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14E. Voegelin, Loc. cit., pag
Con Dilthey la storicità viene elevata da problema metodologico a problema ontologico, essendo il tempo la forma di tutte le strutture costitutive dell'essere dell'uomo. Ma il tempo segna il processo di ciò che procede nella finitezza e giunge a compimento col suo inizio, secondo un ciclo che non è solo naturalistico ma simbolicoesistenziale. Il simbolismo delle forme esistenziali rappresenta l'esperienza culturale istituzionalizzata in ordine cosmico necessario alla comprensione del significato degli eventi. Una civiltà rifratta per mezzo di un'altra, si trasforma adattando i valori antichi alle nuove forme, ovvero le forme antiche ai nuovi valori. Nel primo caso, la trasformazione culturale è conservatrice; nel secondo caso è innovativa o dissolutiva. Anche la realtà politico-religiosa ha una duplice movenza, integrativa ed esclusiva.
L'individuo, quand'è scacciato dagli altari domestici, escluso dai templi della sua città, interdetto sulla terra della patria, è tagliato fuori dal mondo divino; perde allo stesso tempo il suo essere sociale e la sua essenza religiosa; non è più niente. Per ritrovare la sua condizione d'uomo, dovrà presentarsi, in veste di supplice, ad altri altari, sedere al focolare d'altre case e, integrandosi a nuovi gruppi, ristabilire, con la partecipazione al loro culto, i legami che gli danno radici nella realtà divina.181
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Ma accanto all'esperienza integrativa esisteva anche una dissociativa, che si rivolgeva “a coloro che non possono inserirsi interamente nell'organizzazione istituzionale della polis”, come le donne, le principali fruitrici del culto di Dioniso, Eleutherios, e attraverso lui della libertà, che è delirio e follia rispetto all'ordine costituito informato al valore civile della sophrosyne.
Infatti, quel che il dionisismo apporta ai fedeli – anche controllato dallo stato, come lo sarà nell'età classica – è un'esperienza religiosa opposta al culto ufficiale: non più la sacralizzazione d'un ordine al quale bisogna integrarsi, ma l'affrancamento da quest'ordine, la liberazione dalle costrizioni che, sotto certi rapporti, esso presuppone. Ricerca d'un radicale spaesamento, lontano dalla vita quotidiana, dalle occupazioni ordinarie, dalle servitù obbligate; sforzo mirante ad abolire tutti i limiti, a far cadere tutte le barriere che
181J.P. Vernant, Op. cit., pag. 362.
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caratterizzano un mondo organizzato: fra l'uomo e il dio, il naturale e il soprannaturale, fra l'umano, l'animale e il vegetale, barriere sociali, frontiere dell'io.182
La logica dualistica, inclusiva/esclusiva, caratterizza l'intero percorso dialettico della filosofia classica e quindi della metafisica occidentale, in cui l'errore profano e la verità sacra orientano sin dalle origini il pensiero teologico, di ogni cultura religiosa.
Le esperienze religiose che si manifestano nella teologia dualistica hanno plasmato la storia intellettuale dell'umanità molto al di là della loro area d'origine siriaca. L'esperienza del cosmo come lotta fra le forze del bene e del male ricompare non solo nelle diverse varianti della gnosi antica ma anche nei movimenti politici occidentali dall'Alto Medioevo in poi; e nella politica contemporanea al simbolismo di Verità e Menzogna predomina ovunque, col risultato che i principali movimenti e credi politici interpretano se stessi come rappresentanti della Verità e i rispettivi avversari come rappresentanti della Menzogna. Alla base c'è un tipo di esperienza che è una delle grandi forze spirituali rivali del Cristianesimo e della tradizione classica.183
L'appartenenza all'ordine politico-religioso implica l'integrazione socio-culturale al cosmo della tradizione, alle sue forme cardinali intorno ed entro cui si muove la realtà e i suoi termini significativi, la cui persistenza non è pregiudicata neppure da rivolgimenti istituzionali, legati alle dinamiche interne del Potere.
Le istituzioni possono sicuramente crollare per difficoltà di natura economica o perché cambia la distribuzione del potere, ma quando la società colpita dal crollo trova la forza per ridarsi delle istituzioni, le nuove apparterranno allo stesso tipo formale delle vecchie, a meno che non ci sia stato un cambiamento rivoluzionario anche nell'esperienza d'ordine. Finché le esperienze d'ordine conservano una struttura compatta, la forma, nonostante quei fenomeni di corrosione che spingono verso una nuova differenziazione, sarà conservata; una società può essere scossa fin dal profondo dagli sconvolgimenti istituzionali e ciononostante preservare, all'apparenza, una stabilità formale millenaria.184
182Ivi, pag. 363. 183E. Voegelin, IaR, pagg. 73-74. 184Ivi, pag. 84.
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La “esperienza d'ordine” è l'intuizione del mondo, l'immagine dell'ordine cosmico, che legittima la struttura e le funzioni del Potere. La filosofia con Platone si pensò come un correttivo trascendente alla crisi etico-politica del tempo, e dei valori tradizionali che non l'avevano evitata. La filosofia è a un tempo la ricerca e la ricetta della stabilità dell'Essere. La costruzione dei tipi empirici di civiltà non dà ragione della loro realtà ideale.
L'ordine intelligibile della storia non può essere scoperto classificando i fenomeni; va cercato attraverso un'analisi teoretica delle istituzioni e delle esperienze d'ordine, nonché della forma che risulta dalla loro compenetrazione. (…) Le regolarità storiche altro non sono che manifestazioni delle costanti della natura umana, in tutto il loro ventaglio di compattezza e differenziazione (…). Una civiltà non è un'unità a sé stante che ripete uno schema di crescita e declino; una civiltà è la forma in cui una società partecipa, nel suo modo storicamente unico, al dramma universale che sovrasta tutte le civiltà: quello dell'approssimazione al giusto ordine dell'esistenza mediante un'armonizzazione sempre più differenziata con l'ordine dell'essere. Una forma di civiltà possiede una singolarità storica che le regolarità fenomeniche non potranno mai assorbire, perché la sua forma costituisce un atto di quel dramma dell'umanità imperscrutabilmente proiettato verso il futuro.185
Questa condizione presuppone, per un verso, che l'equilibrio d'ordine sia una acquisizione derivata alla società politica da un ordine cosmico assunto a modello ideale di quello storico, e per l'altro che l'ordine acquisito vive una sua insuperabile instabilità legata al rinnovamento generazionale delle forme di compensazione tra conservazione e rinnovamento che necessitano di una formula religiosa di difesa del limite che disegna l'emisfero della sicurezza antropologica dal rischio della perdizione nel caos pre-politico. Tale formula, che Dilthey chiama “significatività” (Bedeutsamkeit), possiede un suo statuto di realtà, che è supportato da dati empirici ma da una valenza oggettiva che li trascende e che funge da confine per ogni divagazione soggettiva,186 e approda a una Weltanschauung della finitezza
185Ivi, pagg. 87-88. 186Ved. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos (1979), tr. it., Bologna, 1991, pagg. 96-97. 70
costituita da una descrizione cosmologica che è insieme un racconto della salvezza dell'uomo dal Nulla. Essa è una esplicazione di senso circa il significato delle esperienze particolari in relazione alla vita, personale e cosmica, e dunque generale. È significativo ogni evento con cui è possibile stabilire una relazione di senso col significato generale della vita, ossia con l'ordine totale unitario del cosmo.
Il mito cosmogonico è un modo più antico e comprensivo di esprimere l'ordine dell'essere, e da questo mito la speculazione ionica estrae per differenziazione l'idea di un essere e divenire chiuso agli dèi, e che proprio per questa chiusura richiede un'interpretazione in termini di forze immanenti. Questo atto di differenziazione per cui è il filosofo a creare un mondo con un ordine dell'essere immanente è una conquista specificamente ellenica.187
Perché ellenico è il simbolismo verbale, nel cui orizzonte, come sappiamo, viene a dispiegarsi il percorso periegetico della salvezza che, per motivi topici, offre un significato agli eventi essenziali dell'esistenza. Considerare il Mito come una evocazione fantastica di realtà immaginarie è sbagliato quanto ignorare la derivazione da esso di ogni differenziazione razionale dei suoi singoli elementi costitutivi, che coesistono in esso. In tal senso, come giustamente ribadito da Voegelin, “il mito ha una vita e una virtù propria (che) non è priva né di verità né di movimento intellettuale”; anzi, il suo contenuto è “assai più ricco di tutte le simbolizzazioni parziali che ne sono derivate”.188
Nella sua forma compatta il mito contiene tanto quel blocco esperienziale da cui gli Ionii e i loro successori ricavarono una metafisica dell'essere immanente al mondo, quanto quell'altro blocco, trascurato dalla loro speculazione, da cui derivò la fede in un essere trascendente il mondo. (…) Il mito tiene insieme quei blocchi che nella storia successiva non solo verranno distinti, ma tenderanno addirittura ad allontanarsi. Se seguiamo le due linee di differenziazione man mano che emergono dal mito (…) fino ai due estremi di una fede radicale ed estranea al mondo da un lato e di una metafisica agnostica dall'altro, e riflettiamo sul disordine che ne seguirà, inevitabilmente, per l'anima dell'uomo e per la società, i rispettivi meriti di compattezza e differenziazione ci appariranno sotto una nuova luce. La
187 Ivi, pag. 111. 188Ibidem.
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differenziazione – bisogna pur dirlo – non è puro e semplice bene, ma porta con sé il pericolo di una dissociazione radicale dei blocchi esperienziali che il mito teneva insieme, nonché quello di perdere l'esperienza della consustanzialità. E il pregio del mito cosmogonico sta, viceversa, proprio nella sua compattezza: il mito ha origine da una comprensione globale dell'ordine dell'essere, ci fornisce dei simboli che esprimono adeguatamente una molteplicità di esperienze dotate di un suo equilibrio interno ed è una forza vivente che preserva quest'ordine equilibrato nell'anima del credente.189
La consustanzialità, nell'economia del Mito, è un principio unitivo che stabilisce l'ordine fra i diversi ordini dell'Essere, ai quali è legato il coordinamento delle funzioni interne alla società politica che istituzionalizzandosi divengono strutturali.190 Nell'ambito della sua rappresentazione metafisica, la comunità dell'Essere viene esperita come una comunità di sostanza divina che permea il mondo, la società e l'uomo.191 Da qui l'ordine gerarchico: la sostanza fluisce dal divino al mondano, al sociale e all'umano. L'ordine dunque è essenzialmente gerarchico, in quanto costituito di connessioni funzionali alla sua determinazione unitaria comune, storicamente concreta. Ed è a partire da questa concretezza esistenziale, etica e religiosa che si sviluppa il discorso filosofico, che certifica la situazione critica di “scissura tra le aspirazioni interiori e la realtà esteriore”, che determina la dissoluzione delle antiche forme etiche e religiose.192 L'aspirazione all'unità esprime una istanza d'ordine divinamente garantita, la cui figura varia dal Dio ebraico al Leviatano di Hobbes, ma che è espressiva di una tendenza monoteistica che si riflette nella struttura politica.193 Questa istanza logicamente unitaria rinviene il suo referente dialettico nella tendenza tipicamente razionalistica di costituire l'unità in senso formale, da cui discendono valori assoluti non collidenti, a fronte di una concreta molteplicità di doveri etici tra
189Ivi, pag. 112. 190Ved. W. Dilthey, Loc. cit., pagg. 264-274. 191E. Voegelin, Loc. cit., pag. 112. 192G.W.F. Hegel, Vorlesungen uber die Geschichte del Philosophie (1833), tr. it.,
Firenze, 1930, vol. I, pag. 64. 193Ved. E. Voegelin, IaR, pag. 114. Sulla relazione tra Mito e mito-logia filosofica in riferimento al monoteismo religioso, abbiamo discusso in altro luogo. Ved. J.
Assmann, Die Mosaiche Unterscheidung oder der Preis des Monotheismus (2003), tr. it., Milano, 2011.
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loro in collisione perché contraddittori.194 Questa consapevolezza ha condotto alcuni pensatori recenti a mettere in questione il presupposto ontologico che sta a fondamento di ogni filosofia politica.195 Ma ogni posizione etica richiama una decisione ontologica, di per sé esclusiva di altre non omologabili entro la sua universalità, sicché ogni ipotesi di co-essenza deve poter includere l'alterità estranea alla sostanza del mondo rappresentata dall'altra, depotenziando così il Logos regionale della sua assolutezza. Infatti se si ammette che l'immagine ideale della coscienza sia della stessa sostanza del mondo rappresentato in essa, il mondo deve la sua realtà all'idea che lo pensa come una struttura di relazioni ideali. Il mondo non esiste se non come immagine ideale di un cosmo strutturato da relazioni significative. È l'immagine ideale la sostanza del mondo, per cui il mondo è la realtà fenomenica di una idea di mondo, e l'essere del mondo è la sua idea. Il mondo è in quanto essere dell'idea, e l'essere dell'idea è la forma (o essenza) del mondo. La sostanza unitiva del mondo, che lo rende tale, può essere di tipo naturalistico o idealistico, ma in ogni caso l'unità è costituita dalle interne corrispondenze simboliche tra eventi e significati, tali che le res gestae e la historia rerum gestarum ubbidiscano a uno stesso ordine cosmologico. Il passaggio da una rappresentazione pragmatica della storia a una spirituale avviene col popolo di Israele, al quale “fu concesso per elezione divina di compiere il salto verso un'armonia più perfetta con l'essere trascendente come fonte dell'ordine nell'uomo e nella società”, la cui conseguenza storica fu la “rottura col modello dei cicli di civiltà” e l'apparizione di “un nuovo agente storico che non è né una civiltà né un popolo appartenente, come gli altri, a una civiltà – e per questo possiamo parlare di civiltà egizia o mesopotamica, ma non di civiltà israelitica”.196 Così nasce la Storia come fenomenologia di eventi della coscienza spirituale.
Solo Israele si costituì raccontando la propria genesi in quanto popolo come un evento dal significato speciale nella storia, mentre le altre società
194Ved. F. Hegel, Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (1801), tr. it. di R. Bodei, Milano, 2019, pagg. 58 sgg. 195Ved. j.-l. Nancy, Etre singulier pluriel (1996), tr. it., Torino, 2001, pag. 53 passim. 196E. Voegelin, IaR, pag. 159.
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mediorientali si costituirono in analogia con l'ordine cosmico. Solo Israele ebbe la storia come propria forma interna, mentre le altre società esistevano nella forma del mito cosmologico. Concludiamo perciò che la storia è una forma simbolica di esistenza, così come lo è la forma cosmologica, e che nella forma storica la narrazione paradigmatica è l'equivalente del mito nella forma cosmologica. Sarà quindi necessario distinguere le società politiche secondo la loro forma di esistenza: la società egizia esisteva in forma cosmologica, quella israelitica in forma storica.197
La differenza tra le due forme di esistenza non risiede dunque tra rappresentazione mitica e rappresentazione filosofica, ma tra referente significativo naturalistico e referente divino trascendente. Soltanto il riferimento a un valore extra-mondano in-finito e creatore del Finito poteva garantire uno svolgimento storico dell'esistenza singolare e collettiva emancipato dal ciclo della necessità vita-morte della finitezza, e dove le azioni individuali e sociali sono significative non dei loro precedenti esperienziali tradizionali, ma nella relazione con la volontà di Dio e coi suoi piani per l'uomo. L'eterno non è più conseguito nell'identità della fine con l'inizio, ma con la destinazione trascendente stabilita per volontà divina.
Quando è esperito in questo modo, il corso degli eventi diviene Storia Sacra, mentre i singoli atti diventano paradigmi del processo di Dio con l'uomo in questo mondo. I criteri di verità validi per eventi paradigmatici in questo senso del termine non possono essere uguali a quelli validi per gli eventi pragmatici: un evento esperito in relazione alla volontà di Dio sarà raccontato in modo veritiero se la sua essenza paradigmatica sarà stata elaborata fedelmente, e la precisazione intorno ai dettagli pragmatici relativi al tempo, al luogo, ai personaggi che hanno preso parte all'evento e alle loro azioni e parole sarà molto meno importante di quella intorno alla volontà di Dio in quella particolare occasione.198
Ciò che cambia con la forma storica è il protagonismo degli attori della scena del mondo, che da divini diventano umani, senza perdere la relazione col significato eterno degli eventi, riservato dalle cosmogonie alla sola realtà divina. In seguito, col Cristianesimo, la storia di Dio si immedesima con quella dell'uomo e dell'umanità
197Ivi, pag. 160. 198Ivi, pag. 157.
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storica, secondo un modello di rispecchiamento tra fenomeni e significati che verrà acquisito dal procedimento teoretico delle moderne filosofie immanentistiche. La cd. “linearità” della visione cristiana non stabilisce soltanto una modalità di scansione cronologica che ha per terminus a quo la nascita di Cristo e come terminus ad quem la sua passione, ma “rappresenta il senso ultimo e il criterio di tutta la storia anteriore e posteriore”, tale che la “storia diviene per il cristiano anche il metro della storia generale così detta profana”, la quale perciò viene inclusa nel processo soteriologico della storia sacra e “cessa per lui d'esser profana”.199 Questa inclusione rappresenta un processo di progressiva co-appartenenza delle determinazioni culturali particolari dell'umanità che è in contro-tendenza rispetto all'”esclusivismo con una civiltà, un popolo o anche successive generazioni, hanno concentrato la loro attenzione su questo o quell'aspetto dell'attività umana”, secondo una dinamica di assolutizzazione del relativo, tipica della razionalizzazione della vita moderna, che costituisce “uno degli aspetti paradossali della Storia”,200 in quanto il senso di essa viene declinato in termini formali, e non esistenziali. Rispetto alle altre forme religiose, Cristianesimo, incentrato sulla “fede in un evento, quello della resurrezione di Cristo”, “costituisce una irruzione di Dio nella storia, che modifica radicalmente la condizione umana e costituisce una assoluta novità”.201 Il cambiamento della condizione umana è rappresentato dal superamento della forma dell'anaciclosi cosmologica, che legava l'uomo alla necessità della Natura, ossia al suo destino di morte. Codesta liberazione dalla Necessità, attraverso la vittoria del Cristo sulla morte, è la condizione di una storicità dell'esperienza umana di carattere spirituale, non soltanto aperta al trascendente, ma intrisa di significato trascendente. Come ha giustamente ricordato Voegelin, “una società politica che intenda il proprio ordine come partecipazione all'ordine cosmico-divino non esiste in forma storica”, anche se non sono “prive di storia”. In esse, però, “la storia è presente tanto quanto la speculazione metafisica e teologica, ma è vincolata dalla
199O. Cullmann, Christus und die Zeit (1946), tr. it., Bologna, 1965, pagg. 42 e 43. 200H. Butterfield, Christianity and History (1948), tr. it., Alba, 1959, pag. 94. 201J. Daniélou, Essai sur le mystère de l'Histoire (1953), tr. it., Brescia (1957) 2012, pag. 121.
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compattezza di una forma cosmologica non ancora differenziata”, come invece apparirà solo con l'esperienza di Israele. La differenziazione acquista anche valore temporale, in quanto la centralità del presente, caricato di valenza mistica nel senso del compimento della volontà di Dio, diventa il riferimento mediano tanto del processo escatologico che di quello ermeneutico, sicché la relazione di compimento o defezione dalla volontà di Dio “crea un presente storico la cui forma si irradia su un passato che nel proprio presente non era consapevolmente storico” e che “viene incorporato in un flusso di eventi che ha il proprio centro di significato nel presente storico”.202 Il referente di significatività trascendente, trascendendo la finitezza della condizione umana, consente la rappresentazione della Storia, intesa come forma di esistenza di una società che si definisce nel suo rapporto con Dio, in termini di esperienza universale, inclusiva di tutto il genere umano, “una storia mondiale”. Secondo le parole di Voegelin, “la storia crea l'umanità come comunità di uomini che, di epoca in epoca, si approssimano al vero ordine dell'essere che ha la propria scaturigine in Dio”, ma non per destinazione necessitata da un processo ineluttabile scandito da tappe prevedibili e impersonali, bensì attraverso un travaglio di libertà che costituisce il contenuto concreto di quel processo storico, che si rifrange come elemento visibile del mistero escatologico divino, per cui “nello stesso tempo l'umanità crea la storia attraverso il suo reale approssimarsi a un'esistenza sotto Dio”.203 Il presente diventa la coscienza critica del passato, inteso come processo ad quem verso il presente. La continuità del processo, divenuto evidente alla ragione, cioè oggettivo, lo trasforma in un processo ideale, che da implicito diviene esplicito. E in tale coscienza storica consiste la “realtà” della storia umana, che Voegelin indica come “realtà ontologica”, ontologicamente reale. E in questo stesso senso va inteso il Mito, la cui “realtà” non va confusa con una rappresentazione poetica o un insegnamento dottrinale, che sono esperienze legate alla soggettività della coscienza, ma con la totalità dell'esistenza, dove “parola, rappresentazione mitologica ed essere oggettivo sono un'unica cosa”. È infatti nella “totalità dell'esistenza, illuminata e ordinata da un preciso punto di vista” che “il caos è
202E. Voegelin, IaR, pagg. 164-165. 203Ivi, pag. 165.
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bandito e la possibilità della vita assicurata”.204 Perciò il presente richiama il passato come il suo inizio significativo, intrinseco al senso (significato e direzione) della sua vicenda; anzi, “ogni presente ha il proprio passato, ed esistono per di più anche le relazioni fra i diversi presenti, nonché fra le storie da essi creati”.205 Il presente della pienezza esistenziale non va dunque confuso con la “contemporaneità” della storiografia razionalistica e pragmatica,206 ma come “esperienza del presente sotto Dio”, come rivelazione dell'Essere.
La forma storica, intesa come esperienza del presente sotto Dio, apparirà soggettiva solo se la fede è interpretata, scorrettamente, come esperienza “soggettiva”; se invece è intesa come il salto nell'Essere, come l'entrata dell'anima nella realtà divina prodotta dall'entrata della realtà divina nell'anima, la forma storica, lungi dall'essere un punto di vista soggettivo, è un evento storico ontologicamente reale (che mantiene un suo statuto di legittimità oggettiva) finché basiamo la nostra concezione della storia su un'analisi critica delle fonti letterarie che raccontano l'evento stesso e non vi introduciamo la nostra soggettività attraverso congetture arbitrarie e ideologiche. Ma se sono gli uomini cui l'evento accade a spiegare il suo significato per mezzo di simboli, la spiegazione getterà un raggio ordinatore di verità oggettiva sul campo storico in cui l'evento stesso è oggettivamente accaduto.207
La storicità che è rivelata dalla presenza divina non è il mero registro fattuale di un processo avvenuto nel tempo, ma lo sfondo significativo da cui emergono gli eventi singolari nel loro rapporto con la verità trascendente, di natura religiosa. La totalità entro la quale l'evento storico è realtà di verità religiosa è il Mito. I miti sono la realtà del mondo religiosamente formata e illuminata. Ma, a loro volta, sono esperienza religiosa che si accende nell'incontro con gli oggetti e i processi del mondo, che viene dischiusa da questi e riempita del loro contenuto. Quindi sono modi in cui l'uomo entra in rapporto con la
204R. Guardini, Der Mythos und die Wahreit der Offenbarung (1950), tr. it. in Filosofia della religione. Religione e rivelazione, Brescia 2010, pag. 63. 205E. Voegelin, IaR, pag. 167. 206Ved. B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1915), Bari (1917), 197611 , pagg. 4 sgg. 207E. Voegelin, IaR, pag. 167.
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propria esperienza religiosa, la forma, la esprime, la trasferisce in azioni e figure simboliche; per contro si tratta di modi in cui egli, a partire da impulsi religiosi e da forze della stessa Natura, entra in rapporto con il mondo, gli dà forma, padroneggia l'esistenza.208
L'esperienza religiosamente vissuta come evento di verità, custodisce al suo interno, quale premessa significativa di qualunque processo storico particolare, una sua necessaria fonte di determinazione di giudizio, che non è l'Essere dell'ontologia greca, ma è l'Essere trascendente della realtà divina, la realtà di Dio, la quale pertanto diventa altrettanto necessaria quanto la realtà della Storia stessa delle Sue manifestazioni. Lo spostamento dall'Essere ontologico delle antiche cosmologie, all'Essere antropologico della Rivelazione storica, determina una dislocazione di senso dell'esperienza esistenziale dell'uomo che va dalla Natura allo Spirito, ovvero dalla Necessità alla Libertà. Nella nuova dimensione religiosa della Libertà, l'etica della decisione per l'Essere non è più deontologia della corrispondenza formale tra pensiero e vissuto, ma responsabilità della scelta morale come riconoscimento del valore trascendente dell'esistenza divinoumana, cioè dedicata al riconoscimento della verità dell'Essere quale fonte significativa della realtà storica. La realtà oggettiva di questo orizzonte di coscienza si conforma a una unità che non è la libera soggettività hegeliana che domina il finito attraverso un atto di riconciliazione con sé stesso dello spirito razionale, presso cui “Dio è la libera soggettività nella quale il finito è posto solo come il segno con cui appare lo spirito” (206), il quale è la stessa libertà riconciliata con sé stessa attraverso “la mediazione negativa del mondo”.209 Hegel intende lo “spirituale” in senso greco, come esclusione dell'idea di corpo, laddove la lezione paolina intende “corpo spirituale”, che rinasce dalla morte grazie allo Spirito Santo (aparché),210 lungo un processo che secondo il Nuovo Testamento va “in un tempo intermedio fra la risurrezione di Gesù, che è già
208R. Guardini, Religion und Offenbarung (1958), tr. it. in Loc. cit., pag. 225. 209G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione (1824-31), tr. it. Roma-Bari, 1983, vol. 2 La religione determinata in part. Pagg. 205-302; le cit. sono a pagg 206 e 301. 210Paolo, I Cor. 15,25; 2 Cor. 4,16; Eph. 3,16. 78
avvenuta, e la nostra risurrezione, che avverrà solo alla fine”.211 In questo “tempo intermedio” procede la Storia spirituale dell'umanità redenta dalla Rivelazione, che sancisce quel “salto nell'Essere” in cui la dimensione naturalistica è superata non per scissione della coscienza ma per libera adesione al disegno della salvezza divino. Pertanto, ciò che è determinato storicamente per mezzo della incarnazione del Cristo non è l'oggetto della coscienza logica del soggetto trascendentale che si è liberato dalla finitezza del mondo nel concetto, bensì l'evento della compiutezza escatologica, conseguibile attraverso la fede, nella Storia, intesa appunto come lo scenario fenomenologico nel cui orizzonte significativo l'esperienza dell'uomo si fa storia spirituale, cioè “realtà presente sotto Dio”. L'atto fondativo di questa realtà, costitutivo del primo fatto storico, è la Creazione divina del mondo, che l'AT include in una narrazione che possiamo indicare come “mondiale” in quanto il suo resoconto storico “lo contempla tutto, dalla solitudine creatrice di Dio fino al compimento, che è l'insediarsi di Jahwe nella terra promessa”.212 E in tal senso,
la costruzione della storia mondiale dà svolgimento al significato che si irradia dai centri fondativi dell'esperienza, e poiché quelli che vengono esperiti sono il volere di Dio e il suo atteggiamento verso l'uomo, la storia mondiale ha un significato nella misura in cui rivela la volontà ordinatrice di Dio in ogni sua fase, compresa la creazione del mondo.213
I centri fondativi dell'esperienza storica sono significati dai riti e dalle liturgie, in cui l'ordine divino del mondo viene esperito e rivelato nei modi vari e propri della volontà di Dio ricevuti dal Cristianesimo, in forza dei quali “l'esperienza dell'esistenza sotto Dio si dispiega nel significato della storia mondiale, e l'argomento della narrazione biblica è appunto l'emergere di un ordine pieno di significato da un contesto più povero di significato.”214 Su tale emersione di senso dal minore al più saliente si costruisce la vicenda drammatica del processo della sua acquisizione e della perdita, secondo quanto rappresentato
211O. Cullmann, Immortalité de l'ame ou résurrection des mortes? Le témoignage du
Nuoveau Testament (1956), tr. it. Brescia, 1967, pag. 44. 212E. Voegelin, IaR, pag. 175. 213Ivi, pagg. 178-179. 214Ivi, pag. 179.
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paradigmaticamente nel Genesi, dove si delinea la possibilità di valicare in senso degenerativo il confine pre-istorico, in direzione di una caduta della civiltà spiritualistica nel ciclo naturalistico.
L'interesse per i cicli di civiltà ha le sue radici nel timore suscitato dalla possibilità che la forma storica, così come è stata conquistata, possa andare perduta se l'umanità e la società invertissero il salto nell'Essere e rifiutassero una esistenza sotto Dio (…). La storia è esodo dalle civiltà; e le grandi forme storiche create da Israele, dai filosofi greci e dal Cristianesimo non hanno creato società del “tipo-civiltà”, sebbene le comunità da esse sgorgate, che sono ancora quelle su cui si regge la storia, debbano farsi strada attraverso il sorgere e il declinare delle civiltà.215
Resta significativo che le narrazioni storiografiche di tipo pragmatico dell'epoca delle grandi sistemazioni razionali della società politica moderna, in conseguenza della loro “contemporaneità” di coscienza, che riporta alla sintesi del giudizio attuale le antinomie del mondo reale, non siano in grado di darsi ragione delle crisi che attraversano in modo drammatico e cruento i processi statuali, sicché gli eventi rivoluzionari e bellici, eversivi dell'ordine stabilito, vengono rimossi o espulsi come accidentalità insignificanti rispetto ai movimenti razionali della coscienza trascendentale, identificati col contenuto del processo storico.216 Dalla rimozione consegue che con i contenuti allotrii viene a perdersi anche il significato dei relativi eventi stratificato nel tempo, la cui memoria non è rinvenibile dai reperti filologici che fungono da materia del discorso storiografico della storia pragmatica. Diversamente, l'unità del significato simbolico, riferibile alla storia paradigmatica, non è riferibile ai soli eventi storici, ma all'esperienza stratificata dei significati nel tempo, non determinabile nei soli termini della stratificazione narrativa. Infatti, nella dimensione pragmatica
è possibile distinguere la storia dalla storiografia solo in base alla posizione relativa di un documento nella stratificazione narrativa: un documento sarà
215E. Voegelin, IaR, pag. 171. 216La Storia d'Italia (1929) e la Storia d'Europa (1933) del Croce sono tipiche rappresentazioni di questa mito-logia storiografica di impostazione razionalistica in cui il movimento spirituale si risolve in dialettica della coscienza soggettiva. 80
storiografia in rapporto alla sua materia prima specifica, ma passerà nella posizione di materia prima storica rispetto a un lavoro storico successivo che assorbirà tale materia prima, con la forma letteraria datale dal lavoro storiografico precedente.217
Laddove, l'unità di significato rinvenibile in un testo in riferimento a una teoria delle forme simboliche è costituita, non dal fondamento ontologico dell'essere degli eventi, ossia dalla loro fatticità presente alla coscienza come suo oggetto teoretico, ma dal significato stesso presupposto come valore ermeneutico. L'idea di storia, nella prospettiva paradigmatica o mitogenica, nasce dall'alleanza di Israele con Dio, per cui “dopo tre millenni di defezioni e ritorni, di riforme, rinascite e revisioni, di conquiste cristiane e perdite di sostanza moderne, noi viviamo ancora nel presente storico dell'alleanza”, grazie alla quale “Israele è diventato il genere umano”.218 Da quel momento, gli eventi della storia sociale non furono più esperiti come parte dell'ordine cosmico-divino, ma come simboli della realtà trascendentedivina. Questo provocò l'isolamento della comunità israelitica, indicata come “popolo sui generis dalle società cosmologiche circostanti – cioè, data l'epoca, dal resto del genere umano”.219 Di converso, per il suo valore simbolico universale e paradigmatico, “l'oggetto della storiografia israelitica è la storia del mondo nel senso forte dell'emergere nel mondo e nella società, grazie ai suoi atti di creazione e alleanza, di un ordine voluto da Dio”.220 La storia paradigmatica diventa la narrazione delle vicende relative alla relazione dell'umanità con Dio, i due protagonisti del dramma. I simboli di questa rappresentazione storica sono Berit (alleanza), torot (comandamenti) e toledot (generazioni).221 Sia il mito che la storia sono parti della narrazione della verità espressa per simboli, per cui
l'opera storiografica contiene dunque autentici miti, storia autentica, e quello strano intreccio di storia, mito e messa in scena di quest'ultimo (in cui) i tre
217E. Voegelin, IaR, pag. 188. Ved. la distinzione di “cronaca” e “storia” in B. Croce,
Teoria e storia della storiografia, cit. pagg. 3-17. 218E. Voegelin, IaR, pag. 207. 219Ivi, pag. 208. 220Ivi, pag. 209. 221Ivi, pag. 216.
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tipi di contenuto si fondono in un nuovo tipo di storia che non è né mito né storia pragmatica ma quella “storia mondiale” la (cui) riabilitazione è data dalla speculazione sulle origini dell'essere e le epoche della storia mondiale.222
La narrazione, pertanto, ha assorbito diversi materiali connettendoli in una forma simbolica sui generis, priva di oggetto ma dotata invece di un suo proprio significato, che si rifà alle originarie esperienze narrate. Nondimeno, ciò che permane come oggetto problematico irrisolto è la relazione fra vita dello spirito e vita del mondo, la cui soluzione può essere solo temporanea e contestuale a un'epoca.
Si possono trovare, e sono stati trovati, degli equilibri che funzionano per un certo tempo: ma l'abitudine, la istituzionalizzazione e la ritualizzazione presto o tardi degenerano inevitabilmente, per la loro stessa finitezza, in una cattività dello spirito, che è infinito, e a quel punto è giunto il tempo di spezzare un equilibrio che è diventato carcere demoniaco.223
La lotta dello spirito contro i vincoli riduttivi delle forme istituzionali storiche e le organizzazioni sociali particolari tratta di una tensione universale, che conferma la presenza dell'eternità nel processo storico, in cui l'operare della perfezione trascendente attraverso il divenire mondano resta un paradosso insondabile, che pure ha i suoi protagonisti storici, e addirittura un personaggio eponimo rappresentativo di un evento storico-simbolico.
La sensibilità spirituale dell'uomo che aprì la sua anima alla parola di Jahwe, la fiducia e la forza d'animo indispensabili per fare di questa parola l'ordine di un'esistenza in opposizione al mondo, e l'immaginazione creativa usata per trasformare il simbolo della servitù della civiltà in quella della liberazione divina formano, nel loro insieme, un evento tra i più rari e grandi della storia dell'umanità; e questo evento porta il nome di Abramo.224 .
Ora possiamo meglio focalizzare il significato storico del “salto nell'Essere”, come esperienza da parte della coscienza dell'essere divino in quanto trascendente il mondo. Tale trascendenza costituisce
222Ivi, pag. 229. 223Ibidem. 224Ivi, pag. 245.
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il Limite dell'esperienza finita del mondo, che trova in quel riferimento trascendente il suo intrinseco significato di verità,225 non contingente e relativo alla circostanza fenomenica, ma simbolico e dunque universale in senso trascendente. La rimozione della realtà invisibile, se non dall'esperienza esistenziale dell'uomo, dalla coscienza pubblica sviluppa, col realismo storico, anche la memoria epica degli eroi valorosi, provocando come ricaduta “dialettica” di contrappasso un nichilismo positivo legato all'edonismo esistenzialistico.226 Di conseguenza, la frattura storicistica fra la vita e la morte schiaccia l'esperienza al presente, negando tradizioni e retaggio ideale del passato, ossia quella “memoria storica” che costituisce lo stesso orizzonte ermeneutico della storicità.227 Nell'eroe si compendia il valore simbolico definito dal concetto, ma espresso in termini di esperienza fattuale. La fattualità eroica incarna il simbolismo dell'azione insieme significativa e misteriosa, legata a un disegno trascendente la volontà umana che l'interpreta in chiave paradigmatica, anche prima di pervenire alla sua oggettività razionale. Il passaggio dalla coscienza immediata alla autonomia dell'oggettività, implica la liberazione della soggettività nella determinazione della persona ideale, distinta dall'essere in sé. È questa la “sfera del fine” in cui “l'agire secondo il fine è agire saggio, essendo saggezza agire per fini che hanno una validità universale”.228 Sicché, per quanto riguarda la visione filosofica della storia interna all'orizzonte di coscienza mitogenetico, la sua prospettiva implica la scissione della coscienza razionale dall'unità originaria della coscienza mitica, per cui
la philia che tende al sophon presuppone un'anima personalizzata, sganciata dalla sostanza di ogni gruppo umano particolare quanto basta per vivere una
225 A proposito del rapporto della verità come “valore universale di scienza”, e l'intuizione spirituale come “sentimento meramente soggettivo e individuale”, ved. la critica di Schelling al teosofismo di Jacobi, il cui pensiero è indicato come il “punto di passaggio dal razionalismo all'empirismo”, in Zur Geschichte der neuren Philosophie (1861), tr. it. Lezioni monachesi e altri scritti, Napoli-
Salerno, 2019, pagg. 199-223. 226Ivi, pag. 293. 227Ved. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), tr. it., Milano, 1983, pagg. 355361. 228G.W.F. Hegel, Lezioni sulla fil. d. religione, cit., pagg. 213 e sgg. 83
comunione con altri uomini fondata sulla comune partecipazione al Nous divino. Finché la vita spirituale dell'anima è talmente indefinita che il suo essere sotto Dio può essere esperito solo in modo compatto, attraverso la mediazione di clan e tribù, l'amore spirituale di Dio non può diventare il suo centro ordinatore. (…) Solo quando l'uomo, pur vivendo insieme ai suoi simili nella comunità dello spirito, ha un destino personale davanti a Dio, l'erotismo spirituale dell'anima può raggiungere quell'autointerpretazione che Platone chiamava filosofia.229
Finché la ruach di Jahwe è presente nei membri della comunità “in quanto rappresentanti della comunità, ma non in quanto forza ordinatrice presente nell'anima di ogni uomo” non può sorgere una coscienza filosofica, e con essa l'autodeterminazione necessaria a emancipare con la coscienza individuale anche la stessa persona esistenziale dalla dipendenza dal Potere dei rappresentanti della coscienza collettiva, i quali sono legittimati da questo ruolo rappresentativo alla funzione di governo. Ecco dunque come la dinamica interna all'unità religiosa crea le premesse theo-logiche della struttura politica del gruppo sociale, garantito nella sua sopravvivenza bio-politica in quanto non pervenuto alla relazione individuale con Dio che consente l'articolazione della storia spirituale collettiva in storia della coscienza personale. Questo “salto” coincide con il superamento dell'orizzonte politico come salvaguardia dell'esperienza umana dal suo destino di Morte, cioè dalla sua dipendenza cosmologica dalla Natura. Il destino spirituale personale non può realizzarsi senza un superamento della frattura tra vita e morte dell'uomo. Deviare la esperienza di vita nella realtà sociale collettiva non consente la relazione personale con Dio ma propizia l'identità di gruppo, l'integrazione nel collettivo. Questa integrazione di contenuto e significato religioso costituisce un ordine teocratico, la cui idea “non è una dottrina inventata da un pensatore in un momento storico preciso ma un simbolo che dà espressione a un'esperienza vissuta, quella della tensione fra costituzione umana e divina della società”.230 Nella Risposta al signor De Broglie, che recensendo criticamente il suo saggio su Le catholicisme, le libéralisme et le socialisme lo aveva accusato di propugnare un regime politico di tipo medievale, Donoso
229E. Voegelin, IaR, pag. 296. 230Ivi, pag. 303.
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Cortes afferma che la questione in gioco tra Stato e Chiesa non è la supremazia tra sacerdozio e Impero, ma “di accertare se conviene o no alla società civile di prendere dalla Chiesa i grandi principi dell'ordine sociale, e se le conviene o no essere cristiana”. Il contenzioso, in altri termini, non verte sul riconoscimento della posizione spirituale della Chiesa, acquisita per decreto divino e non oppugnabile dalla volontà umana, ma sulla conferma della relazione dell'uomo con Dio, indispensabile alla trasformazione della sua esistenza, ritenendo tale trasformazione acquisita irreversibilmente etsi Deus non daretur, secondo uno statuto storico che esonera l'ordine religioso nell'ambito della costituzione civile. E aggiunge infatti significativamente:
Il grande peccato di questi tempi mi sembra consista nel vano intento delle società civili di formare per loro proprio uso un nuovo codice di verità politiche e di principi sociali; nel vano intento di sistemare le proprie cose attraverso concezioni puramente umane, facendo una assoluta astrazione delle concezioni divine. (Dividendo la creazione in tre imperi indipendenti) l'uomo impererà su tutto quello che c'è tra il santuario e il cielo, ed in questo vastissimo impero tutto si ordinerà attraverso le concezioni umane. Da qui quella grande esplosione di attività intellettuale (…), il ritorno all'idolatria della propria grandezza (…) e il culto che le genti hanno verso gli uomini (d'ingegno, e la) fiducia insensata dell'uomo negli altri uomini e in sé stesso, che mi fa tremare per la sua imperturbabilità, anche di fronte al naufragio universale di tutti i suoi vani pensieri e di tutte le sue vane illusioni (…). L'orgoglio è sempre punito con le catastrofi ed è sempre causa di fallimenti (…). le società dei nostri tempi, tornate all'infanzia, avevano finito di credere che avrebbero potuto evitare gli sguardi di Dio (…) che vive in tutte le parti dall'eternità.
Da questa prospettiva escatologica, Donoso misura in termini regressivi l'emancipazione moderna dalla relazione con Dio, che ha trasformato in un grande equivoco tra il fondamento teologico dell'ispirazione religiosa del corpo mistico cristiano, e la costituzione teocratica dello Stato.
Come la sottomissione ai precetti divini non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la istituzione di un Governo teocratico, così il riconoscimento, in teoria e in pratica, delle verità fondamentali di cui è depositaria la Chiesa, non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente,
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la sua dominazione negli affari temporali. La Chiesa giammai ha confuso queste due cose, così differenti fra loro. Per questa ragione, mentre cerca e chiede per i suoi dogmi, e anche per i suoi principi, l'impero del mondo, perché questo non può sussistere senza sottomettersi a quelli, ha mostrato non solo indifferenza, ma orrore, ad ingerirsi nella direzione temporale delle cose umane. (E seppure in casi eccezionali la Provvidenza) mise lo scettro, la corona e la porpora ai piedi dei suoi Pontefici (ciò avvenne perché essi erano) gli unici che allora erano sulla terra pacifici e giusti (tanto che possiamo dire che) senza quella suprema giurisdizione, conferita per consenso universale alla Chiesa, l'Europa e la civiltà sarebbero perite insieme.231
La querelle si gioca su due piani: l'uno storico-politico, in cui prevale la preoccupazione delle nuove istanze razionalistiche di preservare un ordine istituzionale autonomo nei suoi fondamenti di legittimità; l'altro simbolico-religioso, in cui prevale, di contro, il riconoscimento della condizione umana emancipata da un atavico ordine cosmologico, la cui ricaduta viene paventata come una condizione di regresso spirituale. Tra le due istanze ormai culturalmente incomunicanti si frappone la questione (rimossa) del fondamento di legittimità del Potere, che un acuto lettore di Donoso come Carl Schmitt riproporrà in pieno XX secolo; questione che diventa improponibile fuori dal linguaggio del Mito, che, come osservato da Voegelin, “è motivato, caso per caso, dall'esperienza dell'ordine, e non ha niente a che fare con le dimensioni o il successo dell'unità sociale che lo usa”.232 Questa preoccupazione politica rimane comunque secondaria rispetto alla questione del fondamento di legittimità, che permane anche a forme di convivenza umana mutate, poiché le condizioni di esistenza dell'uomo rimangono le stesse, in quanto costitutive della ragione della Storia, ossia dell'ordine divino. “Un popolo che non comprende (le cose divine) va a precipizio”,233 sicché per ristabilire l'ordine del mondo, decaduto per hybris umana, occorre ristabilire l'ordine divino (apokatastasis). Ma in cosa consiste l'ordine divino? È la stessa libertà dell'uomo, la quale non consiste dunque nell'ordinamento razionale del mondo pensato dall'uomo, ma appunto nell'ordine voluto da Dio. Il
231La Risposta data il 15 novembre 1852, la tr. it. in J. Donoso Cortés, Il potere cristiano, Sesto s. Giovanni, 2020, pagg. 124-125. 232E. Voegelin, IaR, pag. 354. 233Osea, 4, 14.
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primo grado di coscienza di tale ordine divino nasce con la filosofia, “dall'idea di una psyché immortale come luogo del giusto ordine”,234 dislocato altrove rispetto alle istituzioni politiche, in una regione normativa regolatrice delle volontà, a rimedio del kaos. Da qui il bisogno di un ordine legale, di una legalità divina liberatoria.
La Legge non è affatto quel fardello per cui spesso la scambiano i pensatori cristiani ma, al contrario, la grande liberatrice dalla tensione dell'esistenza al cospetto di Dio (…). E' l'espressione simbolica di una nuova esperienza d'ordine in cui l'irruzione dello Spirito Santo è diventata qualcosa di meno intenso – esegesi ispirata dalla parola scritta.235
La stessa definizione della religione nasce dalla concezione della sua funzione sociale, che sin dalle origini si è riflessa, non solo nella storia di Israele ma anche in quella del Cristianesimo, come teoria sullo Stato,236 in quanto “lo Spirito vive nel mondo come forza ordinatrice” dell'esistenza umana, che attraverso la fede, viene trasformata in una forma storica, che ha il suo fulcro nella relazione dell'uomo con Dio.237 Lo statuto legale di questa relazione è possibile a partire dalla condizione di uguaglianza di tutti gli uomini al cospetto di Dio, compresi i re, e per essi le tutte le classi dirigenti storiche, su cui ricade la custodia dell'ordine e dei deboli.238 L'uguaglianza di fronte a Dio è il riconoscimento di una potestà divina superiore a quella umana, che ne costituisce perciò il limite insuperabile, ossia il fondamento morale della volontà, singola e politica.
Nel loro creativo progetto di uno Stato di diritto i codificatori (israeliti) riuscirono a tradurre l'ordine divino dell'amore in modello istituzionale, rendendo così impossibili tanto l'apoteosi dello Stato quanto l'idea di una legge e un governo laici, isolati dall'ordine spirituale. Ma questa traduzione ha senso solo se è qualcosa di più di un puro e semplice legalismo, ed è per questo che al centro dell'intera concezione sta l'obbligo personale di ogni membro della comunità di obbedire alle leggi di Dio: la chiamata e l'impegno
234E. Voegelin, IaR, pag. 438. 235Ivi, pag. 444. 236Ved. E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1923), tr. it., Firenze, 1941, vol. I, pagg. 14 sgg. 237E. Voegelin, IaR, pag. 446. 238Deuteronomio, 17, 14 sgg. Ved. E. Voegelin, IaR, pag. 447. 87
personale di Deuteronomio 6,5 garantiscono la sopravvivenza dell'ordine non per mezzo di una sicurezza esterna, ma attraverso la convinzione di coloro che sotto tale ordine vivono.239
Le potenze del mondo, per quanto vittoriose pragmaticamente, vengono sottoposte a giudizio morale, il cui tribunale trasforma le vittorie in sconfitte. Nel giudizio si misura la permanenza o l'assenza del “salto nell'Essere”, che rappresenta la frattura spirituale interna all'esistenza umana, e l'inaugurazione della sua condizione storica. “La rivelazione (divina) crea la storia come forma interna dell'esistenza umana nel presente sotto Dio e perciò deve inevitabilmente produrre, in qualsiasi tempo abbia luogo, uno strappo con lo stadio di sviluppo”.240 Questo “strappo” è appunto costituito dal “salto” ontologico, che rappresenta la vera rivoluzione spirituale della coscienza antropologica e insieme della esistenza umana. Come scrive Voegelin, “Il primato dell'esse divino, contrapposto al primato platonico del bonum divino, non solo è il punto fondamentale della filosofia cristiana riguardo all'essenza di Dio, ma lo è in modo talmente netto da essere stato chiamato, giustamente, filosofia dell'Esodo.”241 Il nesso tra Rivelazione e Storia spirituale diventa valore religioso con la consapevolezza della non-autointelligibilità (Nicht-Selbstvertaendlichkeit) della esistenza umana, la quale pertanto “non può essere compresa da se stessa”242, in quanto agisce in essa la libertà spirituale, che costituisce una minaccia potenziale ben più grave di ogni determinazione fisica sul corpo, la minaccia del disordine, che “appare come una potenza che l'uomo alla fine non riesce a domare, ed è in questo contesto che il concetto di caos acquista un particolare significato”, di forza negativa da domare.243 Questo sforzo si compendia, nella coscienza individuale, come incontro col divino trascendente, in cui “l'uomo vede Dio e nella sua anima avviene il salto nell'Essere”, che non comporta avvenimenti
239Ibidem. 240Ivi, pag. 483. 241Ivi, pag. 482. 242K. Jaspers, Der philosophischer Glaube angesicht der Offenbarung (1962), tr. it.,
Milano, 1970, pag. 167. 243R. Guardini, Loc. cit., pagg. 172-173.
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esterni, ma mutamenti nel “modo di comportarsi”;244 e nella dimensione della Storia, come “compito perpetuo di riconquista dell'ordine sotto Dio dalle pressioni dell'esistenza mondana”.245 Ed è in questa “tensione della risposta alla rivelazione senza tempo ed eterna di Dio” che si dispiega l'esperienza storica dell'uomo e di una civiltà nel tempo.246 L'ordine cui perviene il risultato storico di questa tensione è di carattere religioso. L'ordine religioso consente all'uomo di pervenire a un livello di appagamento spirituale che nessun altro valore è in grado di assicurargli, poiché “il religioso ha il carattere dell'autentico e del definitivo, in misura tale che per suo tramite tutto può essere svalutato”, in quanto il suo valore assoluto, cioè sacro, “non spiega se stesso, né giustifica a partire da qualche altra istanza la propria pretesa, ma si rende evidente per se stesso”, in quanto verità che “non dimostra il suo senso, ma si manifesta e proprio per questo risulta indiscutibile”.247 Il risultato cui perviene l'uomo entro l'ordine religioso è “la salvezza” dalla finitezza,248 che è a un tempo riconciliazione spirituale con Dio e con gli altri uomini. Cos'è dunque storico? Storica è la vicenda spirituale dell'uomo intrattenuta sulla relazione della singola coscienza con l'esperienza della sua esistenza nel tempo. Storico è il rapporto che l'uomo intrattiene con la Verità nel tempo della sua vicenda esistenziale. Non vi è Storia senza tale rapporto, che dunque presuppone due termini di relazione: la coscienza di sé, come coscienza di libertà, e la consapevolezza di ciò che divinamente la trascende, ossia la Differenza. Il “salto nell'Essere” è anch'esso relativo, perché inerisce appunto alla relazione tra la coscienza della finitezza e la realtà trascendente. L'essere di Sé e l'essere dell'Altro stabiliscono una relazione, un con-essere, in cui la realtà del soggetto discopre se stessa attraverso la realtà dell'Altro. Mentre nella negazione dialettica dell'Altro si costituisce la “volontà di potenza” della coscienza razionale, nella negazione del Sé si costituisce il Mystero dell'amore di Dio. In entrambi i casi non vi è Storia, ma
244E. Voegelin, IaR, pag. 499. 245Ivi, pag. 493. 246Ivi, pag. 506. 247R. Guardini, Loc. cit., pag. 201. 248Ivi, pag. 202.
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postulato dogmatico dell'Essere, decisione ontologica che assicura, con esiti opposti, la realtà di uno solo dei due termini relativi. Il tempo dell'essere-per-sé è quello biologico della finitezza naturalistica; il tempo della Verità è invece eterno. Storico è solo il tempo della relazione, in cui tempo ed eternità si fondono nel kairòs, nel tempo buono. Se si isola la temporalità al solo ed esclusivo ambito ontologico dell'Essere di sé, la astratta storicità che ne emerge è la tensione verso la morte, il predominio della esistenza biologica destinata alla consunzione. Su questa premessa naturalistica si dispiega la concezione storicistica del razionalismo moderno. Infatti, la metafisica razionalistica è fondata sull'ontologia della Natura, del tempo finito che si perpetua nel ciclo eterno dell'uguale, in una cosmologia. Il processo del pensiero finito mina la stessa stabilità etica dell'Essere, poiché fonda l'Ordine esterno dell'esistenza biopolitica sulla corrispondenza forzatamente indotta mercé il Potere tra il modello razionale e l'analogo istituzionale, la cui funzione è di assicurare la resistenza dell'inevitabile esito nichilistico. Da qui la conversione dialettica dell'astratto ideale in opposto concreto, con conseguente dissoluzione di ogni opera umana, anche momentaneamente grandiosa. Dal tentativo di conformare il disordine reale all'ordine ideale nasce la volontà rivoluzionaria della deontologia razionalistica, la quale rappresenta la versione degenerata e velleitaria della Metastasi che avevan in mente i profeti dell'Antico Testamento quando intendevano trasformare la costituzione dell'Essere.
La costituzione dell'Essere è come è, e non può essere modificata dalle fantasie umane; perciò la negazione metastatica dell'ordine dell'esistenza mondana non è né una proposizione vera in filosofia, né un programma d'azione eseguibile. La volontà di trasformare la realtà in qualcosa che per essenza essa non è, è ribellione contro l'essenza delle cose, disposta da Dio.249 Si apre un abisso tra il mondo storico e la sua immagine trasfigurata secondo il piano divino. Nella varietà delle forme simboliche “è riconoscibile una sostanza comune, la volontà metastatica di trasformare la realtà per mezzo di fantasie escatologiche, mitiche o storiografiche, o anche abbassando la fede a strumento dell'azione
249E. Voegelin, IaR, pag. 532.
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pragmatica”.250 L'insoddisfazione per tale distanza genera il progetto rivoluzionario di ricomporre il kaos eliminando il referente divino trascendente e fondare su uno statuto solamente razionale il mondo, inteso quale contesto storicistico dell'opera umana. La condotta umana non viene più giudicata sul presupposto di un ordine divino, che è ordine ontologico, ma sul presupposto della sua giustificabilità razionale. La compattezza cosmologica si sviluppa in differenza storica e ideale del processo unitario in elementi astrattamente particolari, e nell'ambito della manifestazione empirica dell'ordine unitario si è così potuto sostituire all'origine divina la volontà di pianificatori ideologici, spostando il significato della Storia da esistenza nell'Ordine dell'Essere divenuto evidente dalla Rivelazione, a ordine razionale pianificato dall'ideologia umana: un Ordine non più dunque trascendente ma del tutto immanente e “storico” nel senso di relativo al tempo, rimuovendo la conquista spirituale della coscienza religiosa per cui “l'esistenza in forma storica presuppone tanto il Dio che trascende il mondo quanto il fatto storico della sua rivelazione”, e che pertanto “l'uomo esiste dentro l'ordine dell'Essere, e non c'è storia fuori della forma storica sotto la rivelazione”.251 La partecipazione esistenziale alla parola di Dio è la fede, la quale perciò non è un mero culto confessionale o un segno di identità culturale, ma la condizione stessa della costituzione storica dell'esistenza, che ne dipende come dal significato dell'evento per la sua comprensione. Sicché l'Ordine nella società e nella Storia dipende dalla fede. L'Ordine dell'Essere, pertanto, non ha uno statuto formale e astrattamente giuridico, ma è quell'ordine al quale l'uomo partecipa con la sua stessa esistenza, un ordine esistenziale: ciò comporta che la storia spirituale dell'uomo singolo diventi il nucleo di realtà concreta della vita umana, i cui atti vanno interpretati, non sulla base della loro razionalità rispetto ai fini, ma alla luce del loro valore simbolico, espressivo della storicità o relazione con l'Ordine dell'Essere, sul cui metro le potenze del mondo, per quanto vittoriose pragmaticamente, vengono sottoposte come al loro tribunale morale, che può trasformare le vittorie in sconfitte. Alla luce della coscienza religiosa, “l'interesse fondamentale dell'uomo è l'armonizzazione della sua esistenza presente con l'ordine
250Ivi, pag. 533. 251Ivi, pagg. 544 e 545.
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dell'Essere”.252 Ma la distanza tra l'Ordine vero e quello storico realizzato dalle società concrete non è colmabile. Ciò comporta che l'ordine generico si concentra nella volontà di Dio, così come il destinatario collettivo si determina nella volontà individua del profeta, che partecipa con la sua esistenza alla “sofferenza di Dio”.253 Il nucleo di verità di tale partecipata sofferenza è “la terribile verità: che l'esistenza di una società concreta con un suo ordine ben definito non risolverà mai il problema dell'ordine nella storia, che nessun Popolo Eletto sarà mai, in nessuna forma, l'ompholòs ultimo del vero ordine dell'umanità”.254 La finitezza dell'uomo rimane la sua dimensione esistenziale in sé intrascendibile, ma correggibile mercé l'intervento della Grazia, che parla per la bocca dei profeti, cioè con linguaggio umano simbolico, che rappresenta l'altra via di accesso alla Verità, la via mitica, rispetto a quella filosofica della conquista, anziché della evocazione, della parola. “Quando è l'uomo a cercare Dio, come nell'Ellade, la saggezza conquistata resta genericamente umana; quando è Dio a cercare l'uomo, come in Israele, colui che riceve la rivelazione e le sa rispondere diventa storicamente unico”.255 Ciò comporta che la verità in senso greco diventa di per sé comunicabile, a prescindere dal suo scopritore e dai suoi destinatari, in quanto formula razionale generale, mentre , nel caso della rivelazione divina, la mediazione profetica diventa indispensabile a dar vita alla Parola di Dio. In questo caso, non si ha una espressione dottrinale ma una esperienza esistenziale, una storia vissuta nella verità spiritualmente partecipe, dove “l'esperienza è inseparabile dalla sua espressione simbolica”.256 La verità interna all'orizzonte di senso religioso dell'esperienza esistenziale e sociale dell'uomo è esattamente il modello di storicità che la cultura razionalistica moderna ha rigettato in nome dell'autodeterminazione dell'intelligenza umana, ovvero come autoaffermazione della ragione, primieramente filosofica e quindi scientifica. Ma se “la scienza non ha nulla a che fare con la fede
252Ivi, pag. 564. 253Ivi, pag. 570. 254Ivi, pag. 573. 255Ivi, pag. 578. 256Ivi, pag. 579.
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rivelata, la filosofia sì”. La fede, infatti, inerisce la rivelazione nei termini in cui questa “deve essere soltanto creduta e non conosciuta mediante prove storiche”, ossia mediante quella “fatticità (Sachlichkeit) del presunto sapere oggettivo” che elimina il mystero “in tutto il rigore della sua incomprensibilità”,257 che non equivale al Nulla, ma bensì a quella Totalità che il pensiero razionale non può conoscere, né dunque garantire. Dunque il pensiero razionalistico, rigettando il Mystero della Rivelazione cristiana, opera anche implicitamente una rinuncia, a con-prendere l'unità di senso dell'esperienza finita nella relazione con la Verità trascendente, ripiegando su un sapere mondanizzato che limita la possibilità dell'uomo di progettarsi autonomamente nel mondo nei termini di ciò che Heidegger chiama “l'esserci” (Dasein). In cosa consiste il progetto d'essere dell'esserci, la sua progettualità? Progettarsi è inserirsi nel Divenire come volontà razionalizzante. Il Divenire va inteso come il mutamento della forma dell'Essere a opera dell'uomo, in concorrenza od opposizione alla volontà della Natura. La forma dell'Essere, conseguente all'intervento dell'uomo sulla materia informe, in quanto volontà che modifica l'Essere, come tale è una volontà caduca e reversibile, perché priva di necessità, che è l'attributo dell'eterno. La materia è informe non in quanto, come fenomeno, non presenti delle analogie formali con qualcos'altro da sé, ma esse sono mere fisionomie somiglianti, non vere forme, prodotte da una volontà. La volontà della Natura non è una vera volontà, perché essa agisce razionalmente a caso, e prevedibilmente secondo le sue necessarie premesse; vera volontà, libera di determinarsi secondo un progetto teleologico, è soltanto quella umana, che destina la materia a un fine razionale (telos), che, trasformando la materia, la libera dalla sua eterna necessità d'essere ciò che è. Ma proprio tale intima necessità destina la materia alla alterazione, anziché a un vero cambiamento, per cui in Natura tutto si altera restando lo stesso. E poiché ciò che rimane è eterno, solo ciò che muta e si trasforma cade nel tempo. E ciò che muta è pertanto la forma dell'Essere, non già l'Essere stesso. La trasformazione dell'Essere nella forma della volontà umana inscrive l'Essere nel tempo, configurando la durata del prodotto umanizzato. È la forma che cambia e diviene. Il Divenire non va
257K. Jaspers, Loc. cit., pagg. 120-124.
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inteso come l'alterazione della materia naturale, ma come l'opposizione tra questa alterazione e le trasformazioni impresse dall'uomo alla materia. Qual è il senso delle trasformazioni della materia a opera dell'uomo? L'uomo, attraverso la forma dell'Essere intende affermare la sua volontà. Tale volontà non persegue il disegno spontaneo della Natura, come avviene nelle altre specie viventi, ma lo modifica secondo un progetto razionale dell'uomo, legato alla sua antropologica incompiutezza. Il riconoscimento di questa condizione è lo stesso riconoscimento del Mystero divino, che ha stabilito il segno dell'eternità nella Materia, che è la sostanza che non muta ma solo si modifica, e il segno della precaria libertà nello spirito umano, che informa l'Essere secondo un fine razionale di umanizzazione della Natura, ma informandolo lo acquisiscono secondo la finitezza propria della condizione umana, che è intrascendibile, e perciò abbisognevole della relazione con Dio. Le forme spirituali che si strutturano come volontà derivate da una intuizione fondamentale della vita costituiscono le culture umane nel tempo. Le civiltà che si rapportano al trascendente in virtù del “santo nell'Essere”, sono quelle la cui esperienza si dispiega nella Storia. Le forme apparenti della civiltà sono espressive della cultura simbolica che progetta razionalmente una realtà di coesistenza sociale durevole. Non esiste un fenomeno umano che non sia espressivo di una volontà che lo ponga in essere, ossia di una forma simbolica significativa di senso razionale in relazione a come appare, per cui le forme in cui si realizza l'esperienza umana sono le manifestazioni della sua volontà d'essere ciò che appare. In questo senso l'essere è sempre l'essere di un ente. Ma non tutte le manifestazioni della volontà esprimono la realtà nella sua relazione con l'Essere. La distanza che la civiltà razionalistica moderna ha segnato tra le forme simbolico-culturali della volontà trasformatrice della materia dell'Essere, e la relazione che la coscienza personale ha con il suo referente divino, che è l'Essere eterno, segna la crisi epocale della civiltà cristiana europea, la quale si connette strettamente con la nascita nel sec. XVI della civiltà economica nota come Capitalismo moderno, il cui “centro geografico e morale di irradiazione è l'Inghilterra puritana del XVII secolo” e che nella sua forma pura di capitalismo industriale, caratterizzato dall'iniziativa
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individuale e dal controllo privato della produzione della ricchezza indiscriminata, ha il suo apogeo intorno alla metà del sec. XIX.258 Questa civiltà, rispetto alla società medievale, avendo perso una visione religiosa della esperienza e della Storia umana, predilige a un principio di socialità basato sulla comunità spirituale la struttura formale dello Stato politico, il cui scopo di principio è di garantire all'uomo la pace sociale, e di fatto il potere di controllo sulla Natura e la produzione indefinita di beni materiali, utili al miglioramento delle sue condizioni di vita. Tale impianto strutturale, conseguente al processo di razionalizzazione della vita sociale moderna, ha come presupposto ontologico la concezione dell'Essere come struttura formale, interconnessa nei suoi distinti momenti categoriali secondo criteri di funzionalità relativa alla plausibilità pratica dei loro contenuti ideali, ossia alla loro reciproca coesistenza storica. Sicché gli elementi ideali incompatibili con tale coesistenza vengono espunti dalla vita pubblica e consegnati, nel migliore dei casi, alla coscienza privata. Persino l'idea di Dio viene fatta dipendere dalla sua sostenibilità con la struttura formale dell'Essere sociale.259
3. L‟analisi di K. Mannheim parte dalla duplice convinzione che l‟epoca attuale sia priva di originali contenuti artistici, di pensiero e di fede, per cui la prevalenza teorica vada alle strutture formali dell‟Essere, e che, in particolare il pensiero filosofico nel suo insieme “si muove su un piano di doppia riflessività”, una di tipo logico e metodologico, l‟altra di tipo strutturale,260 per cui “come guidato da una mano invisibile, l‟intero apparato delle scienze dello spirito è all‟opera nel tentativo di cogliere il fenomeno della cultura, nel suo divenire storico e nelle sue caratteristiche sistematiche”.261 Da qui la
258A. Labriola, Le crepuscule de la civilisation, Parigi, 1936, pagg. 67 e 68. 259Ved. B. Groethuysen, Origines de l'esprit bourgeois en France, I L'Eglise et la bourgeoisie (1927), tr. it. Torino, 1949, pagg. 119-150. 260 K. Mannheim, Una teoria sociologica della cultura e della sua conoscibilità. Pensiero connettivo e pensiero comunicativo (1924), tr. it., condotta sull‟ed. inglese Structures of Thinking (1982), in Le strutture del pensiero, Roma-Bari, 2000, pag. 147. Da ora in poi indicata come Una teoria sociologica della cultura. 261 K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale (1922), tr.it. in Le strutture del pensiero, cit., pag. 5. 95
ripresa dei classici, senza che nessun epigono voglia riprenderli “parola per parola”, ma con l‟intento “piuttosto, di riscoprire sempre di nuovo la fecondità di punti di partenza sistematici, la fecondità dei metodi di queste filosofie”.262 Ma la rivisitazione dei classici del pensiero filosofico non si fermava a Kant e ai romantici e a Hegel, andava sino alle radici della modernità, e al filosofo che più di tutti aveva segnato la svolta metafisica caratteristica del pensiero moderno, Cartesio, che sarà oggetto di una profonda rivisitazione da parte del fondatore del metodo fenomenologico, Edmund Husserl. Vi è da dire, peraltro che ogni fissazione di un limite epocale, e di un relativo esponente eponimo, preludeva, nel prosieguo delle analisi, a uno spostamento sempre più a ritroso nel tempo, fino a lambire, con Heidegger, come abbiamo visto, i fondamenti stessi del pensiero filosofico della nostra tradizione. Lo stesso Heidegger, d‟altro canto, nel definire gli assetti strutturali della sua ontologia fenomenologica, non poté fare a meno di soffermarsi sulla metafisica di Kant, proponendone una rilettura critica molto diversa da quella che era stata, non solo la lezione neo-kantiana della Scuola di Marburgo e la sua risoluzione del trascendentale nella logica, ma della stessa lettura del suo maestro Husserl nel primo decennio del Novecento, il cui “kantismo” è probabilmente all‟origine della “riduzione fenomenologica” come analisi dei soli Erlebnisse della coscienza trascendentale, e non, come sarà invece per Heidegger, come ontologia fondamentale, ossia comprensione dell‟essere degli enti.263 Se non si trattava, dunque, di una ripresa pedissequa, non era neppure una rivisitazione erudita dei classici, bensì la rivisitazione nasceva dalle stesse esigenze di ripensare i fondamenti epistemici del pensiero filosofico, che pareva aver esaurito nel corso dell‟età moderna la sua ragion d‟essere dopo la definizione totalistica dell‟Essere come ente, e la conseguente affermazione esclusiva delle scienze fenomeniche nel campo della conoscenza, dove, proprio con Kant, la gnoseologia aveva soppiantato ogni possibile ontologia.
262 K. Mannheim, Una teoria sociologica della cultura, tr. it. cit., pag. 145. 263 Ved. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia (lezioni del 1927; ed. 1975), tr. it. a cura di A. Fabris, 1990. 96
Intorno al 1850 la situazione è tale che tanto le scienze dello spirito quanto quelle della natura hanno preso possesso della totalità del conoscibile, per cui sorge la questione: che cosa rimane ancora alla filosofia, se la totalità dell‟ente è stata spartita tra le scienze? Le rimane soltanto più la conoscenza della scienza, non la conoscenza dell‟ente, e questo punto di vista è determinante per il ritorno a Kant.264 Secondo Mannheim, il comportamento umano si inscrive in una “struttura spirituale” che indirizza non soltanto l‟azione ma la vita nel suo complesso attraverso la selezione di un ordine di importanza delle cose per cui “l‟uomo non solo pensa, ma esperisce gerarchicamente”. All‟interno di tale struttura gerarchica, l‟ordine valoriale si definisce sulla base di una derivazione e giustificazione reciproche, che fanno capo a un principio di legittimazione che “deve fornire da sé la sua propria legittimità”. Ciò potrebbe indurci a credere che tale Grundnorm goda di uno speciale statuto di auto-evidenza, tale da non consentire alcuna resistenza umana alla sua vigente effettualità erga omnes. In realtà,
ciò che si presenta come l‟origine e il principio all‟interno del sistema prodotto dal pensiero, e che giace alle spalle di ogni fondazione teorica, riceve la sua autolegittimazione all‟interno del processo storico vitale dalla coscienza comunitaria volta a volta presente in un determinato tempo, e può essere visto come non problematico proprio solo a partir da quest‟ultima.265
E‟ “all‟interno” di una “coscienza comunitaria” che un principio gerarchico trova il suo valore sociale, che dunque ha un valore assoluto solo relativamente al contesto fideistico, ma che non è un valore assoluto all‟esterno della comunità dei credenti. E‟ chiaro pertanto che il principio fondativo dell‟ordine assiologico gerarchicamente valido entro una determinata “struttura spirituale” è un valore (per la comunità dei credenti), mentre non lo è per gli esterni, per gli extra-comunitari, verso i quali esso ha un valore relativo. Il che vuol dire che la negazione in senso logico è immanente a una relativa determinazione, mentre nel senso dell‟ontologia sociale la stessa negazione si determina come esclusione pratica. La
264 M. Heidegger, Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger (1929), tr. it. come Appendice in M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), tr. it. a cura di V. Verra, Roma-Bari (1981), 2000, pag. 219. 265 K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr. it. cit., pag. 7.
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conversione dell‟essere in avere costituisce l‟essenza dell‟attività pratica dell‟uomo, che trasforma il “valore” ideale in “potenza” economica. Per definizione la potenza è sempre relativa all‟altro, al distinto; così come la determinazione dell‟essere è sempre relativa alla opposta negazione logica. Voler concepire la differenza tra la “logica dei distinti” e la “logica degli opposti” come una differenza interna alla struttura spirituale, e quindi le sue rispettive contraddizioni derimibili entrambe col metodo logico, è il limite di ogni idealismo, il quale coniuga tutta l‟esperienza umana col verbo dell‟essere. Viceversa, assumere l‟Essere nei soli termini delle sue possibilità d‟essere, senza considerare ciò che dell‟Essere sussiste oltre ogni determinazione pratica, ogni possibile trasformazione, è il limite di ogni pragmatismo, il quale coniuga tutta l‟esperienza umana col verbo dell‟avere. Ma i due elementi dell‟Essere, ossia l‟unità della sua ontologica sussistenza, e la molteplicità delle sue determinazioni storiche, non sono comprimibili e assimilabili reciprocamente, ma emergono al di sotto di ogni tentativo assimilatore. Si prenda il caso del materialismo di Lukàcs, quando afferma che
La prassi viene determinata dall‟essere, dall‟essere sociale […]. La prassi tuttavia postula, di per sé, necessariamente, una immagine del mondo con cui possa armonizzarsi e a partire dalla quale i complesso delle attività della vita si organizzi in un contesto fornito di senso. E‟ chiaro che la scienza e la connessa filosofia in primo luogo sono chiamate a dare una risposta adeguata, oggettivamente corretta: in quanto parti – e parti attive, non funzionali senza attività – dell‟intera realtà sociale, esse non possono ignorare tali richieste provenienti dalla vita quotidiana; anche una risposta negativa, un rifiuto, rappresenta, dal punto di vista del problema che qui ci interessa, una reazione al mandato sociale.266
L‟impostazione onto-sociologica afferma il presupposto che siano “i fatti sociali” a rendere vere o false le teorie, e non già le teorie vere o false a rendere veri o falsi i fatti. La preferenza ad una o ad altra ipotesi, nasce sul diverso presupposto che si stabilisce in merito al rapporto di derivazione originaria. La risposta alla domanda “cosa è originario?”, determina conseguentemente la modalità d‟essere
266 G. Lukàcs, Per Zur Ontologie des gessellschaftlichen Seins, tr. it. Roma, 1976, vol. I, pag. 9.
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dell‟Essere, ossia la sua “validità” assiologia. Ed è tale opzione originaria a determinarne la validità ontologica. Orbene, questa opzione originaria, in quanto tale, non è, per chi l‟adotta, derivata da altri presupposti, ma è valida in sé. Viceversa, la stessa opzione, per chi la scarta, è relativa a ciò che Lukàcs chiama “contesto fornito di senso” e che Mannheim attribuisce a ogni “struttura spirituale” dell‟uomo. Ma, in conseguenza della possibilità che i credenti oltrepassino, per le ragioni più diverse, il confine della fede e ne smarriscano perciò il suo valore assoluto, essi acquisiscono la consapevolezza della relatività della credenza e della sua auto-referenzialità all‟interno del suo [della fede] contesto di senso. Da questa condizione relativistica, da cui nasce lo scetticismo, nasce anche come suo correttivo il bisogno di una definizione assoluta che risolva in senso epistemico le possibili negazioni pratiche. I “problemi della vita quotidiana che emergono nella situazione storica data”, argomenta a proposito Lukàcs, non ricevono sempre “risposte soddisfacenti” da parte degli uomini nel quadro della loro “vita terrena”, provocando così
la forza che possiedono le religioni viventi di progettare una ontologia la quale provveda un quadro adeguato al soddisfacimento di quei desideri: una immagine del mondo in cui i desideri che trascendono l‟esistenza quotidiana degli uomini, insoddisfatti nella vita quotidiana, acquisiscono la prospettiva di venir appagati in un aldilà fatto valere con pretesa ontologica. L‟ontologia religiosa sorge dunque per la via opposta a quella dell‟ontologia scientifico-filosofica: questa indaga la realtà oggettiva per scoprire lo spazio reale per la prassi reale (dal lavoro all‟etica); quella muove dai bisogni di un comportamento verso la vita, dai tentativi di dare un senso alla propria vita da parte dei singoli uomini della quotidianità e costruisce una immagine del mondo che, semmai, potrebbe costituire una garanzia di appagamento per quei desideri che si fanno sentire nel bisogno religioso.267
Se fosse vero, come Lukàcs afferma, che “la prassi viene determinata dall‟essere sociale”, allora non si comprenderebbe il bisogno umano di “progettare una ontologia” che li rassicuri di fronte agli scacchi della vita, ossia alla constatazione dei limiti connaturati alla loro condizione di esseri finiti. Il concetto di finitezza, infatti, si oppone a quello di totalità; e se ciò è vero, come è vero, la stessa finitezza deve essere
267 G. Lukàcs, Op. cit., pagg. 9-10.
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delimitata dalla sua negazione, ossia da ciò che finito non-è, ma è assoluto. La domanda a questo punto è la seguente: può l‟essere finito, anche se inteso collettivamente come essere sociale, determinare un valore di natura assoluta, ossia infinita? Se la risposta è negativa, per cui si afferma che l‟uomo non sia in grado di assicurare la sua vita relativa a valori che non siano relativi, allora il bisogno di trascendere la finitezza umana è una superstizione da combattere. Ma il “combattere” non equivale al comprendere, e perciò riguarda un‟attività diversa da quella del filosofo, il quale invece è chiamato al compito di spiegare quel bisogno umano. E che si tratti di un bisogno assolutamente umano, e non relativo a un determinato “contesto di senso”, lo conferma lo stesso filosofo materialista ne ricostruisce la storia. Fino a Socrate, scrive Lukàcs, l‟oggettivismo del “monismo cosmico” pensato dai filosofi “restò predominante nella cultura greca”. Ma la situazione spirituale, che aveva fino ad allora confutato i miti dei poeti con argomenti razionali, cambia con “la crisi della polis”, con la quale “il peso assunto dai problemi morali, pongono al centro della filosofia l‟umano, il problema della prassi corretta”.
Platone è il primo filosofo che, per rispondere alla domanda “che fare?” nella polis in dissolvimento, come base dei suoi tentativi di soluzione progetta una ontologia la cui concezione della realtà, la cui immagine del mondo vuol garantire che i postulati morali ritenuti indispensabili per la salvezza della polis possono essere fissati come possibili e necessari. Per tale via entra nella vita europea il dualismo ontologico che caratterizza la massima parte delle religioni e in primo luogo il cristianesimo: da un lato il mondo degli uomini, da cui montano i bisogni religiosi e l‟anelito verso una loro appagabilità, dall‟altro lato un mondo trascendente il quale, con la sua costituzione ontologica, è chiamato a fornire prospettive e garanzie di tale appagabilità”.268
In realtà, questa ricostruzione non chiarisce, con la genesi storica, le ragioni del dualismo ontologico, per la semplice e già nota ragione che dai “fatti” non si possono inferire le “realtà spirituali”, ossia le essenze. Per cui, le religioni nascono dal bisogno di definire l‟Essere in termini essenziali, e la scoperta del bisogno, ossia l‟occasione storica della sua coscienza, non è il fondamento ontologico del
268 G. Lukàcs, Op. cit., pag. 11.
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bisogno, ma soltanto il suo inizio di validità. Ritenere che la genesi dell‟essere (nella fattispecie, il bisogno di trascendenza) sia lo stesso della sua ragione essenziale, è la credenza di ogni storicismo, che è una forma di “monismo cosmico”, che riduce l‟Essere alla sua realtà molteplice, cioè ai suoi fenomeni. Tra tali fenomeni, privi di ogni qualità essenziale, rientra anche i “fenomeni culturali”, intesi quali “tipi specifici di relazione esperienziale”, e come tali analizzabili fenomenologicamente alla stregua di ogni altro “fatto” umano. Il rischio che si annida in questo tipo di analisi - lo abbiamo ricordato supra con le obiezioni di Lukàcs al metodo inaugurato da Husserl – è che la dialettica delle forme di coscienza si trasformi in “lotta delle sfere culturali”,269 con la conseguenza che si viene a perdere così la relazione, o “mediazione”, che sempre esiste tra il bisogno d‟essere come contenuto ideale, e la sua espressione formale, legata alla sua relativa possibilità d‟essere. La dialettica tra l‟Essere (che è Uno e non altro) e il molteplice poter-essere (così anziché altrimenti) è la dinamica stessa della storia umana, individuale come delle culture storiche; dinamica che l‟analisi fenomenologica “mette tra parentesi” perché dell‟esperienza vissuta considera e analizza come suo oggetto la cultura in quanto “immagine del mondo” astratta dal suo contesto valoriale, cioè effettuale, e non come concreto “valore” produttivo di reale senso esistenziale. Ora, considerare un “concetto” come un “fatto” significa attribuire al concetto i caratteri di possibilità di trasformazione pratica propri dei prodotti molteplici, ovvero al fatto i caratteri di totalità propri all‟idea, con il rispettivo esito di considerare come idea compiuta un processo storico che per definizione è diveniente, e quindi possibile allo stesso modo di sviluppo e di reversioni. Senza la dialettica dell‟esser e del divenire, non si comprende, non già e non tanto il mutamento culturale, ma il senso del suo processo non pre-determinabile e quindi non necessario. Cioè i senso della libertà. La prova della unilateralità del metodo fenomenologico è offerta dallo stesso Mannheim allorquando afferma che il “processo” spirituale diventa “accessibile alla riflessione”
269 K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr.it. cit., pag. 7.
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dal momento in cui la scala delle valutazioni e delle attribuzioni di senso non si presenta più come una realtà fissa e stabile, nata con le cose stesse, ma diviene afferrabile in quanto mutamento di valutazioni e attribuzioni di senso verificabile all‟interno della vita di una singola generazione.270
Ciò vuol dire che l‟originaria “realtà fissa e stabile”- ossia assunta nella fissità e stabilità di un‟idea, di una entità ideale – si afferra quando “diviene” altro-da-sé, ossia muta appunto in uno dei possibili fenomeni molteplici, per cui non si ha più un valore ideale ma più fatti sociali. E solo dopo la riduzione del processo ideale alla molteplicità delle sue forme storiche, interviene l‟analisi scientifica dei fenomeni stessi. Ma non era questo, a noi pare, l‟intenzione metodologica di Husserl, la cui riduzione fenomenologica del suo oggetto d‟analisi era una operazione della coscienza, e non una condizione sociologica di empirica “verificabilità” del dato, ontologicamente considerato sussistente e non ricavato attraverso l‟èpoché. Nei processi culturali dell‟età moderna vengono isolati tre “tipi fondamentali di stabilizzazione della coscienza del mondo” corrispondenti a quelli “illuministico, romantico e dinamico”, che hanno prodotto i rispettivi “valori” essenziali intorno ai quali si è strutturata la forma o l‟ordine del mondo: il tipo illuministico, la “cultura come un fine in sé”; il tipo romantico, la cultura come “dimensione storica”; il tipo dinamico “costituisce una sintesi delle prime due soluzioni” e concepisce il processo del divenire “come un valore in sé”.271 La esperienza di un fondamento culturale considerato valido “in sé”, è consentita da un vissuto in cui “la cultura non è esperita come cultura” ma come “una seconda natura”, alternativa a quella originaria contro cui si oppone la cultura in quanto tale, ma avente lo stesso grado di immedesimazione spontanea del soggetto col suo mondo. Non è difficile rintracciare in questo mondo spontaneo il mondo-della-vita, nel quale la cultura non viene concepita come un valore dissociato dall‟esistenza ma come semplicemente esistente.272 Il concetto di cultura “emerge” quando “un‟esperienza culturale data si è già completamente vanificata”, per cui se essa un tempo era esperite
270 Ivi, pag. 8. 271 Ivi, pagg. 9-11. 272 Ivi, pag. 14.
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come natura, ora viene esperita come fosse “un prodotto”. In altri termini, “la cultura diventa un valore quando ha cessato di esistere come tale”, sicché il “valore” è una acquisizione succedanea alla “sfera dell‟essere”.273 Rispetto al tempo serotino della coscienza filosofica secondo Hegel, il tempo del “valore” qui inteso non chiude il ciclo dell‟auto-coscienza ma subentra come un “dopo” al “prima” dell‟esperienza vissuta, per cui la coscienza culturale non è un succedaneo logico ma storicosociologico, non un‟operazione della riduzione fenomenologica del suo oggetto dal mondo-della-vita, ma una delle dimensioni fasiche del divenire della realtà ontica, dove i momenti della coscienza vengono oggettivati in determinazioni storiche reali. Ed è questa operazione di oggettivizzazione dei momenti della coscienza in fasi storicoesistenziali od ontico-sociologiche, propria di ogni scienza empirica, a spostare la dimensione pre-razionale dell‟esperienza umana dal mondo sociale o mondo-della-vita alla natura, intesa come opposizione ontologica alla cultura, rispetto alla quale essa si concepisce come la realtà “che non può essere penetrata dalla dimensione spirituale, che è indifferente al valore e che non è sottoposto al processo storicospirituale”. Da queste premesse oggettivistiche, il processo di autocoscienza razionale cui è identificata la fase “culturale” dell‟esperienza umana, si dispiega come lo stesso processo di umanizzazione della natura, trasformata in prodotto esistentivamente opposto, e cioè in “cultura”, per cui di conseguenza “quanto più l‟uomo diventa consapevole della sua determinatezza storica, tanto meno gli è possibile cogliere ciò che gli si presenta nel suo mondo interno o esterno come qualcosa di stabile nel modo della natura”.274 Si noti l‟asserita in distinzione tra il “dentro” e il “fuori” della coscienza umana e il parallelo ricostituirsi della dicotomia dell‟Uno e del Molteplice, identificati il primo con la natura e il secondo col divenire dei processi spirituali. Ma, considerata la stabilità naturale, come si spiega il passaggio culturale? Infatti, non si spiega, ma semplicemente si postula come condizione negativa funzionalmente opposta all‟emersione della condizione positiva.
273 Ivi, pag. 15. 274 Ivi, pag. 16.
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Anche se il senso storico nel suo sviluppo costante rende mobile ogni cosa, mostrando come nulla rimanga identico a se stesso, eternamente fisso e come tutto sia sottoposto ad un costante cambiamento […], le credenza in un‟eterna uguaglianza della natura umana persiste ancora per lungo tempo. Ed è proprio solo tale credenza a rendere possibile qualcosa come una psicologia statica. Ma quanto più il concetto di cultura è concepito come essenzialmente storico, tanto più il modo storico di guardare alle cose, e di conseguenza lo storicismo, diventano il modo per eccellenza di considerare il mondo interno. […] il concetto di cultura, nella sua espansione, assorbe sempre più questo fatto, e ciò che viene lasciato fuori è uno strato minimo, la nostra vita istintiva e la nostra sensibilità. Ora solo questa dimensione è chiamata natura, non sulla base di una valutazione [si noti!], ma a causa della sua estraneità al mondo del significato e della sua a-storicità.275
La conseguenza essenziale della oggettivazione pragmatistica dell‟esperienza umana è la negativizzazione ontica della opposizione logica, tale che i processi ideali della coscienza, divenuti esistentivi, vengono realmente negati nei termini del loro annullamento pratico. E dove la mediazione logica diventa funzione pratica, ciò che era la sintesi ideali diventa il dominio socio-politico, e gli enti di ragione, ipostasi ideologiche. A questo punto diventa imprescindibile chiarire il discorso fenomenologico di Husserl, al fine di una formale o implicita comparazione con gli sviluppi delle analisi che ad esso in guise diverse si rifanno. Nelle tesi di Mannheim, come abbiamo visto, il pensiero valutativo è un succedaneo storico del pensiero ingenuo e pre-razionale, solo che, dal punto di vista della metodica scientifica, il pre-scientifico è il pensiero filosofico, così come rispetto a questo era stato il pensiero mitico. Ora, esattamente questa prospettiva scientistica, che, com‟è noto, era stata la teoria caratteristica del positivismo, prima, e poi del pragmatismo, viene messa in radicale discussione dal discorso ontologico di Husserl, che si dispiega come la critica filosofica più radicale del pensiero (pseudo-)scientifico moderno. Il “significato positivo” del sapere scientifico moderno va posto, secondo il fondatore del pragmatismo, Peirce, in relazione al “modo di agire che è stato in grado di provocare questo pensiero”.276 La conoscenza ridotta a modalità dell‟azione, significa che l‟oggetto della
275 Ivi, pagg. 16-17. 276 M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 118. 104
conoscenza, ovvero ciò che si indica con questa, coincide con la “rappresentazione” degli “effetti pratici” di tale oggetto, cioè con le sue “conseguenze”,277 per cui il rapporto verità/errore si risolve nei termini del successo/insuccesso nell‟agire sul mondo, determinato sulla base di una produzione di ipotesi fondate su teorie sostenute da relative “condizioni di verifica”, comprovanti il loro carattere scientifico.278 La condizione di validità della conoscenza scientifica è tutta interna a questa “spiegazione” pratica dei fenomeni reali, in cui il “progetto concettuale – azione, sensazione, osservazione, nuova azione – si plasma allo stesso tempo come un mondo del senso e dei fatti (come un cosmo)”.279 La crisi di una tale prospettiva gnoseologica, per la sua stessa caratteristica pragmatistica escludente ogni invalidazione teorica di tipo razionalistico, non investe la sua “scientificità”, cioè “il modo in cui si è proposta i suoi compiti e perciò in cui ha elaborato la propria metodica”, ma ciò che “le scienze in generale hanno significato e possono significare per l‟esistenza umana”,280 ossia il loro stesso carattere eudemonistico. Il “punto di partenza” della crisi delle scienze è la loro incapacità a garantire il mantenimento e la crescita di quella “prosperity” che aveva promesso all‟umanità e che questa aveva accolto come una fede religiosa. La affermazione generale di questa moderna fede ha come premessa il “rivolgimento rivoluzionario” praticato nel Rinascimento dei modi di esistenza proprii del cosmo medievale, che ha affermato forme nuove ispirate all‟antropologia razionalistica classica. La nuova cultura
considera essenziale dell‟uomo antico […] nient‟altro che la forma “filosofica” dell‟esistenza: la capacità di dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia. La prima cosa è la teoresi filosofica. Dev‟essere messa in atto una considerazione razionale del mondo, libera dai vincoli del mito e della tradizione in generale […] che proceda in un‟assoluta indipendenza dai pregiudizi […]. La filosofia, in quanto teoria, non rende libero soltanto il filosofo, ma anche qualsiasi uomo che si sia formato sulla filosofia. All‟autonomia teoretica succede quella pratica. Nell‟ideale del Rinascimento l‟uomo antico è quello che
277 Ivi, pag. 119. 278 Ivi, pag. 120. 279 Ivi, pag. 122. 280 E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pag. 35. 105
plasma se stesso esclusivamente in base alla libera ragione. Per il rinnovato “platonismo” ciò significa: occorre riplasmare non soltanto se stessi eticamente, ma anche l‟intero mondo circostante, l‟esistenza politica e sociale dell‟umanità in base alla libera ragione, in base alle intellezioni di una filosofia universale.281
Il concetto moderno di filosofia ha progressivamente perduto l‟originario senso classico di “scienza onnicomprensiva, di scienza della totalità dell‟essere”, fino a giungere, col positivismo, a un concetto residuale, che “ha lasciato cadere tutti quei problemi che erano stati inclusi nel concetto […] di metafisica” e che si rapportano a “una loro inscindibile unità”, in quanto “contengono i problemi della ragione in tutte le sue forme particolari”. Infatti,
La ragione è il tema esplicito delle discipline della conoscenza […]; la ragione è cioè un titolo sotto cui si raccolgono le idee e gli ideali “assolutamente”, “eternamente”, “sopra-temporalmente”, “incondizionatamente” validi. Se l‟uomo diventa un problema “metafisico”, specialmente filosofico, lo diventa in quanto essere razionale; se è in discussione la storia, si tratta sempre di riconoscerne il “senso”, di riconoscere, nella storia, la ragione […]. Tutti questi “problemi metafisici” […], filosofici nel senso corrente, travalicano il mondo in quanto universo di meri fatti. Lo travalicano appunto in quanto problemi che mirano all‟idea della ragione.282
In tal senso, afferma Husserl, “il positivismo decapita per così dire la filosofia”, concentrandosi, a scapito di ogni altra modalità di conoscenza, sulla osservazione sensibile allo scopo unico di decidere il valore scientifico-positivo di un problema, che pertanto diventa il senso stesso di esso.
E‟ infatti proprio il compito specifico di ogni scienza positiva quello di escludere tutte le questioni essenziali, tutte le questioni relative alla costituzione del mondo, per conservare, nell‟ambito delle questioni sensate, solo quelle per la cui risoluzione può essere fissata un‟azione che decida le due conseguenze di una alternativa oppure di una completa disgiunzione, permettendo di accertare la reazione da attendersi dal mondo (alla nostra azione) [con lo scopo] di far giungere l‟essere delle cose solo fin dove le cose agiscono sulle nostre possibili azioni, determinandole in modo diretto o indiretto.283
281 Ivi, pag. 37. 282 Ivi, pagg. 38-39. 283 M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 126. 106
La rinuncia alla conoscenza dell‟essere delle cose, ossia alla metafisica conoscenza delle sue strutture essenziali, coincide con la rinuncia a pensare il mondo come totalità, rispetto alla quale il soggetto e ogni suo possibile punto di osservazione sono altro da ciò che il mondo è.
Ciò che la metafisica pone positivamente come essente assoluto – e non solo per la possibile azione e reazione di un essere vitale rispetto ad un mondo relativo circa il suo esistere ed essere-così – si rivolge solo al senso e al significato di quelle intuizioni e di quei pensieri che hanno a che fare con la struttura essenziale della totalità del mondo, vale a dire a quel pensiero essenziale del mondo che rimane lo stesso anche dopo ogni possibile trasformazione pratica del mondo legata ai nostri interventi.284
Ciò vuol dire che la rimozione del problema delle conoscenze ontologiche della realtà fa della conoscenza scientifica un azzardo, un pari la cui “ipotesi” è destinata a essere confermata o smentita in relazione alla sua conformità o non a un fondamento d‟essere che rimane ignoto e misterioso, e che si rivela empiricamente solo a posteriori, come evento decisivo e risolutorio della scommessa teorica. E‟ questa modalità gnoseologica a trasformare la cultura scientistica in irrazionalismo e superstiziosa attesa di una esaudizione delle previsioni che sa di attesa miracolosa in quanto ignota la struttura logica della sua fenomenologia. Ed è in questa eterogenesi dei fini che va rinvenuta la crisi del razionalismo moderno, generatore di mostri. La ricaduta religiosa della moderna conoscenza scientifica è conseguente alla rimozione del sapere come mediazione tra la coscienza razionale del mondo e l‟essenza del reale.
Il sapere, vale a dire lo scopo di ogni “conoscenza” come attività spontanea, non è raffigurazione né della cosa stessa, né delle sue relazioni […]. Il sapere è piuttosto in senso assolutamente formale partecipazione di un essente all‟esser-così di un altro essente, senza modificazione di questo esser-così. Soltanto l‟esistenza di una cosa rimane sempre e necessariamente al di là del sapere e della coscienza ed è come tale trasintelligibile. 285 L‟esteriorità alla coscienza della esistenza non significa, però, inconoscibilità dell‟esser-così delle cose se non per “immagini”, come pensa il realismo critico; così come
284 Ivi, pag. 126. 285Ivi, pag. 135.
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altrettanto falso, come pensa qualsiasi tipo di idealismo della coscienza, non solo considerare l‟essere stesso delle cose (dove l‟idealismo rispetto ad ogni realismo critico ha ragione) ma anche l‟esistenza come ciò che può essere posto in mente, perciò negando ogni realtà trascendente al sapere e alla coscienza (nella qual cosa l„idealismo rispetto al realismo critico è in errore). Ora, non riconoscendo questa idea di sapere, anche il pragmatismo non ha fatto altro che sopprimere la stessa “ragione umana”. Per entrambe le teorie – il realismo critico e l‟idealismo della coscienza – il proton pseudos è appunto l‟inseparabilità dell‟esser-.così e dell‟esistenza in rapporto “all‟essere in mente”, vale a dire in rapporto alla relazione di entrambi (dell‟esser-così e dell‟esserci) con lo spirito. Se l‟intero fenomeno intuitivo di un oggetto ed il suo pieno senso intellettuale coincidono, allora è proprio questa coincidenza il criterio del fatto che l‟essere così dell‟oggetto “stesso” s‟illumina nel nostro spirito; “l‟evidenza” del sapere è soltanto il sapere riflessivo di questo essere “evidente” dell‟oggetto.286
La legittima critica alla “cosiddetta teoria della raffigurazione del sapere” a opera del pragmatismo, viene estesa però anche al rapporto ontologico col mondo, ossia a quel significato oggettivo che precede ogni nostra significazione concettuale, e che rende il sapere “adeguato o non adeguato, in relazione alla pienezza dell‟essere-così dell‟oggetto”, essendo false o vere “soltanto le proposizioni, vale a dire i correlati di senso ideali immanenti ai nostri giudizi”,287 a seconda che siano in concordanza o meno con l‟evidente essere-così del loro oggetto di conoscenza. A titolo di verifica della veracità di una ipotesi conoscitiva, e cioè di una proposizione, il pragmatismo introduce il criterio delle “conseguenze pratiche effettive o solo pensate del pensiero oppure dell‟intuizione, la possibile trasformazione del mondo attraverso queste”, ossia sostituendo al criterio della verità con quello della utilità, intesa come “incremento alla vita”.288 Ma, potendo essere questo criterio non coincidente con una prospettiva vitale concorrente, il relativismo della conoscenza si traduce in conflittualità di interessi nelle relazioni pratiche, in economicismo, dove viene a cadere ogni tensione sintetica verso l‟unità di senso ed etica, sostituita con il compromesso pattizio, che è il correlativo pratico dell‟accordo teorico convenzionale in sede scientifica.
286 Ivi, pagg. 135-136. 287 Ivi, pag. 136. 288 Ibidem.
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La “fondazione originaria” dell‟epoca moderna è costituita da “un ideale definito”, che è quello di una “filosofia universale e di un metodo adeguato”. La “dissoluzione” di quell‟ideale fece sì che al suo posto sorse “una serie di filosofie sistematiche molto imponenti ma disgraziatamente incapaci di giungere a un accordo, anzi reciprocamente ostili”, determinando “un sentimento sempre più inquietante di fallimento”, la cui conseguenza fu “un curioso mutamento di tutto il pensiero” che investiva, cn la possibilità della metafisica, la stessa “possibilità di tutta la problematica razionale”289 Infatti,
Il problema della possibilità della metafisica implicava eo ipso anche quello della possibilità delle scienze di fatto, che appunto nell‟inscindibile unità della filosofia avevano il senso della loro relazione, il senso di verità valide per meri settori dell‟essere. E‟ possibile separare la ragione e l‟essente se è proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, determina ciò che l‟essere è? 290 La filosofia, come strumento di rinnovamento dell‟umanità europea moderna, è la ragione stessa del suo carattere universale, per cui la sua crisi
diventa una crisi, dapprima latente e poi sempre più chiaramente evidente, dell‟umanità europea, del significato complessivo della sua vita culturale, della sua complessiva “esistenza”. La scepsi rispetto alla possibilità di una metafisica, il crollo della fede in una filosofia universale capace di guidare l‟uomo nuovo, indica appunto il crollo della fede nella “ragione”, nella ragione intesa nel senso in cui gli antichi contrapponevano l‟episteme alla doxa. […] Così cade anche la fede in una ragione assoluta che dia senso al mondo, la fede nel senso della storia, nel senso dell‟umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibilità dell‟uomo di conferire un senso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale.291
Non si tratta più di uno scacco occasionale, ma di uno scacco fondamentale, riguardante cioè i fondamenti stessi del sapere razionale, a partire dall‟unicità del mondo, lacerato dalla “discrepanza delle nostre validità d‟essere”, e costituito dalle “stesse cose, le quali, semplicemente, appaiono in modo diverso”.292 Occorre perciò ricuperare il “senso autentico del razionalismo” che allontani dalla
289 E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pagg. 40-41. 290 Ivi, pag. 141. 291 Ivi, pag. 42. 292 Ivi, pag. 53.
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“irrazionalità” in cui infine consiste “la cattiva razionalità della ragione pigra, che si sottrae alla lotta per il chiarimento dei dati ultimi e dei fini e dei mezzi che essi suggeriscono in un modo definitivamente e veracemente razionale”.293 Nel procedere alla disamina della fondamentale impostazione husserliana del metodo fenomenologico, che è alla base delle successive letture filosofiche di Scheler e di Heidegger, ci occorre ricordare che tale metodo, definito dal suo stesso autore “scettico ma non negativo”, si proponeva di provocare “un mutamento fondamentale ed essenziale del senso complessivo della filosofia” moderna, mostrando “come tutta la filosofia del passato fosse orientata, anche se non coscientemente, verso questo [nuovo] senso della filosofia”, ricavato penetrando “attraverso la crosta dei „fatti storici‟ esteriori della storia della filosofia, indagandone, provandone, verificandone il senso intimo, la nascosta teleologia”, rivelandone quindi – e qui sta l‟aspetto problematico sul quale è necessario riflettere - “la possibilità pratica di una nuova filosofia: di una filosofia – precisa Husserl – che va attuata attraverso l‟azione”.294 Il richiamo alla “azione” nel contesto della crisi dei fondamenti epistemologici dello scientismo moderno non va considerato una superfetazione enfatica di un programma di ricerca teoretica, senza credibili conseguenze sulla generale concezione dello stesso metodo fenomenologico. Esso, di contro, va còlto come la confessione incidentale del proposito di riprendere l‟originaria ispirazione del pensiero moderno di riallacciarsi allo spirito della filosofia antica oltre la parentesi della sua fallimentare piega scientistica anti-metafisica. In altri termini, l‟intento di Husserl fu quello di superare la crisi del pensiero moderno contendendo ad altre ipotesi rivoluzionarie la ridefinizione razionale del cosmo europeo-universale, considerando pacificamente assodata e irreversibile la frattura operata dal razionalismo moderno, idealmente eversiva dell‟ordine cosmologico cristiano, fondato sulla divisione razionalmente insuperabile della sfera del pratico da quella del teoretico. In questo preciso senso totalistico, il riconfermato recupero del pensiero antico costituisce una indiretta denuncia del carattere anti-filosofico dell‟età cristiana,
293 Ivi, pag. 45. 294 Ivi, pag. 47.
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incapace di pensare in termini di totalità, e quindi di corrispondenza necessaria tra il mondo delle essenze e quello fenomenico, tra quello della coscienza razionale e quello della realtà mondana. Il superamento di ogni “ingenuità” del razionalismo moderno si deve quindi leggere come la confutazione di ogni residuo religioso nel pensiero filosofico. E non c‟è chi non veda l‟analogia di questa prospettiva di Husserl con quella avanzata dall‟altra grande personalità filosofica tedesca di origine ebraica, con quella di Marx. Alla dialettica marxiana tra uomo e natura, Husserl afferma la contrapposizione tra la realtà “ingenua” del mondo-della-vita e coscienza fenomenologica, alle cui rispettive appartenenze corrisponde una precisa divisione del lavoro socio-teoretico, e alla marxiana “produzione materiale” la husserliana “esperienza trascendentale”. In entrambi i casi, il totalismo delle rispettive prospettive si costituisce come identità dell‟unità filosofica del reale con la molteplicità del mondo fenomenico, per cui l‟opposto approccio teoretico delle due prospettive totali risolve la distinzione ontologica originaria dell‟Idea unitaria e del mondo molteplice in una interscambiabile relazione di corrispondenze logico-razionali tali da individuare nella prospettiva prescelta come modello metafisico la sfera privilegiata di commisurazione veritativa, entro la quale omologare il diverso molteplice riducendolo all‟eterno stesso, o viceversa. La “società borghese” di Marx è la società moderna di Husserl, entrambe fondate su un‟antropologia di tipo individualistico il cui “astratto” o “ingenuo” razionalismo rappresenta l‟elemento comune o “produzione in generale” da cui partire per una critica dei suoi costrutti gnoseologici e la definizione del rapporto esistente tra la “rappresentazione scientifica” del mondo e il “movimento reale” della società, attraverso la individuazione e la critica di supposte “leggi universali umane” (Marx) e delle “strutture formali-generali del mondo-della-vita” (Husserl). Alla affermazione marxiana del primato del lavoro, per cui “ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell‟individuo entro e mediante una determinata forma di società”,295 corrisponde in Husserl l‟affermazione che
295 K. Marx, Introduzione a “Per la critica dell‟economia politica”, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, in Per la critica dell‟economia politica, Roma (1957), 1979, 111
soltanto attraverso un mutamento totale dell‟atteggiamento naturale, un mutamento per cui noi non viviamo più come prima, in quanto uomini dell‟esistenza naturale, nella costante partecipazione alla produzione delle validità del mondo già dato […] possiamo penetrare ciò che il mondo è in quanto terreno di validità della vita naturale,nei suoi propositi e nelle sue attuazioni e, correlativamente, ciò che la vita naturale e la sua soggettività in definitiva sono, la soggettività in quanto pura soggettività che funge nella produzione delle validità. La vita che attua la validità del mondo nella vita mondana naturale non può essere indagata restando nell‟atteggiamento della vita naturale mondana. Occorre un rivolgimento totale, un‟epoché universale assolutamente peculiare. 296
La epoché quale messa in parentesi della storia può sembrare un movimento opposto a quello marxiano di storicizzazione dei rapporti di produzione, in realtà, però, operano entrambi nel senso del superamento “rivoluzionario” dei concreti rapporti storici tra gli uomini entro il loro concreto e mutevole Horizonthaftigkeit della relativa vita mondana. Lo Smith di Marx è stato il Galileo di Husserl, e il Ricardo dell‟uno il Cartesio dell‟altro. Galileo, infatti, definisce attraverso la matematica una metodica tesa a superare la “relatività del‟apprensione soggettiva” propria del mondo empirico-intuitivo, al fine di giungere a “una verità identica”, cioè alla conoscenza, progressiva e migliorativa, di un “essente in sé”. Ed è a questo punto che si stabilisce quella corrispondenza tra “forme astratte puramente ideali” e “forme empiriche reali o possibili” quali “forme” intuitive di una “materia” costituente “un plenum sensibile”, entro il quale “i mutamenti […] non sono casuali o arbitrari, bensì reciprocamente ed empiricamente dipendenti, in modi sensibilitipici”,297 e tali da stabilire la loro “inerenza reciproca” tra “ciò che lega il loro essere e il loro essere-così (Sosein)”.
Se prendiamo il mondo intuitivo nella sua totalità […] esso ha la sua “abitudine”, la tendenza a continuare e esistere così come adesso è. Così il nostro mondo circostante empiricamente intuitivo ha un suo stile empirico complessivo. Anche se noi possiamo pensare questo mondo fantasticamente mutato e anche se possiamo cercare di
pag. 175. 296 E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. cit., pag. 176. 297 E. Husserl, loc. cit., pag. 59.
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rappresentarci il futuro decorso del mondo, in ciò che ci è ignoto, “così come potrebbe essere”, nelle sue possibilità: necessariamente noi ce lo rappresentiamo nello stile in cui noi abbiamo il mondo e in cui l‟abbiamo avuto finora. Possiamo giunger a un‟espressa coscienza di questo stile nella riflessione e attraverso una libera variazione di queste possibilità. Possiamo così tematizzare lo stile generale invariabile in cui questo mondo intuitivo persiste nel flusso dell‟esperienza totale. Appunto così ci accorgiamo che, in generale, le cose e gli eventi non si manifestano e nn si sviluppano arbitrariamente, che sono bensì legate “a priori” da questo stile, dalla forma invariabile del mondo intuitivo; in altre parole: che attraverso una regolamentazione universale causale, tutto ciò che è insieme nel mondo ha un‟inerenza reciproca generale, mediata o immediata, per cui il mondo non è soltanto una totalità, bensì un‟unità totale (Alleinheit), un tutto (anche se infinito).298
Ora, se questo “stile causale universale del mondo circostante intuitivo” consente le “ipotesi” scientifiche, ossia “le induzioni, le previsioni su ciò che ci è ignoto del presente, del passato e del futuro”, nella “vita conoscitiva pre-scientifica” nn ci è concesso di andare oltre il “tipico”, entro la cui “vaga coscienza della totalità” siamo “impigliati”. Per superare la “evidenza della vuota generalità” e giungere a una “conoscenza scientifica del mondo” occorre una “filosofia” che superi i limiti della obiettivazione del mondo consentita dalla “geometria ideale”, consistenti “nel fatto che quei plena materiali che integrano concretamente i momenti spaziotemporali delle forme del mondo corporeo […] non possono venir trattati direttamente come le forme stesse”. Ma, poiché
Tutti i momenti dell‟intuizione esperiente manifestano qualcosa di questo mondo [che è] unico e medesimo […], esso diventa raggiungibile per la nostra conoscenza obiettiva quando quei momenti […] che noi astraiamo, e che non sono direttamente matematizzabili, diventano appunto matematizzabili indirettamente.
299
Che cosa rende “impossibile di principio una ma tematizzazione diretta”? E che cosa “produce l‟esattezza” delle “qualità specificamente sensibili dei corpi”? Tenuto conto che “noi abbiamo soltanto una forma universale del mondo, e non due, disponiamo soltanto di una e non di una duplice geometria dei plena”. [Ivi, pag. 64.] La risposta di Galileo è, com‟è noto, che è la matematica a consentire il “regno della conoscenza autentica e obiettiva” dell‟uomo
298 Ivi, pag. 60. 299 Ivi, pag. 63.
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“moderno”, costituendo il “punto focale” imprescindibile “per la conoscenza filosofica del mondo e per una prassi razionale”. La “totalità”, propria del pensiero filosofico, viene dunque concepita come una corrispondenza nel mondo fenomenico dell‟unità ideale della coscienza teoretica, per cui il metodo matematico veniva esteso in senso “universale”. Galileo non considerava “un‟ipotesi” quella che “un‟induttività universale domina il mondo intuitivo”, ma “ammetteva come ovvio che la matematica pura fosse universalmente applicabile”. Infatti, per lui
Devono esistere metodi di misura per tutto ciò che la geometria e la matematica delle forme comprendono nella loro idealità e nel loro a-priori. L‟intiero mondo concreto deve dimostrarsi matematizzabile-obiettivo, purché si risalga alle singole esperienze, e si misuri realmente tutto ciò che di esse si deve presupporre subordinato alla geometria applicata, se si elaborano cioè adeguati metodi di misura. Se si fa questo, il lato degli eventi specificamente qualitativi deve matematizzarsi indirettamente. 300
L‟ovvietà galileiana includeva anche l‟affermazione di una “causalità esatta universale […] che precede e guida tutte le induzioni di causalità particolari”,301 la quale non era molto dissimile da quella teleologia che lo stesso Husserl, come abbiamo visto, voleva ricercare sotto i fenomeni storici, e che rappresenta il retaggio secolarizzato della volontà provvidenziale per cui ogni evento va riportato alla volontà del suo artefice, essendo la “causa” la proiezione fenomenica della stessa “volontà” dell‟agire razionale, cioè prevedibile e tipico.
Questa causalità universale idealizzata abbraccia nella sua infinità idealizzata tutte le forme e i plena fattuali. […] Le singole cose e i singoli accadimenti pienamente concreti, oppure i modi in cui i plena e le forme fattuali stanno in un rapporto di causalità, devono essere assunti nel metodo. L‟applicazione della matematica ai plena realmente dati della forma pone, già in virtù della concrezione, presupposti causali, che devono essere portati alla determinatezza.302
La universalizzazione del metodo di misura rientra nella ipotesi ideale della matematizzazione di ogni forma geometricamente pensabile, per
300 Ivi, pag. 67. 301 Ivi, pag. 68. 302 Ivi, pag. 69.
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cui essa costituisce un autentico postulato “a-priori”,303 pur restando una “ipotesi” scientifica, soggetta a una “verificazione infinita”.304 Questa caratteristica si riflette sul procedimento metodico stesso della scienza naturale, la quale esprime nel contempo “un senso generale per quanto abbia sempre a che fare con qualcosa di individualefattuale”,305 per cui i riscontri empirici conseguiti dall‟indagine naturalistica sono il risultato conforme di quanto già formulato astrattamente dall‟ipotesi generale.
L‟operazione decisiva […] è quella di una reale coordinazione delle idealità matematiche, le quali dapprima vengono sustruite ipoteticamente nella loro indeterminata generalità, ma poi vanno rilevate nella loro determinatezza […] e in base a ciò si possono abbozzare le regolarità empiriche che ci si può aspettare nel mondo pratico della vita. In altre parole: una volta approdati alle formule, sono già possibili le previsioni praticamente desiderate attorno a ciò che ci si può aspettare nella certezza empirica, nel mondo intuitivo della vita concretamente reale, nell‟ambito del quale la matematica non è che una prassi particolare.306
Ne consegue che a partire da Galileo avviene “una sovrapposizione della natura idealizzata a quella intuitiva pre-scientifica”, tale che
ogni riconsiderazione occasionale (e anche “filosofica”) che risalga al di là delle regole d‟arte con cui si svolge un certo lavoro, al suo senso proprio, si arrestò sempre alla natura idealizzata, senza penetrare radicalmente fino al fine ultimo che la nuova scienza e la geometria da essa inseparabile […] doveva fin dall‟inizio perseguire [e] che non poteva che riferirsi al mondo-della-vita [nel quale] non troviamo nessuna idealità geometrica, non troviamo né lo spazio geometrico né il tempo matematico con tutte le sue forme. […] Qualsiasi arte noi elaboriamo, qualsiasi cosa facciamo, questo mondo realmente intuitivo, realmente esperito ed esperibile, in cui si svolge praticamente tutta la nostra vita, resta, nella sua propria struttura essenziale, quello che è, immutato nel proprio stile causale. Esso non muta dunque nemmeno se noi escogitiamo un‟arte particolare, per es. quell‟arte geometrica galileana che chiamiamo fisica [e con la quale] operiamo […] una previsione ampliata all‟infinito [sulla quale] si fonda tutta la vita.307
303 Ivi, pag. 67. 304 Ivi, pag. 71. 305 Ivi, pag. 70. 306 Ivi, pag. 72. 307 Ivi, pagg. 79-80.
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