Cabaret Voltaire Dicembre 2011

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> Kenny Random

Welcome to Reality

Saggio sul Matrimonio\ Cramps \ Dipinto musicale \ Incipit&Explicit \ Eyeswideshut \ Heartbit \ Speaker's Corner

Dicembre Gennaio 2011/2


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Welcome to Reality 4 Exit Through The Gift Shop 8 Graffiti Art 10 Arte Urbana Inconsapevole 12 Il saggio sul matrimonio 14 Cramps Music 16 Dipinto Musicale 18 Incipit & Explicit 20 EyesWideShut 22 Heartbit 24 Speaker's Corner 26


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Sommario

http://on.fb.me/vfJPf6


Welcome to Reality 4

About Kenny di Alberto Fabris

Le foto on the road sono di Anna Illetterati, quelle scattate all'interno dello Spazio Tindaci sono di Alberto Fabris

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ino al 16 gennaio allo SPAZIOTINDACI di via Dante a Padova espone le sue opere Andrea Coppo, meglio conosciuto nel mondo della street art come Kenny Random. La scelta “autoriale” di Kenny Random è quella del non apparire mai, non esistono immagini che lo rendano riconoscibile, anche se l'ombra nera con cappello che appare improvvisa e inattesa sui muri padovani, non può non far pensare ad un alter ego, un'ombra senza volto che svela e cela allo stesso tempo la “presenza assente” del writer padovano. Le figure accartocciate su se stesse con le labbra grandi e lo sguardo

spento, sono ormai popolari e celebrate icone pubblicitarie e l'ombra nera con il gatto che accompagna discreto e in disparte le sue incursioni murali, sono ormai paesaggio urbano e danno senso all'espressione site specific che si dà alle opere nate per e sul luogo in cui vengono esposte. Ma Kenny Random non è solo uno street writer, è ormai un acclamato art designer, strada imboccata quando ancora si esibiva per le strade di Londra come giocoliere e un amico lo presentava al proprietario della linea di abbigliamento Blunt, che gli commissiona subito alcuni disegni per la collezione dell'estate 1998. Evidentemente i suoi segni si prestano benissimo al decò arrivando a griffare tavole

da surf, skate, tazzine da caffé, t-shirt, foulards, borse, firmando poi campagne pubblicitarie e video commissionati da MTV. Insomma Kenny Random non solo street artist, ma anche self made manager, brand di successo e produttore di merchandising ruvidamente glamour. E il titolo del suo libro/catalogo, che raccoglie splendidamente più di 400 lavori, Lies, ovvero menzogne, bugie, rivela forse un gioco di specchi con il titolo di un suo recente spray su tela: welcome to reality. Realtà e bugie, arte e business, arte e industria dell'arte, welcome to reality appunto, nel tempo in cui il reality è la più consumata menzogna.


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Exit Through the di Federico Tosato

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l mondo lo conosce come Banksy; sappiamo che è cresciuto a Bristol e che ad oggi è il maggior esponente della street art: spray, stencil, umorismo, ironia, messaggi e slogan antimilitaristi sono i suoi elementi di riconoscimento. Di lui non sappiamo praticamente altro, neppure quale sia la sua faccia o il nome, ma poco importa. Più rilevante è ricordarsi che alla fine dei Novanta organizza un raduno europeo di graffitari, evento che muterà per sempre lo status artistico di questa forma espressiva. Nel 2010 Banksy approda alla regia di un documentario che attraverso le testimonianze di alcune tra le più rilevanti figure della street art, fotografa l’attuale situazione di questa forma d’arte: Exit Through the Gift Shop. Il film è contemporaneamente una riflessione sul contraddittorio mercato artistico e

un manifesto programmatico sulla democratizzazione dell’arte contemporanea. Il lungometraggio ci fa conoscere Thierry Guetta, gestore di un negozio di abbigliamento vintage e appassionato di riprese video. Scoperto che Space Invader – il più noto street artist parigino – è suo cugino, si avvicina a questa pratica, prendendo a filmare gli artisti nel corso delle loro esecuzioni. Ne contatta molti, testimoniandone il lavoro, ma non riesce ad avvicinare proprio Banksy. A tempo debito sarà però lo stesso artista clandestino a farsi vivo col video operatore francese trapiantato negli USA. Ed ecco la genesi di Exit Through the Gift Shop, che il regista ha definito “un documentario su un uomo che voleva fare un documentario su di me”. Poco per volta, Thierry si tramuta in Mr. Brainwash, riconoscendosi artista pop.


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Gift Shop


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Graffiti Art di Federico Gobetti

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aki 183 Spawns pen pals”. È partito tutto da lì. Da quell'articolo del New York Times del Luglio 1971. Alcune righe che parlavano di un ragazzo, anzi, della sua firma, apparsa una notte nei muri, nelle panchine, nei lampioni, nelle carrozze della metro, in ogni luogo dove una mano armata di pennarello o bomboletta spray potesse arrivare a NY City. “Taki 183”, ovvero la tag (firma, ndr) del primo writer della storia. Più o meno. A voler essere certosini il primo graffittaro è stato uno sconosciuto uomo di neanderthal. Ma Taki è stato quello che dato vita a ciò che oggi è chiamato graffiti writing. O graffitismo. L'arte di abbellire le città con scritte e disegni. Di lasciare ovunque il proprio nickname e farsi conoscere. Arte? Scarabocchi? Vandalismo? Il confine tra cosa è e cosa non è il graffito è molto fragile.

Quello che è certo è che i graffiti sono una pura esigenza espressiva. Rappresentano l'urlo di chi vuole farsi sentire, ma non viene ascoltato. Di chi ha del talento, ma viene ignorato da chi si permette di decidere il valore di un'opera. E allora vai con la rivoluzione: niente più tele, tavole, gallerie e musei ma pareti, vagoni ferroviari, case abbandonate e orrendi spazi lasciati vuoti a cui regalare nuova vita. E via anche le case d'asta, i saccenti critici, gli affaristi, le ricche signore capricciose che vogliono il quadro in camera da letto. I graffiti sono per la “massa”. Per tutti. Per chi non vuole fronzoli, verità velate o voli pindarici di artisti depressi, ma chiede di capire l'arte. Di essere parte dell'opera. Di vedere che l'arte si occupa anche di temi sociali come l'aids, la guerra, la droga, la povertà, la corruzione, l'oppressione dei diritti umani.

Niente come le parole di Keith Haring, l'artista che forse per primo, e meglio di tutti, ha portato i graffiti ad essere Arte, possono spiegare il concetto: “L' arte è per tutti. Pensare che il pubblico non apprezza l'arte perché non la capisce e continuare a fare arte che essi non capiscono può significare che l' artista non capisce o non apprezza l'arte e prospera in questa “conoscenza dell'arte autoproclamata”, che alla fine è una grande stupidaggine. L'arte è tutto e ovunque. Il concetto di arte viene in mente a ogni persona nella vita di tutti i giorni in forme e idee infinite ed è indefinibile perché è differente per ognuno; l' arte è vita e la vita è arte; tutti si identificano con l'arte, non importa se ne siano consapevoli o lo ammettano o lo percepiscano”.


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Alberto Saltini

Arte, urbana, inconsapevole. O forse no.


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Il saggio sul matrimonio di Paolo Armelli

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er parlare de La trama del matrimonio, l’ultimo romanzofiume di Jeffrey Eugenides, pubblicato a sette anni dal precedente acclamatissimo Middlesex, devo aprire una parentesi autoreferenzialautobiografica: spesso noi di Cabaret Voltaire ci domandiamo se gli articoli che scriviamo (soprattutto questi qui di letteratura) non abbiano un aspetto troppo “saggistico” e meno l’incisività di un agile stile giornalistico-narrativo. Dico questo – lasciando poi il giudizio ai lettori – perché lo stile saggistico in Eugenides è una dominante quasi imprescindibile: nel tessuto narrativo delle varie vicende, l’autore inserisce numerose digressioni sui temi più disparati, dalle teorie di critica letteraria dei Formalisti e dei Decostruzionisti alla riproduzione diploide o aploide dei lieviti, dalla situazione dell’India negli anni ’80 con annessa Madre Teresa di Calcutta alle descrizioni degli effetti neurologici di certi farmaci

contro la depressione e così via. Ovviamente è un romanzo, anzi un buon romanzo e quindi tutto è trasmesso a chi legge con una certa agilità, soprattutto nei dialoghi, favoriti dal fatto che i protagonisti sono tutti neolaureati che discutono quotidianamente di saggi che hanno letto o lezioni cui hanno assistito. Ma tutta questa abbondanza di informazioni extranarrative è una caratterista estremamente peculiare, per non dire straniante, di una particolare generazione di scrittori americani che sono irrorati da questa potente vena saggistica (che sia Franzen che parla di ornitologia e bird-watching o Palahniuk che illustra l’industria del porno). Caratteristica, questa, sicuramente estranea al gusto editoriale italiano ma che ben volentieri si accoglie in testi importati dall’America. In questo romanzo s’incrociano appunto le storie di tre giovani troppo presi dal combattere le loro manie per vivere in modo usuale l’American way

dei primi Ottanta in cui la storia è calata: Leonard combatte contro il suo disturbo maniaco-depressivo fuggendo da un passato famigliare drammatico e dalla sua mente troppo geniale; Mitchell scappa da un rifiuto amoroso cercando se stesso nella fede cristiana e nel volontariato; Madeleine, quella che esce meno fortemente nel libro ma la cui ricerca è forse la più profonda, lotta per staccarsi dal suo conformismo da middle class, al contempo cercando di trovare un equilibro nell’amore e negli studi (specializzandosi, non a caso, sulle trame matrimoniali dei romanzi d’epoca vittoriana). Le loro storie s’intrecciano quanto basta perché tutti si feriscano l’un l’altro coi loro rispettivi egoismi (ma siamo tutti egoisti quando si tratta di cercare e salvare noi stessi): l’effetto un po’ disturbante è quello, però, che ognuno dei personaggi sia così ombelicamente concentrato sui problemi che l’affliggono da non curarsi di ciò che accade fuori


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nel mondo (Mitchell lo fa solo incidentalmente nei suoi viaggi, ma viaggia come viaggiano tutti gli Americani…). Questi giovani appena usciti dall’università, poi, sezionano ogni sentimento e ogni situazione con rigore accademico (spietato, molto spesso), dimostrando la sterilità e la crudeltà di tante illusioni ed emozioni umane (fra filosofia e misticismo, anche qui ritorna la vocazione saggistica). Più si è culturalmente consapevoli della propria entrata nel mondo, sembra dirci Eugenides, più si soffre. Paradossalmente ogni qual volta la trama si sofferma sui temi dell’amore e del matrimonio (pasticciato, improvvisato, sciagurato, premeditato al limite dell’ossessione), emerge ancora più chiaramente la solitudine di questi destini che si uniscono solo a patto di mettere assieme le rispettive idiosincrasie ma senza mai poter arrivare a una conciliazione positiva (“E a volte erano molto tristi”, recita il titolo della

penultima parte). Eugenides ha il merito di mettere assieme tutte queste disperazioni in maniera impeccabile, spostandosi da un punto di vista all’altro e cucendo assieme salti temporali anche vistosi e a scatola cinese con rara maestria. La distanza temporale da cui narra, poi, gli consente l’uso di un’ironia potente e pervasiva, spesso compiaciuta, che è impietosa a sottolineare le bizzarrie degli atteggiamenti e delle pose degli individui, poi non tanto diversi da quelli che popolano i giorni d’oggi. In generale, si può dire che La trama del matrimonio sia un libro tecnicamente avvincente, ma non facilmente digeribile: c’è tutto un universo di insicurezza e sofferenza lì dentro, ci siamo dentro tutti noi, quando siamo stati (o ancora siamo) giovani, stupidi, pieni di noi, però mai così incerti e depressi. Tutti in cerca di un qualcosa, un matrimonio magari, che ci dia un briciolo di stabilità.

Gli intenditori apprezzeranno il romanzo anche per un altro aspetto gustoso. Questi scrittori americani della generazione “saggistica” – soprattutto Eugenides, Frazen, Wallace – hanno raggiunto il successo praticamente nello stesso periodo e nello stesso ambiente, New York: inevitabile dunque che fra loro siano nate relazioni di amicizia, spesso profonde e altrettanto spesso venate di ammirazione come di invidia. Innegabile che Eugenides abbia voluto in questo romanzo rendere omaggio l’amico David Foster Wallace, morto suicida nel 2008, inserendo nei suoi pro-

tagonisti aspetti peculiari del compianto collega: Mitchell è tutto preso da una ricerca mistica e spirituale che lo porterà ad avvicinarsi al Cristianesimo; Leonard, invece, che assomiglia ancora di più allo scrittore, ha in comune con lui la depressione, la dipendenza da farmaci, l’abitudine di masticare tabacco, la predilezione per larghi maglioni di lana, i capelli portati lunghi e le bandane a raccoglierli. Sembra proprio un tributo speculare a Wallace, con una sola piccola eccezione finale. Perché si sa che i romanzi sono molto spesso più clementi della vita.


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cramps music la musica totale di Federico Gobetti

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enire a sapere che la sede della mitica Cramps Records è ad Altavilla è come per un bambino scoprire di avere Disneyland dietro casa. Quando entro nell'ufficio sembra di venir catapultati direttamente nei “seventies”, (computers a parte). Alfred Tisocco e Alan Bedin sono i due ragazzi che hanno fatto rinascere questa grande “etiquette” d'avanguardia produttrice di artisti del calibro di Area, John Cage, David Tudor, Demetrio Stratos e tanti altri compositori della “musica totale”. Alfred risponde alle mie domande. Quando è nata Cramps? Cramps nasce a Milano nel 1973. Viene fondata da Gianni Sassi, designer e attivista politico.

Quali sono state le prime pubblicazioni? Il primo album marchiato Cramps Records è stato “Arbeit Macht Frei” degli Area. Un capolavoro. Sassi vide in questo disco l''unione perfetta tra arte e musica. Tra sperimentazione musicale e divulgazione di un messaggio sociale. E poi ci fu “John Cage”, di John Cage. Il padre della musica del silenzio. Altro album a dir poco rivoluzionario. Come mai questa particolare attenzione verso la musica sperimentale? Semplice: passione per la musica. Assieme al desiderio di far evolvere il “suono mediterraneo”. Passare da semplici canzonette fino diventare pura avanguardia a livello internazionale. Creare un puro

“concetto culturale” fatto di note, gruppi, idee, artisti e compositori con un solo obiettivo: far diventare la musica un effettivo mezzo di comunicazione. Oggi di cosa si occupa Cramps? Il lavoro che facciamo è raccogliere, restaurare e ricostruire il catalogo originale Cramps e riproporlo al pubblico. Pubblichiamo ristampe, ma anche inediti di artisti emergenti con varie etichette come la “Disastro Records”, “Musica Futurista” e “Pop Trades” Non siete mai stati accusati di opportunismo per aver pubblicato lavori già fatti e già sentiti? Sì, spesso succede. Soprattutto oggi che tutti fanno e cercano di vendere il “vintage”. Alla fine però il numero dei comlimenti supera quello delle critiche.


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Cosa cambia tra la scena artistico/musicale degli anni settanta e quella contemporanea? Una volta l'arte e la sperimentazione (anche musicale) erano molto più popolari. Oggi sono diventati un fenomeno di nicchia. Anche se negli anni settanta c'era tanto disordine formale che faceva male all'arte. Cioè? Cioè nascevano continuamente nuovi gruppi artistici. Senza nessun manifesto e nessuna regolarizzazione formale. Un “ensemble” artistico ha sempre bisogno di un manifesto per non diventare un caos qualunquista. L'arte quando diventa individualista si sporca e perde la propria essenza. Per info: www.cramps.it


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IL DIPINTO MUSICALE la fotografia racconta la musica di Elisabetta Badiello

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rte chiama arte in un dialogo tra musica e fotografia dove la prima ammicca e l’altra rivela. Difficile immaginare un linguaggio estemporaneo e senza tempo come quello della fotografia che racconta il divenire della musica, la prospettiva del suono e la magia dell’esecuzione. Eppure guardando gli scatti non si riesce a trattenere lo stupore. La solitudine di uno strumentista con la sua tromba, la magia dell’orchestra durante la prova generale, una chiave di violino che diventa elemento grafico o la vibrazione del suono che si percepisce nei contorni cinetici delle figure che sembrano dissolversi. Uno squarcio di colore che irrompe sul direttore d’orchestra, la sagoma di un violinista che dialoga con la sua ombra o il bianconero che attraverso la luce esalta i contrasti.

Una mostra che nasce dalla collaborazione tra OTO, Orchestra del Teatro Olimpico, e i fotografi di Confartigianato Vicenza. Per un’intera stagione musicale l’Orchestra si è prestata all’occhio di undici fotografi che hanno così potuto indagare e ritrarre i musicisti durante le loro esecuzioni, fossero prove o spettacoli in pubblico, sul palco o dietro le quinte. Ne è nato un lavoro straordinario dalla cui imponente mole sono state scelte tre immagini per ciascun fotografo a testimonianza della “foto di musica” così come definita da Cesare Galla nella prefazione al libro “Improvviso. Scatti all’Orchestra del Teatro Olimpico”. Le immagini presentate inizialmente al Teatro Comunale per l’inaugurazione della stagione dell’Orchestra, saranno esposte a Vicenza al ViArt dal 21 dicembre al 15 gennaio.

ViArt - Contrà del Monte, 13 Vicenza Martedì, giovedì, sabato e domenica: 10:00-12:30; 15:00-19:00 mercoledì, venerdì: 15:00-19:00 www.viart.it


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INCIPIT&EXPLICIT

a proposito della fine Paolo Armelli Si diceva l’altra volta della fatica, della violenza quasi in cui incappa lo scrittore nell’iniziare la sua opera. Ma si potrebbe fare lo stesso discorso per le conclusioni. La storia della letteratura mondiale è costellata di libri mai finiti, per le più svariate ragioni (qui si era già accennato al discorso a proposito de Il partigiano Johnny): ad esempio moltissime opere medievali giunte fino a noi sono, in gergo tecnico, anule, cioè prive di finale perché sono andate perse le ultime pagine dei manoscritti che le tramandano, oppure queste pagine sono state abrase e riscritte, macchiate di umido, rosicchiate dai topi – veri e propri – di biblioteca. In un’epoca digitale come la nostra, di conservazione ad oltranza della memoria, che non si conosca come vada a finire una storia per via di banali “incidenti” tecnici è molto ironico.

Col passare del tempo, e con l’invenzione della stampa, molto spesso le opere rimanevano incompiute (non parliamo della Salerno-Reggio, sia chiaro) per motivi più legati all’autore in sé: morti premature o improvvise, impossibilità materiali, dimenticanze, frustrazioni varie. Il periodo prediletto per questo tipo di casi sembra essere quello che si affaccia sull’età contemporanea: da Bouvard et Pécuchet di Flaubert a L’uomo senza qualità di Musil, da Il processo di Kafka a Petrolio di Pasolini, sembra che più entri in atto la crisi dell’io moderno più gli scrittori per varie ragioni difficilmente riescono a terminare le loro fatiche. Tutto questo per arrivare a dire, alla fine, che anche questa rubrica giunge al termine. L’anno nuovo vedrà nascere nuovi spazi di discussione letteraria. Come si è visto nel corso di queste rubriche,

quasi sempre tutto ha un inizio e tutto una fine. Bisogna imparare ad accettarlo, soprattutto in letteratura, e non arrendersi al fatto che…

Agota Kristof, Trilogia della città di K. Einaudi “Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.” * “Penso che presto saremo di nuovo tutti e quattro insieme. Morta Mamma, non mi rimarrà nessuna ragione per continuare. Il treno è una buona idea.”


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eyes|wide|shut

Presa di coscienza. Americana. Federico Tosato Salvo eccezioni, nel dipanarsi di una qualunque vicenda i personaggi palesano una qualche evoluzione (o involuzione) che denota una loro presa di coscienza; questo, chiaramente, a prescindere dalla condizione socioeconomica, politica o culturale dell’attante in questione o del microcosmo umano col quale interagisce e nel quale si muove. A tal proposito, vi siete mai chiesti se a dieci anni e spicci dagli attacchi terroristici che hanno messo in ginocchio gli Stati Uniti, la cinematografia made in USA abbia voluto o potuto tratteggiare il percorso morale (di coscienza, appunto) che la popolazione ha compiuto da allora ad oggi? Ovvero, credete che lo shock, il sentimento di revanche e il senso di colpa che per forza di cose hanno coinvolto milioni di individui nel Nuovo Continente alle soglie del terzo millennio, siano stati puntualmente tratteggiati dal cine-

ma, tanto da poter evidenziare una qualche evoluzione rappresentabile poi narrativamente, oppure no? Il loro – e in buona parte il nostro – stato d’animo, è oggi il medesimo di allora, o gli anni hanno permesso di riassorbire quel trauma? E questo assorbimento, ammesso che ci sia stato, il cinema l’ha rappresentato? Per accertare una tale evoluzione riscontrabile di sceneggiatura in sceneggiatura, occorrerà analizzare in ordine cronologico alcuni lavori realizzati negli States a partire dal 2002; film che, per un verso o per un altro, si legano all’11 settembre 2001, a volte in maniera esplicita, palese, a volte più latentemente. Osserviamo quindi che i film che possiamo definire di genere drammatico, muovono da alcune personali meditazioni autoriali (11 settembre 2001 [2002]), per poi riflettere prima sulla storia che ha condotto all’oggi (Gangs of New

York [2002]) e quindi sull’oggi stesso, tratteggiando però una contemporaneità traumatizzata e perciò ancora scevra di prospettive e di speranze (La 25ª ora [2002], Elephant [2003], Mystic River [2003]). Questo per poi invece, nonostante la severità morale della narrazione e i limiti che la paura ancora ci impone (The Village [2004]), lasciare uno spiraglio alla possibilità del cambiamento (A History of Violence [2005]) o perlomeno all’eventualità di una presa di coscienza che possa, domani, portare a riflettere sulle ragioni e sulle colpe di ognuna delle parti in causa (Munich [2005]), ponendole anche a confronto (Five Fingers - Gioco mortale [2006]). Una volta riassorbito il trauma o una sua parte rilevante, il dramma derivato dall’11/9 lo si può affrontare a viso aperto (World Trade Center [2006], United 93 [2006]), senza più bisogno

di una struttura narrativa di finzione, che per esorcizzare le angosce e il desiderio di rivalsa o per alleviare il rimorso, rimandi agli accadimenti per mezzo di allusioni, allegorie o suggestioni. D’ora in poi il cinema sarà elemento di riflessione, ci spingerà ad esempio a interrogarci sulla legittimità della vendetta (Il buio nell’anima [2007]), tanto invocata proprio nei confronti dei terroristi suicidi, ma perseguendo la quale rischiamo di perdere la nostra umanità. Umanità che invece, dopo alcuni anni di apnea, ritrova respiro nella volontà di esprimersi contro la diffidenza nei riguardi del diverso da sé (L’ospite inatteso [2007]), tanto in auge nel post 11 settembre e nella solidarietà che conduce ad una nuova speranza (Reign Over Me [2007]), o perlomeno ad una seconda chance che ci permetta di intravedere un domani più sereno (Gran Torino [2008]).


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HEARTBIT

IL DOLCE SAPORE DEL MIRTO DJ Chemikangelo

Compost/Schema records

Si resta attaccati al passato per non perdere l’orientamento. Tornano i cantautori, e questa volta sono parte della nostrana scena “Indie”. Senza contare il contagioso suono degli anni '80, ormai prassi consolidata del rispolvero da club e non solo. Una volta era in questi dissesti che nascevano le scene: è successo negli anni 60, con il rock e i festival, intesi come momenti di obiezione e cultura, e poi nei 70 col punk e la new wave, senza contare gli 80 del rap e della Cnn dei neri pre-internet. E adesso? Ora tutto si risolve in una confusione che diviene eco lontana. Dove finisce il sogno e dove inizia la realtà? Sogno o sono desto? Sorge dunque il “do-ityourself” elevato a zeri e uni che sconvolgono ogni regola matematica e offrono palchi reali e virtuali ad etichette e band fatte in casa, mandando in tilt il mercato. An-

dazzo rilassato da chill-wave, con qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo per sposare l’attimo fuggiasco, prima che sia già un’altra la contemporaneità, ma con un piede nel passato per non perdere l’equilibrio. Ed eccoci cosi’ ad uno dei nomisorpresa dell’anno in corso, il trio trentino Casa Del Mirto, una delle realtà musicali più prolifiche che ci siano in Italia. A nemmeno un anno di distanza dal precedente album ”1979” (pubblicato anche in versione remix), che gli ha permesso di ricevere attestati di stima nientemeno che dal quotidiano inglese The Guardian, senza contare che la band ha già all’attivo ben tre EP in free downloading, i trentini danno alle stampe il nuovo album “The Nature”, su propria etichetta Mashhh! Records. Diciassette tracce che lasciano senza fiato, una vena synth pop

anni ‘80 suonata alla moviola e vellutata brezza downbeat, un flusso di voci immerse nel riverbero digitale e lente melodie malinconiche, intimiste che toccano il cuore. Marco Ricci, il cantante/tastierista ci confida: “La musica è in perfetta sincronia col battito del mio cuore ballerino. I sintetizzatori sono onde di mare, a volte tanto forti da coprire tutto il resto. La voce è un elemento insicuro e spaventato, che si lascia travolgere e trasportare dalle onde". Si parte dall'eredità elettronica dell'italo disco, e dalle evoluzioni cosmiche e chill-wave di questo genere seminale, incanalando il tutto in un flusso viscerale che cerca, e forse addirittura trova, eternità nel delay. Saturazioni che stravolgono il concetto fisico e matematico di musica seguendo la libido, lasciandosi guidare dai sensi e dall'animalità umana. Un sodalizio con la natura che fa diventare

l'istinto poesia e viceversa. Davvero un bel regalo natalizio questo loro cd per i numerosi amanti della Nostalgia ’80, un piccolo gioiellino musicale come strenna natalizia. Un Buon Natale ed un Sereno Anno Nuovo.


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SPEAKER’S CORNER

Fantozzi il Grande Marco Piazza Il personaggio di Fantozzi nacque alla fine degli anni ’60, quando Paolo Villaggio cominciò a raccontare in televisione le avventure di un suo collega all’Italsider, un impiegato perseguitato dai colleghi e sommerso di lavoro, sperduto all’interno di quell’anonima realtà lavorativa. In questo modo Villaggio riuscì ad descrivere in maniera ironica ma efficacissima la società italiana del boom economico, in particolare la classe media impiegatizia, ipocrita, arrivista e servile, e la classe dirigente, infantile nei modi, sadica nei confronti dei sottoposti, falsamente magnanima e liberale. Tra queste due ganasce della società tenaglia si ritrova Fantozzi, l'eccesso tragicomico vivente, la cui umanità è annientata dalle disgrazie che lo investono (sia al lavoro che in famiglia) e a cui reagisce senza successi. Il personaggio diventa l'emblema

dell'uomo sottomesso, passivo dinanzi al destino, incapace di combattere la sorte avversa, oserei quasi definirlo una vittima come la intende il filosofo Girard: Fantozzi rappresenta il capro espiatorio di una violenza collettiva che viene canalizzata verso un innocente, e la cui sopraffazione ricrea un'armonia (seppur momentanea) nella società. La saga di Fantozzi raffigura la società borghese degli anni settanta, che condanna alla malasorte e alla sottomissione l’uomo privo di abilità e fortuna, ma anche di furbizia. Una società che ha da poco cominciato a percepire i benefici dello sviluppo economico, ma che è già succube della logica consumistica, dove regna l’esibizione di sé e la ricerca del divertimento (nel senso pascaliano del termine): in una contesto di benessere materiale si può notare un profondo

disagio esistenziale, che scatena la violenza repressa dei colleghi e dei superiori. Fantozzi è dunque il perfetto alienato in una società alienata, è il diverso e solo in una società manipolata, alla continua e incessante ricerca del riscatto che mai verrà: Fantozzi è migliore rispetto a tutti gli altri, che credono di essere superiori a lui, perché confida ingenuamente nella redenzione dei vinti. Paradossalmente, come confida lui stesso alla moglie alla fine di una delle pellicole, è cosciente del suo dramma, ed in quanto cosciente può considerarsi trionfante: “io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande perditore di tutti i tempi.” I giovani sicuramente sorridono ricordando quella che rimane una delle più feroci critiche di una so-

cietà ingorda e arraffona, ma è un sorriso amaro: anche se disprezzato, Fantozzi ha un posto di lavoro (fisso), ha potuto costruirsi una famiglia, comprarsi una casa, a differenza dei bamboccioni precari, invisibili e soli che vivono in una società che non garantisce loro un futuro, e che li umilia per questo. “Cornuti e mazziati”.


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<prossima uscita>

febbraioduemiladodici

REDAZIONE: Nicolettamai albertofabris elisabettabadiello paoloarmelli federicotosato marcopiazza federicogobetti chemikangelo FOTOGRAFIA: Albertosaltini GRAFICA: Enricocapitanio | Editrice Millennium, piazza Campo Marzio 12 Arzignano (VI) blog@corrierevicentino.it

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