Cabaret Voltaire maggio 2012

Page 1

Il romanzo è morto \ Sperimentazioni sonore \ I Rusteghi \ Pixar: tra arte e tecnologia \ Kitchen

Maggio 2012

nel segno della secessione


Somm Il romanzo è morto, e nemmeno io mi sento tanto bene PG8

I Rusteghi PG12

Kitchen PG16


mmario Gustav Klimt nel segno di Hoffmann e della secessione PG4

Oscilla: suono, ricerca, esplorazione PG10

Pixar: arte e tecnologia PG14

http://on.fb.me/vfJPf6


Gustav Mahler

T

Oskar Kokoschka

von Hofmannshtal Arthur Schnitzler

orna a Venezia Gustav Klimt, in una mostra allestita per i centocinquant'anni dalla sua nascita e arricchita dalla relazione artistica ed estetica con l'amico Josef Hoffmann, architetto e interior designer della Vienna borghese e colta nell'epoca d'oro del tentativo programmatico di una Gesamtkunstwerk, l'arte totale, che il gruppo dei secessionisti contrappone all'accademismo mercantile contro cui si scaglia Hermann Bahr : "La nostra secessione non è una battaglia degli artisti moderni contro i vecchi bensì una lotta per affermare la superiorità degli artisti sui mercanti ambulanti che si spacciano per artisti e hanno interesse a impedire la fioritura dell'arte." Il successo dello Jugendstill in pittura e nelle arti applicate modificano il gusto e l'approccio con l'oggetto artistico in tutta l'Europa che corre verso la catastrofe, corsa folle in un tripudio di oro, decorazioni e salotti avant garde. Gustav Klimt giganteggia tra gli scandali e le esposizioni che ne sanciscono la fama non meno che l'ostracismo delle istituzioni. Accusato di pornografia e di "eccesso di perversione", Klimt non arretra né devia dalla sua ricerca estetica potendo godere di una certa agiatezza economica dovuta alla sua fama di ritrattista: ormai ogni donna della buona società viennese ambisce ad essere ritratta da lui. Dunque costretto nel doppio binario del lavoro su commissione, essenzialmente il ritratto, e l'espressione più libera del suo progetto estetico grazie a mecenati come Nikolaus Dumba, August Lederer e Koloman Moser, Klimt non rinuncia ad uno sguardo sul femminile come essenza erotica, sia nei casti ritratti delle signore della borghesia, quasi sempre impressionisticamente avvolte in un malinconico languore e che sembrano suggerire il dispiacere distaccato di non

Sigmnud Freud GUSTAV KLIMT NEL SEGNO DI HOFFMANN E DELLA SECESSIONE

di Alberto Fabris


Arnold Schoenberg

potersi mostrare di più, sia negli archetipi e nelle allegorie dei grandi quadri, dove il pelo pubico esposto allo sguardo dello spettatore si pone fuori dalla tradizione e dentro allo scandalo del corpo come "verità". Dunque Gerta Felsöváni e Serena Lederer, malinconiche prigioniere del rito borghese del ritratto, sognano Danae, fecondata da Zeus e avvolta su se stessa, gli occhi chiusi e le labbra schiuse e l'estasi del piacere impudicamente svelata. L'interesse ossessivo di Klimt per la donna nel suo potente significare "altro" dal maschio, diventando quindi il solo essere degno d'interesse, è ben rappresentato da una sua opera incompiuta, Adamo ed Eva, dove Eva è carnale e seducente, con le fattezze di una ragazza viennese, mentre Adamo è appena visibile, scuro e inessenziale. "Di me non c'è alcun autoritratto. Non m'interesso alla mia persona come soggetto di un dipinto, m'interessano di più altri esseri umani, soprattutto le donne...". E le donne di Klimt sono spesso altere e distanti, a volte prototipi della femme fatale, a volte semplicemente lontane in un luogo e in un tempo sottratti al desiderio e alla curiosità del maschio. Sono i disegni invece a svelare l'universo più propriamente intimo della sessualità femminile, le sue modelle giacciono quasi sempre sole, offrendo all'osservatore ogni dettaglio della loro anatomia, e quasi sempre si accarezzano chiudendo gli occhi sul mondo, non molto diversamente dalle signore ben vestite e malinconiche che posano lo sguardo in un oltre che spiazza l'osservatore e lo fa sentire solo. Klimt muore il 6 febbraio 1918, "Chi vuol sapere qualcosa su di me - come artista, l'unica cosa degna di attenzione - deve osservare attentamente i miei dipinti e da questi cercare di capire ciò che io sono e che cosa voglio."

Elias Canett Robert Musil

Karl Kraus

Ludwig Wittgestein

Richard Strauss


“Un ciclo eccezionale di dipinti, rari e preziosi disegni, mobili e raffinati gioielli, ma anche elaborate ricostruzioni e interessanti documenti storici, la genesi e l’evoluzione, in ambito architettonico e pittorico, dell’opera di Klimt e di quanti con lui diedero vita alla Secessione viennese, istanza di quel modernismo europeo che ebbe tra i suoi protagonisti di spicco personaggi come George Minne, Jan Toorop, Fernand Khnopff, Koloman Moser, e soprattutto l’amico di tante avventure intellettuali e progettuali, Josef Hoffmann.”

6


7

www.mostraklimt.it Al museo Correr fino all’8 luglio 2012 lunedÏ/domenica dalle 10.00 alle 19.00 INGRESSO intero 12 ridotto 10


Il romanzo è morto, e nemmeno io mi sento tanto bene di Paolo Armelli

G

ià negli anni Dieci del Novecento il romanzo non si sentiva tanto bene: il modernismo aveva ben pensato di tagliuzzarlo, frammentarlo, moltiplicarlo, sperimentarlo, e molto spesso non concluderlo. Ma lui era lì, un po’ acciaccato ma che si difendeva, aveva ormai vinto la sua centenaria battaglia con la sorellastra, la poesia, che avrebbe prodotto ancora qualche slancio di orgoglio e poi si sarebbe definitivamente arresa. Poi sono passati un po’ di anni, è venuta la guerra, il postmodernismo (ma oggi è finito anche quello, dicono), il Sessantotto, quei mattacchioni dei decostruzionisti. In poco tempo si decise che: erano morte le certezze. Era morta la verità. Era morto anche l’autore. Praticamente il romanzo ha pensato bene di mettersi in coma. E guardandosi bene attorno, oggi, vien da dire che molto probabilmente, nel frattempo è passato a miglior vita. Pensateci bene: pensate all’ultimo bel romanzo che avete letto di recente. E quando dico romanzo, voglio dire romanzo, un po’ all’ottocentesca: grande intreccio, personaggi profondi e in evoluzione, strutturazione complessa di spazio e tempo ecc. Per carità, non vuol mica dire che tutti i libri devono assomigliare ai Promessi sposi, a Tempi difficili, a Il conte di Montecristo per essere romanzi, anzi. Però quella dimensione romanzesca lì, della struttura ampia, del grande respiro, è andata perduta. Un po’ è stato anche per l’avvento della letteratura di genere (Trivialliteratur, dicono quelli che se la tirano sapendo il tedesco): i

gialli hanno un successione prestabilita e prevedibile; i romanzi rosa sono talmente intorcolati e inverosimili da dimenticarsi a volte della coerenza dell’intreccio; i thriller e i noir possono limitarsi a seguire il modello di James Bond; la letteratura comica non ha bisogno nemmeno di fare i conti con le convenzioni letterarie. Ma allora cosa resta? In realtà qualche tentativo di romanzo in quanto tale si continua a fare: la situazione, in Italia ad esempio, mostra che questa struttura fluida di racconto delle storie e della vita si è adattata ancora una volta, mutando proteicamente in una forma ancora nuova. Veloce e baluginante è la realtà, veloce e baluginante sono i romanzi: storie essenziali e suggestive, capitoli brevi e brevissimi, molte sospensioni e ellissi, molti dialoghi (o pochissimi, ma senza vie di mezzo), una narrazione che procede per immagini più che per descrizioni e relazioni di fatti ecc. Diciamo tutto come in Baricco. Anche una delle opere più belle dell’anno scorso, La vita accanto di Mariapia Veladiano rispetta questo nuova modalità romanzesca: lì sono le suggestioni, gli odori perfino, le immagini pitturate con maestria a dare il senso di una vera letteratura. Quest’anno si è parlato molto de Il bambino indaco di Marco Franzoso: un’altra storia avvincente e di grande impatto (quasi violento) sul lettore è trattata per flash, più per cose ed emozioni suggerite col non detto che per il detto. Alla fine è un libro interessante e anche insolito, però si rimane come in attesa di un’apertura, di

8


9

qualcosa di più grande e imponente e velato. Un tentativo di rappel à l’ordre l’aveva tentato, sempre l’anno scorso, Alessandro Mari con Troppa umana speranza: però lì l’ambientazione ottocentesca, l’impalcatura obsoleta da romanzo storico e alcuni problemi linguistici (se n’è accorto anche qualche storico della lingua), avevano minato fortemente il risultato. Gli unici che forse fanno ancora romanzi nel senso profondo del termine sono gli americani, come avrà notato chi ha letto l’ultimo Franzen o l’ultimo Eugenides. Ma quelli nei libri ci mettono dentro interi universi, l’intera America quasi, e quindi ancora una volta la definizione di romanzo sta stretta. In realtà bisognerebbe anche rassegnarsi: il romanzo come lo conoscevamo, per la sua stessa natura di essere un genere non codificato rigidamente, ha subito evoluzioni tali da modificare la sua stessa natura. Ora siamo di fronte a nuove forme di espressione narrativa, e forse anche ad una fase in cui interrogarsi sull’etichetta da dare ai libri ha un senso solo relativo. Meglio interrogarsi su cosa sia buona letteratura, e basta. Piuttosto sarebbe interessante vedere come anche in Italia stia trovando una vitalità nuova la forma del racconto, qui sempre bistrattata. Però poi c’è sempre qualche critico letterario su un grande giornale che paragona l’ultima fatica di Ligabue a Raymond Carver, e allora lì ti metti a sperare che non sia solo il romanzo l’unico ad andare incontro a una fine indecorosa.


10

oscilla: suono, ricerca, esplorazione di Federico Gobetti

O

SCILLA è un tavolo con sopra degli oggetti. OSCILLA è un suono che cambia man mano che si toccano gli oggetti. OSCILLA è un quadro sempre nuovo che appare di fronte agli occhi, in cui lo spettatore diventa l'artista che da forma alle figure. OSCILLA è un misto tra arte visuale e sperimentazione sonora. Il creatore, Andrea Santini: “OSCILLA esplora le radici di come si formano i suoni. È una visione dei rapporti matematici alla base della musica. Un'installazione in cui ogni persona è partecipe della creazione del suono, inteso come archetipo. Da dove viene l'idea di questa opera? Come musicista ho una base di “musica suonata” però mi è sempre piaciuto sperimentare e scomporre gli schemi musicali tradizionali per trovare soluzioni originali ed esprimere in maniera nuova

determinate sensazioni del mio mondo interiore. OSCILLA è quasi uno strumento di meditazione, o di trance... Il suono base che OSCILLA produce sfrutta frequenze medio basse che non esistono in natura. Gli strumenti che “ci arrivano” vicini sono il flauto e l'organo. Forse è per questo che “giocandoci” si può arrivare ad entrare in una sorta si meditazione. Anche per questo il sottotitolo dell'opera è “Modern rituals”. Quello che OSCILLA crea è un ambiente musicale che diventa rito. Quasi un rituale magico e mistico. Che effetto fa OSCILLA sulle persone? Ai bambini piace da impazzire. Piace molto ai giovani ma anche a persone di tutte le età. La forza di quest'opera è la sua semplicità, che le permette di arrivare diretta alle persone. L'installazione è prodotta da Ubik Teatro. Di cosa si tratta? La parola passa a Francesca Sarah Toich, scrittrice, lettrice e artista teatrale: “Ubik è un gruppo di ricerca creativa per esplorare, tramite il teatro, legami e ibridi tra pensero, parola, musica, cinema e tecnologia. Un'applicazione delle risorse tecniche al mondo dei sogni. Un'esperienza che non è più solo teatro e non è più solo musica. Il nucleo di lavoro principale è costituito da Andrea Santini, Francesca Sarah Toich, Giacomo Trevisan e Ilaria Pasqualetto. Quali sono i progetti principali del gruppo? Principalmente facciamo ricerca sul teatro musicale elaborando ed implementando tecnologie di interazione come “motion tracking” e “gate control” che, sfruttando movimento e vocalità degli attori


11

permettendo loro di interagire, creare e condizionare i contenuti musicali della performance e la loro diffusione spaziale nello spazio acustico in funzione di una drammaturgia sonora. Un esempio è lo spettacolo “Venusia”, concerto-spettacolo che racconta e reinterpreta sul un palcoscenico il contesto sonoro di Venezia, la sua cultura e le sue tradizioni. Progetti futuri? Abbiamo vari progetti in cantiere: realizzeremo uno spettacolo sulle letture con testi della divina commedia in cui la voce viene processata dal vivo e usata come sottofondo musicale di se stessa. Un altro progetto poi è l'esplorazione della religiosità partendo dalle idee di Giordano Bruno. E altro ancora. Il video di OSCILLA: http://vimeo.com/23477677 Per saperne di più su Andrea Santini e Ubik Teatro: http://www.ubikteatro.com/ubikteatro/home.html


12

I Rusteghi di Lino Zonin

“T

utto xé causa la libertà!”. Sbotta così Lunardo, uno dei “Rusteghi” goldoniani, criticando le smanie della siora Margarita, la sua vivace muggier. Nella Venezia della seconda metà del Settecento le donne hanno già fatto la loro rivoluzione, in largo anticipo rispetto alle colleghe francesi, ancora ai blocchi di partenza nei dintorni di piazza della Bastiglia. Il teatro di Carlo Goldoni descrive bene la Venezia di quegli anni e mostra con evidenza come la situazione nella Dominante sia ben diversa da quella di Parigi. Qui, in riva alla Laguna, la borghesia ha già conquistato i suoi spazi e la nobiltà, tanto tenacemente attaccata ai suoi privilegi al di là delle Alpi da innescare con la sua ottusa intransigenza il fuoco rivoluzionario, non fa più paura. Nelle commedie di Goldoni le maschere sono cadute dal volto dei guitti della Commedia dell’Arte e i personaggi mostrano senza

vergogna il loro volto di mercanti felicemente arricchiti, di matrone benestanti, di servitori affamati ma anche dallo spirito ribaldo. Se c’è qualcuno da prendere in giro e sbeffeggiare, questi è il nobile rampollo del duca o del marchese, tanto sbruffone quanto inetto, emblema di una categoria sociale che orami ha fatto il suo tempo. E in questo pacifico panorama le donne goldoniane la fanno da padrone. Nei “Rusteghi” rampognano severamente i selvatici mariti: “Vedeu? sta rusteghezza, sto salvadegume che gh'avè intorno xè stà causa de tuti i desordeni, che xè nati ancuo, e ve farà esser... Tuti tre, saveu? parlo con tuti tre; ve farà esser rabbiosi, odiosi, malcontenti, e universalmente burlai. Siè un poco più civili, tratabili, umani. Esaminè le azion de le vostre muggier, e co le xè oneste, donè qualcossa, soportè qualcosa”. In “Sior Todaro Brontolon”, l’unica in grado di tenere testa al dispo-


13

tico e insopportabile padrone di casa è la nezza Marcolina. I due antagonisti si incontrano solo alla fine e durante i tre atti della commedia è tutto un accumularsi di nuvoloni in attesa del temporale definitivo. Poi, quando le due armate sono pronte alla battaglia, l’astuta Marcolina ha buon gioco a piegare il burbero suocero ai suoi desideri con una perfetta tattica di aggiramento fatta di “Patron, sior Missier”, “Mi no so dasseno”, “Mi no digo gnente”. E che dire di Mirandolina, l’allegra locandiera che fa girare come trottole gli spasimanti (anche in questo caso dei nobili ridicoli: un cavaliere, una marchese, un conte) e alla fine decide di sposare l’uomo che le lascerà fare sempre quello che vuole, quel torsolo di Fabrizio, il cameriere che le sbava dietro fin dal primo atto. Insomma, Venezia non ha bisogno di rivoluzioni sociali o di rivendicazioni femministe. Anche se già avviata verso la sua inesorabile

decadenza, la perla della Laguna offre ai suoi abitanti di entrambi i sessi una qualità della vita invidiabile fin dai suoi più immediati confini. Per dire, poco più di 150 anni prima, nella Londra di Elisabetta Tudor, William Shakespeare faceva dire a Caterina, la bisbetica finalmente domata, questa incredibile tirata finale: “Tuo marito è il tuo signore, la tua vita, il tuo custode, il tuo capo, il tuo sovrano; uno che ha cura di te e del tuo mantenimento, che si sottopone a laboriose fatiche per mare e per terra, a vegliare di notte, durante le tempeste, di giorno al freddo, mentre tu stai calda e al sicuro in casa: e non brama da te altro tributo che amore, affabilità e sincera obbedienza”. Parole che nessuna Margarita, Marcolina o Mirandolina si sognerebbero mai di pronunciare nella “Venezia Felix” di Carlo Goldoni.


Pixar:arte e tecnica

14

di Federico Tosato

A

fondare la PIXAR alla metà degli anni Ottanta (dal ’79 all’84 è un’altra cosa) c’è, insieme a Steve Jobs, John Lasseter, uno che ha affermato che “L’arte sfida la tecnologia e la tecnologia ispira l’arte”. Chi scrive concorda, ma se invece, tra chi legge, il punto di vista fosse discordante, lo si invita caldamente a visitare appunto una delle tappe italiane della mostra “PIXAR, 25 anni di animazione”, che fino alla prima decade di giugno sarà ospitata a Mantova, dentro a Palazzo Te. Una volta usciti da là, leggetevi di nuovo quanto professato da Lasseter e confrontatelo allora col vostro punto di vista. Perché non c’è matrimonio più congeniale di quello tra fantasia e tecnologia, tra disegno e animazione, tra pastelli e virtualità, insomma quello tra la tradizione artistica e i nuovi linguaggi digitali, in quel che è già stato ribattezzato “Rinascimento digitale”. All’ingresso della mostra capita di incrociare quarantenni tanto imbarazzati quanto sma-

niosi di giustificare la loro presenza lì in qualità di passivi accompagnatori di figli curiosi, per poi ritrovarli invece all’uscita, con gli occhi ingombri di sogni. In effetti l’allestimento merita attenzione, a prescindere dal dato anagrafico, per più di un motivo: perché prima di approdare a Mantova è stato protagonista al MoMa di New York per l’inaugurazione e poi ha fatto tappa ovunque, dall’Australia all’Oriente e in Italia a Milano; perché passo dopo passo ci si imbatte in più di 500 opere – suddivise in sezioni: Colorscript, La trilogia di Toy Story, Il mondo, Il personaggio, Il processo PIXAR, Cortometraggi PIXAR, I primi cortometraggi PIXAR, La storia e Credibilità –, percorrendo un viaggio attraverso la creatività e la cultura digitale letta quale innovativo linguaggio applicato all’animazione e al cinema. È quella offertaci a Palazzo Te un’occasione più unica che rara, perché i disegni a pastello o a tempera, gli schizzi a matita o a penna, le stampe coi colori digitali, gli


15

storyboard, i bozzetti, le sculture dei vari modelli e i vari collages presenti, sono parte integrante della genesi dei lungometraggi PIXAR, ma costituiscono quelle fasi di gestazione che a noi spettatori non sono presentate, perché mai capita che escano dagli studi. Attraverso la mostra si rende palese quel che per molti scontato ancora non è, ovvero – ed è il concetto basico dell’ideazione dell’allestimento – che i film di animazione sono concepiti e plasmati per mezzo di umanissime forme artistiche. Per tornare ancora su Lasseter, egli ha dichiarato che “L’animazione è stata considerata troppo a lungo una faccenda da bambini e ho sempre sognato che il nostro lavoro venisse considerato come un’opera d’arte”; ecco, l’allestimento curato da Elyse Klaidman e per l’Italia da Maria Grazia Mattei, contribuisce enormemente al suo intento. Anche se in fondo bambini ci sentiamo un po’ tutti, al cospetto di quelle pareti tappezzate di opere, a quei personaggi modellati da mani sapienti, o quando ci ritroviamo immersi nel buio, intenti a strabuzzare gli occhi di fronte ad un’installazione multimediale su widescreen che ci permette di esplorare in un movimento tridimensionale simulato, l’arte bidimensionale o nel momento in cui l’animazione si palese a pochi centimetri dalla nostra faccia, grazie ad un geniale zootropio tridimensionale ricolmo di personaggi. PIXAR, naturalmente. Palazzo Te, Mantova fino al 10 giugno


16

di Lino Zonin

L

e migliori idee nascono in cucina, preparando e poi assaporando in compagnia qualcosa che risulta, magari improvviso, dalla creatività e da pochi ingredienti, ma buoni. Più o meno da questa idea nasce qualche anno fa una compagnia, che a sua volta si forma da una scuola di teatro e prende per questo il nome di Kitchen Project. Un prodotto della creatività teatrale di Anna Baldo di Franca Pretto e Gianni Gastaldon, anime e menti di Ossidiana, Centro Culturale e di Espressione vicentino. Gli ingredienti c’erano tutti: giovani attori, formati in un triennio di “teatro corale”, docenti, registi, direttore artistico. Quello che mancava era, per così dire, un recipiente che potesse contenere, anzi meglio dire “dare spazio” a quel che dalla cucina poteva uscire. Oggi, a vent’anni dalla fondazione dell’associazione, Ossidiana si regala un teatro tutto suo, spazio d’arte attrezzato dove ospitare spettacoli di generi diversi, ma prima di tutto un progetto legato alla compagnia residente, che lo gestirà. Per questo si chiama Kitchen Teatro Indipendente: un palco-non palco destinato a diventare laboratorio del contemporaneo. Come una cucina non è solo il luogo dove preparare cibo, così

Kitchen si mostra trasformista. Prima era un capannone industriale e ora, come una crisalide, rinasce a polo di attrazione per creatività ed espressione artistica, facendo diventare interessante, se non proprio bella, una zona decisamente prosaica della città. Si direbbe “riqualificazione” e in questo caso l’operazione sarà molto più che di facciata: Kitchen ha tutte le potenzialità per essere luogo di cultura e di aggregazione per la comunità. Dall’esterno non cambia nulla, il panorama è quello di una strada secondaria di una zona industriale non più così vitale (se ammettiamo che i capannoni prefabbricati esprimano vitalità), però ora se ne apprezza la comodità di parcheggio, la lontananza dalle abitazioni che regala libertà notturna e convivenza pacifica tra le diverse esigenze della città. Ma è dentro il capannone, un magazzino di 250 mq, che si scoprono le meraviglie del teatro, tanto più che tali meraviglie sono tutte da immaginare. Uno spazio totalmente neutro, che non tradisce l’origine industriale, ma anzi ne trae fascino. Quel fascino del possibile ancora inespresso, che si attende di vedere attualizzato, ogni volta in forma diversa, a partire dalla prima rassegna di questa primavera, curata dal giovane Andrea Gastaldon.

Kitchen


17

Un volume squadrato, vuoto, tutto nero (proprio come un’ossidiana, la pietra vulcanica cui si attribuisce il potere di collegare la mente alle emozioni, e di disperdere la negatività). Un palco a terra, un’ampia pedana in legno nero, come una sorta di derivazione del “teatro all’italiana”, e una gradinata rimovibile, per estendere a piacere lo spazio scenico. Il pubblico, 99 persone in tutto, troverà posto anche sul soppalco che corre sui tre lati (interpretazione industriale delle file di palchi dei teatri antichi?). Le quattro “americane”, a quattro metri e mezzo di altezza, da elemento invisibile diventano attrezzo scenico di suggestiva imponenza. In questo vuoto, la fantasia si muove e si espande, a creare la scena che si vorrà, in un luogo dove tutto pare possibile, perché nulla è imposto come oggettivo. Teatro come forma di espressione, come esercizio di critica e spazio per la mente, attività che crea dipendenza nei “malati” di questa arte, e indipendenza, perché apre la mente a visioni diverse del mondo. Realtà da cui fuggire a gambe levate, se si vuol essere “lasciati in pace” nella subcultura globale dell’appiattimento del gusto e delle richieste, come minaccia il video messaggio, ironicamente intimidatorio, di Carlo Presotto, direttore artistico di Ossidiana, assente giustificato all’inaugurazione. Per gli irrecuperabili, quelli che nonostante l’avviso ancora restano a fare e a fruire del teatro, Kitchen sarà il posto perfetto, dove trovare spunti e soddisfazioni. Versatilità è la parola d’ordine della struttura, pensata per essere aperta e ospitale, verso forme di spettacolo e – speriamo – anche verso spettatori nuovi, proprio come una cucina di casa, dove nascono cose grandi e piccole, che diventeranno i migliori ricordi del futuro di tante persone.

KITCHEN teatro indipendente www.spaziokitchen.it via dell’Edilizia 72 Vicenza (Z.I. ovest)


18

<prossima uscita> luglio

REDAZIONE: Nicolettamai albertofabris elisabettabadiello paoloarmelli federicotosato marcopiazza federicogobetti linozonin annabaldo chemikangelo FOTOGRAFIA: Albertosaltini GRAFICA: Amosmontagna | Editrice Millennium, piazza Campo Marzio 12 Arzignano (VI) www.corrierevicentino.it | blog@corrierevicentino.it

http://on.fb.me/vfJPf6


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.