Giugno 2013
Liz e le altre / Appuntii su Warhol / Michelangelo Antonioni / LA fine dell'uomo / Il pollo di Newton / L'incommestibile
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Liz, Marilyn e le altre
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Appunti su Andy Warhol
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Michelangelo e i disagi umani
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Il maggio trentino e i disagi dell'uomo
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Il pollo di Newton - Cibo 端ber alles
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L'incommestibile Appunti su alcuni versi del De Marinis
Liz, Marilyn di Anna Baldo
Contrasto, sovvertimento dell’ordine precostituito, creazione di nuovi canoni e provocazione. Questo, ed altro, è la pop art. E allora, quale miglior controcanto per un artista “stracittadino” come Andy Warhol, icona della pop art, espressione metropolitana e contemporanea, se non una mostra nel cuore agricolo della provincia vicentina, quella dove “non accade mai niente di nuovo”? A Lonigo, località conosciuta per l’antichissima Fiera cavalli, rivive un angolo di America degli anni ’60 e ’70 (e’80), fatta di volti iconici come Marilyn e Liz Taylor, Mick Hagger e Michael Jackson, interpretati nelle stampe a colori fluo, accanto alle forse ancor più celebri lattine della zuppa Campbell. «Questa è una mostra sulla musica». Mi accoglie così Matteo Vanzan, curatore di “Andy Warhol (to) change”, rinsaldando quel legame con la provocazione che è quasi un atto dovuto, affrontando un artista così. Tra le oltre trenta opere in mostra a Palazzo Pisani (fino al 30 giugno) ci sono sì i ritratti, quelli con cui Warhol faceva cassetta, per intenderci, e che tutti conosciamo. Ma ci sono anche le copertine dell'album d'esordio “The Velvet Underground & Nico”, e di “Sticky Fingers” dei Rolling Stones, c’è Aretha Franklin, la copertina di Time dedicata a Michael Jackson e altro ancora. Sono tutti originali, provenienti da collezioni private e grandi musei, Tate Gallery di Londra, collezione Leo Castelli di New York, Institute of Contemporary Art di Boston – Massachussets e collezione Rosini-Gutman (una delle più importanti al mondo). Il mito americano prende vita nelle sale del cinquecentesco palazzo leoniceno, in
e le altre un percorso attraverso immagini che ci risuonano familiari, proprio perché sono entrate nell’immaginario collettivo e nei canoni estetici moderni, e per questo ci appartengono. Familiari ma non per questo meno magnetiche, come le enigmatiche Marilyn e Liz Taylor, o le trasgressive espressioni di Mick Jagger, nella serie di 10 piccoli ritratti, quasi una variazione (in senso musicale) sul tema. L’arte parla di ciò che è il mondo, l’uomo del suo tempo. Rappresenta, sempre, il cambiamento della società. Ecco allora che l’artista americano consacra star e oggetti del consumo quotidiano, facendone arte, si fa lui stesso macchina riversando l’atto creativo sulla produzione serigrafica, rivoluziona il rapporto artista-artigiano rendendo non mediata la produzione delle opere, sovverte il concetto di originale e di copia, come antitesi, poiché nelle sue serigrafie ogni copia è anche un originale. Matteo Vanzan, con un progetto triennale dedicato all’arte contemporanea, che ci accompagnerà fino al 2015, sceglie di portare a Lonigo i “grandi” nomi, quelli noti che possono invogliare un pubblico giovane, curioso, seppur non specialista e, così facendo, offre occasioni davvero inedite di avvicinare opere e artisti affascinanti. Mostra preziosa ed emozionante, “(to) Change” rende la grande arte un po’ più vicina, quasi domestica, proprio per la scelta di una location che solo a noi, dimenticando quanto gli scenari della provincia italiana siano amati in tutto il mondo, sembra parte del quotidiano.
Appunti su Andy Warhol di Alberto Fabris
Pomeriggio di una incipiente estate, tra i tavolini in legno di un parco pubblico alcuni bambini giocano rincorrendosi, uno di lo loro indossa una maglietta bianca che attira subito la mia attenzione: dei barattoli bianchi e rossi, chiaramente ispirati ai celebri Campbell's wharolinani, si stagliano netti. Dunque Warhol ha vinto, la sua non-arte il suo "sono una macchina, sono niente", sono divenuti il manifesto programmatico che articola la percezione di ciò che per l'uomo contemporaneo è arte: tutto. E se Jean Baudrillard può sospirare sollevato che "Warhol ci ha liberati dall'estetica e dall'arte..." noi sospiriamo sollevati con lui. Ed è così, sollevati, che ci rechiamo nelle sale che ospitano i suoi lavori, accorriamo in nome dell'arte in luoghi deputati ad ospitare "arte" per osservare il lavoro del Grande Manipolatore, il prestigiatore che ha fatto scomparire l'arte moltiplicandola, spingendo l'idea di estetica fino al suo annullamento. E ne siamo consolati, se un Tiziano o un Caravaggio ci intimoriscono e ci schiacciano, Mick Jagger ritoccato e riprodotto all'infinito ci consola e ci parla, non fatichiamo ad immaginario appeso in cucina tra le foto degli amici ed i post-it colorati.
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Dunque l'incessante eco della non-arte di Andy Warhol ha attraversato i decenni e ancora non cessa di seminare rimandi ed echi; un programma preinstallato nel computer riproduce la nostra immagine in una serie di "serigrafie" digitali wharoliane, foto ritoccate con i colori "alla wharol" si trovano facilmente sfogliando riviste, soggetti banali e quotidiani appaiono stampati in magliette e oggetti. E se "il nostro tempo preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà..." (Feuerbach) in Warhol l'immagine "è" la cosa, la copia "è" l'originale in un vorticoso scambio di senso. Le icone del cinema e della musica, i potenti e i ricercati dall'FBI, i barattoli di conserva e i fiori banali, tutto è, nelle sue mani, uno spettacolo drammaturgico "serigrafato su un fondo di indifferenza radicale" (ancora Baudrillard), e lo scenario in cui agisce Warhol, il modello capitalistico e la sua manifestazione fenomenologica più eclatante, la società dello spettacolo, sono il luogo dove, osserva Guy Debord, "la merce contempla se stessa in un mondo che essa ha creato".
La cittĂ di Ferrara ha dedicato a Michelangelo Antonioni un'articolata mostra che ha ripercorso l'opera del regista accostandole ad oggetti, documenti, lettere e opere di artisti che lo hanno ispirato come Rothko, Pollock De Chirico e Morandi. Ne approfittiamo per una riflessione sulla sua poetica della luce e del silenzio.
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Michelangelo e i disagi umani di Federico Tosato
«Un regista che lavori con sincerità è, prima di essere un regista, un uomo, perciò, se è sincero, mette tutto se stesso in quel film e quindi la propria morale, le proprie opinioni. Credo che non si debba partire da idee preconcette, da tesi, perché questo meccanizza tutto, raffredda tutto, ma sia invece necessario seguire la propria storia, i propri personaggi, che sono quello che sono ed esprimere così una certa morale». Questo era Michelangelo Antonioni, ferrarese, classe 1912, laureato in economia e commercio. Le righe appena riportate tratteggiano il suo essere uomo, sceneggiatore, regista, letterato, pittore. Ha lavorato tanto: dal ’43, firmando il primo documentario (Gente del Po, finito di montare nel ’47), fino al 2004, quando gira Il filo pericoloso delle cose, un episodio di Eros. Colpito anni prima da un ictus che quasi non lo fa più parlare e in parte lo paralizza, Antonioni muore il penultimo giorno di luglio del 2007, poche ore dopo Ingmar Bergman. Nella metà precisa del ’900 (è appunto il ’50) segna lo snodo di tendenza della cinematografia italiana, quando il Neorealismo sta ormai esaurendo se stesso, esordendo nel lungometraggio con Cronaca di un amore, lavoro che mostra una tecnica stilistica allora poco conosciuta e ancor meno contemplata: il piano-sequenza. Le musiche sono di Giovanni Fusco, altro immenso
professionista, pure lui alle prese col primo film lungo. Da subito il ferrarese si insinua nella crisi interiore del singolo e si addentra nelle complicate e oscure dinamiche che spesso regolano i rapporti e i comportamenti umani ed è questo l’orientamento che alimenta il suo sguardo anche negli anni a venire, ad esempio con I vinti (’52) o, meglio ancora, con Il grido (’56 - ’57), sino ad approdare alla cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità”, comprendente L’avventura (’59), La notte (’60) e L’eclisse (’62). Dilatazione, lentezza, psicologie e comunicazioni rarefatte, vuoto, sfaldamento dei rapporti, noia, dispersione, nevrosi, crisi amorosa come sintomo esistenziale e sociale, vuoto e logorio, sono gli elementi su cui si puntellano appunto i lavori della triade, fatti, per dirla con le parole di Marineo, di «…esistenze perdute nella quotidianità»; le figure borghesi, appunto perché in crisi, agiscono in queste pellicole mostrandosi ai nostri occhi annoiate e statiche. Giunti ormai nei Sessanta, il cinema antonioniano continua a percorrere la medesima strada tracciata, nonostante il passaggio dal bianco e nero al colore, anzi, proprio questo viene sfruttato stilisticamente e tematicamente. In Deserto rosso (’64), ad esempio, il regista lo usa in maniera per nulla naturalistica al fine di rendere visivamente le sensazioni e le nevrosi della prota-
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gonista; è insomma impiegato, piuttosto che in funzione oggettiva, in quella soggettiva. Nell’ottobre dello stesso anno ha affermato: «Il colore ha, nella vita dei nostri giorni, un significato e una funzione che non aveva nel passato. Sono certo che, presto, il bianco e nero diventerà veramente del materiale da museo». Della crisi della modernità e dello smarrimento dell’uomo contemporaneo, tornerà a trattare poco più di un lustro più tardi, con Professione: reporter (’75). Il colore - come abbiamo già visto -, ma pure la musica, il suono, il rumore, lo spazio e l’ambiente, sono elementi sui quali opera minuziosamente e compiendo una scrupolosa ricerca. Lo spazio nei suoi lavori è inteso come categoria espressiva e l’ambiente, perlomeno in una prima fase, come sfondo significante: si pensi all’enorme cura rivolta alla rappresentazione degli interni, ma ancor di più agli esterni agiti dai personaggi; esterni che, secondo lo stesso regista, sono una componente non solo indispensabile, ma quasi preminente nell’economia dell’opera. Il paesaggio di Lisca Bianca e quello di Noto ne L’avventura, simboleggiano un vuoto strutturale e indistinto, nel quale, per riportare un’osservazione di Brunetta: «Nulla di ciò che viene detto, raccontato o visto, è vero e verificabile». Lo stesso concetto lo possiamo riferire a Il grido, all’interno del quale leggiamo il paesaggio come una sorta di riflesso dell’anima. Alcuni anni più tardi, però, l’occhio si allarga e spazia: ecco allora che Blow-up (’66) è girato a Londra perché nella capitale inglese del tempo la storia e la psicologia dei personaggi assumono un sapore e un respiro di intensità “altra” rispetto a quanto si sarebbe ottenuto girando qui in Italia. Per Zabriskie Point (’69 - ’70) lo sceneggiatore e regista si spinge fin negli Stati Uniti, proseguendo la sua apertura nei confronti di nuovi tessuti sociali. Approda addirittura in Cina, essenzialmente al fine di mostrarcela - Moravia al riguardo ha parlato di un Paese visto come un oggetto da descrivere -, per dirigere Chung Kuo (Cina) (’72). Ma se nella prima parte dell’esperienza artistica del maestro i lungometraggi offrono alla nostra prospettiva uno spazio
funzionale alle figure, abbracciando una scelta che è allo stesso tempo stilistica, espressiva e narrativa, in un secondo momento osserviamo un cambio di rotta, giacché ogni elemento compositivo tende, al contrario, ad assumere il medesimo rilievo: tutto (compresi appunto ambienti e individui) si livella, azzerando ogni possibile prevaricazione o subordinazione di una componente rispetto all’altra. A tal proposito ha evidenziato Tinazzi: «In generale, lo spazio assume spesso un valore a sé, diventa oggetto come il tempo: il film, per i suoi significati […] vive anche delle risonanze della sua non significatività». E anche lo spazio e gli oggetti perdono la loro precipua funzionalità, “non servono più per…” o “non servono più a…”, ma sono presenti soltanto in quanto elementi della diegesi. La musica non mostra quasi mai troppi strumenti e accordi; per niente pletorica, è inserita tra dei lunghi silenzi al fine di evidenziare dal punto di vista sonoro elementi già conosciuti attraverso le immagini e lo snodarsi della vicenda. E infine altrettanta cura Antonioni riserva all’utilizzo dei rumori, che sarebbe uno sbaglio considerare semplicemente mimesi della realtà che la finzione filmica illustra; sono invece elementi compositivi, oculatamente scelti per farli concordare o meno con le immagini, in rapporto all’uso che se ne intende fare. Per mezzo del suo mestiere, ancora il maestro cerca - riuscendoci - di fotografare anche e forse soprattutto interiormente la quotidianità dell’uomo del suo tempo. È probabilmente questa la sua maggiore eredità. Eredità che così possiamo sintetizzare, estrapolando poche righe del già citato Tinazzi: «Penso che gli uomini di cinema debbano sempre essere legati, come ispirazione, al loro tempo […], per raccoglierne le risonanze dentro di noi, per essere noi registi sinceri e coerenti con noi stessi, onesti e coraggiosi con gli altri. È l’unico modo, mi sembra, di essere vivi».
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o n i t n e r t o i g o g m a o m u ’ l Il l e d e n fi a l e za
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Quest’anno il maggio trentino ha ospitato per la prima volta ben due festival economici: il noto festival dell’economia di Trento e l’Alterfestival di Rovereto. Siccome il primo è ben noto, vi scriverò del secondo. L’idea dell’Alterfestival è duplice: oltre ad attivarsi nella divulgazione di stampo economico, l’Alterfestival si propone di ampliarne il dibattito approfondendo e stimolando l’analisi critica nei confronti della società attuale e futura, con l’obiettivo di offrire spazio e visibilità ai pensieri sociali, economici e politici (ma si potrebbe anche dire metafisici) alternativi a quello imperante. Non solo quindi un’indagine sulle cause della crisi, ma un ripensamento di paradigma, affinché l'economia e la politica ritornino ad essere inquadrate per quello che sono, dei mezzi e non dei fini. Proporrò quindi alcuni interessanti frammenti delle tre conferenze che si sono svolte a fine maggio in quel di Rovereto, alle quali hanno partecipato lo scrittore e giornalista Massimo Fini ed il giurista e professore ordinario di Diritto Civile all’Università di Torino Ugo Mattei. Massimo Fini ha sfoderato il suo attacco (sempre) attivo contro il modello di sviluppo occidentale, descritto come un meccanismo di crescita continua e paradossale (una crescita infinita non si concilia con una quantità finita di risorse) che ci rende schiavi del PIL, condizionando ogni aspetto della
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nostra vita, e omologando le culture, provocando perdite enormi. La società occidentale vive male perché lo squilibrio che sta sperimentando non è solo economico, ma soprattutto esistenziale: la tecnologia e l’economia hanno emarginato le esigenze più importanti dell’uomo, ridotto ora a mero consumatore, per di più incattivito dall’invidia (diventata il valore assoluto della società dell’opulenza), e stressato da un dinamismo che non fa parte della sua natura. Il professor Mattei ha proposto una visione simile da una prospettiva giuridica, parlando della mutazione antropologica (supportata dal diritto) che a suo avviso si sarebbe affacciata nei paesi occidentali negli ultimi 25 anni, e che avrebbe portato a considerare l’uomo come mero consumatore, teso fra l’egoismo dell’“hic et nunc” e la perdita di relazionalità. La prospettiva giuridica si rivela interessante, in quanto permette di capire che questo problema deriva dal vulnus di fondo che sta alla base del rapporto tra diritto e realtà: se il diritto non è altro che il superamento del limite attraverso un’astrazione mentale, il pericolo della fuga dalla realtà è dietro l’angolo. Come esempio Mattei ha parlato del concetto di persona giuridica, un ente la cui durata va oltre la vita delle persone che la compongono, così che il suo valore le trascende, fino ad inghiottirle e farle scomparire, attraverso un passaggio di sovranità pericoloso. Ed è facile capire come il ragionamento possa essere esteso ai mercati reali, ma anche a quelli finanziari. In questo modo l’uomo rischia di figurare come un atomo alienato e interscambiabile con gli altri, quando piuttosto dovrebbe realizzarsi e comunicarsi all’interno di una comunità che lo valorizzi: perno della bilancia e non merce di scambio. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. La maggior parte degli intellettuali ormai non può fare altro che piangere sul latte versato, un sistema socioeconomico che aliena l’individuo e lo lascia (quando non ce lo mette) solo contro tutti, in nome di un individualismo che è contro la natura dell’uomo, come scriveva un grande poeta inglese del ‘600, John Donne, un intellettuale proteso verso la modernità ma saldamente ancorato alla tradizione:
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Nessun uomo è un isola, in se stesso racchiuso; ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte del tutto; se il mare si porta via una zolla di terra, l'Europa ne è diminuita, come se sparisse un promontorio, la casa assolata di un amico, o la tua stessa; la morte di ogni uomo mi diminuisce, perchè sono parte dell'umanità; per questo, non chiedere mai per chi suona la campana; essa suona per te.
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Il pollo di Newton Cibo über alles. di Elisabetta Badiello Solo fino a qualche anno fa, chi avrebbe mai detto che saremmo rimasti incollati davanti al video per seguire abili chef alle prese con pentole e fornelli? Quando negli anni settanta si pensava alla cucina del futuro, ci si immaginava a trangugiare pillole di vari colori e gusto, sostitutive di altrettante pietanze fumanti e appetitose. Quasi che il sedersi a tavola comportasse una perdita di tempo, un rischio per la salute. La pillola avrebbe costituito quel perfetto equilibrio di nutrimenti necessari per vivere sani e in forma. Fortunatamente la realtà ha disatteso queste fosche previsioni e oggi ci troviamo a discernere tra soufflé e fricassea, timballo e tartare, alla stregua di veri esperti. L’argomento cucina è infatti diventato uno dei pilastri del palinsesto televisivo. Tutto ciò che odora di cibo la fa da padrone a ogni ora della giornata anche attraverso i nuovi media come blog, ricettari online e condivisioni sul web. Per non parlare dei corsi di cucina che stanno vivendo un vero boom. Del resto il cibo è un elemento fondamentale della nostra vita e un piatto eccellente può essere paragonato a un’opera d’arte. Emozione e godimento sono talvolta un vero e proprio capolavoro! Dietro un piatto ben riuscito, un perfetto equilibrio di sapori tale da inebriare il palato, si nasconde però un processo sia fisico, sia chimico. La cucina ha
molto in comune con la ricerca scientifica. Il cuoco, come lo scienziato, sperimenta, mette in pratica e finalmente giunge al risultato atteso: una pietanza appetibile! Sull’argomento Massimiano Bucchi ha scritto un libro, indagando il rapporto tra scienza e cibo. “La cena era in tavola ma Isaac Newton, immerso nei suoi studi, non si era ancora mostrato in sala da pranzo. L’amico William Stukeley era sempre più impaziente e affamato. Alla fine sollevò il coperchio della pentola scoprendo un pollo. Se lo mangiò tutto poi, furtivamente, rimise a posto il coperchio. Alla fine Newton arrivò, salutò l’amico e si mise a tavola. Sollevò il coperchio e vide che sul piatto erano rimaste solo le ossa. Serafico commentò: Come siamo distratti noi filosofi. Ero proprio convinto di non aver ancora mangiato”. Questo aneddoto, che da il titolo al libro, è soltanto uno dei divertenti esempi di come gli scienziati abbiano affrontato il tema della cucina. E di pollo non c’è soltanto quello di Newton ma hanno un pollo in comune anche Bacone e Pasteur, come pure gli illuministi! Composto come un menù, “Il pollo di Newton” è un excursus tra esperimenti nei caffè, controversie sulla birra, ricette per la cioccolata custodite gelosamente come brevetti, per arrivare alla cuci-
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na futurista e molecolare. Ma l’interesse per la cucina ha coinvolto anche istituzioni solitamente dedicate ad altro, indice che sull’argomento c’è fame di sapere e anche molto da dire. Il tema ha infatti trovato spazio al Mart con una grande esposizione aperta a febbraio e in chiusura nei giorni scorsi dal titolo “Progetto cibo. La forma del gusto”. Coinvolti designer come Achille Castiglioni, Giorgetto Giugiaro, Alessandro Mendini, Giorgetto Giugiaro, Gaetano Pesce e Philippe Starck, solo per citarne alcuni. Partecipi anche delle vere e proprie stelle del firmamento gastronomico, delle autentiche star come Gualtiero Marchesi, Bruno Barbieri, Massimo Bottura, Antonio Cannavacciuolo, Carlo Cracco, Daniel Facen, Davide Oldani, Davide Scabin. Alimenti affrontati nelle varie coniugazioni da “Il cibo anonimo” per continuare attraverso “Industria e brevetti”, indagando la “For-
ma come funzione”, la “Forma come decorazione” e il “Cibo come materia”. Non mancano humour e metafore, allusioni e paradossi. Fino al “Futuro tra ricerca, economia ed etica”. Ma anche la Triennale di Milano ha riservato al cibo un suo spazio. Conversazioni, masterclass, showcooking, workshop, degustazioni, aperitivi stellati, cene d'autore. L’evento “Cibo a Regola d'Arte” ha indagato la cultura del cibo, alla scoperta e riscoperta di sapori, gusti, profumi, territori, storie e tradizioni. Il cibo non è fatto soltanto per essere consumato ma attorno ad esso si muove un mondo! Ecco allora che si studia, si prepara e si indaga. Mangiare non è più soltanto una necessità ma, dalla scienza ai fornelli, è anche l’occasione per sapere e scoprire quella cultura cui la tradizione appartiene.
L'incommestibile Appunti su alcuni versi del De Marinis di Giuseppe Signorin
Ieri, nel tardo pomeriggio, la mia fidanzata si è messa a canticchiare una canzone. Stavo cercando di dormire, ma lei ha pensato bene di mettersi a canticchiare una canzone lo stesso. Fortuna sua ha voluto che la canzone che si è messa a canticchiare lo stesso mi abbia fatto lo stesso effetto dei dolcetti di Marcel Proust, le madeleines, dolcetti che avevano il potere di catapultare il venerato e sintetico scrittore francese indietro nel tempo. E allora, invece di incavolarmi con la mia fidanzata, mi sono incavolato con Marcel Proust, perché non poteva che essere sua la colpa se all'improvviso mi trovavo catapultato indietro di più di dieci anni, al mio primo anno di università. Era notte, ero appena tornato da una festa non so dove e nella stanza che condividevo con uno studente di Varese che aveva l'abitudine di addormentarsi con una radio d'epoca accesa su stazioni ahimè non d'epoca, ho sentito la stessa canzone che si è messa a canticchiare ieri la mia fidanzata, mentre stavo cercando di dormire. Mi sono messo a canticchiarla anch'io, più di dieci anni fa, tornato da quella
festa non so dove, e ho svegliato il mio coinquilino. Da allora è diventata la nostra canzone, mia e del mio ex coinquilino. Da ieri, invece, è diventata la canzone mia e della mia fidanzata, anche perché il mio ex coinquilino non lo vedo né lo sento da anni, e non ho progetti in corso con lui. Prima di concludere dovrei dirvi cosa c'è di incommestibile in tutto questo, temo. Di incommestibile c'è il testo della canzone, ovviamente. Parlo di "Troppo bella", di Davide De Marinis, la mia canzone/madeleine e ora anche la canzone mia e della mia fidanzata. Il testo di "Troppo bella", del De Marinis, oltre che meraviglioso, è veramente incommestibile. Prendete questi versi: "Ciao, vorrei fare cinque figli, adottarne due perché, mi piaccion le famiglie abbondanti, generose ed ingombranti"; e poi: "ho due sogni nel cassetto, tre nell'armadietto". C'è qualcosa di più incommestibile, oggi, nel nostro mondo moribondo, in cui cala sempre più sia il numero dei figli che dei desideri, di un testo in cui qualcuno dice di volere una famiglia con sette pargoli e due sogni nel cassetto più addirittura tre nell'armadietto?
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GRAFICA: Alessandraperetti
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REDAZIONE: Nicolettamai albertofabris elisabettabadiello
settembre
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