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13Esioso, Teogonia

13Esioso, Teogonia

essere definito come l'uomo nelle cui azioni si rende manifesto un ordine dell'Essere più che umano”, ripreso poi da Eschilo nelle Supplici. 22 L'azione eroica è la manifestazione in cui l'agire umano e la volontà divina s'intersecano.

Omero è stato molto perspicace nell'accorgersi che il disordine, in una società, non è altro che il disordine dell'anima dei suoi membri, e specialmente dell'anima della classe che comanda. (…) L'azione ordinatrice è quella conforme all'ordine divino e trascendente, mentre l'azione disgregante implica una caduta dall'ordine divino al disordine specificamente umano.23

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Dal “crollo della civiltà micenea” sorse “la forma di esistenza politica” tipica dell' “area di civiltà greca”, la polis. 24 Al governo regale successe quello aristocratico, concomitante con l'espansione coloniale dei secoli VIII-VI, che lo portò in crisi, come testimonia l'opera di Esiodo.

Il processo che condusse alla formazione delle poleis, il cosiddetto sinecismo, si estese nell'arco di alcuni secoli e, in alcuni casi, giunse a termine solo nel periodo classico. Nel caso di Atene, il sinecismo fu completato verso la fine dell'VIII secolo.25

Per quanto le costituzioni successive al periodo tribale furono nettamente distinte dalle tradizionali formazioni sociali, la struttura tribale della polis persistette fino alla conquista macedone come forma caratteristica di legame parentale.

Pertanto, per quanto riguarda il suo carattere di città, la polis non arrivò mai a svilupparsi in una comunità di singoli cittadini tenuti insieme da un legame di conjuratio, simile a quello che caratterizzò le città medievali occidentali; e, come stato territoriale, la polis non fu mai in grado di espandersi in una nazione formata da singoli cittadini sul modello degli stati nazionali occidentali. Si trattò di un'unità politica, nella quale l'individuo non raggiunse mai lo statuto personale tipico delle formazioni politiche della civiltà occidentale, che poté sorgere grazie all'idea cristiana di uomo; al suo interno,

22Ivi, pag. 111. 23Ivi, pag. 115. 24Ivi, pag. 119. 25Ivi, pag. 121.

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il singolo mantenne costantemente, piuttosto, una collocazione intermedia fra le relazioni tribali, fittizie, e quelle parentali, più concrete.26

Il demos prevale come organismo di appartenenza parentale e civile sul genos e sulla phratria. Alla genealogia gentilizia si giustappose quella demotica, con culti agli avi e ai propri eroi e legami sacri.27 Le riforme democratiche di Clistene estesero lo spirito gentilizio a tutta la comunità dei cittadini ateniesi, confermandone la saldezza.28

Il potere politico dell'aristocrazia poteva anche essere stato spezzato, ma la sua cultura continuava a permeare il popolo, e la democratizzazione, in Grecia, non significò altro che l'estensione della cultura aristocratica a un più grande numero di persone, anche se nel processo di allargamento la qualità ne uscì indubbiamente annacquata.29

Che altro poteva essere la democratizzazione se non la diffusione della cultura superiore, cioè quella razionale, ai ceti popolari? E in che altro poteva consistere la corruzione dei valori originari se non nella perversione della loro significazione con gli istinti passionali degli strati sociali più incolti e arretrati? Perché “non troviamo nella storia della polis ellenica quegli sconvolgimenti drammatici che accompagneranno l'ascesa sociale delle classi urbane nella società occidentale”30? Perché l'unità sociale era legata a forme di appartenenza tradizionali (religiose, parentali, mitiche) non disponibili alla libera determinazione umana. Il fondamento sacrale indisponibile consentiva quel “singolare carattere di unità nelle istituzioni, nelle idee, nei costumi”, notata da Guizot, che rendeva unitaria la cultura della società greca che la forza del potere politico, mentre “con la prodigiosa diversità delle idee e dei sentimenti propria della civiltà europea è stato assai più difficile arrivare a tale semplicità, a tale chiarezza” di forma.31 Con la perdita del suo fondamento sacro, la

26Ibidem. 27Ved. E. Rohde, Psyche (1890-1894), tr. it., Roma-Bari, 2006, pag. 143. 28E. Voegelin, Loc. cit., pag. 122. Ved. L. Canfora, La guerra civile ateniese, Milano, 2013, pagg. 295-308. 29E. Voegeli, Loc. cit., pag. 123. 30Ibidem. 31F. Guizot, Histoire de la civilisation en Europe (1840, VI ed.), tr. it., Torino, 1956, pagg. 26-29.

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ragione diviene strumento formale di potenza, tendente a un suo ordine unitario da se stessa legittimato. La polis sorge dalla struttura tribale quale “unità autonoma dell'ordine politico”.32 L'autonomia della cultura dalla religione, e quindi la privatezza dell'attività artistica e intellettuale, è la condizione della libertà di pensiero dalla istituzionalizzazione ideologica delle forme spirituali. Il pensiero “privato” che diventa “pubblico” acquisisce un fine politico che originariamente non aveva, e diventa pensiero ideologico.33 La composizione multipla della società, formata dai gruppi originari particolari, acquista fisionomia e struttura politica unitaria per mezzo della tirannide, in cui consiste l'azione del pacificatore. Portare ad unità il molteplice organizzandolo in forma politica armonica e in struttura sociale organica significa imporre una visione ideale di Stato a una realtà empirica che ne ha bisogno ma dalla quale non può prodursi spontaneamente, che dunque non esprime se lasciata a se stessa. Pertanto, l'idea politica, rispetto alla molteplicità delle doxai particolari, non consiste nella loro mera unità formale, di carattere razionale, ma nel loro contemperamento reale, che implica il carattere esistenziale della prassi sociale. La funzione politica del tiranno è quella del “moderatore”,34 ossia di colui che rende compatibili le differenze, correggendone gli eccessi che le condurrebbero al conflitto politico-sociale. Esso svolge dunque una funzione etica di pacificazione sociale, e quindi di governo etico di pacificazione politica. La natura abnorme della tirannide è legata alla sua funzione artificiale e, per così dire, ideale, ovvero ideocratica, in quanto la sua visione politica è il risultato di una forma di pensiero la quale, non emergendo che a contrario, per necessità, dalla realtà, non la riflette ma la contrasta e la nega. Finquando le forme ideali sono politicamente aliene e distanti dalla verifica empirica della loro realizzabilità storica, restano modelli noetici privati senza effetto immediato sui processi

32E. Voegelin, Loc. cit., pag. 123. 33“La verità filosofica, quando entra nella piazza pubblica, cambia la propria natura e diventa opinione, perché ha luogo un vero e proprio metabasis eis allo génos, uno spostamento non solo da un tipo di ragionamento a un altro, ma da un modo di esistenza umana a un altro”: H. Arendt, Truth and Politics (1968), tr. it., Torino, 1995, pag. 43. 34E. Voegelin, Loc. cit., pag. 125.

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pubblici; ma quando si propongono come dottrine politiche di pratica applicazione, allora la loro carica intellettuale deve tradursi in potere politico, snaturandosi. Da qui la piega violenta della tirannide, che contraddice in pratica il fine pacificatore che la legittima in teoria. La violenza tirannica consiste pertanto nel voler cambiare un processo politico storico accelerandone le dinamiche in senso compatibile con il modello ideale di direzione, negandone gli aspetti incompatibili. Ma questo atteggiamento ideo-logico è proprio del pensiero del soggetto teoretico che opera per imporre la coerenza formale della sua rappresentazione razionale alla realtà molteplice e contraddittoria del mondo-della-vita, e non è precipua della funzione di governo etico; anzi, ne rappresenta la sua degenerazione ideologica, astrattamente intellettualistica. La differenza tra il giudizio teoretico, che fonda l'etica della convinzione soggettiva che motiva il dovere personale, e il governo etico della comunità politica, risiede nel carattere “scientifico” della conoscenza sottesa al valore etico, inteso come coerenza pratica dell'agire pretesa dalla ragione;35 carattere che manca al sapere inerente la realtà politica, in quanto provvisto della consapevolezza intuitiva che l'agire sociale attiene a una volontà di natura diversa dall'intenzionalità soggettiva, perché attinente a un criterio di necessità indipendente dalla coerenza dei costrutti logici formali e dall'unità della coscienza soggettiva. La realtà oggetto del sapere politico è quel Divenire incessante che il pensiero astraente non considera reale, né le sue molteplici e convulse dinamiche come valore, bensì come negativo disvalore, sicché una rappresentazione della realtà come estetica del modello ideale, senza ombre di imperfezione e di contraddizioni, abita la coscienza del filosofo e dell'artista, ma non quella dell'uomo di governo, consapevole che la vita politica è fatta di conflitti e di disarmonie dialettiche, conseguenti al libero arbitrio dell'uomo. Libera è la determinazione non prevedibile come necessaria, cioè nuova. La novità nasce dal caso, cioè dal disordine (kaos). Il kaos è all'origine della libertà, che l'etica formale deve negare in nome delle sue norme assiologiche, e il potere politico deve governare. La rappresentazione logica del mondo ha un carattere insuperabilmente soggettivo, anche se l'immagine formale

35Ved. E. Husserl, Einleitung in die Ethik. Vorlessungen Sommersemester 1920/1924, tr. it., Bari-Roma, 2019, pagg. 4-31.

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del mondo esterno, creduta come oggettiva, acquista valore di realtà universale. “La nostra civiltà è profondamente basata su questa illusione”,36 che costituisce il modo tipicamente greco di negare il Divenire, ossia di dominare il Kaos. Infatti, la definizione logica fa corrispondere la conclusione con la premessa ontologica che solo l'Essere è reale; congiungendo l'inizio con la fine, si nega il Divenire. Il concetto è il modo verbale (logico) di negare il tempo per l'eterno presente. L'eternità è dunque intesa come coincidenza dell'inizio con la fine nello stesso (tautologia). Con la conoscenza logica si supera la necessità della ripetizione dell'esperienza per pervenire all'esperienza de-finitiva, che è la stessa ripetibile all'infinito. La logica è in-finitiva; infinitizza l'esperienza, rendendola idealmente possibile, cioè eternamente presente alla coscienza: da qui il senso simbolico profondo dell'eidos platonico come “immagine”. Il concetto logico è il mezzo con cui la coscienza presenta a sé il fenomeno non esperito: è una forma di rap-presentazione del fenomeno in-esistente, assente. La rappresentazione concettuale della realtà è meramente ideale; il fenomeno assente, non esperito direttamente e fattualmente, viene assunto come presente alla coscienza. E' un analogon della realtà. Il modello logico, eliminando il tempo, elimina l'imprevisto, il caso, l'evento fortuito accidentale che può interferire nel processo consequenziale, alterandone la necessità. Dunque il giudizio logico, l'inferenza, è assertivo di necessità e negatore di possibilità. In tal senso, il pensiero logico è pensiero della Necessità, non della libertà. Libero è il pensiero che si origina dal Kaos, nella cui dimensione è possibile che qualcosa sia anziché non, laddove entro la realtà ontologica tutto è, e il niente non è. Dove tutto è, ogni ente è necessario, necessariamente reale, e dunque determinato. La realtà ontica è una realtà necessaria, priva di possibilità (di non essere). E ciò che necessariamente è, è determinato e non è libero. La decisione d'essere è una posizione etica, di valore. E il valore è la prospettiva da cui si esclude ciò che non vi rientra: un punto di vista assolutistico di relazioni. “Ogni valore è quindi un valore di posizione”, conseguente a una decisione.37 Da qui il rovesciamento pratico della posizione

36G. Bateson, Mind and Nature. A Necessary Unity (1979), tr. it., Milano, 1984, pag. 49. 37C. Schmitt, Die Tyrannei der Werte (1960), tr. it., Milano, 2008, pag. 53. 16

tetica in lotta politica. “L'aggressività è connaturata alla struttura tetico-ponente (thetisch-setzerisch) del valore, e continua a essere prodotta dalla concreta attuazione del valore”.38 E' questa tensione deontologica della posizione assiologica che finisce per delegittimare eticamente la dinamica politica in relazione all'ordine sociale (pace), che rimane il fine di ogni processo politico in quanto razionalità dell'agire non in stato pre-civile di omnium bellum contra omnes. Ma chi assegna il valore? Weber afferma che sia il soggetto libero di determinarsi, poiché, secondo la definizione della persona di Kant, egli, in quanto homo noumenon, è un fine in sé, costituendo perciò un valore assoluto di dignità interiore (Wuerde, dignitas) non commisurabile.39 Nella dinamica sociale, nondimeno, è il potere politico a stabilire il valore comunemente significativo, cioè quello socialmente rilevante. Nulla ha significato se non è considerato in qualche contesto significativo. Tale contesto è la forma delle relazioni significative: la struttura del significato che fa significare altre relazioni simili. Il contesto formale del significato delle relazioni umane è un prodotto culturale, non naturale. Quello politico è il contesto dell'Ordine sociale come valore esistenziale razionale. La razionalità come Bene è la cifra ontologica ed etica della civiltà occidentale. Infatti, all'interno della ontologia greca si definisce anche la metafisica cristiana. Essendo realtà necessaria, cioè benigna, l'Essere non può non essere, per cui la sua ragion d'essere coincide con la sua stessa realtà necessaria: questo è il Bene, ciò che è necessario che sia. Se l'Essere necessariamente è e dev'essere, il suo opposto non-essere è il Male.40 Se il Bene è la realtà dell'Essere, e l'Essere è la necessità che qualcosa sia anziché non, l'esistenza in sé è fenomeno benigno, positivo. Positivo è il bene che è. Ma ciò che è appartiene all'Essere, è l'Essere stesso che si manifesta come ente determinato, come fenomeno che

38Ivi, pag. 56. 39I. Kant, Die Metaphysic der Sitten (1797), ved, F. Volpi, Anatomia dei valori, in C.

Schmitt, tr. cit., pag. 83 sgg. 40“Il male è l'opposto del bene”: A.D. Sertillanges, Le problème du mal (1951), tr. it.,

Brescia, 1954, pag. 7. Ma “poiché il bene è il primo momento sostanziale dell'Essere, la sua negazione, il male, può opportunamente estendersi agli altri due momenti sostanziali,il vero e il bello, e a tutto l'Essere in quanto è negato”:

A. Goffredo, La filosofia della storia, Roma, 1936, pag. 212. 17

manifestandosi realizza la sua essenza necessaria, la sua Necessità. Riconoscere la Necessità dell'ente è l'attività del giudizio onto-logico, che definendo l'essenza dell'ente, ne riconosce la sua necessaria realtà. Necessario nell'Essere è che sia sempre ciò-che-è, se stesso. Ciò che è sempre sé stesso, non cambia. Dunque l'Essere è l'opposto del Divenire; ed essendo il Male l'opposto dell'Essere, il Divenire è il Male. Il Divenire è il tempo che intercorre tra due modi d'essere dell'ente, ossia tra due giudizi di realtà: tra due eternità. Eterna è la coscienza che l'Essere è. Diviene l'ente che perde la sua coscienza d'essere, cioè di appartenere all'Essere. L'ente che diviene è l'ente privo di coscienza di sé; l'ente privo della sua coscienza di bene, che è la sua essenza. L'essenza dell'ente è la sua coscienza di essere parte dell'Essere. La coscienza d'essere è la ragione, e il giudizio di ragione è la coscienza che riconosce l'appartenenza dell'ente all'Essere: la sua realtà. Reale è solo ciò che appartiene all'Essere, ovvero ciò di cui si conosce l'essenza razionale. La realtà onto-logica è un cosmo ordinato secondo la sua necessità d'essere ciò-che-è, ossia di essere parte dell'Essere. Essere parti dell'Essere significa essere necessari, essere necessariamente ciò che si è. Ed essere necessariamente ciò che si è significa essere eterni. L'eternità è la condizione d'essere privi del Divenire. La coscienza razionale è quel movimento del pensiero che libera l'ente dal suo divenire altro da sé e lo consegna alla sua coscienza eterna, alla sua essenza, che è il suo Essere necessariamente Bene. Il giudizio razionale libera dal Divenire, e dunque dal Male, il fenomeno, assegnandolo all'Essere, che è il regno del Bene eterno. L'ontologia greca è una soteriologia: la salvezza metafisica consiste nell'appartenere all'Essere. L'esclusività dell'appartenenza all'Essere definita dal giudizio logico è la sua uni-versalità. Solo uno è il modo proprio dell'Essere, il suo modo necessario, quello logico.41 Il giudizio logico è un modo di rappresentazione del mondo, creduto necessario all'ordine cosmico, contrario al caos, al disordine. Il modo proprio dell'ordine logico del

41La differenza analitica tra logica e teoria del significato riguarda in realtà due momenti dello stesso processo di razionalizzazione della realtà, in quanto la nozione di verità logica non qualificata è data come acquisita o sottintesa nel suo significato stabilito, ossia deciso/definito. Ved. M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics (1991), tr. it., Bologna, 1996, pagg. 39-46, 79-84 e 93-121. 18

mondo è la relazione delle loro essenze. Ordinare razionalmente il mondo significa mettere in relazione necessaria i fenomeni in quanto enti di ragione, cioè in quanto essenze prive di divenire. Ciò che è privo di divenire è stabile, cioè resiste al passare del tempo, e resiste al passare del tempo ciò che rimane in vita. La stabilità è la condizione propria dell'Essere, e benigno è ciò che garantisce tale stabilità. Ciò che è stabile è vero. Il Bene è la Verità, e la Verità è l'Essere. Vera è la rappresentazione onto-logica della realtà, quella priva di Divenire. Dunque, la verità della realtà è la sua rappresentazione logica, ossia la sua descrizione formale, eidetica, distinta dalle scienze naturalistiche.

La costruzione delle scienze della natura è determinata dal modo in cui è dato il loro oggetto, cioè la natura. Le immagini si presentano in un continuo mutamento e sono riunite in oggetti, questi riempiono e occupano la coscienza empirica, e formano l'oggetto della scienza descrittiva della natura. Ma già la coscienza empirica osserva che le qualità sensibili presentatisi nelle immagini dipendono dal punto di vista da cui sono considerate, dalla lontananza, dalla illuminazione. E così sorge il compito di pensare gli oggetti in modo tale che divengano intelligibili il mutamento dei fenomeni e le uniformità che sempre appaiono chiaramente in tale mutamento: i concetti mediante cui ciò avviene, sono costruzioni strumentali che il pensiero crea a tale scopo. Così la natura ci è estranea, è trascendente al soggetto conoscitivo, ed è appresa da questo in costruzioni strumentali, mediante il dato fenomenico.42

Il passaggio dalla condizione in divenire alla condizione stabile, dal transeunte all'eterno, avviene attraverso la descrizione logica della realtà. Descrivere razionalmente la realtà significa rappresentarla secondo un ordine eterno, senza mutamenti, ossia privo di Kaos. Ciò che trasforma in mondo razionale il Kaos è il discorso razionale, la dialettica. Se per un verso la rivelazione della natura permanente delle cose (ousia) libera la coscienza dalla varietà delle rappresentazioni, che Platone chiama “immagini”,43 per altro verso la loro stabilità consente la sinossi dialettica; dialettico, infatti, per Platone è chi riesce ad avere delle cose molteplici una “visione d'insieme”, in cui consiste

42W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910), tr. it. In Critica della ragion storica, Torino, 1954, pag. 159. 43Platone, Cratilo, 386 e

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l'unità del Bene.44 Dunque il passaggio dalle molteplici rappresentazioni (doxai) all'unica vera consiste nel movimento dialettico maieutico che dal Kaos originario partorisce l'ordine razionale unitario delle cose. L'ordine onto-logico delle cose è un modo di descrivere (rappresentare) la realtà come necessaria, e perciò vera e buona. Descrivere in senso logico è distinguere, cioè selezionare, escludere. La tecnica dell'esclusione del Divenire dall'Essere è la dialettica (techne dialechtiké), che distingue il durevole dal transeunte, le due polarità antitetiche compresenti nella totalità originaria. Ma che cosa contraddice l'Essere e caratterizza il Divenire? Questo è un aspetto fondamentale per comprendere la funzione ausiliare del Potere nella costituzione dell'Ordine politico. Ciò che distingue l'Essere dal Divenire è che l'Essere è il prodotto di una rappresentazione, e dunque è derivato, laddove il Divenire è la condizione originaria del Kaos. Dunque l'Essere deriva dal Kaos, mentre il Kaos è all'origine dell'Essere. Ma se il Kaos è all'origine dell'Essere, l'Essere che ne deriva è parte del Kaos. Dunque l'Essere è sottratto dal Divenire e mantenuto in sé nella sua riduzione ontologica come realtà indipendente dal Kaos originario. L'Essere è dunque la riduzione del Kaos, la sua kenosis. La rappresentazione onto-logica della realtà è così un'opera di riduzione del complesso al semplice, ovvero del Molteplice all'Uno, che costituisce la verità e il bene assoluti, indipendenti cioè dal Kaos originario. L'operazione dialettica consiste dunque in una sostituzione archetipa, in cui l'Essere, escludendo il Kaos, diventa l'unico Tutto. Il figlio che spodesta il padre: Saturno al posto di Urano, Giove al posto di Saturno, Cristo al posto di Jeova nella lettura gnostica e marcionita. La dinamica del processo dialettico è un movimento deontologico in cui l'Essere deve soppiantare il Kaos originario. Tale consegna etica prospetta una realtà condenda che implica l'intervento coadiuvante e risolutore del Potere, che tende a stabilire un ordine de-finitivo, cioè razionalmente vero e buono, attraverso l'esclusione del divenire inteso come disordine. Ma tale divenire stabile di ciò che originariamente non è, costituisce l'intima contraddizione dell'Essere, la cui matrice caotica originaria è insopprimibile e perciò continuamente rinasce nel seno stesso

44Platone, Repubblica, VII, 537 c. Ved. C. Preve, Storia della Dialettica, Pistoia, 2006, pagg. 34-35.

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dell'ordine ontologico-politico, determinandone la sua perenne instabilità. Questa intima incompiutezza rende la rappresentazione onto-logica dell'Ordine puramente convenzionale e fideistica, poiché la credenza che l'Essere sia Tutto non può di per sé eliminare il Divenire, ma può solo opporvisi come al Male cui si contrappone il Bene. La verità dell'Essere è confinata alla sua rappresentazione logica, ma non può essere trasferita come opinione comune senza l'intervento autoritativo di un nomos che trasformi l'ordine della narrazione, cioè l'orizzonte di pensiero della verità del Logos, in ordinamento giuridico: da qui il ruolo mediatorio della politica, la cui funzione servile, per il carattere fisiologicamente instabile dell'Ordine razionale, non può essere temporanea ma indispensabile alla costituzione degli assetti sociali. La politica entra dunque nell'ordine del discorso come fattore di stabilizzazione, decisivo della verità della parola. Quale mondo è ordinato con la parola? L'ordine logico è basato sul criterio di imputazione, tale che un effetto abbia sempre un soggetto autore di esso. L'ordine di imputazione è univoco, cioè ha un solo attore, il soggetto agente. Questo criterio consente la relazione univoca tra eventi volontari e responsabilità soggettiva. Tale rappresentazione dell'ordine soggettivo del mondo astrae dal contesto reale collettivo per concentrarsi sul solo significato logico delle sequenze avvenimenziali di un'azione socialmente rilevante. Il significato logico è astratto per definizione, sicché lo stesso soggetto agente è astratto dalla sua concreta personalità esistenziale e rappresentato come “tipo”. Il tipo è l'autore astratto, o soggetto logico, dell'azione de-contestualizzata. E come tale può essere chiunque. Ciò vuol dire che la conoscenza logica non coincide con la verità ma con la conoscenza tipo-logica. 45 S'intende per “realtà tipo-logica” la rappresentazione del mondo come ordine di relazioni tipiche secondo cause logiche. La “causa logica” è una relazione tra tipi astratti di enti razionali. I tipi logici della relazione tipologica sono enti astratti dal concreto divenire e considerati stabili, cioè perennemente presenti alla coscienza come essenze.Non c'è Pietro, ma l'omicida; non Matteo, ma

45In relazione alle scienze sociali, ved. M. Weber, Objectivitaet sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904), tr. it. Ne Il metodo delle scienze storio-sociali, Torino, 1997, pagg. 107-120. 21

il benefattore. La definizione logica elimina dalla soggettività imputativa ogni riferimento concretodi temporalità esistenziale. Il modo di trasformare Pietro in omicida, cioè in soggetto logico, è di trascrivere la sua realtà esistenziale in codice logicamente rappresentativo. Per attribuire all'ente un significato logico bisogna eliminare la sua singolarità, la sua possibilità di diventare altro da ciòche-è: mortale. La condizione mortale è il modo esistenziale dell'uomo di essere nel Divenire. L'Ordine razionale consiste dunque nell'impedire al soggetto reale di divenire altro da ciò che logicamente è: un soggetto logico, astratto: un tipo. Ciò è possibile partecipando l'ente della essenza eterna dell'Essere, riferendolo necessariamente alla sua realtà onto-logica. Ogni ente pertanto conferma l'onni-presenza dell'Essere, che l'ente rappresenta. La rappresentanza ontologica rende possibile l'oblio del fondamento comune, la verità dell'Uno che è l'Essere stesso, che resta sottinteso. La rappresentanza universale dell'Essere negli enti ne costituisce la sua necessità tautologica. La tautologia infatti è “un corpo di proposizioni legate insieme in modo tale che i legami tra le proposizioni siano necessariamente validi”.46 Le condizioni di validità sono introdotte dalla proposizione ipotetica iniziale: “se...”. La validità non deriva dai dati fattuali ma dalla definizione iniziale. La necessità della relazione logicamente significativa è dovuta alla credenza della verità della proposizione iniziale da cui deriva transitivamente la credibilità delle relazioni successive. Il fondamento veritativo di ciò che è vero, cioè la sua necessità di essere ciò che è, si basa su una credenza ontologica: che il principio di una rappresentazione logica sia necessariamente vero, poiché il suo contrario sarebbe assurdo, sarebbe non-essere, ossia il Kaos. Il Kaos, dunque, è la condizione di ciò che non ha un fondamento necessario (arché), una causa (aitìa) iniziale. La Necessità è la cifra della verità onto-logica, così come la Possibilità è la cifra del dis-ordine caotico. L'altro modo di organizzare il mondo attraverso il discorso consiste nel descrivere le apparenze sensibili alla luce di un valore simbolico recondito, non espresso come tale, ma suggerito da cifre evocative che rimandano a esso. Descrivere il mondo significa lasciarlo a sé stesso nella contemplazione. Questo lasciar essere il mondo senza ordinarlo

46G. Bateson, Op. cit., pag. 116.

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per selezione logica è il modo proprio della narrazione mitica, in cui i contenuti della descrizione non assecondano un criterio di realtà esterno alla loro rappresentazione, ma sono essi stessi valori rappresentativi del Kaos originario. La narrazione mitica è il linguaggio che il discernimento logico depurerà delle parti non coerenti con la rappresentazione tautologica del mondo. Questi due linguaggi, il mitico e il razionale, sono espressivi dei due possibili modi di ordinare il mondo in relazione al significato che esso ha per la coscienza umana. Il modo mitico ha nella rappresentazione i suoi criteri di ordine significativo, per cui la descrizione degli eventi coincide con il loro significato simbolico. Il modo logico presuppone un senso rappresentativo unitario, senza il quale i fenomeni restano irrelati e inesplicabile il significato della loro stessa realtà. Il modo mitico è una narrazione inclusiva di molteplici significati possibili, tali cioè da ammettere la possibilità del divenire altro da sé dell'oggetto evocato. Il modo logico è invece una narrazione esclusiva di altri significati, diversi da quello proprio, esplicativo del senso eunitario complessivo. Da qui l'incompatibilità platonica dell'orizzonte mitico nella repubblica ideale. La narrazione mitica, o poetica, è infatti descrittiva del Kaos originario, laddove la rappresentazione logica è esplicativa di senso univoco necessario. Necessario è l'ordine che non ammette altre possibilità. Tra i due ordini descrittivi, la rappresentazione mitica è quella dell'origine, mentre la logica è la rappresentazione del futuro che dovrà essere. Per il Mito, dunque, la verità è all'origine; per il Logos la verità è nel futuro condendo. La tensione temporale del Mito è di riportare tutto all'origine, facendo del presente la perpetuità del passato. La tensione temporale del discorso logico, invece, è rivolta a modellare il presente nell'immagine ideale del futuro, in cui è vista la compiutezza mancante al presente. Rispetto alla compiutezza originaria narrata dal Mito, il presente è decadente per difetto di memoria; rispetto alla compiutezza razionale futura, il presente è carente di realtà, è niente. In entrambi i casi, la verità coincide col Tutto (pleroma), ma soltanto nella rappresentazione logica la verità è prodotto del cambiamento, cioè della alterazione della condizione esistente: ciò che è, è sempre imperfetto, e dunque in-esistente, per cui dev'essere. Sicché il giudizio logico non interessa mai l'esistente l'ente

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ideale, espressivo dell'Essere. Da qui il contenuto astratto del giudizio, che non inerisce mai il fenomeno in sé, quello che si offre ai sensi, ma sempre all'ente trasfigurato idealmente. Ciò vanifica la pretesa di Kant di un giudizio che abbia un contenuto sensibile, poiché il contenuto del giudizio logico è sempre ideale. Mentre il Mito include il Divenire nell'origine attraverso la narrazione che non muta, il racconto logico lo trasfigura idealmente escludendolo come accidentalità particolare. Il Divenire, incluso dal Mythos ed escluso dal Logos, è il presente, che il Mito assorbe nel passato originario, e il Logos trasferisce nel futuro ideale. Il giudizio logico di realtà, pur essendo espresso al presente, si riferisce a un presente ideale, il quale, rispetto al presente reale, dev'essere, ed è quindi futuro. Da qui la differenza incolmabile tra il modello ideale e la copia reale, evidenziata da Platone per primo tra i razionalisti. La differenza temporale tra ciò che è esistente e ciò che è razionalmente reale, cioè vero, non è colmabile perché ontologica, sicché la coscienza razionale è costitutivamente in-attuale. L'inattualità del giudizio logico impedisce la conoscenza della realtà della verità, cercando di cogliere la verità della realtà. La realtà della verità è infatti il suo divenire sempre e solo sé stessa, che è quanto asserisce appunto il Mito. Ma ciò che diviene restando sempre sé stesso è il presente, inteso come l'orizzonte in cui Tutto avviene con-temporaneamente. Il Divenire dunque è la distinzione interna alla con-temporaneità. Tutto avviene nel contempo, ma non tutto avviene per la nostra coscienza percettiva, la quale conosce attraverso le distinzioni, ossia attraverso le correlazioni interne all'evento percepito. Tali correlazioni sono il contenuto delle descrizioni, cioè della rappresentazione della realtà. Rappresentare significa trascrivere un evento in termini correlativi, ossia di una sequenza temporale costituita da una causalità logica, cioè di distinzioni. La distinzione è la frantumazione del contemporaneo in sequenze causali, e pertanto la distinzione è la temporalità interna all'Essere inteso come Pleroma. Il giudizio logico distingue il contenuto onto-logico dagli eventi in-distinti della percezione. L'evento in-distinto e percepito nella sua totalità contemporanea è intuito. L'intuizione è la narrazione della percezione come evento temporalmente indistinto, e perciò originario. Nella rappresentazione intuitiva la descrizione non è di sequenze logico-causali, ma per

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immagini, ognuna delle quali rappresenta l'intero evento. Nell'intuizione ogni immagine è frammento dell'evento in-temporale. La rappresentazione logica dell'evento, invece, non può mai rappresentarlo nella sua totalità, poiché l'intero ideale non si dà come manifestazione sensibile e fenomenica ma sempre in relazione dialettica alla particolarità finita di cui è immagine astratta. La totalità, in senso logico, non può darsi che come Differenza, tra il dato fenomenico (finito) e la sua ideale rappresentazione (infinita, tipologica). La totalità può essere solo intuita; oggetto di intuizione noematica,47 ma non di rappresentazione logica, in quanto ogni giudizio logico è esclusivo dell'indeterminato divenire. La categoria del giudizio logico esprime l'infinito, ma non la totalità. Solo a condizione di considerare l'infinitezza dell'Essere come Verità, l'ontologia può considerarsi scienza vera. E pertanto, solo “se” l'Essere si ponga come Tutto, il Logos può assumersi come discorso di verità. Tale condizione ipotetica è il contenuto della decisione ontologica di considerare falsa la narrazione mitica e niente il Divenire. Ma la lotta contro il Mito, tendente a sostituire il giudizio logico all'intuizione dell'Uno, implica anche la particolare declinazione della temporalità come negazione del tempo. Infatti, poiché solo l'intuizione, cogliendo la totalità dell'Uno, conosce la con-temporaneità dell'evento, ne costituisce la sua conoscenza in-temporale. La conoscenza logica consegue la sua infinita temporalità escludendo dal giudizio di realtà il divenire interno alla temporalità, collegando tautologicamente l'inizio con la fine. Esclude il tempo perché lo annulla. Il tempo annullato, reso niente, cioè divenire, persiste nella rappresentazione logica come Differenza del finito dall'infinito: è nella Differenza che l'Essere è, trasformando la con-temporalità in relazione. L'intuizione, invece, consegue l'eternità rendendo impossibile il tempo, poiché in essa l'evento non è scansionato in sequenze logico-causali, ma rappresentato per immagini con-temporanee, ognuna delle quali esprime il Tutto, l'intero evento, analogicamente. Analogica è l'immagine che si rapporta ad altre per analogia, non per differenza, poiché ogni immagine si riporta al Tutto, che è l'elemento comune a

47Intendiamo come Noema la immagine, ovvero la concezione del mondo, derivata da una intuizione della realtà. Essa costituisce una forma di conoscenza della realtà ben distinta dalla fantasticheria o dall'illusione del Dokos. 25

tutte, non per relazione di senso razionale, ma mnestica. L'intuizione ha per contenuto l'in-differente, lo stesso indifferente che per il giudizio logico non esiste, è ni-ente. La lotta dialettica per l'Essere sostenuta dalla logica è in tal senso una battaglia per l'oblio dell'origine, che non è l'Essere, come supponeva Heidegger, ma il Kaos. Solo rimuovendo dalla memoria il Kaos originario è possibile che l'Essere sia l'origine e Tutto. Ma questa decisione ontologica ha lo stesso valore del Potere che ne garantisce la vigenza. Essa pertanto è strettamente legata al destino politico, al suo carattere ideologico, che lo costituisce a sua volta come mito. Per stabilire una relazione, cioè una differenza, bisogna presupporre infatti una analogia. L'ente per opporsi al niente dive presupporre un elemento comune. L'elemento comune a ogni relazione distinguente è il reciproco non-essere l'altro. Dunque tutti gli enti di ragione distinti per differenza, cioè diversi fra loro, hanno in comune la loro rispettiva particolarità, che è il negativo dialettico rispetto all'Essere. Ciò implica che il Negativo include l'Essere, lo comprende nel Tutto originario indistinto, e dunque è “più grande” dell'Essere stesso. Sicché “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore” non è l'Essere, che ha l'esistenza ma non il non-essere, cioè il Divenire; ciò che può essere pensato come essente in-esistente, ossia realtà possibile e contraddittoria, è il Kaos, il vero Principio e Tutto.48 La decisione dell'Essere non è inscritta nel processo originario, ma è solo una determinazione della volontà d'essere di una coscienza che sa di poter essere anziché non. Il sapere di poter-essere si determina come volontà (decisione) d'essere anziché non, e quindi di doveressere, contro ogni altra possibilità di non essere. La decisione ontologica, trasferita nel regno bio-logico, fa del motivo dell'ordine razionale quello della sopravvivenza del gruppo sociale. La

48Pensando Dio con le categorie della ontologia greca, lo si è pensato come un Ente di ragione, non come Tutto, comprensivo dell'inesistente e dunque lo si è ponsato come Potenza infinita e non come Libertà di Amore. “Dio infatti è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore: chi bene intende questo, intende per ciò stesso che Egli esiste in modo che non si può pensare neppure che non sia. Chi perciò intende che Dio è questo, non può neanche pensare che Egli non esista”:

Anselmo d'Aosta, Proslogion, tr. it., Torino, 1956, pag. 12. Ma il Dio esistente è il Verbo incarnato, la Parola, il Logos Christos, l'Uomo storico, non il Dio-Uno-

Tutto.

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prospettiva vitalistica si fonde con la prospettiva ontologica in una rappresentazione dell'Essere come Vita. Il motivo della vita implica che la relativa azione operosa sia di contrasto alla opposta tendenza contraria alla vita e alla ragione, che chiamiamo Morte. Se dunque guardiamo alla Vita come riferimento ontologico primario, la Morte rappresenta l'opposta tendenza negativa in-esistente. Se invece consideriamo l'unitario processo in cui s'intersecano simbioticamente Vita e Morte, allora la Vita ci appare solo come una possibilità non necessaria della unità originaria del mondo, che include tanto la Vita quanto la Morte, senza priorità etico-ontologica. Nell'ambito della possibilità della struttura originaria, la Vita appare come l'opzione non necessaria alla Morte, per la quale la decisione per la Vita si costituisce come il modo razionale di trasformare la sua possibilità in necessità. Il passaggio dal “potere” al “dovere” essere è ciò che chiamiamo “cultura umana”, nelle sue varie forme storiche di manifestazione. Rispetto alla generale tendenza culturale, che indichiamo come Storia, il processo originario che conserva l'integrità simbiotica della relazione Vita/Morte, indicato come Divenire, non è altro che la Natura, intesa come “l'organizzazione delle cose viventi che dipende da catene di determinazione circolari e più complesse (che) si combinano per conseguire il buon esito di quel modo di sopravvivenza che contraddistingue la vita”.49 Dunque la polarità negativa rispetto al valore ontologico positivo dell'Essere è la realtà originaria della Natura, in-distinta e caotica, che dev'essere negata per consentire all'ente di ragione di rapportarsi al suo fondamento decisionale, indicato come Vita e come Bene, ossia come valore assoluto. Per “valore” intendiamo con Schmitt ciò che “aspira a essere posto in atto”, in quanto “non è reale, ma è senza dubbio riferito alla realtà, e attende con impazienza di essere attuato ed eseguito”.50 Il valore è un costrutto ideale, una rappresentazione ideale della realtà, che ambisce e postula di diventare reale. Il postulato etico di tale ambizione realistica coincide con la posizione ontologica per cui l'Essere è (opposto al non-essere). Questa avversione metafisica è una posizione etica: di voler affermare l'Essere contro il Kaos originario

49G. Bateson, Op. cit., pag. 141. 50C. Schmitt, La tirannia dei valori, cit., pag. 47. 27

del processo di indistinzione naturale di Vita e Morte. Tale confusione, che impedisce il giudizio di ragione, costituisce l'antitesi polemica della posizione tetica ontologica a partire dalla quale si sviluppa metodicamente il pensiero razionalista della filosofia, sin dalla polemica verso il Mito. La filosofia, scienza della distinzione, si oppone alla indistinta narrazione mitica, che riflette il processo della Natura, senza offrire la risposta decisiva alla domanda tragica: “Perché la Morte se è possibile la Vita?” La risposta filosofica che supera le antinomie tragiche della cultura mitica è “Scelgo di vivere, cioè scelgo l'Essere, perché possono pensare la differenza”. Pensare la differenza significa appunto filosofare, ragionare secondo il Logos. Il poeta intuitivo diventa poeta pensante: nasce la filosofia (sec. VIII). La ragione è utilizzata da entrambe le forme simboliche del Mito e della filosofia. “Mito e filosofia, proprio come mito e rivelazione, sono separati dal salto nell'Essere, ossia dal distacco dell'esperienza compatta di un ordine cosmico-divino mediante la scoperta dell'ordine trascendente-divino”, anche se la “radicalità dell'evento” viene preparata storicamente a lungo fino alla sua piena trasparenza,51 grazie all'opera propedeutica degli aedi.

I poemi di Esiodo costituiscono un simbolismo sui generis, in quanto rappresentano un'autentica forma di transizione dal mito alla metafisica (attraverso) il sostrato esperienziale fornito da Omero, (che consente ai simboli mitologici di essere significati da più precise definizioni filosofiche). Con la Teogonia il mito degli dei olimpici inizia a lasciarsi penetrare dalla intenzione speculativa e, a partire da questo inizio, si può rintracciare una linea evolutiva di tale intenzione, che, passando per i filosofi ionici e italici giunge fino a Platone e Aristotele.52

Tra le due forme simboliche si pone la teologia, la forma intermedia propria di Esiodo. Con lui il poeta esce dall'anonimato dell'epica e si presenta come persona dotata di propria ispirazione, contrapponendo alla “non verità della società la propria conoscenza della verità.53 La

51E. Voegelin, Loc. cit., pag. 133. 52Ivi, pagg. 134-135. 53Ivi, pag. 137.

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capacità del poeta di sedare le passioni dei singoli è speculare a quella del principe di placare le turbolenze delle masse. Uno stesso carisma li possiede.

Le Muse sono figlie di Zeus e di Mnemosyne, la forza ordinatrice dell'universo. Esse trasmettono l'ordine giovico al principe e all'aedo, perché essi lo trasmettano sia al popolo che all'uomo, nella sua solitudine. Essi trasmettono dunque una verità che è musica dall'effetto catartico, (…) la sostanza dell'ordine che afferma se stesso contro il disordine della passione, che regna nella società e nell'uomo.54 “Il mondo di cui facciamo esperienza non è una struttura statica, ma un processo”,55 espressoda un suo adeguato simbolismo. L'orientamento paradigmaticamente esposto nelle favole è la prescrizione divina secondo Dike, il cui ordine finisce sempre per prevalere.56 Ma l'esito fatale non preclude all'uomo l'esperienza della crisi e l'incertezza esistenziale di essere annichilito dal Kaos.

Le visioni rivelatrici non sono storie di uomini e dei, quanto piuttosto forme simboliche che tendono a oltrepassare il mito, e nelle quali si esprime l'inquietudine che l'anima prova quando avverte la possibilità della propria distruzione spirituale e morale.57

La paura e il pericolo spingono l'anima a uniformarsi all'ordine sociale e cosmico per sopravvivere. Se l'ordine è giusto, lo sarà anche l'anima; lo stesso vale se sarà ingiusto. Non vi è in Esiodo ancora la resistenza consapevole di un Senofane, di un Eraclito o un ordine alternativo a quello sociale come in Platone. Resistenza a cosa? All'adeguamento nichilistico al contesto contingente, senza guida valoriale trascendente la situazione di fatto. “Lo stile della civiltà ellenica è indubbiamente caratterizzato dall'assenza di burocrazie, sia di tipo laico che religioso”, con lo sviluppo di società libere; tanto da costituire un “paradiso geopolitico affacciato sull'Egeo”, dal 1100 al 500 a. C.58 L'epica omerica si serve di una grande riserva di miti tradizionali che

54Ivi, pag. 138. 55Ivi, pag. 142. 56Ivi, pag. 148. 57Ivi, pag. 162. 58Ivi, pag. 172.

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si producono all'interno di una società aristocratica promiscua di dei e uomini che convivono nel reciproco riconoscimento, ma Esiodo dispone di un patrimonio mitologico più ampio, comprensivo di divinità ctonie e primordiali, tale che “i materiali del mito popolare vennero sottoposti, con incredibile libertà e naturalezza, alle esigenze di una ricerca speculativa sulle origini dell'Essere e dell'ordine”, con la comparsa personale del soggetto narrante, portatore di una nuova verità nella storia. La verità è il fondamento dell'Essere e della realtà, la cui struttura, con Esiodo, acquisisce una pluralità di tipi di ordine che l'uomo può distinguere e indicare con “i simboli consoni a esprimerli”.59 Gli antichi simboli furono sostituiti da nuovi, allorquando cambiò il contesto socio-culturale, e i filosofi di Mileto (Talete, Anassimandro e Anassimene) nella loro ricerca del principio “sostituirono le figure divine del mito con simboli tratti da cose e realtà del mondo dell'esperienza sensibile”.60 Infatti, il dinamismo olimpico, con le sue dinamiche eroiche, presupponeva una cultura aristocratica e guerriera che escludeva l'estensibilità dei suoi valori all'universo antropologico di una società pluralista. Ancorare i fondamenti del pensiero alla Physis consentiva l'affidabilità dei valori alla certezza dei sensi comuni a tutti gli uomini, tale da spostare sulla elaborazione logica la selezione delle anime noetiche dalla massa dei meri sentimenti. La elaborazione del Mito da parte della filosofia si concentra costitutivamente e originariamente sui fondamenti ontologici, col conseguente esautoramento del dinamismo teogonico, sostituito con uno statico naturalismo. L'ontologia naturalistica si sviluppa pertanto come rimozione-negazione del Divenire, rappresentato dai personaggi mitologici, a favore esclusivo del solo Essere statico del concetto. Il passaggio all'Essere segna questa transizione dal Mito al fondamento naturalistico. Sul modello naturalistico venne comparata l'esperienza umana, l'aspetto difettoso e imperfetto che richiedeva una adeguazione al cosmo dei valori eterni custoditi dalle leggi universali, per mezzo del Logos. La Natura in sé, quale contesto di fenomeni spontanei, non rivela il senso dei processi umani, la loro significativa destinazione, ma occorre un intervento ermeneutico che ne sveli la trama simbolica, poiché “è improbabile

59Ivi, pag. 173. 60Ibidem.

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che nella realtà, in quanto risultato di processi fisici, compaiano cose dotate di senso”.61 Il continuum del ciclo naturalistico esiodeo veniva trasfigurato dal telos significativo che attraversa le sequenze temporali tradizionali che scandivano sia il corso delle stagioni che delle generazioni umane.62 Il problema del confronto eroico con gli dèi legislatori si spostava dunque sul piano della coscienza, nella palestra della psyche umana, il cui ordine “trascende l'ordine della polis (…) nella forma simbolica che chiamiamo filosofia”.63 La filosofia costituì la rappresentazione dell'ordine ideale sulle manifestazioni dell'esperienza empirica, quale realtà vera rispetto alle deformazioni imperfette del vivere inconsapevole. Non c'è più il sovra-mondo divino, ma il sovra-mondo teoretico.64

La tensione fra l'Ellade dei poeti e dei filosofi e quella della polis, cui essi si contrapponevano, costituì la forma stessa della civiltà ellenica (…). Questa forma aveva qualcosa di sfuggente perché l'ordine dell'anima, derivante dal suo orientarsi verso una realtà che la trascende, è di tipo personale e non può essere istituzionalizzato: per formarsi in modo autonomo, poteva far conto esclusivamente su singoli esseri umani,65

contrassegnando il carattere privatistico della filosofia in contrasto col suo oggetto pubblico. Il rapporto problematico fra coscienza privata e coscienza pubblica caratterizza infatti la posizione del filosofo sulla scena politica.

Il nuovo ordine dell'anima, quando veniva comunicato dai suoi scopritori e creatori, entrava inevitabilmente in collisione con l'ordine pubblico, per il suo appello più o meno esplicito ai concittadini a riformulare la propria condotta personale, i costumi della società e, in ultima istanza, le istituzioni, conformemente al nuovo ordine scoperto. La filosofia ellenica divenne pertanto in misura considerevole l'articolazione del vero ordine della esistenza, all'interno della cornice istituzionale della polis ellenica.66

61H. Blumenberg, Arbeit am Mythos (1979), tr. it., Bologna, 1991, pag. 105. 62J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs. Etudes de psycologie historique (1965), tr. it., Torino, 2001, pagg. 82-84. 63E. Voegelin, Loc. cit., pag. 175. 64Ved. E. Rohde, Op. cit. pagg. 380-425. 65E. Voegelin, Loc. cit., pag. 175. 66Ivi, pag. 176.

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Il mondo mitico, sostituito dall'ordine naturale del cosmo ontologico, si proiettò sulla realtà umana come opposizione logica al modello d'ordine ideale. Ma se il mondo divino era semplicemente creduto, la realtà del mondo umano era esperibile come vissuto comune, sicché la negazione razionale assunse aspetti esistenziali di opposizione politica della coscienza del filosofo verso la società del suo tempo, in cui egli stesso viveva e di cui ne era parte. I tre stadi scoperti da Comte dello sviluppo del pensiero, che dalla fase teologica passa a quella metafisica culminando in quella positiva, riflettono l'eziologia dell'impianto filosofico quale elaborazione del Mito in senso ontologico naturalistico. Essendo la verità filosofica una relazione tra il contingente fenomeno oggetto di pensiero, e il fondamento ontologico che lo definisce logicamente come elemento del suo essere, e dato il carattere naturalistico del fondamento, lo sviluppo concettuale tende ad affermarlo ai fini della credibilità dei giudizi di realtà, necessariamente confermativi di quel fondamento. Il naturalismo dei Milesi fu superato dal logicismo di Parmenide, per il quale l'Uno era identico al Logos. Con Anassimandro viene a perdersi il riferimento naturalistico delle sostanze sensibili e l'originario diventa in lui l'Apeiron, l'Illimitato. Anche il concetto di Natura diventa un ambito di considerazione autonomo, come processo infinito, relativo all'illimitatezza del mondo, che nel simbolo di Anassimandro trova il suo toponimo trascendente. Il filosofo della trascendenza teologica si distingue dal filosofo della trascendenza naturalistica, che trovano in Platone e in Aristotile i rispettivi campioni speculativi di “due distinti modi di filosofare”.67 Ma la conoscenza è anzitutto uno statuto dell'anima, che è all'origine di una epistemologia della scienza politica. Infatti, “conoscenza ed esistenza di pendono l'una dall'altra; l'ordine dell'Essere si fa trasparente solo per coloro che hanno delle anime ben ordinate”, secondo le “funzioni cognitive dell'intelligenza” e le “virtù dell'anima”. Platone indicherà il principio d'ordine dell'anima nell'Agathon, ma fu Senofane ad avanzare “la pretesa di un riconoscimento pubblico” della saggezza individuale, che stabilisse così l'avanzamento del livello di civiltà

67Ivi, pag. 189.

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raggiunto dalla comunità umana.68 Pertanto, la correlazione fra natura umana e autorevolezza sociale fa parte delle dinamiche dell'ordine politico, costituendo un fattore emulativo di progresso, che implica l'esistenza di una “unità del genere umano costituita dalla comunità dello spirito”.

Con lo sviluppo della natura umana nella storia, gli uomini che attualizzano potenzialità rimaste fino a quel momento latenti nelle loro anime vivono col dovere di comunicare quanto hanno compreso ai loro simili, mentre sugli altri incombe il dovere di vivere aprendosi a una tale comunicazione.69

L'unità spirituale è potenziale, non fattuale, sicché implica il riconoscimento di un corpo di ottimati che s'eleva dalla media della comune umanità. La dinamica sociale si sviluppa tra l'uguaglianza astratta e la concreta differenza fra gli uomini.

La differenziazione dell'anima non è un processo collettivo, bensì ha luogo nelle anime individuali di persone particolarmente dotate (perciò) l'unico modo per apprezzare pienamente l'universalità della verità è che essa venga mediata da alcuni individui che si oppongono alla comunità. Più ci si avvicina alla rivelazione di una verità trascendente valida per tutti gli uomini, più intensa si fa la solitudine dei mediatori.70

La posizione ideologica dei moderni razionalisti consiste appunto di dare alla forma astratta della condizione spirituale una effettualità concreta attraverso l'opera del potere politico. E' il caso tipico dei “pubblicisti repubblicani” del sec. XVIII “addetti alla ipotesi del patto sociale”, i quali, eliminando la differenza tra astratta uguaglianza e concreta condizione storica dei singoli, intendendo pervenire autoritativamente a una uguaglianza sociale concreta, reale, che eliminasse la differenza tra il dato naturale e la condizione individuale, privando la condizione umana della sua concreta e particolare singolarità, che è all'origine della insuperabile disuguaglianza fra gli uomini. Infatti, l'astrazione sociale, “combinandosi coll'elemento

68Ivi, pag. 193. 69Ivi, pag. 194. 70Ivi, pag. 209.

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concreto può diventare disuguaglianza individuale”.

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Con Parmenide, dopo Senofane, la linea esperienziale giunge fino a concepire il destino soprannaturale dell'anima, che tende alla verità trascendente. Partendo “dal pathos della polis datrice di gloria immortale”, giunge alla “verità dell'anima individuale (che) si disincaglia dall'esistenza collettiva per raggiungere la sintonia con la realtà divina trascendente”.72 Con la Rivelazione cristica il simbolo della redenzione è sottratta ai filosofi, “e la filosofia, unica sorgente di ordine trascendente per la polis, (col Cristianesimo) è diventata una delle due sorgenti d'ordine per l'uomo, quella della ragione a fianco di quella della rivelazione”.73 L'esperienza della immortalità, attribuita al divino, precede la scoperta dell'anima quale sua fonte e che ne è partecipe. “Ma questa partecipazione (metaschesis) viene sperimentata come precaria; è qualcosa che può accrescersi o scemare, che può essere conquistato o perso. Pertanto l'attività dell'anima nutrirà l'elemento mortale o quello immortale”. La sospensione dell'anima tra Gea e Urano è la stessa della condizione umana, che può crescere in uno dei due sensi opposti, terreno o divino.

Il thymos (cuore) che non lascia tranquillo il pensatore è la forza dell'anima che successivamente, in Platone, diventa l'eros del filosofo; e la direzione viene impressa da Themis e da Dike, le divinità del giusto ordine e della giustizia, che ricompaiono nella Repubblica come Dike, la forza che conferisce all'anima proporzione e ordine.74

Ma è con Parmenide che inizia la vera storia della filosofia, “intesa come esplorazione della costituzione dell'Essere (eon)”,75 che diventa il simbolo di tutta la futura speculazione filosofica, e che, “come impostazione del problema della conoscenza, resta lo stesso, pur con i suoi sviluppi, anche nel seguito della filosofia greca”.76

71Ved. L. Taparelli d'Azeglio, Saggio teoretico di dritto naturale, vol. I (1840), Roma, 1949, pag. 281. 72E. Voegelin, Loc. cit., pag. 211. 73Ivi, pag, 212. 74Ivi, pag. 215. 75Ivi, pag. 216. 76G. Colli, Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, Milano, 2003, pag. 112. 34

L'essere di Parmenide non rappresenta l'origine degli enti percepibili sensibilmente (ta onta), come era avvenuto con la speculazione ionica. Si tratta di qualcosa che viene dato nell'esperienza del trasporto. Ecco perché il darsi dell'eon non è ricavabile per via speculativa come l'arché, il principio del flusso degli enti che si sperimentano (il quale, proprio in quanto flusso, è al tempo stesso un divenire), ma è dato alla speculazione come un dato di esperienza immediata.

Una intuizione dell'anima che entra in contatto col trascendente. Infatti, il concetto di Essere in Parmenide

si muove a un livello che non è quello della speculazione filosofica; ma si tratta di un processo dell'anima in cui l'essere inteso come trascendenza assoluta entra ultimamente nell'orbita della presa esperienziale. Il filosofo che gode di questa visione ha travalicato l'ambito dell'esperienza sensibile e non compie una speculazione sulla pluralità delle cose in quanto oggetto dei sensi. La sua visione ha un contenuto specifico che può essere apprezzato esclusivamente mediante una specifica facoltà dell'anima. Parmenide ha chiamato questa facoltà nous (il quale) rende presente e sicuro l'assente.77

Il nous è la “mente”, intesa come unità, ovvero come “comprensione totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si “concentra”, né una serie “disgregata” di punti accanto a punti, ma totalità”.

In Parmenide, dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano le cose così come appaiono all'occhio fisico, ai sensi, le une accanto alle altre, ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente. (…) Le due famose vie di Parmenide (fr. 2) si risolvono in effetto in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il reale.78

Il nous dunque è l'organo cognitivo che coglie la realtà non sensibile ma puramente intelligibile, della quale però non è in grado di

77E. Voegelin, Loc. cit., pag. 216. 78F. Adorno, La filosofia antica, vol. 1, Milano (1961), 1977, pag. 55. 35

articolare il contenuto, che è l'attività propria del Logos, l'organo cognitivo col quale è possibile determinare la natura dell'Essere. La realtà intuita dal nous è in-determinata, cioè non ascritta ad alcuna determinazione esclusiva di altre. Ciò che è indeterminato, però, non è solo l'unità generica degli enti non ancora vagliata dal Logos, ma è la con-fusione di ciò che è reale e di ciò che è ideale, trascendente. Non si tratta di un atto di pre-cognizione intuitiva, ma di cognizione del Tutto nella sua relazione immediata col finito. La conoscenza indistinta è quella recepita per abitudine e trasmessa in maniera acritica. Ma non è il caso del nous. Il procedimento del Logos si muove all'interno della distinzione tra l'ethos della conoscenza consuetudinaria del nomos, e la realtà che-è, quella appunto ontologica.

Ciò che è coglibile con il nous non equivale a ciò che è coglibile con il pensiero discorsivo. Avanzare sulla via che porta alla luce culmina nell'esperienza di una realtà suprema, che può essere espressa soltanto nell'esclamazione “è”.79

Ciò che “è” presente intuitivamente alla coscienza è quanto non procede e non diviene ma si rivela come evento assoluto che è tutto ora (nyn). Il suo non-divenire è lo stesso non divenire discorso (logos) comunicativo credibile, che, per Aristotile, ha il suo telos nell' “ascoltatore” (akroates).80 La totalità della rivelazione intuitiva le impedisce di divenire, cioè di perfezionarsi o corrompersi nel tempo. E in quanto in-finito, lo “è” di Parmenide è trascendente ogni determinazione razionale. Il pensiero filosofico si sviluppa a partire da questa intuizione della realtà totale a opera del nous. Come ha ben compreso Voegelin, “la speculazione critica, la filosofia nel senso tecnico del termine, sorge come un'operazione logica a partire da questa esperienza dell'è!”81 Dalla compresenza dei due elementi, intuitivo e discorsivo, sorge la Verità. “La speculazione filosofica costituisce l'incarnazione della Verità dell'Essere”. Ogni speculazione che prescinde dal fondamento intuitivo del nous è sofistica o pertiene alla mera opinione (doxa), e concerne il non-Essere.

79E. Voegelin, Loc. cit., pag. 219. 80Aristotele, Rhetorica, A 3, 1358 a 37 sgg. 81E. Voegelin, Loc. cit., pag. 221.

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Il conflitto tra verità e illusione non pertiene al conflitto tra proposizioni vere o false: l'illusione, in effetti, può dirsi altrettanto vera della verità, se per verità si intende l'articolazione adeguata e coerente di un'esperienza. Il conflitto si genera piuttosto fra due diversi tipi di esperienza. La verità consiste nella filosofia del realissimum, che si sperimenta allorché l'anima percorre la via che la porta a farsi immortale. L'illusione consiste nella filosofia della realtà che sperimentiamo come uomini che vivono e muoiono, in un mondo che si dispiega nel tempo e che ha un inizio e una fine. La caratterizzazione di questa filosofia della realtà come illusione trae la sua giustificazione dall'esperienza di una realtà superiore, di un fondamento immortale nel mondo mortale. Il conflitto risale, ultimamente, all'esperienza delle due componenti dell'anima, quella mortale e quella immortale.82

Esse agiscono sulla stessa realtà, come aspetti di uno stesso mondo, che viene conosciuto in due diverse tipologie d'esperienza, entrambe umane. Fra le due dimensioni, del cosmo illusorio e dell'Essere, Platone pone il Demiurgo, in funzione mediatoria, che incarna nel mondo il paradigma eterno.83 Ma le due dimensioni, entrambe reali, di una stessa realtà appartengono a questa unità totale, inclusiva dell'Essere, entro la quale la stessa doxa, intesa come Mito, diventa immagine di verità, dove l'alternativa verità-doxa di Parmenide viene superata attraverso la via della fede (pistis), diversa dalla via speculativa del Logos,84 quella della rivelazione. Il luogo della rivelazione è l'anima, la dimensione interiore che non può essere confinata nella finitezza fisica dell'uomo e che travalica i suoi confini in un Oltre. “Con la coscienza parmenidea della vita che porta verso i confini della trascendenza, l'anima stessa fa il suo ingresso all'interno della sfera della conoscenza filosofica. La speculazione sull'Essere trascendente è resa possibile dal fatto che l'anima è il sensore della trascendenza”.85 Il passo ulteriore è compiuto da Eraclito, la cui speculazione sull'anima si eleva al di sopra della verosimiglianza. Nel pensiero omerico non è ancora un pensiero dell'anima, pur esistendo la parola psyché, che in Omero è un'ombra

82Ivi, pag. 224. 83Ivi, pag. 225. 84Sul rapporto tra logos e pistis in Aristotile, ved. M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (1924), tr. it., Milano, 2017, pagg. 154 sgg. 85Ivi, pag. 230.

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che appare nei sogni ma non è un'anima immortale.86 L'idea di un'anima immortale appare ai pensatori intorno al 500 a. C., derivata da Pitagora e dalla metempsicosi. Il daimon pitagorico e l'ethos di Eraclito, per cui l'immortalità non è più legata al daimon, ma diventa dimensione umana. Ethos non è il mero carattere di una persona ma la sua “natura”, che può riferirsi anche a quella di un dio. Anche l'uomo, come il dio, è sophon; ma la sua sapienza che regge il mondo è divina, mentre lo gnome umano consiste nella conoscenza della sapienza che regge il mondo è solo del dio.87 Sono due tipi diversi da sapienza, l'umana e la divina. L'umana è quella che riconosce il limite rispetto a quella cosmica divina, “separata da tutte le cose”.

La sapienza umana non consiste in un possesso ma in un processo (…) dal molteplice all'Uno, che deve essere trovato in tutte le cose. (…) Noi siamo dell'avviso che Eraclito abbia sviluppato una filosofia dell'ordine, il cui

86“Psyché significa in Omero vita, concetto della vita, ma non mai come designazione della forza dell'anima durante la vita”. Nella cultura omerica “l'uomo muore quando esala l'ultimo respiro: ora la psiche è appunto questo alito, questo soffio d'aria, che non è un nulla (come non lo sono i venti, suoi parenti), ma un vero corpo, anche se invisibile agli occhi di coloro che son desti: la sua natura di immagine dell'uomo si dà a conoscere nelle visioni che si hanno in sogno”. Si potrebbe immaginare una vita indipendente dal disfacimento del corpo, “ma il poeta omerico non è giunto tant'oltre: la psiche è e rimane per lui soprattutto un essere reale, un secondo io dell'uomo”: E. Rohde, Op. cit., pagg. 383 e 46. 87E. Voegelin, Loc. cit., pag. 219. Aristotele, Rhetorica, A 3, 1358 a 37 sgg. E. Voegelin, Loc. cit., pag. 221. Ivi, pag. 224. Ivi, pag. 225. Sul rapporto tra logos e pistis in Aristotile, ved. M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (1924), tr. it., Milano, 2017, pagg. 154 sgg. Ivi, pag. 230. “Psyché significa in Omero vita, concetto della vita, ma non mai come designazione della forza dell'anima durante la vita”. Nella cultura omerica “l'uomo muore quando esala l'ultimo respiro: ora la psiche è appunto questo alito, questo soffio d'aria, che non è un nulla (come non lo sono i venti, suoi parenti), ma un vero corpo, anche se invisibile agli occhi di coloro che son desti: la sua natura di immagine dell'uomo si dà a conoscere nelle visioni che si hanno in sogno”. Si potrebbe immaginare una vita indipendente dal disfacimento del corpo, “ma il poeta omerico non è giunto tant'oltre: la psiche è e rimane per lui soprattutto un essere reale, un secondo io dell'uomo”: E. Rohde, Op. cit., pagg. 383 e 46. E. Voegelin ag. 234.

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centro era l'ordine dell'anima, e che, a partire da esso, si allargava all'ordine della società e del cosmo. Si tratterebbe di tre tipi di ordine interrelati, in quanto il principio ordinatore del cosmo veniva inteso alla stregua di una sostanza intelligente, e l'ordine dell'anima come facente parte dell'ordine cosmico.88

Emerge dunque un'idea di Ordine che dà senso al molteplice e lo porta ad unità significativa, cioè razionale. Il Logos è “l'ordine che pervade ogni cosa”, anche se gli uomini non se ne avvedono e non agiscono tenendone conto.89 La realtà politica come dimensione collettiva della esistenza umana entra in relazione dialettica con la visione spirituale di poeti e filosofi, i quali tracciano un orizzonte valoriale di motivi significativi per la vita umana, che nei loro auspici goda di stretta coerenza tra pensiero e azioni. A partire dal Mito per proseguire con la sua elaborazione razionale, l'intuizione del mondo (noema) della coscienza teoretica viene assunta nella cultura greca classica come la verità ideale del mondo, la cui fonte e organo cognitivo è l'anima. Ma

per diventare davvero forma di civiltà, la tensione dev'essere qualcosa di più di un pungolo che alcuni individui eccentrici esercitano sulla polis. Per creare una società di persone deste, capaci di rispondere alle due grandi sollecitazioni lanciate dai filosofi – la scoperta della profondità dell'anima e l'attrazione amorosa che l'uomo avverte per il sophon – c'era bisogna di una sorta di grande risveglio,

che avviene nel V secolo con l'esperienza spirituale e politica di Atene.90 Con le guerre persiane e la tragedia di Eschilo, infatti, spirito e potere si congiungono storicamente. La fede di Solone nella Dike e nella misura invisibile fu la stessa di Eschilo. Dopo le riforme, prese il potere il dittatore Pisistrato (561 a. C.), il cui governo democratico si propose di privare la casta nobiliare del suo potere sacerdotale, elevando Dioniso a dio comune e culto pubblico.91 Nasce col carro di Tespi e i tragodoi la tragedia come culto popolare. Caduto Pisistrato, nel 508 a. C., si realizzano le riforme di Clistene in senso democratico.

88Ivi, pagg. 234, 235 e 239. 89Ivi, pag. 240. 90Ivi, pag. 253. 91Ivi, pag. 254.

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Dopo Maratona prese il potere Temistocle, leader popolare e stratega. Nelle Rane (405) Aristofane traccia un ritratto maligno di Socrate esprime su di lui pressocché le stesse critiche che Platone muoverà ai Sofisti, tanto che verrà accusato nell'Apologia di avere la maggiore responsabilità della morte del filosofo.92 Nella stessa tragedia un giudizio severo verrà riservato anche a Euripide, corruttore dei costumi morali di giovani. Per Aristofane infatti il poeta è il didaskalos degli adulti in materia etica e politica, e pertanto

i poeti tragici vengono raffigurati come gli educatori del popolo, coloro che tengono alto un modello di umanità da ammirare; la qualità del popolo dipenderà direttamente dal genere di umanità che gli verrà presentato nelle grandi rappresentazioni teatrali incluse nelle feste dionisiache.93

La tragedia dunque con Aristofane si fa strumento pedagogico di massa, una “terapia psicologica” degli spettatori, per cui “gli eventi rappresentati sulla scena provocano in loro pietà, paura e altre emozioni, offrendo così una valvola di sfogo a passioni accumulate fino a un punto di saturazione”.94 Ma con la funzione catartica, descritta da Aristotile nella Poetica, si dissolve lo spirito della tragedia, e il poeta non racconta più, come fa invece lo storico (historikos) semplici eventi, ma qualcosa “di più filosofico e di più serio” della storia, qualcosa di “generale” che viene legato ad aspetti essenziali e di necessità. Se lo storico narra fatti, “il poeta crea un'azione che convoglia una visione generale” che inerisce alla verità, ossia offre una visione del mondo, un ordine ideale della vita, una rappresentazione simbolica, tale che la verità dell'anima trovi una corrispondenza nella realtà pratica. Non una verità contemplativa e distante dal mondo-della-vita. “La verità della tragedia è essa stessa azione, una azione secondo quel nuovo livello appena raggiunto dei moti dell'anima, che culmina nella decisione (prohairesis) dell'uomo maturo e responsabile”.95 La tragedia rappresenta l'azione della coscienza che lotta per decidere. La decisione è tanto più sofferta in

92L. Robin, La pensée grecque et les origines de l'esprit scientifique (1923), tr. it.,

Torino (1951), 1969, pagg. 190-191. 93E. Voegelin, Loc. cit., pag. 256. 94Ivi, pag. 258. 95Ivi, pag. 259.

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quanto l'azione è simbolicamente significativa della verità che rappresenta. Verità dell'anima, che va colta come dramma esperienziale, come vicenda di vita. Le vicende tragiche espongono situazioni rappresentative di reali condizioni spirituali, inevitabilmente connesse con le vicende politiche. La carriera di Eschilo “coincide esattamente con la fase più antica e più dinamica della storia della democrazia ateniese, che va grosso modo dal 480 al 440 a. C.: era quindi inevitabile che egli partecipasse agli accesi dibattiti del suo tempo”.96 Nelle Supplici (463 a. C.) la decisione del re di Argo di ospitare le Danaidi in fuga dai pretendenti egiziani diventa questione di governo condivisa col popolo (demos). Pelasgo non è un re assoluto dell'età del bronzo, ma una sorta di re-cittadino la cui rappresentazione pubblica anticipa di due anni le riforme democratiche di Efialte e di Pericle, sicché “è difficile non trarne la conclusione che l'opera e la riforma fossero in qualche modo ideologicamente collegate”.97La Dike è nella solidarietà degli intenti, non in un principio ideale astratto. La decisione di governo non scaturisce da un ragionamento di cui essa è la conclusione logica, ma da una considerazione di giustizia, maturata all'interno dell'anima. Non ogni tipo di condotta è azione giusta, ma solo quella maturata da una decisione di coscienza. Non ogni situazione, parimenti, è tragica, ma solo quella in cui per la decisione si deve ricorrere a Dike. “La funzione della tragedia è la sofferenza rappresentativa che lega l'anima al suo destino, e non la catarsi aristotelica che opera tramite pietà e paura”.98 Eschilo scoprì la funzione politica della psyché come fonte significativa dell'Ordine per la polis storica e dalla sua tragedia Platone trasse la sua filosofia della storia. Come scrive Voegelin,

Eschilo si è servito della forma tragica per presentare il dramma storico dell'anima. L'ordine dell'anima in evoluzione storica (…). L'esperienza della storia cresce proprio sull'humus della tragedia. Perché il significato dell'azione tragica possa irradiarsi sull'ordine dell'esistenza umana nella società e la illumini, è necessario che si sia prima pienamente sviluppata

96P. Cartledge, Utopia e critica della politica, in Le savoir grec (1996), tr. it., Torino, 2005, pag. 196. 97Ibidem. 98E. Voegelin, Loc. cit., pag. 263.

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l'idea completa dell'anima umana, della sua discesa in sé medesima grazie alla riflessione, della decisione che viene presa da quella profondità e di un'azione di cui l'uomo sia responsabile. E anche l'ordine sociale acquista tinte di tragedia, quando lo si intende come opera dell'uomo, un ordine che l'uomo contende alle forze demoniache del disordine, e che è incarnazione precaria di Dike, conseguito e mantenuto grazie agli sforzi dell'azione tragica. Solo quando l'ordine dell'anima divenuta la forza che ordina una società, un corso di vicende umane potrà diventare il corso della storia, solo allora l'ascesa e la caduta di una forma politica verranno sperimentate nei termini di una crescita o di una disintegrazione della psyché.

Eschilo non fu Mosè, ma “fu l'interprete eletto del suo popolo, capace di trovare la forma adeguata per parlare a esso”.99 Con il suo sentimento tragico della vita, la ricerca dell'Ordine spirituale diventa questione sociale, attestando surrettiziamente i limiti di una teoresi circoscritta alla coscienza soggettiva, di un'etica non socializzata; e non perché non estesa ancora alla moltitudine profana, ma in quanto non ricavata dal pluralismo delle molteplici istanze della gente, che sono pratiche in quanto valicano la mera coerenza formale dei costrutti razionali, circoscritti a una conoscenza limitata alla determinazione esclusiva di altre possibilità, che proprio la tragedia mette in luce. Se è vero che “i confini della nostra conoscenza finiscono là dove cominciano le contraddizioni inconciliabili”,100 la tragedia è il luogo in cui l'Io del Logos soggettivo confina col Noi dell'ethos comunitario, nella consapevolezza che “l'autodeterminazione dell'uomo trova i suoi limiti nel divino ordine cosmico, in cui è inserito”.101 Nel suo discorso agli Ateniesi del 430 a. c., riportato da Tucidide, Pericle afferma che che la partecipazione alla vita della polis sia un dovere di ogni cittadino. Partecipazione politica (isonomia) e virtù morale sono collegate strettamente, come l'ordine del discorso e la coerenza etica. Tucidide riporta anche l'Assemblea di Atene tenutasi nel 427 a. C. in cui Cleone denuncia lo scadimento del dibattito

99M. Pohlenz, Die grieschiche Tragoedie (1930), tr. it., Brescia, vol. I, 1961, pagg. 5051. 100L. Sestov, La filosofia della tragedia (1903), tr. it., Lungro di Cosenza, 2004, pag. 151. 101M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 62.

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politico a sfoggio retorico. La manipolazione della parola, già stigmatizzata da Eschilo, viene attribuita da Tucidide a una degenerazione dei valori politici, i cui codici vengono utilizzati a scopo propagandistico di parte.102 L'origine del disordine civile (stasis) è dunque verbale, inerente la sconnessione tra pensiero e azione, tra logos ed ergon. Il disordine intellettuale come la fonde di quello etico è l'oggetto precipuo del discorso socratico, la cui portata politica era dovuta alla generale considerazione delle precarie condizioni in cui versava la cultura politica ateniese del tempo, la cui riforma implicava la critica del sistema di formazione della coscienza civile, e dunque della coscienza comune, la stessa che, come Tribunale del Popolo, lo condannò a morte nel 399 a. C. E' ovvio che il problema della formazione culturale delle élite politiche cittadine fosse una implicita critica alla democrazia ateniese, caratterizzata dall'inettitudine, coperta dall'istanza della libera partecipazione alla vita pubblica. L'egalitarismo era un motivo ideologico pericoloso al bene comune, poiché, per Socrate e i suoi seguaci,

era letteralmente assurdo che la maggioranza, composta di cittadini poveri, ignoranti, stupidi, ineducati e incostanti, potesse prevalere, semplicemente perché i suoi voti erano più numerosi, sulla minoranza, l'élite ricca, informata, intelligente, istruita e ragionevole, esercitando quindi su questa una tirannia collettiva.103

Ma saremmo sviati dalla considerazione sociale della componente elitaria se perdessimo di vista il senso della critica socratica a ciò che nel Gorgia viene indicata come “attività irrazionale” (alogon pragma),104 consistente in ciò che potremmo chiamare la riduzione di una attività virtuosa da artistica a mera tecnica. Ciò vale per l'arte oratoria come per l'azione politica. Non è la posizione sociale a determinare il ruolo istituzionale, ma la competenza derivata dall'educazione intellettuale e morale. La sua visione etica implicava certamente una “introspezione”, ma non “individualistica ed

102Ved. P. Cartledge, Loc. cit., pag. 201. 103Ivi, pag. 205. 104Platone, Gorgia, a. II, 465 A, 6.

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esoterica”,105 bensì critica e spiritualmente (non socialmente) aristocratica. La critica ai sofisti nasce sulla scorta di una visione teleologica della prassi politica, finalizzata al bene comune e guidata da principii etici razionali. La razionalità, che costituiva una discriminante qualitativa tra le attività umane, rappresentava anche la condizione di una universale partecipazione alla vita pubblica; non indiscriminata, in quanto legata al numero e alla favorevole considerazione ideologica di esso, ma potenziale, previa educazione intellettuale. Il discorso di Socrate con Polo è inequivocabile e paradigmatico della concezione socratica della virtù politica. Chi aspira all'arte di governo non può essere un “parassita” (kolax) della vita sociale, un opportunista che abbassa gli ideali nazionali a proprio vantaggio, come rappresentato umoristicamente da Aristofane nei Cavalieri (725 sgg.). Il giudizio di Socrate concorda con quello di Aristofane circa i politicanti (nyn politikoi).106 Il suo contrasto coi Sofisti nasce sulla loro indifferenza relativistica ai contenuti di valore e ai fini dell'educazione, mentre condivide con essi l'opportunità offerta a tutti i capaci e meritevoli di farsi avanti nella vita pubblica, a prescindere dal loro status sociale di provenienza. Da qui la critica dei conservatori. I Sofisti erano degli intellettuali, peroloppiù stranieri, che giungevano ad Atene per impartire a pagamento un'educazione intellettuale a chi era impegnato nella vita pubblica o volesse impegnarsi, mettendo “in ordine quelle aree del sapere che potevano tornare utili a un uomo ben educato in un società colta e competitiva”.107 Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia) furono creati da loro come curriculum intellettuale, a cui affiancarono la techne politiché, come disciplina specifica consistente

in una teoria dell'educazione che prendeva avvio fin dalla prima infanzia e cercava di adattare un uomo ai costumi e ai modelli culturali della comunità alla quale apparteneva. E siccome le leggi costituivano la materializzazione dei principi ultimi sui quali riposava l'intero ordine della comunità, il coronamento del processo consisteva nell'impartire al giovane una

105Come sostenuto da P. Cartledge, Loc. cit., pag. 205. 106Ved. A.E. Taylor, Plato. The Man and his Work (1926), tr. it., Firenze, 1968, pag. 197. 107E. Voegelin, Loc. cit., pag. 283.

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conoscenza completa delle leggi della polis.108

Dall'educazione potenzialmente per tutti, impartita dai sofisti, nasce il contrasto con la tradizionale pedagogia aristocratica nel nuovo contesto democratico ateniese.

L'appello all'autorità cessa di rifarsi alla condotta esemplare degli antenati e degli eroi, o alla aristeia paradigmatica, o alle sezioni parenetiche dell'etica, e si dirige, piuttosto, alle leggi della polis, intese come standard di condotta ultimamente vincolante circa l'esercizio del potere e il dovere dell'ubbidienza. La nuova educazione era circoscritta entro l'orizzonte della polis, il suo scopo consisteva nella formazione di cittadini responsabili e di successo.109

Da Protagora a Platone c'è una continuità di idee e di teorie pedagogiche, storiche e politiche che nel Protagora Platone sintetizza affermando che la reverenza (aidos) e la giustizia (dike) sono potenze affettive dell'anima umana, senza le quali non è possibile mantenere l'ordine.110 Se l'educazione politica ed etica non coltiva queste qualità, ma semina acrimonia intellettuale e odio sociale, diffonde un fattore di destabilizzazione della vita comunitaria che comporta conseguenze gravi per l'ordine e la sicurezza dei cittadini. Questo atteggiamento anti-sociale e ideologicamente prevenuto è altamente biasimevole per tanto per Protagora quanto per Platone, il quale nelle Leggi prevede che “un uomo spiritualmente malato dovrebbe essere condannato a morte qualora tutti i tentativi rieducativi, protratti per cinque anni, dovessero rivelarsi inefficaci”.111 L'istruzione intellettuale era pertanto funzionale alla formazione virtuosa dei cittadini, ma non era bastevole ai fini della loro formazione educativa. Infatti, “quello che mancava alla Sofistica era il nesso fra i fenomeni ben osservati e catalogati dell'etica e della politica, e la 'misura invisibile' che irradia il proprio ordine sull'anima”, essendo perciò quello dei Sofisti “un mondo speculativo privo di ordine spirituale”, che Platone criticava come un grave limite.112 Il modo sofistico di argomentare sarà tipico del

108Ivi, pag. 284. 109Ibidem. 110Platone, Protagora, 320 d – 322 d. 111E. Voegelin, Loc. cit., pag. 285. 112Ivi, pag. 286.

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filosofare illuministico: una sorta di gesuitismo secolarizzato di razionalismo senza fede, di formalismo astratto, dove

il pensatore opera su simboli elaborati da filosofi mistici, che cercavano di esprimere la loro esperienza della trascendenza. Il suo modo di procedere consiste nel recidere la parte esperienziale, separando i simboli dalla base come se essi avessero un significato indipendente rispetto all'esperienza che esprimono, e con logica brillante dimostrare che sfoceranno in contraddizioni (se riferiti) a oggetti della esperienza infra-mondana.113

In verità, questo procedimento argomentativo è riferibile generalmente alla filosofia, la quale assume i simboli teoretici a partire da dati definitori la cui realtà è riferita al loro essere oggetto di pensiero, e non in quanto prodotto di una situazione che li ha originati come risposte fornite di senso (razionale). Ciò che viene indicato come l'Essere è il dato del pensiero, il suo oggetto di coscienza astratto di determinazioni e scisso dal Divenire da cui proviene e del quale rappresenta la sola realtà razionalmente coerente alla premessa. Ma la lotta condotta in nome dell'Essere alla contraddittoria realtà molteplice del Divenire costituisce la cifra metodica di un pensiero incapace di pensare, col mondo-della-vita, il Tutto, che invece il racconto mitico rappresentava. La contraddizione cui approda il pensiero sofisticoilluministico investe dunque la stessa filosofia, la quale rappresenta la risposta possibile alla esperienza della trascendenza che la tragedia poneva come domanda irresolubile fuori della sua determinazione contingente. Da qui la centralità del bene come misura soggettiva propugnata da Socrate, che Platone invece ricercava come valore in sé, oggettivo e universale nel Clitofonte e nel II libro della Repubblica, dove la critica alla Sofistica tocca il suo vertice e rivela

la preoccupazione di Platone per come la ricerca socratica possa suonare nella maggioranza: il pericolo è che la ricerca di Socrate non avendo già un suo contenuto, ma trovando il suo contenuto nella stessa ricerca, porti, per altra strada, al soggettivismo sofistico e all'impossibilità di un oggettivo ordine politico che abbia a suo fondamento un criterio di cui misura non sia l'uomo, ma un ordine super-umano, criterio di obbligatorietà, senza di cui il significato di Socrate si riduce, secondo Platone, ad una pura protrettica, a

113Ivi, pag. 287.

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un'opera meramente purificatoria.

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La risposta deve assumere la veste della necessità, riconoscibile oggettivamente come fine superiore a ogni disputa eristica, spostando il problema della “virtù” dall'ambito sociologico della concorrenza tra classi tradizionali e nuove emergenti, in cui è necessaria la “prudenza” non soltanto nelle cose private ma anche negli affari pubblici,115 a un criterio di superiore eticità non accessibile per mera perizia tecnica e retorica, considerata da Platone anti-filosofica. Sicché “i Sofisti avevano distrutto la filosofia”, perché anziché socializzare il sapere trasformandolo in patrimonio comune di valore pubblico, lo deformarono il tecnica funzionale al potere, e perciò fruibile senza vincoli etici e veritativi, e per “riedificarla implicava far leva sul deusmensura dei filosofi, e la nuova filosofia doveva essere dichiaratamente un tipo di teologia”.116 In tal senso, l'ordine dell'anima doveva derivare da un'esperienza interiore della “misura invisibile”, non rinvenibile empiricamente o comparatisticamente da esperienza culturali diverse. L'ordine spirituale è universale per essenza, non per compendio dottrinale, come espressioni esterne e oggettive nello spazio e nel tempo di culture molteplici, ma come una intuizione mistica, razionalmente rappresentata. Il filosofo-mistico non offre informazioni ma soltanto comunica le proprie esperienze interiori perché vengano riprese da anime affini. L'insegnamento sofistico era informazione ed esercizio di abilità, ma non movimento interiore comunicato per farlo suscitare in altra anima e risvegliarla dal torpore al fine della sua crescita spirituale. La comunità dei sapienti sofisti è una sovrastruttura “naturale” (nel senso dell'Ippia del Protagora platonico), giustapposta a quella koinonia del nomos come una finzione del genere umano superiore al genere comune, cui va sostituita al potere.

L'ovvio pericolo insito in un'evoluzione di questo tipo, nel caso che la società degli intellettuali debba diventare socialmente operativa, consisterebbe nella perdita della sostanza spirituale e nella sua sostituzione con informazioni

114F. Adorno, Loc. cit., pag. 182. 115Platone, Protagora, 318 e -319 a. 116E. Voegelin, Loc. cit., pag. 287.

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esterne, inadatte a edificare tanto l'ordine dell'anima quanto quello della società.117

Sappiamo che per costituire l'ordine politico occorrono le virtù della riverenza (aidos) e della giustizia (dike), che non sono però virtù dialetticamente ricavabili, ma elargite all'uomo dagli dèi. Secondo il razionalismo socratico, l'azione malvagia è legata alla ignoranza del bene. “Le cose sbagliate vengono preferite perché le loro conseguenze vengono mal valutate”.118 E' dunque l'ignoranza del futuro a rendere malvage le azioni presenti, la cui malvagità consiste nella assoluta irrelazione con le conseguenze future. La ragione del sapiente è la conoscenza dei nessi necessari tra gli eventi, e dunque la previdenza del futuro dalle azioni attuali. Il male è la sconsiderazione di tali relazioni e l'assolutezza del presente. Solo collegando le azioni presenti alla necessità (razionale) delle conseguenze, si può pervenire alla sapienza, la quale consiste dunque nella eliminazione della imponderabile libertà individuale degli uomini. La concezione opposta a quella del Protagora platonico è offerta da Agostino nelle sue Confessioni, a proposito del danno consapevole arrecato dai monelli all'agricoltore, che suscita in lui la riflessione sulla grazia come intervento divino riparatore dei limiti della ragione umana.

La dottrina della grazia deriva dal presupposto che l'uomo non può sapere ciò che lui stesso realmente è solo attraverso l'uso della ragione. Essa coglie l'abisso che si apre tra ciò che noi siamo e ciò che sappiamo di noi stessi: però non vede come questo sapere appartiene alla stessa ragione e tolga all'uomo la possibilità di darsi da fare allo scopo di superare quell'abisso. Se la verità sugli uomini così come la loro salvezza possono venire sempre solo da un aldilà che non è in nostro potere, il passo successivo da compiere lungo questo itinerario acritico – in quanto non riflette il proprio fare – era la contrapposizione della conoscenza elargita da Dio agli uomini a tutto quanto il sapere accumulato su questa terra.119

117Ivi, pag. 295. 118Ivi, pag. 300. 119K. Flasch, Augustin. Einfuehrung in sein Denken (1980), tr. it., Bologna, 1983, pag. 252.

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L'azione malvagia presente, che risolve in sé stessa il piacere di commetterla, testimonia l'esistenza del male per il male. Agostino ammette la possibilità di evitare il male anche al presente, senza collegarlo alle sue conseguenze, facendo leva sulla responsabilità morale dell'uomo libero. Per Platone, invece, non vi è libertà al presente, ma essa è fornita solo dalla conoscenza del Bene, cioè dalla sapienza filosofica nell'arte di misurazione (metretike techne) della verità, per cui “essere sopraffatto dal piacere è essere sopraffatto dall'ignoranza”.120 La conoscenza dislocata dalla ricerca interiore guidata dall'intuizione unitaria della realtà (nous), fa del Logos lo strumento di accesso alla verità, intesa come cosmo di leggi necessarie di cui l'uomo può possedere la chiave per conformarsi all'ordine universale che l'ignoranza poneva come un mistero. In questa conoscenza l'uomo scopre la sua libertà dalla necessità che lo legava al solo presente. L'autonomia del Logos dal nous pone l'uomo come misura di tutte le cose (Protagora), e l'autonomia del Logos che esplora la verità dell'Essere trascendente diventa l'autonomia dell'uomo che esplora il mondo circostante, nella prospettiva di un radicale immanentismo.121 La verità come coincidenza tra enunciazione e contenuto enunciato (orthotes) nasce in Platone dall'esigenza di garantire al dialogo filosofico la conoscenza vera, che è l'Idea, e non già l'ente, per cui l'adaequatio (synfonein) dell'intelletto non è alla cosa, alla realtà ontica, lasciandola in sé esterna alla coscienza, che dubiterebbe sempre perciò della veridicità della sua conoscenza, che non può trovarsi negli enti ma nel pensiero.122 Agostino nelle Confessioni rigetta il concetto aristotelico di verità, per cui “verum mihi videtur esse id quod est”,123 asserendo che “nec quicquam est falsitas, nisi cum putatur esse quod non est”.124 L'id quod est, cioè Dio ovvero la norma ideale, “non è semplicemente l'oggetto, il ciò che è, ma ciò che deve esser ciò che è: la sua idea. La verità, pertanto, non è la verità logica di un pensiero che afferma semplicemente e realisticamente 'ciò

120E. Voegelin, Loc. cit., pag. 300. 121Ivi, pag. 306. 122Plotino, Enneadi, V, 5, 1, 28-32. 123Aristotile, Metafisica, IX, 10, 1051 b 2 segg. 124Agostino, Confessiones, VII, XVII, 23.

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che è', ma il principio che mostra (ostendit) come deve essere ciò che è e a cui il nostro pensiero deve conformarsi nel suo giudizio”, secondo un principio di rectitudo sola mente percepibilis che verrà adottato anche da Anselmo.125 Il mondo esterno perde dunque di sostanzialità, e perciò di normatività, essendo la verità un presupposto originario della conoscenza della realtà, indispensabile alla possibilità di pensarla unitariamente, che è l'unico modo di pensarla veramente. Ma pensare l'unità del Molteplice (illius unius cognitio) equivale a pensarne l'Idea, sicché “la nozione di unità ci appartiene prima di ogni esperienza ed è la condizione trascendentale perché la stessa molteplicità possa venire conosciuta”.126 In quanto presupposto, l'Idea non è derivata e risultata da una operazione empirica, ma assolutamente spontanea, e tale che la conoscenza della realtà non sia mai un procedimento analitico, che assuma cioè i dati nella loro singolarità, attribuendo qualcosa a qualcosa nella affermazione del giudizio, e negando qualcosa separandola da qualcos'altro,127 ma sia sempre una relazione che riferisce il dato della conoscenza ad altri dati,128 secondo quella modalità gnoseologica che noi chiamiamo “simbolica”, in cui non si offrono livelli separati di realtà sostanzializzati, ma solo livelli diversi di coscienza, in cui l'Idea non è una ipotesi cosmologica di una causa-mondo prodotta da un effettoDio, bensì è una intuizione eidetica unitaria intesa come il Bene che rende intelligibile la realtà molteplice, in sé insignificante. La diversità dei livelli di coscienza implica la questione sollevata da Platone nel Parmenide a proposito della natura del Molteplice, dove si afferma la impossibilità che i “simili possano essere dissimili”, mancando ad essi una comune determinazione,129 intesa in senso ontologico, ovvero tale che il giudizio logico determini anche l'appartenenza degli enti all'Essere, quale loro comune fondamento unitario. E' il giudizio logico che attribuisce realtà ontologica a ciò che non l'ha, ed è perciò ni-ente fuori del concetto, per cui il mondo

125E. Samek Lodovici, Dio e mondo. Relazione, causa, spazio in S. Agostino, Roma, 1979, pag. 21. 126Ivi, pag. 23. 127Aristotile, De interpretatione, 6, 17 a 25-26. 128E. Samek Lodovici, Loc. cit., pag. 25. 129Platone, Parmenide, 127 e 1 segg. Ved. E. Samek Lodovici, Loc. cit., pag. 31 n. 20. 50

assume la sua determinazione reale per mezzo del Logos, che agisce come creatore cosmo-logico, dell'ordine uni-versale. Questa funzione demiurgica del Soggetto trascendentale idealistico, trasferita da Dio all'uomo, fa della coscienza umana una potenza creatrice che, nel razionalismo moderno, eleva la coscienza umana a rango divino, assumendo la realtà esterna alla coscienza alla stregua di materia plasmabile ad libitum. L'Essere che si rivela al nous parmenideo non è l'essere dell'esperienza immanente, il quale è un non-essere rispetto alla realtà ontologica, ma è il Molteplice che esiste nella coscienza acritica come realtà logicamente indeterminata, in cui gli essenti sono appunto molteplici, ossia “contemporaneamente simili e dissimili”, e perciò esposti a molteplici determinazioni possibili, che nell'ottica idealistica di Platone sono all'origine della contesa (stasis) politica che nuoce alla comunità sociale. La ricerca platonica della concordia (homonoie) socio-politica coincide dunque con la determinazione univoca della realtà nell'ordine onto-logico, col conseguente superamento della coscienza comune attraverso il potere filosofico, in cui opera la coazione, non l'imitatio agostiniana, che è la “struttura fondamentale degli atteggiamenti dell'essente anche laddove apparentemente c'è un allontanamento” e relazione armonica della creatura all'esse inteso come originario Creator.130 L'unità dell'imitatio è relazione d'amore del molteplice con la sempiterna ratio dell'Uno. Per Agostino

esistere non è null'altro che essere uno. Pertanto ogni cosa esiste in quanto tende verso l'unità…gli elementi semplici, infatti, derivano la loro esistenza da se stessi; quelli composti imitano l'unità con l'armonia delle loro parti e non esistono nella misura in cui pervengono a tale unità.131

L'amicizia solidale tra i membri della società è data da Platone, secondo il modello fisiologico di Democrito, dal pensarla allo stesso modo (homophrosyne). Al bilanciamento (isonomia) delle forze fisiche corrisponde l'equilibrio politico.

130H. Arendt, Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interpretation (1929), tr. it., Milano, 2004, pag. 69. 131Agostino, De moribus Manicheorum, II, 8. 51

Democrito ha sviluppato il concetto di serenità (euithymia) come bene più alto conseguibile con la buona condotta, inaugurando in tal modo il grande dibattito filosofico sulla condotta che assicura l'eudaimonia. (…) L'idea medica di salute come costituzione equilibrata dell'organismo, determinerà il successivo corso dell'etica greca, specialmente nella concezione platonica di giustizia e nella forma mista di governo.132

La filosofia trasferisce gli attributi divini nei simboli speculativi, iniziando quella elaborazione del Mito che apre il problema della costituzione politica come forma umana e soltanto umana di socialità. Esiste un nous comune (xynon) a tutti gli uomini ed è di origine divina che è il nomos. Accanto al nomos divino esistono molteplici nomoi umani. La legge umana giusta è quella che si nutre della legge divina, poiché il nomos divino è sorgente d'ordine, mentre quello umano lo è nella misura in cui vi partecipa.

L'idea di physis, di natura come sorgente autonoma di ordine in competizione col nomos, può essere formulata solo quando l'idea di un nomos divino trascendente come fonte dell'ordine si è atrofizzata; e questo può accadere, in contesto teoretico, solo quando ci si sia allontanati dal filosofare nel suo senso esistenziale (…) verso la metà del V sec. con Protagora.133

Protagora eliminò il theios nomos su cui si basava la speculazione di Eraclito sul nomos, che in seguito i Sofisti sostituirono con la physis.134 Il termine physis compare appunto in Protagora e, pur non essendo contrapposto a nomos, costituisce il “nesso intermedio fra l'antica etica aristocratica e l'utilizzo che ne fecero successivamente i Sofisti nella loro etica rivoluzionaria”.135 Per il filosofo, la phya è una dote naturale necessaria all'educazione (askesis) politica. Viene a perdere il carattere aristocratico di stirpe, come in Esiodo o in Pindaro, e acquista l'accezione di dote individuale predisposta all'arte politica, propria di una “aristocrazia naturale, atta a svilupparsi in coloro che

132E. Voegelin, Loc. cit., pag. 315. 133Ivi, pag. 318. 134“In Protagora fa la sua prima comparsa un tipo di pensatore che è scettico o agnostico riguardo alla realtà trascendente e, contemporaneamente, conservatore riguardo all'ordine storico (…) che nella civiltà occidentale si ripresenterà, dopo gli sconvolgimenti della Riforma, con Montaigne, Bayle e Hume”: Ivi, pag. 319. 135Ibidem.

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guidano la polis e ne preservano il nomos”. Perduto il collegamento tra nomos e physis, questa diventa una fonte autonoma e autorevole di ordine.136 Il nomos diviene allora costume tradizionale, convenzione sociale. “La ricerca della vera natura (physis) delle cose ingaggiata dai filosofi forza il nomos – portato irriflesso di tradizioni culturali in senso lato – ad assumere il significato di credenze erronee della gente comune non istruita”.137 Solo le regole della Natura sono necessarie, mentre quelle umane sono convenzionali. Ma cos'è universalmente necessario? Il dislocamento dell'unità significativa del Molteplice dal regno celeste a quello fisico comporta anche la sua determinazione fisiologica, che da concettuale diventa biologica. Naturalmente necessario è per tutti la morte, cioè la conferma della costituzione finita di tutte le cose. Solo l'uomo, estraneo per la sua anima alla realtà naturale, pensa e opera in opposizione alla legge mortifera di Natura. Umano è ciò che contravviene alla Natura, nel tentativo di resistere alla legge di morte universale. Tanto più le leggi umane negano la necessità naturale, quanto più sono vicine alla condizione immortale, che è quella divina. Vincere la morte è somigliare a Dio. Tra le due normative, naturale e convenzionale, la differenza risiede nella diversa efficacia rispettiva. Infatti, se per le leggi naturali è indifferente la loro conoscenza da parte dell'uomo, per quelle artificiali è indispensabile che l'uomo le riconosca per applicarle a sé e agli altri, sicché il riconoscimento sociale delle norme ne costituisce la loro necessità. Il potere di chi stabilisce i termini di tale riconoscimento sostituisce la necessità naturale con quella della volontà. La necessità impersonale della Natura diventa umana e sociale, politica e dialettica. “Per i Greci ogni vera bellezza della vita scaturiva dall'intensissimo commercio delle forze spirituali nella società”, attuato attraverso “l'arte del dialogo”.138 Se la morte naturale consiste nella trasformazione di qualcosa in altra, la morte per l'uomo è la vittoria della Necessità sulla sua volontà. Tale forza vittoriosa si chiama Destino. Il destino di morte è il Kaos contro cui combatte l'Essere. Ma tale Essere, non essendo vincolato ad alcuna necessità, è legato e dipende solo dalla fede umana nella sua validità

136Ivi, pag. 320. 137Ivi, pag. 321. 138 H. Lotze, Mikrokosmus (1856-64), tr. it., Torino, 1988, pag. 717. 53

rispetto al disvalore mortale, che pure è necessario, perché indipendente dal riconoscimento umano e della intelligenza. Dunque ciò che non dipende dalla ragione umana dipende dalla Natura, le cui leggi dominano la realtà molteplice, il mondo della coscienza elementare, non pervenuta alla visione unitaria del Logos, tributaria di valore. Valido è ciò che riporta all'Essere. Questo valore è ciò che l'uomo di pensiero chiama Verità. Vero è ciò che di un ente corrisponde all'Essere. L'ente vero è quello di cui si può dire che è. Ciò-che-è appartiene all'Essere. La fede nella validità dell'Essere, come abbiamo visto a proposito del Parmenide di Platone, è che l'Essere sia Uno, ovvero il Tutto, e il non-essere sia il Nulla. Ma questo Nulla, nella trascrizione in termini di realtà fisico-esistenziale è nient'altro che la Natura con la sua necessità di morte. La metafisica platonica ha cercato di pensare la realtà priva di morte, affermando una dimensione dell'esistenza umana in cui viene rimossa la necessità, chiamandola “anima”. La vita dell'anima è quella in cui scompare l'ombra della morte, cioè la finitezza della condizione umana. La Morte è una condizione naturale che crea dolore all'anima umana, ma non è naturalmente né buona né cattiva, affermando soltanto la legge di universale necessità, che è appunto la finitezza. La Morte acquista valore di determinazione negativa in relazione alla Vita, che è la condizione dell'Essere. Ma solo la coincidenza di Vita ed Essere può legittimare quella tra Morte e Nulla, poiché in natura il Nulla in realtà è l'alterità rispetto all'unità dell'Essere. Ciò che il valore ontologico afferma è dunque il disvalore dell'Altro-da-sé, cioè la condizione di trapasso di ciò-che-è in ciò-che-non-è, ossia il Divenire. La Necessità, pertanto, è quella condizione onto-logicamente assurda in cui è possibile che qualcosa sia e non sia, cioè sia in divenire, che diventa il disvalore metafisico di ciò che non deve essere. La credenza nella validità dell'Essere implica l'impegno deontologico di negare la realtà del Divenire, per affermare di contro che soltanto l'Essere è valido. La coincidenza ontologica ed etica fa del Logos una determinazione non più solo teoretica e soggettiva, cioè privata del filosofo, ma bensì la condizione politica necessaria di validità del nomos razionale. In questo senso, la metafisica è la forma ideale dell'anima divina, cioè una teologia, o pensiero delle cose eterne, che non muoiono, estesa alla realtà umana in termini normativi e

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costitutivi dell'Ordine politico-sociale razionale. Per trasformare la forma “ideale”, in sé sprovvista di alcuna necessità, in ordine normativo cogente, provvisto quindi di una sua necessità, interviene l'opera politica del Potere, atto a stabilire il valore universale dell'Essere come valore comune, pubblico, non più circoscritto alla coscienza dei filosofi. La filosofia, socializzata come ordine normativo della vita della polis, diventa ideologia, e la lotta contro la Natura diventa lotta politica contro l'errore. Il Potere sostituisce la fede nell'Essere e fa di questo un idolum tribus. L'idolatria ideologica è il surrogato di massa della fede destinata al merito di pochi, che Parmenide chiama “nous” e Agostino “grazia”: l'intuizione mistica illuminante, che nasce da dentro la coscienza ma che non è del mondo fenomenico. Cultori e interpreti del mondo fenomenico furono invece gli storici greci. Erodoto (Alicarnasso, 485-425 a. C.) visse tra le Guerre persiane e i primi anni della Guerra del Peloponneso. In lui è la consapevolezza della distanza, per il saggio dolorosa, tra l'ordine spirituale e quello sociale. A suo dire, “il dolore più grande che affligge l'uomo è sapere tanto, per potere su nulla” (IX, 16). la realtà sociale sfugge al controllo politico delle tradizionali aristocrazie, il cui rimpianto temporis acti non pregiudica il senso di continuità storica pur nel mutamento delle strutture socio-politiche. Nel trattatello attribuito a Senofonte sulla Costituzione degli Ateniesi (431-424 a. C.) si mette in risalto come

i problemi peculiari del processo storico si rendono evidenti nel momento in cui un'unità politica concreta, pur continuando a mantenere la propria identità, muta rapidamente i suoi valori, nonché la struttura sociale e politica. La città di Pericle è ancora Atene, ma non è più retta dagli aristocratici che la fondarono e la forgiarono. Il popolo ateniese esiste ancora, più potente che mai, ma non accetta più l'ethos di Omero e di Pindaro (…). Lo spostamento dall'ethos al potere crea l'idea di storia come medium nel quale l'unità di potere permane identica nonostante il cambiamento dell'ethos, come pure quella di entità politiche che hanno una storia proprio in quanto il loro ethos muta.139

Il potere democratico, per quanto in mano ai poneroi, cioè ai membri delle classi inferiori anche moralmente, viene legittimato in funzione

139Ivi, pag. 353.

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della possibilità offerta ai peggiori di migliorare attraverso il loro coinvolgimento alle responsabilità pubbliche. Non è l'ethos della virtù l'accesso al potere, ma è il potere che crea la virtù civica. “Platone comprese che il processo significava il declino di una civiltà”.140 La syngraphe di Tucidide (Atene, 460 ca. - 399 a. C.) sugli eventi bellici tra Peloponnesiaci e Ateniesi rappresenta la visione unitaria di eventi tra essi slegati ma congiunti da un'unità storica, cioè logica, che egli chiama kinesis, costituito dal più grande episodio della storia ellenica, durato 27 anni, dal 431 al 404. Come egli scrive, “mai prima d'ora tante città greche erano state conquistate, distrutte e spopolate; mai si erano avuti così tanti caduti in battaglia; mai si erano avute tante condanne all'esilio e tanto spargimento di sangue, causati da guerre civili interne alle poleis (1, 23)”. Tucidide intende fare un resoconto minuzioso e credibile, non fantasioso, destinato a rimanere per sempre. “Il rifiuto del passato in quanto privo di grandezza è strettamente connesso alla consapevolezza di un metodo nuovo, che permette di rendere la verità con maggiore esattezza (saphes)”.141 L'esattezza era legata alle manifestazioni visibili della realtà fisica. Nel trattato Sulla natura dell'uomo, Ippocrate rigetta le speculazioni eleatiche e ioniche sulla costituzione metafisica dell'uomo per trattare di questioni attinenti alle condizioni mediche e alle cause prossime delle malattie. Similmente, Tucidide, rigetta le ipotesi di

una legge di compensazione sottesa al saliscendi delle cose umane, assunta (da Erodoto, sulla stregua di Anassimandro e di Eraclito) come principio esplicativo del corso delle vicende. Per Tucidide, come per gli autori ippocratici, le ipotesi ioniche sono inutili quando si devono indagare le cause prossime di un fenomeno, sia che si tratti di un movimento (kinesis) che di una malattia (nosos).142

Tucidide fu influenzato dai metodi della scuola ippocratica, assumendo il concetto medico come modello per il suo concetto di kinesis. Egli però, se è più efficace di Erodoto a spiegare la condotta reale della guerra, ossia la causa prossima (aitìa), diversamente dal grande predecessore non riesce a spiegare le origini remote

140Ivi, pag. 354. 141Ivi, pag. 359. 142Ivi, pag. 361.

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(alethestàte pròphasis) del conflitto tra Atene e Sparta. Egli intende descrivere la guerra tra due leghe e nient'altro, essendo la sua opera solo “uno studio sul governo politico e sul comando militare”.143 Il suo concetto di logos interno ai fenomeni molteplici consisteva nella ricerca di un legame più psicologico che strutturale, ricercato invece da Platone, il quale pure non poteva fare a meno dei dati reali, sicché “se il metodo di Tucidide, intimamente connesso alla psicologia sofistica, poteva condurre a ricercare un eidos o idea dei fenomeni sociali, la ricerca platonica dell'idea dev'essere stata in debito rispetto all'empirismo sofistico, ben più di quanto comunemente non si ritenga”.144 D'altronde, ove non vigesse una scienza empirica, le ipotesi filosofiche sui fenomeni umani e naturali trovavano accoglimento anche da parte degli analisti empirici.

La scienza empirica costituisce un fattore indipendente nella storia intellettuale dell'uomo (…) rispetto allo sviluppo della filosofia (…), in quanto una conoscenza più o meno estesa di cause ed effetti nel mondo circostante costituisce una condizione inevitabile della sopravvivenza umana, perfino ai livelli primitivi di civiltà. (In ogni civiltà) la scienza empirica non trae origine dalla filosofia, ma dalla conoscenza di quanti praticano l'arte,

i quali, dotandosi di un metodo, organizzano le conoscenze in una forma scientifica.145 Circa la scienza politica, i suoi artigiani avevano distrutto l'ordine ateniese, anziché edificarlo, per cui non potevano costituire quel paradigma di esperienza funzionale al modello politico. “La scienza di Tucidide esplorava unicamente l'idea della kinesis, ovvero del perturbamento dell'ordine; Platone esplorava invece l'idea stessa di ordine”.146 Tucidide creò “la scienza empirica della malattia letale per l'ordine; Platone creò l'altra metà della politica, la scienza empirica dell'ordine”, utilizzando “i medesimi termini di eidos e idea utilizzati dai medici e da Tucidide” In tal senso, anche Platone fu “l'artigiano empirico che cercò di definire e di dar forma all'eidos dell'ordine nella società, legando l'ordine immanente alla sua origine

143 A. Momigliano, “Alcune osservazioni sulle cause di guerra nella storiografia antica” (1954), in Id., Storia e storiografia antica, Bologna, 1987, pagg. 52-53. 144E. Voegelin, Ivi, pag. 362. 145Ivi, pag. 363. 146Ivi, pag. 364.

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trascendente nell'agathon”.147 La differenza di prospettive è però enorme. L'artigianato empirico si fondava infatti sul vissuto, selezionato in funzione dello scopo pratico, laddove il modello platonico era una forma ideale meta-empirica, la cui funzionalità pratica nessuno aveva sperimentato. La struttura del mondo naturale e la struttura dell'anima non obbedivano allo stesso ordine ideale. La validità dell'ordine platonico era legata alla fede teoretica nella verità della ricerca dialettica, e su nient'altro. Tucidide intendeva per “guerra” un processo ideale avente un significato unitario, la cui trama coinvolgeva aspetti militari e morali, dove la potenza si intrecciava con la decadenza di una civiltà, quella ateniese, in cui l'esito politico era inscritto nella crisi dell'ethos. Il rapporto tra etica e politica passa attraverso l'istanza di salvare il potere costitutivo dell'ordine socio-politico, civile, e i costi morali di tale necessità. L'ordine della necessità non coincide con l'ordine della moralità, poiché essi ubbidiscono a criteri diversi di valore. “Al conflitto non v'è soluzione. Lo strato più profondo a cui si perviene nella teoria della kinesis è quello della disperazione. Atene non può che andare avanti sotto l'urto della necessità, e ogni nuovo passo la fa sprofondare ancora di più nella palude dell'ingiustizia”.148 Tucidide non colse il nesso organico fra razionalità e moralità, non più dei Sofisti suoi contemporanei. Non si avvide quindi che

la sfera del potere e del razionalismo pragmatico non è autonoma, ma parte dell'intero dell'esistenza umana, il quale comprende in sé anche la razionalità propria dell'ordine spirituale e morale. Se si arriva al collasso dell'ordine impresso da questa componente, la formulazione dei fini nell'ordine pragmatico cadrà sotto il controllo dell'irrazionalità delle passioni, e anche se la coordinazione mezzi-fini potrà restare razionale, l'azione diverrà, ciononostante, irrazionale, perché quei fini saranno estranei alla logica dell'ordine spirituale e morale.149

Tucidide non cerca di razionalizzare le antinomie tragiche dell'esistenza storica, lasciandole sussistere per denotare il carattere dilemmatico dell'esperienza politica collettiva, sicché “per questo suo

147Ivi, pag. 365. 148Ivi, pag. 369. 149Ivi, pag. 370.

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merito, egli va considerato come il vero erede della tradizione tragica”, segnando nel contempo “la fine formale della tragedia, in quanto racconta la morte dell'eroe che un tempo aveva rappresentato l'ordine di Zeus contro il disordine della hybris del potere”.150 L'unità drammatica in cui si contendono i termini della necessità e dell'ethos non viene rappresentata in forma discorsiva di una mera narrazione di eventi, ma attraverso dei discorsi che, come i cori tragici, facevano risaltare il dilemma alla coscienza. “La realtà di Tucidide è, pertanto, drammatica, nel senso che le azioni non sono riportate come meri eventi nello spazio e nel tempo, ma lasciano trasparire il dramma dell'anima proprio ricorrendo allo stratagemma del discorso”, il quale era riportato per dare il senso logico unitario degli eventi molteplici (erga), in modo tale che “i discorsi (logoi) sono inseparabili dagli eventi”.151 La realtà avvenimenziale viene a formalizzarsi attraverso tipologie di azioni e stili antropologici che nell'epos omerico fino a Tucidide segnano i paradigmi di realtà della cultura greca, attraverso un repertorio di saggezza e di eventi eroici che fungono da griglia mimetica per la comprensione analogica degli avvenimenti storici nuovi. In questo senso, letteratura e vita si riflettono in un richiamo mimetico che è a un tempo realistico e ideale, pragmatico e formale, sicché “sviluppare la teoria in modo da accentuare finemente l'aspetto tipico della realtà può dirsi l'essenza della cultura classica”.152

2. Rispetto al razionalismo antico, quello moderno, autocentrato sulla ragione, trova la sua legittimazione razionale nella compiutezza sistematica del discorso, per cui, come notato a suo tempo da Stahl,

nel libero svolgimento dello spirito greco ogni teoria filosofica, anzi ogni asserzione sta da sé ed ha, per così dire, una vita propria e sostanziale; e si può intendere e giudicare l'Etica di Platone o di Aristotile, senza considerare come si debba spiegare, secondo le loro idee, l'esistenza e l'armonia del mondo. Non è così nella filosofia moderna. La quale si sforza di conseguire

150Ivi, pag. 371. 151Ivi, pagg. 372-373. 152Ivi, pag. 375. Ma anche della cultura moderna alla fine della sua parabola di civiltà, se pensiamo solamente a Max Weber. 59

tutte le sue cognizioni col solo mezzo d'una deduzione logica, rigorosa e severa; per modo che il particolare non ha altro fondamento stabile, che il valore delle premesse o prime proposizioni. Ogni parte della scienza sta e cade insieme colla idea filosofica, che le serve di principio.153

Da questa rappresentazione conchiusa nei termini della corrispondenza tra premessa ontologica e giudizio di realtà la differenza tra soggetto e oggetto di giudizio è garantita dalla intenzionalità, la quale però, proprio perché interviene su dati della coscienza già acquisiti, non va considerata un fenomeno primario della coscienza, qual è invece la dimensione storica, la quale

è la categoria fondamentale inscritta nella natura della coscienza in quanto evento, in quanto principuo attuoso che accade in una realtà della quale soggetto e oggetto anticipatamente partecipano: “l'esistenza consapevole dell'uomo è un evento all'interno del reale e la coscienza dell'uomo è coscienza di essere costituita dalla realtà di cui è cosciente”.

154

Questa coscienza di base è coscienza di partecipazione all'Essere. La realtà dell'Essere è costituita dalla coscienza di tale realtà. In tal senso, l'uomo è una parte dell'Essere, che si sperimenta come uomo attraverso l'esperienza simbolica; i simboli sono il dato originario da cui partire per la conoscenza dell'Essere, quale attività di intelligenza espressa per analogia attraverso i simboli. “La prospettiva antropologica risulta dunque essenziale per comprendere l'ontologia del reale, perché l'uomo è quel punto della realtà in cui essa si autocomprende”.155 L'autocomprensione dell'uomo che partecipa all'Essere è consapevolezza del suo Ordine, dell'ordine dell'Essere, che è (anche) politico-esistenziale, derivante dal fatto che “a ogni società spetta il compito di creare, nelle proprie condizioni concrete, un ordine che conferisca significato, vale a dire fini umani e divini, alla sua esistenza”.156 L'opera storiografica è il prodotto di un'autoriflessione sul senso di un ordine rispetto a un altro, in base a

153F.J. Stahl, Op. cit., pag. 94. 154E. Voegelin, Order and History, vol I, Israel and Revelation (1956), tr. it., Milano, 2009, Intr. di N. Scotti Muth, pag. XVI; da ora IaR. 155Ivi, pag. XVII. 156Ibidem.

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criteri di valutazione esterni a quelli dominanti in un determinato contesto storico-ideale. Il senso nuovo emerso nella cultura di Israele e di Grecia è che “il divino non è parte del cosmo, e che la struttura dell'anima consiste nell'essere il sensore del Trascendente”.157 L'Ordine vegliato dal nomos divino è garantito non dalla sua struttura razionale, ossia dal suo ordinamento formale, ma dalla sua corrispondenza tra eventi reali (contingenti) e significati ideali (eterni). Il senso della partecipazione è nella possibilità che il significato delle relazioni umane trascenda le condizioni di determinazione relativa alla posizione degli attori, in modo tale da conferire ad esse un valore meta-storico, che funge da criterio assiologico e perciò derimente nelle vertenze umane. Il deus ex machina della situazione tragica non era un artificio di comodo che garantisse il lieto fine, ma indicava la necessità di spostare l'asse delle valutazioni umane nell'ambito dell'eterno. Ciò implicava che la risposta alla crisi della civiltà non poteva essere posta sul mero piano etico-politico, ma doveva coinvolgere la radice religiosa dello spirito umano, che la crisi aveva intaccato e sostituito con un surrogato ideologico. La critica platonica alla Sofistica è anzitutto liberazione dalle posizioni ideologiche in vista di una idea di giustizia che sia conformità tra ordine morale (interiore) e ordine sociale (politico). Lo scopo della filosofia era in questo disvelamento del senso comune ai due piani di realtà. Il discorso dialettico e sintattico è misura ma tale che “per essere oggettiva ha da fondarsi su trame oggettive coincidenti con le stesse trame del pensiero”.

E allora questa misura, che si coglie mediante l'approfondirsi del pensiero a se stesso, è una misura che còlta interiormente, interiormente ci trascende, divenendo termine morale, dover essere, valore: il Bene; e, ad un tempo, causa prima e fine ultimo, la ragion d'essere, della trama su cui il tutto si scandisce.158

Concepire l'esistenza umana nei termini di una relazione con l'agathon la radica in motivi religiosi trascendenti che costituiscono ciò che Agostino chiama “la tensione al fondamento”, che precede ogni

157Ivi, pag. XXIII. 158F. Adorno, La filosofia antica, cit., pag. 184. 61

simbolizzazione culturale e storico-ideale, giungendo fino alla “verità dell'esistenza” (Voegelin). La crisi spirituale dell'Occidente risiede nella razionalistica “separazione di uno spirito divenuto ormai puramente mondano dal suo radicamento nella religiosità”, cioè dalla sua “caduta da Dio”. Lo spirito umano, in quanto consapevole della sua partecipazione all'Ordine, è apertura al trascendente e illuminazione circa la realtà, sicché il livello della sua autocoscienza è in relazione al grado di sviluppo che la sua esistenza ha raggiunto di fronte alla trascendenza. In questo senso, “la storia, pur non avendo un andamento semplice – né di progresso lineare, né ciclico – è pur sempre intelligibile come lotta per il vero ordine”, il quale non si identifica mai con l'ordine concreto di una società storica ma lo trascende in “una realtà la cui origine e fine è ignota e che proprio per questo non può essere trattenuta nella presa dell'azione finita. Noi possiamo conoscere unicamente quella parte del processo che si è dispiegata nel passato (…) nella misura in cui è accessibile agli strumenti conoscitivi che sono emersi dal processo stesso”.159 L'approccio gnoseologico di Voegelin è pseudo-storicistico. Voegelin ammette la trascendenza dell'ordine ideale ma lo conosce solo attraverso le manifestazioni reali, che pure ammette non siano corrispondenti. La questione verte sulla differenza tra l'ordine dell'Essere e l'ordine della verità. Solo l'ordine dell'Essere può interpretarsi attraverso il processo storico, mentre l'ordine della verità si può cogliere solo intuitivamente, sia pure in riferimento ai documenti indiziarii che lo testimoniano empiricamente nel suo contesto fenomenologico. L'ordine dell'Essere presuppone la verità sull'Essere, ossia che l'ordine ontologico sia quello vero. Ma questo è il campo di ricerca di una cultura storica determinata, il cui sviluppo giunge a quella identità di Essere e Verità che poi viene assunta come valore universale per interpretare ogni pensiero di verità relativo alle culture storiche oggetto di analisi. Uno storicismo che potremmo chiamare anti-storico, un meta-storicismo, che Voegelin chiama “lo studio filosofico dell'ordine”.160 Il processo che porta all'ordine dell'Essere è millenario e, dopo la fine della civiltà illuministica, veicolato dalla cultura cristiana, la quale,

159 E. Voegelin, IaR, pagg. 5 e 6. 160Ivi, pag. 8.

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sotto forma di Cristo-logia, ha prodotto un paradigma simbologico di portata universale, assunto a modello di paragone culturale anche dalle culture tradizionali di ordine cosmologico, mutando il senso del filosofare in direzione di una totalità meta-ontica. Nella nuova consapevolezza aperta dalla prospettiva cristiana, “la filosofia è amore all'essere raggiunto attraverso l'amore all'Essere divino quale fonte del suo ordine. Il Logos dell'Essere è il vero oggetto dell'indagine filosofica, e la ricerca della verità dell'ordine dell'essere non può essere condotta senza diagnosticare i modi dell'esistere nella nonverità”.161 La partecipazione all'Essere è la stessa esistenza. “Non esiste un punto di vista privilegiato esterno all'esistenza dal quale guardare il suo significato e progettare un comportamento secondo un piano preciso”, anche se “la partecipazione dell'uomo all'Essere non è cieca, ma illuminata dalla coscienza”.162 La sua “tensione riflessiva” pone l'uomo in bilico nella decisione fra libertà e necessità, assegnando alla sua esistenza un significato sconosciuto che viene a esplicare il suo senso attraverso il corso della sua storia. La conoscenza dell'uomo a se stesso è il mistero in cui egli è immerso vivendo l'esperienza dell'Essere, quale essenza di una totalità entro la quale l'esistenza è parte. Anche se “la conoscenza del tutto, d'altra parte, è destinata a rimanere preclusa in virtù del fatto che conoscente e partner coincidono, mentre l'ignoranza dell'intero preclude, a sua volta, la conoscenza essenziale della parte”.163 Da questa ignoranza nasce l'angoscia esistenziale. La relazione che la coscienza ha con l'Essere si determina come conoscenza della distinzione fra il conoscibile e l'inconoscibile, attraverso un processo culturale di simbolizzazione con la quale rendere intelligibile quella relazione.164 “L'essere esibisce i lineamenti di una gerarchia di esistenze, dall'effimera vita dell'uomo su su fino alla eternità degli dèi, (la quale) può e deve diventare una forza ordinatrice dell'esistenza umana”, appresa appunto dall'ordine

161Ivi, pag. 10. 162Ivi, pagg. 15 e 16. 163Ivi, pag. 16. 164Ivi, pag. 17.

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dell'Essere.165 La stessa durata dell'uomo è in rapporto di accordo con gli ordini più durevoli della struttura cosmica e sociale, poiché “ciò che dura e che passa, ovviamente, è esistenza, ma siccome l'esistenza è partecipazione all'Essere, il permanere e il perire rivelano qualcosa dell'Essere. L'esistenza umana è di breve durata, ma l'Essere al quale partecipa non cessa con la esistenza”.166 Per i Greci, “consapevoli della ricchezza della loro lingua (…), il dono della parola (è considerato) una grande grazia divina. Poter esprimere se stessi, ecco il carattere specifico dell'uomo; spiegazione razionale e guida degli animi con l'eloquenza, ecco il pensiero fondamentale della loro evoluzione successiva”.167 Il confine della conoscenza è lo stesso del linguaggio. Al confine avviene l'Incontro tra il mondo conosciuto attraverso il linguaggio, e la realtà ignota non de-finita dal linguaggio e meta-linguistica. Per i Greci, l'ordine dell'Essere era l'ordine della parola, il pensiero. “Il pensiero si sviluppa propriamente nella filosofia”. Ma cosa significa “pensare”?, si chiede Heidegger. “Il pensiero pensa quando risponde al più considerevole e il più considerevole preoccupante nel nostro tempo è il fatto che noi ancora non pensiamo”.168 Che cosa non pensiamo? Alcuna cosa è pensabile come “più considerevole”, se non all'interno del Finito, che è l'orizzonte conosciuto dal linguaggio che lo esprime, e dunque il limite della coscienza rappresentativa. Ma il Finito non è Tutto, bensì solo il conosciuto, al quale è proprio il tempo passato. Al limite del conosciuto e dell'ignoto avviene l'Incontro che rivela la Differenza tra il Finito (conosciuto) e l'In-finito (mistero) che è il Verbo trascendente divino. La parola dell'uomo che de-finisce il mondo come realtà pensabile ha come limite il Verbo in-finito divino, che è oltre il linguaggio conosciuto. L'Incontro che rivela la Differenza si compie con l'invenzione (poiesis) della parola poetica, che manifesta il Mystero, la verità che va oltre la finitezza del Logos, del detto. Tale Incontro è chiamato da Heidegger Ereignis, l'Evento. Questo evento si può esperire appunto come Incontro nella Differenza. In questo Incontro avviene la donazione del significato da parte del Verbo, che

165Ivi, pag. 18. 166Ibidem. 167,H. Lotze, Loc. cit., pag. 717. 168M. Heidegger, Was heisst Denken? (1954), tr. it., Varese, 1996, pagg. 39 e 51. 64

si rivela nella parola. La “luce che illumina il pensiero” non proviene dalla “riflessione”, ma “dal pensiero stesso”.169 Il donarsi del Verbo è la rivelazione del Mystero divino nella parola creatrice. Il dono creatore di verità è l'Amore, quale evento che rivela il divino nel Finito. “Al pensiero appartiene l'enigma di venir portato nella luce che gli è propria solo quando e solo finché esso è un pensiero e si mantiene libero dal fermarsi su ogni ragionamento intorno alla ratio”.170 Ossia la libertà del pensiero consiste nel trascendere l'astrattezza della parola finita, dominata dal Logos.

L'essenza della filosofia astratta consiste “nel riconoscere solamente ciò che viene dalla ragione”, ciò che è logicamente necessario. A lei non basta che una cosa sia; ma bisogna che non si possa pensare il contrario. Ora, ogni contenuto, materia o obbietto della cognizione, del quale si occupi la ragione, le apparisce come assolutamente accidentale, e tale che potrebbe anche essere altro da quello che è. Ciò che essa non può pensare altrimenti o in modo diverso, se vuol essere ancora ragione, è soltanto essa stessa, ciò che essa è, le sue proprie leggi, forme e determinazioni(…). Per modo che il carattere della necessità logica non appartiene, che al contenuto proprio di queste leggi o determinazioni. Il dire: qualche cosa viene dalla ragione, è il medesimo che dire: ogni altro, ogni diverso a quello distruggerebbe le leggi del pensiero, le leggi logiche. Laonde la ragion pura – il pensiero considerato in sé stesso e prima di ogni contenuto esteriore al pensiero – è il principio della filosofia astratta.171

Il male del mondo moderno è ciò che Agostino, sulla stregua del suo maestro Ambrogio, chiama “l'orgoglio della mente” (superbia animi), che nasce dalla stessa libertà umana e caratterizza l'essenza peccaminosa universale dell'uomo, il vitium originis,172 dal quale ci si può emendare facendo entrare la luce divina: “intret in animam tuam Christus, inhabitet in mentibus tuis Jesus” (sal. CXIX, esp. IX, 26). Rifiutarsi a tale emendazione è una superbia umanistica propria del moderno razionalismo, ma che affonda le sue radici nell'eresia

169Ivi, pag. 51. 170Ibidem. 171F.J. Stahl, Loc. cit., pag. 95. 172 A. Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte (1886-1890), tr. it., Mendrisio, 1914, vol. V, pag. 68.

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pelagiana, della quale rappresenta la versione aggiornata più estrema e radicale, di volere fare da capo e in proprio la creazione storica e divina del mondo, ritenendola difettosa e impropria alle esigenze dello spirito auto-poietico del soggetto moderno, artifex mundi, demiurgo laico: “quando crea il cosmion dell'ordine politico, l'uomo ripete analogicamente la creazione divina del cosmo”. Infatti, “stabilire un governo significa cercare di creare un mondo”.173 Così come la “morte” non è la mortalità, la fine dell'esistenza, ma “la caduta spirituale dall'essere”.174 L'”evento” (Ereignis) è per Heidegger il passaggio all'Essere, in cui “vibra l'essenza di ciò che parla come linguaggio e che una volta fu chiamato la casa dell'Essere”.175 Ma proprio perché non può essere oggettivato alla stregua di un ente, “né come un fatto né come un avvenimento”, l'Evento, in quanto “realtà semplice in sé”, è un evento intuitivo, il quale, nondimeno, non nasce ex abrupto, ma in conseguenza di un processo spirituale che non si realizza come fattualità oggettiva di un giudizio logico, ma come illuminazione di un compimento che giunga alla sua verità. In questa “situazione” si verifica la condizione spirituale di cui parla Heidegger in relazione alla I Tessalonicesi, in cui non è in risalto la fatticità storica e il mondo-ambiente di Paolo, ma inerisce a “connessioni che possono essere mostrate nell'esperienza effettiva della vita”, e la cui comprensione non ha carattere gnoseologico ma origina dalla “inversione da ciò che è storicamente obiettivo a ciò che è relativo alla storia dell'attuazione”, in cui il senso degli eventi è più originario della sua trascrizione teoretica obiettiva. 176 Orbene, il processo politico è il riflesso temporale dell'ordine cosmogonico, e la “simbolizzazione cosmogonica non è né una teoria né un'allegoria (ma) è l'espressione mitica della partecipazione, vissuta come reale, dell'ordine sociale a quell'essere divino che ordina anche il cosmo”. In tal senso, “l'ordine

173E. Voegelin, IaR, pag. 35. 174Ivi, pag. 41. 175M. Heidehher, Identitaet und Differenz (1957), tr. it., Milano, 2009, pag. 48. 176M. Heidegger, Phaenomenologie des religioesen Lebens, 1. Einleitung (1920-21), tr. it., Milano, 2003, pagg. 126-133. In considerazione di questa condizione spirituale, ogni tentativo di commisurare la “situazione” con le ricostruzioni storiche di impianto storicistico-positivistico cade miseramente nell'incomprensione degli eventi religiosi. Ved. Ch. Guignebert, Jésus (1933), tr. it., Torino, 1950.

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geografico terrestre è immagine di un prototipo celeste”.177 La loro distinzione concettuale e fattuale non inficia l'intima unità di un ordine comune che le coinvolge entrambe e che tutto comprende. A unire le due parti è un simbolo che le connetta fisicamente e che Voegelin chiama omphalòs, ombelico, il quale rappresenta “il punto in cui le forze trascendenti dell'essere raggiungono l'ordine sociale”.178L'omphalòs ellenico era la pietra di Delfi, che segnava il centro dell'universo, così come il Foro romano lo era per l'impero mondiale. Esso costituiva anche la misura simbolica della prossimità dalla presenza divina. Il

fiume d'essere divino che dalla sua divina fonte rifluisce, attraverso l'omphalòs, all'ordine sociale, non penetra nel mondo uniformemente fino all'angolo più remoto: l'omphalòs è un centro civilizzato dal quale la sostanza dell'ordine s'irradia verso la periferia con forza man mano decrescente.179

Se trascriviamo il senso del processo di civilizzazione in relazione al grado di razionalizzazione della vita politica e civile, possiamo stabilire anche i termini della dialettica interna ai fenomeni politicoculturali che trovavano il filosofo al displuvio della loro intersezione storica.

L'ostacolo che si frappone a alla razionalizzazione era, evidentemente, la difficoltà di esperire nella pienezza del suo significato l'abisso fra l'essere divino, creatore e trascendente rispetto al mondo, e l'essere dell'esistenza creata e mondana (…). Nella pratica politica la razionalizzazione delle forze dell'essere, non ancora differenziate in “religiose” e “politiche”, è condizione della costruzione di un impero. Il mondo della politica è essenzialmente politeistico nel senso che ogni centro di potere, per quanto piccolo e insignificante, ha la tendenza a porsi come entità assoluta rispetto al mondo, senza curarsi della contemporanea esistenza di altri centri che si considerano altrettanto assoluti. Perciò un costruttore di imperi deve affrontare, ineluttabilmente, il compito di inventare una gerarchia delle forze che permetta di fondere unità fino ad allora indipendenti in un unico cosmion politico.180

177E. Voegelin, IaR, pagg. 47 e 48. 178Ivi, pag. 48. 179Ivi, pag. 49. 180Ivi, pag. 59.

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