cabaret voltaire novembre2012

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Vintage!


Somm

V per Vendemmia........................

Per diventare d'epoca..........

Vintage solo con cuore...

America vintage oggi............

LO SPROLOQUIO DELL'IMPERF

Scusi‌ io vesto vintage........

A RITMO DI VINTAGE....................

LE STANZE DEL VETRO...............


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FEZIONE..................................................................12 .................................................................................16

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V per Vendemmia

di Federico Gobetti

Vintage. Cos'é il vintage? Un amore spassionato per tutti gli oggetti che hanno una storia. Il vintage piace a tutti. È bello. È divertente. È interessante. È anche di moda. Ma, davvero, cosa significa “vintage”? Il significato letterale della parola non è altro che “vendemmia”. Già, davvero. Quindi l'accezione del termine coniato inizialmente per identificare i vini vendemmiati e prodotti nelle annate migliori, è poi diventato sinonimo dell'espressione “d'annata”. Successivamente applicato anche per altri oggetti genericamente prodotti almeno vent'anni prima del momento attuale. Oggetti vintage che oramai cono considerati di culto per differenti ragioni: moda, design, costume, passione personale eccetera. Ora, il periodo storico che stiamo vivendo non è tutto rose e fiori, lo sappiamo. E le persone per tirare a campare si accaparrano anche i lavori più disparati. E secondo voi, cosa può fare un giovane studente disgraziato, come il sottoscritto, per guadagnare qualche euro? Andare a vendemmiare le vigne. Ecco, secondo me, passatemi il gioco di parole, la vendemmia è vintage. Molto vintage. Svegliarsi alle 6 di mattina. Guardare fuori dalla finestra sperando che non piova. Essere nei campi prima che il sole sorga, con 10°C in ma-

niche corte, con le dita delle mani che si gelano dentro ai guanti di gomma. Muovere trattori del dopoguerra che fanno un fumo infernale. Sporcarsi per otto ore di mosto, terra, polvere e ragnatele. Sentire costantemente insetti che camminano sul collo. Aspettare con ansia la chiamata, due volte al giorno, del “Bereee!”. Ovvero qualche bicchiere d'acqua del rubinetto mandata giù in fretta. Lavarsi, prima della pausa pranzo, con un po' d'acqua del pozzo. Passare la pausa a mangiare un panino seduti sotto una vigna, in compagnia dei compagni di lavoro, a filosofeggiare sul tempo atmosferico e su quanti campi manchino prima di vedere la paga. Insomma, vendemmiare è quasi come fare un salto indietro nel tempo. A quando il lavoro nei campi era il più quotato per vivere. A quando non c'erano cartellini da timbrare ma le ore lavorative venivano segnate su blocchetti di carta. A quando le giornate duravano finché durava la luce del sole. E ditemi voi se questo non è vintage.

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e r a t n e Per div a d'epoc di Paolo Tedeschi A scuola s’insegnava a non cominciare un tema con la citazione dallo Zanichelli, immagino ora valga lo stesso per Vikipedia. Ma è lì che scopro che la discriminante temporale per definire un prodotto “Vintage” è 20 anni. Lo stesso tempo che serve a una moto per diventare “d’epoca”. Che in soldoni significa esenzione dal bollo, cioè essere finalmente liberi di possedere qualcosa senza pagarci le tasse sopra, spalancando all’oggetto in questione le porte della eternità. Credo poi l’aspirazione di ogni produttore sia di realizzare qualcosa capace di diventare immortale, di essere apprezzato stagione dopo stagione dai figli e dai nipoti. Lasciare in eredità un qualcosa che non muoia mai, e sia amato per sempre … come fece ad esempio Corradino Ascanio, il progettista aeronautico inventore della Vespa. Eternità e amore: ecco i grandi temi che resistono al tempo, che sono sempre di moda e sulla bocca di tutti, dai ragazzini di Moccia ai seguaci di Pippo Baudo. Ma vent’anni sono tanti. In vent’anni si passa da ovulo all’età più bella del mondo. In altri vent’anni si diventa grandi, poi nonni, poi vecchi, poi forse sì, eterni. Vent’anni è la lunghezza di una generazione: in vent’anni si rivolta un pianeta.

Vent’anni sono quel lasso di tempo durante il quale cambia il modo di vivere, di mangiare, di spostarsi, di comunicare, di guardare il mondo. Vent’anni sono il tempo di una rivoluzione, magari interiore. La parola Vintage è intrisa d’amore, di romanticismo, di ricordi. E’ una moda, una corrente di pensiero, un modo di vivere. E’ quello che vogliamo. E che nei momenti di debolezza cerchiamo di comprare, perché noi vogliamo tutto, e subito. Anche il passato degli altri. Ma Vintage siamo noi e non possiamo comprare i nostri sogni. Vintage è il passato e forse anche il ritorno al futuro. Perché con i fiumi e le terre inquinate dalla nostra stupita iniqua ingordigia, abbiamo armadi, soffitte e garage pieni di oggetti che ci rubano uno spazio e una leggerezza che non abbiamo più. Allora Vintage, forse, non sarà più una scelta fashion ai tempi del consumismo e della globalizzazione, ma una mutazione consapevole, probabilmente una necessità. Quello che possediamo deve soddisfare i nostri bisogni e deve sconfiggere il tempo e le nostre impulsive voglie di nuovi acquisti. Quello che ci serve spesso ce lo abbiamo già. Noi vogliamo eternità e amore, dobbiamo solo imparare a scovarne ogni giorno nuove sfumature.


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Vintage

solo con cuore di Paolo Armelli La primavera scorsa al Metropolitan Museum of Arts di New York si è tenuta la mostra "Schiaparelli and Prada: Impossible Conversations", un progetto fra moda e video art, voluto da Miuccia Prada per rendere omaggio a una storica icona della moda italiana, Elsa Schiaparelli, designer che fra le due guerre arrivò a rivaleggiare, col suo stile innovativo influenzato addirittura dai Surrealisti, coi grandi nomi dello stile mondiale, Coco Chanel in testa. Schiaparelli non è comunque l'unica grande donna della moda classica a essere tornata in auge in questi ultimi anni: basti pensare al caso Vionnet, casa di moda fondata da Madeleine Vionnet nel 1912 e, nonostante la chiusura nel 1939, rimasta per decenni come punto di riferimento nel fashion gotha mondiale. A ridare ulteriore lustro al marchio ci ha pensato Madonna che l'ha scelto come guardaroba ufficiale del suo ultimo film da regista, "W.E." Ma come spiegare questo ritorno d’interesse, anche economico (il gruppo Marzotto-Valentino ha rilanciato la casa Vionnet con sede a Milano, mentre si attende nel 2013 la riapertura della maison Schiaparelli dopo l'acquisizione da parte di Diego Della Valle), per personaggi simbolo della moda aulica e d'antan? Forse il motivo di tutto va ricercato in una parola sola: vintage.


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Concetto ripetuto in ogni dove e spesso abusato, il vintage è uno stile che dimostra come la moda non finisca mai e si rigeneri in continuazione: tutto ciò che non è più trendy in una determinata epoca lo può diventare dopo dieci, venti, cinquant’anni. Alcuni – come sempre quando si tratta di fenomeni socialogico-culturali dai confini poco chiari – tendono a mettere dei paletti: si possono considerare vintage capi di almeno una generazione prima (altri dicono: quarant’anni), e che non risalgano a prima del 1920, sennò lì si sconfina nell’antiquariato classico. Eppure vintage è anche un modo molto più disinvolto di interpretare le tendenze e lo stile, che negli ultimi anni si è affermato ai livelli più disparati: vintage è in molti casi moda fai-da-te, riappropriazione dal basso e rivendicazione della creazione di un proprio look, spesso accostando abbinamenti insoliti, magari con pezzi risalenti a epoche o usi diversi. Insomma, vintage è

vecchio, ma anche bello e personale. Come spesso accede a tanti fenomeni nati nel mondo della moda, anche il vintage si è diffuso a più livelli. E a proposito di fenomeni che nascono dal basso come non parlare dell’hipsteria. Riprendendo anche qui un termine vintage degli anni ’40, gli hipster di oggi sono soprattutto giovani di media classe e cultura che si trovano a loro agio nell’ambiente dalla musica ricercata un po’ underground, del cinema indie, della moda assolutamente inusuale e di recupero, mai mainstream e possibilmente, appunto, vintage. Se vi capita di incontrare per strada ragazzi o ragazze con pantaloni ultraskinny, caviglia in vista, cappelli a bombetta, magliette a righe scollate, bomberini un po’ consumati, occhiali tondi di tartaruga, tagli con ciuffi importanti, beh, probabilmente avete appena incrociato un hispter.


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Vintage, comunque, ormai è divenuto un attributo utilizzato per qualsiasi elemento si riferisca al passato, non esclusivamente nel campo della moda e dell’atteggiamento: così, ad esempio, Rcs ha pensato bene di chiamare una collana di bestseller classici moderni in versione tascabile, col risultato principale di rovinare le storiche, elegantissime copertine di Adelphi. Vintage è anche la tendenza principale nella musica contemporanea, soprattutto quella dance, in cui negli ultimi anni si è cercato di recuperare l’appeal tipico di certi pezzi e arrangiamenti anni ’80, talvolta persino ’70 (che, a sentire certi risultati di oggi, gli Abba si rivolterebbero nelle tombe, fossero morti); o anche di certa musica anglosassone con tendenze black che cerca di ripescare dalla stagione dorata del soul (i clamorosi successi di Amy Winehouse e Adele si spiegano, in parte, anche così). Molto spesso, di recente, anche il design si fa vintage, riportando sulla scena oggetti di culto (contate i vecchi Casio ai polsi della gente per strada), facendo andare alle stelle i prezzi su eBay di certi pezzi d’arredamento del grande design italiano (Castiglioni, Cassina, Zanuso ecc.), richiamando nelle grafiche, nelle pubblicità e nelle arti plastiche stilemi del passato (da segnalare, a proposito, la mostra che la Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra dedica al genio artistico di Bruno Munari, e la storia della grafica italiana dal Futurismo ad oggi proposta dalla Triennale di Milano fino al febbraio prossimo). Insomma il vintage sembra essere una dominante nel panorama culturale di questi tempi. Tempi di decadenza, vien da pensare. Perché, in effetti, quando una o più generazioni di seguito perdono quella spinta creativa propria del rinnovamento intellettuale e artistico, quando un intero mondo è schiacciato dalle impellenze economiche e non vede altro che insicurezza e crisi, rifugiarsi nel passato risulta quasi sempre un’arma molto vincente. Certo, però, anche a doppio taglio, perché a forza di riciclare elementi del passato si rischia di perdere qualsiasi tipo di originalità. Bisognerebbe fare come i Romantici, che dallo scontro violento fra classicismo e modernità hanno tratto potente ispirazione. O come Woody Allen, che in Midnight in Paris (anche lì, più vintage di recuperare la Lost Generation degli anni ’20 a Parigi, cos’altro?), che ci insegna che la nostalgia è buona solo quando sa di futuro. Il vintage è bello, ma solo se ha un cuore, un’anima propulsiva che gli dà spinta in avanti, solo se è reinterpretazione e non sterile imitazione del passato.


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America vintage oggi


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di Federico Tosato “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?”, è ciò che scrive nell’86 Richard Dreyfuss, uno dei protagonisti e voce narrante di Stand By Me - Ricordo di un’estate, film di Rob Reiner. Siamo appunto alla metà degli anni Ottanta e Dreyfuss è uno scrittore americano intento a rievocare la stagione calda del ’59, fatta di meravigliosa preadolescenza, di amicizie illusoriamente incrollabili e di voglia di indipendenza dai lacci famigliari, in un lavoro che secondo Morandini “sarebbe piaciuto a Truffaut”. Ellissi giornalistica: la preadolescenza nel 2011 è ormai differente, il terzo millennio è rodato, le torri sono crollate, l’umanità è altro rispetto a quel ’59 reineriano. J. J. Abrams per il suo Super 8 in buona parte rinnega l’oggi e si rifugia in un passato che è a metà strada tra la contemporaneità e i giovani di Stand By Me. È il ’79, di nuovo in estate, di nuovo in America, nell’Ohio: dei ragazzini stanno realizzando delle riprese in super 8 quando accidentalmente si fanno testimoni di un disastro ferroviario, dal quale qualcosa o qualcuno fugge. L’esercito invade la cittadina teatro degli avvenimenti e intanto spariscono uomini, oggetti tecnologici, cani. Nella battuta riportata in apertura e che conclude il lavoro di Reiner, c’è il senso di una stagione cinematografica che si andava chiudendo, con al centro il mondo preadolescenziale di provincia. Stagione nata allora in gran parte grazie alle intuizioni di Spielberg, che più in là le renderà merito, specie nell’82 con E.T. Ed ecco il motivo per il quale siamo giunti ad una produzione contemporanea come quella di Abrams: ciò che in quell’incidente ferroviario fugge ed è ricercato dall’esercito degli Stati Uniti altro non è – si fa per dire – che un alieno. Un E.T. in versione 2.0 collocato però alla fine degli anni Settanta. E il riferimento all’alieno spielberghiano è d’obbligo, dacché l’opera di Abrams è contaminata dall’estetica di Spielberg e

ne presenta i medesimi stilemi, anche se il film dello scorso anno non può essere considerato la riproposizione di un’idea che vanta ormai alcuni decenni, ma piuttosto la messa in scena del cinema dello stesso Spielberg, con gli occhi del più giovane Abrams. La cinematografia di stampo vintage di Abrams tradisce una duplice traiettoria, dacché con un occhio guarda a quel che è stato e con l’altro all’oggi; la differenza col cinema dei lustri scorsi sta nella lettura del diverso: gli alieni di Spielberg erano accolti, giustamente, con speranza e commozione (E.T., Incontri ravvicinati del terzo tipo), mentre la creatura di Abrams è al contempo metafora e specchio delle barbarie disumane commesse dall’uomo e dalle paure che da queste derivano; e il suo nascondimento è funzionale ad elevarla da essere concreto, fisico, a paura ancestrale. Di periodo in periodo, gli elementi narrativi si rincorrono, si ripetono mutati, si fondono: Super 8 fa leva sulla capacità di rievocare, quasi inconsciamente, sensazioni legate alla cinematografia americana degli anni Settanta e Ottanta, senza però richiamarla esplicitamente. Se dietro la macchina da presa Spielberg guarda al passato in una sorta di “previntage”, non è casuale che Abrams cali la sua opera nel ’79, l’anno dell’incidente nucleare di Three Miles Island, degli americani ostaggi nell’ambasciata di Teheran e della conseguente fine del sogno democratico di Jimmy Carter; scegliendo la fine dei Settanta rievoca un’intera epoca, accentuando la percezione retrò: “Non volevo che il film sembrasse fatto nel 1979. Doveva somigliare al modo in cui noi ricordiamo i film fatti in quegli anni”. Abrams persegue scientemente una narrativa vintage: rende tutto compresente e allo stesso tempo recupero, memoria, citazione. E il film in super 8 che passa durante i titoli di coda, ne è la massima espressione.


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LO SPROLO SPROLOQUI O M I ' L ED L DELL'IMPERFEZIO NE di Alberto Saltini

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Vintage e fotografia...sembra un connubio strano, dato che fino a qualche tempo fa la tendenza era esattamente opposta. Ovvero, la pulizia e la perfezione tecnica erano componenti fondamentali dell'immagine. Ultimamente il fenomeno si è invertito e, in barba all'industria dei componenti fotografici che continua a progredire con la tecnica, il gusto medio guarda indietro. Ecco che spopolano effettistiche più o meno fantasiosamente retrò che regalano un “mood” d'effetto a qualsiasi scatto. Tecnicamente quello che succede è semplice. Si introducono improbabili dominanti di colore (ad imitare una pellicola romanticamente scaduta), sfocature più o meno casuali (ad imitare una lente romanticamente imperfetta), strisciate e polvere (ad imitare un'immagine romanticamente sopravvissuta a due guerre mondiali) e bordi e cornici (ad imitare una stampa romanticamente fatta in casa). Il tutto, spesso, con un clic. Ora, a parte il fatto che si usa uno strumento ipertecnologico per emulare l'imperfezione (e già questo ha un che di...diciamo...simpatico), il vero problema è di coerenza. Si maschera e si “trucca” la foto finchè non prende quell'alone di artistico che si sta cercando, si ribalta ogni regola di composizione e chissenefrega della tecnica.


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Tutte cose che vengono fatte DOPO, spesso a caso. È evidente la mancanza di un progetto, di un pensiero dietro allo scatto. È evidente la superficialità di questo tipo di approccio, in barba alle centinaia di anni di storia della fotografia. È la vittoria dell'incoscienza, lo sproloquio dell'imperfezione. Il problema non è il fatto che tutto questo sia di moda, e non lo è neanche il fatto che gli utilizzatori non siano storici della fotografia o tecnici sopraffini. Il problema semmai è l'inganno mentale che si crea in chi utilizza questi metodi, convinto di essere artista perché pasticcia con le impostazioni e la qualità d'immagine. È la mancanza di coscienza con la quale la stragrande maggioranza affronta un'arte di tutto rispetto. Il problema è che si salvano dal cestino immagini improponibili, perdendo tutta la parte di studio dello scatto e di messaggio da trasmettere che è poi la vera essenza della fotografia. Il problema è che si perde il contenuto e si tiene il vestito vuoto. Tutto qui. Poi, sull'utilità di emulare un dagherrotipo nel 2012 potremo discutere all'infinito. Ma...cos'è un dagherrotipo? Con buona pace di Daguerre.


Scusi…io vesto vintage

di Elisabetta Badiello

Cercasi vecchio, purché affascinante. Per la precisione stagionato, datato, appartenente al passato. Purché elegante, raffinato, che sia di culto. Solamente pronunciando il termine vintage affiorano alla mente borse a bauli Luis Vuitton, abbigliamento griffato Chanel o Hermes, accessori Cartier o Gucci, quei nomi che costituiscono i pilastri della moda, che si tratti di abbigliamento o accessori. Perché vintage, nella sua accezione comune, è quel genere di oggetto che appartiene al secolo scorso e prima ancora di indicare mobili e arredamento, che spesso rientrano nell’universo del modernariato, intende l’abbigliamento, ciò che tuttora soggiorna nel fondo dei nostri armadi, in soffitta - per chi ne ha ancora una - o nascosto nell’angolo più recondito del guardaroba con sottinteso il pensiero “può ancora servire”!. La “mode vintage” francese o il “vintage fashion” anglofono potrebbero essere tradotti con una “seconda mano” italica anche se nel nostro paese preferiamo decisamente l’esotico “vintage”, dai suoi tratti iconici e sinonimo di un oggetto d’annata ma di pregio.

In un fiorire di mercati e fiere, di incontri per scambisti – si tratta di oggetti…naturalmente – di negozi dove la regola è il riciclo, il vintage sta vivendo un momento di autentico entusiasmo. Si riscoprono gusto e raffinatezza di oggetti fatti a mano, costruiti con abilità artigianale che ne rendono quasi dei pezzi unici. Se la moda segue uno sviluppo ciclico, anche nella realizzazione del contemporaneo si trae ispirazione da oggetti del passato. Ecco allora fotografie in bianco e nero, immagini seppiate, motivi geometrici o floreali, volumi ampi e costruiti. Un esempio il vintage rivisitato di Colomba Leddi con i suoi cappottini sui cui tessuti sono impresse stampe con macro dettagli fotografici e bottoni fuori scala. Una risposta al desiderio di qualcosa di unico e personale, magari da reinterpretare a proprio gusto. Stanchi di un’omologazione monomarca che ci impone di sfilare come anonimi soldatini ingessati nella griffe del momento. Un desiderio di riaffermare il gusto individuale, espressione della propria personalità. Il rifiuto della massificazione vale più della vocazione al riciclo. Vin-

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tage non significa infatti economico o a basso costo, anche se nel genere confluiscono ogni sorta di carabattola purchĂŠ considerata sufficientemente stagionata. Non possiamo certo pensare di cavarcela a buon mercato con una Birkin di Hermes o un abito di Pucci, seppur arrivasse a noi in seconda battuta. Si tratta pur sempre di oggetti che hanno fatto la storia.


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A RITMO

DI VINTAGE di Anna Baldo


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Mostre ed eventi che ruotano attorno ad un centro, un’agorà con la mostra mercato rigorosamente riservata alla moda vintage. Abbigliamento, accessori (soprattutto borse e occhiali), gioielli e bijoux. Oggetti che appartengono ai decenni passati, in un ampio arco di tempo che va dagli anni ’20 agli anni ’80. Per alcuni sono ricordi, riscoperte, per altri (che in quegli anni non erano neanche nati) sono oggetti culto da vere icone di stile. E così Vintage Festival riunisce diverse generazioni, sottolineando come la percezione soggettiva renda ogni cosa diversa, nei significati che ciascuno vi attribuisce. L’evento di Padova mette in mostra, di fatto, una contemporanea interpretazione della creatività, da riscoprire attraverso oggetti che tornano a fare moda, e persino arte. Ne parliamo con Paolo Orsacchini, direttore creativo di Vintage Festival. CV: “La moda non si può fermare. È un continuo progresso”. E il vintage? VINTAGE FEST: Vintage è stile. La moda per forza di cose è in divenire, e cerca nuove ispirazioni costruendo sulle scelte stilistiche del passato. La memoria storica diventa fonte di ispirazione per uno slancio verso il futuro. Il fascino intramontato di altri tempi fa sognare e lo spirito creativo degli anni passati diventa ispirazione anche per i giovani. CB: Cosa è vintage, e cosa non lo è? VINTAGE FEST: Storicamente ciò che appartiene al periodo dal 1920 al 1990 si considera vintage, nel momento in cui se ne riconosce un fascino innato, legato al passato. Una valutazione soggettiva di chi riesce a riscoprire quell’allure in un oggetto, o in una tendenza. Questo fa la differenza con le “cose vecchie”, che invece non hanno più una capacità narrativa attuale e riportabile al presente. Vintage Festival intende però andare oltre la valorizzazione del passato, allargando gli orizzonti del vintage e cercando una fusion con generi e periodi temporali apparentemente non affini. Da qui la commistione con le attuali tecnologie, i social network, e la comunicazione dei fenomeni culturali che creano parallelismi e incroci con il passato, per costruire una visione d’insieme contemporanea.


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CV: Il festival padovano è stato un successo di pubblico. VINTAGE FEST Già il risultato della prima edizione, che ha registrato 23.000 accessi, è stata una sorpresa. Il Festival è stato sin dal suo esordio il più grande evento del settore, in Italia. Nel 2012 in due giorni e mezzo sono passati oltre 34.000 visitatori. Sono numeri che, assieme alla qualità delle proposte, fanno ben pensare per sviluppi futuri. CV: “Vintage per non perdere il tempo”: quanto è importante il tema del tempo? VINTAGE FEST Il mercato è sempre più frenetico, i trend si sorpassano continuamente e vivono stagioni sempre più brevi e volatili. Il tempo invece è una cosa da valorizzare. Il nostro messaggio è “non perdere i tuo tempo”, e insieme “non perdere il valore del tempo”. Il festival è stato un confronto tra generazioni, che ha spinto l’ambito di azione fino alla definizione di un Neo-vintage, fusione delle tendenze passate e contemporanee. CV: Di cosa di compone lo stile vintage? VINTAGE FEST Sicuramente il gusto per il retrò è una componente importane, ma non l’unica. Il punto è trovare un equilibrio, assolutamente personale, tra gli stili diversi che si fondono insieme, contestualizzando il passato con il presente. Nel vintage le barriere geografiche e temporali scoprono confini morbidi. CV: Chi è l’amante del vintage? VINTAGE FEST: Non direi che sia possibile definire un profilo deciso del cultore del vintage. Vintage non è total look, ma un particolare gusto nell’abbinamento e nella ricerca dei dettagli, un “mix & match” che lascia libero corso all’interpretazione. Questo stile si nutre di creatività e di internazionalità, trovando punti di riferimento come Belino, Los Angeles, Parigi e Londra.


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LE STANZE DEL VETRO LE STANZE DEL VETRO LE STANZE DEL VETRO LE STANZE DEL VETRO di Elisabetta Badiello

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Mai come in questo caso si potrebbe dire prezioso come il vetro. Sono trecento i capolavori esposti a Venezia, nell’Isola di San Giorgio, realizzati durante la collaborazione dell’architetto Carlo Scarpa con l’azienda Venini. “Le stanze del vetro” sono la narrazione dei quindici anni trascorsi da direttore artistico della Venini. Quel periodo che va dal 1932 al 1947 in cui il noto architetto veneziano riversò con dedizione e passione le sue doti di creatività, immaginazione, tecnica e progettualità nella realizzazione di oggetti che ancora oggi incantano. Vere e proprie opere d’arte. Alcune, esposte per la prima volta, provengono da collezioni private di tutto il mondo. Sono suddivise in una trentina di tipologie, diverse per tecnica di esecuzione e tessuto vitreo. Ci sono pezzi storici, prototipi, oggetti unici, disegni e bozzetti originali oltre a foto e documenti d’archivio. Un percorso, quello di Scarpa alla Venini, ricostruito attraverso la documentazione fotografica delle grandi manifestazioni come la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano ma soprattutto attraverso il catalogo della vetreria degli anni quaranta, noto come il “Catalogo blu”. Il vetro è un materiale affascinante ma difficile da governare. Sono i maestri a custodire il sapere che si tramanda oral-

mente, con gelosia. Bisogna conquistarsi la loro fiducia per aver accesso alla conoscenza. E Scarpa ci riesce. Sperimenta reinterpretando tradizioni antiche o creando con i maestri vetrai nuovi tipi di lavorazioni. Come un’alchimista miscela sabbia silicea, minerali e pigmenti trasformandola in un oggetto di vetro prezioso come l’oro. Avvia realizzazioni astratte, cercando nuove soluzioni per la materia vitrea e la finitura della superficie, creando vetri non solo da guardare bensì da toccare come i corrosi. L’esposizione parte dai vetri “a bollicine”, del periodo 1932-33, in cui sono le piccole e numerose bolle d’aria incluse nel tessuto vitreo a dare il nome alla tecnica. Una lavorazione che si ottiene aggiungendo alla massa vetrosa nitrato di potassio che con il calore libera minuscole bolle di anidride carbonica. Sono inoltre esposti i vetri ispirati all’arte orientale, realizzati soprattutto in verde giada ma anche in blu chiaro, verde scuro e ametista. Si passa poi ai “sommersi” e ai “corrosi”, ai “lattimi”, ai “granulari” o ai “laccati neri e rossi” presentati per la prima volta a Venezia alla XXI Biennale nel 1940. Il percorso si chiude con le “conchiglie”, oggetti realizzati da Scarpa ed esposti alla Biennale d’Arte nel 1942, un omaggio al mare.


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<prossima uscita> gennaio

REDAZIONE: nicolettamai albertofabris elisabettabadiello paoloarmelli federicotosato marcopiazza federicogobetti linozonin annabaldo chemikangelo paolotedeschi FOTOGRAFIA: albertosaltini GRAFICA: amosmontagna | Editrice Millennium, piazza Campo Marzio 12 Arzignano (VI) www.corrierevicentino.it | blog@corrierevicentino.it

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