non ci sarebbero più stati ricordi, non avrei più condiviso qualcosa con lei, era morta. Da quel giorno, qualcosa in me cambiò. Ed è qui che comincia la mia storia. La mia vita è facile da raccontare sino a quel giorno: uomo affermato, colto e pragmatico. Lavoravo molto. La mia vita era sicura e io nella mia strutturata quotidianità, ero felice. Pensavo di non aver bisogno di null’altro. Il giorno del funerale rividi tutta la mia famiglia. Mi ero dimenticato di alcune loro facce e mi sentii, dopo un’infinità di anni, perso. Un uomo mi colpì in maniera particolare. Quadrati occhiali spessi e camminata lenta. Ci guardammo negli occhi e benché qualcosa fosse cambiato in lui, lo riconobbi: era mio nonno. Mille ricordi mi passarono nella mente, i più belli della mia infanzia. Era stato un nonno formidabile e aveva sostituito la figura di mio padre, che era morto prima che nascessi. Mi avvicinai a lui. A pensarci bene, erano almeno tre anni che non lo incontravo, ma ripensandoci, non me ne ero mai reso conto. Lo salutai con affetto e allo stesso tempo rammarico per il motivo per cui c’eravamo incontrati. Ecco, questo fu un altro momento che cambiò la mia esistenza. Mi guardò dall’alto al basso e mi disse soltanto: “Ragazzo, non so chi tu sia, ma in ogni modo, piacere di conoscerla!”. Provai stupore. Qualcosa dentro di me, dopo tanto ordine, si smosse. Una delle persone più importanti


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di tutta la mia vita non mi riconosceva. Mio zio mi guardò imbarazzato e a labbra strette mi disse soltanto: “Alzheimer!”. Incredulo, feci finta di nulla e chiacchierai con mio nonno come un estraneo. Molte persone parteciparono al rinfresco e mi resi conto di quanto mia madre fosse amata. Sapevo che era una grande donna, la conoscevo. Ma per diamine, come aveva potuto non dirmi che mio nonno aveva l’Alzheimer? Lontano dalla folla di gente nel soggiorno, cercai di ricordarmi l’ultima volta che vidi mia madre, per capire se in un qualche modo aveva cercato di dirmelo. Dalla rabbia passai alla tristezza più totale. Non me lo ricordavo. Era passata un’infinità di tempo. Mi fecero notare che ultimamente ero preso dalle mie faccende personali e che dunque mia madre non voleva farmi preoccupare con “cose” che non mi riguardavamo più da vicino. Questo fu il terzo momento in cui qualcosa in me cambiò. Per la prima volta sgusciai dalla mia visione egocentrica della vita e mi osservai. Ero scombussolato, a tal punto che quella sera il rumore della pioggia mi rilassava. Il giorno dopo non andai a lavorare. Non mi capacitavo della situazione in cui mi trovavo. Mia madre era morta, non potevo risolvere la situazione insieme a lei ma potevo migliorare le mie relazioni con il resto della famiglia. Mio nonno aveva l’Alzheimer, come potevo riavvicinarmi a lui? Mi dissero che non ricordava gli avvenimenti recenti, ma d’altro canto la memoria a lungo termine era intatta. Ebbi un’illuminazione. Sapeva chi ero! Per lui ero il ragazzino che aveva cresciuto e al quale aveva insegnato tutto ciò che sapeva della vita. Mio nonno aveva i ricordi di cui avevo bisogno: l’infanzia e la vita di mia madre, come pure la mia. Perché la mia vita in quel momento mi sembrava così lontana da quello di cui avevo bisogno? Perché in un momento di crisi in cui ero, mi trovavo in una stanza ben arredata, tutto solo? Com’ero arrivato a uccidere così profondamente la mia vita? Ero colpevole, sì, ma dovevo capire come lo ero diventato. Immaginate che mio nonno fosse la chiave delle


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mie risposte. Come quando si vuole studiare un periodo storico e si leggono libri, si guardano film o, aspetto che preferisco in assoluto, si visitano musei. Mio nonno, in quel momento della mia vita, rappresentava il museo che più desideravo visitare. Era il museo della mia vita, della sua e di quella di mia madre ed io volevo scoprire, o riscoprire, chi ero e di cosa avevo bisogno. Per capire chi sei, devi sapere da dove vieni, quali sono le tue origini, perché tutto ciò che si sviluppa ha un inizio, che è la chiave di tutto il successo che ne segue. Decisi di fargli visita. Sapevo che non potevo presentarmi come me stesso, perché mio nonno era malato e non scemo. Se lui credeva di non sapere chi fossi, non si sarebbe fatto convincere che ero la persona che lui conosceva: nei suoi ricordi io era diverso da com’ero diventato. Trovai un modo per avvicinarmi a lui e riacquistare la sua fiducia. L’arredamento della sala non era cambiato di una virgola: ero a casa. Gli spiegai il motivo della mia visita: ero un amico del figlio ed ero uno scrittore storico. Dovevo scrivere un libro sulla sua famiglia. Il mio compito era di ricostruire e raccontare, indagando attraverso i racconti di famiglia, la storia di essa. Gli dissi che lui, essendo l’elemento più anziano, sarebbe stato il mio punto di riferimento, il pilastro dell’opera che avrei scritto e che avrebbe dovuto dedicarmi molto tempo. Lo misi appositamente in una posizione di rilievo perché sapevo che mi sarei conquistato la sua approvazione. Attraverso il rapporto che instaurai con mio nonno, riscoprii le emozioni più profonde e più belle della vita. Riscoprii mia madre, con cui avevo dimenticato di dialogare e trascorrere del tempo. Esistevamo entrambi, ma non sapevamo più come vivere insieme. Esplorai il museo della mia famiglia e alla fine del mio viaggio, il giallo era risolto: sapevo, di nuovo, chi ero. Mi ero semplicemente dimenticato come si vivesse veramente.


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Christopher Jackson Niente da dichiarare Il sole stava tramontando e le acque del Ceresio si coprivano d’oro mentre una leggera brezza cominciava a spirare da est, rinfrescando piacevolmente l’aria estiva. Il paesino di Gandria stava salutando l’ultima luce del giorno, tingendosi di particolari colori. Colori che colpirono Josephine, che si fermò per scattare una foto: dal sentiero delle Cantine la vista sul paese era magnifica e si poteva fotografare per intero, come una cartolina. Lucie invece stava già procedendo a passo spedito: non voleva rimanere immersa nella boscaglia al calar del sole, con le zanzare. Inoltre, verso est, si stavano addensando delle nuvole che non presagivano nulla di buono: il sottobosco non era certo il posto migliore per ripararsi da un temporale. “Vieni Jo, vediamo cosa c’è in fondo a questo sentiero e poi torniamo indietro, abbiamo tutta la settimana per scattare fotografie!”. Josephine rimise l’apparecchio fotografico nello zainetto e si diresse verso Lucie, che si era di nuovo incamminata. Quasi correndo la raggiunse: “Lucie, non penso che ci sia altro da vedere, i grotti li abbiamo già passati tutti. Torniamo all’imbarcadero prima che faccia buio”. Dopo pochi passi però, videro sbucare dal fogliame una casetta, appostata proprio sulla riva del lago, con una bandiera davanti. Sembrava non esserci nessuno dentro. Josephine si sforzò di leggere la scritta sul pannello antistante: “Museo Doganale di Gandria” riuscì a carpire. Riferì a Lucie, che non aveva una vista altrettanto buona: “Andiamo a vedere Jo, sembra interessante! Ormai siamo qua, è inutile tornarci un altro giorno”. “D’accordo”. rispose Josephine, “ma facciamo in fretta, sicuramente starà per chiudere”. Proprio mentre le due ragazze si apprestavano a spingere la porta, videro il curatore che partiva verso Lugano a bordo della sua barca a motore, accompagnato dal rombo intenso di un tuono. “Muoviti! Li abbiamo quasi seminati! Vedo il lago la sotto, tra gli


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alberi. C’è anche una casa: ci nasconderemo nel bosco ancora per un po’ e poi, con il buio, proveremo ad entrare, per ripararci dal temporale e per contare i soldi. Niente furbate questa volta!”. “Jo, la porta è solo socchiusa, proviamo ad entrare ed aspettiamo un po’: magari non verrà nemmeno a piovere. Però non voglio stare sotto gli alberi con i lampi.” ”Va bene Lucie, ma non toccare niente: non dovremmo nemmeno essere qua. Il curatore si è dimenticato di chiudere, potrebbe anche tornare.” Le ragazze entrarono e si sedettero su due sedie poste all’entrata vicino al bancone. Dalla grande finestra si vedeva tutto il lago circostante. I muri erano coperti da poster fotografici d’epoca e da schede didascaliche. Dopo poco tempo le due ragazze si alzarono per vedere le immagini e leggere le spiegazioni: era tutto molto interessante. “Guarda un po’ cosa abbiamo qua, di bene in meglio. La notte sarà lunga e piacevole!”. La porta del museo si spalancò di colpo, e due uomini con jeans strappati e braccia scorticate dagli arbusti irruppero nella stanza, brandendo bastoni di legno. Uno dei due portava in spalla una borsa sportiva dall’aria pesante. Josephine urlò dallo spavento e si rifugiò dietro a Lucie, che fece un passo indietro, arretrando verso la finestra. I due uomini si avvicinarono rapidamente, afferrando le due ragazze per le braccia e le portarono al bancone, dove le fecero sedere per terra. “Chi siete? Cosa volete?” disse Lucie, guardando il primo uomo dritto negli occhi. “Beh tesoro, fuori sta per diluviare, e noi abbiamo della merce che non si deve assolutamente bagnare” disse lui sghignazzando verso il suo amico. “Adesso voi due state qua buone buone, sedute, e poi decideremo come gestire la situazione.” Aprì la borsa sportiva e cominciò ad estrarre banconote (a Jo parvero euro), facendo dei mucchietti sul bancone. “È più di quanto avessimo previsto”, disse l’uomo al suo compagno, “e pensare che ci avevano quasi presi, lassù, al vecchio albergo: per fortuna che la discesa non era troppo ripida, se no a quest’ora saremmo belli distesi sul fondo del


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lago”. L’altro abbozzò una risata poco sentita. “Siccome è più di quanto avessimo previsto, adesso dobbiamo ricontare le quote”, disse il secondo uomo al primo, con un certo nervosismo. “Dopo il trucchetto dell’ultima volta, è già tanto se ti lascio le briciole, chiaro?” rispose il primo uomo. Il compagno sembrava sempre più nervoso: Jo se ne accorse subito. Le mani gli tremavano e continuava a spostare lo sguardo dal compagno alle due ragazze. A Josephine sembrò di intravvedere il calcio di una pistola sputare dalla sua cintura. All’improvviso il secondo uomo fece un passo all’indietro e allo stesso tempo afferrò la pistola puntandola verso il suo compagno: “adesso mi darai esattamente ciò che mi spetta, io me ne andrò da quella porta e non mi vedrai mai più. Ciò che è stato è stato, ma io non ho rischiato la galera per niente: avevamo un accordo e tu lo rispetterai”. L’altro annuì lentamente e si avvicinò al borsone. Prese la borsa per i manici e fece per consegnarla al compagno: poi, con una mossa fulminea, la fece roteare in aria e colpì il secondo uomo al petto. Questi, sbilanciato, inciampò sul supporto di una delle bacheche espositive e cadde pesantemente contro la finestra che dava sul lago: essa si infranse sonoramente e il vecchio infisso cedette. L’uomo finì nel lago, sotto la pioggia scrosciante, che ormai era molto intensa. Lucie scattò: si buttò velocemente sulla pistola che l’uomo aveva perso nell’impatto, mentre Josephine sferrò un calcio all’altro uomo, che aveva cercato per primo di impossessarsi della pistola. Urlò dal dolore, ma avanzò ugualmente verso Lucie che, senza pensarci due volte, fece fuoco: lo colpì ad una spalla. L’uomo si acasciò contro il bancone, tenendo la mano premuta sulla ferita e gemendo. “Corri, Jo, corri!” urlò Lucie, gettando la pistola nella voragine che rimaneva della finestra. Le due ragazze si fiondarono verso la porta e poi fuori, nella tempesta. Josephine si voltò un ultima volta, e vide soltanto banconote che turbinavano nel vento. Le due ragazze corsero a perdifiato, seguendo la flebile luce dei pochi lampioni sparsi lungo il sentiero. La tempesta stava già lasciando il posto ad un cielo stellato, quando Josephine e Lucie scorsero i tendaggi fradici del primo grotto.


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Giovanni Soldati Ritratto con omicida Una macchiolina rossa in mezzo alla fronte. Pareva il tilaka (non per niente detto anche goccia rossa) che contraddistingue un bramino o comunque un fedele indù. Un segno distintivo ottenuto da curcuma tritata e che richiama alla mente una stilla di sangue in corrispondenza del terzo occhio. Invece no. Non era un segno religioso ma un foro; un piccolo forellino rosso brace. In effetti, mi avevano detto che una Walther semiautomatica PK 380 non avrebbe prodotto danni troppo sgradevoli. Nonostante fosse un po’ più lunga e di maggior peso rispetto ad altre l’avevo scelta, forse inconsciamente, proprio per questo. Mi sarei aspettato, però, di vedere un po’ di sangue, come nelle infinite serie televisive, a dare spessore a quella che era, a tutti gli effetti, una classica scena del crimine. In quella scena, uno dei custodi della National Gallery era accasciato sulla poltroncina all’angolo in una posizione scomposta, per non dire indecente. Di fronte, a non più di due metri di distanza, con l’arma del delitto a penzoloni, c’ero io. Mi ammanettarono lì, col mio bel sorriso stampato sulle labbra davanti a quel corpo che, improvvisamente, si era disarticolato e afflosciato come una marionetta abbandonata al suo destino. Qualche giorno prima avevo dovuto fornire delle spiegazioni. Le mie ricerche richiedevano visite frequenti al museo con sedute di osservazione molto lunghe. Mi ero dichiarato cittadino italiano: far capire ad un londinese che in un angolino all’estremo sud della Svizzera non si parla tedesco o francese sarebbe stato troppo complicato. Perciò ero capitato lì accompagnato dal cerchio alla testa dei giorni migliori, si fa per dire, e dalla pistola dalla quale, evidentemente, non mi separavo molto volentieri.


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Di mattina presto mi ero imposto di lavorare seriamente; non potevo permettermi di buttare alle ortiche l’offerta di lavoro per alcune pubblicazioni d’arte. Avevo imparato ad apprezzare tutto quanto mi dava la sicurezza di qualche banconota in tasca, quindi non avrei avuto difficoltà ad immergermi in quelle immagini di volti lontani e perduti nel tempo. Nel lavoro, benché la mia vita fosse piuttosto anonima, tenacemente dissoluta e mi sentissi sempre braccato da me stesso, ero bravo. Al museo c’ero già stato alcuni anni prima. Ora avrei potuto benissimo lavorare per conto mio basandomi, oltre che su vari testi, sulla memoria allenata a cogliere particolari, all’apparenza, insignificanti. Avrei dovuto occuparmi unicamente di pittura italiana. Ma non andò così… La curiosità mi aveva riportato nel cuore del museo e spinto attraverso i suoi saloni alla ricerca della “Madonna dei garofani” di Raffaello, quadro del quale ancora qualcosa mi sfuggiva. Fu in una di quelle sale, attraversate quasi per caso, che vidi “L’uomo col turbante rosso” di Jan Van Eyck. Quel pittore del quindicesimo secolo non rientrava nei miei gusti artistici. Di lui ricordavo con un certo piacere solo il “Ritratto dei coniugi Arnolfini” e non per particolari emozioni pittoriche, ma semplicemente per l’aura di mistero che circondava il dipinto, infarcito di inquietanti segnali esoterici. Eppure, tra i duemila quadri della National Gallery, mi ero arenato proprio davanti a quel volto. Un brivido mi percorse la schiena. In quel preciso istante capii perché ero lì. La mia psiche, tanto tormentata, vituperata, maltrattata, era alla ricerca di una vita altrove che, evidentemente, doveva essere cancellata, oppure di un doppiofondo segreto dal quale sarebbero potute saltar fuori tutte le debolezze di un mondo parallelo, magari un’altra pistola…


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L’uomo ritratto nel quadro, sguardo severo, una contrazione sulla tempia sinistra che sembrava un grumo di pittura e, soprattutto, con una stoffa rosso fuoco sulla testa che pareva buttata lì per caso, tale da non avere le sembianze di un turbante (perlomeno non come lo si immagina solitamente) ero inequivocabilmente io. A parte lo sguardo fisso (impietrito?) era come se mi guardassi allo specchio. In un quadro dipinto più di cinquecento anni prima c’era la mia faccia. Non una vaga somiglianza, non un “sembrerebbe che…”. No, ero io. Immobile, pensieroso, forse arrabbiato o spaventato. Quel volto pareva volesse dirmi: - Ah, era ora! Ce ne hai messo del tempo! Ero stufo di aspettare… Fu così che dalla mia testa, o forse dal mio cuore o dalla mia pancia, partì l’ordine; sfilai dalla tasca interna dell’impermeabile la mia pistola bicolore, tolsi la sicura e, da distanza ravvicinata, esplosi in rapida successione uno, due, tre, quattro colpi. Ogni volta sobbalzavo e strizzavo gli occhi. Vedevo la tela antica lacerarsi e sputare attorno brandelli colorati e lembi di vernice secca. Una frazione di secondo bastò a far risuonare in tutto il palazzo le sirene dell’allarme. Si sentì vociare e uno scalpiccio frenetico di passi nella mia direzione. Io non mi scomposi. - Maledizione! – urlò una voce – Ma è impazzito!? Il custode, atterrito e sorpreso, non fece in tempo a fissare nello sguardo ciò che non avrebbe voluto vedere: il suo assassino. Mi girai e gli esplosi in faccia uno dei due colpi rimasti nel caricatore. Si mosse al rallentatore all’indietro, in direzione della sedia. Nei suoi occhi mi parve di intravedere le immagini di una vita; forse una moglie, dei bambini o un cagnolino.


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Mi furono addosso in un attimo. A me scappava da ridere. Era una scena che avevo già visto. Il commissario mi avrebbe poi chiesto il perché dell’uccisione di un custode, oltretutto disarmato e inoffensivo. Diamine! Non potevo mica dirgli che avevo voluto uccidere un quadro! Mi avrebbe preso per matto! Bene; ora sono qui, in un reparto psichiatrico di un carcere di non so dove. Dicono che non uscirò tanto presto. Chi se ne frega, a me basta che mi portino la stoffa rossa che mi hanno promesso: ci farò un turbante…


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Monica Piffaretti Nei secoli dei secoli Erano quasi le sei di sera. Ivo uscì dalla portineria e salì per l’ultimo giro di controllo. La giornata era stata di una noia mortale. Sei turisti, tre telefonate. ‘Tutta colpa di questo ventaccio. Ma chi vuoi che venga fin quassù?’ si disse. Ivo era il sostituto custode del museo del castello di Sasso Corbaro. Per lui, quel lavoro era stato una benedizione: a sessant’anni suonati, dalla sera alla mattina, era stato licenziato. La fabbrica, dove aveva lavorato una vita, levava le tende. Destinazione: Bombay. Aveva accettato l’impiego al museo di Bellinzona come un naufrago afferra un salvagente. Non capiva un’acca di cultura. Ma doveva solo vendere biglietti e chiudere il portone la sera, il martedi e il giovedi. Solito giro, solita ispezione. Sì, era tutto a posto. Poi uscì anche sul camminamento esterno, salì per la scala a chiocciola e raggiunse la torre di vedetta: caso mai qualche pazzo fosse rimasto lassù a godersi la vista. Gli era già capitato di scovare due fidanzatini, avvinti come l’edera, che per poco non si facevano chiudere dentro. A questo pensava Ivo, quando, di colpo, il sangue gli si raggelò nelle vene. Un uomo, con un cappio stretto attorno al collo, penzolava da un gancio arrugginito che sporgeva da uno dei merli. Ai suoi piedi una vecchia cassa di bottiglie. Una scena agghiacciante. Per una frazione di secondo, stranamente, Ivo si ritrovò a pensare che gli occhi semiaperti del poveretto esprimessero qualcosa simile allo stupore. Sbatté le palpebre e guardò di nuovo: no, non era un’allucinazione. La testa dell’impiccato era reclinata di lato e una smorfia segnava il suo viso ormai violaceo. Da solo non sarebbe riuscito a toglierlo da lì. Ivo si precipitò allora giù dalla torre, raggiunse la


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portineria e, tremando, compose il numero della polizia. Pochi minuti dopo la pattuglia arrivò insieme all’ambulanza. La sirena ululava…per niente. L’uomo era morto. Poi giunsero anche gli esperti della scientifica. L’impiccato era nientemeno che l’avvocato Giovanni Maria Madoria, l’ultimo erede di un antico casato bellinzonese. ‘Pieno di grana e poi guarda come uno va a finire’ mormorò Ivo, mentre un infermiere della Croce verde gli allungava due pastiglie calmanti: ‘Già, lo dicono tutti che i soldi non fanno la felicità – aggiunse l’infermiere - Ma lo sa Lei quanti decidono di farla finita oggi? Poveri, ricchi. Non c’è differenza’. La polizia interrogò anche Ivo che, in stato sempre più confusionale, continuava a ripetere : ‘Non l’ho ucciso io. Io devo lavorare. Devo chiudere il museo. La ditta è in India’. In un battibaleno la notizia si sparse in città. Nei bar del centro ognuno disse la propria: che aveva debiti di gioco; no, che era gay e che l’amico lo aveva lasciato per un altro avvocato della piazza; no, che era un donnaiolo incallito e che l’ultima fiamma lo aveva spinto sul lastrico; no, che era malato di cancro; niente affatto, che era entrato in una setta. Di tutto e di più. La verità, quella vera, però nessuno la seppe mai. Era celata nell’epigrafe incisa sulla facciata della cappella del castello: «Costruendo questo castello l’architetto ducale Benedino da Firenze il 10 ottobre 1479 qui morì colpito dalla peste». Per conoscere il terribile segreto occorreva scavare: nei secoli dei secoli. Sì, perché non era stata la peste ad uccidere il Perrini, bensì il pugnale di due sicari, inviati a Sasso Corbaro dalla potente famiglia Madoria. Perrini, nei mesi di stanza a Bellinzona, aveva visto e sentito troppo. Ruberie, tradimenti ai danni degli interessi di Milano. E, a tessere la tela del complotto, sempre loro: i Madoria. L’architetto ne avrebbe senza dubbio riferito alla corte degli Sforza, dove era ben introdotto, e questo avreb-


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be significato la caduta in disgrazia della famiglia. Il fatto di sangue accadde una sera, poco dopo il tramonto. Galeazzo, il giovane figlio dell’architetto, sul cantiere al seguito del padre, fu quasi testimone del delitto. Udendo le grida del genitore accorse in suo aiuto. Inutile. Nel mastio del castello, Benedino giaceva in una pozza di sangue. Galeazzo si chinò sul corpo ancora caldo e sfilò il medaglione con l’effige di Ludovico il Moro. Era quello che il padre gli aveva sempre raccomandato di fare, qualora gli fosse accaduto qualcosa. In quel momento udì un rumore alle spalle: con un balzo riuscì a schivare la pugnalata. Approfittando del buio e della nebbia, fuggì dalla fortezza e si gettò a capofitto giù per la collina. I due assassini lo rincorsero, ma non riuscirono a catturarlo. Perrini venne tumulato nel castello. I rappresentanti delle famiglie patrizie assistettero alle esequie. Tutti sapevano, ma nessuno fiatò. Disperato e sconvolto, certo di non poter chiedere aiuto perché in tanti lo avrebbero tradito per trenta denari, Galeazzo riuscì a tornare nella città natìa, dalle parti di Firenze. Vi giunse debole e malato. Giurò che si sarebbe vendicato. Ma era ormai incapace di spostarsi. Ogni settimana accendeva un grosso cero in una chiesa vicina per ricordare il padre. Pochi mesi dopo, in punto di morte, rivelò a suo cugino il segreto. Nel palmo della mano gli mise il medaglione e gli disse: ‘Continua in vece mia e tramanda il segreto ai figli dei tuoi figli, finché la candela non si spegnerà e sarà allora venuto il giorno della vendetta. Giuralo!’. E quel giorno venne. Il giorno in cui la segretaria dell’avvocato Madoria ricevette una telefonata. ‘L’avvocato? Glielo passo’ ‘Avvocato Madoria? Salve, sono Ercole Perrini, Lei non mi conosce, ma io ho sentito tanto parlare di Lei. Vorrei incontrarla di persona. E’ urgente. Non in ufficio, però. Su, al terzo castello. Ho


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un grosso progetto per la città. Vorrei mostrarle l’idea da lassù. Ho certi capitali da investire e Lei potrebbe fare tanti quattrini. Troppo delicato per parlarne al telefono. Mi capisce? Sì, domani, verso le cinque di sera mi va bene. Mi raccomando: massima discrezione’. Ercole Perrini posò il ricevitore e accarezzò il medaglione.


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di Prisca Gilardi – Herber “Noir” al museo E’ uno splendido pomeriggio invernale che mi invita a passeggiare lungo il viale che porta al Museo delle Culture di Lugano. Migliaia di persone all’anno vi passano accanto per raggiungere l’idilliaco paese di Gandria. Lascio l’imponente cancello alle spalle, mi immetto nel viale affiancato da alti bambù che si inchinano mossi dalla brezza del lago e che poco dopo lasciano spazio a palme “Phoenix”dall’imponente tronco. Sorpasso una cavità di tufo, profonda poco più di un metro che cela una piccola sorgente. Il sole sta per nascondersi dietro al San Salvatore e le onde del lago si rincorrono illuminate dai suoi ultimi raggi. Ammiro questo scenario da favola e la bella casa ottocentesca. Un manifesto annuncia ciò che il museo espone. La collezione d’arte etnica donata dai coniugi Brignoni alla città. Decido di entrarci. L’ampio atrio è immerso nel silenzio e nella penombra. Alcune figure di legno un po’ inquietanti mi osservano mentre l’addetto alla cassa elabora il mio biglietto. Poi la mia attenzione viene catturata da un elegante e bel guardiano che scende le scricchiolanti scale. Penso che il museo sarebbe molto più frequentato da signore del posto e da turiste se fossero informate che oltre alle statue lignee si può ammirare un esemplare maschile degno di nota! Pensieri poco eleganti che lasciano subito il posto all’osservazione di quanto la mostra offre. Il museo è deserto e mi accorgo che vengo discretamente seguita nel mio percorso. Munita del catalogo che gentilmente mi è stato messo a disposizione dall’adone, osservo gli oggetti esposti, alcuni mi ricordano i miei viaggi in oriente. Noto con un certo disappunto che i locali dai quali si potrebbe godere una stupenda vista sul lago, sono totalmente immersi nella penombra. Tutte le finestre sono chiuse e le persiane abbassate. Il pavimento che vide i passi di danza della ballerina ed ex proprietaria Hélène Bieber, quei muri che ebbero


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l’onore di udire le note suonate dal musicista Arturo Benedetti Michelangeli e da Carlo Florindo Semini, ora sono ornati da oggetti tribali. Resto paralizzata davanti ad una statua con un arco in mano sulla quale è stato infilato un sacchetto di plastica trasparente nel quale è ben visibile, seppur nella luce fioca, una testa umana non certamente di legno! Cerco di emettere un grido ma le mie corde vocali sono paralizzate; i miei occhi fissano il macabro cranio. Esco di corsa dalla sala scontrandomi con un guardiano. Riesco solo ad indicare con il braccio la direzione e farfugliare ciò che ho visto. Questi mi guarda con un certo stupore ed incredulità, entra nella sala e lancia un acuto grido. Poi un immenso scompiglio avvolge tutto il museo! Una poliziotta mi accompagna in un salottino; con me tutto il personale del posto. Tutti visibilmente provati. Un funzionario raccoglie le prime testimonianze. Fuori dal locale concitate voci. Visto che il mio coinvolgimento è relativo, mi accompagnano all’esterno e sono consegnata nelle mani di un agente che ha avuto il compito di scortarmi a casa. Mentre percorriamo il viale di accesso alla casa, passiamo davanti alla cavità di tufo che notai al mio arrivo. Un brivido mi percorre la schiena… in quella cavità, seppur oramai le ombre della notte sono scese, c’è sicuramente nascosto qualcuno! Comunico la mia impressione al poliziotto il quale, con il telefonino, trasmette la mia sensazione ai colleghi. Poi mi obbliga ad affrettare il passo verso l’uscita. Vedo torce che si muovono verso di noi e circondare l’anfratto. Una voce autoritaria grida varie volte: - “Polizia, esca con le mani alzate!”- Poi del trambusto ed un’altra voce gridare: -“commissario venga: c’è il resto del cadavere!”La stampa non tardò molto ad essere informata degli eventi. La zona venne occupata da giornalisti e da curiosi. Fui sospettata soprattutto per aver visto il tronco appeso, cosa che era sfuggita alla polizia in quanto visibile solamente se dal parco si usciva e non nel senso inverso. Anche nelle settimane seguenti la polizia mi subissa di domande alle quali non so rispondere. Cerco solo


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di togliermi dalla mente quella visione orrenda. Poi, la notizia bomba: l’uomo ritrovato era stato conservato per molto tempo in un congelatore! La testa era stata decollata non molto dopo la morte avvenuta per arresto cardiaco. Il ritrovamento del congelatore fu del tutto casuale, in un locale mai stato aperto prima. Nessun esperto è riuscito a capacitarsi come fosse stato possibile che l’ elettrodomestico funzionasse ancora. Fu proprio il bel guardiano a scoprirlo. Sopra il baule un’ardente lettera d’amore scritta da madame Lucy de B., morta nel 1953 in un ospedale psichiatrico, amica della proprietaria di villa Carèol divenuta in seguito villa Heleneum. Una struggente lettera dedicata al suo amante morto dopo un incontro amoroso. Non volendosi separare da Lui, non avendo avuto il coraggio di seguirlo, pensò di portarsi in Francia la testa ma, poi decise che la morte non doveva intaccare quel corpo da Lei tanto amato, quindi decise di lasciarlo riposare il quel angolo di paradiso sul Ceresio. In quella lettera, nella quale descriveva tutto il suo amore e ribadiva che nessuno era al corrente del fatto, chiedeva, a chi un giorno ritrovasse i resti, di soddisfare un ultimo suo desiderio. Seppellirli là, in quella cavità di tufo in giardino! Il guardiano che oltre al congelatore scoprì un passaggio che dal posto dell’ inquietante ritrovamento portava alla sorgente, non sapendo cosa fare, pensò a quella macabra rappresentazione, soprattutto per coinvolgere la stampa e portare agli onori della cronaca il fatto che altrimenti sarebbe stato gestito in modo più discreto.

Epilogo: Questa storia commosse le autorità e la gente del posto. Su interessamento del consolato, dalla Francia furono traslati i resti di madame Lucy De B. Vennero inceneriti i resti del suo amante e durante una piccola cerimonia furono seppelliti assieme in quella cavità affacciata al lago.


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Hans H. Schnetzler Il caso Neri Sì, sul dépliant dell’Ente Turistico figurava come “Museo Verasio“, ma in fondo si trattava semplicemente di una villa signorile in stile liberty, come le costruivano le famiglie benestanti luganesi un po‘ fuori città, per sfuggire all’afa estiva godendosi l’aria buona e la bella vista sui Denti della Vecchia. L’ultimo dei Verasio, noto avvocato e politico luganese, trovandosi vedovo e senza figli, aveva lasciato questo museo al suo comune di origine con la clausola che avrebbe dovuto essere aperto al pubblico. Così, ogni primo sabato del mese dalle tre alle sei si poteva visitare la villa gratuitamente. All’entrata, il municipio aveva fatto appostare una guardia della Securitas, mentre fungeva da custode e guida la maestra pensionata Carola, ex-municipale e responsabile del dicastero della cultura. Cosa si poteva ammirare al “Museo Verasio”? L’interno si presentava con un arredamento in stile borghese degli inizi del novecento: mobili di buona fattura, tappeti di un certo pregio. Appese alle pareti c’erano stampe della vecchia Lugano e qualche tela ad olio d’origine francese, probabilmente dei souvenirs di viaggi in Francia, chissà, il ricordo di qualche parente emigrato. L’anima del museo era il salotto con l’adiacente studio padronale. Qui erano esposte una decina di opere del pittore Roberto Neri (1853 – 1923). Per questa piccola ma squisita collezione dell’artista locale di fama internazionale, il museo veniva citato in diverse guide d’arte: persino la più rinomata rivista culturale d’oltre Gottardo aveva recentemente dedicato un servizio alla collezione del Neri, che comprendeva quadri ad olio, disegni a matita e carboncino ed un raro acquarello “La raccolta delle rose” del 1910. Era sabato 2 febbraio: all’entrata la signora della Securitas era pronta ad accogliere eventuali visitatori. Visto il tempo grigio e freddo erano attesi pochi. Almeno non ci saranno gli svizzeri-te-


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deschi che solo difficilmente si riusciva a convincere a lasciare i bastoni da “nordic-walking” nell’atrio. Scese anche Carola, che aveva fatto il suo solito giro di controllo nei locali, aperto le persiane e acceso un bel fuoco nel camino del salotto: non solo per scaldare ma anche per dare un po d’atmosfera a questo locale alto e scuro, illuminato da due sole finestre strette. Mentre Carola e la Securitas chiacchieravano nell’atrio, verso le 15.20 si presentò il primo visitatore: un signore sulla settantina. Carola si ricordò averlo già visto: forse in dicembre o novembre? Sembrava interessato esclusivamente ai dipinti di Roberto Neri. Era ben informato sull’opera e la biografia di questo importante artista ticinese. Andò subito nel salotto, si mise davanti ai quadri del Neri scrivendo appunti su un taccuino. Carola lo lasciò lì, perché nel frattempo era arrivato un gruppo di esploratori. Carola accompagnò il rumoroso gruppo con il solito “-non toccare, per favore!” attraverso tutti i locali del museo. Quando entrarono nel salotto l’anziano visitatore non c’era più. Carola accompagnò gli esploratori all’uscita, felice che non avevano causato danni, si congedò dalla signora della Securitas, chiuse l’entrata a chiave e fece l’ultimo giro della casa. Quando, nel salotto, chiuse la rete anti-scintille del camino dove restava poca brace, rimase di stucco: del famoso quadro “Ritratto di mia moglie” dipinto dal Neri nel 1912 era rimasta solo …. la cornice! Sui giornali del lunedì seguente si poteva vedere una foto del quadro scomparso, con l’annuncio del municipio che offriva una ricompensa di duemila franchi per qualsiasi informazione utile al recupero dell’opera. Il suo valore secondo un perito era di 25’000 – 30’000 franchi. Venne pubblicata anche un’intervista alla signora della Securitas, molto sconvolta per l’accaduto che si ricordava bene del visitatore solitario che l’aveva salutata gentilmente all’uscita: non poteva immaginarsi una tela di tali dimensioni (68 x 75cm) nascosta addosso a quel gentiluomo elegante. L’unica reazione all’annuncio del municipio fu una lettera affrancata con tanti francobolli stranieri. Il testo scritto a mano recitava:


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“Egregi signori, nel frattempo vi siete accorti della scomparsa di quel quadro del Neri, non cercatelo più! Non esiste più! L’ho bruciato nel camino del museo. E con il quadro è finalmente andata in fumo anche la mia rabbia e la frustrazione che mi mordeva dentro da decenni. Durante un soggiorno nella vostra bella regione, ho scoperto questo grande pittore ticinese. Per fortuna, così pensai allora, acquistai un quadro del Neri intitolato “Ritratto di mia moglie” presso un gallerista in città. Poco dopo però il quadro si rivelò un falso, una vera crosta. La perizia devastante di un noto studioso dell’opera del Neri supportata anche da un’altra che provava che quella firma del Neri era stata applicata dieci o al massimo quindici anni fa mi fece incaricare un noto avvocato e politico luganese per farmi restituire i miei soldi. Oltre ad una nota salata del legale (fece combutta col commerciante?) non ottenne niente… Che fregatura! Ecco qui il motivo del mio autodafé. Chiamatela pure pazzia, squallida vendetta, non m’interessa più. Mi sono tolto un peso. Così dopo più di trent’anni mi sento finalmente liberato da quell’incubo.

Con la massima stima

XX”


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Andrea Panichi (Come rubare un quadro e vivere felici) L’esposizione nel nostro museo di una delle quattro versioni esistenti dell’Urlo di Munch, ottenuta in prestito per due mesi da un collezionista tedesco, nei primi giorni aveva aumentato notevolmente l’afflusso di visitatori; poi però, a poco a poco le visite si erano diradate e si era tornati alla normale, scarsa affluenza quotidiana. Quel tardo pomeriggio era rimasta solo Lina, la copista autorizzata che aveva terminato di copiare il quadro. Senza fretta, con la trasposizione esatta degli elementi costitutivi, con l’uso sapiente dei colori sparsi sulla tela con pennellate sinuose e continue tese a deformare gli oggetti rappresentati, così come doveva aver fatto Munch, aveva riprodotto una copia identica all’originale. A dire il vero, Lina era autorizzata a eseguire una sola copia, ma con la mia complicità ne aveva fatta di nascosto anche un’altra meno curata che avrebbe poi perfezionato a casa con l’aiuto di diapositive. Ah, ho dimenticato di dirvi che io sono uno dei custodi del museo. Abbiate pazienza, stasera ho la mente un po’ annebbiata. Per festeggiare, ho stappato una bottiglia di Veuve Clicquot. Io con lo Champagne ho scarsa frequentazione, per così dire. Forse è per questo che mi va subito alla testa. Vi ho già detto che eravamo rimasti solo noi due, Lina e io. - Sono convinto - buttai là guardando la tela sul cavalletto - che se mettessimo la tua copia al posto dell’originale, nessuno se ne accorgerebbe. - E l’originale potremmo portarlo via noi - disse Lina guardandomi sorridendo - e chiedere poi il riscatto alla compagnia assicuratrice. Però, se tocchi il quadro, suona l’allarme. E


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poi c’è la telecamera. Non si può fare. - L’allarme non è un problema. E nemmeno la telecamera - replicai io. - Posso disinstallare tutto. Ogni tanto lo facciamo: quando c’è qualche lavoro da fare, quando bisogna pulire… Sai che il quadro è stato assicurato per 100 milioni di euro? - Quindi, chiedere un riscatto di… diciamo 10 milioni, non è eccessivo. - No di certo - confermai io. - Sborsando solo un decimo dell’indennizzo stabilito, l’assicurazione fa un affare. Naturalmente stavamo scherzando; ma mica poi tanto! Avevamo già altre volte parlato dei riscatti pagati dalle assicurazioni per riavere quadri rubati. Ci sono tanti precedenti! Lina coprì con un asciugamano la sua tela e disse - Allora si potrebbe fare. - Certo, lo scambio si può fare - confermai io. - C’è però il problema della cornice. - Indicai il quadro appeso alla parete e continuai: - Una cornice come quella non la trovi da nessuna parte. - E allora utilizziamo quella - replicò Lina. - Tu tiri giù il quadro dalla parete, io stacco la parte dietro, sostituisco la tela e rimonto tutto senza nemmeno scomporre la cornice. Ci guardammo negli occhi e in quel momento capimmo che lo avremmo fatto. È imbarazzante per me ammetterlo, ma avevo preso una tale cotta per Lina che avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto. Quella sera stessa mettemmo a punto il nostro piano. Il pomeriggio del giorno dopo, sul tardi, lei sarebbe venuta per ritirare la sua tela ormai asciutta e avrebbe portato con sé i pochi


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utensili necessari per smontare e rimontare il quadro. Quando saremmo rimasti soli, dopo l’orario di chiusura, io avrei disattivato gli allarmi e avrei staccato il quadro dal muro e lei avrebbe provveduto alla sostituzione della tela. Bene, per farla breve, il giorno dopo, verso sera, lei arrivò come avevamo concordato e una mezzoretta dopo l’orario di chiusura, “l’operazione sostituzione” era conclusa. Devo assolutamente dirvi che prima di montare la sua tela, Lina vi aveva scritto in tedesco sul retro: Diese Kopie ist gratis. Das Original kostet 10.000.000 euro.

Che donna, ragazzi!

Quando uscimmo cominciava già a fare buio. Io aiutai Lina a trasportare il cavalletto fino alla sua auto mentre lei portava in una borsa i colori, i pennelli, i guanti usati e altre cosette e sotto braccio, arrotolata, la tela originale di Munch. Ecco. Le cose andarono esattamente così. Voi credete che nei giorni che seguirono qualcuno si sia accorto della sostituzione? Ma nemmeno per sogno! I visitatori continuarono a contemplare la copia di Lina e a emozionarsi, a provare lo stesso senso d’angoscia come di fronte all’opera originale. Anche quando vennero a riprendere il quadro, la figlia del proprietario assieme a un critico d’arte e a un funzionario dell’assicurazione, nessuno notò nulla di anormale. Io continuai a lavorare in apparenza tranquillo come sempre, mentre Lina si occupava dei contatti per ottenere il riscatto. Lei mi teneva al corrente della trattativa quando il martedì mattina ci incontravamo “per caso” alla Coop a fare la spesa. Un giorno vennero al museo due ispettori dell’assicura-


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zione e ci chiesero di mostrare loro il funzionamento del nostro sistema d’allarme. Poi andarono a casa di Lina e vollero vedere la copia da lei eseguita. Non accennarono mai al quadro, ma per noi era chiaro che la vicenda era vicina alla conclusione.

Volete sapere com’è andata? Come una lettera alla posta, per utilizzare un’espressione usata dalle nostre parti! Poco dopo, il riscatto fu pagato e Lina fece ritrovare il quadro originale. Non fu data alcuna notizia del fatto alla stampa. Per evitare il rischio emulazione, la compagnia assicuratrice preferì pagare e tacere. * È sera, fuori ha cominciato a nevicare. Sono in sala seduto sul divano davanti al caminetto acceso, in compagnia della vedova che mi rimescola piacevolmente i pensieri, se capite cosa voglio dire, mentre conto le banconote da 100 euro che estraggo da una scatola di cartone. Sono mazzette da 100. Se ho fatto bene il conto, in totale dovrebbero essere 500. La metà di 10 milioni. Un bel gruzzolo!

So cosa state pensando, cosa credete. Lo so anch’io che ci siamo comportati da delinquenti! Ma converrete con me che la voglia di migliorare la propria esistenza appartiene al genere umano. E in questo mondo di ladri, ognuno si arrangia come può. FINE


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Roberto Diotti Anche l’occhio vuole la sua parte “Presto,chiamate il nostro consulente Red Logan…quando arriva fatelo pass..” “Eccomi Ispettore!” “Ehi! Ma come diavolo fa ogni volta….lasciamo perdere,non lo voglio sapere;abbiamo disperatamente bisogno..” “I fatti! Ispettore,il tempo è prezioso anche per me!” “OK,questa notte,alle due,una pattuglia ha notato strani movimenti in un vicolo,ma quando sono scesi dall’auto con le torce,delle tre persone viste prima non vi era alcuna traccia…il vicolo è a fondo cieco..zero uscite…sparite nel nulla!” “Nessuno sparisce nel nulla;non mi avrà chiamato per questo,spero!” “No,no,i miei uomini hanno perlustrato tutto con cura e dietro un bidone hanno trovato solo un telo in seta blu ed un sacco di plastica,forse abbandonati per la fretta;nel sacco c’era della polvere bianca,ma quando hanno disteso il telo sono rimasti pietrificati!” “Un cadavere?” “Mezzo! Mi spiego,un corpo di una giovane donna,lineamenti orientali,occhi, hops,occhio marrone, il cui corpo era spolpato per metà dalla testa ai piedi! La parte sinistra assolutamente intatta, mentre la destra aveva solo legamenti e ossa,pulite e lucide come fossero state succhiate! Ha presente gli scheletri appesi negli studi degli ortopedici?” “Uhmm, interessante…e nel sacco?” “L’analisi dice: calce viva….Ehi,crede che quel corpo fosse stato


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già trattato per metà…” “No,no di certo;anche le ossa ed i legamenti sarebbero stati sciolti… la calce serviva a fare sparire il corpo,magari in quel bidone.Nessuno se ne sarebbe accorto.Andiamo nel vicolo.” In dieci minuti furono sul posto,transennato e con due agenti di guardia. “La scientifica ha già passato tutto al setaccio...luminal,rilevatori per radiazioni,unità cinofile per esplosivi e droga… tutto negativo” “E quel muro?” “E’ il retro del Museo Orientale…annesso al Consolato: off limit. Anche quel cassonetto giallo è di loro proprietà,vede la scritta ed i numeri punzonati sopra?” “Già, ed è pure imbullonato al muro…e non certo per non farselo rubare.” “Ovviamente…in Svizzera nessuno ruba i cassonetti della spazzatura…..scherzo,ovviamente. Comunque è assolutamente pulito,abbiamo già controllato e..” “Cosa ha fatto!!? Ispettore….quel cassonetto fissato con bulloni al muro del Consolato ne è sua parte integrante;tutte le norme internazionali che tutelano gli spazi stranieri valgono anche per questa scatola di metallo!Faccio finta di non aver sentito nulla...comunque,poichè “qualcuno” l’ha già aperto,diamo ancora un’occhiata”. “OK Logan,l’esperto è lei;Voi due,apritelo” “Mi dia un manganello….qui al centro suona a vuoto.Un automatismo fa scorrere la parete e consente il passaggio nel museo…una via di fuga ideale;ecco come sono spariti nel nulla i tre uomini misteriosi.Vede poi quel forellino?”


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“Per tutte le…una microcamera!” “Già,chiudete pure…venga Ispettore,saliamo in macchina e facciamo il punto della situazione: “loro” sanno che siamo qui e che sospettiamo di loro,ma vogliono farci credere di essere all’oscuro di tutto,giusto?” “Già,allora?” “Andiamo subito a trovarli;potrebbero far sparire le prove”. “Avanti! Sirene e lampeggianti, facciamo il giro dell’isolato!” Giunsero all’ingresso, accolti da una guardia e da due eleganti funzionari affatto sorpresi. “Prego,accomodatevi pure,il Console vi darà udienza;gradite del thé”. “No grazie,abbiamo urgenza di parlare col responsabile” Passarono i minuti,ma nessuno vi faceva vivo. “Logan,crede che stiano ..” “Shhh!Non dica una parola” bisbigliò aggiungendo poi sottovoce “Ci stanno osservando…vogliono scoprire cosa sappiamo!” A quel punto una porta si aprì e un militare indicò loro un lungo corridoio che percorsero fino ad una porta riccamente decorata e sovrastata da un bassorilievo dorato raffigurante un drago alato nell’atto di divorare una fanciulla;una targa sapientemente intagliata riportava “Museo di Arte e Cultura Orientale” “Ci siamo”.


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La porta si spalancò su un salone circolare completamente vuoto,se non per la presenza al centro di un’enorme statua in oro raffigurante un drago alato con due grossi diamanti blu al posto degli occhi. Entrarono senza fiatare e la porta si richiuse alle loro spalle,con sinistri rumori di chiusura metallica. I due si scambiarono uno sguardo interlocutorio che non lasciava presagire nulla di buono. “E’ blindata!Tutto,qui,è blindato;nessuna via di fuga”. L’aria era pesantemente profumata da bastoncini fumanti inseriti nel basamento della statua, poggiata su un piedestallo alto circa un metro,contornato da un pesante drappo rosso. Logan scrutava ogni particolare elaborando la sua tesi;quel telo rosso stonava con l’ambiente,e aveva ancora i segni delle pieghe a indicare che era stato messo lì in tutta fretta;sarebbe stato più appropriato quello in seta blu in cui era stata trovata la giovane vittima. Cercò di ricordarsi di una leggenda circa un drago che spolpava vittime sacrificali per assorbirne energia vitale,giovani vergini dagli occhi azzurri.Man mano che metteva insieme gli elementi raccolti, il disegno cominciava a prendere una forma concreta,finchè qualcosa tra le pieghe della statua attirò la sua attenzione;furtivamente,fingendo di sfiorare il dragone,se ne appropriò;Bingoo! D’un tratto una voce proveniente dalla statua ruppe il silenzio. “Buongiorno,scusate se non vi accolgo di persona ma non sto troppo bene…posso esservi utile?” “Volevamo solo scusarci per aver violato uno spazio sovrano durante le indagini per un omicidio” “Sospettate qualcuno del Consolato?”


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“No…assolutamente no” “Allora buona giornata” La porta si riaprì;i due uscirono e salirono in auto. “ll caso è risolto,Ispettore, ma non può arrestare il colpevole. Dovrebbe dire che è stato un Drago,chi le crederebbe?” “Intende proprio“quel” Drago?” “Già,vede questa?” Disse Logan mostrando la punta dell’indice. “Una lente a contatto….azzurra!” “La ragazza deve averla persa mentre cercava di scappare,mostrando così di avere un occhio marrone….e il Drago ha dovuto accontentarsi di mezzo sacrificio.” “Logan,è stato un lampo” “Ho fatto del mio meglio …avevo solo 6000 battute!”


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Carlo Simonelli Il Rialto Alessia era scesa dall’autobus di corsa, sotto una pioggia fitta, e s’era rifugiata d’avanti al chiosco dove passava di solito per andare a lavorare. L’ombra del castello incupiva ancor di più il buio del mattino. Guardò sul telefonino per vedere se c’erano nuovi messaggi. La gente correva da una parte all’altra della strada cercando un riparo. Nuove notizie da Facebook, niente d’importante. Un sms di Gianni: Ti amo. A stasera. Si affrettò a rispondere, lui era uscito presto e non l’aveva visto: Ti amo anch’io. Mi manchi, baci. Convivevano e prima o poi si sarebbero sposati, quando le condizioni economiche l’avrebbero permesso. Lei aveva sporto la testa e guardato verso il cielo ancora buio. Nel voltarsi aveva visto la foto sul giornale buttato sul bancone davanti all’edicolante. Non ci poteva credere. Non ci poteva credere! Sullo sfondo di un cielo azzurro e assolato si ergeva il ponte di Rialto vicino al quale erano ancorate un paio di caorline e un burcio dalle vele ammainate e poi gente che si muoveva tra le calle. Era un quadro che aveva visto proprio il giorno prima. Furto rocambolesco! Annunciava il titolo in apertura. Non ci poteva credere. Si affrettò a leggere il sommario. Furto rocambolesco durante la notte alla pinacoteca della capitale. Ladro si introduce all’interno dei locali e ruba il famoso Rialto in Primavera; sorpreso dai guardiani e inseguito sul tetto beffa tutti calandosi giù con un’imbracatura dandosi alla fuga senza lasciare tracce. Che coincidenza singolare. Proprio il giorno prima Gianni l’aveva portata a vedere una mostra e si erano fermati a lungo ad osservare il dipinto. Lui guardava un po’ distratto, non gli piacevano i musei, e l’aveva portata lì perché sapeva che era un’appassionata. L’aveva osservato a lungo, mentre Gianni


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si guardava intorno e sembrava aspettare che lei si stufasse. «Con uno di questi quadri ci potremmo sposare subito.» le aveva detto «Quanto varrà?» «Quanto varrà? Mah, intorno al milione, direi. Ma è difficile da vendere. È troppo conosciuto!» «Eh, già.» aveva risposto lui «Una cosa del genere chi la compra?» Lei era rimasta a guardare ancora un po’, mentre il suo ragazzo contemplava muri e soffitti. «Andiamo?» aveva detto, mentre Gianni era con la testa in aria. «Ah? Sì. Sì, andiamo.» Aveva comprato il giornale e s’era diretta verso l’ufficio, nel garage dove lavorava, d’avanti a una selva di motorini e automobili. Ivano era già lì. «Ehilà! Alessia, tutto bene?» l’aveva salutata come tutte le mattine. «Ciao. Sì e tu?» aveva risposto entrando in ufficio. Aveva fretta, adesso. Appena dentro, tirò fuori il giornale e cominciò a leggere con più attenzione. Ma non poteva essere che Gianni, in poche ore, avesse architettato il piano per un furto. Ci voleva tempo. E se non fosse la prima volta che lui andava in quel museo? E se l’avesse portata solo per fare un ultimo sopralluogo? La fuga veniva descritta come avventurosa. Gianni non era un tipo audace e nemmeno tanto sportivo, ormai. Qualche anno prima, sì. Avevano fatto parte di un gruppo di ginnastica artistica, ma da tempo avevano lasciato. «Hai già preparato la fattura per Bonzanigo?» chiese Ivano entrando con un paio di scarpette in mano. Non aveva risposto e guardava con un’aria curiosa quelle scarpe che il principale portava. «Gianni le ha dimenticate in palestra l’altra sera. Tieni.» disse porgendogliele.


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«In quale palestra?» chiese lei stupita. «Su, da me. Perché non lo sapevi?» Ivano allenava da anni il gruppo di ginnastica. «Veramente no.» «Scusa, allora. Temo di aver rovinato una sorpresa che Gianni voleva farti.» «Sì, ma non importa. Gianni è uno che sa sempre sorprendere.» «Meglio così, allora.» aggiunse Ivano prima di uscire. Erano proprio le scarpe di Gianni, comunque, non erano che delle coincidenze curiose. Non riuscì a lavorare e per la pausa pranzo rientrò a casa. Cominciò a frugare nei cassetti. Le venne alle mani un volantino di un club di arrampicata sportiva. Strano, non sapeva dell’interesse di Gianni per questo tipo di attività, aveva sempre creduto che soffrisse di vertigini. Ma questo indizio rendeva plausibile l’articolo che aveva letto. Uno squillo. Un sms di Gianni. “Ho una sorpresa per te.” “Buona o cattiva?” aveva risposto. “Buona” “Qual è?” “Stasera, quando torni dal lavoro” “No, adesso: dimmela adesso o non ti guardo più in faccia” “Mi vuoi sposare?” “Con quali soldi?”


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“Ho avuto un aumento.” In un’altra occasione sarebbe stata felicissima, ma adesso era rimasta come bloccata. Aveva chiamato Ivano per dirgli che non stava bene, che non sarebbe tornata nel pomeriggio. Sposare un ladro? Ce n’erano anche di affascinanti, di ladri. Diabolik e Lupin, per esempio. Ma Gianni non gli assomigliava. E che fine aveva fatto il quadro? Possibile che l’avesse già venduto? O si trovava in casa? Si mise a cercare fin quando, dietro un armadio, trovò un fagotto ricoperto di carta di giornale. L’aveva tirato fuori e proprio in quel momento s’aprì la porta e Gianni entrò. «Ciao… che fai con quel pacco?» disse lui preso dal panico. «Che nascondi qua dentro?» «È una sorpresa. Non posso dirtelo. Tu ancora non hai nemmeno risposto se mi vuoi sposare.» «E non lo farò, mascalzone!» disse Alessia strappando la carta che cominciava a mostrare la cornice. «Aspetta!» cercò di fermarla lui col batticuore, ma la carta ormai era lacerata e la donna era rimasta ad osservare l’immagine. «Doveva essere una sorpresa. Hai rovinato tutto.» Lei rimase qualche momento senza riuscire a dire una parola. «Scusa. Hai ragione, ho rovinato tutto.» In una foto di tanti anni prima c’erano loro in una posa artistica, ai campionati nazionali di ginnastica. Lei si sedette sul divano. «Non importa.» disse lui «Allora? Non mi hai ancora risposto: mi vuoi sposare?» le chiese avvicinandosi e inginocchiandosi d’avanti.


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«Sì.» disse lei «Adesso sono sicura di poter affidare a te la mia vita, senza mai dubitare e giudicare dalle apparenze.» proprio mentre Gianni da sotto il divano tirava una corda raggomitolata riponendola in un borsone.


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Andrea Cola Il guardiano Quel giorno il Historie und Kunst Museum di Zurigo era piuttosto affollato di scolaresche provenienti da tutta la Svizzera,siamo nel mese di Maggio,è il periodo giusto. In tutta quella ressa di ragazzini,adolescenti e giovani era quasi impossibile lavorare. “oops…, mi scusi signore”, era una voce giovanile,mi volto e vedo una splendida ragazza, diciotto-ventanni, universitaria direi,procedeva facendo passi all’indietro ed è inciampata nel mio secchio pieno d’acqua rovesciandolo,io,dall’espressione “perdonatrice” passo subito a quella infastidita “ va bene va bene raggiungi i tuoi compagni e.. stai più attenta la prossima volta”,“sei proprio un bel bocconcino” penso sottovoce. “Dev’essere mia!”,sono un inserviente del museo e come tale ho libertà di azione in tutto il fabbricato,oltre a conoscere scorciatoie e posti dove vedere senza essere visti,spiare è la definizione giusta. Senza perdere d’occhio la ragazza cerco comunque di fare il mio lavoro finché arrivo nella parte del museo poco sorvegliata,è un settore speciale con dei corridoi abbastanza stretti e spazi espositivi ai lati con,frapposti,alcuni locali destinati ai servizi:depositi,sgabuzzini e via dicendo,c’è anche una porta che dà su di una scala che porta al deposito sotterraneo,un insieme di cunicoli e vani senza porte con i soffitti a volta dove si lasciano le opere non esposte nel museo,“mi nasconderò proprio dietro a quella porta!”,faceva proprio al mio caso,la ragazza con il suo gruppo non era ancora passata,l’ultima volta che l’ho vista era in fondo al gruppo e staccata di qualche metro dai compagni,“arriva!”,apro la porta di scatto verso il corridoio e lei,distratta com’era prima,ci sbatte contro rimbalzando indietro ma senza cadere per terra,io,da bravo attore le dico “ora tocca a me


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chiedere scusa,ti sei fatta male?”, frastornata ribatte “mi fa un po’ male la botta ma niente di grave”,“però hai un bel bernoccolo,permettimi almeno di riparare, ho una crema che fa miracoli nel mio ufficio,è appena qui in fondo alle scale” lei guarda verso il fondo della scala, guarda il suo gruppo che si allontana e poi la mia faccia dispiaciuta e,alzando le spalle, dice “va bene, tanto gli altri li raggiungo”. Le indico la strada e mi accodo a lei,appena in fondo alle scale estraggo dalla tasca della giacchetta uno straccio imbevuto di etere e,prima che capisce cosa sta accadendo,passo la mia mano davanti alla sua bocca e premo fortemente per non farle respirare altro che i vapori alcolici. Posso lasciare la presa,è ormai priva di sensi,la trascino in un locale in fondo al corridoio principale,la metto su di una sedia e cerco qualcosa per legarle le mani e imbavagliarla,non vorrei mai che si svegliasse prima del tempo e che attirasse qualcuno con le sue urla,“ecco fatto ora non mi scappi più”. Ora devo tornare al mio lavoro prima che qualcuno si insospettisca della mia assenza,salendo le scale mi viene in mente che qualcuno avrebbe cercato quella sventurata dovevo allora deviare i sospetti verso l’esterno del museo. Le telecamere di sorveglianza la devono averla ripresa quando è entrata in questa zona dalla quale non è mai uscita,devo quindi inscenare una fuga o insinuare il sospetto che sia uscita dallo stabile, volontariamente o forzatamente;mi ricordo che c’è una porta che dà verso il cortile posteriore,si usa raramente, “si aprirà ancora?”,ho il passepartout potrei provare. Con molta fatica e molta discrezione riesco ad aprirla “non va bene”,se la trovano aperta in questo modo capiranno che sono state usate le chiavi ei sospetti ricadranno ancora all’interno del museo,vado di corsa nel magazzino,lì ho degli attrezzi,cerco qualcosa che può servirmi “eccolo!” finalmente trovo un piede di porco,non è molto grande ma dovrebbe funzionare,lo nas-


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condo sotto la giacca e torno alla benedetta porta,esco,la chiudo con la chiave e faccio leva con l’attrezzo tra la battuta della porta ed il telaio,al terzo tentativo ecco il telaio che si scardina leggermente dal muro e cede permettendo alle mandate della serratura di scivolare fuori e alla porta di aprirsi “ecco fatto”,rientro,apro la porta del locale che avevo chiuso a chiave per non permettere a nessuno di entrare lì mentre stavo scardinando la porta,guardo nel corridoio prima di uscire,tutto a posto c’è gente che gira dentro e fuori dai locali ma nessuno che abbia un particolare interesse per me. Posso tornare a lavorare,ma il mio pensiero non può che essere rivolto a quella splendida creatura che ho lasciato nel seminterrato. È ora della messinscena,si sono accorti della sparizione della studente,hanno già chiamato la polizia,sicuramente verranno a chiedere anche a me se l’ho vista. Sono ormai passate alcune ore e nessuno è venuto da me,vado io a informarli della scoperta di una porta scardinata dall’esterno. Di lì a poco ecco gli investigatori i quali,alla fine,ipotizzarono che la ragazza era uscita da quella porta,volontariamente o per mano di terze persone,proprio come volevo io. È sera,il museo è chiuso,i poliziotti se ne sono andati,stanno indagando in altre direzioni fuori di qui ma potrebbero tornare,l’eccitazione di oggi ha lasciato spazio all’agitazione sempre più forte ogni momento che passa,“non posso continuare con questa cosa”,torno giù,guardo la ragazza che è ormai sveglia,la disperazione e le lacrime l’hanno devastata,“mi dispiace..” abbozzo sottovoce,prendo il taglierino che è sul banco da lavoro e con un colpo netto le recido la gola proprio all’altezza della giugulare,esce molto sangue,la sua testa cade in avanti,“è morta”.


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Cerco rapidamente un telo di plastica per avvolgerla prima che esca tutto il sangue,sigillo bene e poi faccio rotolare il corpo dentro un vecchio tappeto“mi servirà per portarla fuori di qui senza insospettire quelli che potrebbero vedermi” penso,così faccio,stando attento a far sparire ogni singola traccia. Ormai è passato qualche giorno,capitolo dimenticato,bisogna guardare avanti,sono nel pieno della mia routine quando “oops..mi scusi signore non ho fatto apposta”.


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Gianluigi Crivelli Noir al museo Piero Salvetti svolgeva l’attività di guardiano presso il Museo d’Arte Moderna della città di Lugano. Era sposato e aveva due figli maschi. Durante il pomeriggio, quando non era occupato dai turni di lavoro, aveva preso l’abitudine di recarsi nella vicina enclave di Campione d’Italia dove trascorreva ore, all’interno del Casinò, tentando la fortuna alle slot machine. Purtroppo era diventato schiavo del gioco e nell’ultimo anno aveva accumulato diversi debiti. I prestiti gli erano stati concessi da un certo Salvatore Capuzzi che aveva conosciuto frequentando la casa da gioco. Al momento attuale i suoi debiti ammontavano a quasi quarantamila franchi. Salvatore era un usuraio che accordava prestiti ai clienti della casa da gioco a interessi molto elevati. Era un uomo sui cinquant’anni, piccolo di statura e tarchiato con un naso da ex pugile, un personaggio poco raccomandabile, legato a ambienti malavitosi. Nelle ultime settimane l’usuraio aveva fatto grande pressione per ottenere da Piero la restituzione del debito. Piero non era in grado di far fronte all’impegno e, con la speranza di azzeccare una grossa vincita, aveva intensificato le sue giocate. Le perdite si accumulavano facendo aumentare il volume dei debiti.


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Inoltre, a complicare la sua vita, già molto ingarbugliata, c’era anche il fatto che si era invaghito della compagna di Salvatore, una rumena di ventotto anni, impiegata nella casa da gioco, con la quale Piero aveva avuto una breve storia, interrotta dalla donna per paura di una reazione violenta del suo convivente. Un pomeriggio, mentre Piero si trovava, come d’abitudine, davanti a una macchina mangia soldi, fu avvicinato da Salvatore il quale gli disse che doveva parlargli con urgenza. Si appartarono in un bar e Salvatore, con tono minaccioso, gli comunicò che non era più disposto ad aspettare e che, essendo a conoscenza delle sue difficoltà finanziarie, aveva trovato il sistema per pareggiare i conti. L’idea di Salvatore era quella di effettuare un furto d’opere d’arte presso il museo dove Piero svolgeva la sua attività. Il piano consisteva nell’introdursi nel museo, come un normale visitatore, un’ora prima della chiusura serale, prelevare alcune opere, poi dirigersi verso Campione via lago con una barca da pesca. Piero doveva aiutarlo a impossessarsi della refurtiva, farlo uscire dal museo, rompere un vetro per simulare una via di fuga, poi far scattare l’allarme dopo mezz’ora con un dispositivo a tempo. Dopo avere riflettuto per un paio di giorni, e non vedendo altra via d’uscita, Piero si dichiarò d’accordo. Un giovedì, nel periodo dedicato a un’esposizione dell’artista Paul Klee, Salvatore verso le diciassette pagò il biglietto d’entrata allo sportello al piano terreno e si introdusse nel museo. Al momento della chiusura, su indicazione di Piero si nascose in uno stanzino adibito a ripostiglio. Avevano scelto la giornata di giovedì perché la cassiera partiva subito dopo la chiusura per recarsi in palestra.


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Nella sala al primo piano Piero e Salvatore tolsero due tele dalla cornice. Mentre Salvatore era occupato a introdurre le opere in un cilindro di cartone, Piero lo colpì violentemente al capo con una mazza da baseball. Trascinò poi il corpo esanime lungo gli scalini che portavano al piano terreno, posò una scala doppia adagiata sulla rampa così da inscenare una caduta mentre l’uomo tentava di uscire da una finestra. Pulì in modo accurato le macchie di sangue dal pavimento al piano superiore. Mise la mazza e i guanti che aveva usato in un sacco di plastica che poi, durante il tragitto verso casa, avrebbe gettato in un cassonetto della spazzatura e lasciò il contenitore con le tele rubate vicino al corpo di Salvatore. Sistemò nell’atrio d’entrata un piccolo veicolo a batteria, che lui stesso aveva costruito, comandato da un dispositivo a tempo che sarebbe partito dopo un’ora facendo scattare l’allarme. Piero, prima di essere assunto dalla città di Lugano come guardiano del museo aveva imparato la professione di elettrauto e aveva come hobby la costruzione di modellini di auto da corsa. La piccola auto avrebbe percorso un tratto di corridoio per poi finire in un angolo, nascosta da un mobile. Piero, dopo aver inserito il dispositivo d’allarme chiuse la porta d’entrata del museo e rientrò al suo domicilio di Molino nuovo. Dopo il suono dell’allarme gli agenti della polizia arrivarono sul posto in pochi minuti. All’interno del museo trovarono il cadavere di Salvatore e iniziarono le indagini condotte dal commissario Bardelli.


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Le telecamere di sorveglianza erano state disattivate e non fu possibile ricostruire l’accaduto guardando i filmati. Il commissario suffragato dalla sua esperienza ebbe subito la sensazione che il furto presentava degli aspetti piuttosto strani e iniziò a valutare tutti gli indizi in modo scrupoloso.

Il giorno seguente tutto il personale fu convocato per essere interrogato. Verso le nove del mattino fu la volta di Piero che raccontò la sua versione dei fatti. Quando fu congedato, prima di uscire dal museo, Piero si recò in fondo al corridoio, con l’intenzione di recuperare il veicolo che era servito per far scattare l’allarme. Guardò dietro il mobile poi vicino a un grande vaso di fiori, nessuna traccia del piccolo mezzo. Si chinò per guardare meglio, sentì un rumore alle sue spalle, si alzò di scatto e girandosi vide il commissario che stava in piedi dietro di lui. Teneva in mano la piccola auto e disse: -Cerca forse questa!-


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Patrizia Cantagalli Il diamante maledetto Drin, drin,“Pronto?” “Mi scusi signor ispettore, Calogero Roberto al telefono! Guardiano del museo d’arte di Lugano. Volevo comunicarle che hanno rubato il diamante Hope che custodivamo segretamente, fra breve sarebbe stato trasferito al Millenium Dome di Londra. Ispettore Iginio è ancora li?“Si signor Calogero, perché avete chiamato me?” “Lei è un ispettore investigatore conosciuto a livello mondiale, confidiamo nel suo aiuto. Naturalmente con ricompensa, ci pensi. Se accetta, l’aspettiamo al sorgere del sole.”L’ispettore, guardò il pacchetto Barclays. Si era ripromesso, in pensione niente sigarette e vita spericolata. Solo natura e sana alimentazione. Il diamante maledetto lo affascinava. La leggenda narrava,“chiunque lo avesse posseduto moriva”. All’alba si presentò al museo ed immediatamente iniziò ad investigare. Il sotterraneo era buio e freddo, il ladro non aveva lasciato traccia. Come sapeva del diamante, come aveva fatto a uscire dal museo, perché l’allarme non era scattato? Un dilemma, esaminò attentamente; le finestre erano sigillate. Il contenitore di cristallo ricoperto di morbida seta Jersey era lì. I fili erano tagliati grossolanamente. Dopo un mese era consapevole, non poteva rimanere senza il suo lavoro. La telefonata aveva rimesso in circolo l’adrenalina, il sangue viaggiava a mille ridando energia e vitalità al cervello. Era grato all’inesperto ladro, perché gli aveva dato la possibilità di capire che la vita voleva viverla fino alla fine colma d’avventura. Senza rendersene conto si accese una sigaretta. L’aroma risvegliò il gusto che era andato in letargo, i polmoni si riempirono di fumo, soddisfatto non si pentì del gesto. Buttò il mozzicone a terra, stava per andarsene, si girò e con stupore si accorse che il fumo veniva attratto dalla parete. Si avvicinò, la toccò e con incredulità individuò un passaggio segreto. Le pareti si sovrapponevano una all’altra era un gioco d’ottica, solo chi sapeva lo vedeva. Iginio s’intromise tra esse e in un batter d’occhio si trovò nelle fognature. L’aria era nauseabonda,


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prese il fazzoletto e si coprì il naso. Camminò, fino ad una stanzetta lievemente illuminata, salì le strette scale sbucando in un pianerottolo che riconobbe immediatamente. Si trovava nell’atrio secondario a ovest. Sicuramente chi aveva escogitato il piano diabolico lavorava li. Andò alla ricerca del signor Calogero, determinato convocò il personale per investigare. Dei trenta dipendenti, se ne presentarono ventinove. L’ispettore intuì che la persona mancante, probabilmente poteva essere coinvolta. Volle sapere tutto di lui. Sicuro e a grandi passi si diresse alla Volvo, mise in moto e partì.“Rosa Palombo donna delle polizie, lavorava da vent’anni al servizio del museo. Informazioni: all’apparenza cordiale, i colleghi la descrivevano, calcolatrice, manipolatrice e malvagia. Nel suo privato aveva portato alla rovina il convivente dilaniandogli i risparmi, il pover uomo dalla disperazione si era ammalato ed infine deceduto. L’ispettore, arrivato davanti casa Palombo, salì al terzo piano e suonò il campanello, nessuna risposta. Risuonò, la porta rimase chiusa, in quel momento sentì un rumore provenire dall’interno, con voce sicura disse: “signora Palombo apra la porta, polizia, se entro cinque minuti non apre, la butteremo giù” Nel frattempo altri poliziotti arrivarono e aprirono cautamente la porta entrando. La scoperta fu agghiacciante, la signora Rosa giaceva nella vasca da bagno, a terra un diamante brillava illuminando la stanza. Un poliziotto si inchinò vicino alla signora costatando il decesso, stava per raccogliere il diamante quando una voce grido;“Non toccarlo!”. Troppo tardi il giovane venne a contatto con il prezioso, sconcertato dell’accaduto chiese spiegazioni. Iginio rivelò le disavventure del diamante, gli agenti increduli si misero a ridere insinuando che erano stupide superstizioni. La finestra aperta, con il vento continuava a sbattere, l’ispettore la chiuse ed attese che tutti fossero usciti, compreso il cadavere. Prese una scatola, con estrema cautela inserì il diamante, senza toccarlo. Socchiuse leggermente gli occhi, non voleva in qual modo essere stregato dalla sua bellezza. Chiuse il cartone, sigillò la porta ed uscì. Al signor Calogero comunicò che la signora Palombo, dopo anni trascorsi a pulire e truffare brave persone, un giorno si era accorta del passaggio segreto. Non ne aveva fatto


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parola con nessuno, di tanto in tanto rubava qualche quadro e lo rivendeva al mercato nero. Odiava il suo lavoro, però aveva trovato il modo di fare soldi. Origliando nell’ufficio del custode, era venuta a conoscenza che un diamante sarebbe rimasto per pochi giorni al Museo. Avida di denaro lo aveva rubato, era stato facile perché conosceva perfettamente gli orari e le abitudini del custode. Aveva escogitato tutto alla perfezione annotando tutto sul suo diario. Però aveva trascurato un particolare importante, la sua maledizione. La notte del furto ignara della sorte che le sarebbe capitata, per rilassarsi fece il bagno, non si sa come o perché. La finestra si spalancò, un fulmine entrò direttamente nella vasca. Per la signora non ci fu nessuna possibilità di vita. Trascorsa una settimana, il signor Calogero era contento che il diamante fosse giunto a destinazione. L’ispettore seduto in giardino, con sigaretta in bocca e il giornale tra le mani, leggeva l’annuncio,” Vendo Rustico del 1800”. Il profumo d’erba tagliata penetrava piacevolmente nelle narici, il caffè fumava, il miele color oro brillava al sole, il burro nostrano, il pane e il latte dei contadini erano accuratamente sistemati sul tavolo di granito. Sgranò gli occhi, la sigaretta cadde a terra”Giovane agente muore al museo d’arte di Lugano schiacciato da lampadario di cristallo staccatosi dal soffitto. Esperti increduli.”L’ispettore rimase sconvolto, in cuor suo sapeva che il diamante non aveva perso il suo potere malefico.


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Domenico De Stefano Opera Prima «È tutta una punizione!» Reuss si lagnò precedendo l’ispettore Stern, di cui era il fidato attendente da sei anni, lungo i saloni del Guggenheim di Berlino «Per le sue indagini sulle assunzioni al Ministero dei Trasporti, intendo dire; lei scopre come conducono gli affari laggiù e loro le tolgono il caso sbattendola ad occuparsi di questo!». «È il nostro lavoro» si limitò a dire l’anziano detective, il cui sorriso sornione mostrava più di quanto il silenzio volesse nascondere e porse la mano all’elegante quarantenne che stava loro venendo incontro «Ispettore, ben arrivato! Sono Simon Brestlich, il direttore». «Buongiorno, direttore» Stern strinse con vigore la mano sfuggevole dell’uomo di fronte a lui «Mi guidi subito sul posto esatto, vuole?». «Certamente! Venga, lei il primo a vedere. Mi sono premurato che nessuno toccasse nulla». «Bene. Ha trovato lei il corpo?». «No, è stato trovato dalla nostra curatrice delle esposizioni». «Mh, può condurla da me sul luogo del ritrovamento, per favore? Io farò da solo nel frattempo». Brestlich accettò con velato disappunto e si congedò da Stern e Reuss, i quali in breve si trovarono sul luogo del misfatto. Nel centro esatto dell’ampio salone tappezzato di opere moderne dalla grande originalità giaceva un tronco di donna disarticolato e bianco, le cui fattezze sprigionavano una bellezza nobile anche dopo la furia che l’aveva colpita, la violenza che le aveva staccato di netto la testa dal collo soave e le aveva strappato un braccio, ora abbandonato e pallido accanto a lei. I due


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agenti di polizia stettero a fissare in silenzio quello scempio, ciascuno sgomento di fronte all’azione perversa ed oscura di cui osservavano il risultato, finché il direttore del museo non li raggiunse con la curatrice -una trentenne dall’aria algida e l’impeccabile eleganza- al proprio fianco. «Oh, bene» debuttò Stern che si sentiva un po’ inquieto per quel crimine «La ringrazio per la disponibilità, signora...?». «Brestlich, Sarah Brestlich». «Ma guardi! Moglie?». «Esattamente». «Entrata con un concorso?». «Con un regolare colloquio» si intromise il direttore/marito. «Con lei, signor Brestlich?». «Certamente. Era un mio onere». «Capisco» l’ispettore rifletté un attimo, poi si rivolse alla curatrice/moglie «Lei ha trovato il corpo, dunque?». «Si, signore. All’apertura del museo faccio un giro per accertarmi che le opere ospitate sfavillino e così, entrata qui, ho trovato questo disastro!». «Va bene. Probabilmente il fatto è accaduto di notte, a museo chiuso. Non avete sorveglianza?». Il signor Brestlich parve quasi offendersi «Sensori, telecamere, guardia giurata, cani. È il Guggenheim!». «Certo. Posso parlare con la guardia giurata?». «Se vuole» pigolò il direttore e si allontanò con lentezza.


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«Tu prendi le registrazioni del circuito chiuso» dispose Stern con Reuss, il quale non riusciva a non guardare la poveretta smembrata. «Sono tutte opere moderne qui dentro, giusto?» chiese poi alla signora Brestlich. «Solitamente si, ma questo mese stiamo ospitando anche questa collezione d’arte antica...». «La cosa vi preoccupa? Non vi piace?». «Non la capiamo, diciamo; noi siamo l’avanguardia artistica. Il nostro museo si proietta in avanti, sembra fuori luogo organizzare qui un’esposizione di pezzi del passato, ma il governo ci avrebbe ringraziato con generosità e non si sputa mai su certe cose!». «Dicono sia così» fu il laconico commento di Stern che però diede il via ad un inatteso sfogo della curatrice a proposito della sua quotidiana lotta contro i pregiudizi sulla sua persona e le malignità sulle quali sorvolò a fatica, sdegnata dalla stupidità del malizioso chiacchiericcio alle sue spalle. L’ispettore quindi accolse con un sospiro l’arrivo quasi simultaneo di Reuss e del direttore, fiancheggiato dal giovane in uniforme bruna che lo indicava come la guardia giurata. «Salve, ispettore. Io sono Rudolph Terkel, mi volevate?». «Si, signor Terkel. Credo che il fattaccio sia avvenuto la scorsa notte, così mi piacerebbe che lei dicesse se ha notato nulla che ci aiuti a capire». «Oh! La notte scorsa, eh? Mi dispiace molto, no, non ho visto niente di strano. Io non...no, niente». «Mh, lavora da tanto qui?». «Da sette mesi circa, mia sorella mi ha fatto dare il posto!». «Sua sorella?».


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«Sono io, ispettore» interloquì la signora Brestlich con voce roca «Era perfetto per il lavoro». «E come no? Perfetto!» sbotto Reuss indispettito dal presente tanto prossimo al passato. «Ehi! Guardate che io ho andato all’università!» fu la difesa di Rudolph, zittito da un paonazzo direttore con un’occhiata perentoria, mentre Stern fece più o meno lo stesso col proprio collaboratore e l’incidente finì prima di iniziare. «Comunque il colpevole si è introdotto nel museo evitando i sistemi d’allarme e si è poi diretto con sicurezza in questa sala e con un corpo contundente -credo un martello- ha colpito» riassunse dopo un poco di silenzio l’ispettore prima di ordinare a Reuss «Li arresti tutti e tre!». «Ma cosa dice?! Che significa?» il direttore fu l’unico ad esprimere a parole la sorpresa e la rabbia comuni a ciascuno degli accusati. «Dico che siete tutti colpevoli» Stern parlò con rattristata durezza «Colpevoli di aver assassinato l’arte, di aver attentato alla sua storia, di aver ferito la sua stessa idea di armonia. Dico che la vostra meschinità e la vostra ipocrisia vi hanno portato fin qui, dico che la vostra boria ignorante vi ha spinto ieri notte a scagliarvi contro il simbolo di ciò che non capite e che non rispettate, piccoli sciacalli opportunisti e macchinatori! In centrale, Reuss!». I tre deplorati criminali protestarono mentre venivano accompagnati fuori dal museo che credevano di loro proprietà, eppure Stern non li udì affatto, intento com’era a guardare con dolore la bellezza oltraggiata della statua di marmo dell’epoca di Roma Imperiale, la cui testa e il cui braccio le erano state staccate a martellate, riversa sul pavimento nel centro esatto di quel salone del Guggenheim di Berlino.


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Pamela Trincado La notte di un bibliomane Museo Librarium all’interno della Bibliothèque royale de Belgique, Bruxelles. Nel buio della sala scorgo davanti a me l’installazione che chiamano De Woordenwerveling: vortice di parole. Da qui si irradiano gli altri ambienti del piccolo museo dedicato alla storia del libro. A stento trattengo l’emozione nel ritrovarmi nella stessa stanza in cui è temporaneamente custodito il codice. È stato portato qui oggi e nessun visitatore ha ancora avuto modo di vederlo. Siamo noi due soli: io e il più grande manoscritto medievale esistente al mondo, il Codex Gigas. La leggenda vuole che un monaco benedettino lo abbia composto in una sola notte, con l’aiuto del demonio. Colleziono compulsivamente codici manoscritti, incunaboli, cinquecentine, potrei continuare all’infinito. Non ricordo esattamente a quando risalga la mia passione che con gli anni è divenuta una vera e propria bibliomania. Se mi penso in fasce mi vedo attorniato da manoscritti e libri antichi. A volte la mia ragione ne esce offuscata, come oggi. Ripenso a come poco fa ho ucciso la guardia notturna, ma i ricordi si fanno pulviscolo. Rammento solo di aver impugnato il mio tagliacarte. E poi i fiotti di sangue: la carotide, sì devo aver tagliato quella; con un gesto quasi meccanico. Lascio che tutto mi scivoli via e tremo non tanto per le atrocità commesse quanto per la gioia di ritrovarmi da solo all’interno della biblioteca, di notte. Le atrocità: il plurale mi ricorda il mio penultimo crimine. La mia vittima, un anziano signore, possedeva una prima edizione dell’Hypnerotomachia Poliphili, datata 1499. Opera enigmatica, mi ha sempre affascinato per le sue meravigliose silografie. L’esemplare del signor Kroll aveva una bella legatura in pergamena; era compreso di tutte le carte e alcuni ex libris di noti


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personaggi ne incrementavano il valore. Un’opera di grande pregio, insomma. Incontrai il signor Kroll in una libreria antiquaria, per caso. Scambiammo quattro chiacchiere e mi parlò di un libro preziosissimo; tesoro di famiglia tramandato di generazione in generazione, ora in suo possesso. Mi finsi suo amico e ben presto giunse l’atteso invito. Mi accolse in casa sua con un gran sorriso, entrai e lo vidi. L’incunabolo, impolverato, giaceva tristemente sopra un centrino di pizzo démodé ormai grigio, attorniato da alcune vecchie fotografie incorniciate: figli, nipoti, forse una moglie defunta e ottuagenari scomparsi da molto tempo. Gli proposi esorbitanti somme di denaro, ma fu tutto inutile: «non c’è somma che valga un tesoro di famiglia», ripeteva. Privo di raziocinio, fui nuovamente sopraffatto da uno dei miei “episodi”. Ricordo poco di quello che seguì: io che brandivo una baionetta a ghiera, il centrino macchiarsi sangue, e poi la fuga. Ho provato orrore per la mia crudeltà, ma ben presto il disgusto si sciolse pensando alla rarità che finalmente possedevo. Seguirono alcune notti tormentate dagli incubi: mi ritrovavo nel bosco come Poliphilo, il protagonista del libro rubato, insidiato dai miei fantasmi passati. Carri allegorici sfilavano rappresentando i miei crimini. Ogni notte mi svegliavo di colpo, madido di sudore, con il cuore che mi batteva all’impazzata. Un solo pensiero: come potevo aver commesso tanti delitti? Le terribili notti finirono e un nuovo desiderio si impossessò di me. Volevo quel manoscritto. Ne avevo bisogno. Sogni di brama sostituirono gli incubi: di nuovo Poliphilo inseguivo la mia Polia: questa volta si trattava del Codex Gigas. Ma come nel racconto, un momento prima di afferrarlo, il manoscritto si dissolveva. Sapevo. Sapevo che sarebbe giunto dalla Biblioteca nazionale svedese di Stoccolma per una mostra temporanea al Librarium. Momenti di lucidità si alternavano agli stati di febbrile delirio.


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Ero quasi riuscito a placare i miei folli istinti, quando per caso colsi una conversazione illuminante. Alla Galerie Bortier, tra Mont des Arts e la Grand Place, luogo meraviglioso in stile barocco fiammingo dove solitamente mi reco per appagare le mie ansie acquistando libri, due uomini disquisivano su Erasmo da Rotterdam. Come potevo essermi dimenticato del suo Elogio alla follia! Finalmente vedevo tutto con grande chiarezza: è la follia a permettere all’uomo di conciliarsi con la vita. Dovevo assecondare la mia. Decisi che avrei rubato il Codex. E così eccomi qui, di notte, all’interno del Librarium. Mi concentro sul presente e lascio andare tutti i pensieri. Il cuore mi batte forte. Respiro a stento. I continui capogiri dovuti all’ansia mi fanno temere di svenire da un momento all’altro. Mi costringo alla calma e a fare profondi respiri, riempiendo completamente i polmoni. Lentamente mi dirigo verso la sala dedicata alle diverse forme del libro. Ripeto come un mantra: tavoletta in argilla, rotolo, codice manoscritto, libro a stampa, e‐book. E‐ book – penso – che assurdità. Allontano nuovamente i pensieri, mi avvicino al codice. Siamo io e lui. Soli. È aperto sulla pagina 577 in cui è raffigurato il diavolo. I miei occhi scrutano i suoi e improvvisamente vi si riconoscono. Sobbalzo e mi allontano dalla sua vista. Sono un antieroe ‐ mi dico ‐ vittima del mio incontrollato desiderio. Penso alla follia e alla crudeltà che mi hanno portato a divenire mezzo uomo e mezzo animale, proprio come il lucifero del manoscritto. Disperato, rompo la vetrina che lo protegge. Scatta l’allarme. Stringo l’oggetto del mio desiderio, accarezzo la borchiatura finemente decorata, mi accascio a terra e attendo. Vedo arrivare di corsa la polizia. «Abbiamo visto il suo collega: è morto!», mi dicono. «lo so. Il ladro è fuggito. Ho salvato il manoscritto».


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Quella notte una guardia notturna assistette alla morte di un suo collega e salvò un manoscritto di inestimabile valore. Quella notte io ho ucciso il mio amico ma ho posseduto, per una buona mezz’ora, un manoscritto di inestimabile valore.


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Cristina Della Santa Epilogo di una vecchia storia d’amore -

Alice, il campanello!

-

Sono in soffitta, mamma.

Agosta si alzò a fatica dal divano, spezzata dalla giornata di lavoro. -

Ah, signor sindaco, sempre tra i piedi!

-

Volevo avvisarti che domattina verremo a ritirare i quadri di tua madre, fatti trovare!

Il fantasma di Adele passò tra loro con gli occhi trasparenti e la camiciola intrisa di sangue. -

Dopo le interviste che hai rilasciato ai giornali, te li puoi scordare i quadri, vecchio bigotto, meschino e arrogante!

Agosta gli sbatté la porta sul muso per evitare di vedergli i bargigli tremare di disappunto. -

Non puoi tornare indietro, Agosta! Hai firmato delle carte. Dovresti essermi grato che dedico un museo a una donna come tua madre. Tu non l’hai conosciuta, io sì…

-

Chiamalo museo! Una vecchia stalla aggrappata a un declivio. Non sai più cosa inventare per attirare i turisti.

-

Adele almeno sapeva dipingere, tu sei scema e basta!

Gli acuti trapassavano la porta. In sala Agosta appallottolò i giornali con rabbia e poi li lisciò meccanicamente, seduta sul tappeto: … brillante iniziativa del sindaco volta a valorizzare una valle che rischia... la pittrice Adele Stagnini, la cui biografia… morì nella


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sua stanza partorendo da sola… la neonata miracolosamente… Agosta, così chiamata dalle suore, poiché nacque in agosto… figlia del peccato non poteva portare il nome di un santo… in paese si vocifera che un giovane del luogo era stato visto più volte varcare la soglia della pittrice… non riveliamo il suo nome per ragioni di privacy… oggi stimato professionista… all’epoca studente universitario… a riprova che il destino di una famiglia si ripete… vent’anni fa Agosta partorì Alice… illecita… Illecita! L’indomani mattina Alice aiutò Marzio, operaio comunale e compagno d’infanzia, a caricare le tele della nonna sul furgone. Il giorno 21, con un tempismo perfetto, i dipinti ripuliti e incorniciati furono appesi alle pareti del museo sotto la direzione dell’architetto Piero Luvi, uomo attempato e ossuto di indubbio rigore professionale, che aveva anche sapientemente curato la ristrutturazione del rustico. Per via del ricco rinfresco, all’inaugurazione partecipò tutto il paese. L’unica assenza, quella di Agosta, deluse i giornalisti intenzionati a pubblicare la sua fotografia sotto il discorso del sindaco. Prese la parola anche l’architetto Luvi, il quale in tono asciutto e inespressivo così sibilò:

-

È stato per me un onore rendere omaggio all’artista Adele Stagnini in questa particolare circostanza.

Detto questo, Piero Luvi vacillò, strinse gli occhi, storse i due fili di labbra e si aggrappò al microfono. Matilde, la moglie, gli lanciò uno sguardo di disprezzo. Attimi impalpabili, poi partì la fisarmonica di zio Biagio.


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Per due settimane crocchi di turisti sostarono davanti alla casa di Agosta addentando panini e merendine e immortalando le due finestre della camera da letto di Adele e l’affresco di San Bartolomeo che si trovava per caso in mezzo. I visitatori del museo furono in totale 14 e l’economia locale non ne trasse alcun giovamento. Agosta, scombinata dagli avvenimenti, si prese qualche giorno di libertà, desiderosa di rigenerarsi fra le danze di verdi e azzurri dentro i dipinti di sua madre, per anni imprigionati in soffitta e ora sequestrati in un museo. Barricato nel suo ufficio con i soliti grattacapi, il sindaco la fece aspettare parecchio prima di comunicarle laconico: - La chiave del museo è scomparsa! E poi aggiunse in tono sdegnoso: - D’altronde, per quel che serve. Agosta lo guardò impietrita, in attesa che la vampa di calore le salisse dalle mani alla testa, poi indemoniata buttò in aria il municipio. La chiave non c’era. Con il cuore rovente si inerpicò a passo sostenuto verso il museo, incurante della fitta pioggerella che le rigava il viso. Le finestre del museo erano illuminate. Il portone bloccato. All’interno Wagner. Il crepuscolo degli dei levava i muri del dramma verso il cielo. Agosta schiacciò il naso contro la prima finestra, ma fu attraverso la seconda che vide netto, estremamente vicino, il profilo allucinato dell’architetto Luvi.


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Pochi metri più in là, il suo fuoristrada aperto. Sul sedile posteriore, piani e facciate del museo ricoprivano il calcio di un fucile da caccia. Quando vide giungere Matilde cerea e fradicia di pioggia, ridiscese verso casa. Il cadavere dell’architetto Luvi fu scoperto da Dante, il fabbro incaricato di aprire la porta del museo, e da Beatrice, la donna delle pulizie che lo accompagnava. Si avvicinarono al volto di Piero, un impasto di materia viva rappresa, e scrutarono minuziosamente le macchie di sangue incatramato su quadri e pareti. Beatrice, abituata ad una vita d’inferno, non provò particolari emozioni e prosaicamente sentenziò: -

Fucile a pallettoni!

Dante, girandosi verso i vetri infranti della finestra, annuì. In quel paese di cacciatori, tutti si muovevano a loro agio fra le armi. Si occupò dell’incresciosa vicenda il commissario Capotondi che, notoriamente più attento alle dicerie che agli indizi, calpestò la scena del crimine e sfilò senza alcuna precauzione l’album da disegno di Piero incastrato sotto il suo corpo. Irriverente lo aprì: foglio dopo foglio gli schizzi leggeri, ripresi dai paesaggi sinuosi di Adele, si trasformavano in segni calcati con furore. Curve e cerchi si stringevano in un vortice ineluttabile verso gli abissi della follia: vi emergevano i seni languidi e i fianchi voluttuosi di Adele dentro cui Piero un tempo aveva sognato, goduto e capitolato. Capotondi arrestò le uniche due persone sospettate, le interrogò strenuamente per settimane, con mezzi leciti e illeciti, senza


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riuscire a contrastare la loro indole granitica. Fu costretto a rilasciarle. Matilde e Agosta uscirono dal carcere con un segreto comune, ognuna chiusa nel suo silenzio. Trovarono un paese invaso da turisti in visita al museo dell’orrore: in terra, sulla parete e su due quadri, segni di sangue, accuratamente illuminati, mostravano tutta la loro vena espressiva.


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Cristiano Perli Noir al museo È normale che, dopo una notte come quella appena trascorsa, nulla potrà ancora essere come prima. Io ho visto. Ho visto tutto. Peccato non poterne parlare.

Potrei raccontarvi del custode. Un anziano introverso, sempre in guerra con il mondo, al quale sta stretto ogni tipo di novità. In una telefonata alla moglie, fatta qualche sera fa, è racchiuso tutto il movente di un gesto scriteriato come quello perpetrato nelle interminabili ore di questa nottata.

“Cara non preoccuparti.” Le disse sussurrando per non farsi sentire da nessuno. “Fra poco la nostra vita cambierà.” Credo non attese neppure la risposta, riagganciò il telefono guardandosi attorno, nella speranza che nessuno l’avesse scorto.

Non crediate che il giovane direttore sia meno sospettabile. Lo sentii urlare più di una volta verso quel povero cristo rinvenuto cadavere questa mattina. Le entrate del museo erano in costante calo. Una drammatica flessione che raggiunse una soglia preoccupante proprio nelle statistiche dell’ultimo mese quando la città di Bellinzona annunciò il probabile taglio al budget della cultura. Cercava qualcuno a cui addossare la colpa del mancato successo del suo museo; poi, da qualche tempo, maturava in lui la convinzione di dover assolutamente giocare al rilancio, attirando l’attenzione dei media, anche a costo di giocare sporco. Nessuno, credo, osò mai chiedersi fin dove volesse spingersi con quel giocare sporco. Si prefissò l’obiettivo di godersi una bella vacanza nel preciso momento in cui la tendenza negativa degli ingressi si fosse risolta per almeno tre


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mesi consecutivi. E della segretaria del direttore? Non ne vogliamo parlare? Una giovane che, invaghitasi del collega troppo frivolo per impegnarsi seriamente, ne subì il fascino: era un ragazzo dall’enorme bagaglio culturale. Un’infatuazione, una cena, una romantica passeggiata sotto le stelle, l’illusione di un amore intenso nell’attimo dell’estasi e la drammatica realtà della mattina dopo, quando lui se ne andò. Nelle stanze del museo, collocato all’interno di un’antica villa di Bellinzona, il bianco intenso delle pareti rende vano il concetto di buio quando c’è la luna piena. Pareva essere una notte come tante, passate a contare le ore che dividono la chiusura serale dalla sempre piacevole riapertura del mattino. La vita in questo museo è così. Trascorre lenta, ripetitiva, giorno dopo giorno. Certo, fossimo al Louvre tutto sarebbe diverso. Lì i ritmi sono differenti, i numeri sono diversi. Ebbi modo di trascorrerci qualche tempo, nella Ville Lumière. Oggi però sono qui, pur sempre in una capitale, anche se di dimensioni ridotte. Compresi subito che qualcosa non andava per il verso giusto. Erano le 23.00 quando udii un misterioso clack, il tipico rumore della serratura che scatta. Insolito per quell’ora, pensai. Questo rumore si ode solo alla riapertura del mattino. Altro fatto strano fu la mancata accensione delle luci. Sfruttando la penombra, una figura non riconoscibile iniziò con piglio deciso a camminare silente per i corridoi. Arrivò nel nostro salone, iniziando ad armeggiare con uno degli ospiti fissi. Quando a un tratto, udendosi di nuovo il clack della serratura, si fermò impietrito. Non ebbe il coraggio di girarsi per non fare rumore, così da non attirare l’attenzione dell’inatteso nuovo ospite. Rimase in attesa, forse aspettando l’evolversi della nuova situazione. Vide accendersi le luci nei corridoi e sentì i passi avvicinarsi alla stanza. In lui l’agitazione salì a tal punto che si sentiva distintamente l’affanno del suo respiro. Rimase immobile, chiedendosi probabilmente chi diavolo fosse e volesse quell’intruso. Nell’attesa gli passarono per la testa mille


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immagini, mille pensieri. Dolci sogni su un litorale marino in un caldo paese tropicale. Un piano perfetto, studiato a lungo, in modo maniacale, rovinato da un banale imprevisto come l’arrivo di un estraneo. Si sentì come l’orso Yogi, che tanto adorava far vedere a suo figlio quand’era piccolo, colto nell’atto di rubare nel cestello del picnic. Dopo un tempo che sembrava interminabile in quella posizione, la stanchezza iniziò a farsi sentire a tal punto da doversi muovere. Maledetto parquet in legno e i suoi scricchiolii. “Magari non l’ha sentito, in fondo è quasi impercettibile.” Pensò fra sé. Il trambusto proveniente dall’ufficio della ricezione provocato dall’intruso, cessò… solo silenzio! “Non è possibile che l’abbia sentito con tutto il rumore che sta facendo. Che orecchio fino!” Imprecò sottovoce. Fu inutile continuare la messa inscena, la sua presenza fu scoperta subito dopo l’accensione della luce. “Cosa ci fai qui?” Chiese il responsabile della promozione culturale del museo, nonché pessimo gestore della sicurezza. “E tu?” “Lavoro arretrato.” “Non ci credo!” “Cosa ci fai qui ti ho chiesto!” “Niente.” “Come niente?” “Niente ti ho detto.” “Lo sapevo, lo sapevo. Da tempo sospettavo tu tramassi un


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simile misfatto, ma non avrei mai immaginato che l’avresti fatto sul serio.” “Non è come pensi.” “Oh già, adesso!” Prendendo il cellulare dalla tasca esclamò: “Io chiamo la polizia!” “No, fermo!” Con la disperazione in viso, in preda a un’irrazionale follia, all’esclamazione fece seguire uno strattone al collega che, colto di sorpresa, piombò rovinosamente a terra battendo la nuca contro la pietra dello stipite della porta afflosciandosi esanime mentre il sangue usciva copiosamente dalle sue orecchie, imbrattando il bel parquet ottocentesco. Un danno forse irreparabile. Con aria colpevole, l’improvvisato criminale, si soffermò un istante a guardare quel corpo senza vita e, nella sua mente, affiorò un lieve pentimento, quasi un senso di colpa, ma oramai il piano era compromesso. Come detto io ho visto tutto, so con esattezza chi ha commesso il delitto. Un vero peccato non poterne parlare. A noi dipinti è concesso di esprimere solo l’intensità del soggetto che l’artista ha voluto donarci. Non possiamo raccontare altro all’infuori della storia che, con silenziosa fierezza, mostriamo sulla nostra tela.


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Chiara Rossi Orts D‘un tratto, capisco Cammino per una strada che non conosco. Non so dove mi trovo. È notte, il vento sibila e muove le foglie in un turbine infinito. Un freddo pungente, crudele, senza pietà. I lampioni alti e distanti sono avvolti da una leggera nebbia che rende la loro luce ancora più fioca, ancora più malata. Vado avanti, ma questo marciapiede triste e desolato sembra non avere fine. A un certo punto, però, vedo un forte bagliore lontano, cosa che mi arreca un po’ di sollievo. Prendo quella direzione e, una volta vicina, lo scopro provenire da una finestra, una delle poche illuminate lungo l’intera via. Sento dei rumori, affretto il passo un po’ spaventata e mi avvicino sempre più alla fonte di luce e sicurezza, fino a vedere che, lì accanto, c’è la maniglia di una porta. Scopro che la finestra appartiene a un pub e, nonostante sembri un po’ trasandato, non esito: spingo la porta ed entro. Ci sono altre quattro persone oltre a me: il barista, capelli neri e unti, un maglione giallo senape e, in mano, uno straccio bucato con il quale sta asciugando un boccale; una coppia, uomo e donna, seduti a un tavolo con aria annoiata, in silenzio; un tizio in canottiera, nonostante la notte gelida, e bretelle che, più che impedire ai pantaloni di cascare, aiutano la pancia nella lotta contro la forza di gravità. È addormentato sul bancone, accanto a lui il berretto nero e cinque o sei bicchieri ormai vuoti. Mi dirigo verso uno sgabello e mi siedo. Il barista si avvicina, un bicchiere di vino per favore, si allontana. Metto le mani in tasca in cerca del portafoglio e mi rendo conto che non solo non ce l’ho, ma che non ho nemmeno addosso il mio cappotto. Per fortuna trovo una moneta nella tasca dei pantaloni, estranei pure loro. Che strano.


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Torna il barista con il bicchiere e, nell’atto di dargli la moneta, lo guardo negli occhi. È Alessandro, mio figlio. Mi spavento, ma lui non sembra riconoscermi e se ne torna tranquillo ad asciugare le stoviglie. «Piero, vieni qua che abbiamo bisogno di una mano». Poggia il boccale, si gira ed entra in cucina. Allora non è Alessandro, ma io sono sicura che sia lui, che quello sia il suo volto. Sorseggio il vino scadente. Guardo verso la finestra, vedo un ombra che mi osserva, ma, conscia di essere stata notata, indietreggia e sparisce. Dopo alcuni minuti, una quindicina forse, entra dalla porta un uomo dal cappotto lungo e scuro che, dopo aver percorso l’intero pub, si siede a due sgabelli di distanza da me. Giro la faccia verso di lui, incrocio suoi occhi e immediatamente dirige il suo sguardo da un’altra parte. Per tutto il tempo mi sento osservata. Alla fine il disagio è insopportabile e decido di andarmene. Mi alzo e, senza salutare, esco. Mani che mi afferrano, mi bloccano, mi atterrano. Buio. «Le ho detto di dirmi dov’è!» mi urla addosso l’uomo. Ho paura e non ho il coraggio di alzare gli occhi. Sono tutti armati. «Dov’è nascosta?» sbraita. «Signore, non so di che cosa sta parlando» riesco debolmente a dire. «Non mi prenda in giro, è di fronte a poliziotti addestrati e qualificati che non hanno paura di usare le maniere forti». Finalmente alzo lo sguardo. È Filippo, il mio Filippo. Il comandante è mio marito. Anche la voce è identica alla sua.


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«Allora?». Sposto gli occhi dal suo volto al suo petto, dove pende un distintivo. “Comandante Giuliano Piccinni”. Ma che diavolo di scherzo è questo? «Non se ne stia lì zitta, come se avesse visto un fantasma. Parli, adesso». «… Ma». «Non “ma”, vogliamo i fatti. Ieri sera è scomparsa una donna, una certa Matilde Giulini. Lei è l’ultima persona con la quale è stata vista e, quindi, la principale indiziata. Parli, oppure mi vedrò obbligato a farla parlare io». «Ma… Ma Matilde Giulini sono io». Il poliziotto serra la mascella. «Senta, non ho tempo da perdere a farmi prendere in giro. Matilde Giulini è sparita e lei è la sospetta rapitrice. Le sembra il caso di mettersi a fare la spiritosa? Con attorno sette uomini armati di pistola? La smetta, abbiamo tutti voglia di finirla in fretta e senza feriti. Lei parla, la sbattiamo dentro e ce ne torniamo tutti felici e contenti dalle nostre famiglie». «Ma sono io Matilde! Le faccio vedere…» “un documento”, volevo dire, fino a quando non mi sono ricordata di non indossare il mio cappotto e di non avere in tasca il mio portafoglio. «Mi fa vedere cosa? Le faccio vedere io se non parla». Poi, guardando il comandante, rivedo ancora Filippo. Ripenso anche a Piero, il non-Alessandro. E se nemmeno io fossi più io? «Ma…». «Basta “ma”!». I suoi occhi si chiudono, serra i pugni e diventa paonazzo. Un’espressione fin troppo familiare, Filippo quando sta per


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esplodere. Il poliziotto prova a trattenersi, a non perdere il controllo, ma è troppo: spalanca gli occhi infuocati e mi si scaglia addosso. Mi afferra le spalle con le sue mani grandi e tozze e comincia a scuotermi. «Le ho detto di parlare! Basta prendermi in giro!». Mi scuote sempre più forte, sempre più energicamente. Urlo. Ma perché i poliziotti intorno ridono e non intervengono? Mi sta aggredendo! «Parli!». Serro gli occhi più forte che posso! «Parli, le ho detto, parli!». Urlo. A un certo punto sento che la stretta sulle mie spalle si fa più lieve, così come gli scossoni, che diventano sempre meno violenti. «Matilde! Matilde!». Perché ora mi chiama Matilde? «Tesoro, stai bene?». Socchiudo l’occhio sinistro, poi li apro entrambi, completamente. Noto che la sala grigia dell’interrogatorio è sparita, così come Piccinni e i suoi scagnozzi. Al loro posto c’è un flusso di persone che scorre, si ferma, contempla e poi riparte. Filippo ha ancora le mani poggiate su di me e mi guarda preoccupato, accanto a lui sta Alessandro con un maglione di lana color senape e in mano una bottiglia. Mi guardo intorno: siamo in un museo. D’un tratto, capisco. Davanti a me, colpevole, un quadro. La stessa via, la stessa


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finestra, lo stesso pub. «Amore, stai bene?». «…Si, Filippo… Questo quadro… Credo che, per qualche istante, mi abbia rapita».


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Linda Mariano Il Museo della Memoria Finalmente a Santiago, dopo quasi quarant’anni da quando giunsero in Ticino i primi Cileni che scappavano dal cruento colpo di stato! Clara e io allora facevamo parte del gruppo di accoglienza, io nella mia zona, lei nella sua. Non è stato facile trovare il Museo della memoria, inaugurato nel 2010, in memoria delle vittime del golpe. Abbiamo chiesto informazioni a “los carabineros”, con brividi di paura, che salivano dai ricordi dei racconti fatti su di loro dai profughi. Non sapevano, o forse non volevano dirci, dove fosse. Ci siamo arrivate lo stesso. All’entrata un filmato: la presa del palazzo presidenziale della Moneda, con i commenti della televisione occupata dai golpisti. Le lacrime che non avevo tempo di versare quando dovevo far entrare clandestinamente i profughi senza visto, cercare gli appartamenti, i vestiti, le suppellettili, i posti di lavoro, tradurre i documenti di carcerazione, … adesso scendevano copiose. Stava piangendo anche Clara. Poi la sento emettere un oh. La guardo: i suoi occhi sono sbarrati, fissi sullo schermo. Uno sparo. Si accascia. Urlo, la gente urla. Arriva la polizia, l’ambulanza, invano: morta sul colpo. Torno con la salma in Svizzera. Dal Cile cattive notizie: niente movente, niente assassino. Quando ho incontrato Clara, mi ha detto che stava per coronare il suo sogno di andare in Cile con una sua amica e mi ha mostrato il programma: secondo giorno, visita al Museo della Memoria. Ho sentito il mondo, che mi sono creato in tanti anni, andare in frantumi. Prima di lasciarci le ho fatto una foto col cellulare per


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ricordo. Da ragazzo, a Santiago, studiavo e sognavo di andare in Europa, innamorarmi di una donna con la pelle chiara, sulla quale spiccassero le mie mani scure, trovare un lavoro che mi permettesse di mantenere una famiglia, senza dover fare tutti i sacrifici che avevano fatto i miei genitori e… vedere i Beatles. Quando ho letto che cercavano candidati carabinieri, ho mollato tutto e mi sono arruolato. Un discreto stipendio assicurato, mi avrebbe permesso di andare prima in Europa. Mi vedevo già là. Ero intelligente, sveglio, ho fatto in fretta a fare carriera. Ero vicino a Pinochet nel suo primo discorso alla Nazione, c’ero allo stadio ormai affollato di prigionieri, c’ero… durante gli interrogatori. Il mio vicino di casa, ha cominciato a ricordarmi che tutti i dittatori della storia, prima o poi sono finiti male. Ho avuto la tentazione di denunciarlo anonimamente per non importa cosa, ma le sue osservazioni mi hanno impensierito. Un giorno mi ha detto che poteva farmi andare in Europa (parola magica). Conosceva un prete che procurava documenti e contatti per espatriare. Mi sono procurato tre lividi, mi sono presentato sotto falso nome, come nativo di Punta Arenas nel sud del Cile e mi sono lasciato crescere la barba. Sono arrivato in Ticino, ho trovato tanto calore umano. Ho sentito le storie degli altri rifugiati, ne ho raccontata una anch’io. Nessun cileno mi conosceva, alcuni dubitavano di me, ma io sono stato convincente, sapevo bene cosa succedeva a chi veniva arrestato. Ho tagliato i ponti con la mia famiglia. Clara è stata la prima svizzera che ho conosciuto, mi ha aiutato moltissimo, mi guardava sempre intensamente, forse era innamorata di me, ma non aveva la pelle lattea come Laura che è diventata mia moglie. Ho detto che ero laureato. Mi sono


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fatto le ossa sul posto di lavoro, dove tutti erano comprensivi e oggi mi apprezzano molto. I miei figli studiano. A suo tempo ho assistito anche a un concerto dei Beatles. Ho dovuto tenermi in contatto col mio vicino, chiamarlo una volta all’anno e mandargli dei soldi, altrimenti avrebbe parlato. È lui che mi ha informato delle mie immagini nel video, al Museo della memoria. Sono arrivato a Santiago prima di Clara e della sua amica. Sono andato dal mio ex vicino. Ormai non abita più accanto ai miei. Si è comprato la casa. Da buon cileno, mi ha invitato a restare. Sono uscito spesso con la scusa di impegni. Sono anche andato a vedere una casa in vendita, facendo finta di essere interessato nell’eventualità di un ritorno. Ho visto Clara da lontano, la sua amica non la conosco. Ho contattato un altro ex vicino, un tipo poco pulito, delatore ai tempi del golpe. Gli ho detto il giorno previsto per la visita, gli ho mostrato la foto di Clara. Non c’è voluto molto a convincerlo a fare un lavoro per me: metà soldi prima, metà dopo: vita più agiata e nessuno avrebbe saputo delle sue delazioni. Quel giorno sono rimasto a casa del mio amico, finché mi ha accompagnato all’aeroporto. Da lì ho spedito la busta con il resto del compenso. La notizia si è diffusa rapidamente. Nessuna traccia dell’assassino, forse uno scambio di persona. Ho chiesto ai tanti amici cileni se qualcuno di loro era stato in Cile ultimamente. Tanti no, poi un sì, un certo Ector. Ho preso informazioni su di lui. L’ho aspettato fuori dal suo ufficio e ho capito chi era. Con Clara ci vedevamo raramente, ma ci sentivamo spesso. Poco dopo l’arrivo dei rifugiati, mi aveva invitata a una festa: voleva farmi vedere Ector. Era innamorata, senza essere ricambiata.


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Lui era totalmente preso da una bionda. Proprio durante il viaggio in Cile, mi aveva raccontato di averlo appena rivisto e di aver sentito ancora qualche battito accelerato. Mi sono chiesta se avesse avuto in seguito una storia che potesse centrare con l’omicidio, ma l’ho escluso perché lei me l’avrebbe detto. Mi ossessionavano gli occhi sbarrati di Clara davanti allo schermo. Ho pensato che potesse avervi visto riflesso il suo assassino. Sono tornata in Cile, al museo. Ne ho ispezionato ogni centimetro, in particolare la zona che poteva venir riflessa dallo schermo. Niente. Ho guardato il filmato. Niente. L’ho riguardato soffermandomi sui particolari secondari e l’ho riconosciuto. Ector senza barba, vicino a Pinochet! Ho fatto ricerche: nessun cileno con le sue generalità risulta essere originario, o aver vissuto a Punta Arenas. Ho passato tutte le informazioni alla polizia cilena e a quella svizzera.


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Gloria Jametti Tutti lo chiamavano “il museo”, non si azzardavano e non osavano pronunciare la parola che in verità era l‘unica a rappresentare quell‘enorme e maestoso edificio di cui si intravvedeva solamente il profilo. A volte, però, la maggior parte delle persone preferiva non alzare gli occhi al cielo e riconoscere la figura sinistra in cima alla collina. Tutti volevano ricordare quell‘edificio per com‘era stato nel passato: un museo che accoglieva ogni persona, la quale percorreva i lunghi corridoi ammirando le sue opere e nessuno voleva ricordare la trasformazione che quel museo subì. In un giorno lo spogliarono completamente cambiandogli identità. Pure io quindi, lo chiamavo “il museo”. Da bambino lo guardavo spesso attraverso i vetri della finestra della mia camera, con il nasu all‘insù e, sempre, un brivido misto tra paura e curiosità mi percorreva la schiena mentre mi immaginavo quello che poteva succedere là dentro. Durante la mia infanzia avevo molte ambizioni per il futuro, ogni mestiere aveva il suo fascino e pensavo che in un domani l‘avrei fatto. Volevo conquistare il mondo. Poi però arrivò la guerra, la miseria e la povertà. Di colpo mi trovai a combattere al fronte. Camminare sotto la pioggia, la neve, il caldo, il freddo ma, soprattutto, camminare sotto il fuoco nemico. A causa di un incidente dovetti tornare a casa, ritornare nel mio paese. Un paese cambiato, un paese distrutto dall‘odio umano, un paese piegato sotto il rumore degli spari e dalle urla miste di paura e disperazione delle persone. Un paese senza più mio padre nè mia madre. In guerra non potei più tornare, la mia gamba la dovettero amputare, mi aggrappavo ad un bastone per ogni passo che facevo, quasi come se fosse stato la mia unica speranza di vita. Infatti interiormente ero perso. Ogni sera mi rivedevo correre con i miei compagni e poi, uno dopo l‘altro mi lasciavano solo e morivano schiantati a terra, mentre io procedevo pregando e sperando che la mia fine non sarebbe stata quella, poiché la speranza di cambiare il mondo c‘era ancora. Un giorno, mentre ero a casa, arrivò un ufficiale


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dicendomi che, se volevo, avrei potuto iniziare un nuovo lavoro, annuii. Salii in macchina e presto lasciammo il paese alle spalle. Più salivamo più sentivo un nodo alla gola e un peso allo stomaco. Quella strada aveva un unico traguardo, portava in un unico luogo. Mi rividi da piccolo mentre guardavo attraverso la finestra quello spettro. Ora ero a pochi metri. Benchè attorno a noi l‘aria era fredda, sudavo, avevo caldo. Volevo tornare indietro. Volevo andarmene il più lontano possibile. Contro ogni voglia avanzai zoppicando, accorgendomi che stringevo talmente tanto il bastone da farmi sanguinare la mano. Ora ero davanti alla porta. Alla porta del “museo”. Una porta che se la varchi non esci mai più. Ma muori tra quelle mura, le mura della prigione. L‘odore nausante di urina e feci mi fece soffocare, i polmoni reclamarono aria, ossigeno. Sentivo dei gemiti, un parlottio in sottofondo e poi silenzio. -Ehi, ragazzi! È arrivato uno nuovo! Benvenuto nel cimitero dei maledetti!-Zitto!- replicò l‘ufficiale che mi stava facendo strada. Gli si avvicinò alla porta e l‘aprii. Chiusi gli occhi. Per risposta sentii solo le urla e le suppliche del poverino. Durò un paio di secondi, poi di nuovo il silenzio. Aprii gli occhi e lo vidi a terra mentre un rivolo di sangue scorreva lungo il pavimento nero come la pece. L‘ufficiale richiuse la porta. -Da questa parte, il direttore l‘aspettaSconcertato lo seguii, tenendo però lo sguardo fisso sull‘uomo che se ne stava lì, sdraiato senza emettere alcun suono. Percorsi con gli occhi quello che avevo davanti. Uomini e donne tenute tra quelle mura, senza identità né speranza. Erano cadaveri che si muovevano, completamente nudi sotto il potere di chi governava questa prigione. Non ebbi scelta, da quel giorno diventai una guardia carceraia. O lo sarei diventato o lo sarei diventato. Giorno e notte con poche pause me ne stavo seduto o in piedi a sentire i lamenti e il


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loro parlottio. Uno in particolare catturò la mia attenzione: se ne stava sempre seduto al solito angolo e continuava a raccontare la stessa storia; la storia di un bambino vispo e schietto, con il viso di un angioletto che sognava di conquistare il mondo. Poi s‘interrompeva bruscamente, si girava verso la parete e si zittiva. Aveva un volto che mi ricordava qualcuno. Un giorno mi avvicinai all‘uomo e lo chiamai. Non mi rispose. Provai di nuovo ma non si mosse. All‘improvviso un‘altra guardia mi scostò e iniziò a sbraitare contro quell‘uomo. Una delle regole della prigione diceva che nessun carcerato poteva comunicare, anche solo a gesti, con le guardie. Ma quell‘uomo, con me, non disse nemmeno una parola. Provai a dirglielo, ma niente. La guardia strappò dalla cella l‘uomo e a calci lo indirizzò verso un angolo. Prima di venire frustato e ammazzato vivo, scosse il capo verso la mia direzione, comunicandomi un semplice, sì. Quel sì mi arrivò come una folata di vento in pieno volto, come un pugno nello stomaco e come una pietra che frantuma il vetro. Non feci a tempo a salvarlo che con un ultimo spasmo la morte se lo portava via. Portava via mio padre. L‘uomo che sognavo tanto di rivedere e abbracciare. Una lacrima mi scese lungo il viso. Che vita era quella? Come potevo ancora cambiare il mondo? Decisi di uscire. Camminai finchè non sentii altro che aria. Durante la discesa m‘immaginai il titolo del giornale del giorno seguente: “Il “museo” si tinge di nero, uomo trovato morto in un dirupo vicino al vecchio museo”. Ma in fondo, questo non sarebbe stato l‘unico noir. In quegli ultimi atti, ripensai a mio padre, all‘uomo che mi diede il benvenuto nel cimitero dei maledetti e a molti altri. Pensai a quelli morti e a quelli che presto sarebbero morti. Morti nel silenzio di un luogo dimenticato. Strappati dalla loro vita e torturati e uccisi. Ogni giorno un giallo, un continuo massacro tra quelle mura. Mura tinte di rosso e di noir.


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Silvana Candeloro Forti scossoni alla carrozzina per superare il dislivello marciapiede – entrata Museo. Entrata assicurata dal biglietto speciale valido anche per accompagnatore come riconoscimento invalidi. Mena subito assorbita da tutto quel movimento tra colori alle pareti, sterili profili neri e guglie di figure stilizzate fra i percorsi del salone. La stranezza di un Museo abbozzato ed allestito in un ordine – disordine da una famiglia che in passato anche con passione ha raggruppato oggetti e cimeli dove possibile, magari anche tra tombaioli, e che ora sono riproposti qui nel palazzo avito del loro paese d’ origine. Dove poi finirà il tutto non si sa. Forse donati ad associazioni o ceduti, poiché coniugi senza proseguo. La Bada ( deve chiamarsi così, visto che con cipiglio scuro, aggrottando la fronte grida sempre, più che parlare “ Bada, ferma lì ! “ . Oppure solo abbreviazione di “ badante “ . Chi sia questa persona straniera, vista la difficoltà nell’esprimersi in lingua italiana, Mena non lo sa. È comparsa improvvisa portata in casa da suo figlio Mando, prima che lui partisse per l’estero a lavorare, quindi non avrebbe più potuto curarsi personalmente della mamma. La visione prima, di persona gentile dal largo sorriso a scoprire denti esageratamente sporgenti. Anche le continue carezze che lei prodigava sul corpo per Mena avevano sensazioni di viscidità e parlavano di falsità. Nell’ accudire la paziente gesti energici, ma non certo aggraziati. Specie le spinte nel riversare il corpo dell’ anziana signora nel letto e poi quelle pressioni sulla faccia con il cuscino. Avrebbe voluto gridare Mena, ma il suo stato di demenza senile non glielo permetteva. L’ imbocco del cibo fatto con fretta, senza correggere le sbavature di contorno labbra e l’ ingozzo di certe cucchiaiate difficili da deglutire. Col tempo perse tutte le amicizie, richiusa in visioni sbiadite. A volte ritrova vicino la mamma, uscita da una foto in bianconero


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a cui sorride, ma poi quella sparisce e Mena la cerca inutilmente allungando le braccia sino ai cuscini del divano, mamma deve essere lì sotto. Strappa il tutto poi sconsolata si lascia andare ad un sommesso pianto. Questi scatti le costano molto perché Bada la strattona ributtandola nella carrozzina, tirandole il ciuffo di capelli scompigliati per costringerla a guardarla in faccia. Quel viso cupo, pieno di rancore che tronca ogni sua reazione. Ed ora di nuovo quì con Bada che con uno strattone mette di traverso il mezzo bloccandolo col freno proprio in un angolo del salone, per poi sparire dietro un pannello descrittivo che interrompe il cordone protettivo. Poco dopo Mena sente la presenza di un ingombro tra il suo corpo e lo schienale della carrozzina. Un dolore fortissimo che le fa emettere un lamento acuto, subito troncato da chi le ficca in bocca la boccetta di plastica con beccuccio e acqua. Quindi la trascina via, verso indicazione dell’ insegna luminosa verde “ toilettes “ . Sono diversi i gabbiotti W.C . Mena viene infilata di scatto in uno di questi e richiusa a chiave. Bada le molla un ceffone in piena faccia, una scrollata sulle braccia, dove i lividi precedenti si rifanno sentire, poi di nuovo la sciarpa attorno alla bocca che la fa ansimare. Se almeno aprissero quel finestrino in alto per far passare l’ aria pensa la poverina. La lunga stanga lì appesa con uncino finale deve proprio servire a questo. Intanto la donna sfoderando un coltello, si riprende l’ oggetto di piccole dimensioni già infilato nella carrozzina. Con gesto deciso stacca i contorni della sottile cornice che piegata sul ginocchio finirà deforme dentro il secchio dei rifiuti. Quindi alza di peso Mena facendola appoggiare tremolante al lavabo di fronte. In un solo gesto le abbassa pantaloni e ghette, poi con strappo al weltra della mutanda – pannolone, ricopre la pancia della poverina con la rustica tela con incise lettere ( magari di origine etrusca, loro scrivevano da destra a sinistra )


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riaffrancando poi l’ aderenza. Salvo forte “ profumo “ di urina, rialzando e sistemato il tutto, di gonfio nessun rilievo. Rimessa seduta la paziente e ricoperta col plaid. Bada spalanca lo sgabuzzino e scompare da sola in uno adiacente, probabilmente per sistemarsi e riprendere aspetto decoroso. Favorita anche dal fatto che nessuno si è fatto vivo in quei locali. Mena, pur senza capire il perché di quella trafila ha momento di lucidità. I dolori alla schiena, quella pressione sulla bocca, gli strappi ai capelli, i decubiti sul corpo conseguenze dell’ ammollo nei pannoloni inzuppati e mai cambiati, i giornalieri rimproveri, le intimazioni con oggetti pericolosi. Mena richiama il suo Guido, quello intravisto sorridente a mezzo busto nel salone e lui è lì subito vicino a lei. Saranno in due contro il Mostro. Il lungo bastone che apre la finestra è con loro. Puntando coi piedi la carrozzina si trovano nel locale d’ accesso dei W.C e quando Bada guardandosi allo specchio finisce di sistemarsi col rossetto e ripone il necessaire nella borsetta posta a terra, Mena e Guido sferrano un colpo deciso alla nuca della donna che cade e rimane stesa a terra. Un rigolo di sangue le esce dalla nuca e scorre sul pavimento. Tutto immobile. Solo il coperchio del rossetto che continua a rotolare e le schegge dello specchietto proiettano infinite luci. Mena parla all’ invisibile suo Guido. Gli dice di tutte le brutture subite, dei maltrattamenti mai potuti confessare ad altri, perché sola. Quei canopi cenerari visti prima, Mena li vorrebbe prendere per giocarci, assieme a quel sarcofago di dimensioni ridotte con sopra sdraiato un bambino. Poverino ! Non c`è posto o ragione per pensare al dopo. Lei sa che ora è libera e questo è ciò che le resta della vita : LA LIBERTÀ. . . . . . . . . . . . . . Ma poi la VERITÀ ? ? ?


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Chiara Bronz Reliquie d’Egitto “Ronchetti!”. Il richiamo del direttore del museo fece sobbalzare il custode, che chiuse velocemente le pagine dei siti internet che aveva aperto per una pausa. E adesso cosa voleva il direttore? Possibile che non potesse lasciarlo in pace? “Ronchetti, mi serve aiuto a proposito della mummia referto numero...”. Un brivido percorse la schiena del custode: era possibile? No, sicuramente il direttore si riferiva a un’altra mummia della mostra “Reliquie d’Egitto” che stava per aprire i battenti. Senza dubbio non alla numero... “...14562-ae.”. Ronchetti deglutì: era stato scoperto. Eppure era sicuro di avercela fatta, era stato più che meticoloso e paziente. Quando aveva scoperto che mancava la mummia numero 14562-ae, il custode aveva dapprima pensato a uno scherzo di cattivo gusto. Aveva fatto finta di niente, sperando che al simpaticone di turno passasse in fretta la voglia di giocare. Ma non era successo niente e il dubbio si era insinuato: se fosse stata rubata? Ronchetti reputava di svolgere bene il proprio lavoro. Forse non sempre era meticoloso e quella sera, dopo qualche goccetto di troppo, non aveva chiuso a chiave o... Era inutile farsi domande: ora doveva rimediare. Per farsi forza Ronchetti era andato al bar: non c’era niente come un caffè molto corretto per schiarirsi le idee. Proprio lì, appoggiato al bancone, gli era venuta l’idea: se la mummia era stata rubata, non rimaneva che sostituirla. Grazie al cielo Ronchetti era piuttosto abile nell’utilizzo di internet e in poco tempo aveva raccolto abbastanza informazioni. La sua grande conoscenza del museo gli aveva permesso di appurare che era presente tutto ciò di cui aveva bisogno: natron, bende, alcool. Per accelerare il processo aveva a disposizione i grandi forni ad aria calda utilizzati in passato per cuocere la ceramica. Il problema però era un altro: gli mancava, come dire, la materia prima. La mostra avrebbe aperto da lì a un mese, il che lasciava a Ronchetti un margine d’azione piuttosto stretto. Per prima cosa doveva quindi nascondere bene il sarcofago, per evitare


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che qualche ficcanaso scoprisse la mancanza della mummia. Per il resto confidava nel destino... Quella sera si presentò un visitatore tardivo, che inizialmente spazientì Ronchetti. Che pensava la gente? Che i custodi non avessero vita privata e fossero lì per i loro comodi? L’irritazione iniziale lasciò però presto spazio a un sentimento di euforia: il vecchino, solo, magro e di piccola taglia rappresentava il candidato ideale. Il custode attaccò bottone e scoprì che la vittima era anche sola al mondo: oltre a risolvere il proprio problema, gli avrebbe anche fatto un piacere. Non era stato difficile convincere il visitatore a bere un goccetto attinto dalla riserva personale che Ronchetti teneva nel cassetto. Aveva ovviamente omesso di aver corretto il liquore del vecchietto con un po’ di veleno per topi. Ronchetti poté quindi dare avvio alla fase due, istallando il quartier generale negli scantinati del museo, dove quei boriosi dei superiori non avrebbero messo piede. Estrarre gli organi era stato un po’ più complicato del previsto, ma era soddisfatto del risultato. Un branco di cani randagi si aggirava spesso nei dintorni del museo, perciò nemmeno disfarsi degli scarti era stato un problema. I forni erano un po’ arrugginiti ma perfettamente funzionanti, e così il vecchino era finito a farsi una lunga sauna. Ronchetti era piuttosto soddisfatto del risultato: in tre settimane il pensionato si era trasformato in un perfetto sosia di Ramses. Le innumerevoli serate sacrificate al progetto, controllando in continuazione la temperatura e cambiando i panni che aveva inserito sotto al corpo per assorbire l’umidità, avevano dato i loro frutti. Aveva iniziato ad avvolgere la mummia nelle bende pochi giorni prima, mancava poco al completamento dell’opera e ora... Ora quel rompiscatole di un direttore voleva parlare proprio della mummia numero 14562ae?! Si fece forza. “Mi dica.” “Mi chiedevo dove fosse finito il sarcofago.”. Il custode era sollevato: se se la giocava bene, poteva ancora battere sul tempo quel cafone e sostituire la mummia prima che si accorgesse della sparizione dell’originale. “L’avevo messo in un ripostiglio perché ingombrava il passaggio.


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Vuole che glielo tiro fuori? Un attimo.”. Sfogliò l’agenda e valutò che una serata di lavoro era sufficiente per finire il lavoro. “Ecco, domani dovrei avere tempo verso le dieci.”. Il direttore non sembrava contento. “L’ho bisogno oggi! Sa anche lei che torna oggi pomeriggio e che dobbiamo portarla in sala esposizioni!”. Ronchetti era confuso: “Mi scusi, torna cosa?”. “Ma sì! Come le avevo comunicato su uno scritto...” il direttore si chinò per spostare alcune cartacce e riviste dalla scrivania di Ronchetti ed estrarre una scheda di comunicazione interna. Doveva essere sfuggita a Ronchetti, ma come dargli torto: la mummificazione aveva assorbito quasi tutto il suo tempo e le sue energie, e il lavoro era passato un po’ in secondo piano. Il direttore lo guardò: “Se lo legga visto che chiaramente si è scordato. E dopo mi porti quel sarcofago in sala esposizioni 4.”. Ronchetti fece una smorfia e dedicò la sua attenzione al foglietto: si accorse con sorpresa che datava qualche settimana addietro. Per la precisione la data era quella del giorno del furto: ora si ricordava. Dopo una notte di baldoria, Ronchetti era arrivato al lavoro con un po’ di ritardo e un mal di testa feroce a causa del quale aveva trascurato alcuni dettagli, tra cui la comunicazione caduta poi nel dimenticatoio. Poteva sempre rimediare ora a quanto pareva, ma cosa c’entrava il sarcofago della mummia numero 14562-ae? Decifrò la scrittura del direttore: “Signor Ronchetti, la informo che la mummia numero 14562ae è stata presa in consegna questa mattina da un restauratore. Verrà riconsegnata il 27.4. La prego di preparare il sarcofago nella sala esposizioni 4 in modo da poterla allestire. Cordiali saluti, D.”.


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Maria Scattaglia La stoffa delle stelle Il mio lavoro è la mia passione. Non avendo più nessuno con cui condividere le lenzuola di seta, spesso passo anche le notti in ufficio, al Museo della Scienza, a ideare esperimenti interattivi. Stasera sono sola a casa perché da due giorni il museo è sigillato: il dottor Ralf Meir, 39 anni, fisico del CERN, è stato assassinato durante una delle sue periodiche visite professionali da noi. Meir lavorava a museo chiuso, di sera, all’allestimento della nuova sezione dedicata al bosone di Higgs. Con lui oltre a me c’era Sheila Rees, promettente specialista in fisica teorica giunta dall’Illinois, scelta da Meir come nostra nuova consulente esterna e, si diceva, futura direttrice del museo. C’era anche Matthias, addetto alla sicurezza notturna. Nessun tentativo di effrazione: l’assassino era già dentro e ieri la polizia l’ha arrestato. Fino a due anni fa, quando ancora il bosone non era assurto agli onori della cronaca, vivevo meglio. Ralf arrivava ogni mese con una nuova proposta. Io accoglievo sempre con favore le sue idee e accoglievo con favore ancora maggiore lui fra le mie lenzuola. Gli piacevano da morire le lenzuola di seta blu. Forse gli ricordavano i cieli notturni. Sheila e Ralf la sera del delitto non riuscivano ad accordarsi su come impostare la mostra. - Perché vuoi togliere la dicitura particella di Dio? – diceva lui - Il motivo per cui tanti fisici stanno ancora dietro al bosone di Higgs è proprio questo: crea la materia, esattamente come farebbe Dio. Se non ci fosse l’Higgs, la materia sarebbe priva di massa, e quindi avrebbe la stessa velocità della luce. Ma gran parte della materia osservabile è meno veloce della luce.


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- Ma quale materia?! Voi del CERN siete fermi al vecchio modello, alla preistoria della fisica! Non capisco perché, qui in Europa, vi ostiniate a studiare solo ciò che è osservabile! L’Higgs è importante per altri motivi: è la prima particella invisibile di cui possiamo dimostrare l’esistenza. Sai bene che il 95 per cento dell’universo è invisibile! Ralf era furioso. – Tutta demagogia! Siete voi che vi ostinate a scatenare collisioni frontali fra fasci di particelle al solo scopo di distruggere l’unico modello capace di spiegare l’intero universo. Guardiamo pure avanti, ma non cancelliamo il passato: bisogna conciliare fisica della particelle e fisica delle stelle, in uno stesso modello. - Ma che dici! Proprio grazie a questa ostinazione abbiamo scoperto che la materia che prima era considerata indivisibile è in realtà composta da particelle ancora più piccole. Per capire la materia bisogna distruggerla, polverizzarla, e poi studiarne le macerie. E anche questa mostra, ammettilo, riflette la vostra visione antiquata. Nel museo che io dirigo i visitatori giocano con un simulatore di collisioni, altro che la vostra esposizione di vecchi microscopi per esplorare l’atomo! Cambierei tutto qui! La discussione si faceva sempre più animata e condita di pesanti insulti. Io fingevo di lavorare al computer, poi preferii ritirarmi nel mio studio. Poco dopo udii i tacchi a spillo della Rees picchiettare sul parquet. Passò frettolosa davanti alla mia porta. Procace e presuntuosa, sembrava celare un sorriso malizioso sotto il nasino all’insu. Andai da lei qualche minuto più tardi, ma non la trovai. Matthias scoprí il cadavere di Ralf mezz’ora dopo. Non era stato lui: le telecamere lo avevano filmato che entrava nella sala del delitto solo quando Ralf era già morto. È stata la mia testimonianza ad incastrare la Rees. Lei si è difesa drammaticamente, con le lacrime e la caparbietà di un’innocente, ma l’eco del suo diverbio con Ralf era giunta fino a Matthias.


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Tre giorni fa Ralf mi aveva annunciato la sua visita al museo, ma sapevo già che dopo non avrebbe dormito qui. Non lo faceva più da tempo. Diceva che far esplodere protoni a centro metri sotto il suolo di Ginevra era ormai la sua unica passione. Io non gli ho creduto. So però che da quando l’Higgs gli era entrato nella vita era diventato parte di lui: se lo sentiva scorrere dentro, inafferrabile e buio come l’origine dell’universo. Sfuggente, inconsistente e imprendibile. Come la seta. Quando l’alterco con Ralf aveva varcato ogni misura, pensandomi distratta lei ha improvvisamente soffuso la voce. – Ti confesso una cosa. Ho scoperto un bosone diverso dall’Higgs, la base di una vera teoria del tutto. L’universo non è nato col Big Bang. – L’ha incantato coi suoi occhietti magnetici. - Per un genio come te, ci sarebbe da subito un posto chiave nel mio team. Lui l’ha fissata diritta nelle pupille e poi anche un po’ più in giù. - E conservi ancora quelle morbide lenzuola di seta blu? Non ci ho visto più dalla rabbia. Ho preso da un cassetto la pistola che avevo usato per i miei esperimenti sul calcolo balistico. Era munita di silenziatore. Ho atteso che la Rees lasciasse Ralf da solo e ho evitato le telecamere. L’ho cercata nel corridoio e in ufficio, poi ho capito dal ticchettio dei tacchi che fosse in bagno. L’ho aspettata, e aspettandola ho cambiato idea. Mi sono precipitata da Ralf. Lui non mi ha neanche sentita arrivare. Scriveva al computer con le cuffie. Mi sono puntata la pistola alla tempia. Matthias è arrivato proprio allora. Nel vedermi si è adirato. - Che fai? Vai in crisi ogni volta che torna lui? Allora menti quando dici che sono io la tua sola passione! Lucido e freddo, mi ha preso la pistola, si è avvicinato a Ralf e gli ha esploso un colpo in mezzo alla nuca. Dietro di me era esposto il mantello in materiale plasmonico che, impedendo la riflessione della luce, rende invisibili. È l’attrazione più gettonata


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del museo. Ricordo che Matthias l’ha indossato, per questo la telecamera non l’ha visto. Il mio lavoro e la mia passione, sì, quella di riserva, ma ormai l’unica rimasta in vita: erano entrambi a rischio. Ho ripreso l’arma e mi sono incamminata. Sheila era ancora in bagno, a tingersi il contorno degli occhi del colore delle lenzuola. Ho ripulito le impronte e le ho nascosto la pistola nella valigia.


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Alberto Jelmini Testa di un martire Il fiore all’occhiello della mostra erano tre dipinti di Klee, prestati dal museo della Capitale, fra cui il piccolo “Testa di un martire”, del 1933, anno doloroso per l’artista, come per il mondo intero. La curatrice del museo e l’assistente avevano investito tutte le loro energie nell’allestimento, disturbate da curiosi, ma aiutate da un laureando su Klee, il quale, ottenuto il permesso, non le aveva più lasciate, innamorato del piccolo dipinto, oggetto della propria tesi di dottorato. Come previsto, la sera dell’inaugurazione una vera folla si riversò nelle piccole sale del museo, invadendo pure l’angusto atrio, destinato alla cerimonia. Di fianco agli oratori erano esposti i tre Klee, il più piccolo dei quali all’altezza del microfono. Il sindaco, orgoglioso per le lodi ricevute e per quelle in arrivo, parlava con la curatrice nel poco spazio rimasto libero, delimitato da un zoccolo in cemento. Accanto c’erano l’assistente, con in mano i fogli tremolanti della relazione ufficiale, e un distinto signore, direttore di una banca cittadina, sponsor della manifestazione. Davanti, in prima fila, lo studente di Klee, pareva investito del compito di trattenere la folla. Dopo i discorsi introduttivi toccò all’assistente annunciare il tema della relazione, incentrata sul quadretto di Klee alla propria destra. A quelle parole, nella folla si produsse uno spostamento a onda, come per vederlo meglio. Lo studente era ansioso di sapere come la relatrice avrebbe interpretato le variazioni di colore sul viso del “martire” e la leggera diversità degli occhi semichiusi, che davano la sensazione di riflettere mondi divergenti. Purtroppo, dopo poche parole, il movimento in avanti si fece pressante, al punto che dovette voltarsi, facendo segno di non spingere. In tutta risposta, un uomo con barba nera e impermeabile grigio, completamente aperto, lo spintonò, facendolo inciampare nello zoccolo di cemento. Per mantenersi in


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piedi, lo studente urtò la relatrice, che si piegò, posando una mano sul pavimento. In quell’istante, come se avesse voluto soccorrerla, il barbuto si era lanciato verso la donna cercando un appiglio nell’asta del microfono, la quale si abbatteva sul muro, e scivolando faceva cadere il quadretto. L’uomo, perso l’equilibrio, rovinava sulla schiena curva della donna, coprendola per un attimo col suo ampio impermeabile e trascinandola a terra. Nel contempo si udì un urlo terrificante che gelò i convenuti. Mentre lo studente, spaventato, si appoggiava con la schiena al muro, l’uomo, annaspando, si risollevava barcollante, e, chiusi i lembi dell’impermeabile, tutto agitato gridava: - Ha battuto la testa, presto, un dottore! - Per qualche secondo nessuno si mosse, ancora impietriti dall’urlo, per cui l’uomo, senza perdere tempo, si diresse verso la porta esclamando: Presto, l’ambulanza, è ferita! - Sembrava così spaventato che tutti stranamente gli fecero ala e giunto sul vialetto corse verso l’uscita, sempre chiamando l’ambulanza. Nell’atrio, un medico, raggiunta la donna rimasta bocconi sul pavimento, lentamente la girava sul fianco. Le passò una mano sul capo e poi se la guardò, pensando di trovarvi del sangue, ma non ve n’era traccia. Con l’aiuto di un’infermiera cercò di rianimarla, purtroppo senza successo. Il volto della donna era di un pallore cadaverico e respirava rantolando. La folla guardava stupita, parlando sottovoce, mentre agenti e infermieri sopraggiungevano di corsa con la barella, avvertiti dall’uomo barbuto. Un po’ in disparte, la direttrice non sembrava preoccuparsi di quanto accadeva, tesa unicamente alla ricerca del quadretto di Klee. Non scorgendolo, ma vedendo lo studente allontanarsi in direzione dei servizi e conoscendo il suo interesse per questo pittore, si rivolse ad un agente, chiedendo che fosse perquisito. Il giovane protestò, ma non ci fu niente da fare. Su di lui non trovarono nulla, ma quando il poliziotto gli chiese se avesse qualcosa, egli mostrò la propria cartella, ancora appoggiata al muro. Fu la direttrice a raccoglierla e appena


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l’ebbe in mano, si accorse che nascondeva proprio il quadretto di Klee. Liberata da ogni apprensione, si affrettò a mostrarlo gridando: - Eccolo il quadro! Ecco dove andava a finire! - e furtivamente lanciò al sindaco e al poliziotto un’occhiata molto significativa. Lo studente, preso per un braccio, impallidì, vide il proprio lavoro distrutto, ma sebbene terrorizzato, si divincolò e corse verso il dipinto che la direttrice, istintivamente, gli pose davanti agli occhi, quasi fosse la prova del reato. Il gesto fu invece la sua fortuna, perché qualcosa lo colpì improvvisamente, sebbene si trattasse di un dettaglio quasi impercettibile: gli occhi non davano quel senso di profondità interiore emergente dall’originale! Prima che il poliziotto reagisse, il giovane, fortemente emozionato, esclamava: - Ma questo non è il vero Klee, è un falso! - e fidandosi del proprio intuito gridava: - Il vero Klee se la sta filando, sotto l’impermeabile dell’uomo barbuto caduto addosso alla signora!Il tono era così deciso che fu preso sul serio e difatti uno degli agenti stava già dando l’allarme col cellulare. Sindaco e direttrice questa volta si guardarono impallidendo, ma ciò non impedì loro di scusarsi con lo studente, sperando che, grazie il suo intuito, si potesse cogliere il ladro prima che fosse lontano. Difatti, poco dopo, alla stazione, una pattuglia intercettava un uomo dall’impermeabile grigio, ma non interveniva, perché senza barba. Una strana fretta li aveva però insospettiti, e raggiuntolo sulla banchina del secondo binario, gli avevano sequestrato la borsa che teneva in mano, trovandovi... la “Testa di un martire”! Trafugata, come si seppe, con premeditazione e l’aiuto di complici, contando sulla sorpresa e la confusione. Quanto alla donna, sempre svenuta, era stata portata via. Solo all’ospedale si sarebbero accorti che un sottile punteruolo le aveva forato la schiena in modo forse letale.


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Daniela Pastarini, alias Erica Bauer Baguette au fromage Parigi, 11 marzo 1894 Il tubare dei piccioni sul tetto salutava il giorno appena nato, Eugénie Bisard nella sua squallida mansarda emise un suono sordo, si raggomitolò nelle coperte strappate tenendole strette il più possibile. Era così freddo. C’era solo un modo per reagire, strapparsi bruscamente dal suo bozzolo e cambiarsi in fretta. Doveva andare a lavorare alla sua bancarella lungo la Senna. Lo specchio, sopra l’unico lavandino, la ritrasse in tutta la sua crudezza: aveva un viso rotondo segnato dalle fatiche, ma anche un’espressione dura, che dimostrava rancore, rabbia, cattiveria, odio per il genere umano. La sua vita era stata difficile fin dall’infanzia: era cresciuta in un orfanotrofio, dove c’era poco da mangiare, tanto freddo, botte e castighi orrendi. Uscì per strada per raggiungere la fermata dell’omnibus alla Gare du Nord. Gli abitanti del quartiere dell’ Enfants-Rouges si stavano svegliando. Le porte aperte delle casupole disperdevano il fumo dei focolari e rivelavano le famiglie numerose riunite intorno a sgangherati tavoli, intente a mangiare avanzi in un’unica marmitta. Si sedette in fondo alla carrozza a mala pena riparata da un logoro paltò, al suo fianco i cesti pieni di baguette e di fromages. I cavalli erano sei, il vetturino diede uno strattone alle redini e il lungo viaggio cominciò, finchè con un breve concerto di zoccoli e ferraglia, l’omnibus si fermò nel centro della nuova Parigi del barone Haussmann. Con passo incerto, dovuto alle sue anche malate per i continui spintoni, colpi subiti da bambina, scese i gradini e s’incamminò verso il Pont Neuf dove c’era la sua postazione. Arrivata final-


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mente aprì il lucchetto della panca sotto il tavolo, accese il braciere con qualche legno e si preparò al lavoro. Yvette una vecchia, sua vicina, la salutò “Buon giorno, mia cara, la nebbia si sta alzando, sarà una giornata fredda, ma col sole, avremo sicuramente tanti clienti”. Eugénie la guardò col suo sguardo sospettoso e disse “ Speriamo, la giornata sarà lunga e io ho gran freddo addosso”. Cominciò a tagliare il pane in tre parti per riempirle col formaggio fuso. Due, l’inizio e la fine erano per i clienti ordinari, quelli che passavano con la puzza sotto il naso o per quelle signore strizzate nei loro corsetti con i loro bei bambini per mano. La parte centrale, la più morbida era per lei o per quei pochi compratori, che a sua discrezione, se la meritavano. Tra questi c’erano quelli del piccolo museo egizio, lì accanto dove ogni mattina consegnava la sua merce. “Yvette, io vado a consegnare, puoi dare un’occhiata al banco? Dodici centesimi al pezzo, mi raccomando” gridò alla donnina, che le dava le spalle, intenta a vendere le sue paccottiglie. “Vai, non ti preoccupare” le rispose. Prese il pacchetto: due pezzi, uno per l’archeologo-bigliettaio, l’altro per il custode e un terzo per lei, che si infilò in tasca, Quando arrivò, stranamente non trovò nessuno al tavolo d’ingresso, chiamò ” Monsieur Diélette, Monsieur Victor”. Nessuna risposta, però non poteva andarsene, doveva essere pagata. All’improvviso, presa da una strana ansia, da qualcosa che le balenava nel cervello da diverso tempo, si fiondò nella seconda sala, dove il custode, una volta, le aveva fatto vedere le vetrine con il loro contenuto: una serie di oggetti per la bellezza, che a suo dire, erano appartenuti alla regina Nefertari. Erano d’oro di una raffinatezza straordinaria e lei ne era rimasta affascinata. Diverse volte aveva pensato di prenderli: perché non avrebbe potuto sentirsi anche lei, una volta tanto, come una regina?


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All’improvviso prese un candelabro lì vicino, l’attorcigliò al suo grembiule e spaccò la vetrina, infilò la mano, prese tutto ciò che riuscì e lo mise nel suo panino, affondandolo nel formaggio. Ritornò all’ingresso, soddisfatta . Apparve prima Victor con il suo cagnolino, un bastardino di nome Flich e da lì a poco l’archeologo tutto fare, che gridava a squarcia gola “ AL LADRO, AL LADRO, chiamate la polizia”. I due si guardarono terrorizzati per motivi diversi e si precipitarono fuori e fermarono un poliziotto che chiamò i rinforzi. Il sergente Réauville entrò nel museo con passo deciso attorcigliandosi i baffi alla gauloise, aveva il compito di trovare il colpevole e questo lo esaltava. “ Che cosa è successo? Fatemi vedere, dove è successo”. Parlò a raffica lasciando i tre a bocca aperta. ”Le faccio vedere Sergente, mi segua” ansimò Monsieur Diélette. Intanto Flich continuava ad abbaiare a Eugénie, saltando per arrivare alla sua tasca. Dapprima lei non se ne accorse, emozionata per l’accaduto, poi cominciò ad allontanarlo con un calcio e a sentirsi minacciata dal suo ringhiare. Pensò “ Me ne devo andare al più presto da qui”. “Sergente io devo andare, ho la bancarella da seguire”. Gridò dalla porta della stanza incriminata. Lui la guardò, con quel vecchio cappotto, con quel grembiule blu stinto, non era certo la persona, a suo giudizio infallibile, a cui potevano interessare o smerciare reperti egizi. “Può andare, ma si tenga a disposizione” le rispose con sussiego. Tirò un sospiro di sollievo, ma era agitata e cominciò ad allungare il passo appena fuori della porta e quel bastardino prese a correrle dietro. Con lo sguardo stravolto, a questo punto oscillò nel mettere un piede, agitò le braccia per aria disperatamente cadendo all’indietro, rimbalzò lungo l’acciottolato fino a battere la testa sul


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marciapiede. L’impatto fu mortale. Nel trambusto Flich l’aveva raggiunta e riuscì a prendere la baguette au fromage dalla sua tasca e corse via a mangiarsela. Si mise in un angolo, addentò tutto con foga e cercò di deglutire, ma un oggetto duro e appuntito gli si conficcò nell’esofago, trafiggendolo. Si trascinò fino alla donna morta, la guardò per l’ultima volta con negli occhi la certezza di aver trovato il ladro e spirò.


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Davide Buzzi Il custode Se quel giorno il custode del museo avesse deciso di andare diritto per la sua strada e di continuare a fare il suo lavoro, che sarebbe quello di controllare che i visitatori non tocchino le opere esposte, oggi sarebbe ancora vivo. Già…! Invece pensò bene di andare a mettere le mani sotto la gonna della ragazzina con il lecca lecca! Io gli avrei dato anche solo una botta in testa e via, ma a lui piacevano le bambine! Vede Signor Procuratore pubblico, io mi trovavo a Parigi per caso e nemmeno ci volevo andare al Musée d’Orsay. Ma sa com’è…, già che si è lì è un peccato non approfittarne. No no, cosa va a pensare, non intendevo rubare nessun quadro, si figuri! Io sono un killer, mica un volgare ladro di croste. Come dice? A che scopo dargli una botta in testa, se non ero li per rubare? Ma era tanto per dire, suvvia… Come mai avevo in tasca una beretta 7.65 silenziata se non volevo usarla? Procuratore, ci si deve pur difendere dai malintenzionati, o no? Comunque, me ne stavo lì a gironzolare per il Musée d’Orsay godendomela come un topo nel formaggio e avevo proprio voglia di un bel Pastis con la mosca dentro. Su al primo piano ci sta un launch bar, ci si arriva con l’ascensore o a piedi per le scale, ha presente? Così me ne salii su al primo, lasciai la mia valigetta 24 ore in terra accanto al bancone e mi accomodai al bar. Poco più in là c’era una scolaresca, ragazzini di forse otto, dieci anni. Stavano lì tutti vocianti a fare merenda. Il custode li controllava a marcatura stretta e aveva un bel daffare a dire a quella marmaglia di stare tranquilli. Nemmeno lo ascoltavano. Quando una bambina con un lecca lecca in bocca si alza e va verso il bagno… Ha presente gli occhi che tira fuori una volpe quando sta di guardia a un pollaio? Ecco, il nostro custode aveva strabuzzato gli occhi proprio in quel modo, mentre posava lo sguardo sulla


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gonnellina bianca a pois rosa della ragazzina. Io ero lì tranquillo che giravo la mosca nel Pastis guardandomi in giro, quando vedo quel morto di fame che si accoda alla ragazzina e la segue lungo il corridoio. Allora ho piantato drink e 24 ore e mi sono messo dietro al custode per vedere dove voleva andare a parare. Intanto la bambina era arrivata in fondo al corridoio, imboccando la scala che porta ai bagni per le signore. E dietro il custode! Ho accelerato il passo per non perderli di vista, arrivando alla scala appena in tempo per vedere l’uomo che girava dietro l’angolo in basso. Lei sa bene che la curiosità è una brutta bestia da tenere a freno, così scendo pure io e quando giro l’angolo ecco che mi compare davanti il custode che trattiene la bimba contro il muro e la sta perquisendo con una certa attenzione, quasi che sotto i pois della gonnellina potesse nascondere un’arma! Non mi chieda come mai non abbia aspettato di essere dentro il bagno per prenderla e fare le sue porcate, io non glie lo so proprio dire…, certo era convinto di farla franca e che la bimba sarebbe stata zitta! Comunque mi aveva sentito arrivare, perché mollò di colpo la ragazzina e si girò verso di me con occhi dilatati dalla sorpresa. “Monsieur, bonjour… vous cherchez quelque chose? Vous ne pouvez pas rester ici! Ce sont les toilettes des dames! Les toilettes des hommes sont sur ​​le côté droit du couloir!” La bambina approfittò dello sbandamento del custode per sgusciar fuori da sotto e scappare via di corsa, passandomi accanto! “Ohhhh, ma senti senti…! Non è nemmeno posto per te, allora!” ho risposto tranquillamente. “Mais, monsieur, vous ne comprenez pas... Ce n‘est pas qu‘il y paraît!” “E cosa sembra? Se posso chiedere…”. “Eh bien, monsieur, la jeune fille a pris... Alors elle a volé quelque


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chose et puis... Je faisais juste mon travail... Je cherchais le butin du vol...“ balbettava il custode. Mi avvicinai a lui e gli misi una mano sulla spalla. “Ma certo! Tu stavi solo facendo il tuo lavoro”. “Oui monsieur, vous avez bien compris. Comme vous savez, nous sommes au musée d‘Orsay et nous devons toujours garder les yeux bien ouv...”. “Pfuff!!!” Il proiettile uscì con uno sbuffo sordo dalla mia 7.65 silenziata, trapassando il custode da parte a parte, per poi conficcarsi nella parete dietro di lui lasciando appena un soffio di sangue sul muro. Il porco scivolò lentamente a terra, troncando la sua frase a metà. Rimisi la pistola in tasca e senza fretta tornai indietro. Nessuno fece caso a me, benché il corridoio fosse affollato, ed io me ne tornai al bar a finire il mio Pastis e ad aspettare. Mi accorsi che la scolaresca e la ragazzina con la gonnellina a pois erano spariti. Finalmente qualcuno si mise ad urlare fuori nel corridoio, “Il est mort! Il est mort! Il y a un homme mort, plein de sang, devant les toilettes des dames!” Di colpo si scatenò l’uragano. Gente che correva da tutte le parti, urla e scene di panico, allarmi che suonavano. Davvero un gran bel casino! Lasciai lì il Pastis, presi la valigetta e mi avviai con calma verso la Galérie Françoise Cachin, fino alla parete centrale della Sala Van Gogh dove stava esposto il dipinto de La chiesa di Auvers. La sala era vuota, tutti erano occupati a correre e panicare a causa del morto che stava giù nei bagni delle signore. E allora sa com’è…, già che si è lì è un peccato non approfittarne! Così tirai fuori il coltellino svizzero, mi allungai sopra il recinto di sicurezza e stando ben attento a non muovere la cornice tagliai via la tela lungo i 4 lati, lasciando un bel buco dove prima si trovava la chiesa. In fretta l’arrotolai e la misi nella valigetta, poi tornai nel corridoio per mescolarmi con la gente che cercava di guadagnare l’uscita prima dell’arrivo degli sbirri. In meno di due minuti ero fuori dal museo. Avevo appena girato


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l’angolo per andare verso la Senna, quando a sirene spianate passarono un paio di macchine della polizia. Come? Dov’è finito il dipinto? Signor Procuratore, per favore non chieda troppo. Lei voleva sapere del custode. Si accontenti! Quella del quadro è tutta un’altra storia…


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Alessandra Broggi La visita del martedì Parigi, Musée d’Orsay È martedì. Lei è lì, seduta sul divano al centro della sala. E lo guarda. Per qualche ora. Come tutti i martedì. Il quadro è enorme. Le figure sono buie, silenziose, illuminate da un bianco spettrale nei visi e nelle camicie, negli abiti da cerimonia, nei copricapi delle donne. Volti di persone vere, ritratti di un mondo rurale raccolto attorno a un buco, nel terreno. Al muséé d’Orsay c’è Degas, ci sono le statue di Rodin, c’è anche Van Gogh, ci sono i simbolisti, oh i simbolisti con le loro immagini oniriche, i loro sogni fatti carne, c’è la Parigi impressionista. Ma lei va nella sala in fondo, sulla sinistra. Si siede al centro e guarda il grande quadro di Courbet « Un enterrement à Ornans ». Il musée d’Orsay è straordinario, la struttura è quella di una vecchia stazione ferroviaria, gli spazi lasciano che la luce naturale e quella artificiale si mescolino, in una specie di danza continua. Ci si può sedere nella hall, sulle panchine e guardare in alto, spettatori di un’arte che non ha confini, che si amalgama con i passi della gente, con le parole sussurrate in lingue diverse. C’è un profumo di caffé, ma il bar non lo si vede, c’è il senso del tempo che scorre, ma non ci sono orologi, c’è la vita che si incrocia, come sui binari di una stazione, ma non ci sono rumori. Lei, ogni martedì, cammina come se andasse allo stesso binario, per prendere quel treno che la porta sempre allo stesso posto, alla stessa ora. In fondo, oltrepassata la scultura di Carpeaux, posta al centro, gira a sinistra. Entra nello spazio, nel quale sono esposte le tele di Courbet, si siede. E guarda il quadro. Senza fare niente altro. Le mani congiunte, appoggiate sulle gambe. In una sorta di preghiera.


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Il crocifisso svetta sopra le teste della lenta processione, sullo sfondo un paesaggio nudo. La sensazione di rassegnazione che il capovaloro emana assomiglia a quella stampata sul volto della donna, giovane, che ogni martedì si siede a contemplarlo. E poi, a un certo punto, sempre allo stesso punto, appena prima dell’ora di chiusura si alza e se ne va. Una donna come tante. Piccola, magra, spesso i capelli raccolti, di un biondo spento. Non ha le labbra rosse di rossetto ma un velo di fard le colora le guance. Veste in modo sobrio, colori neutri, pochi accessori. Le telecamere a circuito chiuso lo sanno che tutti i martedì lei arriva. La tengono d’occhio, aspettando un suo passo falso. È martedì e sono quasi le sei di sera. Le persone si avviano verso l’uscita, alla spicciolata. I primi di aprile, a Parigi, sanno di primavera, come un assaggio. Luc vuole chiudere, c’è Sandrine che l’aspetta. Fermata St.Paul. Guarda nella sala dei grandi formati. C’è una donna seduta sul divano. La sua borsa per terra, rovesciata. Le si avvicina, lentamente. « Madame, madame,… » Le parole si fermano, in aria, dense, prima di trasformarsi in un urlo. La donna ha gli occhi sbarrati, la sua schiena appoggia al divano. La testa è reclinata da un lato. Il corpo è dritto. Tra le sue mani un biglietto con un « I love you». « Ahhh ! » Kim, del bar, corre. Tocca il corpo. E l’urlo si ripete. Un’altra volta e poi ancora, ancora. « Ahhh ! » La gente dimentica il silenzio religioso nel quale, in quello spazio, gli esseri umani si muovono. Si aprono le porte e accorrono gli infermieri, con le barelle, ma non c’è più nulla da fare. Il corpo per terra, ai piedi del grande quadro di Courbet, potrebbe quasi finire infilato nella buca dipinta, quella buca nel terreno pronta a ricevere una salma. Poi nuove parole. Gridate. Dal piano di sopra. « Il Giacometti, il Giacometti è sparito ! »


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Capolago, Ticino Il lago è uno specchio di luce oggi. Piatto, nemmeno un piccolo movimento. Sto ore a guardarlo, quando sono qui. Mi siedo davanti alla finestra e contemplo il creato. Mi piacciono le cose belle. Quando l’ho visto, il quadro, me ne sono innamorato subito. I colori, la linea delle montagne, la precisione dell’istante. Doveva essere mio. Irma, Irma,… lo so, ti avevo promesso una morte apparente, poche ore e poi ti saresti risvegliata, all’obitorio, e io sarei stato lì, pronto a portarti via, per vivere il nostro amore, per sempre. Ma come hai fatto a credermi ? Eri così disperata ? O innamorata ? L’amore, quando è accompagnato da insicurezza e solitudine, a voi donne, fa fare cose veramente inverosimili. Il biglietto l’hai trovato. Sono parole che non ho mai detto a nessuno.Te le dovevo. Sei stata così brava. Tutti i martedì, tu e il Courbet, per un anno. Conoscevi le espressioni, i volti, il cane, gli abiti rossi, l’angoscia del silenzio. Ho scelto la sala dei grandi formati perché è la più lontana dall’uscita. Il realismo non mi piace. Mi sono recato al museo più spesso di te ma nessuno, nessuno, mi ha mai notato. Intanto, cara Irma, facevi in modo che tutti pensassero che quella da tenere d’occhio fossi tu. E quel martedì, sei morta. Lì sotto gli occhi di tutti, del ragazzo della sorveglianza, dei turisti giapponesi, delle donne del bar. Ed è scoppiato il caos. Avevo poco tempo, poi avrebbero chiuso definitivamente le porte. Ho preso il quadro, ho percorso il tragitto che mi sono studiato per un anno intero, eludendo i controlli e gli allarmi, sono sceso al piano terra, ho guardato verso la sala dei grandi formati e ho chiesto a un passante in giacca e cravatta « Che cosa c’è ? » « È morta una, là, in fondo. » Sapevo che ce l’avrei fatta. Ora siamo qui, lui ed io. La parete che lo accoglie è proprio quella vicina alla finestra. Lo guardo, e poi guardo la mia montagna, il mio lago. Chiudo gli occhi e vedo due uomini, sulla terrazza, la pipa in


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bocca, gli occhiali, discutono di cose semplici. Mio nonno bambino, dietro di loro, che tira la giacca all’ospite di famiglia che ha le dita che puzzano sempre di pittura a olio. Sorrido. E mi sento l’uomo più fortunato della terra. Grazie a te, Irma, il quadro è a casa. Giovanni Giacometti, Vista da Capolago, 1907


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Boris Cambrosio Il bacio rubato Quando il direttore del museo riappese il telefono erano ormai le due e un quarto, di notte. Notte fonda. Il procuratore di picchetto lo aveva svegliato. Una sveglia improvvisa, inaspettata, ma necessaria. La polizia era intervenuta poiché l’allarme del museo era scattato, e la pattuglia giunta in loco, ma non in Valle Onsernone, non aveva potuto fare altro che riscontrare l’effrazione ed il furto di uno dei quadri più famosi, amati ed ammirati al mondo: il bacio, di Pablo Picasso, olio su tela del 1925. Due amanti stretti ed avvinghiati in un bacio appassionato, in cui le due figure, un uomo e una donna, hanno subito una tale scomposizione che, a malapena, si capisce quale sia l’uomo e quale la donna. Un precursore della società moderna, si potrebbe pensare, il Picasso. Dai primi rilievi si era potuto capire che il furto non avrebbe potuto essere stato compiuto da un mancino. Effrazione esclusa, il furto era avvenuto con destrezza. Una tale velocità d’esecuzione e l’apparente assenza di una benché minima traccia imprudentemente lasciata sul luogo del misfatto, non lasciava dubbi che l’autore fosse un professionista del settore. Il direttore nel frattempo si era già vestito ed era pronto per recarsi al museo, per fare i dovuti riscontri, ed assistere la Polizia scientifica allo svolgimento dei rilievi. Come Picasso aveva avuto il suo periodo blu e quello rosa, il direttore si sentiva invece di vivere il suo periodo nero. il furto era poi la ciliegina sulla torta. Un dolce che non avrebbe mangiato. Gli parve finanche una beffa. Meno di un anno prima il medico gli aveva diagnosticato una leggera forma di diabete e lui, preoccupatosi per il suo stato di salute e sapendo i rischi in cui sarebbe incorso senza cambiare abitudini alimentari, aveva


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eliminato gli zuccheri dalla sua dieta. Aveva addirittura proibito alla moglie di fare l’albero di Natale, poiché di abete. “Questo furto manderà in notevoli difficoltà economiche il museo, e questo è il momento più sbagliato in cui sarebbe potuto accadere.” Era questo il pensiero che dominava ora la mente del direttore. La gestione poco oculata del suo predecessore, finito in carcere per amministrazione infedele, falso in bilancio, appropriazione indebita, truffa e ricettazione, aveva offuscato la reputazione del museo. il nuovo direttore aveva però operato al meglio, compattando a sé investitori e proprietario del museo, lo Stato, acquisendo la fiducia di questi, arrivando ad allestire la mostra in svolgimento. Certo, le garanzie di sicurezza, e finanziarie, risultavano essere onerose, ma viste in un’ottica di investimento per il futuro era un sacrificio che andava fatto. L’avvio poi era stato molto incoraggiante. Il pubblico affluiva numeroso. La lunga coda che già all’apertura delle casse si snodava dinanzi ad esse era un buon segno. Giunto sul posto chiese immediatamente di incontrare il procuratore, e farsi accompagnare nella sala luogo del furto. Rimase immobile, tranne le spalle che sentì cadere come se si fossero staccate. L’omero del suo braccio gli suggerì l’odissea che sarebbe cominciata di lì a poco, e le piene responsabilità che avrebbe dovuto caricarsi sulle medesime spalle. Vide la cornice beffardamente appesa vuota al muro. Non era sufficiente a contenere lo scoramento e la preoccupazione che stava vivendo. Apparentemente però gli altri quadri in esposizione non erano stati rubati, e risultavano essere tutti appesi ed intatti. Con il procuratore si iniziò dunque a recensire quanto e cosa mancasse all’appello, verificare l’avvenuto corretto funzionamento dei sistemi di sicurezza, e non da ultimo a raccogliere informazioni sui dipendenti del museo, poiché le indagini sarebbero state svolte a 360 gradi. Nessuno sarebbe stato escluso da accertamenti più approfonditi, nemmeno


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il direttore stesso. Dunque, ecco che dopo il periodo nero, si prospettava una notte in bianco. Durante tutto il giorno si procedette con gli interrogatori, ulteriori rilievi e vennero passati al vaglio dei possibili ladri d’opere d’arte, andando a controllare negli schedari chi avesse precedenti in merito a furti di questo genere. Parallelamente alle indagini si fece avanti anche il proprietario della collezione, un ricco mercante d’arte. Pretese da subito la restituzione dei quadri esposti e le garanzie del caso sul rimborso del danno subito nel qual caso non venisse ritrovato il quadro sottratto. Tuttavia le autorità incaricate dell’indagine non diedero il loro assenso, se non il giorno seguente allorquando non vi era più niente di rilevante che potesse fornire elementi utili per risolvere il caso. Quando il giorno dopo arrivò l’addetto del trasporto a ritirare le opere d’arte non trafugate, con un mesto dispiacere il direttore fornì tutto l’aiuto necessario, anche per assicurarsi di non subire danni supplementari. Non provò sollievo quando tutta la collezione fu caricata nel furgone blindato, al sicuro, e da quel momento estranea alle sue responsabilità. Rimase immobile sul marciapiede e vide partire il furgone, e con esso partì anche una buona parte delle speranze che riponeva nella esposizione anzitempo e malamente interrotta. Al volante, l’addetto del servizio di sicurezza con un sorriso beffardo stampato sul viso. Quando il furgone arrivò al deposito, l’addetto s’occupò di impacchettare i quadri, e predisporli per il ritiro da parte del proprietario. Non prima però di aver staccato dal retro della cornice di un altro famoso quadro del Picasso, i tre musicisti, il dipinto oggetto del furto opportunamente e abilmente nascosto da lui stesso due notti prima per recuperarlo in un secondo tempo, come stava proprio succedendo in quel preciso istante.


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Cosa non si fa per amore. Quanto rischio è disposta ad assumersi una persona per assecondare il proprio desiderio di donare qualcosa di prezioso in segno del proprio amore? Rubare il bacio, come quello che il ladro rubò alla donna che lo aveva fatto innamorare ed alla quale, la sera stessa, avrebbe regalato cotanto quadro nel chiederle di sposarlo.


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Maurizio Rusconi Noir al Museo Una giornata normale alle spalle, mi aspettavo una serata nella stessa direzione. Mi rilassai sull’accogliente e tiepida poltrona, dopo anni aveva acquisito la mia stessa forma. Frugavo fra le parole del giornale mattutino, alla ricerca di qualche buona notizia, ma nulla: un motoscafo rubato, un bambino scomparso da giorni, un anziano trovato morto su una statua all’esterno del museo; alcuni testimoni giuravano di aver visto un’ombra dietro di lui prima che cadesse dal tetto. Il bicchiere di bourbon si confondeva sul tavolino del medesimo colore, aspettava di essere bevuto; già pregustavo quella bella sensazione di calore mentre scende inebriante e leggero. Anni fa mi ero avvicinato a quel vizio; l’alcolismo ti divora al minimo indugio, ti fa toccare il fondo senza rallentare; ero riuscito a fermarmi in tempo, proprio prima che questo potesse influire sul mio lavoro. Da poche ore sotto le coperte ed il trillo del telefono interruppe le dolci parole di Morfeo sussurrate nella notte, egoisticamente sperai che fosse un nuovo caso e non qualche mio caro. Così fu: il bambino scomparso di cui avevo letto era stato ritrovato cadavere in un ripostiglio del museo. Venti minuti dopo ero al museo. Salutai l’agente all’ingresso; gli occhi a fessura, l’andatura irrigidita, in maniera intorpidita mi diressi verso la scena. Giunto allo stanzino vidi quel corpicino spento incorniciato da scaffali impolverati pieni di libri e scatolame, ed in mezzo alla sala un tavolino . Nessuno era a conoscenza di quel ripostiglio e se l’accesso non fosse stato lasciato aperto nessuno al museo avrebbe mai scoperto il corpo. In seguito la scientifica avrebbe trovato su quel piccolo angelo vecchie fratture e lesioni precedenti la scomparsa. Un certo ribrezzo si disegnò sul mio viso, indirizzato verso la persona che aveva compiuto tale bassezza.


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Più tardi, mentre controllavo le versioni dei genitori, mi accorsi di una strana processione: una coda umana simile ad un millepiedi si snodava dalla casa di fronte. Informandomi, scoprii che si trattava della residenza dell’anziano trovato morto sulla statua del cortile dello stesso museo. Possibile che le due morti fossero collegate in qualche modo? Tornai sulla scena per scrupolo personale, volevo battere la pista ancora calda. Cornici intarsiate arricchivano i dipinti profondi ed intensi, una dimensione parallela si apriva allo sguardo se ci si soffermava su quelle tele. L’ambiente del museo era in netto contrasto con lo sgabuzzino freddo ed inospitale. Su uno scaffale impolverato scorsi un libro differente dagli altri, era infatti un piccolo libretto, un diario. Molte pagine scritte, molte nozioni di vita. Le ultime risalivano al giorno della morte del vecchio: Lunedì 20 Febbraio Ore 09.45: Sono appena entrato nel mio rifugio segreto al museo ed ho trovato un bambino morto, una cosa drammatica Chi sei? Il silenzio arresta qualsiasi speranza La fredda morte si é orribilmente impadronita di te Ore 10.15: Ora inizio a ricordare, è il bambino maltrattato dei vicini, quel bambino che con indomito vigore rallegrava i pomeriggi di fronte a casa mia Avevi toccato il mio cuore con la tua onesta innocenza, sprigionavi un’arguzia bruciante, virtù che i tuoi genitori non riusciva-


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no a capire, mentre io ero felice sentendo i tuoi schiamazzi fuori dalla finestra Quello squarcio di vita mi riempiva il cuore Ora rimarrà un vuoto incolmabile Ore 10.35: Quanto può far male un ricordo! Ora é tutto così limpido, l’Alzheimer mi ha giocato il suo ultimo scherzo Lo incontrai nascosto nel museo, era scappato da casa, ed ecco l’idea: dargli accoglienza nel ripostiglio segreto Se non mi fossi scordato di te ora saresti ancora vivo Dopo aver assaggiato l’amaro boccone della prepotenza saresti stato libero da ogni sopruso Avevo immaginato per te un futuro luminoso, pervaso di quella luce che dopo la scomparsa di mia moglie rappresentava ormai un ricordo sbiadito nella mia vita Adesso siete in cielo, avvolti dalle ali degli angeli e con le stelle fra i capelli Questi sono i miei pensieri tormentati, parole che tu non potrai mai sapere Farò qualcosa, così finalmente vi rincontrerò, la mia mente non farà più scherzi e vi proteggerò come voi proteggerete me, voleremo assieme verso l’infinito Ora era tutto chiaro, quel diario era la chiave per riordinare la matassa ingarbugliata di fatti ed informazioni. Nessuna figura aveva spinto l’uomo dal cornicione se non l’ombra della malattia.


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Tre giorni dopo andai al funerale dell’anziano. Custodivo il suo diario nella tasca posteriore dei pantaloni e lo avrei fatto vedere a suo fratello prima di inserirlo fra le prove. Un drappo di tessuto damascato avvolgeva il vecchio, sembrava un antico imperatore pronto a varcare la soglia del mondo affianco al traghettatore d’anime. Prima però il fratello fece un discorso: “Il ricordo di mio fratello è dentro di me. I dottori ci avevano consigliato di metterlo in un istituto e se l’avessimo fatto ora magari sarebbe ancora vivo. Però non ho nessun rammarico, abbiamo vissuto molti momenti insieme, passando da quelli bellissimi a quelli difficili. Oggi lo seppellisco da fratello e non fra qualche anno come sconosciuto. In un istituto, le visite si diradano pian piano fino ad arrivare a una o due all’anno, per le festività. Questo non è accaduto e non accadrà”. Dopo quel discorso, brusii e osservazioni si sollevarono come foglie al vento, alcuni erano contenti altri si sentivano un po’ giudicati, vivendo situazioni simili ma con scelte differenti. Per l’occasione avevo messo le scarpe lucide, le stesse che molte volte mi hanno fatto portare notizie tristi ed amare, ma questa volta non le volevo sporcare con il fango; quel segreto sarebbe rimasto custodito nella mia anima, un po’ martoriata come quella dei supereroi. Sembra non esserci fine al peggio, l’innocenza strappata combinata con la sventura avevano creato un destino nefasto per il bambino e l’anziano. La sera stessa il libretto finì nel camino, alimentando un barlume di speranza.


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Tanja Rianda Quando tutti mentono Lasciate che mi presenti: mi chiamo Pandolfo e da oggi sono morto! Normalmente una storia non comincia esattamente così, ma vorrei scriverla dal mio punto di vista, cioè da cadavere. Tutto è cominciato due settimane fa quando ancora ero vivo e vegeto e il mio amico Arsenio mi ha proposto un vero affare. Per affare intendo: sopraluogo, pedinamento, mappe circoscritte ma soprattutto prelevamento di un oggetto di valore da un sito per poi rivenderlo al miglior offerente. Il piano è semplice e dovrebbe dovuto comportare nessun tipo di problema. Al Museo cittadino è arrivata una partita di “coroncine in oro massiccio tempestate di diamantini”, donate da un re appena morto. Quindi mi dico: “Su trenta corone, anche se ne dovessero mancare due, chi se ne accorgerà?”. Questa volta sono convinto che quello proposto dal mio socio sia veramente un buon affare. Non devo far altro che pedinare il vecchio custode del Museo, Nanni. E’ difficile dare un’età a Nanni, può variare dai quaranta ai cento anni. La sua faccia col tempo è diventata come una mappa incartapecorita di colore giallo, è dinoccolato e gli manca un occhio. Abita a due isolati dal Museo e ha una vita moscia e monotona: casa e lavoro. Il guardiano diurno del Museo è Arsenio, il mio amico. Se lui non avesse avuto questo aggancio non avrei mai accettato di fare il colpo.


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Comunque tutto è stato pianificato alla perfezione: alla fine del mese arrivano i preziosi e prima di esporli al pubblico nelle apposite teche, verranno lasciate una notte in un locale segreto che si trova nelle cantine del Museo. La gente comune non sa niente di tutto questo, ma io si perché il mio amico Arsenio mi ha ben informato. Ho tempo quindi una sola notte per entrare, immobilizzare il custode, scendere nelle cantine, rubare due coroncine e scappare con il malloppo (ben inteso che non possiedo un’automobile, ma solo una vecchia bicicletta arrugginita). Devo muovermi molto in fretta perché ogni venti minuti davanti al Museo passa una pattuglia a controllare. Per due settimane ho quindi pedinato Nanni, annoiandomi a morte. Ora il grande giorno o meglio la grande notte è finalmente arrivata! Ho deciso di agire verso le due del mattino, quando tutto il mondo è totalmente in balìa di Morfeo. A mezzanotte e trenta parto da casa in sella alla mia preziosa bicicletta. E’ una serata piuttosto fresca ma nel cielo c’è una bella luna tonda che con la sua luce sembra mostrarmi il cammino e mi infonde coraggio. Adoro lavorare quando c’è la luna piena e sono sicuro sia di buon auspicio! Alla una e trenta sono al Museo e subito mi nascondo dietro ad un vecchio muro che circonda tutto l’edificio. Alle due esatte passa la ronda: vedo il poliziotto che con una grande torcia illumina ovunque, io tengo il fiato e resto immobile come una statua; nessuno mi vede. Quatto quatto mi avvicino all’entrata posteriore del Museo: è una piccola porta in ferro che arriva nel ripostiglio.


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Arsenio l’ha lasciata socchiusa. Entro e mi ritrovo in un locale semi buio: da una finestrella in cima alla parete, timidamente, un raggio di luna osa sfidare la notte. La cantina si trova vicino all’ingresso principale, devo quindi oltrepassare tutte le stanze del Museo. Come un’ ombra rasento i muri, locale dopo locale. I quadri appesi ai vecchi muri mi osservano con uno sguardo complice, mentre armature di guerrieri solitari e stanchi sembrano indicarmi la strada maestra. Bene, ora mi manca solo lo stanzone finale dove c’è la guardiola del custode e la porta che scende in cantina. Se tutto va come da copione, lui dovrebbe essere intento a leggere un libro o meglio uno di quei tomi con tanto di rilegatura dorata; infatti…eccolo lì. Non devo nemmeno immobilizzarlo perché è chino sul libro assorto nei suoi pensieri. Vedo la porta, si trova sulla destra subito dopo il bancone del guardiano. Striscio silenziosamente sul pavimento (tanti anni nel tendone da circo danno ora il loro frutto), e raggiungo l’uscio. Apro delicatamente la porta ed entro. Prima di richiuderla controllo che il custode sia ancora al suo posto. Tutto sotto controllo. Mi chiudo la porta alle spalle e lascio che i miei occhi si abituino alla luce verde che esce dalle lampadine appese al soffitto. Nell’aria c’è odore di muffa, le pareti fatte di sassi sono umide e fredde al tatto. Davanti a me c’è un lungo corridoio con in fondo una scala, la raggiungo. Dopo circa un minuto di sali-scendi arrivo in un ampio locale dove ci sono sei porte chiuse. Sono nel cuore del Museo a venti metri sotto terra dove dietro quelle porte una volta venivano lasciati al loro destino i condannati a morte. Ma Arsenio mi ha fatto una cartina dettagliata del luogo, io so che devo aprire la prima a sinistra. Guardo l’orologio: ho ancora dieci minuti. Apro lentamente la porta ed entro nella cella. Davanti ai miei occhi mi appare qualcosa di veramente bello: tante piccole corone una in fila all’altra


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e una più lucente dell’altra. Rimango abbagliato da tanta pura bellezza. Ma devo fare in fretta e prenderne due. Con la coda dell’occhio vedo alla mia destra un movimento, mi volto ma…troppo tardi! Mi ritrovo con un foro in fronte. Cado rovinosamente a terra con lo sguardo fisso sul plafone della cella, la mia cella. Il mio spirito lascia il mio corpo e dall’alto vedo Arsenio colui che si spacciava per amico e socio che nasconde la pistola, ruba due corone dorate e con indifferenza se ne va. Ma dopo pochi passi viene colpito alla testa, cade in avanti e sviene. Non ci posso credere! In pochi istanti Nanni si è tolto le rughe, ha due occhi che vedono anche di notte e sta ritto ben saldo sulle sue gambe, altro che storpio!...Imbroglione! Raccoglie delicatamente le due corone, e con cura le mette in uno zainetto, poi silenziosamente lascia il Museo passando per il portone principale e…prendendo anche la mia bicicletta. Pochi minuti dopo passa la ronda…!


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Lara Ramoni Mi chiamo Roy, ho 11 anni e vivo in un paese noto per i suoi prodotti artigianali e per il museo gestito da mio padre. Papà oltre a gestire il museo ha un negozio di macelleria sotto casa nostra. Durante l’inverno non vediamo molta gente, solo in estate qualche comitiva di turisti arriva a vedere il paese, comprare i nostri prodotti e visitare il museo. Ho partecipato molte volte alle visite guidate di papà, quindi conosco bene il museo e so che un giorno sarà mio. Papà ama il contatto con la gente, infatti ogni volta invita a pranzo i turisti con la promessa di mostrare una camera segreta nel museo che né io né la mamma sappiamo dove si trova e che cosa contenga. _ Roy! Vieni che ti presento i nostri ospiti! _ mi chiamò papà. Passai dalla cucina dove c’era la mamma che sfaccendava con mestoli e padelle immersa nei vapori e nel profumo di cibi e andai in sala da pranzo dove trovai cinque persone sedute intorno al tavolo. _ Questo è mio figlio Roy e queste persone sono turisti francesi. _ _ Bonjour. _ salutai. _ Bonjour! _ esclamarono in coro. Mi sedetti a tavola ad aspettare che il pranzo venisse servito. Quando la mamma arrivò con i piatti carichi di cibo cominciammo a mangiare e tra un boccone e l’altro arrivarono le tre del pomeriggio. La comitiva si alzò da tavola e il portavoce annunciò che l’indomani mattina sarebbero partiti. _ Domani mattina dopo che avrete lasciato la pensione passate al museo che vi mostrerò la camera segreta. _ I francesi accettarono di buon grado l’invito e infatti il giorno dopo erano in trepidante attesa davanti al museo. Io ero nascosto dietro a un cespuglio sperando di riuscire ad entrare con loro. Già altre volte ero riuscito a varcare la soglia ma ogni volta ero stato scoperto.


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Improvvisamente mio padre aprì le porte fece entrare gli ospiti e io come un fulmine mi rifugiai tra loro sperando di mimetizzarmi. Camminavamo tra i corridoi bui del museo fino a quando ci fece scendere da una scala a chiocciola molto stretta e una volta nei sotterranei ci mise in fila davanti a una porta. _ Ora entrerete singolarmente. Non vi preoccupate ma la stanza è molto piccola e non ci stiamo tutti. _ La prima persona varcò la soglia e dopo un urlo e un poco di trambusto non si udì più nulla. Poco dopo la porta si riaprì. _ Il prossimo! – chiamò mio padre. Entrò una seconda persona e si udirono gli stessi suoni . Nel frattempo il resto della gente fuori con me cominciava ad incuriosirsi. Continuarono ad entrare ma quando mancavano solo due persone mio padre mi vide e mi cacciò dal museo. _ Roy, non hai il permesso di restare qui. Vai a casa ad aiutare tua madre. Sparisci! _ Corsi come un fulmine verso casa promettendomi che per la prossima volta avrei trovato un piano per accedere alla camera segreta. Un altro lungo inverno trascorse e finalmente arrivò l’estate. Quel pomeriggio stavo giocando con il mio pallone quando vidi arrivare un gruppetto di persone con un bambino. Si fermarono a scattare delle foto e il bambino iniziò a giocare con me. Poco dopo mio padre uscì di casa e cominciò a parlare con i nuovi arrivati. Il giorno dopo incontrai Leo, il figlio dei turisti, e mi disse che in mattinata avrebbero visitato il museo. Dopo la visita vennero a pranzo da noi e con mio papà presero appuntamento due giorni dopo, proprio il giorno della loro partenza. Due giorni dopo mi incamminai verso il museo e incontrai Leo. _ Ciao. Vai a vedere la stanza segreta? _


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_ Sì, non vedo l’ora! _ _ Io non l’ho mai vista… _ _ Come mai? È di tuo padre! _ _ Lui non vuole. _ mi lamentai. _ Posso entrare al tuo posto? Ci scambiamo i vestiti e con il tuo cappellino non mi riconoscerà! _ _ Ma io voglio vederla! _ _ Ti prometto che dopo dirò la verità e papà ti farà entrare. _ _ Ma poi si arrabbia e… _ _ Tranquillo, non si arrabbierà. Conosco papà e ci riderà sopra! _ Finalmente ero in fila con i turisti pronto ad accedere nella misteriosa camera. Mi calcai il cappello fino a nascondermi gli occhi con l’idea di togliermelo una volta dentro e dire la verità. La porta si aprì e l’uomo davanti a me entrò e dopo un urlo di sorpresa, penso, e un po’ di rumore la porta venne riaperta ed entrai. Una volta dentro la prima cosa che mi colpì fu l’odore nauseante, ma poi notai schizzi rossi sulle mura e sul pavimento in fondo alla stanza c’erano dei corpi accatastati. Mi girai verso papà e lo vidi davanti a me con un’accetta in mano. _ Bene, bambino. Ora ti svelerò cosa succede a chi mette piede nella camera segreta. _ disse papà ridendo divertito. Subito mi tolsi il cappellino e corsi verso la porta. Papà mi acchiappò e mi bloccò contro il muro. _ Come sei entrato qui? Ti avevo avvertito di non mettere piede qua dentro! _ tuonò. _ Papà, ero curioso… ho fatto cambio con quel bambino Leo e… _ _ Dov’è? _ _ Non lo so, penso fuori dal museo. _ Cominciai a singhiozzare mentre papà mi legava mani e piedi buttandomi vicino ai corpi senza vita. Ciò che i miei occhi videro fu orribile, papà fece entrare una alla volta gli ultimi due malcapitati e gli ammazzò a sangue freddo poi uscì di corsa. Rimasi in quel puzzo per non so quanto tempo, il sangue


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sgorgava ancora dai corpi finché mi raggiunse impregnandomi i vestiti. Iniziai a divincolarmi cercando di allentare le corde e finalmente riuscii a liberarmi. Corsi fuori dalla stanza imboccai le scale e arrivai nei bui corridoi del museo. Corsi verso il portone ma all’improvviso entrò papà con Leo tenuto per un braccio. _ Tu aspettami qui. Io vado a sistemare questo moccioso. _ sbraitò. Quando scomparvero di sotto mi precipitai alla porta ma ahimè era chiusa a chiave. Iniziai a tremare e a vagare nelle sale del museo in cerca di una via di fuga. Poi, inaspettatamente una mano mi acchiappò e venni trascinato via. _ Ora sai perché non volevo che tu entrassi. _ Guardai mio padre mentre chiudeva a chiave il portone del museo. _ Un giorno tutto questo sarà tuo… la casa, la macelleria, il museo dove ne diverrai il custode. _ disse papà cingendomi una spalla. Non dissi mai niente a nessuno perché in fondo volevo bene a papà.


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Monica Deluz Il gatto di Artemisia Poldo, un grosso gattone, piuttosto anziano, era stato adottato da Gastone, custode di un vecchio museo che si trovata al centro di un meraviglioso parco. Poldo era approdato in quel luogo come se fosse caduto dal cielo. Due occhioni verdi profondi avevano subito conquistato l’oramai attempato Gastone e Poldo a sua volta aveva deciso che questo era il luogo in cui avrebbe trascorso un po’ del suo tempo. Il museo, un’antica costruzione con una torre al centro, molto austero, era oramai dimenticato da tutti e nessuno più lo visitava. Gastone si affannava tutti i giorni per tenerlo pulito, spolverava uno a uno i bellissimi dipinti espostivi; di ognuno conosceva tutti i particolari. Poldo lo accompagnava, trotterellando. In particolare c’era un dipinto che il custode amava molto: l’autoritratto di una giovane pittrice di un tempo, Artemisia. Artemisia aveva vissuto tra la fine del 1500-1600. Il fatto che una donna a quei tempi fosse una pittrice non era evidente, Gastone conosceva la sua storia, per questo amava ancor di più questo quadro che era però un gran mistero. Il viso di Artemisia diveniva di giorno in giorno sempre più triste. Anche Poldo percepiva questo fatto e non appena entrava nella sala dove era esposto, si nascondeva dietro Gastone. Un giorno d’estate, era una splendida giornata, Gastone intravide nel parco due ragazzi. Erano seduti molto svogliatamente su una panchina, per nulla attratti dalle meraviglie che li circondava. I loro visi erano annoiati e tristi. Poldo osservava questa scena tra le gambe di Gastone e lì per lì decise che era giunto il momento di agire e si avviò nella loro direzione. Con qualche moina riuscì a catturare la loro attenzione. Una piroetta, un po’ di miagolii e finalmente i due ragazzi decisero di seguire Poldo che nel frattempo si era incamminato sul vialetto che portava al museo. Nel frattempo Gastone era salito ai piani superiori e la porta era aperta. “È permesso ? Possiamo entrare ?” Sibilò la vocina di uno dei due. Non ottenendo risposta, decisero di entrare. “Sembra di essere in un altro tempo,” disse la ragazza guardando


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ammirata gli splendidi soffitti dipinti di fiori. “Entriamo?” Con prudenza oltrepassarono la prima camera e si ritrovarono in un corridoio. Da lì si poteva accedere a diversi locali. “Vieni”, disse il ragazzo. Seguiamo il gatto, là in fondo al corridoio”. Spinsero la porta semi socchiusa. Entrarono. Si trovarono in un ampio meraviglioso salone color azzurro cielo con il soffitto decorato di splendide nuvole ovattate. Dipinti meravigliosi erano appesi ordinatamente alle pareti, uno vicino all’altro. D’improvviso i ragazzi riconobbero la luce di Segantini, i verdi di Cézanne, le ninfee di Monet. In fondo al salone, in un angolo, un autoritratto di una donna intenta alla pittura. Si avvicinarono. “E questo ? Chi è questa donna? Com’è triste!” Poldo guardava con occhi preoccupati i due ragazzi. I suoi miagolii si fecero sempre più forti. D’un tratto l’azzurro salone iniziò a roteare intorno a loro, le nuvole si abbassarono. Una folgore uscì dal quadro e i due ragazzi si ritrovarono in un altro tempo. Una stanza arredata con pochi mobili molto semplici. Il pavimento di legno portava i segni di qualcuno che di passi su e giù ne aveva fatti tanti. In angolo, un cavalletto, una tela, una tavolozza, dei colori. I due ragazzi non ebbero nemmeno il tempo di vedere altro che tutto si confuse contro di loro in una miriade di colori che li ricoprì. Un pianto isterico tuonò nella stanza e comparve ai loro occhi una donna altrettanto imbrattata di colori, tanto che il vestito color oro, s’intravvedeva appena. Due occhi lucenti pieni di rancore penetrarono gli occhi sbarrati dei due ragazzini atterriti. “Ragazzi, ragazzi, perché mi avete dimenticata. Avete dimenticato il senso del bello, le emozioni per una passione. Non v’interessate più del passato. Un passato che ha costruito il vostro tempo e che vorrebbe avere un posto nei vostri cuori”. La donna correva su e giù per la stanza. “Annienterò il vostro tempo !” urlava la donna. La ragazza, con le lacrime agli occhi, riuscì a dire con un filo di voce: “Come si chiama signora ?” Sorpresa la donna si volse. “Artemisia”. “È lei la pittrice?” “Sì”. Artemisia si rese conto del terrore dei due ragazzi. Si calmò. Il suo viso si distese. Il suo abito riprese a brillare del suo color giallo oro e il turbine di colori pian piano si arrestò. “È molto arrabbiata ?” osò chiedere la ragazzina. “Certo che lo sono !” Mi avete


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dimenticata, avete dimenticato il mio tempo, il sacrificio di una passione!” D’un tratto Poldo uscì da dietro i due ragazzi, dove si era rifugiato in quegli attimi di terrore. “Ah, eccoti finalmente! Ma dove eri finito vagabondo? Anche tu come tutti, ti sei scordato di me!” “Allora è suo il gatto! Ma come faceva a essere con noi nel museo?” I due ragazzi presero coraggio e iniziarono a fare delle domande ad Artemisia. Domande sulla sua vita, sulla sua arte. Più Artemisia si raccontava e più il suo viso diveniva radioso, i suoi occhi dolci, i suoi capelli dorati. “ Ragazzi, ora vi devo riportare nel vostro tempo, ma promettetemi che non mi dimenticherete, che non dimenticherete di apprezzare le cose significative della vita”. “Promesso!” dichiararono in coro i due ragazzi e in un attimo si ritrovarono di nuovo nel salone azzurro. Rumore di passi giungeva dal corridoio e come d’incanto comparve Gastone il custode. “Toh, dei visitatori ! Erano anni che non veniva più nessuno qui! Ma cosa è successo ai vostri abiti ?” I due ragazzini si guardarono con complicità e gli scivolarono appresso correndo verso il corridoio e l’uscita. “Non dubiti signore, verremo ancora a farle visita!” Lo sguardo di Gastone incrociò il ritratto di Artemisa e, sorpresa, il suo viso esprimeva ora felicità. Accanto a lei, ai suoi piedi c’era il vecchio gattone Poldo con un’aria soddisfatta. Gastone pensò: “Vagabondo di un gatto, c’è l’hai fatta a salvare il nostro tempo!”


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Valeria Jannelli Noir al Museo «Sono certo che Sherlock Holmes avrebbe saputo che pesci pigliare.» L’ispettore Ponti fissò il suo vice, pensoso e accigliato. Da un lato, detestava essere confrontato con altri investigatori, reali o immaginari. Dall’altro, era vero che le conoscenze violinistiche di Holmes in questo caso gli sarebbero state utili. Si trovava nella sala più bella del Museo del Violino: il suo contenuto, oltre venti capolavori della liuteria cremonese del Seicento e del Settecento, era assicurato per trenta milioni di euro. Ivo Desi, il maestro che quotidianamente vi si recava per suonare quei violini, era morto proprio lì qualche ora prima, ucciso da una potente dose di veleno. Era un ottimo violinista e un noto liutaio. Ivo passava due ore al giorno nella sala dei violini, dopo l’ora di chiusura del Museo. Il caso era complicato dal fatto che il Desi, senza farsi notare, nei giorni precedenti aveva trafugato dalle loro teche ben tre Stradivari, rimpiazzandoli con strumenti apparentemente identici che egli stesso aveva creato. La polizia aveva trovato gli originali nel laboratorio del liutaio, completamente smontati e sverniciati. Il giorno prima Ivo era stato in Val di Fiemme, a comprare legna per le casse armoniche. Era rientrato a Cremona in serata. Al mattino aveva fatto colazione al Caffè Paganini con la sua ex fiamma Samanta Rui; aveva pranzato in centro con Teo Varelli, il suo fornitore trentino di legname, poi aveva preso un caffè con Bianca Mori, titolare di un negozio di strumenti musicali a Roma. Samanta, quindici anni maggiore di Ivo, era stata sua insegnante di scienze al liceo quasi vent’anni prima. Prossima ai cinquanta, stava per sposare un ricco commerciante di ombrelli. «Da anni Ivo e io eravamo solo amici. Ci vedevamo ogni settimana e ci raccontavamo i nostri progressi. Lui, col suo sogno: costruire un


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nuovo Stradivari. Io col mio: diventare una meteorologa di fama. Ivo è sempre stato interessato alle mie teorie un po’ speciali, soprattutto le ultime, quelle sulla riduzione delle macchie solari. È stato il primo a credermi quando qualche giorno fa ho scritto su una rivista che l’innalzamento della temperatura terrestre è la più grande cantonata che gli scienziati abbiano preso negli ultimi anni: in realtà si va verso un sensibile raffreddamento. Sono un’attenta osservatrice del sole e ho scoperto da tempo che l’irradiazione solare è in netta diminuzione. Che inverni ci aspettano già dal prossimo! D’altronde le glaciazioni sono un fenomeno ciclico che si ripete ogni due o tre secoli. Negli ultimi giorni Ivo mi ha chiamata svariate volte per discutere del mio articolo. Con la sua morte erediterò la villa che abbiamo acquistato insieme qualche anno fa, ma non ho nessuna voglia di andarci a vivere.» Durante il pranzo Ivo aveva discusso animatamente con Teo Varelli. Il giorno prima il liutaio era stato nella foresta dove crescono gli «abeti di risonanza», i famosi alberi dei violini, senza il suo fidato consigliere Teo. Questi se l’era presa, anche perché Ivo aveva comprato ben cento abeti, spendendo una cifra enorme per la quale aveva dovuto addirittura stipulare un’ipoteca. «Son trent’anni che seleziono i migliori abeti per violini e ho clienti da tutto il mondo. Ho un occhio speciale per individuare i pochissimi alberi con anelli di crescita sottili e scarsi nodi, l’ideale per la trasmissione del suono. In val di Fiemme l’ambiente è ottimale, ma non tutti gli abeti lì sono uguali : bisogna avere grande intuito e scegliere quelli che crescono in modo lento e costante, guardando anche che gli alberi vicini non sottraggano loro sostanze nutritive. È un lavoro complicato, perché è essenziale capire quanta linfa è passata nella pianta e a quale ritmo. Questo dipende dal tipo di terreno e dalla temperatura. Gli abeti vengono abbattuti quando la luna è calante, nel mese di novembre, perché la quantità di linfa nel tronco è minima. Stradivari in persona ci andava a selezionare gli alberi, e Ivo immaginava di essere il nuovo Stradivari. Però lui aveva deciso di non abbattere subito gli abeti che aveva


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acquistato. Chissà perché.» Bianca Mori aveva passato un’ora con Ivo quel pomeriggio, per dirgli che non avrebbe più acquistato i suoi violini. Non riusciva a venderli: erano troppo cari rispetto alla concorrenza cinese. Gli aveva anche chiesto di pazientare per il saldo del grosso debito relativo all’ultima fornitura. Ivo era stato comprensivo, ma aveva impellenti esigenze economiche. L’aveva congedata con una strana promessa: «Fra vent’anni ti fornirò degli strumenti con musicalità identica ad uno Stradivari, ma ad un prezzo simile a quello cui oggi vendi i miei violini.» Lei aveva riso ma Ivo era serio. L’ispettore Ponti era perplesso. Pensava che il «furto» degli Stradivari da parte del Desi giocasse un ruolo decisivo nella vicenda. Perché li aveva smontati? La notte avrebbe portato consiglio. La mattina seguente si presentò da Teo Varelli e lo arrestò. Le sue ipotesi furono confermate dalle tracce di tetrodotossina trovate su un cucchiaio in casa dell’uomo: aveva somministrato il veleno al Desi nell’aperitivo. I canali linfatici di uno Stradivari sono in un certo senso irripetibili: nel Settecento il freddo intenso che interessava l’Europa da decenni aveva permesso la formazione di anelli di crescita molto stretti con fibre ben diritte, simili a canne d’organo. Però, se una piccola età glaciale fosse tornata, come sosteneva Samanta, nel giro di qualche lustro si sarebbero ripresentate le condizioni ottimali dei tempi di Stradivari, e allora sarebbe stato possibile costruire nuovi violini capolavoro. Ivo l’aveva intuito ed era subito andato ad assicurarsi i legni più promettenti, dopo aver smontato ben tre Stradivari per poter eseguire confronti precisi. Ora doveva solo aspettare qualche anno affinché il freddo facesse effetto. Teo Varelli l’aveva intuito, ma troppo tardi. L’unico rimedio gli era sembrato eliminare Ivo, così gli alberi sarebbero tornati in vendita e lui li avrebbe acquistati.


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Ugo Bernasconi 48 ore al museo Gli occhi iniziano a chiudersi, sempre più spesso. Sempre più a lungo. Le palpebre sono pesanti come le saracinesche dei vecchi negozi del centro ormai scomparsi davanti all’avanzata dei negozi in franchising, tutti uguali, in tutti gli angoli del mondo. Ormai, ci si può vestire in un negozio di una nota marca con il nome di una famiglia veneta in ogni angolo del pianeta, anche qui, a Lugano. Per non parlare del cibo, delle catene di fast food o delle rivendite di caffè. La famosa sirena color verde, sorride in tutti gli angoli del pianeta dalle tazze di plastica d’asporto. Anche adesso, quella stessa sirena, sorride dalla tazza di plastica al centro della sala centrale del museo della Villa Malpensata di Lugano. Generalmente non si può entrare con delle bibite nel museo, ma questa é un’eccezione, perché la situazione è eccezionale. È stato un piccolo robot meccanizzato a portare una decina di quelle famose tazze di caffè d’asporto all’interno della sala, su specifica richiesta di uno dei presenti. La polizia cantonale, gli uomini che coordinano il gruppo di pronto intervento, le “teste di cuoio” - come amano definirle i giornalisti - hanno acconsentito a che il robot portasse il caffè nella sala centrale. Ovviamente il caffè ha un prezzo, e questo prezzo é stato quantificato: la liberazione di un ostaggio. Anche le procedure per le prese d’ostaggi sono ormai globalizzate. Basta cercare in internet, sulla pagina del più famoso motore di ricerca e digitare alcune semplici parole, quali “SWAT” o “presa d’ostaggi”, per trovare centinaia di pagine che trasformano un neofita in un esperto unicamente attraverso la semplice, doppia, pressione dell’indice sul tasto sinistro del mouse. E se uno non é pratico con la lettura tecnico-scientifica


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di tutta la documentazione che la rete offre, può sempre limitarsi ai surrogati, ai prodotti precotti sfornati dall’industria cinematografica, la settima arte. Anche l’arte si sta globalizzando. O forse si sta appiattendo. Non vale più nulla. Lo sforzo, la fatica, l’impegno, la creatività, la sofferenza stessa dell’artista nel momento della creazione é ignorato, sminuito, sottostimato, sottopagato. Nella sala vi sono delle grandi tele bianche, completamente bianche. L’artista che tutti i manifesti esposti sul lungolago osannano doveva essere a corto di idee per proporre delle tele nude, bianche, verginali. “Eppure espone”, si potrebbe dire parafrasando Galileo Galilei. Nella sala, oltre alle tele intonse, alle tazze di caffè ormai freddo con la sirena sorridente, vi sono 5 persone. Nessuno sorride, 4 sono lì loro malgrado, e stanno cambiando il loro modo di percepire l’arte. La loro idea, il loro concetto di visita a un museo é radicalmente cambiata nelle ultime 48 ore. La stanchezza si fa sentire per tutti. Gli occhi continuano a chiudersi, sempre più spesso. Sempre più a lungo. Le palpebre sono sempre più pesanti. Qualcuno dorme, qualcuno piange in silenzio e trema. La sala é intrisa dell’odore di quei corpi stanchi, tremanti e impauriti che vorrebbero solo alzarsi e uscire. Un angolo della sala, lontano dalle tele - perché l’arte, anche se ridotta ad una tela nuda va rispettata - é stato adibito a gabinetto riutilizzando le tazze vuote. L’uomo al centro dell’attenzione nella sala - ma anche all’esterno del museo - é seduto sotto una grande tela bianca. È ancora sveglio, é lucido, non sente la stanchezza che attanaglia gli altri presenti. È abituato a non dormire molto. Non dorme da quasi 60 ore. Sa che potrebbe continuare per almeno altri 2 giorni senza dormire, ma il punto non é questo. Per questa visita al museo si é preparato scrupolosamente. Si é documentato con cura. Ha studiato le planimetrie del museo,


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ha fatto diversi sopralluoghi e anche delle visite guidate. Conosce alla perfezione la disposizione dei locali, delle telecamere di sicurezza che ha provveduto ad oscurare con della vernice. Conosce le “tecniche d’ingaggio” da parte della polizia. Lui conosce la situazione, sa cosa vuole, il suo obiettivo. Ma sa anche cosa le persone all’esterno del museo faranno, sa quando lo faranno. Sa che é solo questione di tempo. Eppure é sereno, é consapevole del fatto che una presa d’ostaggi al museo di villa Malpensata é una cosa eccezionale, che richiamerà - anche nella piccola e provinciale borgata di Lugano - frotte di giornalisti da tutta l’Europa. L’uomo sveglio sotto il telo bianco conosce la situazione, per quanto gli é possibile la domina, la controlla, la dirige, la plasma, come l’artista plasma i colori sulla tela bianca. L’arte é sofferenza e pazzia. Van Gogh non si é tagliato un orecchio pur di dipingere meglio? Dalì - legato ad una sedia - si faceva scaraventare giù da una scala per trarre ispirazione dalla sofferenza? L’uomo nella sala ha già sofferto tanto per l’arte, questa é l’ultima volta che soffrirà per essa. Ha perso la casa, la famiglia, i figli, la donna che credeva di amare. Il lavoro che credeva di saper fare. Tutto per seguire l’ispirazione che sentiva dentro di sé: dipingere. È rimasto solo, solo con se stesso e la sua passione per l’arte. È la disperazione che lo ha spinto a prendere degli ostaggi nel museo di Lugano, ha bisogno di un palcoscenico sul quale mettere in mostra tutta la sua arte. Si alza in piedi e controlla l’ora. Mezzogiorno è passato da poco, è martedì. È da domenica mattina, da quasi 48 ore che tiene in ostaggio le persone nella sala, e in apprensione tutto la città di Lugano e il Canton Ticino. È giunta l’ora che tutti conoscano il motivo per il quale ha preso questi ostaggi. L’arte, questo è l’unico e vero movente, passionale, che lo ha


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spinto sin qui. Il riconoscimento del suo amore per l’arte. - Siete liberi. Tutti liberi, tranne tu. – la sua voce è un sussurro. Ha scelto il suo “complice” per l’ultimo gesto. Si appoggia davanti alla grande tela bianca. È posto di fronte alla grande vetrata che da sul parco del museo. Le tende sono chiuse. Gli ostaggi fuggono, finalmente liberi. L’uomo, guarda l’ultimo ostaggio rimasto. - Per favore, apri la tenda. Poi sarai libero di andartene anche tu. L’uomo sa che un tiratore scelto è appostato e tiene sotto tiro quella finestra con un fucile di precisione. Quando la tenda verrà aperta sarà un bersaglio perfetto, facile. È pronto. Nella mano tiene la scaccia cani che ha utilizzato per la presa di ostaggi. Nessuno si è accorto che era solo un giocattolo. - Apri la tenda, per favore. E… Scusatemi per tutto quanto. Non ho mai voluto farvi del male. La tenda si apre. Sulla sua fronte si vede un puntino rosso. Il tiratore scelto è in posizione. Anche l’artista. Il primo rumore che l’artista sente è quello della scacciacani. L’ultimo è quello del vetro che va in frantumi. Poi più nulla. La tela non è più bianca. Il sacrificio per l’arte è compiuto. Adesso è diventato famoso.


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Lucilla
Kilani Unica complice, l’aria Saul aveva registrato mentalmente tutte le fasi del suo piano. Oggi sarebbe stato il giorno della rivalsa per tutti gli sgarbi, gli scherni e le ingiustizie sofferte per colpa di un membro della sua famiglia, anche a causa del suo fisico che è sempre stato molto esile e dai lineamenti delicati. Mesi di controlli, di accertamenti, di incontri avevano portato alla preparazione meticolosa del progetto. Al Museo di Storia Naturale lo scorso mese era stata inaugurata una mostra sulla biodiversità. Saul si era premurato di mettere la locandina nella bucalettere di Daniel. Lui, dal fisico prestante, sicuro di sè, l’amministratore unico della ditta farmaceutica di famiglia. Lui che si era preso e sposato la sua fidanzata per poi lasciarla per un’altra. Con una telefonata, aveva saputo che quest’ultimo sarebbe andato proprio quel sabato mattina al museo, subito alle nove, per non trovare troppa gente. Eccolo lì, dunque, alle nove e dieci, pronto ad entrare al museo, dieci minuti dopo aver visto Daniel affrettarsi verso l’entrata. Si era semi-nascosto dietro un albero, fingendo di parlare al natel. Sale tranquillamente i pochi gradini che portano al palazzetto che ospita il museo; varca la prima porta e si sofferma a guardare dalla grande vetrata il lago, sale una rampa di scale e si trova sul pianerottolo davanti all’entrata. Si ferma un attimo, riflette e si avvicina alla porta che si apre automaticamente. Saluta con un sorriso la signora alla ricezione che ricambia; si guarda attorno e comincia ad avviarsi verso le varie sale, dopo essersi accertato che Daniel non stesse visitando l’esposizione temporanea. No, non c’era; prima sarebbe andato a farsi un giro tra gli animali liofilizzati (così li chiamava), poi sarebbe passato...eccolo li, davanti a lui, fermo di fronte alle bacheche dei nuovi fossili... Conosceva bene Daniel, anni fa andavano insieme al museo. Si sarebbe soffermato davanti ai fossili e anche ai minerali per raggiungere poi la sala dove proiettavano dei video relativi agli


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oggetti esposti permanentemente. Davvero ben fatto questo piccolo museo, quante volte lo aveva visitato da solo! Ne usciva sempre affascinato per quello che la storia e prima ancora la paleontologia e la mineralogia e la natura tutta poteva insegnare sulla nostra vita su questa terra. Saul comincia a preoccuparsi per il suo piano, Daniel si sofferma troppo a lungo davanti ad ogni bacheca. Sa di aver tempo solo fino verso le dieci, poi cominceranno ad arrivare genitori con figli al seguito ed allora sarà impossibile effettuare quanto stabilito. Finalmente arriva alla sala dei filmati. Si avvicina al monitor sceglie un video e schiaccia il bottone d’avvio. Si siede e dopo pochi minuti una bella signora, jeans e giacca beige, con capelli chiari di media lunghezza, lisci con una frangetta morbida sulla fronte, occhi nocciola rotondi e una bocca forse un po’ troppo grande si siede proprio vicino a lui. Daniel la guarda, le sorride e dopo un attimo si presenta. Il dongiovanni che è in lui esce. Lei risponde con un: “Piacere, sono Sarah”. Conoscendo bene il video e il museo, Daniel si propone di farle da guida; prima nella spiegazione del filmato e se fosse stata d’accordo, anche delle varie sale, per poi terminare insieme visitando la mostra sulla biodiversità. Lei acconsente parlando a voce bassa. Daniel la riguarda con interesse, ha un bel viso, forse un po’ duro, ma interessante. Crede che le ricorda qualcuno, ma ciò che più lo colpisce è il trucco un po’ troppo pesante. Sicuramente non avrebbe voluto un abbraccio, oggi, essendo vestito con un maglioncino bianco. Le luci nella sala sono leggermente abbassate, proprio per avere una miglior visione dei filmati. Passano una decina di minuti e Sarah, con fare elegante per non disturbare, cerca qualche cosa nella sua borsa, Daniel non ci fa caso, forse un fazzolettino. Sarah si guarda in giro con noncuranza, la sala è vuota. Con delicatezza gli prende una mano, lui si gira e la guarda sorpreso diritto negli occhi. Lei lo apostrofa con un: “Ma proprio non ti ricordi di me?” Lui resta attonito e mentre cerca una risposta, lei lo abbraccia e nel fare ciò gli conficca una siringa nel collo. Lui


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non riesce a reagire. Non un urlo, neanche un rantolo. Niente. Lei si alza e con calma si avvicina all’uscita dopo aver controllato che non ci fosse nessun visitatore in grado di ricordarla. Arriva alla ricezione e salutata la signora gentile dice: “Guardi che c’è un signore che forse non si sente molto bene nella sala dei filmati. È accasciato su una sedia in modo strano.” La signora, con un grazie si precipita verso lo sventurato visitatore, chiamando concitatamente al telefono qualcuno in suo aiuto. Con tutta tranquillità esce dal museo, gira attorno al palazzo degli studi, si accerta che non arriva nessuno e con calma toglie la parrucca, che mette in un sacchetto per gli escrementi dei cani. Si ferma ad osservare il fiume mentre con delle salviette umide si pulisce il viso. La strada è vuota. Mentre si avvia all’uscita del parco toglie le lenti a contatto. Ripone la giacca femminile in un sacchetto che getterà nel cassonetto degli usati e resta col maglione. Si mette un berretto di lana e pensa che Daniel ha avuto quello che si meritava. La siringa con l’aria probabilmente non lo farà morire, era poca, meno di 10cc, lo salveranno in tempo. Starà sicuramente molto male, per un po’, forse con danni permanenti. Ma Daniel è di costituzione forte. Si era informato per curiosità da un amico medico, dopo la visione di un telefilm nella cui trama si parlava appunto di iniezioni d’aria.. Non avrà un fratello sulla coscienza. Andrà a trovarlo e si preoccuperà della sua salute. Tanto ha già anche pianificato il suo futuro. Fra sei giorni partirà. Comperato il biglietto aereo per Hohhot, repubblica della Mongolia interna cinese, 420km da Pechino. È già in pensione anticipata; già ritirato il suo capitale e avrà tutto il tempo per visitare la Cina perchè nessuno lo aspetta a casa.


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Kenneth Koch Noir al museo Una donna sui trent‘anni, capelli colore della terra bagnata e boccoli che, riposati sulle spalle, richiamavano una Venere perduta fra le onde del mare, sopracciglia sottili, affusolate sui fianchi, occhi grigi graffiati da un verde amazzone, naso minuto leggermente curvo all‘insù, bocca piccola con labbra che si nascondono a vicenda, timide, zigomi scolpiti dolcemente, collo nudo e mellifluo, seni sbocciati dentro una giacca nera lunghissima, braccia corte e magre, mani piccole con dita sottili e delicate come quelle di un neonato, gambe lunghe coperte da un paio di ghette nere dai motivi arabeschi, capello scuro con veletta a rete, camicia bianca sobria, armonia nei gesti, una bellezza sconosciuta, respirava lentamente nella hall d‘entrata deserta. Comprava due biglietti. -Chiudiamo fra un quarto d‘ora. -Sono qui per un quadro. Farò in fretta. Il rumore dei tacchi riempiva le stanze, le suole si muovevano in fretta sulle piastrelle sporche di cemento. Quel suono si fermò davanti ad una parete. La sala era vuota, il guardiano assopito sulla panca all‘entrata. Un deumidificatore elettrico creava, col suo ronzio, un‘atmosfera artificiale e pesante. Tuttavia gocce salate bagnavano il pavimento bianco ai piedi della donna. Un uomo: -Avevi ragione, è perfetto.-Ti piace?-È ciò che ogni uomo prova posto contro la fine. Il nulla che sto per diventare mi ha divorato straziante per anni; in parte fisico, mi ha rinchiuso entro i limiti del corpo, in parte metafisico, ha infettato la mia coscienza, offuscando la realtà, inibendo il pensiero.


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Vedi il lago? Non è lo specchio del cielo in terra, è il cielo capovolto: non contiene nulla. La superficie gli permette di manifestarsi agli occhi degli esseri, ma essi sanno che sotto questo manto nero non vi è esistenza, nessuno è sovrano. Il cielo rimane libero da qualsiasi vincolo, il lago diventa presenza finita. Se non avesse confini, inonderebbe tutto, cambiando la sua natura, trasformandosi in aria. Eppure intravedo qualche increspatura, forse l‘ultima salvezza, o un ricordo che galleggia nel presente.Altre gocce. -Prima o poi quell‘increspatura svanirà, sciolta sulla superficie nerastra. Era impossibile salvarmi, e ti prego di perdonarmi. Non sono più quell‘uomo che abitava sopra il tabaccaio sulla 7 strada, quel cinico bastardo che ti amava. Quell‘attimo che abbiamo condiviso era la nostra piccola crisalide calda e protettiva, dove consumavamo i nostri giorni, isolati dal mondo intero. Il morbo mi ha svegliato dal torpore della nostra passione ed era troppo forte per farmi accettare la realtà che stavamo vivendo. Ti ho abbandonato una mattina sotto le coperte, davanti ad un caffè amaro, senza zucchero. La donna si accasciò per terra con le braccia strette sull‘uomo. Piangeva dolcemente. -Posso cancellare i confini che ti legano al mondo, quelli che vedi in questo quadro. Ma se mi costringerai a farlo non potrò guardare un uomo negli occhi come prima.-Ci riuscirai, invece. Non entrerai più in luoghi del genere, le pareti della tua casa saranno spoglie e i ritratti non riceveranno l‘attenzione dei tuoi bellissimi occhi. Presto ti dimenticherai di me e del mio stupido appartamento sopra il tabaccaio, tutto ciò che rimane di me.-Non dirmi queste cose! Non vedi quanto male mi fanno le tue


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parole? Non vedi quanto soffro? Perché devo continuare a vivere senza di te?La donna si alzò in piedi e si asciugò le guance imperlate di sale, il viso non era ricoperto da alcun strato di fondotinta. Gli occhi fissi sul quadro, le mani che stringevano i manubri. La stanza era divenuta, tutto ad un tratto, piccolissima. I piedi nelle scarpe cercavano le crepe tra le piastrelle. -Perché mi hai portato qui?-La prima volta che ci incontrammo era qui, difronte a questo dipinto, mi raccontasti del lago e della sua natura tanto triste. Era tanto tempo fa, amore mio. L‘orologio segnava le nove. La mostra stava per chiudere, non c‘era più tempo per pulire le ferite del passato. Con mano tremante, la donna cercò una Heckler & Koch P9 dentro la sua borsetta, pregando di non trovarla. Allo stesso modo, l‘uomo tirò fuori dalla tasca della giacca un accendino e un pacchetto di sigarette. Ne accese una. -Avrei dovuto smettere di fumare tempo fa. Si sarebbe potuto chiamare silenzio il singhiozzo soffocato, lo sfrigolio della sigaretta, il ronzio elettrico che aleggiava nella stanza. Un colpo secco. Il suono metallico di una cartuccia che colpisce il pavimento. La testa gentilmente inclinata avanti, occhi chiusi. Un paio di tacchi che riecheggiavano nei corridoi illuminati. Un inserviente con un moccio insanguinato e il ritratto di un lago. Il museo che chiude. La mattina dopo una sedia a rotelle sul molo 47, nell‘East Side, senza proprietario. Perché sprecare una storia? E questo é quanto.


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Silvia Bello Molteni
 Raccontami l’Africa - È sangue! Sul muro e sulla porta africana. Io non entro! Brutta cosa! È il pomeriggio di martedì grasso, ma il sergente di picchetto Luisa Zeni, dalla Casa Comunale, capisce che non è uno scherzo e riconosce la voce di Cupino, guardiano del Museo di Villa Aranci, dove sono conservati mobili antichi e preziosi dipinti. Cupino chiama dalla Torre Est: tre piccole sale circolari, ognuna ad un piano diverso, adibite ad una sorta di museo di storia naturale. Ci sono i ricordi di caccia dell’ultimo proprietario della villa, il Barone Von Gotti: animali imbalsamati, provenienti da tutto il mondo. Villa Aranci è nel parco, sulle rive di un laghetto, proprio di fronte alla Casa Comunale, quindi Luisa corre da Cupino, inseguita dall’appuntato Foti. Sa che il mondo di Cupino non è quello di tutti. La sua mente disegna percorsi che gli altri non seguono, con tante ombre che solo lui può affrontare. Sente voci roche che gli suggeriscono segreti, che mai svelerà ai dottori, curiosi di sapere cosa dicono. Cupino è seduto sulle scale, davanti alla porta della sala al primo piano. Dondola con la testa tra le mani. -Sangue in Africa, sangue in Africa! Luisa si accosta alla porta aperta, sporca di sangue. Ha la pistola stretta fra le mani e vede, tra le zampe di una zebra, il corpo di un ragazzino con la testa insanguinata. Fradicio. Gli occhi sbarrati, morto. -Chiamo l’ambulanza!- È Foti, con un mantice di respiro.


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-Sì, ma non serve. Chiama il comandante alla Centrale! La voce di Luisa esce stracciata, in bilico tra la paura e lo sdegno. Resta fredda. -Corri sopra e sotto e guarda se c’è qualcuno. Cupino sporge il capo dalla porta. -Piccolo Quark! Piccolo Quark! Il Grumeti. I coccodrilli! Ora è in piedi sulla soglia. Trottola con la testa fra le mani. -Il Grumeti! I coccodrilli!- Si agita. Luisa lo blocca. -Calmati, fammi capire!Cupino non parla più. Il suo mondo lo inghiotte. Dal piano terreno si sente Foti balbettare: -Zi… zitto! Sie…siediti! Ancora spaventato, mentre chiama la Centrale, fa sedere sulle scale un giovane ubriaco, che alterna un acuto a un singhiozzo di pianto. Foti, tremante, lo ammanetta al corrimano. -C’è un ubriaco qui all’entrata! - Urla a Luisa. Quando urla non balbetta. In quel momento il cellulare di Luisa suona; è Carletti, il guardiano del parco. -Ho trovato uno qui al laghetto, completamente sbronzo. Te lo porto in ufficio? È una sincope di avvenimenti. Luisa cerca di tenere il ritmo. -No! Sono a Villa Aranci, portalo all’entrata della Torre Est, ce n’è già un altro qui! E c’è anche un morto!


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Mantenere la calma, come le hanno insegnato all’Accademia, non è scontato. Un ragazzo morto, due ubriachi e Cupino! La testa prima del cuore, ma la pancia si contorce! -Cupino, dimmi chi è? Lo conosci? -Piccolo Quark! Infermiere africano. -Chi? -Aldo, infermiere africano. Zebre e gnu nel Grumeti impetuoso, devono passare il fiume. Passare o morire! Passare o morire! Aldo Neri era un anziano del paese, morto pochi giorni prima. Luisa lo conosceva. Aveva passato 30 anni in Africa come infermiere in una missione. Andava spesso da Cupino a Villa Aranci. -Cosa centra Aldo? C’è un ragazzo morto qui! Chi è? - Urla Luisa. Cupino si spaventa e si gira verso il muro. Il guardiano Carletti, arrivato alla Torre Est, lascia gli ubriachi con Foti e sale al primo piano, spaventato dalle urla di Luisa. Entra nella sala africana e guarda il ragazzo. Si avvicina, muto. Si sente una sirena, poi ancora voci all’entrata della Torre Est. -Ma fateli tacere!- È il comandante; urla a Foti di portare via gli ubriachi. Con due poliziotti sale al primo piano. La scena ai loro occhi è triste: Carletti vicino al ragazzo, sotto le zampe della zebra, Luisa con Cupino che guarda il muro e delira: -Ha trovato le terre nuove, l’acqua. Ha lottato nel Grumeti, ma adesso è con Aldo! -Che cosa dice?- Interroga il comandante.


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-Dice che il ragazzo ha attraversato il fiume Grumeti. Trema la voce di Carletti, sconvolto dalla vista del corpo di Sandro, quel ragazzo appassionato di documentari, che, durante l’estate, andava al parco col vecchio Aldo e poi alla Torre Est a guardare gli animali. Aldo gli raccontava dell’Africa, dei tramonti e delle albe, dei colori e degli odori e, davanti agli animali imbalsamati, spiegava come zebre e gnu, seguendo le stagioni delle piogge, attraversano il fiume Grumeti nelle pianure del Serengeti. Mandrie di animali si spostano rumorose; nei pochi punti di attraversamento, i coccodrilli attaccano i più deboli, mentre i più forti passano il fiume. Sandro adorava i racconti di Aldo. -Al funerale ha pianto tutto il tempo, era inconsolabile! Povero ragazzo! -Ma che ci fa qui lei? Torni di sotto!- Ordina spazientito il comandante. -Un guardiano impiccione e un poliziotto che balbetta! Il custode scende senza una parola mentre i due ubriachi vengono caricati in macchina dal povero Foti. Luisa prende Cupino per mano e lo accompagna all’entrata della Torre Est. È sera inoltrata, è buio ormai, dentro e fuori dalle loro due anime gentili. Un ragazzo, fra zebre e gnu, è fermo lì, nelle loro menti.

Sono fermi per sempre, anche i corpi dei due ubriachi, la mattina dopo; uno sulla brandina e l’altro impiccato con le lenzuola alle sbarre della finestra, nella vecchia prigione, dove li avevano lasciati a smaltire la sbornia.


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Una lettera nella tasca dell’appeso, racconta di come i due uomini, gonfi di grappa e carnevale, avevano bloccato il ragazzo sul ponte del laghetto nel parco, e, con le loro mani appiccicose e tronfie, lo avevano spinto in acqua. Un rumore lacerante: la sua testa su un sasso, ma si era rialzato. Bagnato e sanguinante, aveva barcollato fino alla Villa. L’appeso l’aveva seguito, ma era troppo tardi e lui troppo ubriaco per chiedergli scusa. L’ha fatto dopo, nel buio della notte: ha usato il cuscino per il compagno e le lenzuola per lui. Ora vedono quel ragazzo, parla con un vecchio, dall’altra parte del fiume; loro, però, non possono raggiungerlo perché ci sono i coccodrilli!


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Paola Celio Il peso dell’arte Gli specialisti della scientifica, curvi sul cadavere del noto professor Reto Mesini, parevano uno sciame di grossi insetti bianchi. Infilai i copriscarpe ed entrai nello stanzone. Il professor Mesini aveva trascorso gli ultimi istanti di vita terrena nei depositi del Museo d’arte moderna, catalogando le opere non esposte. Uno degli scaffali carichi di sculture aveva ceduto, rovesciandogli addosso una cascata di pesanti bronzi massicci. Torace sfondato. Morte istantanea. - Una tragica fatalità - sussurrai al capo della scientifica, speranzoso. Entro un paio di settimane sarei finalmente partito per Hurgada. - È presto per qualsiasi conclusione. Ma venga a dare un’occhiata qui Mi indicò i perni di altri ripiani. Erano manomessi. Cioè, omicidio premeditato. Cioè, niente vacanze. Non fu difficile stilare la lista di chi aveva accesso ai depositi: la direttrice, il curatore, una guida. Li feci mettere sotto controllo. E iniziai gli interrogatori. Dall’ufficio della direttrice provenivano voci animate. La porta si spalancò e un uomo calvo con gli occhiali tondi si precipitò fuori, investendomi quasi. - Il curatore è un po’ su di giri, con questa storia - si scusò la direttrice, una donna di mezza età lunga e secca come una radice di liquirizia. Prima che le facessi domande, iniziò a raccontare che era stata la compagna di Mesini. L’aveva lasciato dopo averlo scoperto con l’amante, una critica d’arte che “sponsorizzava” un giovane


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artista dalle alte quotazioni. Un artista che voleva a tutti i costi ospitare nella sua galleria per trarne sostanziosi guadagni, anche in termini di fama. Osservò che l’ambiente dell’arte era senza scrupoli come qualsiasi altro e aggiunse che Mesini veniva a lavorare al deposito ogni giorno, ma che le era indifferente. Uno così non meritava neppure il peggiore dei suoi sentimenti. Poi mi accompagnò all’uscita attraverso un’infilata di sale. Chiesi informazioni sui lavori in corso al museo. - È un’installazione artistica, non un cantiere - mi freddò lei. Finsi di avere fretta. Per strada chiamai il curatore e gli diedi appuntamento per il tardo pomeriggio. Secondo le mie informazioni, lui e Mesini avevano avuto gravi screzi, soprattutto finanziari, e i due non si sopportavano. Avevano aperto una galleria d’arte insieme, ma poi Mesini se l’era accaparrata e il curatore ci aveva rimesso un sacco di soldi, tanto da non poter difendere i propri diritti con un avvocato. L’ora dell’appuntamento con la guida era passato da un pezzo. La attesi sotto casa, sfogliando un opuscolo su Hurgada. La giovane, avvolta in un bozzolo di abiti colorati, arrivò mezzora dopo: si era scordata dell’appuntamento. Sul viso acceso dalla vergogna spiccavano occhi trasognati. Mi fece strada nel suo atelier. Disse che si considerava prima di tutto un’artista. Dipingeva ritratti, ma usando alimenti: vino, Nutella, quark. Marmellata, miele, uova. Pomodoro. - Sono opere transitorie, destinate a deperire. Proprio come l’esistenza umana - spiegò, vedendomi sbigottito. Se conosceva il professor Mesini? Certo, ma non le era mai piaciuto. Con le donne alludeva a una certa disponibilità per esporre alla sua galleria. Anche a lei, di recente, aveva proposto una mostra, ma poi aveva avanzato quella clausola rivoltante. Ma l’arte non poteva diventare merce di scambio, andava


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rispettata. Non doveva servire fini materiali, doveva elevare l’uomo esercitando un ruolo soltanto ideale sulla sua vita. - Chi l’ha ucciso ha fatto un’opera benemerita. Per l’arte, intendo - concluse seria. Prima che me ne andassi, mi regalò un quadretto. Un bambino di vino rosé e maionese. Il prof. Mesini, dunque, non aveva amici. Più che quadri per la galleria sembrava aver collezionato rancori. Affrettai il passo. Il curatore mi accolse nel suo studio spoglio e caotico. Tralasciai di indagare se lo fosse per scelta estetica o che altro. Mi stavo ancora accomodando che esclamò: - Era ora che quella carogna andasse all’inferno! Finalmente la mia galleria esporrà artisti validi e non chi paga di più o chi concede favori Raccontò disgustato di aver scoperto che Mesini prendeva anche mazzette. L’aveva affrontato, ma lui l’aveva sbattuto fuori minacciandolo, per poi cambiare le serrature della galleria. - Lei ha tratto grandi vantaggi dalla morte di Mesini - commentai. Mi fissò glaciale, da sopra gli occhiali, con un ghigno soddisfatto: - Le dirò una cosa: ho un alibi di ferro. Ero a un seminario di due giorni a Venezia. Controlli pure. E ora se permette, avrei da fare In ufficio verificai il suo alibi. Inespugnabile. Quindi avevo tre sospetti: due senza uno straccio di alibi e il maggiore indiziato con un alibi a prova di bomba. Dalla tasca della mia giacca sbucava l’opuscolo di Hurgada. L’indagine era in alto mare e quello era l’unico mare che avrei visto per un po’. Gettai l’opuscolo nel cestino. Passò qualche giorno. Le intercettazioni erano esasperanti: la direttrice trattava opere in prestito ad altri musei, la guida disquisiva dell’impatto spirituale dell’arte e il curatore rifiniva


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la sua prima esposizione. Insomma, niente di niente. E tra questo niente c’era un assassino in libertà. Certo, avevo conosciuto un ambiente ben diverso da ciò che immaginavo. Si pensa che chi lavora a contatto con l’arte sia un idealista disinteressato. Ma solo la guida lo credeva ancora. La durezza del curatore, invece, diceva tutt’altro. E non mi dava tregua. Non poteva avere un complice? Sapevo che il mattino dopo lo avrei trovato al museo e decisi di reinterrogarlo lì. Quando arrivai, due operai erano intenti a spostare un’enorme scultura. - ‘orca se pesa! - disse uno, piegato sotto. - Non lamentarti. È il peso dell’arte - rispose l’altro. Mi battei la mano sulla fronte: come avevo fatto a non pensarci? Ora sapevo chi era l’assassino! La guida crollò in un attimo. Aveva punito il prof. Mesini perché si serviva dell’arte per i suoi biechi scopi. Voleva riscattarne la dignità e la sacralità. - L’arte ha un suo peso non monetizzabile - declamò con sguardo spiritato. Il peso dell’arte: ecco ciò che aveva ucciso Mesini. Rincasando mi fermai all’agenzia di viaggio. Dopotutto, una vacanza a Hurgada me la ero meritata.


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Schenini Corrado Hanno ammazzato Pablo Quando lo vide, a pochi metri dall‘entrata, in un‘ innaturale posizione che sfidava il cielo mattiniero, subito gli passò per la testa che qualcuno aveva alzato un po‘ troppo il gomito. Quando, poi, si avvicinò per accertarsi che non fosse successo nulla di grave, s‘accorse che sulla tempia destra una macchia bluastra s‘era allargata tra i capelli castani, proprio dove si dipartiva la scriminatura. Ma fu soprattutto il viso immobile, torto in una smorfia impossibile, a non lasciargli più alcun dubbio. Quello non era ormai che un involucro. E il naso importante e la piega sfuggente della bocca storta non avrebbero mai più ritrovato la loro posizione abituale. Ebbe la brutta impressione che morire di lunedì, quando il museo era chiuso, non fosse poi tanto diverso dal crepare di sabato o di domenica. Si chinò sul corpo, facendo attenzione a non sfiorare la casacca grigio-pietra a doppio petto che avvolgeva l‘uomo. L‘ultimo bottone era slacciato quasi a cercare un ulteriore respiro. “Il museo rimarrà chiuso fino a martedì 12 febbraio per urgenti lavori di manutenzione dell‘infrastruttura.” Così recitava una parte del breve trafiletto che il commissario Bernaschina aveva letto di sfuggita in uno dei tanti momenti morti, perché di cadaveri in vent‘anni di lavoro ne aveva visti ben pochi, ma di attimi ne aveva ammazzati a iosa. La chiamata era arrivata alla centrale verso le dieci e l‘aveva trovato impegnato sulla tazza del water. Non c‘erano voluti più di venti minuti per arrivare sul luogo e subito notare la mano sinistra stretta su un cicemen. “Che l‘è sta roba chi?” Una prua di piroga, intagliata in legno dell‘Asmat, si era affrettato a spiegare il curatore Belloni. Un oggetto trafugato dal museo, aveva aggiunto Belloni. Ci aveva pensato e ripensato, ma il commissario Bernaschina non era riuscito a capire che cosa ci faceva Pablo Pezzi, aggrappato con una mano ad un cicemen, morto stecchito davanti all‘entrata dell‘Helene-


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um. La parte superiore della facciata dell‘Heleneum tingeva un rettangolo di lago con la sua sabbia rosata. La cassiera a domanda rispondeva che, sì, aveva notato il Pezzi, come non notarlo con quella casacca grigia, per nulla adatta alla stagione. Non ci aveva fatto caso più di tanto, anzi se n‘era quasi subito dimenticata: di matti ne capitavano anche da loro. Ad ulteriore domanda confermava che la vittima era sola, quando di domenica pomeriggio era entrata al museo. Ometteva però di dire che il Pezzi l‘aveva già incontrato in altra occasione. A carnevale, pigiati come sardine nel capannone, il costume da coniglietta aveva calamitato le attenzioni del Pezzi che le si era avvicinato e non aveva tenuto le mani a posto. Ma le occhiate evasive, gettate al rettangolo rosa di lago, non erano sfuggite a Bernaschina. Nessuno ha mai detto che Pablo Picasso era uno stronzo. Forse un seduttore, ma non uno stronzo. Pablo Pezzi invece lo era stato fino a pochi attimi prima della morte, perché la morte rende sempre dignità: uno stronzo. O almeno così pensava il curatore Belloni. L‘aveva visto ronzare, in un disneyano costume da calabrone, attorno a Giulia e si era infastidito. Il frastuono della guggen gli aveva impedito di cogliere poco più delle mani del Pezzi, che cercavano di farsi strada tra le pieghe del vestito da coniglietta. E Belloni, che cosa aveva fatto? Nulla, se n‘era uscito a fumare una sigaretta. Gli effluvi della benzina dello Zippo cromato erano stati subito dispersi dal vento gelido. Ma del carnevale il commissario non sapeva e non doveva sapere. Per Giovanni del Grigio era un periodo nero. Ce n‘era stato uno blu, perfino uno rosa, ma alla fine si era arenato nelle sfumature del grigio. Facendo sua la massima, i mediocri imitano, i geni rubano, aveva cercato l‘ispirazione ovunque, perfino tra gli altri artisti, sperando che qualche briciola di talento lo contaminasse. Era allora che aveva conosciuto il Pezzi, apprezzato per i suoi falsi d‘autore. Ed era allora che si era lasciato convincere a fargli il ritratto. Il Pezzi era rimasto freddino di fronte all‘opera; e pare non ci sia nulla che valga meno dell‘indifferenza. Giovanni, non


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sapendo che farsene di tutto quel grigio, l‘aveva appeso in soggiorno, sopra il televisore, e lì se l‘era dimenticato. Interpellato, il direttore del museo aveva negato categoricamente di conoscere personalmente il Pezzi. Confidava nel fatto che Bernaschina mai avrebbe scoperto il legame che l‘univa alla vittima. Qualcosa era andato storto quella domenica sera. Forse i non pochi bicchierini di grappa, trangugiati a siglare l‘inganno, avevano ringalluzzito le pretese del Pezzi. O forse l‘aurea apotropaica, che emanava dall‘oggetto, aveva scombussolato la mente del Pezzi. Il direttore non poteva saperlo, comunque non poteva nemmeno lamentarsi. In fin dei conti, le cose sarebbero potute andare peggio. Due fatti erano innegabili: il cicemen, catalogato come reperto numero uno dalla scientifica, per un po‘ non se lo sarebbe più trovato tra i piedi; e il Pezzi non avrebbe più potuto spifferare nulla a Bernaschina. “Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo!” gracchiava la radio, la ricezione non era delle migliori. L‘aveva accesa per noia. Al museo la giornata era trascorsa tranquilla, pochi visitatori, nessuna seccatura per la direzione. Rincasando, aveva ritirato in tintoria il costume rosa da coniglietta. L‘aveva fatto lavare; le macchie erano finalmente sparite. Sotto un ritratto, dominato da sfumature di grigio, il televisore propinava le immagini mute di Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto. Lo spense, già sapeva che nessun giudice si sarebbe azzardato a condannare un commissario. Fece scattare l‘apertura dello Zippo cromato, si accese una sigaretta. La radio gracchiava ancora. “Ho ammazzato Pablo, Pablo è morto!”


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Anda Claudia Dutescu Fatalità Il silenzio tombale del museo fu infranto da un urlo assordante. Una donna minuta e grassottella continuava a strillare indicando un corpo steso sul pavimento. In pochi secondi il luogo fu invaso dai curiosi più interessati a riprendere la scena col natel, che telefonare all ambulanza. La polizia avviò le indagini interrogando dipendenti del museo e visitatori e la causa della morte fu accertata dall’autopsia: avvelenamento da aconito. La notizia arrivò in fretta sulle prime pagine dei giornali, che non perdevano l occasione di parlare dello strano caso di avvelenamento accaduto sul corridoio del museo civico. La vittima era Luca Biscardi, un uomo di 63 anni, divorziato e senza figli. Le registrazioni di videosorveglianza indicarono l’entrata di Biscardi nel museo quasi due ora prima, lo si vedeva gironzolare, guardando con un certo interesse l’area numismatica. In seguito sparì dal campo della telecamera e comparve 41 minuti più tardi, camminando a stento e facendo fatica a respirare. Cadde a terra e rimase lì in preda alle convulsioni fino all’arrivo della donna che diede l’allarme. I giorni seguenti i dipendenti furono ancora interrogati, ma questa volta la segretaria del direttore, la signora Tina Cadorin si ricordò di Biscardi: l aveva visto nell ufficio del direttore nel giorno della morte. Aveva preparata lei stessa due caffè . La dichiarazione della segretaria fu una notizia inaspettata per i giornalisti che in varie occasioni avevano elogiato la dedizione e la professionalità di Alfred Kupper , direttore del museo civico e archeologico. Mentre la signora Tina veniva interrogata, Kupper camminava sul lungolago guardando con distacco il mondo attorno: mam-


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me coi passeggini e coppie che si tenevano per mano. Per tutti quella primavera sbocciava in una sinfonia di colori, dipingendo aiuole e parchi cittadini. Mancavano pochi mesi al pensionamento e questo fatto lo deprimeva. Non si era mai sposato, non aveva una sua famiglia e come direttore del museo civico si sentiva appagato, come uomo vicino al pensionamento si sentiva sfinito e vecchio. Kupper si avvicinava al museo sapendo già cosa lo aspettava: un lungo interrogatorio, con tante domande e poche risposte. Kupper ammise che Biscardi era stato nel suo ufficio altre volte e anche il giorno della morte perché era interessato di numismatica, ma negò fermamente di averlo avvelenato. Fu arrestato e in attesa del processo passò 3 settimane in cella. Finchè un giorno, la signora Tina si ricordò che lo scorso autunno raccolse dei bellissimi fiori azzurri e mise le loro radici nella tazzina di caffè nella speranza di ottenere delle nuove piantine. Si dimenticò completamente di questo fatto fino a quando un giornale non pubblicò la foto del fiore che causò l’avvelenamento di Biscardi. Era lo stesso che lei aveva raccolto. Si era dimenticata del fiore e si era dimenticata pure di lavare la tazzina di caffè col bordo rosso. La sua testimonianza fu considerata più che attendibile e l’onorabile Alfred Kupper venne liberato con le scuse di rigore. Ormai era diventato un pensionato e il suo nome riabilitato. Alfred Kupper, nipote di Thomas Kupper, anche lui direttore del museo civico. Passava le sue giornate passeggiando lungo il lago e con la mente ancorata nel passato. Aveva 5 anni e andava all’asilo quando ha comprato una mac-


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chinina del suo amico Luca, usando una vecchia monetina trovata in casa. Nello stesso giorno il nonno fu colto da un infarto. Continuava a chiedere a tutti dove era finito il suo sesterzio di Adriano che aveva lasciato sulla sua scrivania di ebano. Continuava a dire che era autentica e che era vecchia, molto vecchia. Il piccolo Alfred non ebbe mai il coraggio di raccontare la verità. Qualche settimana dopo Luca si trasferì con la famiglia e non lo vide più. Sempre qualche settimana più tardi, morì anche Thomas Kupper e lasciò al museo la sua importante collezione numismatica, dalla quale mancava il pezzo più prezioso. Sessant’anni più tardi, nel suo ufficio arrivò lui, con in mano l’antica e rarissima moneta romana, il sesterzio di Adriano. Non lo aveva riconosciuto, il tempo cambiò il viso del bambino con quale giocava molto tempo fa. Ma aveva riconosciuto la moneta; ogni giorno della sua vita pensò a quella moneta dopo che la scambiò con una macchinina. Biscardi voleva vendere il sesterzio al museo; non conosceva il valore della moneta e non aveva riconosciuto in Kupper il vecchio compagno d’asilo. Lo stesso sesterzio che cambiò la vita ad Alfred Kupper: dal giorno che il vecchio Kupper morì, il senso di colpa non lo lasciò mai e cosi decise di seguire le orme del nonno appassionandosi all’archeologia. Cosi quando la signora Tina Cadorin preparò il caffè non disse nulla. Conosceva come nessun altro la goffaggine della sua segretaria e anche le sue dimenticanze. Erano più le cose che dimenticava di quelle che portava a termine, ma nonostante tutto aveva sempre pensato che qualcuno si doveva pur sacrificare e tenerla come segretaria. Alfred Kupper invece non si dimenticò del fiore blu che la Tina aveva messo nella tazza di caffe col bordo rosso e la lasciò offrire all’ospite. Lui invece scelse la tazza col bordo verde. Era quasi certo che la segretaria lasciò seccare il fiore dimenticando di lavare la tazza. Ma non disse nulla. Quello che successe dopo era già stato ampiamente riportato sui quotidiani.


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In quelle 3 settimane in cella non ha fatto altro che sperare e aspettare che la sua sbadata segretaria si ricordasse del fiore di aconito. L’imbranata e tutto sommato l efficiente Tina Cadorin ricordò finalmente quanto accaduto e, visto che era una donna onesta, fece liberare e riabilitare il suo direttore. Nessuno invece lo sa che Alfred Kupper riuscì a riempire la sua vita da pensionato guardando per ore un autentico e rarissimo sesterzio di Adriano. Quando Biscardi le aveva dato la moneta romana per valutarla, Kupper l’aveva scambiata con un falso, tenendo per se la moneta che molto tempo fa apparteneva al suo nonno.


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Ismea Guidotti La macchia „Vorrei comprare quel quadro, quanto vale?“ Chiede Mrs. Meltins a Serena. Sorpresa, Serena, risponde emozionata „oh, grazie Mrs. Meltins, grazie per il suo interessamento! Mi scusi un momento, vorrei consultarmi con mio marito.“ „George, dove sei...? Ah, eccoti finalmente, sto per vendere il mio primo quadro, non è fantastico?“ Dice eccitata Serena al marito, poi prosegue „Pensavo di venderlo a ventimila sterline, cosa ne pensi?“ Il marito presenta un fisico aitante ed è sempre vestito alla moda. Oggi indossa una camicia gialla sgargiante, dei pantaloni neri e delle scarpe in pelle anch’esse nere. Prende dolcemente Serena per un braccio e le dice „Secondo me sarebbe più adeguato venderlo ad un prezzo più alto, almeno cinquantamila sterline!“ „Ma George, è il mio primo vernissage, nessuno mi comprerà un quadro al quel prezzo!“ Risponde Serena sottraendosi alla presa del marito e dirigendosi verso Mrs. Meltins. George però l’afferra nuovamente impedendole di raggiungere Mrs. Meltins e la costringe a seguirlo nell‘atelier. Una volta entrati cominciano a discutere animatamente; „Cinquantamila sterline? Ma sei matto? Non me la sento. Non lo comprerebbe mai!“ „Invece si! Sai chi è Mrs. Meltins? È la moglie del barone Meltins, un degli uomini più ricchi d’inghilterra...” Poi devi puntare alto! Devi dare il giusto valore al tuo talento.“ Dopo una lunga attesa, il marito di Serena si ripresenta agli ospiti. Si schiarisce la voce e annuncia: „sono mortificato, ma mia moglie Serena è soggetta a forti emicranie e ha preferito coricarsi. Sono costretto a rimandare la vendita dei quadri.“


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I presenti molto dispiaciuti abbandonano la sala, ma George raggiunge Mrs. Meltins prima che esca e le dice “Scusi, mia moglie ci teneva a sapere se era ancora interessata all’acquisto del quadro.” “Certo che lo sono!”. George continua “Io e Selena ci siamo accordati sul prezzo, centomila sterline...” “Dopo un attimo di silenzio, Mrs. Meltins annuisce “l’arte non ha prezzo, lo compro”. Sbrigano le formalità. George si inchina e bacia la mano a Mrs. Meltins, la quale nota una macchiolina rosso sangue che spicca sulla sua camicia gialla. George si allontana. Mrs. Meltins con la mano scaccia un pensiero, come fosse una mosca, poi lentamente indossa la sua pelliccia e se ne va. Alcuni giorni dopo, bevendo il té pomeridiano con la vicina, Mrs. Kalis, vede la foto di Serena sul giornale appoggiato sul tavolo. Incuriosita legge l’articolo. “SERENA BLUMENS TROVATA MORTA AL MUSEO DI ARTE MODERNA” “... La giovane pittrice è stata trovata priva di vita dal marito...” Mrs. Meltins rabbrividisce.


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Patricia Schneider Jan Van Eyck fu qui L’aria era lieve e allegra quella mattina a Bruges. Giovedì, giorno di mercato e i canali stracolmi di barche giunte per fare provviste. Giovanni, aprì le finestre e si affacciò per curiosare il viavai. Ripensava al giorno precedente. Quel pittore, quel Van Eyck, avrebbe fatto un ottimo lavoro. Il Gran Duca di Borgogna l’aveva consigliato bene. Lui e sua moglie avevano posato per ore. “Indossi il cappello a falde larghe signor Giovanni!” “Per favore, signora Arnolfini, abbassi leggermente il capo, come si conviene a una giovane sposa e posi una mano sul ventre; sarà di buon auspicio e Dio ascolterà le sue preghiere”. Il quadro gli era costato un bel po’ di fiorini già anticipati, ma gli affari andavano bene, non c’era da preoccuparsene. Marie, la serva, era uscita da qualche ora per acquistare un paio di oche, verdure e interiora di maiale in vista del pranzo domenicale. Sua moglie, riposava nella stanza adiacente. Giovanni Arnolfini si mise allo scrittoio e cominciò a fare un po’ di conti. Alzò la testa. Ruby, il cagnolino, sollevò di riflesso anche la sua per un attimo. Un rumore. Poi tutto tacque nuovamente. - Signor Giovanni Arnolfini? La porta si aprì con un colpo secco e Giovanni alzò la testa di scatto. Davanti a lui in piedi c’erano due guardie della polizia, a pochi passi seguiva Marie. - Sono io Giovanni Arnolfini, che è successo? -


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- La dichiariamo in arresto. La preghiamo di non opporre resistenza. – La guardia più robusta e bassa di statura gli si avvicinò e gli legò le mani. - Ma, – cominciò a balbettare il signor Arnolfini, pensando a certi suoi affari un po’ discutibili –di quali malversazioni sono accusato? Avete delle prove? - Venga con noi – l’altro gendarme, quello più alto con la voce chiara lo guidò verso la camera dove riposava la moglie. Entrarono. - Ecco le prove signor Giovanni –. La moglie era ancora distesa sul letto. - La serva ci ha riferito di essere tornata dal mercato e di aver aperto il portone, che era chiuso, come lo aveva lasciato, con le sue chiavi. Nessuno è entrato o uscito e lei e il cane eravate gli unici in casa. – Fece una pausa poi riprese – Oltre a sua moglie, naturalmente -. Le mani di Giovanni cominciarono a tremare. Pallido, si avvicinò al letto. Sua moglie, con la bella testolina bionda ornata da una cuffia di fine lino ricamato; le guance tonde sempre rosate erano ora esangui, di cera grigia e il vestito di velluto verde parzialmente nascosto, imbrattato da una grossa macchia di sangue. Un coltellaccio da cucina era infine violentemente infilato nel giovane torace della sua cara sposa. Il ragazzo era pieno come un uovo. Cocaina, gin, e anfetamine. Ai piedi, scarpe sporche poi un paio di jeans e una camicia rossa a quadri puzzolente. Il viso, pur bello, aveva i lineamenti stravolti. Si sedette sulla poltroncina, ma non poteva stare immobile in


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una posizione, appena fermava il corpo, la mente cominciava a girare. Non gli importava se l’avevano scoperto nella segreteria della Scuola d’Arte mentre sottraeva del denaro; tre soldi! Figuriamoci! In una serata l’avrebbe fatto fuori, si sarebbe divertito per un paio d’ore e che male c’era, tutti hanno diritto di divertirsi di tanto in tanto... “La prossima volta rapinerò una banca!” aveva urlato al direttore che con finto dispiacere, e stava accanto alla segretaria, “te la fai con questa vacca!”, realmente era quello che voleva urlare al direttore, ma si trattenne e disse quella roba della banca quando questi gli annunciò: “Lei non potrà più frequentare la nostra scuola, sia per la sua scarsa predisposizione e rendimento che per il suo intollerabile comportamento! Prenda i suoi effetti personali e non torni più da queste parti!”. Capito? “Scarso rendimento! Scarso rendimento! Scarso rendimento!” Sentiva ancora la voce pigolante del direttore nelle orecchie. E quella stronza della segretaria! Che meraviglia non dover più vedere nessuno! Nessuno di quegli incapaci che si spacciavano per artisti! Erano solo dei mediocri insegnanti! Dei ciabattini! semplici artigiani! Era durato fin troppo in quella scuola. Arte! Ma quale arte! Lui non ne aveva bisogno, di scuole, era troppo avanti per quella gente. - Vedo sopra le stelle, io. E voi? Che sapete voi dell’universo sopra le stelle? Ve lo siete mai chiesti voi, eh? – Cominciava a fermare i rari visitatori di quel lunedì mattina che transitavano per le sale della National Gallery di Londra. Alzava il tono. Sghignazzava da solo, ballava e cantava una strana canzone: “lullaby baby, lullaby baby”. Quando i custodi, avvertiti del subbuglio che il giovane stava creando, arrivarono, lo trovarono seduto sulla poltroncina di pelle nera, con le braccia allungate sugli appoggi. Insolitamente calmo. Gli inservienti gli si avvicinarono ulteriormente e chiesero, “Sta bene, signore?” lui fece cenno di sì con il capo. I lineamenti


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erano distesi, la pelle liscia, gli occhi avevano un’aria solenne. Si alzò, svenne. L’ultima cosa che vide era una pioggia di corpi morti che precipitavano verso il suolo. Di fronte a loro, sulla parete, quasi non facesse parte dalla scena, il preziosissimo dipinto di Jan Van Eyck, “Ritratto dei coniugi Arnolfini”, lanciava la sua solita luce fredda immobile. Il quadro raffigurante il signor Giovanni Arnolfini, commerciante, con la sua giovane sposa, superbamente vestita di verde, aveva uno squarcio nella tela, giusto all’altezza del busto della donna. Alcune ore dopo, nella centrale londinese di polizia, un agente stava innaffiando delle piante. Un altro, in piedi disse: - Sai come si chiama il tipo che abbiamo preso alla National Gallery? Quello che innaffiava fece no con testa, non lo sapeva. - E’ un italiano. Si chiama Lucio Fontana. Roba da matti, eh? -


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Elena Realini La mappa rubata -Questo sole frigge il cervello!- disse con voce irritata e sofferente il tenente Mart. L’emicrania non gli dava tregua e il sole accecante di quel pomeriggio di agosto aveva l’effetto di una lama che gli trafiggeva la fronte. Il suo sguardo vagava in ogni direzione, nessun particolare gli sarebbe sfuggito, non quella volta, non in quella indagine. Lo scortavano quattro agenti armati. Una motovedetta della guardia costiera era attraccata al piccolo molo e c’era tensione nell’aria. Per questa indagine avevano voluto proprio lui, un uomo di esperienza, intelligente e acuto osservatore. Questo gli aveva detto il suo capitano quel pomeriggio quando era passato a prenderlo a casa sua. Così lui, uomo freddo e insensibile, si era sentito forte e importante. La villa ottocentesca che ospitava il più famoso Museo Cartografico d’Europa era tinteggiata di un colore rosa antico che contrastava con il verde intenso del grande parco che la circondava. Ad attenderlo all’entrata c’era un uomo alto ed elegante che lo accolse con un sorriso di circostanza, mal celando l’apprensione che la situazione gli creava. –Buongiorno tenente Mart, il mio nome è Karl Trotter, sono il direttore del museo. È davvero un caso inspiegabile, spero che lei riesca a fare luce sull’accaduto. L’allarme non è scattato e gli agenti non hanno visto nulla di sospetto. Mi segua, le mostro dov’è avvenuto il furto.Omar Mart, accompagnato dai quattro agenti, seguì il signor Trotter su per un’ampia scala rivestita di ruvido granito; appoggiarsi al corrimano in ferro battuto gli dava un fresco sollievo. La sala dove era avvenuto il furto era a pianta quadrata con tre finestre che davano sul giardino sopra l’entrata principale, una via di fuga impensabile. L’unico accesso al locale era la porta che conduceva al corridoio e alla scala. Il soffitto era decorato con ricchi stucchi, le pareti erano di un giallo ocra molto chiaro


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e il pavimento sembrava un grande mosaico di legno, una specie di labirinto lucido e ben curato. Nella sala erano esposte due grandi mappe che raffiguravano Le Americhe e l’Asia; in mezzo ad esse un posto vuoto e un chiodo sulla parete. Il valore di queste opere era davvero grande, alcuni collezionisti potevano pagare cifre esorbitanti per possederle, per questo i ladri di mappe di tutto il mondo si arrovellavano nel pianificare furti al limite del possibile. Ma il vero scempio avveniva più tardi quando, in molti casi, la mappa veniva divisa in diverse parti che venivano vendute separatamente moltiplicando così il valore della refurtiva. Il tenente Mart ebbe un sussulto improvviso nel sentire sul braccio quella che gli sembrò la puntura di una fastidiosa zanzara che gli ronzava intorno già da un po’. Quel ronzio ora gli era entrato in testa e il suo sguardo, prima attento e vivace, vagava nel vuoto; sembrava ipnotizzato. Con passo furtivo, senza curarsi degli agenti intorno a lui, uscì dalla sala senza proferire parola e, imboccato il corridoio, si diresse verso una porticina, mimetizzata con la parete, invisibile ad un occhio poco attento. Era lo sgabuzzino delle scope, un locale basso, pieno di materiali per le pulizie e con una piccola finestra da cui filtrava giusto un filo di luce. Tutti si tennero in disparte, mano sull’arma, mentre il tenente frugava tra flaconi, stracci e scope. Le sue dita ora graffiavano affannosamente la parete, sembrava impazzito mentre il sudore gli imperlava il viso. Si passò il dorso della mano sulla fronte e poi la asciugò sul fianco dei pantaloni, proprio nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la pistola di ordinanza; la sua mancanza non sembrò preoccuparlo minimamente. Finalmente un’asse del rivestimento si staccò rivelando il macabro segreto. Il tenente ebbe un improvviso capogiro, si portò le mani alle tempie, come se temesse che la testa gli scoppiasse, poi la sua bocca contorta in una smorfia di dolore emise un gemito e il suo corpo si accasciò sul pavimento. Gli agenti lo portarono fuori e lo stesero, ancora esanime, su una panchina nel corridoio.


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Nascosto in un antro della parete, avvolto in un sacco di plastica, trovarono il cadavere di un uomo e, inchiodata dietro un’asse, una grossa busta di cartone che conteneva i due pezzi mancanti della mappa rubata, un nascondiglio perfetto. L’agente Sarti accese una sigaretta e tirò un sospiro di sollievo: –Il piano ha funzionato, Karl. È stato proprio il signor Mart. Abbiamo ritrovato il resto della mappa e, purtroppo, anche il vecchio custode che credevamo fuggito.–Già.- disse l’ispettore Karl Trotter.- Il nostro falso tenente Mart, non si è accorto dell’iniezione di Verilox che gli ho fatto di là in sala. La sua seconda personalità si è dileguata in un attimo e il vero signor Mart ci ha portato dritti alla meta. Se durante la perquisizione in quella villa in città non avessimo trovato per caso il primo pezzo della mappa originale, non ci saremmo accorti né del furto né della sostituzione con un falso. Per nostra fortuna il ricettatore aveva annotato su un foglietto indirizzo, data e ora dell’incontro col ladro e lo aveva poi messo con la parte di refurtiva nella sua cassaforte. Il suo zelo ci ha così permesso di risalire alla persona che abitava a quell’indirizzo in quel periodo: un uomo con gravi problemi di sdoppiamento di personalità, da qualche mese ricoverato in un ospedale psichiatrico. La sua convinzione di essere un tenente di polizia ha fatto il nostro gioco, è bastata una piccola messa in scena. Mi dispiace averlo ingannato, ma si tratta pur sempre di un ladro e assassino.Guardò l’uomo svenuto sulla panchina, poi pose i tre preziosi pezzi ritrovati sul tavolo, li avvicinò con cura e guardò il reperto ora completo: una mappa del mondo datata 1597. Nella parte bassa era raffigurato un demone con arco e frecce e una scritta diceva: “Sii sempre attento e sobrio perché il tuo demone rivale cerca sempre una vittima da annientare”. – Una citazione davvero azzeccata.- pensò l’ispettore Trotter.


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Patrick Acquadro La macchia Il cielo azzurro velato da due leggere pennellate di arancio, le alte vette eternamente innevate e più giù il verde chiaro dei prati e quello più scuro dei pini. E il rosa tenue di alcuni alberi di pesco giovani e forti, appena fioriti come in una dolce melodia. Che profumo! E ancora il marrone legnoso delle cascine raggruppate in un paesino tanto accogliente da sembrare inimmaginabile. E il viola della blusa di una donna esperta che lavora, imitata da un giovane muscoloso e bronzeo, forse suo figlio, e una piccola bimba dai capelli paglierini. Dietro di loro ecco l’immancabile fiumiciattolo, accompagnato nella discesa da un pascolo che vi si abbevera avidamente. Un’esplosione di tinte e tinteggi, questo era: come in una cartolina, molto più che in una cartolina. Questa è vita, pensò ad un tratto. Mica come in città, dove i colori sono artificiali e le sfumature non esistono. Per non parlare della puzza insopportabile e della frenesia e del baccano terrificante. Pazzia. Follia allo stato primordiale. Come le donne. Cosa c’entravano ora le donne? Ah sì, quasi dimenticava... D’altronde chi lo sa, forse c’entrano sempre, le donne. E poi, e poi tanta apprensione e sfiducia. E gelosia. Maledetta, irrazionale gelosia. Ma lassù no, lassù il Creatore aveva fatto un gran lavoro. Che stile, che tocco. Che vita. I suoi occhi brillavano vagando per quel paesaggio da fiaba. Correvano ebbri di passione, di qua e di là, dal cielo ai casolari, giù fino ai campi erbosi. Giù fino ad inciampare in un mucchio di terra rossastra e informe. Che cosa strana. Guardò con più attenzione. A ben vedere da quel mucchio inatteso spuntava una testa calva e acuminata, dalle folte sopracciglia bianche. Rabbrividì, ma per un secondo solo. Ecco di nuovo la morte, dunque, rimuginò con calma. Cosa era successo? Chi aveva potuto uccidere quell’uomo, forse marito e padre e nonno? Chi, come, quando. E guardali là, la donna, il giovane e la piccola biondina che senza essersi accorti di nulla continuano


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nelle loro faccende. Perché il Creatore, che era capace di tanta bellezza, si era macchiato di quella tragedia assurda? A meno che il responsabile non fosse… Fu un attimo: un urlo spazzò via ogni domanda. La maestosa porta sbatté alle sue spalle. Iniziava così l’ennesima passeggiata lungo gli interminabili corridoi, pensando e ripensando al suo amore. Era bello sapere di essere amata mentre fuori, oltre le grosse vetrate, un buio timoroso impallidiva sotto i colpi della luce sintetica. Eccome se era bello. E anche se a volte si sentiva un po’ soffocare dalle tante, forse troppe attenzioni, la consapevolezza di essere così importante per un’altra persona la cullava dolcemente. In fondo era la sola fonte di gioia della sua vita. Altro che il lavoro. Quello la annoiava a morte e l’unico suo merito era di averle fatto incontrare l’anima gemella. Perciò, dopo anni fatti di notti insonni a camminare a destra e a sinistra come uno zombie, da qualche mese era stata finalmente ripagata. L’amore: adesso non aveva in mente altro. E il tempo fluiva più veloce, interrotto di tanto in tanto solo da qualche squillo di telefono. Chi poteva chiamare ad un’ora così tarda? Non le importava, e non rispondeva mai. Mancavano pochi minuti alla fine del turno quando decise di andare un’ultima volta nella sala tre, dimora del suo quadro preferito. Lo guardò ammirata, illuminandolo con la torcia. Eccola là, la vera bellezza. Ora che al suo fianco aveva altri due occhi riusciva a vederla. Guardava e vedeva. “Che strano,” sussurrò come destandosi da un sogno. “Questa sera non ha chiamato nessuno.” Alzò le spalle e accarezzò distrattamente la statua in restauro. In quello stesso istante un’ondata di luce la investì in pieno, seguita da un paio di passi pesanti. “Commissario abbiamo già trovato l’assassino,” disse correndo e colmo di eccitazione l’appuntato. “Si è costituito.” “Davvero Balducci?” chiese in tono infastidito il commissario.


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“Sì, aveva ragione lei, si è trattato di un delitto passionale. Solo che ecco, noi cercavamo un uomo e invece… ehm, sì, in realtà è una donna. Una famosa pittrice che a volte si firma con uno pseudonimo maschile, C qualcosa, aspetti…” fece girando febbrilmente il proprio taccuino in cerca di un nome. “Ha confessato?” “Sissignore, ha calato le braghe. Sì insomma… Era la compagna della guardiana. Si sa che al giorno d’oggi certe cose…” L’appuntato lasciò perdere gli appunti e si ricompose. “Sospettava che si incontrasse in piena notte con l’amante. Anzi, ne era assolutamente certa. Non sapeva però se si trattasse di un’altra donna o addirittura di un uomo. Beh, questo non faceva altro che allargare il campo…” “Vada avanti,” tagliò corto il commissario. “Certo. Dicevo che così ha preso le chiavi di riserva del museo e si è nascosta nello sgabuzzino delle scope.” “Non è molto originale.” “Forse no, in effetti,” ammise l’appuntato, sorpreso. “Ma le dicevo… Ecco sì, la donna ha aspettato e aspettato, poi come delusa dal fatto che non fosse successo nulla, ha affrontato la sua ehm, come dire, amica. E nella foga della discussione è stata presa da un raptus, ha afferrato uno scalpello che ha trovato vicino alla statua in ristrutturazione e l’ha usato come un pugnale.” “Non fa una piega…” “Sì, però c’è una cosa che non riusciamo a spiegarci: la donna si è costituita non per l’omicidio, che anzi le è parso giusto e inevitabile, ma perché dice di aver rovinato irrimediabilmente un’opera di grandissimo valore artistico. Non lo può sopportare, sostiene.”


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Il commissario si avvicinò al quadro di fronte a sé e studiò con molta attenzione la piccola macchia che sotterrava quasi interamente la figura di un uomo. Dunque non era argilla proveniente dal restauro come aveva sospettato in un primo momento. “Lei ci capisce qualcosa?” insistette l’appuntato. “Sì Balducci, credo proprio di capire…” sospirò il commissario, senza vanto. Quindi si voltò di scatto e a piccoli passi andò verso il grigiore del nuovo giorno che stava nascendo.


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Marica Iannuzzi Veni, audi, necavi -Mi chiamo Giulio e vi do il benvenuto alla nostra mostra su Cesare. Sarò la vostra guida per questa giornata. Per qualunque domanda, interrompetemi pure. Allora cominciamo?I ragazzi della classe del professore Oturb si scambiarono degli sguardi perplessi oltre che disattenti. -Non vedo l’ora che questa giornata finisca!- si lamentò come d’abitudine Judith, mentre si passava una mano tra i capelli per accettarsi che non ci fosse nemmeno un capello fuori posto. - Ma se la visita non è nemmeno cominciata!- replicò immediatamente Mary, agitando il suo blocco di appunti. -Allora la smettiamo ragazze, per favore?- bisbigliò rumorosamente il loro professore di storia. -Siamo venuti qui per imparare qualcosa di più sul meraviglioso personaggio che è Cesare. Per questo, anche se non vi interessa, fate il piacere di ascoltare e stare in silenzio!- detto questo si inforcò gli occhiali sul naso.Ogni giorno sopporto sempre meno e la sua inutile materia!- continuò a lamentarsi Judith mentre si guardava di nascosto nel display del cellulare poiché la sua acconciatura non la convinceva. -La linea rossa traccia il percorso intrapreso di Cesare…- spiegava la guida. –Come vedete questo personaggio non ha viaggiato così tanto come i manuali di storia vogliono far credere…-Ma, Aaron, abbiamo sbagliato noi a studiare oppure è la guida che sta sbagliando? Cesare ha viaggiato moltissimo per fare tutte le conquiste che ha fatto!- chiese allarmata Mary, rivolgendosi al suo amico che adorava la storia. -Secondo me questo Giulio non ne sa proprio nulla su Cesare!- rispose furioso il compagno. Il professore Oturb era troppo distante per sentire lo scambio di battute fra i due alunni. La guida aveva liquidato in fretta il tema dei viaggi di Cesare; infatti, era subito passato nella sala successiva. -Qui ragazzi potete leggere da soli i brevi riassunti sulla vita di questo personaggio sui pannelli che ve-


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dete affissi alle pareti… Non è mia intenzione quella di spendere parole sulla biografia di Cesare, in quanto non ritengo ci siano avvenimenti che meritano di essere segnalati...Mary e Aaron si scambiarono un’occhiata allarmata. -Ma perché diavolo lavora qui quest’uomo?! Non sa un accidenti su Cesare!-Ti correggo, Aaron, quest’uomo non sa un accidente non solo su Cesare ma su tutto quello che è la Storia!- Mary andò alla ricerca del professore con lo sguardo ma non riuscì a scovarlo. Vide Judith che si ritoccava il lucidalabbra coperta dalla larghe spalle di Steve, il ragazzo più alto della classe che durante le lezioni era sua abitudine tenere gli occhiali da sole per nascondere le sue permanenti occhiaie. Accanto a loro due c’era Tom, un ragazzo che indossava un paio di occhiali con un telaio così grande che gli invadeva parte della fronte. -Ma si può sapere dove diavolo è finito il professore Oturb?- sbruffò Aaron. -Ma la volete smettere voi due?- ringhiò Rob mentre masticava un gomma da masticare come solo una mucca sa fare mentre divora il fieno. -Questa guida non è l’unica a non sapere nulla… Di sicuro ne capisce più del nostro amatissimo professore!- ribadì Rob che disprezzava chiunque e qualunque cosa. -Questo è vero ma… se siamo venuti qui è proprio perché al nostro professore piace Cesare!- proferì Mary inneggiando la penna nell’aria come se fosse un avvocato. Rob sbruffò, si voltò e si allontanò continuando a masticare a bocca aperta la sua gomma da masticare alla menta. -E finalmente qualcuno ha pensato saggiamente che era giunto il momento di fare fuori Cesare…- annunciò la guida e per la prima volta lasciò le sue labbra incurvarsi in un sorriso. -Aspettava di dire questo fin dall’inizio, non è vero?!- si avvicinò il professore Oturb aggiustandosi gli occhiali sul naso. –Sono appena andato a parlare con il direttore della mostra per esprimere la mia delusione oltre che per questa mostra anche per chi la presenta!D’improvviso anche gli alunni più numerosi si azzittirono e tutti, compresa Judith che si stava anco-


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ra frugando nella borsa alla ricerca dell’ombretto, posarono lo sguardo sul professore e la guida del museo. -Ragazzi, andate a recuperare le vostre cose, da qui ce ne andiamo immediatamente!comunicò il professore con gli occhi socchiusi dalla rabbia. -Ma Signor Oturb pazienti ancora un attimo che la mostra finisca, dopodiché discuteremo con calma.- rispose con voce ferma la guida. -Allora dove eravamo rimasti… ah sì… era il 15 marzo del 44 a.C. quando Cesare fu ucciso a pugnalate…-Forse non sono stato abbastanza chiaro, Signor Giulio Schernof? Vuole forse essere lei il prossimo ad essere “fatto fuori” come ha detto lei?- disse Oturb digrignando i denti. -Ma lei mi sta minacciando!-Certo che no! Io sto soltanto difendendo la figura di un personaggio che vive ancora oggi!Nel frattempo gli alunni si erano raggruppati attorno ai due disputanti equipaggiati delle proprie cose, pronti ad abbandonare quella mostra infernale. -Sì, finiremo in anticipo! Così non dovrò disdire il mio appuntamento con la manicure!- gioì Judith. -Però ora il professor Oturb sta esagerando!- Aaron non fece nemmeno in tempo a finire la frase che il professore era già all’uscita con la porta aperta che aspettava i suoi alunni. E in un attimo tutta la classe si ritrovò fuori dal museo. -Quest’aria ha proprio un altro odore: odora di libertà!- proclamò Rob spuntando la gomma da masticare sull’asfalto. -A domani, ragazzi!- queste furono le ultime parole del professor Oturb quando tutti furono scesi dal treno. Il giorno successivo ne parlavano tutti a scuola. L’articolo in prima pagina del giornale parlava da solo: “Le idi di Giulio: guida del museo uccisa.” -Ragazzi, la lezione è cominciata!- si innervosì il professore Oturb avvicinandosi alla lavagna. E non appena si chinò per raccogliere il gesso a terra, fu inevitabile non vedere una macchia rossastra sul risvolto dei suoi pantaloni.


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Claudio Cavadini Per Toutatis L’alba sorprese il litorale del lago di Neuchâtel avvolto in una bruma tardo autunnale che portava con sé odore di foglie morte. Dal sentiero s’intravvedevano appena, oltre le canne, le sagome delle capanne. Un urlo lacerò il silenzio del mattino e fece alzare in volo uno stormo di corvi. Un’anziana signora, visibilmente sotto choc, faticava a tenere a bada il barboncino mentre cercava di comporre il 117. Il corpo senza vita di Marie Agnès Épona fu ritrovato così, sullo spiazzo del villaggio celtico, la testa riversa su un ceppo e la gola tagliata. Sembrava la scena di un’uccisione rituale. In poco tempo giunse sul posto la prima squadra della polizia giudiziaria. Gli agenti delimitarono il luogo del ritrovamento, sbarrarono gli accessi a parco e museo e iniziarono le indagini. Alle otto e trenta Marc Gaulois fu prelevato dal suo appartamento di Hauterive e condotto al Laténium. “Cosa diavolo sta succedendo? Chi vi dà il diritto di trattarmi in questo modo?” Chiese furente agli investigatori che lo attendevano nella sala riunioni del museo. “Zitto e sieda! Qui le domande le faccio io.” Rispose un uomo basso, robusto e con un’incipiente calvizie. “ Sono l’ispettore Pittet.” Marc fu interrogato a lungo. Parlò di Marie Agnès e del loro rapporto. A quanto ne sapeva, non aveva nemici e non suscitava invidie, pur godendo di alta considerazione nell’ambiente accademico. Da tre anni lavoravano ad un progetto archeologico di rilevanza internazionale. Una ricerca che prometteva di svelare inquietanti misteri della religione celtica. Il progetto era di fatto ultimato. Due giorni prima avevano incontrato Auguste Claret,


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direttore dell’istituto finanziario sponsor della ricerca, e Lionel Mangold, funzionario dell’ufficio cantonale di archeologia. Marie Agnès scalpitava. Non vedeva l’ora di rendere pubbliche le scoperte. Da allora Marc giurava di non aver più rivisto i tre. “Cos’è successo a Marie Agnès ispettore?” Chiese Marc intuendo le ragioni di quel lungo interrogatorio. “Non mi tenga più sulle spine!” “È morta.” Rispose laconico Pittet. Un agente condusse Marc alla caffetteria e gli chiese di attendere. Il sole era ormai alto sopra il lago e le nebbie del mattino dissolte. Anche Marc voleva vederci chiaro. Il medico legale non ebbe dubbi circa la causa del decesso, ma non era in grado di determinare l’arma usata per lo sgozzamento. Le lacerazioni erano irregolari, grossolane. Marc trascorse il pomeriggio al commissariato. Lì incontrò Claret. Si erano visti in precedenza in due sole occasioni. Il direttore di banca sembrava nervoso, scosso. “Non ci posso credere.” Continuava a ripetere. Marc, convinto che si riferisse al tragico evento, annuiva. “Non ci posso credere.” Disse una volta di più Claret. “Non ho investito ottocentomila franchi per farmi sbattere in prima pagina come persona sospettata di omicidio!” Persona sospettata di omicidio. Marc si rese conto di essere pure lui sulla lista nera dell’ispettore. La rivelazione lo sconvolse. Durante l’interrogatorio gli aveva chiesto dove avesse trascorso la notte e Marc aveva risposto a casa, solo, dormendo. Di sicuro Pittet doveva aver preso la sua risposta come una mezza ammissione di colpevolezza. Alle sei Lionel Mangold uscì dalla sala interrogatori. Marc cono-


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sceva bene il vecchio burocrate. Lo trovava una persona patetica. Con gli anni si era convinto di avere una vasta competenza archeologica ma in realtà non era che un passacarte. “Che si dice Lionel?” Buttò lì Marc. “Ti ha torchiato a dovere l’ispettore!” “Per Toutatis! Non mi mollava più.” Rispose Mangold. Per Toutatis! Lionel Mangold amava abusare di quell’esclamazione rubata ad Asterix. Il riferimento al dio celtico della guerra, della fertilità e della ricchezza fece riflettere Marc. Odio, passione e denaro. Tre moventi per un omicidio, pensò. Di nemici Marie Agnès non ne aveva. Di amanti nemmeno. Su questo Marc era pronto a mettere la mano sul fuoco. Con lui era sempre stata un libro aperto. Rimaneva il denaro. Con il loro lavoro non c’era il rischio di arricchirsi, a meno di non trafugare qualche monile antico per rivenderlo a collezionisti senza scrupoli. Ma non ce la vedeva a tradire così lo scopo della propria vita. Le loro recenti scoperte, al di là del valore scientifico, non avrebbero fruttato un centesimo di più di quanto avesse già sborsato Claret. Già, Claret. Lui pensava solo all’immagine sua e della banca. Un momento... Lì per lì Marc non aveva colto appieno l’affermazione di Claret. Parlava di un investimento di ottocentomila franchi, ma in realtà per la loro ricerca ne avevano ricevuti solo seicentocinquantamila. Che fine aveva fatto il resto? Mangold?! Lui gestiva i fondi della ricerca. Doveva parlarne a Pittet. “È un movente plausibile.” Commentò l’ispettore. “Verificheremo, ma al momento abbiamo un altro problema. L’arma usata per commettere il delitto non è ancora stata ritrovata e nemmeno sappiamo cosa cercare!” Aggiunse irritato.


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“Mi è venuta un’idea.” Disse Marc prima di esporre il piano a Pittet. Il telegiornale della sera parlò diffusamente dell’omicidio. Il portavoce della polizia giudiziaria affermò che le indagini erano a una svolta: il ritrovamento dell’arma avrebbe sicuramente consegnato l’assassino alla giustizia. Le ricerche sarebbero riprese l’indomani all’alba con un grande dispiegamento di forze. Erano appostati da un paio d’ore quando si sentì un fruscio fra le canne. Poteva essere un animale. Poi la luce di una piccola torcia si accese per illuminare il terreno. Dopo alcuni minuti la luce si spense e la sagoma di un uomo si allontanò velocemente. “Ora!” ordinò l’ispettore. Gli agenti bloccarono rapidamente l’uomo in fuga. In mano stringeva una lama di selce insanguinata. Era lo strano utensile che Lionel Mangold teneva sempre in tasca, il suo feticcio. Marc se ne era ricordato. “Le ho chiesto di concedermi un mese prima di chiudere il progetto. Avrei coperto ogni traccia. Le ho offerto dei soldi. Mi ha riso in faccia.” Si giustificò Lionel. Poi lo condussero via.


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Patrizia Keiser L‘urlo della vendetta “T_i_t_i_t_i_t_ì _-_ _T_i_t_i_t_i_t_ì _– _T_i_t_i_t_i_t_ì”. La sveglia mi fece balzare sul letto! Era il mio primo giorno di lavoro alla Centrale di polizia. Al mio arrivo, il collega mi diede la notizia in modo brusco e laconico: “L’ispettore è in fin di vita. Infarto. Non si sa quando torna. Leggiti queste pratiche intanto.” Uscendo aggiunse: “Vado a casa a dormire un paio d’ore, poi rientro.” Un quarto d’ora dopo suonò il telefono. “Buongiorno sono Raymond Bessner, il direttore del Museo d’Arte. Venite subito qui, c’è un cadavere nel mio museo!” Il cadavere della donna era nella sala principale del museo, accanto al celeberrimo “U_r_l_o_” di Munch. L’opera, battuta all’asta da S_o_t_h_e_b_y_’s_ _6 mesi fa per 91 milioni di Euro, era stata acquistata da Tim Geistner, da poco insediatosi nella zona e intimo amico del direttore del museo. Il direttore, nella speranza di rilanciare l’attività, aveva supplicato l’amico di poter esporre il quadro. Il corpo era freddo come il ghiaccio ed era immerso in una pozza di sangue grande quanto uno stagno. Nessun segno di colluttazione, né armi. Solo un semplice forellino che aveva attraversato la calotta cranica da est a ovest o, meglio, da destra a sinistra, spappolando il viso e schizzando materia cerebrale ovunque. Minime tracce di combustione da scoppio. “Proiettile calibro 22 esploso a distanza ravvicinata” aggiunsi con certezza. Il medico legale constatò la morte tra le 22.30 e le 23 della sera prima. Suicidio o omicidio? Era una donna di classe. Indossava guanti, in tinta con il completo Chanel, le scarpe e la borsetta. “Laura Geistner Denn, 44 anni, cittadina tedesca, ex-modella e moglie di Tim Geistner.” Oltre ai soliti effetti personali, nella borsa c’era una foto che la ritraeva al parco abbracciata ad un


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uomo. La foto sembrava scattata dietro a una finestra chiusa, ne intuivo la cornice. Questo il verbale degli interrogatori ai potenziali indagati. Tim Geistner, marito di Laura, 72 anni Sì, ho prestato il quadro a Raymond per dare eco al museo. Ieri c’era l’inaugurazione, ed io ero l’invitato d’onore ovviamente. Corretto, Laura era la mia terza moglie. No, non sapevo che avesse un amante e non m’interessa. Mia moglie ed io non stavamo più insieme ed eravamo ai ferri corti. Ho una giovane compagna, Ella. La conobbi un anno fa e fu amore a prima vista. Chiesi il divorzio a Laura, che me lo negò, minacciando anche di suicidarsi. Sì, purtroppo a volte ci furono litigi accesi. No, è falso, non la picchiai mai, non è il mio stile. Se l’ho uccisa io? Figuriamoci, le sembro un assassino? Dov’ero tra le 22.30 e le 23? Ero all’inaugurazione della mostra fino alle 21 e poi sono rincasato nella mia villa al lago. Cosa facevo a quell’ora? Beh, facevo l’amore con la mia bellissima Ella. No, non ci sono altri testimoni, eravamo soli. Chiamate Ella. Ella Barakova, questo é il suo numero. Sì, c’era anche Laura all’inaugurazione. Con Viola. E’ corretto, era mancina, ma usava bene anche la destra. Se avrebbe potuto suicidarsi? Lo ritengo plausibile. Ella Barakova, 26 anni, cittadina ucraina, amante di T. Geistner Se io conosciuto Miss Denn? Moglie di Tim, altro non so di lei. Qualcuno visto noi al caffè insieme? Ah sì scusa, dimenticato. Lei voleva offrirmi soldi per lasciare in pace Tim. Ma io non accettato e lei minacciato me di dire autorità che io qui senza permesso. Perciò io insistito con Tim che mi sposasse. Ieri sera? Ero con amica di Ucraina fino alle 8.30. Poi accompagnato amica a casa e io andata da Tim fino circa 22.45. Poi tornata a casa mia. Sì, con me vive altra amica di Russia, può confermare. Se Tim violento? No, non capace di fare male una mosca. Filippo Quadri, 35 anni, amante di Laura, custode al museo L’ho conosciuta al museo. No, non era per i soldi, l’amavo davvero. Nel modo più assoluto, non ho dato una chiave del museo a Laura. Io giocatore d’azzardo? No. Sono andato qualche volta al Casinò, come tutti. Una diffida? No, è una calunnia, gioco


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importi bassi e spesso vinco. 200‘000 franchi di debiti? Di che lettera parla? Ah questa. Sì, ammetto, mi chiese di restituirle 100‘000 CHF entro venerdì scorso, ma non lo feci. Chi la voleva morta? Senz’altro quel porco del marito! Settimana scorsa aveva minacciato di ammazzarla se non gli avesse concesso il divorzio. No, non si sarebbe mai suicidata, lei. Ieri sera? Ero a casa a guardare la TV. Da solo. Sì, ho fatto un anno negli Alpini e ho il porto d’armi. Corretto, una Beretta calibro 38. Si trova nel mio cassetto, a casa. No, mi deve credere, non sono stato io. Viola Sartore, stilista, amica intima di Laura Sono devastata. Laura mi chiamò ieri sera verso le 22.25, era terrorizzata, disse che qualcuno la stava pedinando. Poi z_a_c_: la comunicazione è caduta. Mio Dio, avrei dovuto allertare la polizia, ma pensavo esagerasse. Depressione? No, no. No, non sapeva usare la mano destra per scrivere. Alle 20.50 circa l’ho accompagnata a casa. Alle 22.30? A casa mia, da sola. Non ho un alibi, ma ero la sua migliore amica, come può pensare che sia stata io? E’ stata la cassiera, che la ricattava con le foto. Il custode? Sì, sapevo che le doveva dei soldi, ma non credo sia stato lui. Ha interrogato l’ucraina che sta con Tim? Sì, vado a caccia. Elena Occhialini, 56 anni, cassiera al museo Non mi stupisce che l’abbiano ammazzata, era una sgualdrina che faceva gli occhi dolci a tutti. Sì, lo sapevano tutti che se la faceva con il custode. Io innamorata di lui? Assurdo. Che foto? No, non l’ho fatta io. Sì, sembra la finestra che dal museo guarda sul parco. Ricattarla? Io? Sì, in effetti sembra la mia scrittura, ma è un complotto. Ieri sera? A casa con mio marito tutta la sera. Riepilogai. Il colpo sparato a destra e l’assenza dell’arma facevano supporre un omicidio. La vittima era mancina ma sapeva usare bene anche la destra. Se si fosse suicidata, l’arma dov’era? “Ci sono!” esultai. “T_i_t_i_t_i_t_ì _-_ _T_i_t_i_t_i_t_ì _– _T_i_t_i_t_i_t_ì”.


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Balzai fuori dal letto. Era il mio primo giorno di lavoro alla Centrale di polizia.


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Stefania Nessi Noir al museo -Dormito bene? -Le catene ai polsi mi innervosiscono. - Signorina, se la slego si farà male. * * * Sono stato obbligato a scrivere questo. Le autorità francesi sostengono che stendere per iscritto ciò che è avvenuto ventidue anni fa mi sarà di grande aiuto. So per certo che l’ultima cosa che la mia mente riuscirà a partorire sarà rimorso o pentimento, come già ho detto e ripeterò all’infinito, lo rifarei cento e cento volte; eppure vedere le facce della gente sconvolgersi nel leggere la mia biografia creerà certamente in me emozioni indescrivibili. Indescrivibili. Era certa di sé. La sua sicurezza trapelava da ogni suo sguardo, da ogni suo gesto verso chiunque. Capire cosa pensasse o provasse quella donna impassibile diventò presto un’ossessione per me. Se ne stava nel suo museo d’arte contemporanea con altissimi tacchi a spillo e qualcuno dei suoi foulard di seta molto costosi, gironzolava con aria vanitosa da una parte all’altra della grande stanza colma di opere. Lei era bella, amavo come i suoi lunghi capelli neri venivano raccolti in un nastro, tutti assieme. Non volevo conoscere il suo nome, nemmeno sentire la sua voce. Desideravo come unica cosa, ogni giorno di più, vedere la sua sicurezza svanire lentamente, accartocciarsi su se stessa come un foglio di giornale che viene divorato con feroce calma dalle fiamme sfrigolanti. La mia testa era tormentata da folli e perversi ragionamenti;


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bramavo sentirla urlare disperatamente, supplicare una notte di sonno dopo infinite nottate in bianco. “ Non chiedere mai ad un folle. Non voglio la morte, bramo il tormento.” Incisi questa frase una notte sulla legnosa e umida porta principale del museo, con le lunghe unghie delle mie scheletriche mani. La lesse la mattina successiva ma subito la coprì, come se con sé non portasse timore di nulla, nemmeno dei folli, come me. Quella notte la donna dormì al museo; da come si comportava notai quanto teneva ad esso: temeva che qualcuno quella nottata entrasse, pertanto si stese su di un divanetto di pelle nello sgabuzzino sul retro e in silenzio guardava il soffitto screpolato. Non chiuse occhio, non perse colpi, quella donna, quella notte, non dormiva certamente. Scattai una fotografia, dalla finestra. Scattai una fotografia per ricordare per sempre che la sicurezza non dorme, bensì rigorosamente aspetta, aspetta che gli altri abbiano paura, viceversa attende di averne. La donna si accorse del bagliore di quell’attimo, ma restò impassibile, come quando il freddo sfiora le ossa e si rimane immobili, temendo il gelo più malvagio. La mattina dopo, nascondendo la donna diffidò di tutti coloro che entrarono al museo, chiuse vari settori della galleria poiché temeva che chicchessia fosse il folle, chiunque fosse il suo tormento, toccasse il suo museo. Non mollò certamente, quella donna. La notte successiva era nuovamente sul sofà nello sgabuzzino, con gli occhi sbarrati persi nel buio. Cominciai ad ammirare la sicurezza, poiché prima o poi sarebbe svanita, come tutto. La seconda notte cantai per la donna, cantai una dolce e paranoica litania, cantai per dimostrare quanto fossi attratto dalla sicurezza, che stava sprofondando sotto respiri affannati e sudore tra le dita delle mani. Lei non si alzava, restava immobile come un pezzo di ghiaccio, un pezzo di terrore.


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Passarono giorni e notti e la sua testa traboccava di timori, dubbi e tormentanti enigmi; rendendosene conto troppo tardi la signorina inconsciamente rovinava la sua soddisfacente vita. Il museo andava a rotoli poiché non lasciava entrare nessuno a causa della sua sicurezza scomparsa, dimenticata ovunque. Una sera la vidi correre lungo il corridoio e in pochi istanti quella donna si trovava accovacciata all’entrata principale, a scavare con le sue deboli unghie sulla porta, accanto all’incisione del folle. “tormento, folle, folle tormento.” Il museo andò fallendo, quella donna aveva dimenticato la sua sicurezza all’interno di esso. Sentiva le dilungate proteste dei visitatori della galleria, durante le grigie giornate di sempre; ma lei non apriva a nessuno, lei si era persa. Persa per sempre. Centro psichiatrico di Marsiglia. Si presume che la polizia abbia sentito le urla disperate e le suppliche di passare una notte di sonno dopo infinite nottate in bianco e l’abbiano trascinata sin lì. * * * Ora mi sento insicura, ho perso le mie certezze, ho perso la serenità. Non sono più non sono nemmeno più quella donna sicura di vivere, sono solo una mente malata sotto un grembiule uguale agli altri con un numero cucito sulla spalla, per farmi riconoscere dai medici. Sono un folle, sono pazza. So per certo che l’ultima cosa che la mia mente riuscirà a partorire sarà rimorso o pentimento, come già ho detto e ripeterò all’infinito, farei castelli in aria e lascerei vagabondare i miei sogni altre cento e cento volte; ma non posso. Noi veniamo tormentati. -Dormito -Le catene ai polsi mi - Signorina, se la slego lei si farà del male.

bene? innervosiscono.


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Roger Annen Macchine inutili “ Ma dov’è?” Post, il direttore, guardò nervosamente il suo Rolex. Da più di mezz’ora Edward Crow, la star dell’esposizione, si era allontanato dalla “Grande Salle”. Post scosse il capo. Sempre più gente si accalcava nella sala, attirata dall’attrazione principale. Al museo delle Macchine Inutili per la prima e unica volta sarebbe stata messa in funzione “Apocalypse 200”, un enorme marchingegno di dubbia utilità se non quella di attirare curiosi paganti (altro che inutile!). Crow era stato risoluto: la sua creazione doveva venir esposta e accesa una volta soltanto. Post controllò per l’ennesima volta che il cavo elettrico fosse collegato. Fra poco la macchina sarebbe entrata in funzione. Cosa facesse di preciso lo sapeva solo Crow. Post sperava che fosse qualcosa di eclatante. Non voleva deludere il pubblico. Il Museo attirava frotte di persone incuriosite dalle varie attrazioni. Le macchine inutili erano per lo più fatte con scarti di parti metalliche. In origine erano strutture informi in cui alcune parti si muovevano senza uno scopo preciso. Poi le cose si sono evolute. All’entrata della “Salle” un robot in forma umana faceva una capriola ogni volta che un ospite entrava.Alcuni bambini continuavano a fare avanti e indietro per costringere la macchina a movimenti sempre più convulsi. Attorno all’attrazione principale si trovavano altre opere d’arte come la “cornice?”, che cambiava forma ogni 15 secondi o “la


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femme”, del misogino Polet, un cubo con un’apertura nella parte superiore che si apriva a intervalli regolari emettendo ora un sospiro, ora un grido, ora un gemito di piacere. Le femministe avevano criticato aspramente la macchina, facendole pubblicità involontaria. “Purchè se ne parli “ Pensava il direttore. “Apocalypse 200” era costituita da parti metalliche saldate in modo sconnesso. Tubi e squadre d’acciaio, rotelline dentate attaccate a bulloni di tutte le dimensioni. Una scultura assurda di una bruttezza assoluta. Probabilmente qualcuno l’avrebbe acquistata per esporla nel salotto di casa. Sopra quell’ammasso metallico, un tubo da doccia si ergeva fiero. Alla sua estremità superiore un occhio ricavato da una bambola sembrava scandagliare la folla. Sul davanti si trovava uno schermo ricavato da una slot machine. Al posto della frutta si vedevano tre zeri. Post si augurò che l’ammasso di ferraglia non si limitasse a contare le persone. Un’occhiata all’orologio gli confermò che mancava poco. Post aveva saputo che Crow era gravemente ammalato. Forse un mese di vita. Pensò alla pubblicità gratuita se fosse morto proprio lì, in quel momento. Il direttore considerava Crow un buon artista, ma di quelli che non verranno ricordati. Fissò la folla vociante e i giornalisti assiepati davanti. Alta 2 metri e venti con una base quadrata di circa 3 metri di lato, la macchina sembrava possedere una doppia personalità: sia minacciosa che spiritosa. Anche l’occhio sospeso poteva sembrare carino, curioso o mostruoso. Si avvertì un ronzio e la macchina prese vita. Non era prevista alcuna presentazione.“ La macchina si presenterà da sola” aveva sostenuto Crow. Le varie parti della struttura presero a scorrere, ruotare, scivolare le une sulle altre creando forme senza senso.


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Il tubo da doccia prese a dondolarsi sinuoso mentre l’occhio scrutava l’uno o l’altro visitatore. Un “Oh” si levò dalla folla. Una musica uscì da una vecchia cassa acustica. “ Wagner” pensò Post. La macchina continuava a cambiare, creando di volta in volta nuove e affascinanti (dovette ammettere il direttore) forme. Una voce suadente uscì dall’altoparlante. Le parole erano state ottenute ritagliando parti di nastro di varie audiocassette gettate via. Di conseguenza le voci e le intonazioni erano diverse fra loro. L’effetto era inquietante. “Sono il prodotto di ciò che avete gettato via e non vi serviva più. Sono una cosa inutile. Ogni giorno tonnellate di rifiuti….” “Oh no, non una tirata ecologica, ti prego” pensò Post. “State distruggendo il vostro pianeta“ sentenziò la macchina parlante ”e voi stessi!” Ai lati della struttura in movimento spuntarono due fucili e al centro, proprio sotto l’occhio, un mitra. “Voi siete peggio che inutili!” I giornalisti e i fotografi, avvertirono per primi il pericolo e si voltarono per scappare. Furono i primi a morire quando il mitra sparò la prima raffica. La macchina prendeva la mira grazie all’occhio malefico che guizzava avanti e indietro e i fucili non sbagliavano un colpo. Il contatore-slot machine si attivò e i numeri iniziarono a scorrere rapidi:1-2-3-…. “Più muoiono giovani e meno potranno inquinare” urlò il mostro di ferro. Dopo un attimo di sbigottimento, il panico si impossessò della folla che cercò di disperdersi. Qualcuno si gettò a terra, ma finì calpestato da quanti cercavano scampo. La maggior parte corse verso l’uscita, ma la calca rallentò


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quando il simpatico robot fece lo sgambetto ai primi fuggiaschi, gettandoli a terra. Poche persone cadute bastarono a rallentare la fuga. La macchina intanto continuava la sua opera assassina. Post si trovava a terra cercando di rimanere immobile: era probabile che il mostro di ferro avesse solo dei sensori di movimento. Il contatore era già arrivato a 134. Post ebbe un’ idea. Scattò in avanti e, percorso qualche metro, afferrò il cavo che collegava la macchina alla rete elettrica e tirò con tutte le sue forze. La spina si staccò dalla parete e…. non successe nulla. La macchina era evidentemente munita di batterie. “Mi sento già più utile!” sbraitava il mostro d’acciaio. Il frastuono era assordante. Poi ,di colpo, gli spari cessarono. Il contatore segnava 199. Nella sala regnava il caos. Molti giacevano a terra in maniera scomposta in un lago di sangue.Altri correvano in giro disorientati. Molti i feriti. Le armi si puntarono su Post che le fissò a bocca aperta. “Allora? Che ne dice Sig. Direttore della mia opera?” La voce della macchina adesso era quella di Crow. L’artista si trovava a casa e gestiva tutto dal suo portatile. “Crede che sarò ricordato?” Bum.


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Emma Rita Brusa La forza della musica Il gesto preciso del direttore dà inizio al concerto: le trombe squillanti richiamano l’attenzione del pubblico - ancora intento a rumoreggiare tra bisbigli inconsistenti e bollicine di Bellavista. I musici - a sorpresa - suonano al piano superiore, affacciandosi con i loro strumenti dal balcone che dà sulla sala rotonda (trasformata per l’occasione in sala da concerto). Sembrano arcangeli annunciatori di buone nuove. Ed è così, la regale Toccata dell’Orfeo riempie lo spazio del piccolo museo, orgoglio del Mendrisiotto. Il suono vivace corre, saltella, sfiorando i profili delle statue lì a dimora, che a sentir la frizzante melodia avrebbero volentieri voglia di sgranchirsi le membra e fare qualche passo di danza. Catturata dal geniale attacco dell’opera di Monteverdi resto agganciata all’elegante entrata in scena del soprano giapponese (allieva del Conservatorio, “rivelazione” del canto barocco), che con accento perfetto, vestita di seta aranciata, intona il prologo iniziale “Dal mio permesso amato”. È la musa della musica a raccontare: “Io la Musica son/ch’ai dolci accenti/So far tranquillo ogni turbato core/
Et or di nobil ira ed or d’amore
/Poss’infiammar le più gelate menti.” Eh sì, di cuori turbati che si son fatti all’improvviso sereni, per l’intercessione delle sette umili note, ce ne sono stati e saranno in ogni generazione. E ingenui o egoisti… tutti abbiamo pensato che la tal melodia, la tal canzone, fosse stata creata appositamente e solo per il nostro benessere. Formulato questo mio pensiero, l’aria in corso dà modo alla cantante di esibirsi in un acuto, che ben sostenuto dal diaframma schizza velocissimo verso la volta del soffitto. (La cupola di vetro riuscirà a trattenere il suono?)


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- Aaaaaaaaaaa… Seguendo la traiettoria della voce che si diffonde nell’aria, tutti i presenti, per non si sa quale riflesso collettivo, alzano la testa nello stesso istante per poi – tutti – trattenere il fiato. Ma ancor prima che l’acuto si consumi, quaranta gole sgraziate tiran fuori il loro spavento, che si fa urlo sconnesso: - Ahhhhhhhhhh!!!! La musica continua, il pubblico rumoreggia: si accendano le luci, qualcuno chiami la polizia! Presto presto, un dottore… forse è ancora viva! La bella Euridice che sarebbe dovuta entrare in scena di lì a poco, se ne sta riversa sul parapetto della balconata, dove poco prima le trombe avevano scatenato l’invito all’opera. La chioma, color dell’autunno, è attirata al suolo dalla forza di gravità, mentre le braccia penzolano disarticolate, dentro un prezioso vestito di broccato. Trambusto, sconcerto:nessuno esca, nessuno si muova! L’ispettore di polizia, commissario Maspoli, venuto da Mendrisio con i rinforzi del caso (e questo e quello ovvero tutto ciò che serve, compresa la confusione), ha il suo bel daffare a raccogliere indizi, chiedere di screzi, di eventuali anomalie e gelosie. L’unica certezza che ne viene fuori, dopo una notte passata a tendere tranelli verbali a chi veniva interrogato, è che qualcuno presente alla serata abbia svolto un “lavoro pulito”. Unici segni visibili della morte sembrano essere un rivolo di sangue, tra l’orecchio e la tempia sinistra, e un grosso ematoma formatosi in quel punto. La qual cosa suggerisce al commissario – ma in questo frangente ognuno con un po’ di sale in zucca arriverebbe alla stessa conclusione - che l’assassino abbia infierito su quel punto (e come spesso accade nessun’arma del delitto è rinvenuta e nessun colpevole viene indicato). Ah, se quegli occhi sbarrati potessero rivelare il loro segreto! Ma


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ancora gli occhi non hanno videocamere installate a riprendere ciò che si vede… certo, però, il museo le avrà! E così il giorno seguente vengono analizzate tutte le immagini registrate. Al caso - si sa- piace fare di testa sua e proprio nell’angolazione in cui si presume sia stato compiuto l’affronto ad Euridice, l’occhio della videocamera sembra non essere arrivato. Per contro si vede un lembo del frusciante vestito comparire e sparire in un angolino dell’inquadratura (segno che qualcosa sta avvenendo mentre un’ombra furtiva vaga nell’ambiente). Altre immagini attestano che i suonatori di trombe scendendo in sala per continuare il loro lavoro. Sono immortalati mentre incrociano sulla scala la sfortunata cantante ora “prigioniera” nell’Ade. Nessun altro essere umano sarà visto salire né scendere! Il mistero di Euridice sarà raccontato in ogni dettaglio dai media, con ricostruzioni fantasiose. Senza traccia, solo un amante dell’arte e del proprio lavoro sarebbe stato in grado di risolvere l’enigma. Ed è così che fu scoperto l’arcano. Quando, finalmente, il custode poté riprendere il suo posto, girò per le sale salutando e accarezzando tutte le sculture. Una grande sensibilità risiedeva nel suo animo, tanto che riusciva a sentire i pensieri racchiusi dentro a quelle pietre che gli artisti avevano plasmato. Così si accorse subito che l’espressione del prediletto Orfeo, intento a suonare la lira (per commuovere la regina Proserpina), non era più la stessa! Lo sguardo sognante e armonioso di chi con la propria arte può arrivare ovunque era sparito, qualcosa di doloroso era accaduto. - Orfeo, dimmi, che ti è successo?! - Oh, gentile custode –rispose la pietra – la tragedia si rinnova… così avvenne che, quando sentii le note dell’opera a me dedicata niente mi trattenne e volli uscire dallo stato di infermo per raggiungere colei che più amo. La vidi venirmi incontro, deliziosa e sorridente… credetti che lei mi riconoscesse! Invece – ahimè - quando vide che dal freddo marmo stava uscendo un essere umano, forse per un improvviso terrore, il suo sangue


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smise di circolare. Ella scivolò nel nulla battendo la tempia sulla balaustra. Si riprese ma solo per accasciarsi inanimata e la folta capigliatura, voltandosi di poco la testa, pulì l’impronta del forte impatto. Mesto e dolente son costretto a convivere con perenne turbamento. Colpevole di averle tolto la vita, desideroso com’ero di accarezzarle la chioma…


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Federico Talarico Noir al museo Charles… Già, che cosa ci faceva Charles Foots in un campo di grano, camminando di gran fretta sull’orlo di un inquietante tramonto che tingeva di rosso le punte delle spighe mosse dal vento? Fin da piccolo, Charles viveva con la sua famiglia, tenuta in grande considerazione e rispettata da tutti, in una casa ricoperta d’edera in un agiato quartiere nei dintorni di Berlino. Ma, come spesso accade, dietro la felice e sorridente maschera da benpensanti e inquadrati borghesi, regnava un clima di paura e odio. Il padre, che ricopriva un alto rango militare, trasferiva anche in casa l’abitudine di farsi rispettare e di imporsi con la violenza, giungendo perfino a maltrattare la moglie. Quest’ultima, alle spalle del marito, educava il figlio a modo suo, sfogando su di lui le sue frustrazioni e portandolo a disprezzare il padre. Charles raggiunse l’apice dell’odio quando ancora i suoi anni si contavano sulle dita delle mani. Un giorno la madre tentò di smascherare la violenza del marito, orchestrando un suicidio che l’avrebbe incriminato, ma il suo intento non andò a buon fine. La notte successiva, l’uomo, senza scomporsi, nascose il corpo della moglie in giardino, accusando il figlio, tra un colpo di pala e l’altro, di essere pigro come il cadavere che, sotto la pioggia, veniva sotterrato con il suo segreto. L’azione fallita della madre aveva comunque lasciato il segno nel colpo di redini inferto al mostro che era diventato quello che un tempo era suo figlio.


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La mattina seguente, dopo la tempesta, il silenzio aveva preso il sopravvento nella casa rivestita di edera. Il postino, che di fretta doveva lasciare un pacco sulla soglia, fu il primo a intravvedere la purpurea chiazza che lentamente ed elegantemente strisciava sotto la fessura della porta e gocciolava lungo i gradini dell’entrata. Il pallido corpo del padrone di casa sembrava seduto sulla soglia con fare sereno e tranquillo, se non fosse stato per la pancia sventrata, da cui fuoriusciva una notevole quantità di viscere e per i piedi amputati di netto. Un coltello da cucina aveva fatto quel lavoro da macellaio, ma la mano che con rabbia aveva agito era quella di Charles. Ora era su un treno, nel mezzo di una scolaresca che scopriva il mondo dai finestrini; ma lui no, lui guardava con intensità la scatola che aveva tra le braccia, sottratta dalla prigione in cui prima viveva, assieme a tutti i soldi che il padre si era procurato sottomettendo masse d’innocenti. Fino al capolinea rimase in quella particolare posizione, imprigionato nei suoi pensieri, che ricordavano con piacere il cruento massacro dei suoi genitori: aveva iniziato a prenderci gusto. Dovette correre fuori dal treno, inseguito da un bigliettaio paonazzo, ignaro della storia di Charles. Ma la situazione cambiò la sera stessa, quando il piccolo ragazzo pedinò fino a casa il dipendente delle ferrovie che lasciò la porta aperta, incurante del pericolo che gli stava col fiato sul collo. Mentre il sole tramontava, oscurando il paese, Charles s’intrufolò nella casa della famiglia di chi stava seguendo. Entrò dalla porta retrostante la cucina, procurandosi subito un affilato e lungo temperino. Dopo aver perforato la pallida pelle del padrone di casa, neutralizzò con facilità la bella moglie e le figlie che promettevano altrettanto in futuro. Quando si assicurò che il suo respiro fosse l’unico in quella casa, che faceva compagnia agli spifferi d’aria, andò nella soffitta, a procurarsi quattro contenitori di cartone. La sua rabbia era un granello di sabbia nell’arido deserto dell’odio in cui la vita del giovane era stata risucchiata.


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Charles dormì in uno scricchiolante letto, così alto per la sua statura, che a fatica raggiunse la sommità. Sul comodino erano impilate accuratamente cinque scatole, ognuna con un’etichetta compilata da una simpatica scrittura infantile: nome, cognome e data. Questi dati, scritti nero su bianco, erano maledetti: prove le chiazze di sangue, ormai secche che, filtrando attraverso le travi del pavimento, avevano irrimediabilmente sporcato il tappeto del salotto al piano inferiore. Le spighe di grano ora non si drizzavano più dopo il passaggio dello scarponcino che teneva sicuri i piedi infantili. Charles trainava un cigolante carrello, straripante di parallelepipedi in cartone ben ordinati, al cui lato era appeso un secchiello dove era stato momentaneamente abbandonato un affilato coltello da cucina rivestito da un rosso ardente velo di sangue seccato. Lo scheletro di una sinistra cascina, costruita completamente in legno, si stagliava in lontananza, laggiù, lungo la strada sterrata che si disperdeva in mezzo agli immensi e solitari campi di grano, incastrati nella vallata delimitata da due montagne. Il ragazzo fu attirato come un magnete da quell’edificio abbandonato. Man mano che si avvicinava una sensazione di calore lo rifocillava, come se quel posto da lui fino a allora sconosciuto fosse stato da sempre il suo dolce alloggio dell’eternità. Dopo un’ora di cammino, Charles lo raggiunse. La porta era sbarrata con massicce travi di legno di noce, infatti Charles c’entrò sgretolando con un calcio il muro posteriore ormai marcito dagli anni e dalla supremazia della natura, in quei campi dimenticati da Dio. Racchiusa tra quelle quattro pareti decadenti, non c’era altro che una grande quantità di opachi contenitori di vetro vuoti, posati ordinatamente su più scaffali, che servivano a evitare la decomposizione del contenuto. La solitudine accumulata in quegli anni era rimasta lì prigioniera, e appena vide la luce


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scappò via dagli spettri di quella dimora abbandonata. S’impegnò subito a svuotare le scatole di cartone e inserire le prove della sua pazzia dentro quei recipienti. E lì in quella buia e abbandonata vallata di cui qualunque dio negherebbe l’esistenza, Charles Foots creò il suo museo. Un museo dove rifugiarsi, dove ripercorrere una vita che preferiva dimenticare, e dove sentirsi al sicuro, come nel ventre della propria madre, in una casa decadente rivestita da un’edera.


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Eugenia Haller Noir al museo Stavamo tornando a casa, io e mio fratello. Ci attendeva un lungo viaggio in automobile. Era sera ed entrambi decidemmo di fare una piccola sosta. Seguimmo un cartello portante la scritta “Museo”, nella speranza di trovarvi un buffet. La stradina si addentrava in una fitta e buia boscaglia. Una villa sinistra si frastagliava tra gli alberi. Un vecchio barbuto potava le rose a bordo del piazzale scrutandoci in tralice. Scendemmo dal veicolo ed entrammo nell’edificio. L’interno era poco illuminato e non vedemmo alcun visitatore. Dopo aver bevuto una cioccolata calda al caffè, pensammo di approfittare della nostra presenza e di dare un’occhiata alla villa. Era uno spettacolo: i muri dipinti, le porte di legno incise, le colonne raffiguranti personaggi mitologici…C’erano degli oggetti strani poggiati sui piedistalli con molle, ingranaggi, lame affilate, lenti d’ingrandimento, quadranti… Appresi dalle targhette informative che si trattava di vari strumenti di misura utilizzati dagli scienziati del Seicento. Seguivamo i corridoi lunghissimi che svoltavano di continuo e si ramificavano. Si era già fatto buio e pensai che sarebbe stato meglio ripartire, quando mi accorsi che mio fratello era sparito. Sentii che l’unica macchina parcheggiata, oltre alla mia, stava andando via ed un sentimento di smarrimento e solitudine mi invase. Avendo dimenticato il telefono in auto, decisi di aspettare il ragazzo all’uscita, ma nessun cartello ne indicava la via. Ritornai, dunque, sui miei passi, ma non intravvidi nulla che mi sembrasse familiare. All’improvviso le luci si spensero. “C’è nessuno?” gridai. Il panico, per un attimo, ebbe il sopravvento. Brancolai nel buio tastando la parete alla ricerca di una rampa di scale che, una volta raggiunta, mi avrebbe portato al pianterreno, dove sarei sgattaiolata fuori dalla finestra, nel caso in cui non avessi trovato l’uscita. Inciampai nei gradini e tenendomi stretta al corrimano, intrapresi lentamente la discesa. Percepii l’odore di chiuso e umido che mi fece rabbrividire e, per un attimo, mi parve di avvertire una nota di miasma sottile giungere


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dalle tenebre. Non volevo proseguire. Faceva freddo. Il vento fischiava aggirandosi per le ampie stanze, rimbombando sulle pareti e sugli alti soffitti. Abbandonando le scale, che proseguivano nel sottoterra, mi ritrovai all’entrata del corridoio principale e non appena l’ebbi imboccato, inciampai in qualcosa e trattenni il respiro. L’aria, i mobili, le pareti, le tappezzerie, tutto era impregnato di un fetore insopportabile, un miasma di putrido, un lezzo di morto…che ai miei piedi giaceva! Mi scostai di scattato con orrore dall’esile corpo di una giovane donna con un bellissimo viso di porcellana maculato da perle scarlatte di sangue. La riconobbi, era la cameriera da un dolcissimo sorriso, incontrata al ristorante poco prima, che ci aveva cortesemente suggerito di visitare il museo. Povera creatura! Non avrebbe potuto immaginare che il suo consiglio ci avrebbe coinvolto in un incubo ad occhi aperti, facendola sprofondare nel sonno tranquillo per l’eternità! La pena si trasformò in terrore. Nei pressi del cadavere poteva aggirarsi ancora l’assassino! Mio fratello! Dovevo trovarlo. Era possibile che stesse fuori ad aspettarmi, ignaro del pericolo! Accorsi alla finestra, scostai le tende. Sarebbe bastato scavalcarla per uscire, scappare, fuggire via da quel luogo orrendo, accendere la macchina e partire con lui. Via, via dalla villa maledetta, con i suoi leggendari mostri sulle pareti, con i suoi marchingegni diabolici provenienti dal passato, nascosti nel cuore della foresta, racchiusi nei cunicoli sotterranei della casa e che mai sarebbero dovuti essere svelati e ostentati alla coorte di turisti curiosi che nulla conoscevano degli inquietanti esperimenti a cui erano destinati… Ma le sbarre di ferro si frapponevano tra me e la salvezza! Le mie gambe cedettero, gli occhi si velarono di lacrime, non avevo più la forza di proseguire. Girovagai a lungo, barcollando nel buio, aggrappandomi disperatamente ai mobili e alle pareti. Mi rizzavo ad ogni sussulto proveniente dall’oscurità e mi accucciavo in un angolo cercando di soffocare i miei languidi guaiti per rendere la mia presenza impercettibile. Temevo che i miei passi risuonassero per le stanze e strisciavo pian piano. Addirittura il mio respiro sembrava volesse tradirmi, richiamando su di me le attenzioni dell’assassino. La vista degli occhi spalancati, vi-


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trei, vuoti su quel viso tanto gracile non abbandonava la mia mente ed all’improvviso un’altra visione si frappose: dei piccoli occhietti scrutanti di sottecchi con malizia; l’ometto canuto e losco, con le cesoie, che recideva spietatamente gli steli sottili di rose e gettava a terra le loro fragili testoline, ormai sfiorite. Era ancora nei paraggi? Perché mai avrebbe voluto troncare la vita di una creatura tanto adorabile? Cercava forse di esaudire la brama alludente al passato, di trovare l’eterna giovinezza attraverso il sangue dei fanciulli innocenti? E dove era finito mio fratello? Avevo paura. Tanta paura. Per me, sì, ma soprattutto per lui… L’avevo portato a fare campeggio, mi ero promessa di occuparmi di lui, di riportarlo a casa, sano e salvo… e ora l’avevo perduto! Ci trovavamo rinchiusi soli e senza un telefono in questo museo isolato nel bosco che improvvisamente era divenuto una scena del crimine! Immersa nei miei pensieri, non mi accorsi del suono delle sirene. Vidi tre poliziotti accorrere verso di me. Sorrisi con sollievo e protesi le mani sporche di sangue. Un paio di manette cinse i miei esili polsi. Feci in tempo a girarmi e a intravvedere la figura di un ragazzino sui dodici anni sbucare dalle tende. Mi si strinse il cuore, lo riconobbi. Teneva nella mano tramante il mio telefono e mi fissava con terrore. All’improvviso tutto divenne chiaro. Chiusi gli occhi e con sgomento mi vidi trascinare la ragazza sanguinante lungo il corridoio e gettare a terra le sporche cesoie.


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Giovanni Bruno
 Delitto all’ombra della Mole Erano le quattro del pomeriggio di una giornata grigia, vuota, pigra. Nessun cliente, niente lavoro, niente voglia. Dalla finestra del mio ufficio vedevo la lunga fila di visitatori davanti al Museo egizio. Quando stavo per prendere l’impermeabile e il cappello, il telefono squillò. Poteva essere l’ormai insperato raggio di sole della mia giornataccia. Staccai la cornetta dopo il secondo squillo. Il cliente buono suona sempre due volte. “Toro Investigazioni”, risposi. Esitazione. Poi voce di donna sulla quarantina, tono educato e corretto, un po’ ansiosa ma controllata. Disse di avere bisogno d’aiuto e chiese se potevamo incontrarci. Volli sapere prima il suo nome e di cosa si trattasse. No, non voleva dirmelo al telefono. Che venisse pure qui, le dissi, l’avrei aspettata. No, Lady Mistero non voleva venire qui, chiese se potevamo vederci da un’altra parte. Dissi che normalmente ricevevo qui i miei clienti ma che se insisteva sarei venuto dove voleva lei. Mi chiese se andava bene alle sei al Museo del cinema. Risposi di sì. Ma come l’avrei riconosciuta? Si sarebbe fatta riconoscere lei. Non era certo la prima volta che ricevevo una telefonata del genere, ma qualcosa nella voce di Lady Rebus mi inquietava. Molto cauta, sicuramente spaventata. E diceva di aver bisogno d’aiuto. Decisamente facevo per lei. Poco prima delle sei arrivai al Museo del cinema, nella Mole Antonelliana. La semibuia sala principale era piena di poltrone a sdraio rosse rivolte verso due schermi giganti con un losco personaggio con una “M” sbilenca scritta sulla schiena. Al centro della sala un ascensore di vetro stava salendo pieno di persone. Alzai lo sguardo verso l’altissimo soffitto della sala ed ebbi un leggero senso di smarrimento, di vertigine. Lungo le pareti si inerpicava una larga rampa a chiocciola che portava ai singoli piani. La infilai ed entrai al primo piano. Cominciai a


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percorrere un corridoio sulle cui pareti erano affissi manifesti di film in bianco e nero. Ambientazioni con uomini duri e donne intriganti, aria di crimine, spietatezza, ferocia, asfalto bagnato, luci, ombre. Con la coda dell’occhio mi accorsi che qualcuno mi stava fissando alla mia sinistra. Mi girai e riuscii appena a intravedere una figura femminile che sgusciava rapida dietro l’angolo del corridoio. Bionda, capelli lunghi, snella, forse Lady Sfinge. Ma perché scappava? Ovvio, voleva che la seguissi. Dietro l’angolo per poco non andai a sbattere contro un gruppo di persone che guardava un film in cui un investigatore privato con il nome “Quinlan” scritto su una targhetta poggiata sulla scrivania parlava al telefono nel suo ufficio, avvolto dal fumo della sigaretta pendente all’angolo della bocca. Improvvisamente sentii uno sparo e dietro il prossimo angolo del corridoio mi trovai davanti a uno schermo sul quale un uomo con l’impermeabile dal bavero alzato e il borsalino sulle ventitré stava infilando in tasca una pistola dopo aver evidentemente sparato a un altro ora sdraiato immobile per terra e che urlava a stento: “Questa la pagherai, Marlowe!”. Miss Aguzzate La Vista non era qui. Proseguii sul corridoio e raggiunsi un assembramento davanti a un simulatore di caduta libera al centro di una nicchia sulla cui parete circolare erano montati alcuni schermi che mostravano le varie fasi della caduta di una donna bionda da un campanile mentre un uomo con gli occhi sbarrati guardava in basso. Nessuna traccia di Lady Sciarada. Andando avanti scorsi un grande schermo dove un carcerato dall’aria contrita con il nome “Spade” cucito sulla tuta parlava con una donna elegante attraverso il vetro di un parlatorio. Miss Sudoku non si vedeva. Tornai sulla rampa. E sul lato opposto la vidi: Miss Enigma saliva veloce, gli occhi rivolti verso di me. Cominciai a salire di un piano, due, tre. Mi voltai e guardai in basso. Le sdraio presero a muoversi, avvicinarsi, sovrapporsi, intrecciarsi, intersecarsi, come sfavillanti stelle di un firmamento a soqquadro. Afferrai il corrimano, accasciandomi con gli


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occhi chiusi. Quando li riaprii vidi che mi trovavo a due passi dall’entrata del corridoio del quarto piano. Entrai in un vestibolo che portava a una grande sala buia con uno schermo gigante dal quale un individuo sfregiato stava puntando la pistola verso gli spettatori. L’inquadratura si strinse sulla canna fino a mostrarne la sola imboccatura circolare e si sentì partire lo sparo, forte e penetrante. Poi un grido femminile e dopo un momento la luce si accese e i presenti si accalcarono intorno a una persona sdraiata per terra. Mi feci largo tra gli astanti e mi trovai inginocchiato sopra Miss Mah-Jongg che premeva la mano sull’addome macchiato di rosso. Sorreggendole la testa la guardavo intensamente negli occhi mentre mi sussurrava che era troppo tardi, il falco aveva preso il volo. Poi chiuse gli occhi e piegò la testa di lato, per l’ultima volta. Feci girare lo sguardo sulla folla che ci circondava e di colpo mi fermai su una spilla a forma di Croce di Malta fissata sul bavero del mantello di un tipo che indietreggiò subito e sparì dalla mia vista. Mi alzai di scatto e lo seguii, travolgendo alcuni spettatori che mi ostacolavano il passaggio. Lo vidi correre in giù sulla rampa e lo rincorsi, incurante delle vertigini, ma lo persi d’occhio. Ad un tratto si sentì uno sparo, un urlo, e vidi il mio uomo precipitare nella sala principale del Museo. Sui due schermi giganti, Rigby Reardon era alla ricerca di un cadavere scomparso. Guardai giù, ma non riuscii a vedere il corpo sfracellato. E mi resi conto che nessuno guardava in basso, nessuno si preoccupava. Mi tornarono le vertigini e caddi come corpo morto cade. Mi svegliai alle nove di sera sulla sedia del mio ufficio, i piedi sulla scrivania, il cappello abbassato sugli occhi. Già: un grande sonno e un lungo addio. Lasciai l’ufficio, i falchi notturni di Hopper mi aspettavano al bar.


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Antonella Bellopede Il medaglione “Vi è mai capitato di vivere un episodio particolarmente singolare, del quale avete persino timore di rivelare l’esistenza perché tutti potrebbero pensare che la pazzia si sia impadronita di voi? Una sensazione mista di timore e di eccitazione? Ce l’hai lì, sulla punta della lingua, vorresti gridare al mondo intero cosa stai vivendo, ma poi ti freni? Be’, a me è successo ed ora, che sono molto in là con gli anni, lo posso rivelare poiché non vi è più motivo di tenerlo tutto per me e poi, per dirla tutta, ormai non mi infastidiscono le critiche e certi sguardi ironici della gente. Sono trascorsi molti decenni da quella situazione, ma il ricordo di quella straordinaria esperienza vissuta da ragazzina è sempre vivo e lucido. La mia è stata un’infanzia felice, con mamma insegnante di storia e papà custode del museo archeologico della città dove abitavamo. Sono cresciuta con una grande passione per la storia e per tutto ciò che era vissuto prima di me; mi affascinava conoscere i popoli dell’antichità, le loro abitudini e i loro costumi. E fu proprio grazie a questo mio amore e curiosità che vissi il momento particolare che ora vado a raccontarvi. Il pomeriggio, dopo la scuola, ero solita andare a trovare il mio adorato papà presso il museo dove lavorava. Facevamo merenda insieme, pane e cioccolato, nel suo stanzino, mentendo spudoratamente a mia madre che pensava, illudendosi, che mangiassi cibo più salutare. Conoscevo tutte le persone che lavoravano al museo per cui po-


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tevo tranquillamente visitare le varie sale e ascoltare anche le guide che si avvicendavano con i numerosi visitatori. Un pomeriggio però accadde qualcosa. Mi trovavo nella sala delle anfore e le passavo in rassegna ad una ad una, osservandole accuratamente, quando udii un suono, lontano, come un piagnucolio. Stetti ferma, immobile, senza quasi respirare per tentare di capire da dove provenisse quel singhiozzo. Uscii dalla sala in cui mi trovavo e seguii il lamento che sentivo sempre più vicino. Ciò che era strano è che nessun altro, eccetto me, sentisse quel gemito; tutti erano intenti a cibarsi dei tesori straordinari che offriva il museo. Continuai a seguire quel suono che rimbombava nei corridoi e che sembrava rivolto solo a me. Giunsi nella sala del sarcofago di un faraone del quale non ricordo più il nome, mi avvicinai in punta di piedi e un po’ sospettosa alla bara - in fondo ero ancora una bambina - e fu allora che la vidi: una giovane donna con i capelli neri, una pelle bianchissima e delicata. Era vestita con una toga bianca impreziosita da ricami d’oro. “Perché piangi?” le chiesi più incuriosita che timorosa. Si girò verso di me, delicatamente, scostò i capelli che le ricadevano sul viso bagnato dalle lacrime: “Puoi vedermi?” domandò. “Sì che ti vedo, tu chi sei?” “Il mio nome è Ersilia e tu come ti chiami piccola?” “Io sono Angelica e ho dieci anni”. Incuriosita, le rimasi davanti, in piedi, aspettando che fosse lei a parlare, che mi spiegasse chi fosse, da dove arrivasse, per quale motivo era così triste. Perché nessuno la vedeva o la sentiva? Capivo bene che non poteva essere lì, non era normale, dato


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che era morta. Sussurrò il mio nome delicatamente e mi sorrise. Poi mi chiese: “Sai cosa significa Ersilia? Rugiada”. Dopodiché cominciò a raccontarmi la sua storia. In vita Ersilia era stata una sacerdotessa etrusca che svolgeva riti propiziatori e formule magiche per ingraziarsi il favore degli Dei. Fu una donna spietata che non disdegnò dei sacrifici umani. E forse, proprio per questa sua crudeltà, i suoi Dei la punirono: il suo trapasso fu piuttosto violento, e pareggiava in parte le inutili agonie che destinava a poveri innocenti. Per infonderle maggiore sofferenza e tormento, gli Dei che lei aveva adorato in vita, le nascosero l’unica cosa che potesse far trovare pace alla sua anima, o quantomeno, alleviare il suo strazio, condannandola a vagare alla sua disperata ricerca. “Ma cos’è che hai perso?” le chiesi interessata. “Un medaglione” sospirò “un medaglione in bronzo con raffigurato un serpente”. Disse che era un dono preziosissimo, da custodire con grande cura, regalatole da un’anziana sacerdotessa su espresso volere degli Dei. Si mormorava persino che fossero stati gli stessi Dei a coniare un simile prezioso e solo chi lo avrebbe portato con virtù e rispetto in vita avrebbe trovato lodi dopo la sua morte. Ma se la persona si macchiava di particolare crudeltà, sarebbe stata condannata alla dannazione eterna e solo l’inestimabile regalo l’avrebbe salvata. “Vieni, ti aiuto io a cercare il medaglione” le proposi, sorridendole e porgendole la mia manina.


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Lei si alzò e mi abbracciò, dopodiché ci incamminammo insieme nella sala accanto. Non mi era però ancora chiaro perché la vedessi e lei mi spiegò, in modo molto semplice, che i bambini sono esseri puri, sanno in che direzione guardare perché sono guidati dal loro impulso naturale. Quando si comincia a crescere, ahimè, si perde questa innocenza. Da quel momento iniziò per me una nuova avventura. Dovetti anche stare ben attenta a nascondere quella situazione, piuttosto singolare, ai miei genitori che al minimo sentore, mi avrebbero limitato l’accesso al museo. Cercammo ovunque e a lungo il medaglione. Ricordo che verificai minuziosamente ogni oggetto che mi capitasse a tiro, azzardandomi persino a rigirare cimeli che alcuni cartelli vietavano di toccare. Ci misi anima e corpo per aiutare Ersilia, volevo che finalmente trovasse pace e sollievo. Poi, all’improvviso, un pomeriggio non vidi più la sacerdotessa. Ersilia era andata via. Forse aveva trovato ciò che cercava o semplicemente io, ormai, ero diventata grande.


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Laura Kaempf A passo di danza “Ciao, che sorpresa!” Ettore la raggiunse con uno slancio d’entusiasmo sfociato in tre schioccanti baci sulle guance. Alba non riuscì neppure a sbattere le palpebre che Ettore già parlava a ruota libera della mostra; di quanto era pazzesca la scultrice, della fortuna di avere amicizie influenti, delle generose offerte che era riuscito a ottenere durante una magnifica cena e ancora della sorpresa di rivederla in quella fantastica circostanza dopo così tanto tempo. “Ma dai? sei diventata una maestrina, beh sì, alla fine perché no? dopo esserti fatta le ossa con me!” Ettore finì la conversazione con una fragorosa risata a testa all’indietro, avrebbe voluto chiederle di nuovo il suo nome, ma esitò. Si convinse che gli sarebbe venuto in mente prima o poi. Alba frastornata non riuscì nemmeno a sorridere. Rimase ferma a fissare con i suoi occhietti tondi il volantino che teneva tra le mani. Ettore non concepì come le era potuto sfuggire: Ettore Rezzonico; scritto lì, non a caratteri cubitali, certo, ma comunque abbastanza grandi da essere letti senza sforzo. Forse rapita dall’entusiasmo di conoscere Akima Kaori non vide il nome, che per anni, l’aveva scossa come in un dipinto di Kokoschka. Alba si recò altre volte al museo, numerose volte. Accodata a una classe rumorosa oppure in serata, da sola. Salutava Ettore con un semplice cenno di mano. Le prime volte, lui la raggiungeva e le raccontava qualche aneddoto della sua vita, della vita dell’artista, della mostra, della meteo. Altre volte non la vedeva. Il fatto di non ricordare il suo nome lo metteva un po’ a disagio. Chiederlo ora, sarebbe stato imbarazzante. Forse l’avrebbe scoperto, ma del resto, chi se ne frega, mica poteva ricordarseli tutti! Inoltre per lei, non ne valeva proprio la pena.


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Alba aveva preso l’abitudine di passeggiare sul lungolago fino al museo. Aspettava su di una panchina l’ora in cui era solito lasciare l’edificio per seguirlo con gli occhi lungo la passeggiata. Ettore celava sempre meno il fastidio di doverla salutare. Anzi, del suo nome non gli importava più un accidente. Alba sapeva che mancavano poche settimane alla chiusura definitiva della mostra, era ora di agire, di fare il colpo! Tutto era pronto, studiato nei minimi dettagli. Provò e riprovò ogni mossa, come una danza, che finalmente andò in scena. Il museo era pieno di ragazzini petulanti. Ettore, appena la vide, si rifugiò nel suo ufficio chiudendo la porta. Una piccola incertezza; poi un lungo sospiro a occhi chiusi: un, deux, trois et… Alba piroettò tra le sculture di Akima Kaori, ne prese una tra le mani veloci e la sostituì con una copia souvenir. A piccoli passetti in punta di piedi, tenendo la statua in grembo, si diresse verso il bagno delle signore, aprì la porta e vi ci si infilò velocemente. Si sfilò lo zainetto dalle spalle spioventi e lo aprì, ne estrasse un fagotto ceruleo e sistemò la scultura al sul fondo. Si legò stretti i lunghi capelli grigi e crespi in una coda di cavallo bassa sulla nuca, si calcò il baschetto blu con lo stemma a forma di stella a sei punte sulla fronte. Si annodò intorno al collo un foulard a righe: azzurre, blu e bianche. Si sistemò il colletto della camicia bianca e stiracchiò le maniche del tailleur color notte. Verificò che la spilla con i nomi; suo e della ditta di sicurezza, fosse ben in vista sul taschino della giacca. Si avvicinò alla porta del bagno; sentì lo scalpitare del museo che si accorgeva del furto. Controllò il suo respiro ed uscì. Senza esitazioni, tenendo la testa alta, sempre puntata verso la grossa uscita a vetri, camminò stringendo in una mano lo zainetto con la refurtiva e un telefono nell’altra. Raggiunse la vetrata e picchiettò con le nocche sul vetro spesso. Un collega si avvicinò e le aprì. Lei si porto il natel all’orecchio e annuì vistosamente con la testa. Non si fermò, proseguì fino alla strada, poi arrivò al semaforo. Continuò a salire mentre numerose macchine della polizia sfrecciavano contro mano a sirene spiegate. Sempre con il cellulare all’orecchio prese un bus e scomparve nel fluido traffico luganese del tardo mattino.


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Ettore non riusciva a togliere la mano dalla bocca, la polizia continuava a fargli domande che lui non riusciva nemmeno a sentire. Gli sembrava di impazzire come quando si cerca di ricordare un nome e… il nome! La professoressa! Dove era finita? L’aveva derubato davanti ai suoi occhi, che fetente! Già, ma come diavolo si chiama? Ettore prese un foglio e una matita, disegnò il ritratto della donna; tracciò la linea scura delle sopraciglia che si ricongiungeva all’altezza del naso, la collegò alle basette incorniciandole tutto il viso. Le labbra erano sottili e il piccolo naso insignificante. Consegnò il disegno alle autorità e spiegò loro che era un insegnante che aveva frequentato con lui l’ateneo di Belle Arti di Brera, di cui, purtroppo, non ricordava più il nome. “Signor Rezzonico, come le ho già detto, nessuna insegnante, supplente, bidella del canton Ticino corrisponde al suo identikit, forse allo zoo di Magliaso… Scherzi a parte, non ci sono riscontri, nessuno a mai visto questa donna. Non avere nessun amico in comune...” disse l’ispettore. La fronte di Ettore si bagnò di piccole perle che luccicavano alla luce del neon. “A proposito,” continuò l’ispettore, “lo sa cosa mi viene in mente? Furto con destrezza, sospettata donna del ritratto (ha un ché di Bohémien, non trova?) Beh a me sembra che tutta questa roba faccia rima con frode assicurativa…” Ettore trasalì come morso da un serpente. Pensò alla prima visita della vecchia signora, fino a che punto si sarebbe spinta quella donna per avere la sua vendetta?


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Amaia Bermudez Noir al museo Stavo ammirando quelle spade del passato e cercavo di immaginare la loro storia. Il tempo mi scivolava fra le mani quando cercavo di scoprire i segreti del passato in quelle fatture medievali. Amavo perdermi in quel vecchio castello dove venivano custodita la storia del nostro popolo in ere antiche: il museo medievale. Era sera e presto avrebbero chiuso al pubblico, mi apprestavo a finire il giro scendendo le ultime due rampe di scale che portava all’entrata quando un vuoto attirò la mia attenzione. Mancava una delle spade bastarde della collezione, una bellissima arma con gemme incastonate in esse. Il cavaliere che la portava restava ignoto nonostante le ricerche, la ricordavo bene perché aveva sempre attirato la mia curiosità. Nelle casse risuonò la voce dell’addetta che avvertiva il pubblico di recarsi all’uscita. Scrollai le spalle immaginando che l’avessero portata via per manutenzione e mi recai all’uscita… L’addetta mi saluto con un cenno della testa, il mio silenzio mi rendeva un’ospite ignoto in quel luogo conosciuto. Fui l’ultima ad uscire e le porte si chiusero dietro di me… attraversai con calma i giardini che circondavano la costruzione. Sentii un rumore fra le foglie, il mio cuore iniziò ad accelerare frenetico e l’adrenalina elettrificava il mio corpo. Bizzarri giochi d’ombre confondono l’animo umano nella notte ed i corvi del parco mi guardavano con accondiscendenza. Accelerai il passo messa all’erta dai miei sensi e dalla continua influenza di notizie tragiche che affliggeva il mondo presente. Controllavo continuamente la mia ombra per vedere che fosse sola in quella notte di ottobre. Non volevo girarmi, non volevo mostrarmi nervosa…Non mancava molto alla fermata della


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metro che mi avrebbe reso più anonima fra la folla... Mi svegliai di colpo ricordando sogni di battaglie cavalleresche probabilmente donati dalla soggezione del giorno precedente. Decisi di tornare al museo, dovevo colmare i miei dubbi. Mi vestii velocemente ancora frastornata dai sogni e del sonno. Solo tornando indietro per prendere il mio portamonete notai un riflesso sulla finestra e la vidi: la spada bastarda che era sparita.. Era sulla mia finestra! Il respiro diventò affannoso mentre mi avvicinavo ad essa. Qualcuno era stato in casa mia, qualcuno mi aveva incastrato, che senso aveva? Chi? Perché io?! Di fianco all’arma c’era un messaggio “ Il padrone della mia lama non è mai stato svelato perché la sua missione non ha completato”. Ma che cavolo voleva dire?! Presi il portamonete ed uscii di corsa. Non mi fermai a salutare il vecchio custode e neanche i passanti che conoscevo, il freddo del mattino punzecchiava la mia pelle ricordandomi che ero sveglia. Giunta dinanzi alla grande porta di legno del museo rallentai, cercando di riprendere fiato e vedendo dalle nuvolette di vapore che emettevo che stavo fallendo, ora i nervi e non lo sforzo mi causavano un respiro aritmico. Presi un bel respiro, mi sistemai i capelli ed entrai. L’addetta era lì, tranquilla e serena, mi salutò con il solito cenno non chiedendomi alcun documento: sapevano che avevo l’abbonamento annuale. Il mio corpo fremeva per arrivare alla verità quindi trattenei i miei piedi dal correre frenetici lungo il percorso imposto del museo. Mi sembrava che ogni cosa mi guardasse, che ogni arma fosse una minaccia… e una voce dentro di me urlava: “È TUA!” Sempre più alta, decisa e frequente quella vocina misteriosa colpiva la mia sanità mentale. Giunsi dinanzi alla parete dove risiedeva la spada…non c’era più nulla. Guardai la stanza con gli occhi che ballavano folli in quelli oggetti inanimati. Era tutto come lo ricordavo, ogni oggetto era al suo posto ed un fine strato di polvere ricopriva


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ogni cosa provando che niente era stato spostato. Scesi di nuovo, confusa più che mai nella mia giovane vita. Chiesi informazioni all’addetta e mi disse che non c’era mai stata una spada bastarda in quella stanza e mi chiese se stavo bene, con un sorriso poco convinto le dissi di sì. Uscii di nuovo nel freddo del mattino e cercai il mio telefono portatile e gli auricolari, avevo bisogno di liberare la mia mente con un po’ di musica. Quando tirai del filo degli auricolari qualcosa cadde sull’asfalto: un pezzo di pergamena, lo aprii e lessi: “Ê il tuo destino.


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