Cabaret Voltaire Marzo2011

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> Tracce verso il nulla, vent'anni dopo.

Twin Peaks

Misfits+Liberi di scegliere+Art Prize Laguna+Scientisti e antiscientisti+Incipit&Explicit+Eyeswideshut+Heartbit+Speakers'Corner=?

Marzo 2011


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Alberto Fabris Soundtrack Floating Into The Night -Julee Cruise-

agente Cooper, la crostata di ciliege, Audrey, la donna con l'occhio bendato, lo sceriffo Truman, Donna Hayward, James, il malefico Bob, la Signora del Ceppo: nella primavera del 1991 Canale Cinque inizia a trasmettere Twin Peaks, la serie tivù che a distanza di vent'anni non cessa di essere la serie di riferimento per qualsiasi fiction con pretese “autoriali”, pietra di paragone per ogni tentativo “alto” d'intrattenimento televisivo. L'oscurità, il fascino perverso del mistero e delle sue innumerevoli false piste, la vertigine che trascina nel baratro degli intrecci complicati e sorprendenti non smette di contagiare gli spettatori confermando lo statuto di culto della serie seminale per eccellenza. In occasione dei vent'anni dalla sua apparizione televisiva italiana non sono mancate le riproposizioni televisive e ristampe in dvd con edizioni speciali ricche di contenuti e di buona qualità, è il momento per un omaggio e una riscoperta, buona visione!


inPeaks 5

"Mi piacciono le tenebre, la confusione e l'assurdo, ma mi piace anche credere che ci sia una piccola porta che mi permetta di uscire da tutto questo per raggiungere un mondo di felicitĂ ".

David Linch


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Distorsioni

Doppio

Aldo Grasso osserva che Twin Peaks “sancisce un nuovo modo di raccontare, quello della multitrama”, una scommessa sulla capacità del telespettatore di accettare una distorsione dello schema tipico: crimine-indagine-soluzione. Gli autori Mark Frost e David Lynch piegano, distorcono, strappano, dissimulano, insinuano, alludono, disturbano, usano la sgradevolezza, l'insolito, la malattia e la deformità come “testo” del racconto e Male immanente e in/naturale come tessuto della narrazione . Dopo una partenza nell'episodio pilota apparentemente convenzionale, un'atmosfera malsana e sempre più costellata di intrusioni dell'irrazionale, di visioni e di sogni che anziché risolvere, complicano e deviano lo spettatore, irrorano lo schermo di false piste e false “illuminazioni”.

Se al doppio allude il nome stesso Twin Peaks, Cime Gemelle, doppia è anche la fenomenologia del Male che Lynch e Frost mettono in scena, quella della mano che uccide Laura Palmer e quella delle apparizioni maligne che alludono ad una dimensione “altra”, trascendente e magica. Doppie sono anche le esistenze di tutti i protagonisti, mano a mano che la narrazione avanza scopriamo che nessuno è quello che sembra, che tutto e tutti nascondono un loro “doppio”, un mondo nascosto complementare e occulto. Tutto è incerto nel suo sdoppiarsi, nel suo divaricarsi nel suo continuo scambio di “condizione” tra il manifesto e l'oscuro tra la luce e l'ombra.


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Deformità

Della Natura

Il nano, lo storpio, l'uomo senza un braccio, la donna senza un occhio. La fascinazione del deforme è una costante nell'immaginario lynchiano, fascinazione che si nutre di apparizioni non solo marginali ma spesso “significanti”, per ricordare allo spettatore che la realtà non è mai lineare e spiegabile nella sua interezza ma sempre deviante e “deforme” nel suo imperfetto manifestarsi. Far accettare lo sgradevole come categoria estetica della messa in scena è stato il successo di Twin Peaks.

Tutto è natura in Twin Peaks, grandi foreste, uccelli, montagne innevate, l'elemento naturale partecipa del pathos filmico, legno, legno ovunque, nelle case, nei negozi, lungo le strade la risorsa principale del paese pervade ogni angolo e sembra respirare minacciosa e ingombrante. Le foreste sono lo scenario degli occultamenti notturni, degli incontri clandestini tra il verso dei gufi e lo stormire delle fronde, di giorno spandono nell'aria profumi che la notte lasciano il posto a nebbie e sagome sinistre.


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Vittorio Serpieri Soundtrack: anarchy in the uk -sex pistols-

LA FILOSOFIA non c'entra con misfits isfits è il ritratto di una de-generazione. Per fare un facile parallelo: se per Spider-man (1962) da grandi poteri derivavano grandi responsabilità; oggi, per i protagonisti di questo telefilm inglese, da grandi irresponsabilità derivano grandi poteri. Nathan, Kelly, Simon, Alisha e Curtis sono, infatti, cinque cattivi ragazzi. Di quelli che si spera i propri figli non frequentino mai. Sono l'antitesi del modelli di comportamento passati per anni in televisione via Happy Days e affini (Dawson's Creek & co). Sono personaggi per cui lo sballo, la volgarità, la violenza, la menzogna non sono dei disvalori dai quali emanciparsi; bensì dei valori da difendere. E, un po' come ne Il Padrino o in Romanzo Criminale, alla fine lo spettatore si ritrova a fare il tifo per i personaggi brutti, sporchi

e, soprattutto, cattivi. I cinque si incontrano ai servizi sociali obbligatori. Ognuno di loro ha combinato qualcosa (dal possesso di droga al furto) che ora dovrebbe espiare. E invece proprio i loro difetti, i loro disvalori, diventano punti di forza e motivi di fascino. Proprio perché sono dei cattivi ragazzi costretti ai servizi sociali, essi ricevono dal cielo dei superpoteri che enfatizzano all'ennesima potenza ad ognuno il proprio particolare difetto. E ovviamente, questi superpoteri, non vengono messi a disposizione del “bene” (come norma prescrive), ma a servizio della perpetuazione di questi disvalori. Niente espiazione, ma preservazione. La puntata più esplicita in questo senso è l'ultima della prima serie in cui un manipolo di ragazzi si oppone ai protagoni-

sti del film con lo scopo di “convertirli” al “bene”. Il rispetto, l'educazione e la pulizia sono i valori che essi portano avanti. Ma i nostri eroi non sono i “buoni”, sono i “cattivi”, per cui siamo noi, assieme agli sbandati Nathan, Kelly, Simon, Alisha e Curtis, che vogliamo che la morigeratezza perda, siamo noi che combattiamo fianco a fianco con i “cattivi”. E soprattutto, siamo noi che proviamo un sottile e soddisfacente piacere quando il “male” trionfa e i belli, puliti e buoni periscono. Misfits, insomma, è una perversa soddisfazione dei nostri perversi desideri. È un proiettarci, via fiction, nei panni del bruto a cui è permesso fare il bruto. È uno sfogo, un godimento senza catarsi. Perché in fondo, e spesso nemmeno troppo in fondo, tutti siamo un po' cattivi e, comunque, tutti vorremmo un po' esserlo.


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Lo Stile non c'entra con misfits

otale omogeneità tra trama ed estetica. È questo uno dei punti di forza principali della serie. La particolarità dei personaggi, l’inversione dei valori e l’eccentricità delle situazioni vanno di pari passo con le scelte registiche che, seppur non originalissime, rispecchiano il mood postmoderno che pervade Misfits. E quindi: uso massiccio di macchina a mano; una fotografia e delle scenografie che giocano tutto sui toni del bianco e del grigio; una “qualità” dell’immagine che strizza l’occhio al documentario piuttosto che alla soap opera patinata. Quindi, esteticamente, tutto sporco, brutto e cattivo,

come i personaggi principali. Succede poi che, nel solco della mescolanza dei generi del postmodernismo, assieme all’effetto realtà dello stile documentaristico si aggiungono gli “effetti speciali” che si discostano al 100% dalle leggi della fisica. Succede quindi che la realtà si trasformi in un videogioco 3d, che si abbattano le barriere dello spazio e del tempo, che interagiscano con l’ambiente delle presenze ultraterrene. Anche questi inserti fantastici in una visione ultrarealistica sono, nella loro eccentricità, perfettamente miscelati con lo spirito della serie TV se è vero, come è vero, che nel descrivere dei (cattivi) per-

sonaggi assolutamente verosimili, li si dota fin dalla prima puntata di superpoteri assolutamente inverosimili. In Mitsfits, insomma, gli opposti si incontrano, si amano e si completano in maniera talmente organica che alla fine allo spettatore non rimane l’impressione che la serie TV sia la somma di più addenti diversi e inizialmente divisi. Resta, invece, un senso di omogeneità che fa in modo di rendere quasi logicamente credibili esperienze (come il viaggio nel tempo, l’invisibilità, il teletrasporto etc…) che tali non sono, arricchendo così l’intero processo narrativo e il coinvolgimento di chi guarda.


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Liberi di scegliere Paolo Armelli

o scrittore Alessandro Piperno, nel recensire l’uscita in Italia di Libertà, il nuovo libro di Jonathan Franzen (pubblicato negli Stati Uniti l’anno scorso col titolo originale Freedom), cita una frase di Kafka: “Tu sei libero. E di qui inizia la tua perdizione.” Nemmeno l’autore, probabilmente, avrebbe potuto scegliere un’epigrafe così efficace per un libro del genere, un libro che ci mette di fronte all’epopea quotidiana d’America, alla sua incommensurabile, libera grandiosità, ai limiti di quella che è la delizia e la croce umana per eccellenza: la scelta. Freedom è un romanzo complesso, non solo nella sua struttura formale ma anche da leggere. Ad esempio, pur essendo effettivamente notevole, ha dei punti

di una noia e di una cavillosità da far desistere anche i meglio intenzionati. Eppure lascia un segno chiaro soprattutto nel finale, che è scontato ma talmente ben scritto da essere l'unico possibile per una storia così. L'effetto complessivo è quello di una grande cattedrale ben (forse troppo) strutturata. Dopo Le correzioni (la sua terza opera, ma che l’ha lanciato come enorme rivelazione nel mondo letterario americano nel 2001), Franzen torna a dipingere un grande affresco di una famiglia, i Berglund, in cui tutti i componenti sembrano essere a loro modo disfunzionali: la madre ex campionessa ormai devota alla vita casalinga ma non appagata dalle scelte fatte, il padre perfezionista che combatte le sue personali lotte contro i


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“Volevo scrivere un libro che mi rendesse libero in qualche modo. E dico libero secondo un astratto concetto di libertà: è possibile essere più liberi se si accetta chi si è e si va avanti rimanendo la persona che si è, che non seguendo la falsa libertà del poter essere qualsiasi cosa.” Jonathan Franzen “Colui che avrà superato le sue paure sarà veramente libero.” “Colui che avrà superato Aristotele le sue paure sarà veramente

libero.” Aristotele

“Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e a la sua bontate più conformato, e quel ch'e' più apprezza, “Lo maggior don che Dio per sua larghezza fu de la volontà la libertate” Dante fesse creando, e a la sua bontate

più conformato, e quel ch'e' più apprezza, fu de la volontà la libertate” Dante mulini a vento della protezione ambientale e della politica, il figlio che vuole ribellarsi a tutti i costi al volere famigliare e quindi sposa l'insignificante vicina di casa e finisce per mettersi nei guai cercando una propria indipendenza, la figlia troppo apatica per accettare qualsiasi situazione. A un quadro già complesso di suo, l'autore aggiunge tutto quello che si potrebbe aggiungere: i campus universitari, democratici contro repubblicani, l'11 settembre, la salvaguardia dell'ambiente, la speculazione sulla guerra in Iraq, gli ingranaggi macchinosi di fondazioni e politica, la colonizzazione condominiale delle ultime oasi incontaminate di paesaggio americano, le relazioni fra attempati manager ed esotiche assistenti (chissà mai

siano i veri amori, quelli), le rockstar che non riescono a sfondare, teoria delle decrescita e sovrappopolamento mondiale, i viaggi cliché in Messico... Insomma ci mette dentro l'America. E non è cosa da poco, visto che la vediamo con gli occhi di chi la vive dal di dentro con tutte le sue contraddizioni. I personaggi che la animano sono in effetti piuttosto irrisolti e in qualche modo alla fine li si odia quasi tutti. Si odiano le loro imperfezioni, le loro scelte infantili, i loro battibecchi senza conclusione e scopo, il loro tentennare, il loro rompere con tutto e tutti. Ma alla fine - è questo, probabilmente, il punto di arrivo del romanzo - si riconosce che sono persone libere e, proprio per questo, sbagliano.

“Volevo scrivere un libro che mi rendesse

libero in qualche modo.

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dico libero secondo un astratto concetto di libertà: è possibile essere più liberi se si accetta chi si è e si va avanti rimanendo la persona che si è, che non seguendo la falsa libertà del poter essere

qualsiasi cosa.”

Jonathan Franzen


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“Nessuno può essere libero se costretto ad essere simile agli altri.” Oscar Wilde “Non vale la pena avere la libertà se questo non implica avere la libertà di sbagliare.” Gandhi “Emancipatevi dalla schiavitù mentale, nessuno se non noi stessi può rendere la nostra mente libera.” Bob Marley “Libertà è un altro modo di dire che non si ha più niente da perdere.” Clint Eastwood

Analogamente alla protagonista femminile che ripercorre in un’autobiografia imposta dal suo terapista la propria vita – La coscienza di Zeno docet, anche il lettore è indotto a rivalutare la propria esistenza interpretandola come una catena di scelte e di errori. Ma alla base di tutto c'era sempre la libertà, la coscienza di voler definirsi e andare avanti. "Mistakes were made", sono stati fatti degli errori, dice il memoriale psicanalitico della protagonista: tutti facciamo errori e per questo il fastidio che proviamo per quei personaggi in fin dei conti si trasforma in comprensione, un po' come succede fra loro nell'epilogo. Non è un caso che il libro arrivi a distanza di dieci anni dal precedente e che

l’autore ci abbia messo così tanto tempo e così tanta energia per realizzarlo: Franzen ha voluto condensarci dentro un’epoca la quale forse ci lascia dentro nient’altro che un sentimento ultimo di insofferenza, di fallimento, ma anche di sfiorata autocoscienza. Non risulta strano che un’icona dei nostri tempi come il presidente Obama abbia definito il libro “stupendo”. In effetti il nodo cruciale sta lì, nel fondamento stesso degli Stati Uniti e del mondo occidentale come, in grande e piccola scala, lo conosciamo oggi. Alla fine vien da pensare che di troppa libertà si possa anche soffrire, ed è forse quello che lo scrittore vuole sottendere facendoci attraversare decenni di storia degli Stati

Uniti in cui un eccesso di questa abusata "libertà" ha fatto anche troppi danni (in effetti l'interpretazione politica del testo può essere molto più estesa e pregnante di quanto qui non si voglia soffermarsi). La Storia con la s maiuscola rimane però quasi un sottofondo, tutto è ridotto alla personale, irrazionale odissea di ognuno. Perché Franzen descrive storie che essendo umane, troppo umane risultano a tratti orribilmente banali. Ma solo perché in esse in fondo riconosciamo gli errori delle nostre stesse vite.


Miazbrothers, Antimaterai

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La mostra è visitabile fino al 22 marzo. Nappe Arsenale, Venezia 10am – 8pm www.artelagunaprize.com


Art Prize Laguna 17

Elisabetta Badiello

enezia non è soltanto la città d’acqua più affascinante e sognata del mondo ma un centro dinamico, fucina e crocevia per tutto quanto c’è di nuovo. Una città dove non mancano gli spazi e nemmeno le idee. Sotto i riflettori le Nappe dell’Arsenale, dove hanno trovato ospitalità i 110 finalisti del 5° Premio Internazionale “Arte Laguna”. La serata inaugurale si preannuncia magica. Complice un tiepido sabato sera di marzo ci addentriamo nel sestiere di Castello per scovare l’ingresso alle Nappe. Giunti all’approdo di Celestia lo sguardo scorre dalle luci di San Michele, cimitero sospeso sulla laguna, al profilo di Murano da cui svetta il campanile. Una passerella sospesa sull’acqua corre lungo il lato nord dell’Arsenale fino

all’ingresso che si apre su ampi spazi. Sono gli stessi che in passato hanno ospitato uomini laboriosi, intenti ad intrecciare funi e varare navi orgoglio della Serenissima Repubblica mentre oggi accolgono le realizzazioni di artisti che si confrontano nelle cinque sezioni in cui si divide il concorso: pittura, scultura, fotografia, video arte e performance. Si tratta di un premio internazionale che offre una visione ricca e articolata della complessità contemporanea in campo artistico. Differenti approcci e culture che sfociano in una moltitudine di linguaggi e forme espressive alla ricerca di una nuova definizione dell’esperienza estetica. Il tutto privo di mediazione. Gli artisti vengono accettati senza limitazioni, si autocandidano. Niente filtro da

parte di critici e gallerie. È la giuria del premio a decidere quale artista ritiene rilevante nel panorama nazionale e internazionale. Sono 6000 le opere presentate per la 5° edizione del premio, provenienti da 95 paesi. I 110 finalisti (100 opere e 10 performance) sono per il 47% italiani e 53% stranieri. Tra questi ultimi molto Oriente ma soprattutto la Cina, a dimostrazione del crescente interesse verso l’est. Novità provengono anche da paesi come gli Emirati Arabi, Kazakistan, Tailandia, Equador, Isole Filippine, Pakistan e Costa Rica che cominciano a fare la loro apparizione nel circuito dell’arte soltanto di recente. Definire stili e generi quando si ha davanti l’arte contemporanea è difficile. Oggi la tendenza è sempre più verso la multimedialità,


Lottie Davies, Viola as twins

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come è sempre maggiore la commistione tra tecniche, linguaggi e forme espressive. Nella sezione riguardante la pittura è evidente una ricerca rivolta alla comprensione dei molteplici aspetti della contemporaneità. Senza soluzione. Sintomatico in tal senso il primo premio assegnato dalla giuria a Miazbrothers per un acrilico su tela dal titolo Antimateria 12, 2010. Un’indagine pittorica nel ritratto che costringe l’occhio dello spettatore ad un costante accomodamento e orientamento. Un essere umano in continua evoluzione e trasformazione, fatto di parti infinite legate tra loro e soggette a tutto ciò che lo circonda. Per la sezione scultura il premio è andato a Daniele Geminiani con Anima 2001, un’ascia in legno e acciaio divisa in due parti, su un tappeto bianco. Ricerca formale e con-

cettuale che restituisce una sintesi di grande interesse e poeticità. La sezione di Fotografia, grazie all’uso del digitale e delle nuove tecnologie, è ricca di proposte assai diverse per stile, linguaggi, sensibilità. Originale il lavoro di Lottie Davies, Viola as twins, 2009 che ha ricevuto il primo premio per l’accuratezza tecnica, l'eleganza della composizione e l’interessante uso del cromatismo. Riguardo alla video arte che oggi, in un’epoca di sovraesposizione all’universo visivo, è alla ricerca di un proprio ruolo, il premio è stato assegnato al Gruppo Iocose per il video In the long run, 2010 in cui c’è la ricostruzione di un possibile evento mediatico futuro di alto profilo. Ricostruire il futuro nel passato, spiega l’autore, è un catalizzatore di narrazioni infinite e di sviluppi interpretativi.

Infine per la sezione performance il premio è stato attribuito a La Badini Collettivo che ha presentato la Teoria delle Stringhe, 2008. Una performance di 20 minuti giudicata come una sintesi tra la tradizione teatrale e l’innovazione visiva che apre interessanti vie di lettura sulla dimensione della performance. La performance è un’espressione d’arte concettuale con la quale l’artista coinvolge lo spettatore utilizzando in modo creativo corpo e mente. A differenza di altre espressioni artistiche si può diventare performer anche senza una specifica educazione artistica istituzionale. Ad essere considerati importanti in questa forma d’arte sono la parte visiva della performance, la sua eleganza e l’esecuzione così come lo scarso uso di oggetti in scena. La performance dipende principalmente dall’artista e dal pubblico.


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Elisabetta Badiello he la scienza sia diventata argomento più accessibile lo si nota sfogliando quotidiani e periodici o visionando i palinsesti televisivi o, ancora, sbirciando tra manifestazioni e rassegne organizzate in tutte le province italiane, fin nelle più piccole, durante l’anno. Festival, dibattiti pubblici e convegni che assumono spessore e catturano l’attenzione del grande pubblico, soprattutto se tra i relatori spicca il nome di un noto scienziato, personaggio che finisce con l’assurgere al ruolo di vera e propria star. Questa sorta di “ammirazione” nei confronti dell’uomo di scienza sembra però non tradursi in un incremento della conoscenza. La crescita dell’alfabetismo scientifico ha fatto venir meno una certa diffidenza nei

Scientisti Antiscientisti confronti della scienza finendo però con l’esasperare posizioni ed atteggiamenti. Si verifica da un lato il prevalere di una quasi “tecnocrazia” dove si considera che spetti all’esperto dover dire l’ultima parola nei processi decisionali e che il metodo scientifico sia l’unico applicabile per la soluzione dei problemi dell’uomo e della società. Dall’altro prevale un atteggiamento di diffidenza nei confronti della scienza alla quale si chiede di fermarsi prima di invadere sfere che non le competono con riguardo alla dimensione sociale, politica, culturale e religiosa, mostrando, nei suoi confronti, un atteggiamento diffidente soprattutto quando la questione tocca gli ambiti della vita (come evoluzionismo e creazionismo) e dell’area biomedica (un esempio sono le cellule staminali e la


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ti fecondazione assistita). Un pomeriggio di fine primavera, in un vicolo di una città europea Scienza e Società si incontrano e discutono animatamente. A dar voce al dialogo immaginario, è Massimiano Bucchi nel suo ultimo libro “Scientisti e antiscientisti” (Il Mulino, pagg. 128, euro 11,50). Che cosa intende con “scientisti e antiscientisti”? “Oggi siamo un po’ tutti scientisti, basti vedere l’uso retorico che si fa della scienza nella pubblicità dove per vendere uno yogurt o un dentifricio si ricorre ad immagini, concetti, argomentazioni e linguaggi della scienza con l’intenzione di sostenere o legittimare ciò che si afferma. Si utilizzano grafici, laboratori, camici bianchi e terminologia tecnica allo scopo di documentare l’efficacia

del prodotto. L’uso stesso della terminologia scientifica conferisce a ciò che si afferma il “bollino di garanzia”. Recentemente Paris Hilton ha affermato che per salvaguardarsi dal problema dell’inquinamento dell’aria ricorrerà ad un intervento chirurgico per ricostruire le mucose del suo naso! Questo atteggiamento evidenzia come ci siano grandi aspettative nei confronti della scienza e come in certi casi si consideri il ricorso alla scienza la soluzione di ogni problema. A parte le affermazioni della Hilton, basta scorrere le notizie apparse di recente sulla stampa per apprendere delle proprietà preventive del ballo liscio contro la demenza senile o dell’ormone della generosità, o ancora del fondamento genetico della predisposizione a perdere più o meno precocemente la ver-


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ginità in ambito sessuale. Tutte affermazioni che tentano di trovare nella presunta base scientifica la loro ragione di essere. Se da un lato fanno sentire la loro voce gli scientisti, dall’altro fanno eco gli antiscientisti, coloro cioè che si oppongono alla scienza enfatizzandone i limiti, facendo balenare i rischi di un’eventuale intromissione della scienza in sfere che non le competono. Entrambi gli orientamenti non coincidono né con la scienza né tantomeno con la comunità scientifica. In passato la comunità scientifica esibiva il suo dissenso in ambiti lontani dal pubblico mostrando all’esterno una maggiore compattezza così da potersi preservare anche da minacce esterne. Oggi la scienza è polverizzata. Ad una società multiculturale cor-

risponde una scienza multitecnologica. Nel mio libro ho utilizzato la metafora dell’imbuto. In passato la conoscenza scientifica viaggiava dagli addetti ai lavori fino alla gente comune come in un imbuto e lungo il suo percorso, a mano a mano che la strada si stringeva, perdeva dettagli e sfumature. La scienza veniva così ad avere un carattere più definito, meno provvisorio e incerto. Lo “scienziato star” serve alla scienza? Gli scienziati divenuti familiari diventano veri e propri “brand” spendibili nei settori e negli argomenti più disparati. Se chiediamo al grande pubblico perché Renato Dulbecco o Rita Levi Montalcini hanno preso il Nobel con molta probabilità resteremo delusi. I media sono interessati non tanto alle ricerche di superstar della scienza come Stephen


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Hawking o Craig Venter, ma alle loro vicende politiche e sentimentali così come avviene per i “miti” del mondo dello spettacolo. Questo genera una semplificazione della scienza e dei suoi orientamenti. La presenza dello scienziato contribuisce a rendere più visibili istituzioni e iniziative, il tutto a beneficio del business più che a vantaggio della ricerca scientifica. Che cosa intende quando afferma che scienza e società non si capiscono? Tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la fiducia nella scienza ha fatto emergere una società civile che aveva bisogno di nuove figure e istituzioni di riferimento laiche da affiancare a quelle religiose. La scienza cominciava ad affascinare il pubblico alimentando la speranza di benessere

e progresso che per la prima volta non si fondava su basi religiose o politiche. Oggi scienza e società si sono avvicinate troppo, servendosi l’una dell’altra. La scienza asseconda “clienti” sempre più esigenti ed autonomi e la società utilizza la scienza come scorciatoia per evitare di interrogarsi su di sè e sul proprio futuro. Per quanto possa sembrare paradossale scienza e società non si capiscono più perché sono arrivate ad intendersi fin troppo bene.


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INCIPIT&EXPLICIT

UN INARRESTABILE FIUME IN PIENA Paolo Armelli Ci sono opere che si basano sui loro stessi incipit, non avrebbero senso altrimenti. In qualche modo danno l’idea che la creazione originaria della letteratura sia come un parto, un momento che ha la sua massima potenza creativa, un big bang da cui tutto si origina e si evolve. Me ne sono convinto innamorandomi di Urlo di Allen Ginsberg, che è un’opera fulminante e geniale, ironica e tragica, disperata e sublime. Ginsberg, come molti degli scrittori della Beat, scriveva sotto effetto di droghe varie e sperimentava la tecnica della cosiddetta scrittura automatica, quando cioè si inizia a scrivere di getto e non ci si ferma per pensare o rileggere o mettere le virgole. Urlo (in originale Howl, ne hanno fatto anche un film con James Franco) ha la sua forza proprio in questo: è un fiume in piena, qual-

cosa di inarrestabile e quasi indefinibile, posseduto da un sotterraneo ritmo jazz; la lettura lascia allibiti perché sfiora continuamente l’incomprensibilità ed è di una suggestione rara. Il fatto straordinario è che tutto il poema si fonda, almeno nella sua prima parte, sulle prime due righe a cui si ricollegano a cascata tutte le subordinate che seguono e che costituiscono il flusso incolmabile della poesia. Le due righe sono queste: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, morir di fame isteriche e nude”; meglio ancora, in originale: “I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked”: è un incipit che ti si scolpisce dentro, che brucia. Ha già dentro tutto quello che verrà poi: la lucidità, l’oscenità, l’inevitabilità, e poi la follia e la magia.

Difficilmente si ricordano (se non per immagini) i versi che seguono, da quanto sono complessi e onirici e psichedelici, ma quella prima frase è nitida e memorabile. In questo sta la sua forza, la forza di ogni buon inizio. Urlo è un’esperienza di letteratura all’ennesima potenza, un’immersione che toglie il fiato (provate a recitarlo a voce alta, oppure cercate su YouTube la registrazione originale di quando Allen Ginsberg lo recitò la prima volta alla mitica Six Gallery di San Francisco nel 1955). Come finisce, invece? Beh, in qualche modo finisce, ma è come se non lo facesse mai.

LUCA BIANCHINI, SIAMO SOLO AMICI | Mondadori “Nella scala dei piccoli dolori, il trasloco viene al secondo posto in assoluto. Prima c’è il sospetto di un tradimento. A seguire, tutto il resto.” “Un tonfo strano e familiare proveniva dall’esterno. Aprì la finestra, e sentì il solito ragazzino che giocava a pallone tutto solo. Gli fece un fischio e scese a parare un rigore.”


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EYES|WIDE|SHUT

OGGETTIVITÀ E SOGGETTIVITÀ Federico Tosato Nel suo Der Geist des Films – editato nel ’30, ma in Italia uscito oltre quattro decenni più tardi col titolo di Estetica del film –, Béla Bálazs analizza una sorta di duplice soggettività: quella della macchina da presa e quella di un personaggio che sullo schermo ci offre il suo punto di vista. L’ungherese sostiene che nell’immagine cinematografica l’oggettività è ancora possibile, anche se più precisamente sarà un’impressione dell’oggettività; un’oggettività quale disposizione soggettiva dell’osservatore. Insomma al cinema tutto è soggettivo secondo Bálazs, il quale riconosce però anche un’oggettività, dacché ciò che viene filmato si è comunque svolto in uno spazio e in un tempo ben specifici. Se si vuole inquadrare la teoria all’interno di una sintetica “regola”, possiamo affermare, rifacendoci a René Allendy e al suo La valeur psycho-

logique de l’image, che nel caso l’immagine sia “data dalla vista che percepisce”, apparirà come oggettiva; nel caso in cui “essa provenga dall’immaginazione che la crea”, come soggettiva. E il cinema, col suo schermo che è immagine di un’immagine, riesce a rappresentare entrambi gli elementi, anche sovrapponendoli, imitando così la nostra attività psichica. Ma Bálazs non è stato né il primo né il solo a riflettere in questo ambito: György Lukács già nel 1913 nota che la realtà mostrata sullo schermo cinematografico non è concretamente presente, ma assume una tale evidenza empirica da farci apparire possibile ciò che osserviamo; la precisione con la quale il cinema ci offre le sue immagini ci fa quindi percepire effettivo anche ciò che non lo è. Effettivo e virtuale, reale e irreale, per noi spettatori assumono la stessa

concreta rilevanza. È fin qui chiaro che sia nell’interpretazione del reale, sia nella costruzione di una realtà fantastica, entra in campo l’azione di un soggetto, anche se tale continuità non è l’unica che possiamo evidenziare, poiché, come ben sottolinea Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento, continuità c’è pure tra i dati immediati e una elaborazione mentale, dacché al cinema la realtà è sempre una realtà osservata e tanto l’osservazione quanto l’immaginazione si appoggiano a elementi o a situazioni concrete. Non resta che sviscerare la questione dell’interdipendenza tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva: nella cinematografia tutto può apparirci sia soggettivo che oggettivo, se rispettivamente si sottolinea la presenza dello sguardo di un personaggio, oppure l’evidenza con la quale il cinema ci offre ciò


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che entra nel campo visivo. Siamo insomma spettatori incerti rispetto a ciò a cui assistiamo: la macchina da presa filtra e trasforma, ma allo stesso tempo lo schermo dà concretezza anche a ciò che non è reale. Quando poi questi due aspetti si integrano l’uno con altro, il cortocircuito che subiamo è ancora maggiore. In nostro soccorso ecco perciò differenti sguardi filmici che distinguono quanto mostrato come dato di fatto da quanto è uno stato mentale. Per riuscirvi lo sguardo cinematografico utilizza una sorta di propria grammatica e oggettiva e soggettiva si rifanno a procedimenti narrativi. A porre attenzione al mescolamento di oggettività e soggettività

alla metà del XX secolo è Edgar Morin, in special modo nel suo Le cinéma ou l’homme imaginaire. Essai d’anthropologie sociologique uscito in patria nel ’56 e da noi nell’82. Secondo il francese, l’ambiente, meglio, la realtà, si presenta sulla schermo come lineare registrazione, ma lo spettatore, identificandosi in quanto osserva, lo carica di valenze personali. Insomma immagine e immaginazione si compenetrano costituendo l’immaginario. Ecco quel che scriveva a tal proposito lo stesso Morin, riprendendo un paio di citazioni dal già citato volume del Casetti: “Il cinema è questa simbiosi: un sistema che tende a integrare lo spettatore nel flusso del film; e

un sistema che tende a integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore”. E ancora: “Soggettività e oggettività sono non solamente sovrapposte, ma rinascono incessantemente l’una dall’altra, continua giostra di oggettività soggettivante e di soggettività oggettivante. Il reale è bagnato, costeggiato, attraversato, trasportato dall’irreale. L’irreale è modellato, determinato, razionalizzato, interiorizzato dal reale”.


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HEARTBIT

IL SOGNO DI JOE AD OCCHI APERTI DJ Chemikangelo

Compost/Schema records

Oltre l'elettronica e gli orpelli. Nudo. Come il cuore, la volta che decise di camminare da solo. Mauro Ermanno Giovanardi è elegante chansonnier acrobata sul filo del romanticismo, interprete decadente, fragile e intenso capace di trasformarsi all'improvviso in folletto. Non hai mai cantato la sofferenza in sé, non l'ha resa manifesto, sublimandola invece in voce collettiva. Vestita di vento e di amori perduti, di vele stracciate e risate ubriache. Giovanardi canta noi tutti. Lo faceva prima nel raffinatissimo progetto duo musicale La Crus, assieme all’amico Cesare Malfatti, lo fa ancor più adesso in veste solitaria. Ora è davvero il cantante confidenziale che a differenza della tradizione legata ai crooners vuole anche gli archi nell'orchestra che lo accompagna. Ora è pienamente Giovanardi nel golfo mistico.

Comincia da lì. Tutti o quasi, in diretta o in differita su You Tube o in radio. Tutti lì o quasi davanti a quella canzone "Io Confesso", il singolo sul luccicante palco di Sanremo 2011, un mese fa. A guardare Cesare che ricama il suo giro di chitarra ad armonizzare la melodia. A guardare Giovanardi in eleganza scura e sottile disegnare sul palco traiettorie improbabili di gambe e sguardi, strade immaginarie di un cuore che pulsa. E con loro la potenza della soprano Barbara Vignudelli che appare come icona femminea e corale, linea d'arco in voce. "Ho sognato troppo l'altra notte?" è l'album che lo fa coincidere con se stesso. Un percorso in dieci passi che esalta la sua voglia di musica elegante e corale stile anni sessanta da vestire però in nuovo. Perché queste più che citazioni sono avanguardie della tradizione.

I brani originali del disco rivelano testi che fanno l'amore con la parola, ci giocano per creare paesaggi umani intensi e mai banali. Le confessioni, il tempo dopo l'amore, le assenze, il sogno, i garofani neri, gli uomini delle stelle, tutto danza su una giostra di preziosa raffinatezza. Un tuffo nel passato? Nostalgia distillata? Critica al presente? Accucciarsi comodo nel solco della tradizione melodica italiana? No. Perché Giovanardi è semmai l'uomo degli omaggi, dei vestiti sonori indossati con eleganza perfetta e personalissima, anche laddove presi in prestito da altri artisti in forma di tributo musicale. Giovanardi è l'uomo della voce, non solo intesa come timbro speciale e riconoscibile - tocca corde profonde non solo metaforicamente - ma come cifra stilistica propria, sguardo suo sul mondo, tangibile o emotivo che sia, asfalto o pianto


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a seconda. L'album però non guarda indietro ma guarda altrove. Come unire due epoche senza farne una sola. Due diverse idee di uomo e d'artista. Perché Giovanardi non scende mai nel diario autobiografico, nell'intimismo troppo personale per essere condivisibile. I brani originali dell'album sono storie credibili, partecipabili, mai cronache ma impressioni. La musica sottolinea i passaggi, li sostiene, li spinge. Il disco è figlio dell'approccio tipico di Mauro, artista che crede fortemente nel mischiare il sangue per vedere che accade. Un disco-casa che si apre agli ospiti. Ci sono gli ex La Crus, Violante Placido, Cecilia Syria Cipressi, Tiziana Rosco, c'è il volto-non volto di Alex Cremonesi, ci sono Migliacci e Neil Diamond con la loro "Se perdo anche te", ci sono Sonny Bono & Cher, Nancy Sinatra, Mario Cop-

pola e tutto l'immaginario legato ai Corvi e Dalida con "Bang Bang”. Arrangiamenti efficaci, clima retrò d'archi che richiamano quelle serate in Rai anni 60 su Studio Uno, duetti, fiati, twang-guitar, melodie d'impatto, ballate e azzeccatissimi influssi morriconiani. Dieci cammei d'autore, tre cover e sette originali, che riportano nel presente il passato sonoro per strizzare l'occhio al futuro. Sì, perché questo disco non è nostalgico nelle intenzioni, è anzi assolutamente propositivo e ottimista. Giovanardi è uno che ha bandito il pudore, che con la sua voce calda, mai così calda e misurata come in questo nuovo “Ho sognato troppo l’altra notte?”, canta la profondità del sentimento. Ed è davvero insolitamente strano, ma piacevole, che in quel lungo arco di musica “Indie” italiana nata oramai 15 anni fa con gli Afterhours, Subsonica, Bluvertigo,

Marlene Kuntz, Ustmamo’, CSI, Casino Royale, La Crus... ora si possa sentire diverse volte nei supermercati quella canzone perla “Io Confesso” del timido carismatico crooner Joe Giovanardi. Aspettando in primavera il suo tour, un consiglio: comprate e ascoltatevi (oltre al suo nuovo album solista) l’ultimo splendido album raccolta dal vivo dei La Crus del 2008.


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ANIME SEXY Mauro Pes Oggi per pubblicizzare un dado da cucina ci vuole la donnina nuda. Oggi per realizzare un buon reclam per le fette biscottate ci vuole la donnina nuda. Oggi per convincere i consumatori a comprare il filo interdentale ci vuole la donnina nuda. Insomma, oggi la donnina nuda è il veicolo perfetto per qualsiasi cosa si voglia lanciare sul mercato. L’ingrediente fondamentale per ogni pubblicità che si rispetti. Lo sanno bene i signori pubblicitari e lo sappiamo bene noi maschietti del nuovo millennio, costantemente investiti da cotanta lingerie femminile. Ma come mai? Perché siamo arrivati a tanto? Se fossimo in un talk show la parola andrebbe subito all’esperto o al professorone di turno, però non siamo in tv e non stiamo avviando nessun dibattito: qui ci sono soltanto io con le dita sulla tastiera e

voi con gli occhi su queste lettere che sto mixando per voi. Ergo, dovrete sorbirvi la mia personalissima spiegazione. Il fatto è cari amici vicini e lontani che i signori pubblicitari (maschietti ovviamente) sono esattamente come noi: due braccia, due gambe e un baco con tendenze paninare anni 80 nel cervello. Pertanto, tutto ciò avviene essenzialmente perché ci conoscono fin troppo bene: i loro sogni adolescenziali sono anche i nostri. Sanno bene che siamo cresciuti sbirciando nel costume tigrato di Lamù. Sanno bene che saremmo morti volentieri per una sventagliata di mitraglietta di Fujiko/Margot. Sanno bene che ci saremmo fatti scippare con gioia da una qualsiasi delle tre sorelle Kisugi alias “Occhi di gatto”. Sanno bene insomma che abbiamo tutti delle anime sexy. Sì, perché siamo tutti figli di un decennio

(e più) di cartoon giapponesi tratti da manga più o meno famosi. Figli prediletti di quell’era post-robotica, nella quale comunque non mancavano esempi di generosità femminile. Come in un’estensione della Creazione Divina, chi fece Mazinga non lo lasciò solo e nelle varie serie che si susseguirono negli anni, gli diede la possibilità di rifarsi gli occhi su Venus Alfa, Afrodite A o Dianan A. Così come oggi Madre Natura s’è prodigata per dotare Cristiano Ronaldo di una rispettiva controparte superaccessoriata. Una controparte che vuoi o non vuoi ogni cinqueminuti-cinque fa capolino nei nostri schermi televisivi in qualità di testimonial per una nota azienda di intimo. La vediamo rotolarsi in reggiseno su una miriade di specchi tirati a lucido e subito pensiamo: “Toh, Lamù s’è fatta mora!”. Un pensiero che si differenzia in

modo significativo da quello delle nostre signore mogli o fidanzate, che come minimo le darebbero in mano uno straccio e un fiasco di vetril: “Che così vedi moh come ti passa la voglia di appoggiare le chiappe sugli specchi!”. Ecco dunque spiegato il motivo per cui la donnina nuda è ovunque, perché tv, giornali e cartelloni pubblicitari ci iniettano soluzioni al pizzo e al silicone. Ci vogliono proprio come Lupin o Gigi la trottola (Dash Kappei) con la bavetta all’angolo della bocca, cinque dita in più stampate sulle guancia e il carrello pieno di inutili cianfrusaglie. Ci vogliono in overdose di bellezza e noi li accontentiamo volentieri, perché a questo mondo possiamo rinunciare a tutto, ma non alle nostre anime sexy.


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L'ONOREVOLE E LA LOLITA Vittorio Serpieri Leonardo Sciascia lo si conosce per lo più come grande scrittore di cose siciliane. E, ancor più, come narratore di vicende legate alla mafia. Sciascia, però, non è stato solo questo. Intellettuale a tutto tondo, negli anni ci ha regalato le sue riflessioni e il suo pensiero riguardo la condizione umana, la società italiana tutta e diverse vicende di politica nazionale (“Todo modo” e “L'affaire Moro” tra gli scritti più riusciti a riguardo). Sul fare della scorsa estate, Adelphi ha dato alle stampe una serie di racconti (alcuni inediti) che lo scrittore di Racalmuto aveva composto nell'arco di una trentina d'anni, dal 1947 al 1975. Il volumetto (circa 200 pagine) si intitola “Il fuoco nel mare”. Non è questo il luogo in cui elogiare la retorica, la capacità narrativa e la profondità critica di Sciascia, che con Calvino e Pirandello è stato il più grande

scrittore italiano del '900. Ma per fare una piccola riflessione su come sia cambiata l'etica del potere in Italia dal 1967, data di pubblicazione del racconto “La frode” (contenuto in “Il fuoco nel mare”), ad oggi, lo spazio di questa rubrica è più che sufficiente. Riassumiamo le vicende del racconto: un ufficiale di pubblica sicurezza si reca da un importante esponente politico per chiedergli se mai avesse avuto a che fare con una certa ragazza, una signorina che, costretta dallo zio (non si specifica se egiziano o no), faceva la prostituta d'alto bordo. Il punto principale è che la cortigiana in questione ha un “difetto”, quello di essere minorenne. Diciassettenne per la precisione. Il politico, incredulo che potesse essere accostato a tali ambienti, tutt'altro che eleganti, nega indignato di essere coinvolto in questa turpitu-

dine. L'ufficiale, imbarazzato, gli fa presente, raccontandogliela, come la ragazza abbia fornito una descrizione minuziosa non solo della villa del politico in cui si svolgevano gli incontri illegali, ma anche le circostanze della prestazione che comprendevano svestimenti e travestimenti. Il politico, sicuro della sua posizione intoccabile, facilmente elabora una spiegazione del perché la ragazza potesse conoscere con precisione gli ambienti della villa e degli indumenti presenti negli armadi della stessa. L'ufficiale non dubita della bontà di queste spiegazioni dando per probabile che il potente politico sia vittima di un complotto ordito da certi avversari politici. Insomma, la discussione cade nel vuoto. Il racconto non finisce qua, un'ultima dozzina di righe spiega il retroscena (che non riveleremo) della vicenda. Fa impressione, però,

come quarant'anni dopo si stia ancora a discorrere di complotti che coinvolgano sesso a pagamento e minorenni. In fondo lo ha spiegato un altro grande autore siciliano come funziona nella nostra bella Italia: si fa in modo che tutto cambi affinché nulla cambi.


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CONTRO IL DOGMA MERITOCRATICO Marco Piazza Negli ultimi tempi si parla molto di meritocrazia come panacea di molti mali del Paese: se ne continua a discutere a proposito di riforma della scuola, di mercato del lavoro, di gestione della cosa pubblica. Non mi permetto di contestare la bontà della proposta, quanto la sua giustizia intrinseca. George Abravanel, nel suo libro del 2008, “Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto” propone una definizione, condivisa dalla comunità scientifica, per definire il termine meritocrazia utilizzando la cosiddetta equazione del merito: I + E = M. “I” sta per intelligenza, in tutte le sue forme, mentre “E” deriva dall’inglese effort, e significa sforzo, impegno. A questo punto però sorgono vari problemi. Il primo è di natura sostanzialmen-

te tecnica, e riguarda la capacità di misurazione dell’intelligenza e dello sforzo. Succede così che le scuole non rispondano più al loro dovere formativo, ma preparino gli studenti con il solo obiettivo di superare alcuni test internazionali. Il secondo punto di discussione riguarda l’incapacità (anche se non assoluta) del mercato di allocare le persone giuste al momento giusto e nel posto giusto: il mercato non ha obiettivi di sorta (tantomeno meritocratici) ma si evolve in modo spontaneo, e premia chi risponde in maniera adeguata (e spesso casuale) all’incontro della domanda e dell’offerta. L’ultima problematica è di natura più filosofica, e riguarda la “giustizia” della scelta del meccanismo meritocratico. Mi riferisco al fatto che è da considerarsi assolutamente arbitraria la scelta della meritocrazia quale strumento di selezione della

classe dirigente, imprenditoriale e politica. Il ragionamento è il seguente: nel momento in cui le dotazioni di intelligenza “I” ed impegno “E” di ogni individuo non sono passibili di scelta da parte dell’individuo stesso, ma sono distribuite in modo casuale, qual è la differenza fra selezione basata sul merito da quella fatta per nascita, per censo, o per etnia? Mi si può rispondere che l’intelligenza è certamente un elemento distribuito casualmente fra le persone, mentre l’impegno dipende dalla volontà di ciascuno. Ma anche qui si può facilmente obiettare, in quanto lo sforzo e la volontà di impegnarsi sono caratteristiche geneticamente, eticamente e socialmente determinate. Quindi dove stanno le leve che permettono all’individuo di emergere “giustamente”? Non contesto assolutamente il fatto che la meritocrazia rappre-

senti il miglior modo di selezionare e premiare la casse dirigente in un’ottica di rinvigorimento ed efficientamento dell’economia. Rimane il fatto che siamo di fronte all’ennesimo dogma, mascherato da libertà di autodeterminazione. Funzionale al capitalismo (non a beneficio dell’uomo), e teso a giustificare la perpetuazione di una nuova aristocrazia; d’altronde, etimologicamente aristocrazia vorrebbe dire governo dei migliori.


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TAKE IT EASY, DUDE! Federico Gobetti C’è una religione per ogni tempo e luogo… e la religione per il nostro tempo e luogo è il Dudeismo, il credo più vecchio del mondo (nato giusto sei anni fa). Un’antica filosofia che predica di non predicare e di praticarla meno possibile. Se ti va di trovare la pace in terra, la bontà e la benevolenza questa è la religione che devi abbracciare. Giusto dopo un pisolino, naturalmente. Il Dudeismo prende il nome da Dude (Drugo in italiano), il protagonista del film "Il grande Lebowski" dei fratelli Coen. Un quarantenne disoccupato, pigro e senza voglia di fare che trascorre le sue giornate giocando a bowling. E non è uno scherzo. Anche se in forma ufficiale il Dudeismo è stato organizzato come religione poco tempo fa da un giornalista errante americano mentre si trovava in un bar di Chiang Mai

(Tailandia), i suoi adepti sostengono che sia sempre esistito (in una forma o in un’altra). Probabilmente la più antica manifestazione del Dudeismo è stato il Taoismo Cinese; quando Lao Tzu disse: “daghene finche ghe n’è” e “stai sereno”, o “rilassati” (probabilmente qualcosa si deve essere perso nella traduzione dal cinese antico). Poi col (lungo) passare degli anni questa idea nuova, ribelle e geniale ha rinforzato molti credi di successo. L’idea è questa: la vita è corta e complicata e nessuno sa cosa farci. Quindi non fare niente, prendila con calma, e smettila di preoccuparti. Rilassati con qualche amico e sia che fai strike o zero punti (il bowling è la più grande passione del Drugo) fai del tuo meglio per rimanere sempre te stesso. Tieni duro. O “sopporta e sorridi”. E questo è tutto quello di cui tratta il Dudeismo.

La sua bellezza sta n e l l a s e m plicità: u n a volta che una religione diventa troppo complicata, tutto può andare storto. Quindi – dice Lo Straniero – “A volte sei tu che mangi l'orso e a volte è l'orso che mangia te. Prendila come viene Dude!”


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IMAGINAREA Luca Zanoni


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<prossima uscita>

ventunoaprilezeroundici


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