Cabaret settembre 2013

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Miyazaki Jarman

Leone Hitchcock

e il senso della fine


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addii d'autore 4

Nord-Est, un piccolo mondo a parte 8

Questa non e' roba per bambini 10

per_un_pugno_di_link 12 Beatus Vir 16


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addii d'autore di Federico Tosato

Se vi dicessi che ora, qui, potrei svelarvi quale sarà l’ultimo giorno della vostra esistenza, vorreste conoscerlo oppure no? Personalmente la sola idea mi angoscia, mi afferra lo stomaco e lo strizza. Eppure, a rifletterci un attimo, questa “opportunità” un vantaggio potrebbe portarlo: avremmo infatti la possibilità di finirla alla grande, di crepare in gloria o perlomeno di provarci. Supponiamo ad esempio che la mia professione mi porti ad eseguire un certo lavoro molte e molte volte in decenni di attività; se sapessi che la prossima esecuzione di quel certo lavoro sarà anche l’ultima, tenderei forse a svolgerlo ancor meglio di quanto già non faccia. O no? Muovendo da questa inutile riflessione mi chiedo: un regista conscio che il prossimo film che dirigerà sarà l’ultimo – anche se non necessariamente per un’imminente dipartita –, cercherà di fare di quell’estrema fatica il suo capolavoro, il famigerato testamento artistico-spirituale, o gliene importerà niente? E questione più rilevante dal punto di vista teorico e critico: dalla sua ultima opera riusciremo a cogliere un più o meno latente addio alla cinematografia? Miyazaki è oggi il nostro uomo, avendo annunciato solo poche settimane fa all’ultima Mostra del Cinema di Venezia che quella de Il vento si leva è stata appunto la sua regia conclusiva. Una volta conosciuta tale volon-

tà, leggiamo nel protagonista del film e nel suo sogno la parabola del Giappone. Ma senza la dichiarazione del maestro, avremmo potuto fare lo stesso? A ben guardare, poi, l’altro personaggio del film, l’ingegnere italiano che insegna al protagonista che occorre imparare a dire basta e a staccarsi da ciò che amiamo, è appunto un continuo riferimento alla sua volontà. E non è un caso che guardando al racconto di Hori che lo ha ispirato, il giapponese stavolta non ci conduca in uno dei suoi impossibili mondi resi reali, ma in un territorio concreto e drammatico, col devastante secondo conflitto mondiale ancora silente, ma già percettibile. Un ambiente concreto, tangibile e per niente illusorio. Come un addio. “Nessuno ricorderà il nostro lavoro / La nostra vita passerà come tracce di una nuvola / E sarà sparsa come / Nebbia dispersa dai / Raggi del sole / Perché il nostro tempo è il passare di un’ombra / E le nostre vite svaniranno come / Scintille tra le stoppie. / Metto un delphinium, Blu, sulla tua tomba”; sono le parole conclusive di Blue (’93), ultimo lavoro di Jarman, sostanzialmente una riflessione sulla malattia (morirà l’anno dopo di Aids). Brani musicali strumentali e vocali si frappongono a delle memorie sonore che per l’autore richiamano appunto l’approssimarsi della morte, il tormento per la retina che si stacca e per la visione sfor-




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mata (è ormai cieco), la degradante degenza ospedaliera, i buchi della flebo, il ricordo di chi a causa dell’Aids è stato sepolto prima di lui (“Nelle onde ruggenti sentivo le voci degli amici morti”). Il blu, che comprende al contempo la voglia di vivere e un imminente senso di morte e che è soglia tra l’esistenza terrena e l’aldilà, è quello dell’oceano, della volta celeste, dell’universo e dell’infinito: “Il blu trascende la geografia solenne dei limiti umani”. In quel blu si muovono per Jarman i ricordi, le amarezze, le gioie passate e i rimpianti, perché “…il blu è l’amore universale in cui ci si immerge”. Con questa immersione si congeda dal mondo. “Sono certo di aver fatto “C’era una volta il mio cinema”, più che C’era una volta in America”: quella di Leone è una sintetica affermazione che inquadra il lavoro di un’intera esistenza, poiché l’ultimo film che ha diretto è davvero emblematico di una produzione artisticamente, stilisticamente, tecnicamente, socialmente e culturalmente, gigantesca. Il presente non è contemplato, giacché è invece banalmente necessario per portarci nel passato dei protagonisti, nella loro memoria. È una mera contrapposizione temporale del passato (che altrimenti non avrebbe possibilità di essere), quello sì tempo concreto nel quale si muovono i soggetti agenti. In C’era una volta in America (’84) il presente non esiste, così come dopo quell’ultimo ciak non esisterà più quello di un regista che per alcuni anni si occuperà ancora di cinema, ma non accomodandosi dietro la macchina da presa. Il suo ultimo film è l’apice di una riflessione umana in continuo divenire. E

da quelle vette, Leone non scenderà più. Dunque, 2013, 1993, 1984 e, proseguendo in questo ordine a ritroso nei decenni, giungiamo infine al 1976, anno nel quale tocca a Hitchcock dirigere la sua ultima opera, Complotto di famiglia. Malato da tempo, questo film gli permetterà di salutare gli spettatori che ormai lo conoscono da circa mezzo secolo. Per chi da sempre ha impastato i propri lavori di humor (Hitchcock era londinese) e ha giocato con noi infilandosi fisicamente nelle pellicole, un congedo tanto esplicito è il più opportuno e perentorio che potessimo sperare. Lo affida a Barbara Harris, che nell’ultima inquadratura si accomoda sulle scale, sorride, guarda in macchina e ci strizza l’occhio. E questo sguardo che incrocia il nostro nulla ha a che vedere con quelli “nouvellevagueiani” o con la poetica stilistica di Ozu, perché è altro, non tanto un “chiamarci in causa”, un coinvolgerci in senso diretto, ma piuttosto il confidenziale saluto di un amico. Nel corso della sua lunga opera, coesa e compatta e che sviscera di film in film ossessioni quali la morte, le coincidenze, la religione, il cibo, i travestimenti, la psiche umana e il tema del doppio, il tutto innervato tanto di drammaticità e tensione, quanto di humor funereo, una tale scelta per salutare una fedele platea è il più logico ma al contempo il più spiazzante dei commiati. La connivenza che da sempre il regista ha instaurato con gli spettatori è ora elevata all’ennesima potenza, grazie ad un’intuizione che muta appunto quella stimolante complicità addirittura in un gesto giocoso, quasi affettuoso.


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Nord-Est,

un piccolo mondo

a parte di Elisabetta Badiello

Sembrerebbe proprio così a vedere le proposte cinematografiche presentate in anteprima al 70° Festival del Cinema di Venezia. Un Nord-Est che non è soltanto espressione geografica ma sintetizza un modo di essere. Uno sviluppo industriale veloce e affrettato, dove i capannoni sono cresciuti in campagna, senza un preciso disegno. O ancora una terra di confine dove il vino fa ancora parte del vissuto quotidiano, un Friuli ricco in cui esistono ancora piccole comunità dove tutti si fanno gli affari di tutti. Sul grande schermo al Lido di Venezia il padovano Rossetto, originariamente documentarista, ha esordito con il suo primo lungometraggio “Piccola Patria”. Inquadrature che mostrano zone industriali che crescono di fianco agli allevamenti agricoli. Un territorio dove ancora convivono cultura rurale e piccola industria. Dove la stalla strizza l’occhio all’hotel quattro stelle le cui piscine rappresentano l’unica nota di azzurro in uno spazio che non conosce colore. Protagoniste due ragazze che vogliono lasciare la piccola comunità dove sono cresciute. Feste di paese, raduni indipendentisti, famiglie sfinite e nuove generazioni di migranti su cui i locali scaricano le loro insoddisfazioni e paure. Razze aliene venute a usurpare lavoro e benessere. Luisa e Renata mettono

in atto un ricatto sessuale sfruttando l’ingenuità di Bilal, il fidanzato albanese di Luisa. Finiranno col rischiare la vita, mettendo a repentaglio gli affetti alla ricerca di quegli “schei” attorno ai quali tutto ruota. Storie, dice il regista Alessandro Rossetto, che sarebbero potute accadere in qualsiasi provincia del pianeta, ma che sono ambientate in quel Nord-Est italiano che si differenzia per le atmosfere, la lingua, i volti e i personaggi, le dinamiche personali e di gruppo. Luisa e Renata vogliono scappare da una cultura del lavoro dove si cerca solo di far soldi, spesso senza riuscirci. Luoghi in cui si vivono esistenze votate al sacrificio e al silenzio, una vita senza sogni, carica di rabbia. In tutto ciò due mondi, quello degli adolescenti liberi da inibizioni, sensuali, e quello degli adulti che sono invece rassegnati, senza speranza. Un Nord-Est più di confine quello invece della divertente narrazione dal titolo “Zoran, il mio nipote scemo” di Matteo Oleotto, friulano che dopo tredici anni trascorsi a Roma è tornato nella natia Gorizia. La storia è quella di Paolo Bressan, un meraviglioso Giuseppe Battiston, che trascorre le sue giornate da Gustino, gestore di una Osmiza - un’osteria - in un


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piccolo paese vicino a Gorizia. Bressan è un quarantenne alla deriva. Cinico e misantropo, professionista del gomito alzato ma anche della menzogna compulsiva, lavora in una mensa per anziani e spera di riconquistare Stefania, la sua ex moglie. Ma tutto cambia quando una lontana parente slovena, lo lascia erede di un quindicenne nipote occhialuto: Zoran Spacapan, interpretato da un bravissimo Rok Prasnikar. L’idea di essere zio lo disgusta fino a quando scoprirà le doti del ragazzo cominciando a intravvedere prossime fortune. Un film ad alto tasso alcolico dove “El vin xè la salute, l’acqua xè el funeral”. Nel film si beve tanto, praticamente sempre, di giorno e di notte. Si gioca a dama

con bicchieri di rosso e bianco, come pedoni. Chi vince beve! I vini friulani sono tutti buoni, trasudano da fiaschi e botti. E chi beve straparla, quando non parla da solo. Paolo Bressan guida in stato di ebbrezza, fa stalking alla sua ex moglie, è falso e scorbutico ma riesce a essere irresistibile. La storia è ambientata in Friuli in un piccolo paese perduto dove tutti si fanno la vita di tutti, una condivisione alla quale è impossibile sottrarsi. Dove il vino scorre a fiumi a colmare solitudini e a fuggire da qualcosa. Dalla vita come dal passato, dalle responsabilità o dall’amore. Un Friuli che resta una terra di confine dove vizi e virtù sono ancora ben radicate.


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Questa non e' roba per bambini di Anna Baldo

Non chiamiamoli cartoni animati, termine che ci fa pensare al prodotto televisivo di intrattenimento per bambini. Il cinema di animazione, erroneamente considerato un genere mentre in realtà si tratta di una tecnica, nella quale fior di registi e sceneggiatori realizzano corto e lungometraggi di diverso carattere (dal western all’avventuroso, dal romantico allo storico, e naturalmente il fantasy), è o uno stile, una scelta espressiva paragonabile a qualsiasi altra che viene utilizzata nella settima arte. “La storia del cinema di animazione in cento film” è l’ultimo volume che l’editore “Le Mani” dedica a questo particolare settore. Come dimostra questa antologia (dal 1926 al 2011) non tutti i lavori di animazione sono di carattere fiabesco, o adatti alla famiglia e ai più piccoli. Marco Bellano, Giovanni Ricci e Marco Vanelli, hanno operato una selezione dei film di animazione più significativi, per tracciare la storia di questo mondo espressivo, dal cinema muto ad oggi, film in prevalenza americani e giapponesi (le due scuole principali), ma non solo. Per lo spettatore più giovane, pur affezionato ai “cartoni”, può essere una sorpresa scoprire il ruolo della produzione italiana in questo contesto, oltre a Disney e Miyazaki, trionfatore anche a Vene-

zia 70, per il suo ennesimo eccezionale lavoro presentato al festival, che viene annunciato anche come l’opera di epilogo di una carriera difficilmente paragonabile a quella di altri registi. Ma non solo, ci sono i film “antichi” disegnati a silhouettes, e ci sono i nuovi figli dell’animazione computerizzata. Gli autori, in un lavoro corale, sono scesi a compromessi tra le proprie preferenze e le esigenze dell’editore, riducendo il corpus ai 100 titoli da scorrere per rileggere la storia dell’animazione, cercando di includere le tappe emblematiche, e consapevoli di dover sacrificare qualcosa. 100 film in 100 schede descrittive e critiche, per (ri) avvicinare lo spettatore a questo vasto ambiente creativo. Il libro viene presentato alla mostra del cinema “Venezia 70”, creando un filo rosso tra il “cartone animato” la città di laguna. Da lì viene Nino Pagot, autore dei “Fratelli Dinamite”, primo lungometraggio italiano della storia del cinema di animazione, datato 1949, che presenta la memorabile sequenza finale ambientata proprio in una Venezia da fiaba. Disegno animato di ispirazione disneyana (Biancaneve è del 1937 e Fantasia del 1940), è un racconto visionario e di astrazione, e presenta quello stile caricaturale che ritroveremo più avanti nel tempo, nei personaggi di Carosello, cui lo Studio Pagot regalerà, tra gli anni Cinquanta e


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Settanta, i celeberrimi Calimero, Jo Condor e il draghetto Grisù, parte dell’immaginario collettivo di ogni adulto di oggi. Assieme a “La Rosa di Bagdad”, sarà presentato sempre a Venezia solo qualche anno dopo. L’avventura del made in Italy nella storia del cinema prosegue poi con un altro aneddoto. L’eredità di famiglia viene continuata da Marco Pagot, figlio di Nino, addirittura omaggiato da Hayao Miyazaki che darà il suo nome ad un personaggio di “Porco rosso”. Inevitabile, per chi prende tra le mani per la prima volta questa “Storia del Cinema”, andare alla ricerca dei propri personaggi preferiti, quelli visti in TV, come Heidi e Anna dai capelli rossi, o al cinema, come i recenti Ratatouille o e Up, o gli “antichi” Aristogatti (1970) e Biancaneve. Per scoprire che proprio alla dolce principessina e alla sua avventura con i sette nani, e tanto di fiabesco lieto fine, dobbiamo tutta la storia del cinema di animazione, e la sua consacrazione a dignità d’arte. Considerato da molti il miglior Disney di tutti i tempi, vinse nel 1937 il Grande Trofeo d’Arte alla Mostra del Cinema di Venezia che da allora ha aperto le sue porte a questo tipo di produzione, a livello internazionale. I “nostri” tre autori ne parlano ancora con toni entusiastici, definendolo “capolavoro dei capolavori” e attribuendo proprio a Biancaneve il merito di portare il cartone animato nella storia del cinema, con storie vere e personaggi che nelle loro sfaccettature e complessità psicologiche sono a tutti gli effetti reali.


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per_un_pugno_di_link di Daniele Franco

Più connessioni alla rete che persone. Avverrà, e anche presto. Nel 2017, secondo le stime dell’Onu, gli abitanti della Terra saranno 7,6 miliardi e, in quell’anno, sul nostro pianeta ci saranno più punti di accesso ad internet di individui. Finalmente succederà, le porte per il mondo virtuale saranno superiori al numero di persone potenzialmente capaci di vivere il reale. Questo perché il virtuale ha raggiunto tanta importanza da essere indispensabile al reale, un’integrazione basica per la normale quotidianità. Se «l’uomo è quell’animale che prolunga i suoi arti con oggetti presi dal mondo esterno» per facilitare la sopravvivenza, ovviamente internet non aiuta e non assicura fisicamente cibo, ma, essendo la tecnologica avanzata ad un punto tale da essere lontana dalle necessità prime della terra, diventa la protesi della mente che rende accessibile tutto il sapere del mondo. Con tutto il sapere si intende tutto ciò che può contenere il web:

considerando che ci sono circa centomila ricerche al secondo, ben si può capire la portata della cosa. Ma quel che interessa è non tanto la quantità (essendo poi non quantificabile), ma la qualità del sapere. Come noi apprendiamo da internet? Quali sono i criteri di studio? Tradizionalmente ci si affiderebbe ai libri, a meticolose e durature ricerche, indagando su un dato argomento percorrendo la tortuosa e affascinante via della profondità fino a raggiungere l’essenza, la densità del Senso. Un nucleo circoscritto dal quale iniziare la discesa verso gli abissi della conoscenza: pura verticalità. Internet invece, con Google, fa del sapere un bene di consumo simile ad un hamburger del Mc Donald’ s, ad un mobile Ikea, ad una scarpa Nike … una “merce” accessibile a chiunque, in modo facile, veloce, lineare. In che modo? Google è un’invenzione di due ragazzi americani che, cercando di creare un mo-


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tore di ricerca valido per internet, oltre che a scaricare l’intero web su di un computer, sono riusciti nella stravolgente impresa di ordinarlo. Ed è in questo passaggio, nel come lo hanno ordinato, che è avvenuta la rivoluzione, è qui che l’asse vettoriale del mondo da verticale qual era si è posto in orizzontale, abbracciando il globo: tutte le pagine web, infatti, venivano per la prima volta intrecciate tra loro da link, ossia da collegamenti funzionanti come anelli di una catena tali da rendere le varie pagine sempre connesse e reperibili. La pagina con il maggior numero di link su un determinato argomento (l’argomento da ricercare) veniva ad assumere maggiore importanza e visibilità, come se i link, a mo’ di citazione, fossero delle credenziali a conferma della validità di una data scheda. Così, quando si digita una parola o un argomento da ricercare che ci interessa, nella lotta tra le milioni di pagine web vince quella più spettacolare intesa come quella più linkata, più legata alle altre. Il valore di un’informazione è dato dal numero di siti che vi indirizzano verso di essa. La pagina web con pochissimi link resta emarginata, perde, si isola nel buio del suo anacronismo. Il sapere del web ha validità (quindi diviene reperibile) solo se intersecato con altri saperi, pertanto oggigiorno il sapere non può più permettersi di essere quel passionale processo di apprendimento verticale, bensì si fa sequenza di passaggi che prende valore dalla propria mobilità. Il sapere di internet è dinamico, reattivo, rimanda sempre ad altro: il link è un continuo rimandare ad altro. Va da sé che, non avendo l’ossigeno per immergersi negli abissi di un mare tanto vasto di nozioni in costante contatto, lo si naviga in superficie, passando svelti da un’onda all’altra, surfando sui fari flutti sequenziali. Internet esclude il sapere che non comunica. Premia invece l’estroverso e lo espone nello scaffale più in vista del suo supermercato, consentendone a tutti l’acquisto: restando in metafora, la misura moderna del sapere sta nell’acquistare la maggiore quantità di prodotti


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diversi, piuttosto che la maggiore quantità dello stesso prodotto. Con l’avvento dei link è cambiato il modo di pensare e di fare esperienza. Le informazioni, le conoscenze, i collegamenti a disposizione nel mondo online sono talmente numerosi che entrare in sequenza con questi significa non finire mai, slittando ogni volta più in là, come un circolo vizioso, materializzando come un’ansia di non volersi perdere niente che dal virtuale si trasferisce al reale, essendo oramai questi totalmente imprescindibili. L’esperienza diventa quindi un movimento che inanella punti diversi nello spazio del reale ed ha valore non come singola, ma come insieme delle stesse: oggi è fatta di viaggi continui, di lingue diverse, di genti sparse, di posti lontani, di zaini carichi, di foto da condividere … tutto è fatto in funzione della visibilità che può avere, di quanto mondo riesce a catturare. Il cuore della nostra società batte all’impazzata come stesse scattando, i suoi battiti rivelano una continua corsa verso il luogo (o non luogo?) in cui si stanzia più porzione di universo, dove si incrociano più link, palesando il timore del restare indietro o del non essere aggiornati. L’esperienza diventa una questione di connessione, online anche quando il computer (o il tablet, o lo smartphone!) si concede, o gli si concede, o ci si concede, un attimo di quieto respiro.


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Beatus Vir

di Giuseppe Signorin

Insomma ero con la mia futura moglie a una cena organizzata per noi, per festeggiarci, e davanti a me trovo questa persona. La tavolata è grande, ma capisco che è con questa persona che devo parlare. Un uomo, sui 35-40 anni. È solo ma scopro in fretta che ha una moglie e una figlia di un anno e mezzo a casa ad aspettarlo. Un avvocato. Ma anche un appassionato di musica classica. Di Vivaldi. Bach niente. Vivaldi, la fantasia al potere. Non è simpatico, anzi, ma provo una profonda simpatia per lui. Canta in un coro, nel tempo libero. E suonicchia il pianoforte. E poi è appassionato di storia nautica. E di letteratura. Joseph Roth. Non Philip. E Sandor Marai. Non Sandokan. Questo non è vero, non l'ha detto lui. Ma se l'avesse detto, avrei fatto io spegnere le luci del ristorante, invece del guasto tecnico. Già, perché mentre mi parlava di Vivaldi, è andata via la luce. I camerieri hanno portato le candele. La cena è diventata una cena a lume di candele per più di un'ora, e io ad ascoltare le parole che uscivano come un fiume dalla sua bocca illuminata appena. Gli ho chiesto di dirmi il nome di un'opera di Vi-


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valdi, perché l'avrei ascoltata la mattina dopo, prima di andare a Messa. Beatus Vir, mi ha detto. RW 597. Poi mi ha detto altre duemila cose, ma per non confondermi ho isolato solo questa, e me la sono segnata sul cellulare. Ho da poco uno smartphone. Il mio primo smartphone, connesso a internet. A YouTube. Quindi saltando il resto della cena e la notte, mi risveglio e cerco il Beatus Vir di Vivaldi su YouTube e vado in bagno e tiro fuori la schiuma da barba e il rasoio e mi faccio la barba ascoltando il Beatus Vir di Vivaldi dal mio nuovo smartphone. Un'eresia. Tanto più che in quel momento arriva mio nipote di 3 anni e mi chiede: "cosa fai zio?". Io dico: "la barba col Beatus Vir di Vivaldi. Vuoi anche tu?". E lui se ne va. La fantasia al potere. Vivaldi. E allora prendo il libro dei Salmi. Beatus vir qui timet Dominum, in mandatis ejus volet nimis. Beato l'uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti. Si parla dell'uomo giusto. Della giustizia. La giustizia dura per sempre. Seguire i comandamenti del Signore dà tanta gioia all'uomo giusto. Oh, quanto vorrei essere un uomo giusto, un uomo che segue i comandamenti del Signore! Oltre a un uomo sbarbato. Ma da qualcosa si deve pur cominciare. E quanto vorrei che ci fossero tanti uomini giusti, che seguono i comandamenti del Signore! Per il momento sono un uomo appena sbarbato che ascolta gli ultimi minuti del Beatus Vir di Vivaldi dal suo smartphone. Per il momento ci sono tanti uomini che ascoltano tante cose dal loro smartphone. Da qualcosa si deve pur cominciare. Ma quanto vorrei che questi tanti uomini almeno ascoltassero il Beatus Vir di Vivaldi, dal loro smartphone. Chissà che poi non possa nascere anche nei loro cuori qualche desiderio di trasformarsi in uomini giusti. Comunque, fra non molto inizia la Santa Messa. Non escludo di poter trovare un coro, dietro l'altare, e quella persona di ieri sera, quell'avvocato di 35-40 anni non troppo simpatico ma molto simpatico con moglie e figlia e diverse passioni fra cui musica classica e storia nautica, impegnato come baritono nell'esecuzione di uno dei brani di cui è composto il Beatus Vir di Vivaldi. RW 597. Perché la 598, anche se esiste, non è ancora uscita dalle piccole casse del mio smartphone.


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<prossima uscita> novembre

REDAZIONE: Nicolettamai albertofabris elisabettabadiello giuseppesignorin danielefranco annabaldo federicotosato GRAFICA: Amosmontagna Editrice Millennium, piazza Campo Marzio 12 Arzignano (VI) www.corrierevicentino.it | blog@corrierevicentino.it


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