Costozero - Patto della Fabbrica / Al centro la cultura industriale

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3 LUGLIO/ AGOSTO 2018

www.costozero.it

magazine bimestrale di economia, finanza, politica imprenditoriale e tempo libero

Patto della Fabbrica

al centro la cultura industriale



editoriale

La coesione, non il conflitto di Andrea Prete, presidente Confindustria Salerno

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n manifesto per la responsabilità sociale di impresa: Maurizio Stirpe, vice presidente di Confindustria per il Lavoro e le Relazioni Industriali, ha definito così - nelle pagine a seguire l’accordo raggiunto di recente tra le tre sigle sindacali Cgil, Cisl e Uil e Confindustria. Al bando la conflittualità, quindi, in vista di un obiettivo comune: creare un contesto sociale che favorisca la crescita del Paese, il cui fulcro deve continuare ad essere il lavoro. Il Patto della Fabbrica - così come è stato ribattezzato il documento - è la risposta concreta degli uomini di impresa a quella crisi endemica dei corpi intermedi di cui si è tanto detto negli ultimi anni. Con questa intesa, infatti, le parti sociali hanno voluto rimarcare che, in un momento delicato come questo per il nostro Paese, strattonato da personalismi e spinte divisive, il metodo non può essere lo scontro ma la coesione. Le parti sociali ci sono, sono unite nell’interesse delle imprese e dei lavoratori e la politica non può non tenerne conto. Al centro dell'accordo sottoscritto c'è la consapevolezza di dover costruire un sistema industriale più competitivo, in cui lo scambio salario/produttività diventi regola, grazie al trasferimento di maggiore potere alla contrattazione decentrata, prendendo al contempo atto delle difficoltà dello Stato nel garantire lo stesso sistema di welfare cui erano abituati i nostri padri, con la conseguente necessità

di sviluppare ulteriori forme di benessere aziendale come parte integrante delle relazioni industriali. Ma il Patto della Fabbrica è - dicevamo - qualcosa di più di un’intesa tra le parti. È la conferma che il Paese ha bisogno di una rappresentanza autorevole e di un sistema di relazioni industriali partecipativo, strutturato e fondato su rapporti di cooperazione. Sono questi per noi gli strumenti più idonei a proteggere e rafforzare le realtà produttive esistenti, incoraggiare nuovi investimenti e, al contempo, allontanare le “distorsioni” del mercato. Il nostro è un ruolo di fondamentale importanza perché - è come lo ha definito lo stesso presidente di Confindustria Boccia - il nostro è un presidio di democrazia e partecipazione alle scelte della politica. Non possiamo restare a guardare lasciando fare ad altri quello che è il nostro compito. Non sarà il mercato a creare il cambiamento. Dobbiamo essere noi - imprese, lavoratori e sindacati insieme in una nuova logica cooperativa - a innescarlo, coltivarlo, consolidarlo. Il dialogo costruttivo e finanche il compromesso, se positivo, sono necessari alla crescita di un Paese, sempre che sia la crescita del Paese l’obiettivo finale comune a tutti. L’alternativa - pericolosa - al senso di comunità che lavora per un medesimo progetto è quella di trovarsi sì con uomini forti al comando, ma di popoli e democrazie sciatte, svuotate ed estremamente deboli.

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sommario

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EDITORIALE La coesione, non il conflitto di A. Prete

NEW ENTRIES Italian Event Planners, la personalità si fa brand 26 di R. Venerando

PRIMO PIANO Patto della Fabbrica, una visione comune sull’economia italiana Intervista a M. Stirpe

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Treu: «900 contratti nazionali creano grande confusione, specie al Sud» Intervista a T. Treu

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Il Patto della Fabbrica italiano? Un modello per altri Paesi Europei Intervista a L. Visentini

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Maresca: «Buona l’impostazione delle nuove relazioni industriali» Intervista ad A. Maresca

Sessa, CGIL Salerno: «Welfare e contrattazione 10 migliorano il lavoro» Intervista ad A. Sessa 11

Al centro la qualità del lavoro Intervista a G. Ceres

Pirone, UIL Salerno: «É ora di 13 concretizzare le proposte» Intervista a G. Pirone L'OPINIONE Centro Studi Confindustria: «L’Italia cresce 14 poco, meno del previsto» a cura della Redazione Il successo nella musica? Ce lo spiega l'analisi 17 dei Big Data intervista di R. Venerando FOCUS Il valore competitivo delle principali 19 filiere produttive campane di A. Cozzolino CONFINDUSTRIA Ambiente, dalla parte delle imprese 21 Intervista a L. Piccolo Music Art Food 2018, 23 una festa per i sensi e per il cuore a cura di R. Venerando

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Pronti alla sfida di Industria 4.0 con la Dc Engineering srl

BUSINESS Shedir Pharma, dieci anni di innovazione 29 in campo nutraceutico a cura della Redazione 30

Digital Transformation l’esperienza di Citel Group a cura della Redazione

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U4job, raggiunta quota 2500 utenti a cura della Redazione

NORME E SOCIETÀ Risarcimento danni, cosa ha stabilito l’Adunanza 33 Plenaria del Consiglio di Stato n° 3 del 2018 di L. M. D' Angiolella 34

Un “codice” per la giustizia civile di M. Marinaro

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Quando la diffamazione corre sul web di L. De Valeri

Contraffazione del marchio 38 comunitario e concorrenza sleale di M. Galardo

FISCO Key Enabling Technologies e R&S a supporto 40 dello sviluppo: nuove agevolazioni dal Mise di G. Arleo Gli accertamenti bancari sui conti 42 dei professionisti al cessionario di M. Villani, A. Villani Innovazione Tecnologica, 44 la Campania investe 45 milioni di A. Sacrestano Transfer Pricing, dal MEF 46 la guida alla sua determinazione di M. Fiorentino


LAVORO Trasferimento del lavoratore: quando non 48 vi è abuso da parte del datore di lavoro? di M. Ambron MERCATI Dalla teoria alla pratica: la redazione 50 del piano export di F. Ceriello RICERCA Ricerca e innovazione per una maggiore 52 sostenibilità delle materie plastiche di L. Di Maio

SICUREZZA Il benessere organizzativo negli ambienti 54 di lavoro di A. Papale

SALUTE 56 Estate, è tempo di micosi di A. Di Pietro 57 Gli anziani e il diabete/I parte di G. Fatati

BON TON 59 Un guardaroba di frasi da rifare di N. Santini ARTE Vuoti d’amore 60 di A. Tolve FINISTERRE Alberto Grifi e la sua radicale 62 sperimentazione audiovisiva di A. Amendola LIBRI/HOME CINEMA 64 Bassa risoluzione a cura di R. Venerando

NUMERO 3 LUGLIO|AGOSTO 2018 Bimestrale di Economia, Finanza, Politica Imprenditoriale e Tempo Libero di Confindustria Salerno Reg. Trib. di Salerno N. 67 7 del 22/10/1987 Iscrizione al Roc N. 23241/2013 Direttore Editoriale Andrea Prete Direttore Responsabile Alessandro Sacrestano Redazione Raffaella Venerando Project Management Vito Salerno Società Editrice/Direzione e Redazione Assindustria Salerno Ser vice Srl Via Madonna Di Fatima, 194 84129 Salerno Tel. 089 335408/Fax 089 5223007 P. iva 039711 70653 redazione@costozero.it www.costozero.it Stampa Ar ti Grafiche Boccia/Salerno Foto Archivio Costozero/Vito Salerno Massimo Pica/Ag. Fotografica Studio Fotografico Cerzosimo Grafica e Impaginazione Moreplus/www.moreplus.it

L e op inioni esp resse neg l i a r tic ol i a p p a r teng ono a i sing ol i a u tori dei q u a l i si intende risp etta re l a p iena l ib er tà di g iu diz io

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64 FINAL PORTRAIT - L'arte di essere amici a cura di V. Salerno Luglio | Agosto 2018

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Patto della Fabbrica, una visione comune sull’economia italiana Dietro l’accordo tra Confindustria e Sindacati, la necessità di una sintesi responsabile per creare un clima sociale favorevole al consolidamento della crescita. Un’intesa che è punto di partenza per Maurizio Stirpe Maurizio Stirpe vice presidente Confindustria per il lavoro e le relazioni industriali

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ottor Stirpe, il “Patto della Fabbrica” è un deciso passo avanti verso relazioni industriali più moderne. Inedita l’apertura delle componenti sindacali sulla transizione da un modello conflittuale ad una visione più partecipativa del sindacato. La gestazione è stata lunga ma il risultato la soddisfa? Il lavoro svolto per arrivare a questo accordo è stato certamente complesso, ma il risultato ottenuto è importante: con il “Patto” abbiamo elaborato una visione comune sull’economia e sul sistema industriale del nostro Paese, condividendo un assetto contrattuale fortemente innovativo, perché basato su relazioni industriali “ordinate” e non più improntate sulla conflittualità. Più che un traguardo, però, mi piace considerare questo accordo come un punto di partenza. Nel documento, infatti, sono indicati tutti i temi che consideriamo prioritari per la competitività ma anche quelli su cui si deve lavorare insieme: formazione, welfare, sicurezza, mercato del lavoro, partecipazione. A ben vedere, un vero e proprio manifesto per la responsabilità sociale di impresa.

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Al centro il lavoro, o meglio la qualità del lavoro. A quali obiettivi si punta? Gli accordi programmatici che verranno saranno capaci di migliorare le condizioni di lavoro, specie al Sud? In questa stagione di grande trasformazione, occorre saper coniugare le nuove tecnologie con l’adattamento delle conoscenze e delle competenze. Solo così è possibile intercettare la crescita economica e, quindi, creare nuovi posti di lavoro che siano anche qualificati. Il Patto della Fabbrica affronta diverse questioni e individua proprio nell’orientamento all’innovazione, nella maggiore competitività e nel rafforzamento delle infrastrutture, la chiave per superare i divari a livello territoriale. Sotto questo profilo, per il Mezzogiorno occorre ragionare non già su interventi straordinari, bensì su misure ordinarie ma più intense rispetto al resto del Paese. Il problema di rappresentanza nel nostro Paese - o come dicono i più critici di credibilità della rappresentanza - lo si risolve certificando la dimensione effettiva dei sindacati e delle organizzazioni datoriali? Parlare di credibilità della rappresentanza significa affrontare il

di Raffaella Venerando

problema del dumping contrattuale. Quella del dumping è una questione ormai rilevante nel nostro sistema di relazioni industriali: abbiamo troppi soggetti privi di adeguata rappresentatività e, di conseguenza, troppi contratti collettivi stipulati con l’unico scopo di stabilire condizioni lavorative che incidono sulla qualità dei posti di lavoro e ledono la leale concorrenza tra le imprese. In questo senso, l’accordo del 9 marzo porta avanti quel percorso avviato nel 2014, con il Testo Unico sulla Rappresentanza, con l’obiettivo di qualificare la contrattazione collettiva. La misurazione certificata è lo strumento con il quale dare certezze sull’effettiva rappresentatività degli attori - organizzazioni imprenditoriali e sindacati - contribuendo così a dare valore al ruolo stesso della rappresentanza. In concreto di cosa si occuperà il CNEL? Il CNEL è individuato dalla stessa Costituzione quale camera di compensazione tra le parti sociali, come sede ideale di discussione dei temi che vedono coinvolti i rappresentanti dei fattori della produzione, ovvero datori di lavoro


e organizzazioni sindacali. Per questo, al punto 4 dell’accordo abbiamo ritenuto di dover affidare al CNEL il compito di favorire il raggiungimento di una intesa comune tra tutti i soggetti maggiormente rappresentativi per la definizione dei perimetri della contrattazione collettiva. Un passaggio importante per il funzionamento del modello messo a punto nel Patto della Fabbrica che mira ad individuare il contratto collettivo realmente rappresentativo in ciascun settore. Non si corre il rischio di delegare tutto a livello aziendale? Dipenderà dal contratto collettivo nazionale, che è lo strumento principale per il riparto e l’armonizzazione delle competenze tra i due livelli della contrattazione. Detto ciò, posso sicuramente affermare che il livello aziendale per noi è il livello a cui deve avvenire lo scambio produttività-salari: la ricchezza deve essere distribuita dove è prodotta, ovvero a livello di ciascuna impresa. Come da lungo tempo ci ricordano le istituzioni internazionali, peraltro, incentivare una contrattazione decentrata virtuosa porta benefici macroeconomici in termini di recupero di produttività nei confronti dei nostri competitor. Per aumentare i redditi delle persone, lo strumento più efficace resta la contrattazione collettiva? Voglio essere molto chiaro: l’unico sistema per aumentare i redditi è innanzitutto produrre ricchezza e questa relazione non può essere invertita; la contrattazione è lo strumento deputato a distribuirla, ma prima occorre sempre produrla. Ciò non toglie che i contratti collettivi restano a mio avviso uno strumento redistributivo efficace

Annamaria Furlan, Susanna Camusso, Carmelo Barbagallo, Vincenzo Boccia e Maurizio Stirpe

rispetto ad altri strumenti e, nel nostro Paese, hanno continuato ad assolvere tale funzione anche durante la crisi. Come dimostrano recenti studi accademici, infatti, la contrattazione collettiva di livello nazionale ha impedito l’aumento della disuguaglianza tra i salari unitari; cosa che, invece, è avvenuta ad esempio in Germania. Per distribuire maggior ricchezza occorre, in definitiva, che la contrattazione collettiva si eserciti nei luoghi in cui questa viene eventualmente prodotta, ovvero a livello aziendale, magari anche sotto forma di welfare. La politica sul fronte del lavoro e più in generale della strategie industriale cosa è chiamata a fare? Per la strategia di sviluppo che abbiamo in mente per il nostro sistema industriale, riteniamo essenziale continuare sulla strada di quelle riforme che hanno saputo produrre buoni risultati: a mio avviso, in primis, Impresa 4.0 e riforma del lavoro. È sempre più urgente, poi, mettere a regime un sistema di politiche attive finalmente capace di sostenere l’occupabilità delle persone. Tornando a qualche mese fa lei commentò l’accordo raggiunto dai

«Nel documento sono indicati i temi che consideriamo prioritari: formazione, welfare, sicurezza, mercato del lavoro, partecipazione. A ben vedere, un vero e proprio manifesto per la responsabilità sociale di impresa» metalmeccanici in Germania “sopravvalutato”. Ci spiega perché? Con quella battuta ho voluto richiamare l’attenzione su un pezzo importante di quell’accordo spesso sottaciuto: è sicuramente vero che consente di ridurre l’orario in favore di quei lavoratori che ne hanno necessità operando, peraltro, una riduzione, seppur parziale, del salario. Ma è anche vero che, d’altra parte, le imprese possono allungare l’orario per gli altri lavoratori a fronte di esigenze produttive aziendali, come nel caso di una commessa.Ciò dimostra ancora una volta che la risposta all’evoluzione tecnologica in atto è rappresentata da forme di flessibilità gestite a livello decentrato, che permettono di rispondere prontamente agli stimoli della globalizzazione e di continuare a competere sui mercati.

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Treu: «900 contratti nazionali creano grande confusione, specie al Sud» L’individuazione dei contratti di riferimento delle varie categorie sarà la chiave di volta per dare certezza alle imprese ed evidenza ai lavoratori in merito ai loro diritti Tiziano Treu presidente CNEL

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residente Treu, come commenta il Patto della Fabbrica? È senz’altro un passo in avanti importante verso un sistema di regole condivise e certe, all’interno di un rinnovato e più moderno sistema di relazioni industriali. Il Patto riguarda nodi finora mai affrontati né risolti del tutto: il ruolo svolto dalla contrattazione nazionale e la relazione tra questa e il livello aziendale, la misura della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali, i contenuti dei contratti stessi. Un passo in avanti, dicevamo, anche se non risolutivo perché alcune questioni sono rinviate all’applicazione del Patto. In relazione agli assetti della contrattazione collettiva, realistica è stata la scelta di adottare un modello di governance adattabile. Un no deciso a rigidità sullo schema di accordo, condivisibile e coerente, tenuto conto che il quadro economico è molto diversificato. Ciò che è certo è che al contratto nazionale spetta motivare il perché dei livelli dei vari trattamenti ulteriori rispetto ai minimi. C’è poi un’indicazione significativa circa l’esigenza di disciplinare anche

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di Raffaella Venerando

gli eventuali effetti economici in sommatoria fra il primo e il secondo livello di contrattazione dei vari trattamenti, evitando quindi sovrapposizioni. In questo modo è chiaro che si incentiva lo sviluppo qualitativo e quantitativo della contrattazione decentrata, premessa fondamentale per spingere sulla competitività delle imprese e sul futuro del sistema di relazioni industriali. Si tratta di indicazioni di massima, indispensabili però per contribuire a rendere più efficiente la regolazione dei rapporti di lavoro a livello di fabbrica. Può essere un rischio il decentramento legato alle singole condizioni della singola azienda? No, affatto, perché si tratta di un decentramento della contrattazione salariale controllato, anche più di quanto avviene in altri Paesi. Più complicato trovo invece sia l’aspetto della rappresentatività. Vale a dire? Il problema di rappresentanza nel nostro Paese - o come dicono i più critici di credibilità della rappresentanza - lo si risolve certificando la dimensione effettiva dei sindacati e delle organizzazioni datoriali? La verifica sulla correttezza dei

Contratti Collettivi Nazionali, insieme alla certificazione della reale rappresentanza delle sigle sindacali sulla base di elementi oggettivi (quali la rappresentatività dei soggetti stipulanti e l’effettivo grado di copertura in termini di lavoratori coinvolti), sono alcuni dei compiti specifici del CNEL, indispensabili per evitare incertezze interpretative o distorsioni nell’applicazione delle regole contrattuali. Il punto è, però, che mancano ancora - per la rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e anche dei datori di lavoro - criteri oggettivi di riferimento. Non esiste un sistema di misurazione definita della effettiva rappresentatività delle sigle sindacali. Va trovato insieme alle parti sociali perché 900 contratti nazionali sono inammissibili e creano grande confusione soprattutto nelle aree più deboli del Paese. Ci stiamo lavorando con tutte le organizzazioni rappresentative presenti nel CNEL. L’individuazione dei contratti di riferimento delle varie categorie sarà la chiave di volta per dare certezza alle imprese, e alle regole cui attenersi


ed evidenza ai lavoratori in merito ai loro diritti. La politica sul fronte del lavoro cosa è chiamata a fare? La politica dovrebbe mantenere una certa continuità con

quanto finora fatto di buono, magari adattandolo al momento contingente. Ciò che è certo è che devono essere le parti sociali a intervenire e sperimentare, non l’esecutivo.La priorità resta la

bassa occupazione, problema che si affronta solo incrementando gli investimenti in formazione e innovazione. Il lavoro non lo si crea con azioni spot ma con interventi costanti e coerenti nel tempo.

Il Patto della Fabbrica italiano? Un modello per altri Paesi Europei Anche per i lavoratori atipici, inclusi quelli della gig economy e delle piattaforme digitali, la CES ritiene che la soluzione non sia il salario minimo, ma un contratto degno di Raffaella Venerando Luca Visentini segretario generale Confederazione Europea dei Sindacati - CES

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ottor Visentini, il Patto della Fabbrica vede insieme Confindustria e Sindacato per un nuovo modello contrattuale e di relazioni industriali teso, tra le altre cose, ad arginare il fenomeno dei contratti pirata. Il suo commento? Da un punto di vista europeo, il nuovo accordo tra CGIL-CISL-UIL e Confindustria sugli assetti della contrattazione e della rappresentanza è una riforma molto positiva, che può diventare un modello anche per altri Paesi. Innanzitutto, per l’analisi macroeconomica condivisa tra le parti, focalizzata sulla necessità di rilanciare gli investimenti, l’innovazione e la domanda interna come leve essenziali per far crescere la produttività, la competitività, ma anche la qualità del lavoro e della produzione. Poi

perché l’intesa rafforza l’impianto della contrattazione su due livelli, tipico del nostro Paese, riaffermando i parametri dell’inflazione, della produttività e della redditività come riferimenti essenziali per la crescita dei salari. E, infine, perché attraverso la certificazione della rappresentatività delle parti, contribuisce a combattere il fenomeno dei contratti pirata (ormai una piaga anche in altri Paesi europei), preservando al contempo l’autonomia delle parti sociali nell’ambito della contrattazione collettiva. Per tutte queste ragioni la Confederazione Europea dei Sindacati considera questo accordo come un benchmark, un riferimento per come i sistemi contrattuali dovrebbero essere riformati e coordinati a livello europeo.

Non si corre il rischio di delegare tutto a livello aziendale? Non direi proprio. Al contrario questa riforma rafforza il valore del contratto nazionale, aprendo al contempo nuovi spazi di flessibilità positiva per la contrattazione aziendale. L’equilibrio tra i due livelli è un elemento centrale dell’intesa, e per questa ragione noi preferiamo chiamarla con il suo nome:“Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil”, evitando la semplificazione del “Patto della Fabbrica”. Negli altri Paesi ci sono situazioni più floride, modelli meglio riusciti? Dipende dai Paesi. In quelli del nord Europa, e in alcuni paesi dell’Europa centrale, ci sono modelli molto simili. Ma in molti

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paesi della vecchia Europa, inclusa la Germania, la contrattazione collettiva per come l’avevamo conosciuta prima della crisi (forte contratto nazionale, forti parti sociali, meccanismi di estensione erga omnes dei contratti) è stata pesantemente smantellata dalle politiche di austerità e dalle raccomandazioni della Commissione Europea, per anni incentrate sull’ossessione del decentramento contrattuale. Oggi la Commissione riconosce che quello è stato un errore grave e che forme di coordinamento contrattuale nazionale e settoriale sono essenziali per il rilancio di una crescita economica sostenibile. Questo è ancora più vero per i paesi dell’est dell’Europa, dove la mancanza della contrattazione ha determinato da un lato fenomeni di dumping salariale, che hanno pesantemente danneggiato i paesi occidentali, e dall’altro un gravissimo brain drain nei paesi

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orientali, con milioni di lavoratori, soprattutto giovani, che hanno abbandonato quei paesi per cercare lavoro all’ovest. Per queste ragioni noi pensiamo che l’accordo italiano possa costituire una guida per le riforme negli altri paesi, e ci apprestiamo a presentarlo, assieme a CGIL-CISL-UIL e Confindustria, in un incontro che avremo a breve con la Commissione a Bruxelles. Il problema di rappresentanza nel nostro Paese - o come dicono i più critici di credibilità della rappresentanza - lo si risolve certificando la dimensione effettiva dei sindacati e delle organizzazioni datoriali? Penso proprio di sì. Ma anche tutelandone l’autonomia e sviluppando relazioni industriali moderne. È una forte contrattazione collettiva, che produce risultati positivi per imprese e lavoratori, che fa crescere la rappresentatività delle parti, non viceversa. Per aumentare i redditi delle perso-

ne, lo strumento più efficace resta la contrattazione collettiva? Assolutamente sì. È per questo che noi come CES abbiamo promosso una grande campagna europea per la crescita dei salari (“Europe Needs A Pay Rise”), basata sul rafforzamento e sulla estensione della contrattazione nazionale in ogni parte d’Europa. E anche per i lavoratori atipici, inclusi quelli della gig economy e delle piattaforme digitali, la soluzione non è il salario minimo, ma dare loro un contratto degno di questo nome. La politica sul fronte del lavoro e, più in generale, della strategia industriale cosa è chiamata a fare? È chiamata ad aiutare le parti sociali a sviluppare relazioni industriali efficienti e moderne. Rispettandone l’autonomia, rafforzandone le prerogative con azioni di capacity building e, dove necessario, disegnando quadri legislativi di supporto, mai impositivi.


Maresca: «Buona l’impostazione delle nuove relazioni industriali» Il professore ordinario di Diritto del lavoro resta scettico però sulla effettiva attuazione di alcuni contenuti dell’accordo: «Non dimentichiamo che la misurazione certificata della rappresentatività - indispensabile per determinare la titolarità nella contrattazione - è una misura che attendiamo dal 2011» Arturo Maresca professore ordinario Diritto del lavoro | Università La Sapienza - Roma

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rofessore Maresca, un suo commento tecnico sul Patto della Fabbrica? Sul piano dell’impostazione delle nuove relazioni industriali ne va sottolineata senz’altro la significativa valenza, anche se resto scettico sulla effettiva attuazione di alcuni contenuti dell’accordo. Non dimentichiamo, infatti, che la misurazione certificata della rappresentatività – indispensabile per determinare la titolarità nella contrattazione - è una misura che attendiamo dal 2011. Con il Patto della Fabbrica oggi si riafferma questo principio, cui si aggiunge la necessità di misurare la rappresentanza anche di parte datoriale. L’impianto concettuale è, anche per questo ultimo motivo, di estremo interesse ma – ripeto – la realizzazione mi pare complessa. Perché? Quali sono gli ostacoli alla concreta attuazione dell’accordo? Se non fosse oggi guidato dal professor Tiziano Treu, avrei detto che un primo limite è il ruolo decisivo del CNEL nel perimetrare con esattezza i confini della rappresentatività sia del Sindacato, sia di Confindustria. Rispetto a quest’ultima poi trovo compli-

cato che l’Associazione di Viale dell’Astronomia riesca con facilità a condividere i criteri con le altre organizzazioni datoriali, tenuto conto che in gioco ci sono diversi e differenti interessi. Ma il problema di rappresentanza nel nostro Paese - o come dicono i più critici di credibilità della rappresentanza - lo si risolverebbe certificando la dimensione effettiva dei sindacati e delle organizzazioni datoriali? La misurazione certificata dà, anche sul piano formale, una consistenza alla rappresentanza prima impossibile. Il riconoscimento era esclusivamente di fatto, molto forte tra l’altro fino a quando è stato congiunto alla autorevolezza indiscussa delle grandi confederazioni che agivano unitariamente e con una massiccia partecipazione dei lavoratori. Oggi non è più così, per cui il dato formale diventa non solo opportuno, ma indispensabile perché il sindacato recuperi forza. La politica italiana sul fronte del lavoro cosa è chiamata a fare? Utili sarebbero solo quegli interventi in direzione di una semplificazione della discipli-

di Raffaella Venerando

na del lavoro. Di condivisibile rispetto alle enunciazioni fin qui fatte dalla politica è la ipotizzata rivalutazione e rivisitazione dei voucher. Se opportunamente corretti, potrebbero rivelarsi la risposta ideale ai cosiddetti lavori occasionali, oggi inevitabilmente finiti “nel nero”. In ogni caso, il governo in tema di lavoro e sviluppo dovrebbe attuare politiche non demolitive, ma semmai di perfezionamento. Lo stesso Jobs Act potrebbe essere perfezionato unificando, ad esempio, la disciplina dei licenziamenti. Niente più articolo 18 ma una tutela crescente generalizzata e migliorata nei trattamenti di fine rapporto. Così facendo non esisterebbero più i lavoratori prima e dopo il 7 marzo 2015 (giorno di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2015 di attuazione della delega conferita all’Esecutivo dall’art. 1, comma 7 della legge 10 dicembre 2014, n. 183, in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ndr). Un cambiamento a prima vista irrilevante politicamente, ma a mio avviso sostanziale nelle dinamiche di lavoro.

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Sessa, CGIL Salerno: «Welfare e contrattazione migliorano il lavoro» Per il segretario generale, il governo dovrà nel medio e lungo periodo programmare le politiche industriali e i processi di innovazione creando una nuova Agenzia per lo sviluppo industriale, aumentare l’intensità degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno Arturo Sessa segretario generale CGIL Salerno

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egretario, il Patto della Fabbrica vede insieme Confindustria e Sindacato per un nuovo modello contrattuale e di relazioni industriali teso, tra le altre cose, ad arginare il fenomeno dei contratti pirata. Il suo commento? La firma del “Patto della Fabbrica” tra Organizzazioni sindacali e Confindustria ha come obiettivo quello di riportare l’Italia ad invertire il trend negativo determinato dalla crisi economica degli ultimi 10 anni, rimettendo al centro dell’attenzione la questione industriale e quindi dell’occupazione. È sicuramente un primo passo, frutto di una prolungata e importante trattativa. Veniamo da una lunga stagione in cui l'autonomia delle parti è stata messa in discussione e questo è un investimento che CGIL-CISL e UIL fanno sulla funzione della contrattazione. Sono stati declinati una serie di principi e modalità per uscire dalla crisi, investendo sul futuro. Con questo “patto” riaffermiamo la centralità della funzione del lavoro, della funzione industriale e della contrattazione collettiva. Va assicurato il rispetto dei perimetri della contrattazione collettiva e

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dei suoi contenuti, impedendo a soggetti privi di adeguato livello di rappresentatività certificata, di violare o forzare arbitrariamente gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi nazionali di categoria. Finora non è stato così e si sono generati fenomeni di dumping contrattuale che hanno creato una concorrenza sleale sul mercato del lavoro, danneggiando da un lato i lavoratori con una gara continuamente al ribasso per le loro tutele, e dall’altro tutte quelle le imprese interessate a regole contrattuali uniformi ed esigibili. A tal proposito, accogliamo con piacere il comunicato del 20 giugno a firma dell’Inail che fornisce ulteriore indicazioni ai propri ispettori circa l’attività di vigilanza verso le aziende che non applicano i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che possono determinare appunto problematiche di dumping. Al centro il lavoro, o meglio la qualità del lavoro. Ritiene che anche a livello provinciale se ne potranno godere i benefici? Garantire un buono stato di

di Raffaella Venerando

salute delle aziende sul nostro territorio è la priorità. Da questo presupposto deriva la possibilità di favorire migliori condizioni affinché si possano attrarre nuovi investimenti, mediante un’azione sinergica sul territorio, partendo dalla recente istituzione delle Zone Economiche Speciali (ZES). Welfare e contrattazione di secondo livello sono strumenti che possono incrementare le condizioni economiche del lavoratore e favorire la produttività delle imprese. Quella della competitività è una partita che va giocata agendo contemporaneamente su vari fattori, in primis l’ammodernamento delle strutture, la digitalizzazione e la formazione dei lavoratori. Il nostro impegno è affinché questi ultimi non subiscano subire le modernizzazione dei processi produttivi, ma al contrario le governino al meglio con nuove e rinnovate competenze. Non si corre il rischio di delegare tutto a livello aziendale? La contrattazione nazionale per noi resta un punto fermo. La contrattazione di secondo livello può essere strumento per inserire elementi migliorativi e di flessi-


bilità, ma mai a danno dei diritti dei lavoratori. Siamo dell’idea che una maggiore competitività passi per una piena e condivisa partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, con un occhio anche a temi quali la conciliazione dei tempi di vita/lavoro, il benessere e la qualità di vita degli stessi. Siamo e resteremo contrari ad accordi e contratti di prossimità per come introdotti dal decreto Sacconi. La politica sul fronte del lavoro e, più in generale, delle strategie indu-

striali cosa è chiamata a fare? Questo governo dovrà avere una visione di sistema sui temi del lavoro. In questi anni, si è puntato troppo su incentivi a pioggia senza una strategia precisa. C’è bisogno di un piano nazionale che affronti in modo complessivo la situazione sul piano degli investimenti, delle infrastrutture, dell’innovazione e della formazione mirata all’acquisizione di nuove competenze, riaffermando il ruolo pubblico degli investimenti. Servono scelte politiche

serie a medio e lungo termine, non ulteriori riforme. Sostenere la spesa e gli investimenti pubblici, programmare le politiche industriali e i processi di innovazione creando una nuova Agenzia per lo sviluppo industriale, aumentare l’intensità degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, portando la spesa ordinaria in conto capitale dello Stato verso le regioni del Sud ad almeno il 45% del totale per un quinquennio. Queste alcune delle proposte che come CGIL porremo al Governo da poco insediato.

Al centro la qualità del lavoro Per il segretario generale della Cisl Salerno «la politica non può intervenire continuamente, ad ogni cambio di governo, in tema di norme sul lavoro. Le parti sociali, uniche titolate alla regolamentazione di assetti contrattuali, hanno bisogno di certezze di lungo periodo» di Raffaella Venerando Gerardo Ceres segretario generale CISL Salerno

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ottor Ceres, il “Patto della Fabbrica” vede insieme Confindustria e Sindacato per un nuovo modello contrattuale e di relazioni industriali teso, tra le altre cose, ad arginare il fenomeno dei contratti pirata. Il suo commento? Con la firma dell’accordo interconfederale abbiamo voluto definire contenuti e linee di indirizzo per rilanciare le relazioni industriali, la contrattazione collettiva, estendendone l’efficacia e, in questo modo, il ruolo delle parti

sociali, ponendosi l’obiettivo di contribuire allo sviluppo del Paese in generale. Stabilendo procedure di misurazione della rappresentatività delle associazioni, sia sindacali che datoriali, si aprirà una stagione di contrasto ai “contratti pirata”, stipulati da organizzazioni di comodo, che hanno determinato la lesione di diritti storici dei lavoratori e retribuzioni più basse rispetto ai contratti sottoscritti dalle Federazioni confederali. Un sistema efficace di misurazio-

ne della rappresentanza, infatti, consentirebbe di individuare con precisione quali sono i contratti siglati da soggetti titolari di un reale “peso” negoziale e quali, invece, gli accordi firmati da organizzazioni fittizie, costruite al solo scopo di aggirare i minimi retributivi. Esiste un mondo molto variegato di contratti collettivi, sottoscritti da organizzazioni prive di reale rappresentatività, che hanno come uno scopo quello di dare copertura formale

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a situazioni di vero e proprio “dumping contrattuale”; questi accordi alterano la concorrenza fra imprese e danneggiano i lavoratori e incentivano l’adozione di prassi illecite. Al centro il lavoro, o meglio la qualità del lavoro. Ritiene che anche a livello provinciale se ne potranno godere i benefici? Certamente, proprio attraverso la contrattazione di II livello e quella del welfare aziendale. É chiaro il passaggio, contenuto anche nel cosiddetto “Patto della Fabbrica”, da una concezione del lavoro come insieme di elementi di carattere prevalentemente fisico e ambientale, ad una nella quale fanno il loro ingresso fattori legati al benessere psichico e sociale, accanto ad aspetti connessi al controllo degli obiettivi del proprio lavoro e alle prospettive di crescita. La qualità del lavoro costituisce, dunque, anche a livello locale, l’esito del rapporto

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fra bisogni del lavoratore e profilo dell’organizzazione del lavoro. Non si corre il rischio di delegare tutto a livello aziendale? Assolutamente no. Alla vigilia della quarta rivoluzione industriale, i contratti nazionali non hanno finito il loro ruolo, ma devono configurarsi come cornice di garanzia. La contrattazione di II livello ha lo scopo di declinare meglio, e secondo le esigenze delle varie aziende, i caposaldi contrattuali nazionali. La produttività va favorita dalla contrattazione nazionale ma distribuita lì dove si esplica il lavoro e la produzione, cioè in azienda. La Contrattazione territoriale deve essere la sede dove costruire l’ecosistema del nuovo modello industriale. La politica sul fronte del lavoro e, più in generale della strategia industriale, cosa è chiamata a fare? Meno deficit e più investimenti. Centrale dovrà essere il rilancio degli investimenti pubblici.

Saranno decisivi per rafforzare la competitività complessiva del nostro Paese. Essi, infatti, non rilancerebbero solo la domanda, ma sarebbero cruciali per far crescere il rendimento atteso del capitale privato. Dunque porterebbero anche più investimenti privati. Gli investimenti pubblici sono sempre stati il volano per la crescita di medio e lungo periodo. Inoltre, resta da sottolineare un aspetto ugualmente importante e decisivo per le politiche industriali: la politica deve essere molto cauta ad intervenire con spasmodico affanno sulle materie lavoristiche. Non si può intervenire continuamente, ad ogni cambio di governo, in tema di norme sul lavoro. Le parti sociali, uniche titolati alla regolamentazione di assetti contrattuali, hanno bisogno di certezze di lungo periodo e non muoversi in ambiti fragili di una sola stagione.


Pirone, UIL Salerno: «É ora di concretizzare le proposte» Per il segretario generale: «solo attraverso l’investimento in infrastrutture, in formazione e in una nuova educazione al lavoro sarà possibile giungere ai cambiamenti necessari alla nostra socioeconomia» Gerardo Pirone segretario generale UIL Salerno

D

ottor Pirone, il Patto della Fabbricavede insieme Confindustria e Sindacato per un nuovo modello contrattuale e di relazioni industriali teso, tra le altre cose, ad arginare il fenomeno dei contratti pirata. Il suo commento? A distanza di più di tre mesi dalla firma del documento, che contiene diversi e nuovi indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva tra Confindustria e CGIL-CISLUIL, non siamo riusciti ancora a riunirci per dare senso, significato e concretezza ad un patto ritenuto fondamentale e innovativo dagli stessi contraenti. Per quel che mi riguarda, ritengo che sia prioritario tendere verso una nuova formazione che superi l’attuale presente “chiuso e soffocante”, derivante dall’egemonia della finanza e dall’interesse fine a se stesso. Sviluppo e crescita vanno promossi in modo libero e armonico, cosicchè ogni risorsa coinvolta possa sentirsi integrata con le altre, in un percorso di comune arricchimento

e di elevata conoscenza. Le parti insieme devono eliminare tutto quello che non è utile e, dopo un’analisi attenta senza pregiudizi e luoghi comuni, concretizzare con metodo scientifico le proposte utili al rilancio, avendo sempre presente che il lavoro è per l’uomo e non viceversa. Solo attraverso l’investimento in infrastrutture, in formazione e in una nuova educazione al lavoro sarà possibile tendere e poi giungere ai cambiamenti necessari alla nostra socioeconomia. È questa la strada giusta. La politica sul fronte del lavoro e più in generale della strategie industriale cosa è chiamata a fare? Nel corso dell’iniziativa nazionale, svoltasi a Salerno il 30 maggio scorso su “Giovani e Lavoro” fortemente voluta da CGIL-CISL-UIL, si è ritenuto utile proporre un’alleanza tra tutti gli attori del territorio (politica - enti - associazioni - organizzazioni sindacali - associazioni imprenditoriali - università e Scuole) per lo Sviluppo sosteni-

di Raffaella Venerando

bile che parta dal Sud. L’obiettivo da raggiungere è lo stesso da tempo: offrire le condizioni indispensabili per creare lavoro che sia dignitoso e duraturo. Pur essendo tutti consapevoli che senza la crescita del Mezzogiorno l’Italia intera non può essere competitiva, la politica - malgrado qualche timido sforzo a livello territoriale - ancora stenta a mettere in campo azioni risolutive che consentano di guardare al futuro con serenità. Gli investimenti - sia in nuove tecnologie, sia specialmente in formazione - sono ancora ridotti al lumicino. Sulla carta si invocano da più parti investimenti capaci di valorizzare il territorio nel pieno rispetto delle sue peculiarità, della sua storia ambientale, manifatturiera, turistica, paesaggistica, commerciale, agroalimentare e culturale, ma poi in concreto non si realizzano quelle infrastrutture - o, peggio ancora, non si concludono quelle già esistenti - indispensabili perché la crescita possa riavviarsi.

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l'opinione

Centro Studi Confindustria: «L’Italia cresce poco, meno del previsto» La soluzione - secondo le stime e le proposte del CSC - è lavorare per un Paese più forte in Europa, che abbia maggior peso nel processo decisionale e che sia capace di interagire in modo più strutturato con gli Stati membri e le Istituzioni Ue a cura della Redazione

L

o scorso 27 giugno è stato presentato il rapporto del Centro Studi Confindustria (CSC) dal titolo “Dove va l’economia italiana e una proposta per l’Eurozona”. Lo scenario ben delineato dal CSC prevede un rallentamento dell’economia italiana nel biennio 2018-2019, già anticipato ma più ampio di quello previsto nel dicembre 2017. Partiamo dal Pil: il tasso di

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crescita del prodotto interno lordo si stima si aggirerà all’1,3 per cento (dall’1,5 nel 2017), scendendo ancora - all’1,1 - nel 2019. Prospettive poco incoraggianti anche per l’occupazione: calcolata sulle ULA (unità di lavoro equivalenti a tempo pieno) crescerà ad un ritmo sotto l’1,0% nel 2018 e nel 2019. Non fa ben sperare neanche l’andamento del deficit pubblico: si prevede infatti che dal

2,3 per cento del PIL del 2017 si arrivi all’1,9 quest’anno e all’1,4 nel prossimo (incorporando l’annullamento della clausola di salvaguardia, compensata da un aumento delle imposte dirette e di quelle in conto capitale). A incidere in modo deciso l’incertezza, causata a livello internazionale dalle nuove politiche protezionistiche degli Stati Uniti nel commercio. Pesano


anche le tensioni geopolitiche che, di certo, non facilitano in prospettiva gli scambi commerciali tra i Paesi. Sul fronte interno, preoccupa invece il calo degli investimenti privati (fase espansiva in esaurimento, con forte contrazione nel primo trimestre per le incertezze della fase elettorale), dovuti anche alla crescita debole del credito bancario che di certo non li incoraggia. Continua la ripresa occupazionale, ma con intensità inferiore rispetto al PIL, come già nel 2017. Peraltro, lo scorso anno e nei primi 5 mesi del 2018 il lavoro a tempo indeterminato ha smesso di crescere, mentre quello a termine ha registrato un’impennata, trainando la risalita dell’occupazione dipendente. Occorre sottolineare, però, che sono talmente tanti e diversi i fattori in gioco che sarebbe prematuro, e forse anche errato, preoccuparsi fin da ora di un presunto innalzamento strutturale della precarietà. Per correggere politiche e conti, il Centro Studi di Confindustria ipotizza che l’Europa chiederà

Rallentamento globale

significa un’Italia non divisiva, una correzione - per l’anno in corso - pari allo 0,5 di punti di che lavori per l’interesse di tutti. Che sappia mettere al centro PIL, ovvero uguale a 9 miliardi. Nel 2019, la correzione dovrebgiovani, crescita, occupazione e che sappia costruire, nel ribe essere di 0,6 punti (quasi 11 spetto del dialogo, un recupero miliardi), poco meno di quanto entrerebbe dall’attivazione del senso di comunità». Perché un’Italia più forte si realizzi, della clausola di salvaguardia. CSC ha tracciato una condotta La soluzione a questa crescita da seguire. che stenta a consolidarsi è per il CSC puntare ad avere “più Nello specifico occorre: • assicurare un maggiore coEuropa”, anche se diversa da ordinamento a livello politico, quella attuale. ministeriale e tecnico per la Il Vecchio Continente unito - si definizione degli interessi evince dal documento - rappresenta un’opportunità per tutti prioritari del nostro Paese in sede UE; i paesi membri, compreso il nostro, per risolvere i problemi • intervenire per rafforzare e rendere la presenza politica e di bassa crescita, fluttuazioni del ciclo, crisi di sfiducia e contecnica a Bruxelles (Consigli, seguente difficoltà di accesso ai Gruppi di Lavoro, riunioni informercati finanziari. mali, ecc.) costante e capace Il presidente Vincenzo Boccia di attivare efficaci meccanismi nel commentare dati e prodi coordinamento e cooperazione con i rappresentanti del spettive ha sottolineato come, sistema produttivo del Paese, prima ancora che annunciare in modo da rappresentare con cosa fare, «il governo italiano dovrebbe spiegare con esatcontinuità e ad alto livello gli tezza quali sarebbero gli effetti interessi italiani; sull'economia reale delle cose • delineare una nuova legge che si vogliono realizzare». per le elezioni europee, per Cosa osserviamo: «Italia forte in un’Europa forte garantire continuità al lavoro 1) Rallentamento globale - ha detto il presidente Boccia svolto dagli eurodeputati.

 Dinamica scambi globali attesa in frenata nel 2018 (+4,2%) e 2019 (+4,0%). Valori alti rispetto al 2012-16, ma ben sotto media storica.  Crescita del PIL mondiale si mantiene vicino alla media pre-crisi, ma rallentamento nel 2019.  Graduale frenata anche nell’Eurozona per il 2018-2019.

1. Dinamica scambi globali attesa in frenata nel 2018 (+4,2%) e 2019 (+4,0%). Valori alti rispetto al 2012-16, ma ben sotto media storica;

Var. % 7,0 6,0 Scambi con l'estero PIL Media scambi 1984-2007 Media PIL 1984-2007

5,0 4,0 3,0

2. Crescita del PIL mondiale si mantiene vicino alla media pre-crisi, ma rallentamento nel 2019; 3. Graduale frenata anche nell’Eurozona per il 2018-2019.

2,0 1,0 0,0 2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

Mondo, dati a prezzi costanti e cambi di mercato. 2018-2019: stime CSC. Fonte: elaborazioni CSC su dati CPB e FMI. 4

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2) Rallentamento export italiano  Export deludente a inizio 2018. Pesa l’euro più forte.  Sulla performance del 2018-2019 inciderà l’indebolimento degli scambi esteri di tutti i paesi europei.  Si tratta, comunque, dell’unica componente del PIL che ha già ampiamente recuperato i livelli pre-crisi.

Rallentamento export italiano

Var. % 3,5

Indice 50=nessuna var. 60

3,0

1. Export deludente a inizio 2018. Pesa l’euro più forte;

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2,5 2,0

56

1,5

54

1,0

2. Sulla performance del 2018-2019 inciderà l’indebolimento degli scambi esteri di tutti i paesi europei.

52

0,5 0,0

50

-0,5

48

-1,0 46

-1,5 -2,0

3. Si tratta, comunque, dell’unica componente del PIL che ha già ampiamente recuperato i livelli pre-crisi.

44

-2,5

Esportazioni di beni

-3,0

PMI ordini esteri (scala destra)

42

-3,5

40 2015

2016

2017

2018

Italia, dati trimestrali destagionalizzati a prezzi costanti. 2o trimestre 2018: aprile-maggio. Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT e Markit. 5

Cosa osserviamo: 3) Rallentamento degli investimenti privati  Investimenti in macchinari in forte calo nel 1㼻trimestre 2018, temporaneo nello scenario CSC, legato all’elevata incertezza.

 Va esaurendosi, comunque, il ciclo espansivo degli investimenti, frenati anche dalla fine degli incentivi fiscali nel 2019.

Rallentamento degli investimenti privati

Var. % 6,0 Investimenti in macchinari e mezzi di trasporto 4,0

1. Investimenti in macchinari in forte calo nel 1°trimestre 2018, temporaneo nello scenario CSC, legato all’elevata incertezza.

2,0 0,0 -2,0

2. Va esaurendosi, comunque, il ciclo espansivo degli investimenti, frenati anche dalla fine degli incentivi fiscali nel 2019.

-4,0 -6,0 -8,0 2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

Italia, dati trimestrali destagionalizzati a prezzi costanti. Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT. 6

Le previsioni del Centro Studi Confindustria per il 2018-2019

Ombre sul mercato del lavoro 1. Persone occupate sopra i 23 milioni già da metà 2017 (come inizio 2008); 2. La risalita dell’occupazione totale ha perso slancio tra fine 2017 e inizio 2018; 3. Quella dipendente torna ad essere trainata dal temporaneo.

Italia (Variazioni % e diff. rispetto a previsioni CSC dicembre 2017) 2017

2018

2019

Prodotto interno lordo

1,5

(0,0)

1,3

(-0,2)

1,1

Esportazioni di beni e servizi

5,4

(0,2)

2,7

(-1,5)

3,9

(0,2)

11,2 (-0,1) 10,9 1,2 (0,0) 1,0 2,3 (0,2) 1,9

(0,0)

10,6

(0,1)

Tasso di disoccupazione1 Prezzi al consumo Indebitamento della PA 2 Debito della PA 2

(-0,1)

(0,0)

1,3 (0,0) 1,4 (-0,5) 131,8 (0,2) 131,6 (1,1) 130,7 (1,1) (0,2)

1 Valori percentuali; 2 in percentuale del PIL. Per indebitamento PA, la previsione di dicembre 2017 incorporava la sterilizzazione a deficit della clausola di salvaguardia. Fonte: elaborazioni e stime CSC.

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l'opinione

Il successo nella musica? Ce lo spiega l'analisi dei Big Data Tre studenti dell'Università di Milano-Bicocca, studiando un anno mondiale di ascolti su Spotify, hanno tracciato l'identikit del cantante primo in classifica. La parola ad Alberto Raimondi, Davide Meloni e Silvia Santamaria di Raffaella Venerando

I

l vostro lavoro accademico consente di studiare come è possibile applicare l’analisi dei dati al giornalismo. Il primo focus è stato musicale…ma potevano essere altri gli ambiti di applicazione? Alberto Raimondi: «Il nostro progetto nasce nel contesto della laurea magistrale in Data Science dell'Università degli studi di Milano-Bicocca, in particolare per l'esame di data management. L'idea da cui siamo partiti è stata quella di creare un database che integrasse più fonti per poi poter analizzare il panorama musicale globale nel successivo esame di data visualization. Abbiamo analizzato le classifiche messe a disposizione da Spotify - piattaforma per lo streaming musicale - per ogni giorno del 2017 in ogni Paese in cui è presente, dopodichè abbiamo raccolto i dati riferiti a queste canzoni da varie fonti in modo automatico. Il risultato è stato il nostro database, chiamato Spotiwhy. Gli ambiti di applicazione possibili per queste tecniche sono però moltissimi e spaziano dalla musica, alla analisi dei risultati delle partite di calcio come stanno provando a fare alcuni nostri colleghi. Ogni giorno viene prodotta una grandissima quantità di Big Data. A partire dai messaggi che inviamo con il nostro telefono, alle chiamate che effettuiamo ogni giorno ma anche più semplicemente quando

Alberto Raimondi, Davide Meloni e Silvia Santamaria

andiamo a fare la spesa o usufruiamo di un servizio di car sharing. Questi dati potrebbero essere di grande utilità, ma devono essere analizzati così da poter estrarre informazioni di valore per migliorare un servizio o prendere una decisione in modo più consapevole». Analizzando un anno di ascolti - il 2017 - su Spotify, siete riusciti a scovare come si crea un cantante di successo? Qual è l’identikit dell’artista? Davide Meloni: «Il cantante perfetto dovrebbe essere di genere maschile. Infatti abbiamo visto che le classifiche

di Spotify del 2017 vedono prevalere in maniera molto netta gli uomini sulle donne e sulle band. Tra le poche donne di successo del 2017 esempi notevoli sono Taylor Swift e Camila Cabello con la sua canzone Havana, mentre tra le band migliori ci sono sicuramente i Chainsmokers. Per quanto riguarda la provenienza geografica, la maggior parte degli artisti viene da Nord America ed Europa e ovviamente parla inglese, caratteristica quasi fondamentale per raggiungere il successo a livello globale. Il pubblico di Spotify è molto

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curioso e spesso artisti emergenti vedono i propri pezzi salire in classifica. L'artista perfetto ha una carriera iniziata da circa 10 anni, anche se durante il periodo natalizio ritornano in classifica anche brani e artisti che sono sul mercato da più tempo con i classici natalizi. Dall'analisi dei testi possiamo inoltre concludere che gli artisti che vogliono fare successo devono trattare temi semplici, condivisibili dalla maggior parte delle persone. Noi ci siamo immaginati il cantante perfetto come una via di mezzo tra Ed Sheeran e Luis Fonsi, il cantante di Despacito. Insieme hanno infatti dominato le prime posizioni della classifica del 2017». Cosa distingue un successo da un flop? Silvia Santamaria: «Analizzando questa grandissima quantità di dati possiamo dire di avere la ricetta perfetta per creare una hit di successo, almeno per l'anno 2017. La canzone più popolare deve essere di genere pop, anche se a sprazzi torna alla ribalta il rap; le canzoni latine invece possono avere grande successo ma solo in estate. Il brano non deve essere né troppo corto, né troppo lungo. In genere bastano 3 minuti e mezzo. Ci deve anche essere un perfetto equilibrio tra ballabilità, grado di posi-

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tività e carica di energia trasmesse dal pezzo. Queste caratteristiche devono prevalere sul grado di acusticità». È emersa, dunque, anche una stagionalità precisa per essere famosi… Alberto Raimondi: «Il periodo dell'anno influisce fortemente sulle metriche d'ascolto di Spotify. Abbiamo infatti visto che durante estate e primavera gli ascolti tendono ad aumentare; questo ha due principali conseguenze: da un lato una canzone ha più chance di essere ascoltata e di entrare in classifica, dall'altro i brani rimangono in classifica per un periodo più limitato in quanto gli ascoltatori tendono a cambiare molto nei mesi estivi». Anche il genere viene influenzato? Davide Meloni: «I successi invernali

e autunnali sono marcatamente pop mentre nei mesi più caldi la gente preferisce ascoltare musica dal ritmo latino e più ballabile». I dati raccontano anche che ci sono parole utilizzate più di frequente…sono banali questi nuovi cantanti famosi? Silvia Santamaria: «Analizzando i testi delle canzoni abbiamo visto che le parole più ricorrenti sono "Love", "Know" e "Need", cioè parole che trattano di amore e amicizia, temi condivisibili da un pubblico molto ampio. I cantanti trattano argomenti molto simili tra loro in modo da far immedesimare gli ascoltatori, risultando a volte scontati. È necessario un tocco personale e creativo per scalare la classifica e questo elemento non può essere spiegato da nessun algoritmo».


focus

Il valore competitivo delle principali filiere produttive campane Logistica e innovazione si confermano fattori chiave capaci di assicurare potenzialità di crescita ed espansione di Autilia Cozzolino ricercatrice ufficio economia delle imprese e del territorio - SRM a.cozzolino@sr-m.it

L

a recente ricerca realizzata da SRM (Centro Studi collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo) dal titolo “Il valore delle filiere produttive nel nuovo contesto competitivo e innovativo, tra Industria 4.0 e Circular economy”, sesto volume della collana di studi Un Sud che Innova e Produce, evidenzia l’importante ruolo che il Mezzogiorno riveste nelle cinque fi­ liere produttive nazionali ‑ Alimentare, Abbigliamento-Moda, Automotive, Aerospazio, Farmaceutica e delle Scienze della Vita. Lo studio dimostra che il valore delle filiere manifatturiere meridionali va misurato non solo attraverso i tradizionali indicatori, ma anche mediante le innumerevoli relazioni produttive che percorrono lo stivale da Nord a Sud e viceversa. L’obiettivo è stato, infatti, quello di evidenziare il peso e il valore competitivo delle realtà industriali meridionali e il grado di connessione produttiva delle filiere, fulcro di forti interdipendenze tra Nord e Sud e driver di valore del Made in Italy nel mondo. Sono stati analizzati i punti di forza e le aree di rischio della produzione meridionale, e quei fattori chiave - come la logistica e l’innovazione - che assicurano le sue potenzialità di crescita ed espansione, nonché le proposte di intervento, identificando i possibili obiettivi di politica industriale per l’area meridionale. All’interno del contesto meridio-

nale, un ruolo di primo piano è svolto dalla regione Campania che negli ultimi anni rappresenta la principale artefice della ripresa economica del Mezzogiorno. Se è vero che il made in Italy è uno dei primi brand conosciuti e apprezzati nel mondo, anche la Campania gioca la sua partita nell’ambito della competizione manifatturiera meridionale, nazionale ed internazionale mostrando appieno la sua capacità di “saper fare”: 29mila unità locali nel manifatturiero, pari al 27,5% del Mezzogiorno e al 6,7% dell’Italia, oltre 171.000 addetti e un VA manifatturiero di 8,7 mld di euro che pesa il 30% sul dato meridionale (3,7% dell’Italia).Le esportazioni manifatturiere ammontano a 9.870 mln di euro (22,2% del Mezzogiorno e 2,3% dell’Italia,), pari ad oltre il 94% del totale economia (nel Mezzogiorno 94,3% in Italia 95,9%).Nel 2017 le vendite all’estero di manufatti sono cresciute del +3,7% (Italia +7,4%, Mezzogiorno +9,9%). Diverse sono le realtà produttive in cui la Campania dimostra di non essere un deserto industriale, ma di saper produrre, innovare ed esportare; tra queste ci sono le filiere Agroalimentare, Abbigliamento-Moda, Automotive, Aeronautico e Bio-Farmaceutico che assumono rilevanza non solo per il peso economico sull’economia interna e per il contributo al sistema economico

meridionale, nazionale e internazionale, ma anche per l’elevato effetto indotto che generano. Il 50% del valore aggiunto manifatturiero in Campania è infatti dovuto alle filiere 4A e Pharma, mentre nel Mezzogiorno il 43,6% e in Italia il 31,2%. Si tratta di 4,3 mld di euro, il cui peso sul dato nazionale è del 5,9% mentre su quello meridionale è del 34%. Si contano 11839 unità locali, pari 29,4% del Mezzogiorno e 84,5mila addetti, il 33,8% del dato meridionale.Inoltre l’export di queste filiere è di 6.019 mln euro con un peso sul dato meridionale (29%) e nazionale (3,9%) maggiore rispetto alla media manifatturiera. Ciò dimostra la maggiore internazionalizzazione e, quindi, la maggiore partecipazione della Campania alla supply chain internazionale di queste produzioni. Al contributo diretto della Campania alla forza del Made in Italy si aggiunge il contributo attraverso le “filiere lunghe” mediante il quale il territorio campano accresce la propria rappresentatività. Ne deriva un ruolo del commercio interregionale molto significativo e ben superiore all’interscambio internazionale. Le importazioni interregionali delle suddette 5 filiere campane ammontano a 13.360 mln di euro (il 25,7% del Mezzogiorno e l’8,6% dell’Italia). Dall’analisi dei mercati di destinazione delle esportazioni del Mezzogiorno si evidenzia che la Campania è sempre Luglio | Agosto 2018

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I principali numeri delle filiere 4A e Pharma: confronto Campania e Mezzogiorno

Valore Aggiunto mln €

Unità locali

Addetti

CAMPANIA

Alimentare Abbigliamento-moda Aeronautico Automotive Farmaceutico 4A e Pharma

Alimentare Abbigliamento-Moda Aeronautico Automotive Farmaceutico 4A e Pharma

Export mln €

1.748 1.072 816 499 200 4.334

2.624 1.054 922 493 926 6.019

6.293 5.293 58 149 46 11.839

34.523 28.976 7.334 11.861 1.779 84.474

5.610 2.588 1.020 2.815 696 12.729

5.034 2.328 1.549 8.490 3.242 20.643

27.434 12.183 96 485 106 40.304

123.946 67.603 11.887 41.523 5.235 250.194

MEZZOGIORNO

Fonte: elaborazioni e stime SRM su dati Istat

fra le prime destinazioni per ogni filiera considerata. Le esportazioni interregionali ammontano a 8.449,2 mln di euro (38,9% del Mezzogiorno e 5,4% dell’Italia), a fronte di 6.019 mln di export estero. Ciò significa che per ogni euro che va all’estero se ne aggiunge più di un altro (1,4) destinato nel resto del Paese.L’analisi territoriale dei mercati di sbocco del commercio interregionale per i 5 settori analizzati evidenzia destinazioni meridionali e di prossimità. Mentre in alcuni casi i legami riguardano specializzazioni produttive analoghe e complementari in termini di filiera, in altri la rilevanza della regione di arrivo delle merci è dettata dalla presenza di infrastrutture, come i porti, per l’esportazione. Un rafforzamento della logistica interna potrebbe peraltro evitare per alcune regioni l’utilizzo di porti extra-area.Per quanto concerne il mercato di approvvigionamento, non vale tanto quello di prossimità, almeno non per tutti i settori, quanto piuttosto la specializzazione produtti20

va di alcune aree italiane. Ne deriva, ad esempio per il settore alimentare e per l’abbigliamento un mercato più variegato, mentre per quelli Automotive, Aeronautico e Farmaceutico è territorialmente più concentrato, conseguenza della maggiore specializzazione. Sono filiere lunghe che si sviluppano da Nord a Sud e larghe per i mercati di destinazione prevalentemente meridionali. Per effetto delle interdipendenze di filiera, 100 euro di investimento nel settore manifatturiero campano producono un effetto a cascata su tutta l’economia nazionale di 460 euro (76 effetto endogeno e 284 effetto esogeno), con un moltiplicatore quindi pari a 4,6. Il moltiplicatore sale a 5,59 se si considerano le filiere 4A+Pharma. Il Paese risulta più unito di quanto sembri ma viene anche sottolineato quanto oggi sia cruciale adottare i nuovi modelli competitivi dettati dalla Quarta rivoluzione industriale e dalla Circular Economy, per favorire un concreto e strutturale percorso

di crescita delle principali filiere produttive meridionali. In particolare si segnalano cinque direttrici di crescita:Le filiere meridionali non sono solo lunghe ma anche larghe. È necessario un migliore coordinamento tra tali regioni assicurando una maggiore coerenza tra il Piano nazionale I4.0 e le azioni da sviluppare a livello regionale.La logistica deve essere efficiente e sostenibile a tutto tondo, tenendo in conto aspetti economici, operativi, ambientali e sociali (ruolo delle ZES).Il futuro si gioca sull’innovazione. È necessario passare da Industria 4.0 a Società 4.0 e favorire l’ispessimento del sistema imprenditoriale e il legame con il mondo della ricerca.Bisogna essere formati managerialmente e professionalmente. La risorsa umana diventa centrale per la competitività dei territori.Per il futuro occorre attivarsi per una reingegnerizzazione dei sistemi produttivi. Entra in gioco “la quinta A”, ovvero l’Ambiente. Ruolo decisivo del Sud Italia.


confindustria

Ambiente, dalla parte delle imprese Dopo un anno di mandato, la vice presidente di Confindustria Salerno Lina Piccolo fa il punto su attività svolte e risultati ottenuti di Raffaella Venerando

I

n Confindustria Salerno Lina Piccolo ha una delega politica che, oltre a essere in linea con l’area di interesse della sua azienda, la Sider Pagani, le somiglia. Una donna che considera il nostro un mondo che va troppo in fretta, condizionando al ribasso la qualità delle relazioni, dei comportamenti delle persone, finanche dell’impegno e delle aspettative, non poteva che vedersi affidata la vice presidenza in materia di ambiente, sicurezza e privacy. Nel corso del suo primo anno di gestione responsabile, di cose positive per le aziende e gli imprenditori, la vice presidente Piccolo ne ha fatte, lontana dalla retorica ambientalista e guardando dentro le molte negligenze volontarie o involontarie - che riguardano le materie di sua pertinenza. Dottoressa Piccolo, sul tema ambiente quali sono le istanze prioritarie che ha preso in carico nel suo primo anno di mandato di vice presidente? Direi le più svariate, anche se molte richieste hanno avuto la Tari (la tassa sui rifiuti, ndr) come

oggetto. È accaduto di frequente, infatti, che gli imprenditori siano state vittime di calcoli errati da parte dei Comuni, ritrovandosi a dover pagare più del necessario. Rispetto a questa problematica, così come - ad esempio - per l’ottenimento di pareri o certificati da parte di enti, gli imprenditori come me hanno trovato in Confindustria Salerno un’alleata talvolta provvidenziale. Sul versante degli adempimenti, infatti, è innegabile che gli imprenditori siano vessati da troppi obblighi, troppo onerosi, che penalizzano il desiderio di fare impresa. Ci si dovrebbe rendere conto che un imprenditore ha necessità di essere agevolato nel-

lo svolgimento delle sue attività e che, pertanto, la burocrazia andrebbe seriamente snellita e le procedure cui adeguarsi chiarite, sgombrando il campo di azione da possibili equivoci e dubbie interpretazioni di norme e leggi spesso contorte. Confindustria Salerno ha un suo metodo, un suo stile preciso di approccio? Il nostro è stato senza dubbio quello dell’ascolto, della proposta e - in alcuni casi - anche della collaborazione con altri enti e istituzioni. Confindustria Salerno è dalla parte delle imprese e chi pone al centro il bene delle aziende ci troverà sempre collaborativi. È indispensabile però che siano Luglio | Agosto 2018

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proprio le aziende a segnalarci le proprie criticità per orientare al meglio la nostra attività e i nostri interventi. Fiore all’occhiello di questo metodo è stato… Innanzitutto il dialogo avviato con l’ufficio ambiente dell’Amministrazione provinciale di Salerno, seguito alla sottoscrizione del Protocollo d’intesa sull’autorizzazione unica ambientale dello scorso 27 ottobre. L’accordo ha inteso rafforzare il percorso di lavoro e collaborazione già in essere da anni con la Provincia di Salerno sui diversi ambiti di competenza, formalizzando le attività in materia di Autorizzazione Unica Ambientale al fine di favorire ulteriormente l’interscambio di informazioni e condividere proposte di semplificazione dell’iter procedurale. L’intesa ha previsto la costituzione di uno Sportello informativo e di orientamento in Confindustria Salerno, fruibile dalle aziende associate, quale anello di raccordo con la Provincia di Salerno (Autorità competente), e tra questa e gli altri enti coinvolti nel procedimento, facilitando in maniera particolare il dialogo con i SUAP. Lo Sportello garantisce orientamento normativo in materia ed il supporto per una prima verifica documentale. Il dialogo con l’ente in questione si è rafforzato anche sul tema delle “acque” per supportare le imprese nella gestione della disciplina delle procedure relative alle concessioni per piccole derivazioni e attingimenti, unitamente a quella afferente i canoni di derivazione. Non solo in tema ambientale però

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«In famiglia abbiamo sempre differenziato, il nostro è uno stile di vita diventato lavoro e viceversa. Trovo naturale pertanto l’attenzione verso l’ambiente. È una questione di coscienza, di educazione, di scala di valori»

si è concentrata l’attività della sua vice presidenza… Molto impegno c’è stato - data anche la contingenza normativa - sulla privacy, così come su welfare e sicurezza mediante l’organizzazione di seminari molto seguiti e apprezzati. Tanto, infatti, ci siamo spesi per organizzare proficue attività di formazione, consapevoli che gli imprenditori debbano necessariamente aggiornare il proprio bagaglio di conoscenze. Confindustria Salerno in materia di ambiente, privacy e sicurezza, ormai da anni promuove il miglioramento continuo, offrendo programmi di formazione di elevato livello qualitativo. Contestualmente alla formazione, in questi mesi abbiamo garantito supporto ad ampio raggio alle imprese associate in materia: valutazione preventivi consulenti, visite aziendali per

un primo check, orientamento normativo, con relativi aggiornamenti mediante newsletter, e risoluzione di specifici quesiti aziendali. Ambiente è futuro: quali principi devono emergere per costruire e aspettarsi un domani migliore? Sarà perché io nasco in una famiglia da sempre votata al recupero, non solo per ragioni di azienda, ma proprio non riesco ad accettare lo spreco e la cultura dell’usa e getta. In famiglia abbiamo sempre differenziato, il nostro è uno stile di vita diventato lavoro e viceversa. Trovo naturale pertanto l’attenzione verso l’ambiente. È una questione di coscienza, di educazione, di scala di valori. L’ambiente è la nostra vita, impossibile non rendersi conto che noi siamo quello che respiriamo e che quindi il primo principio che dovrebbe guidare tutti noi è la buona salute del Pianeta. Forse per far passare meglio il messaggio, occorrerebbero incentivi a comportamenti e acquisti più responsabili, ma più di tutto sarebbe necessario demolire una volta per tutte la duplice negazione che vede spesso il cittadino pagare a caro prezzo servizi scadenti.

«Il Protocollo d’intesa sull’autorizzazione unica ambientale dello scorso 27 ottobre ha inteso rafforzare il percorso di lavoro e collaborazione già in essere da anni con la Provincia di Salerno sui diversi ambiti di competenza. L’intesa ha previsto la costituzione di uno Sportello informativo e di orientamento in Confindustria Salerno, fruibile dalle aziende associate, quale anello di raccordo con la Provincia di Salerno (Autorità competente), e tra questa e gli altri enti coinvolti nel procedimento, facilitando in maniera particolare il dialogo con i SUAP»


confindustria

Music Art Food 2018, una festa per i sensi e per il cuore Impegno e passione hanno determinato ancora una volta il successo dell’iniziativa di beneficenza dei Giovani Imprenditori di Confindustria Salerno, quest’anno insieme con l’Anicav in favore della Onlus Venite Libenter

di Raffaella Venerando

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ltre ogni aspettativa. L’edizione 2018 del Music Art Food, l’iniziativa di beneficenza dei Giovani Imprenditori di Confindustria Salerno - quest’anno insieme con l’Anicav - ha sorpreso tutti. Certo, gli “ingredienti” scelti - la splendida terrazza dell’Auditorium Oscar Niemeyer di Ravello come teatro, musica di gran classe, veri maestri ai fornelli e cantine eccezionali facevano ben sperare, ma il risultato è andato ben oltre il prevedibile per

numero di partecipanti e qualità del divertimento. È stata davvero una festa. Non una qualsiasi, ma una festa per i sensi e per il cuore, come recitava uno degli hashtag scelti per diffondere l’evento sui social. Protagonisti della serata sono stati ancora una volta il buon cibo, il buon vino e soprattutto la bontà di quanti hanno voluto, partecipando alla serata, contribuire alla realizzazione del progetto triennale “Comunità

Agricola”, promosso dalla Onlus Venite Libenter presieduta da Rossano Braca. Quattordici chef del territorio hanno proposto agli ospiti il “piatto forte” del territorio, il pomodoro, proposto in eleganti e inusitate variazioni sul tema. Soddisfatto della buona riuscita dell’iniziativa il presidente dei GI di Confindustria Salerno Pasquale Sessa: «Siamo orgogliosi di potere, con il ricavato di questo nostro evento,

La brigata del Music Art Food 2018

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contribuito ad avviare il progetto di Venite Libenter. L’impresa privata può e deve essere catalizzatrice di progresso sociale. Music Art Food, giunto alla quarta edizione, è l’evento con cui i GI di Confindustria Salerno dimostrano di avere a cuore il proprio territorio e le realtà benefiche che insistono su di esso». In perfetta sinergia Gianluigi Di Leo, presidente dei Giovani Anicav: «Siamo stati felici di sostenere questo progetto perché crediamo nella capacità di fare rete dei giovani in favore del nostro territorio. Quando si convogliamo le forze su buoni progetti, si vince sempre».

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IL PROGETTO L’Associazione Onlus Venite Libenter dispone di una proprietà immobiliare nella provincia di Salerno - tra Serre e Postiglione - costituita da un fabbricato, da un magazzino e 8 ettari di terreno. Ristrutturando il casale e mettendo in produzione i terreni all’interno dei quali è già presente un uliveto, l’Associazione darà alloggio a una comunità di circa 20 persone. Introducendo l’allevamento di api e convertendo in orto una parte dei terreni, la fattoria produrrà olio, frutta, miele, ortaggi e conserve che venderà ai clienti finali attraverso una filiera organizzata. Rendendo gli ospiti attivi e laboriosi, puntando

sulla responsabilità individuale, l’Associazione mira al recupero totale degli individui coinvolti, ponendosi come obiettivo ulteriore e collaterale quello di formare nel corso di 3 anni un lavoratore che possa rendersi autonomo alla fine del periodo di permanenza e avviare così una propria attività o favorire la nascita di cooperative. «La nostra è una scommessa - ha dichiarato Rossano Braca, Presidente dell’Onlus Venite Libenter - che si propone di reinserire non solo socialmente “gli ultimi” ma insegnare loro anche un lavoro per riportarli di diritto nella società, restituendogli dignità».

Gianluigi Di Leo, Pasquale Sessa e Rossano Braca

Giusy Citro e Serena De Luca, Direttivo Giovani Imprenditori Confindustria Salerno

La degustazione vini

Staff della Pasticceria De Vivo


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Italian Event Planners, la personalità si fa brand Organizzatrici di nozze favolose, Serena Ranieri, Silvia Bacchi e Ilaria Guarino quest’anno saranno le referenti per l’organizzazione IWA - ITalian Wedding Award per le regioni Campania e Molise di Raffaella Venerando

Serena Ranieri, Silvia Bacchi e Ilaria Guarino

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a qualche anno attorno al destination wedding - fenomeno che coinvolge chi decide di inscenare le proprie nozze all’estero - si è creata una vera e propria professione che esige bravura, estro e versatilità.Se l’idea è quella di regalarsi un matrimonio all’italiana, trascorrendo in luoghi di incanto qualche giorno insieme a parenti e amici, allora - da qualunque latitudine si provenga - un buon investimento sarà delegarne l’organizzazione alla Italian Event Planners, ovvero a Serena Ranieri, Ilaria Guarino e Silvia Bacchi. Serena - perito informatico e studi in economia - è una donna “Artemide” in piena regola. Nel 2009, dopo aver gestito per qualche anno un negozio di arredo nautico in Costa Smeralda e aver curato l’organizzazione di eventi per la sede romana di Confcommercio, decide di rimettersi in viaggio per seguire l’amore fino in provincia di Salerno e cambiare pelle ancora una volta. Con animo guerriero e capacità di mobilitare altre donne attorno a un’idea di lavoro che “vede” vincente, nel 2011 dà vita alla Italian Event Planners insieme con Ilaria, tornata dalla California con la voglia aumentata di ritrovare se stessa. Il destino, in quel momento, per loro due si chiude, diventando sentiero distinto e direzione sicura. Destination wedding, per l’appunto.Oggi l’agenzia - diventata un franchising con sedi in Campania, Toscana, Puglia, Piemonte e California - organizza eventi unici, che siano sotto il cielo di luci della Costiera Amalfitana, con vista perdifiato tra i vigneti toscani o nelle masserie di antico fascino in Puglia. Serena, Ilaria e Silvia -

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quest’ultima entrata in squadra nel 2016 - sono formidabili nel farlo, ma non è così semplice come si potrebbe immaginare. Per riuscire bene nel destination wedding non basta avere solo buon gusto e pazienza. Ci vuole molto di più. Occorre narrazione visiva per disegnare cerimonie sul mare e farlo gestendo budget complessi in poco, a volte pochissimo, tempo, senza rifugiarsi mai nei cliché e nelle soluzioni buone per tutti.Chi è capace di mettere bellezza, accoglienza, viaggio e sogno insieme, è molto più di una planner che “mette i fiocchetti alle cose”. È una professionista sapiente che per gli sposi esalta il fascino della meta, proiettando su di essa le emozioni e i significati del giorno più bello della vita di una coppia. È colei che crea


l’aura del grande evento, che ne tratteggia lo stile, trasversale e crossover, che resterà indelebile a cerimonia finita. Ci vuole personalità per un perfetto destination wedding e le tre amiche ne hanno. Festa dentro e tre caratteri diversi - immaginazione (Serena), cura (Ilaria), parola (Silvia) - accomunati da tanta femminilità. La loro bravura è tale che, quest’anno, saranno le referenti per l’organizzazione IWA - ITalian Wedding Award per le regioni Campania e Molise. Saranno loro tre, infatti, a selezionare il meglio nel settore del matrimonio italiano che gareggerà per la notte dei primati che si terrà il prossimo inverno a Venezia. Organizzatrici di nozze favolose, ma anche ambasciatrici di bellezza. I matrimoni delle Italian Event Planners sono, infatti, innanzitutto disegni di promozione economica e culturale che raccontano luoghi e modi autentici del buon vivere italiano. L’ultima ambizione delle planners è quella di far conoscere - fuori dei confini delle riviste patinate - le ricchezze di Praiano, un angolo di blu in cui l’agenzia sta avviando un progetto di albergo diffuso per far vivere agli ospiti stranieri un’esperienza magnifica e far scoprire loro che la regalità non è necessariamente mondana. Più spesso è natura, è compostezza, è vero lusso che avanza a passo leggero.

Ilaria Guarino e Serena Ranieri www.italianeventplanners.com | info@ italianeventplanners.com

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Pronti alla sfida di Industria 4.0 con la Dc Engineering srl L’azienda di Battipaglia è specializzata in progetti di alta tecnologia, software principalmente legati all'analisi dei dati aziendali, mediante innovative soluzioni di System Integration tra dati aziendali e piattaforme

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c Engineering srl é una società ad alta vocazione tecnologica con sede a Battipaglia (SA) e bacino di azione in tutto il centro-sud Italia. Essa nasce dall’unione dell’esperienza pluri-decennale dei soci - l’ingegner Lucio Di Cunzolo e l’ingegner Manuela Carinci - che hanno unito risorse giovani e motivate su progetti di alta tecnologia, software principalmente legati alla analisi dei dati aziendali, mediante innovative soluzioni di System Integration tra dati aziendali e piattaforme software.L’azienda lavora su software sviluppati integralmente in house, attraverso soluzioni open source o customizzate per le singole aziende: alla base, la possibilità per l’impresa di effettuare analisi aziendali mediante semplici cruscotti web, quella di offrire sistemi B2B integrati con quasi tutti i gestionali aziendali e soluzioni software CRM customizzate per ogni singola azienda e per ogni singolo settore. In più, l’azienda offre sistemi di tracciabilità per aziende agroalimentari e di produzione completamente personalizzati, sistemi di business intelligence su piattaforme proprietarie, sistemi di logistica informatizzata e analisi delle scorte, sviluppo di piattaforme open source per analisi dei dati aziendali. Il core business è la realizzazione di sistemi integrati e di interscambio dati con macchine, per far diventare ogni sistema “Industria 4.0 ready”. L’azienda annovera fra i suoi clienti le principali realtà industriali della Campania e, più in generale, del centro Sud Italia, con ampie prospettive di sviluppo verso i più diversi settori industriali, ma con un focus di specializzazione molto alto nei comparti automotive, agroalimentare, produzione e commercializzazione. La Dc Engineering sviluppa su tre macro-aree distinte: Business Intelligence: ovvero la trasformazione dei dati aziendali in conoscenza. Mediante software sviluppato integralmente su specifiche del cliente, oppure con software open source per analisi multidimensionali (mettendo ad esempio a confronto anni, clienti, prodotti) si permette al management aziendale di comporre cruscotti e analisi di immediata consultazione da tablet, smartphone e qualsiasi supporto. Sistemi B2B e B2C: nel sempre più affollato mondo digitale, la DC offre soluzioni integrate per aziende commerciali, ad esempio pannelli d’acquisto per rivenditori e soluzioni integrate con i sistemi gestionali aziendali per il commercio elettronico B2B e B2C. Software Gestionali: in diverse macro aree, la DC sviluppa su proprie

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piattaforme software gestionali, ad esempio per la tracciabilità di filiera e di produzione, per la gestione della produzione aziendale (MRP e sistemi di controllo della produzione), sistemi di gestione dei turni, sistemi di analisi delle scorte e di rifornimento logistico. La DC Engineering dispone di datacenter ad alta affidabilità e di sistemi di disaster recovery ridondati anche geograficamente, per consentire la fruibilità delle proprie applicazioni senza interruzioni; inoltre mette a disposizione della clientela sistemi di backup in cloud e di restore immediato, garantendo disponibilità e affidabilità.

DC Engineering srl Via Vanvitelli 13 - Battipaglia (Sa) www.dcsystem.it - lucio@dcsystem.it


business

Shedir Pharma, dieci anni di innovazione in campo nutraceutico Innovazione, Ricerca scientifica, Sostenibilità ambientale: sono questi i principi guida dell’azienda campana fin dalla sua fondazione a cura della Redazione

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ntrata nella Top Ten delle aziende italiane “A Maggiore Crescita” secondo la classifica riportata dal Corriere della Sera nello “Speciale Economia” del marzo scorso, Shedir Pharma è una giovane società campana attiva nella commercializzazione di nutraceutici, cosmetici e medical devices. Quest’anno festeggia il primo decennio di operatività e successi che premiano la lungimiranza imprenditoriale, i decisi investimenti sul capitale umano e una concezione aziendale originale. Innovazione, Ricerca scientifica, Sostenibilità ambientale: questi i principi che supportano lo sviluppo di Shedir Pharma fin dalla sua fondazione. L’amministratore delegato, Umberto Di Maio, consapevole che le migliori intelligenze campane e italiane contribuiscono troppo

spesso a fare la fortuna di aziende estere, ha scelto di limitare questo trend puntando molto sulla crescita interna. La società è passata così dalle poche unità del 2008 (anno della sua fondazione) agli oltre 100 dipendenti di oggi, per la gran parte giovanissimi e dall’alto profilo professionale (chimici, farmacisti, biologi, avvocati, esperti contabili, della comunicazione e altri). Chi lavora in Shedir Pharma sa di poter contare su rapporti lavorativi orizzontali e interconnessi, in cui la logica seguita è che “Una buona idea, come una soluzione, può venire da chiunque”. L’azienda promuove costantemente focus d’ascolto e cerca feedback costruttivi all’interno e all’esterno, ritenendo che l’osservazione partecipata del mercato sia una responsabilità imprenditoriale inderogabile. Proprio da questo metodo nasce una gamma prodotti che tiene conto anche del numero crescente di stili di vita alternativi come quelli vegetariani, vegani e orientati all’utilizzo di prodotti naturali. Lo staff scientifico di Shedir Pharma non si limita a produrre

una versione propria dei classici nutraceutici ma quotidianamente è attivo nello studio di soluzioni differenti rispetto a quelle già in commercio. Shedir Pharma investe moltissimo nella ricerca. Collabora infatti costantemente con Università e Istituti privati d’eccellenza. La chiave di volta è il presupposto concettuale che gli stili di vita contemporanei sono molto diversi da quelli del passato: un disturbo può essere trattato intervenendo su fronti differenti che contribuiscono ad un risultato tangibile e a un giovamento evidente per il paziente. Da qui deriva l’apprezzamento del mercato e il numero crescente di formule brevettate o depositate. Tra le tante, va menzionata Refluward, supporto dietetico caratterizzato da una particolarissima combinazione di principi attivi ad azione tampone e lenitiva della mucosa gastrica con attivi naturali noti per la loro azione digestiva.Competenze elevate, conoscenza del mercato e investimento in ricerca sono i pilastri del pensiero sinergico-globale con cui Shedir Pharma è pronta a scalare il mercato.

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business

Digital Transformation l’esperienza di Citel Group L’azienda - che conta circa 180 dipendenti offre soluzioni per migliorare l’efficienza dei processi business a prezzi competitivi, attraverso la logica di una factory centralizzata e un sistema “in cloud” che insieme riescono a raggiungere la flessibilità e la riduzione dei costi abbattendo quelli di licenza

Valerio D’Angelo, CEO di Citel Group

a cura della Redazione

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igitalizzare diventa una necessità in un mercato sempre più globalizzato, altamente competitivo che offre difficili sfide e grandissime opportunità. Lo spirito di sopravvivenza spinge non solo la PA e le imprese di grandi dimensioni ma anche le PMI italiane ad intraprendere un percorso di digital transformation (DT).Lo sa bene, il CEO di Citel Group, Valerio D’Angelo. L’azienda, di origini campane, fornisce servizi tecnologici sia in Italia che all’estero; nasce nel 2000 da un’intuizione di Fortunato D’Angelo, attualmente affiancato nella direzione dai figli Valerio e Diego. Citel Group conta circa 180 dipendenti, altamente specializzati,

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costantemente aggiornati e certificati distribuiti tra le sedi italiane (Napoli, Roma, Genova e Milano) e sud Americane (Rio de Janeiro e San Paolo). La mission è quella di abilitare i clienti alla Digital Transformation attraverso la system integration, IT consulting e software develoment. Obiettivo è quello di riuscire a trasformare le esigenze dei clienti in soluzioni innovative in grado di migliorare l’efficienza dei processi business con risvolti positivi sulla competitività; significa lavorare non solo sull’efficacia, ovvero sul raggiungimento di obiettivi, ma anche sull’efficienza del ciclo passivo, migliorandone i costi, e del ciclo attivo nelle fasi di pre-vendita, vendita e caring.

LE SOLUZIONI A SUPPORTO DELLA DIGITAL TRANSFORMATION Secondo i dati ISTAT il 63% delle aziende italiane, nonostante il Piano Nazionale 4.0 e gli accreditati benefici del processo, è ancora “indifferente” alla digitalizzazione, il 32% arriva ad una media digitalizzazione e solo il 5% è altamente digitalizzata. La motivazione? La mancanza di risorse con le competenze necessarie. La Commissione EU, nel rapporto per il calcolo dell’indice DESI 2018, spiega che per l’Italia “la sfida principale è rappresentata dalla carenza di competenze digitali” e che nonostante quanto messo in atto dal governo, “si tratta di misure che appaiono ancora insufficienti.” Ma se la DT ha già confermato i suoi benefici affermandosi come una necessità nel mercato globale, se si vuole sopravvivere è fondamentale farsi affiancare da esperti del settore. Citel Group si occupa di questo: sostenere le imprese nei pro-


cessi sia del ciclo attivo, che del passivo con tecnologie innovative e competenze d’eccellenza. Fermarsi allo sviluppo e all’implementazione di software non basta più. In un quadro come quello attuale, in cui le informazioni aumentano esponenzialmente trasformandosi nella loro versione digitale, diventa sempre più importante la protezione dei dati; un’altra sfida che si apre alle aziende e alla PA a seguito del GDPR che prevede l’allineamento alla normativa Europea, a partire dal 25 maggio 2018, in materia protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali. Citel Group ha creato un Centro di Quality Assurance che si occupa di test, collaudo delle soluzioni proprie o altrui e della cyber security. Un centro che si occupa dell’analisi delle vulnerabilità, remediation, rewall delle infrastrutture e la Code Review. Se si parla di ciclo attivo, Citel Group attraverso un CRM integrato con il sistema logistico, riesce a creare la vera omnica-

nalità unendo l’ambiente fisico con quello online; soprattutto nel mondo del retail si è fatta sempre più forte la necessità di integrare i due aspetti in modo da riuscire ad efficientare la gestione e ad aumentare la consumer satisfaction. Sempre per il retail, Citel group integra una soluzione di Visual Retail Analytics che traccia il percorso dei clienti oltre a dare report demografici sull’affluenza nei punti e la rispettiva conversione in vendita. Inoltre Citel Group è tra le prime aziende Italiane ad aver sviluppato un Chatbot, un software di intelligenza artificiale, che simulando una conversazione “umana” con il cliente supporta le aziende nelle fasi di pre-vendita, vendita e post-vendita. L’efficienza viene raggiunta attraverso la sostituzione della capacità umana con una di un software in grado di rispondere ai clienti 24/7, di fornire indicatori, monitorare le criticità e ottimizzare la capacità d’intervento. Una capacità che, dando indicazioni per Upselling e Crosselling, diventa anche proattiva.

PMI E DIGITAL TRANSFORMATION: IL RUOLO DEGLI ESPERTI DIGITALI Parlare di DT significa non limitarsi a valutazioni di natura puramente tecnologiche al contrario, per apprezzare il processo, occorre pensare a tutto ciò che riguarda l’innovazione e le logiche del business, la cultura aziendale e la vision d’impresa. Essere digitali significa accettare il progresso e accoglierlo; sono le aziende di medie-grandi dimensioni a comprendere l’importanza del fenomeno e ad investire nello stesso. È in questo contesto che si colloca Citel Group. L’azienda sostiene l’importanza di offrire soluzioni a prezzi competitivi attraverso la logica di una factory centralizzata e un sistema “in cloud” che insieme riescono a raggiungere la flessibilità e la riduzione dei costi abbattendo quelli di licenza. Una strategia che permetterebbe anche alle PMI italiane di poter diventare digitali; in più affidarsi ad esperti del settore significherebbe ridurre gli sprechi e raggiungere gli obiettivi in tempi brevi.

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business

U4job, raggiunta quota 2500 utenti Le opportunità offerte dalla piattaforma multimediale di Umana dedicata alla diffusione della cultura digitale in azienda a cura della Redazione

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che punto siamo con la human trasformation, la diffusione della cultura digitale, quel necessario processo di reskilling delle competenze professionali che ogni ecosistema d’impresa deve intraprendere? È questa la domanda che si è posta Umana - Agenzia per il Lavoro che conta 130 filiali in Italia e impiega mediamente ogni giorno 24mila persone - ideando U4job, la piattaforma multimediale per l’alfabetizzazione delle competenze digitali nata in collaborazione con Aica. Uno strumento che in questi giorni ha registrato le 2500 utenze. Adottato nel mondo delle imprese, degli enti pubblici, delle associazioni e dell’università, U4Job è 32

un nuovo approccio al tema della diffusione delle competenze digitali che guarda ad una formazione ampia e trasversale delle risorse in ogni azienda. La piattaforma è stata inclusa, con 500 accessi destinati a funzionari delle associazioni industriali, anche nel progetto formativo di Confindustria “Industry 4.0 - Preparati al futuro”. «Le innovazioni tecnologiche hanno un immediato riflesso sul mondo del lavoro - spiega Maria Raffaella Caprioglio, presidente di Umana - Ci siamo chiesti se le aziende, e le persone in azienda, possedessero davvero gli strumenti necessari per cogliere le opportunità di questo cambiamento epocale del mondo dell’industria. E siamo partiti, ancora una volta, dalle persone. Perché sono le persone che attivano l’innovazione». L’ambizione infatti è quella di creare in ogni contesto lavorativo un terreno adeguato alla creazione di un linguaggio comune, aiutando ad avvicinare il mondo delle imprese e del lavoro alla nuova rivoluzione digitale in corso. L’Osservatorio delle Competenze Digitali che coinvolge AICA insieme alle principali sigle di rappresentanza datoriale dell’ICT (Assinform, Assintel e Assinter) ha rilevato (settembre 2017) che la crescita media annua degli annunci di lavoro rivolti a profili legati alle nuove tecnologie tra il 2013 e il 2016 è stata pari al 26%. Al tempo stesso va osservata la necessità del

Paese di colmare il gap di competenze di chi lavora. Secondo il MiSE solo il 29% della forza lavoro ha elevate competenze digitali contro il 37% della media europea. Resta bassa anche la percentuale di partecipazione ai corsi di formazione (8,3% contro il 10,8% del dato medio europeo). U4job - realizzato con la partnership scientifica di AICA, l’Associazione Italiana per il Calcolo Automatico che dal 1961 si occupa della diffusione e della certificazione informatica - affronta e “mette a terra” nelle sue dieci unità in e-learning i temi chiave del dibattito sulle nuove tecnologie dando un valore evidente a quelle parole che per molti sono purtroppo ancora solo uno slogan: da big data a cloud, da internet delle cose a servitizzazione della manifattura. Il tutto con un linguaggio semplice e diretto che non eccede in tecnicismi inutili. Da anni l’Area ICT di Umana recluta e forma competenze specificatamente profilate per le aziende che si apprestano a vivere la trasformazione digitale e lo sviluppo di Industria 4.0 in corso. Parallelamente, grazie anche ad U4Job, è in grado di offrire un’opportunità a tutti i livelli professionali in azienda, permettendo una più larga e graduale adesione ai nuovi modelli economici, sociali, produttivi e culturali da parte delle persone coinvolte in questo momento di sviluppo collettivo. www.u4job.it


norme e società

Risarcimento danni, cosa ha stabilito l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n° 3 del 2018 L’interdittiva antimafia in via amministrativa non permette di eseguire una sentenza passata in giudicato per un danno subìto dalla Pubblica Amministrazione

Luigi Maria D’Angiolella avvocato | studio D'Angiolella dangiolella@studiolegaledangiolella.it

L’

Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata, con la sentenza n° 3 del 6 aprile 2018 su una questione prima pacifica, poi divenuta controversa in giurisprudenza, e cioè sul caso di un cittadino colpito da una misura prefettizia antimafia, (atto preventivo e di c.d. “tutela avanzata”) che vuole eseguire un giudicato civile nei confronti di una Pubblica Amministrazione. La citata sentenza, con un percorso argomentativo ampio, è per la tesi negativa, escludendo che si possa agire in via di ottemperanza per porre in esecuzione un giudicato, con la nomina di un commissario ad acta, anche nel caso in cui questo giudicato sia estraneo all’attività di impresa. Il giudicato - vale a dire un provvedimento giurisdizionale inappellabile che riconosce ad un cittadino il ristoro dei danni nei confronti della Pubblica Amministrazione - è considerato alla stregua di una erogazione della PA che, per legge, deve essere bloccata all’interdetto amministrativo. Il

Consiglio di Stato indubbiamente afferma un concetto forte, che pone molti interrogativi. Lo spazio concesso in questa rubrica non permette una disamina ampia e profonda. É certo però che, in questo caso, sono in gioco valori costituzionali e anche i principi fondanti del sistema. Il giudicato, la sentenza definitiva, espressa “in nome del popolo italiano”, è il massimo riconoscimento dello Stato di Diritto, la più precipua espressione dell’Ordinamento Statale che opera attraverso i Tribunali della Repubblica. Non è una erogazione, come ad esempio un finanziamento pubblico o il pagamento del prezzo dell’appalto pubblico (che pure sia anche in misura particolare viene riconosciuto per i lavori effettivamente svolti). Negare la possibilità di agire con una sentenza contro la P.A. ad un cittadino, che mantiene ogni sua capacità civile, è un po’ come se lo Stato negasse se stesso. A ciò si aggiunga un paradosso, e cioè che il condannato in via

definitiva - una condizione giuridica certo più deteriore rispetto all’imprenditore che subisce l’inibizione prefettizia - non ha questi limiti. In più, l’interdetto in via amministrativa, che pure non ha alcuna delle garanzie del processo penale, come il contraddittorio e il principio della prova, subisce queste conseguenze in forza di un provvedimento che, per definizione, è temporaneo, provvisorio. L’importante pronunciamento dell’Adunanza Plenaria pone pertanto molte domande. Come pure la normativa emergenziale da cui si dipana il potere del Prefetto, a distanza di 25 anni dalla sua emanazione, imporrebbe oggi una analisi dei suoi effetti, per verificarne la portata e i risultati concreti di contrasto alla criminalità.É il momento di una riflessione, che dovrebbe partire dal Legislatore per garantire sempre la lotta alla criminalità, baluardo democratico, evitando al contempo possibili distorsioni al sistema dell’ordinamento e delle garanzie. Luglio | Agosto 2018

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norme e società

Un “codice” per la giustizia civile Una riforma necessaria per la coesione sociale e la competitività del Paese

Marco Marinaro avvocato cassazionista / membro ABF Bologna giudice ausiliario della Corte di Appello di Napoli www.studiolegalemarinaro.it

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ambiare si può. Non c’è dubbio. E cambiare migliorando è sempre possibile. Migliorare, pertanto, la giustizia civile e la sua efficienza non solo non è impresa impossibile, ma deve costituire un obiettivo prioritario di qualsiasi azione di governo che intenda innovare creando le basi per una incisiva trasformazione culturale, prim’ancora che tecnica e organizzativa. D’altro canto, una seria ipotesi di riforma della giustizia civile non può non tener conto sia dell’alto grado tecnico dello specifico settore, sia delle sue profonde implicazioni sociali ed economiche: ogni scelta operata in questo ambito incide infatti inevitabilmente nei rapporti tra i consociati e nelle relazioni tra questi e le istituzioni. Insomma un sistema complesso quello della giustizia civile, il cui impatto diretto sul sistema socio-economico del Paese richiede una valutazione che superi la mera logica del dettaglio normativo, per lo più processuale, aprendo a riflessioni che orientino le opzioni sul tavolo nel solco dell’efficienza, della

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sostenibilità, del riequilibrio del tasso di litigiosità implementando l’uso di strumenti di pacificazione sociale. La poliedricità del sistema della giustizia civile vigente, che si connota oggi quale servizio pubblico essenziale che può essere amministrato anche da enti privati, richiede sicuramente una razionalizzazione normativa mediante la semplificazione e il coordinamento delle diverse discipline che si sono stratificate nell’ultimo decennio soprattutto sull’impulso delle direttive UE. In questa direzione, un testo unico, o anche un“codice” della giustizia civile, potrebbe infatti costituire l’obiettivo per un ripensamento prima che tecnico, culturale e per ciò stesso trasversale, non soltanto dei saperi, ma anche dell’agone politico. Non quindi una ennesima riforma delle regole processuali quale obiettivo prioritario quasi obbligato per l’efficienza della giustizia civile. L’esperienza insegna infatti che riformare il processo (e solo il processo), peraltro in una logica di mero efficientismo, non può costituire la soluzione. Lavorare sui rimedi e sui

rimedi dei rimedi genera un livello di ridondanza i cui effetti possono essere addirittura agli antipodi della propugnata efficienza. Né la funzione sociale del processo può essere obliterata da esigenze emergenziali che lo sospingono sempre più verso epiloghi di mero rito utili al solo respingimento del contenzioso con effetti di rimbalzo per lo più sottovalutati perché difficili da analizzare nel breve periodo. Proprio l’esperienza degli ultimi due lustri sospinti dalla direttiva UE n. 52/2008 - che indicava quale obiettivo la creazione di «un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario» - consente di allargare gli orizzonti ricercando la soluzione al di fuori della gabbia cognitiva nella quale sovente si agitano le proposte interne di riforma della giustizia civile. Come perseguire allora una efficace tutela dei diritti e un radicale riequilibrio della litigiosità, attraverso un efficiente funzionamento dei sistemi di dispute resolution che il legislatore può e deve apprestare per i consociati? Come rendere economico, rapido


ed efficace un sistema le cui risorse sono limitate, ma che allo stesso tempo deve sempre garantire a tutti e indistintamente pronta reazione con risposte adeguate? Nel discorso al Senato del 5 giugno 2018, il presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte ha chiesto la fiducia precisando sul tema che l’obiettivo «è ricostruire il rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti del “sistema giustizia”» rilevando poi che «di recente si è registrato un declino delle iniziative di tutela giudiziaria. In realtà, non è venuta meno la domanda di giustizia, ma piuttosto i processi costano troppo e durano troppo a lungo».Come ricostruire il rapporto di fiducia e come rispondere adeguatamente alla domanda di giustizia se non avviando un nuovo approccio ecologico al conflitto? Occorre sicuramente una diversa consapevolezza nella gestione e composizione delle liti civili, senza limitarsi a delegare la risposta al processo quale occasione unica anziché ultima. La perfettibilità del processo civile infatti non può costituire l’obiettivo della riforma affidando alla stessa la soluzione dei mali di un sistema giustizia messo alle corde da una domanda ipertrofica che trova le sue radici anche nella carenza di spazi di mediazione sociale. Il processo civile deve costituire l’argine sociale prim’ancora che giuridico del conflitto, non la scelta necessaria. Garantire il diritto di accesso alla tutela dei diritti non può significare sostanzialmente obbligare i consociati a tale accesso per l’assenza di altre forme che possano consentire un adeguato e anche migliore risultato per i contendenti e per la collettività, con benefici anche di medio e lungo termine. Il processo per sua natura dirime le controversie per lo più

recidendo i rapporti per generazioni: ripristinare la legalità è opera necessaria e deve essere sempre garantita e resa più efficiente, ma non appare per lo più scelta privilegiata quando occorra rammendare le relazioni e ricucire il tessuto sociale dove nasce la domanda di giustizia il cui trend appare in crescita.E questo - come ha detto il presidente Conte «vale per i cittadini e per le imprese, con la conseguenza che la scarsa efficienza del “servizio giustizia” si sta rivelando un limite alla crescita economica e un deterrente nei confronti degli investitori stranieri. Nell’economia contemporanea, come ricorda il sociologo Ulrick Beck, il vero pericolo è la “minaccia di non invasione da parte degli investitori, oppure la loro partenza”».La prospettiva proposta appare lucida e difficilmente opinabile anche quando si pongono quali obiettivi del “contratto di governo” «la semplificazione e la riduzione dei processi, l’abbassamento dei costi di accesso alla giustizia, il rafforzamento delle garanzie di tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini».Il tema è necessariamente trasversale e multidisciplinare, ma anche altamente strategico. Partendo da obiettivi comuni è possibile creare percorsi condivisi attraverso i quali fare scelte anche radicali e ambiziose per la crescita del Paese rafforzando e rendendo coeso il tessuto sociale e rilanciando la competitività del sistema economico. E così la proposta avanzata per l’istituzione di un commissario straordinario per la giustizia civile o quella di un codice della giustizia civile quale casa comune dei sistemi di dispute resolution possono forse stimolare una riflessione non settoriale e non autoreferenziale, ma soprattutto orientata da un lato a rafforzare il processo prescindendo da sommariz-

zazioni dettate da esigenze emergenziali e, dall’altro, a mettere a punto quei procedimenti diversi, alternativi o paralleli, separati o integrati, che possono costituire la chiave di volta per l’efficienza del nuovo sistema della giustizia civile mediante un riequilibrio della domanda che non ne scoraggi l’accesso, ma che consolidi le buone pratiche coesistenziali.D’altronde la strada intrapresa a livello europeo sposta il baricentro delle soluzioni negoziali inevitabilmente fuori del processo. L’autonomia privata in un ambito regolamentato e assistito costituisce la sede naturale e privilegiata per la ricerca di soluzioni autonome (pur etero dirette) del contenzioso civile. Le direttive europee per la mediazione (2008/52/CE) e in materia di ADR per i consumatori (2013/11/ UE) descrivono infatti un contesto stragiudiziale regolamentato in equilibrato rapporto con la giurisdizione che non esclude (espressamente consentendole) forme di integrazione. Non quindi una contrapposizione tra la giurisdizione, chiamata a dirimere le liti con decisioni rapide ed efficaci rese all’esito di un giusto processo, e sistemi extragiudiziali, finalizzati per lo più a risolvere i conflitti mediante l’accordo attraverso percorsi negoziali diretti e indiretti, con e senza l’ausilio di un terzo imparziale. Un sistema della giustizia civile complesso, equilibrato e sostenibile, quello che si profila ormai in tutta la sua concretezza, che non punti soltanto a una maggiore efficienza del processo civile (che costituisce un obiettivo imprescindibile per rendere effettiva la tutela dei diritti) e, quindi, della giurisdizione, ma che valorizzi - e non soltanto in chiave deflattiva - i sistemi di composizione delle liti civili mediante i procedimenti di ADR (Alternative Dispute Resolution).

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norme e società

Quando la diffamazione corre sul web Offendono la reputazione di varie persone, oscurata la pagina del social e condannati i titolari degli account

Luigi De Valeri Ordine avvocati di Roma studiolegaledevaleri@hotmail.com

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na recente sentenza della Cassazione V sezione penale, n. 21521/2018, è intervenuta ancora in materia di social network e commenti offensivi in una vicenda che vedeva imputati due soggetti i quali, nelle loro pagine di un noto social, avevano ripetutamente offeso la reputazione di varie persone ben identificate. In precedenza il Tribunale di Grosseto aveva confermato il sequestro preventivo disposto dal Giudice per le indagini preliminari mediante oscuramento delle pagine create dai due imputati che, con ripetuti post, avevano leso la reputazione di vari soggetti indicandoli espressamente con il loro nome. Costoro di conseguenza erano ricorsi alla Cassazione con l’intento di far revocare l’oscuramento ordinato dal giudice all’internet service provider.

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Per comprendere meglio la fattispecie in commento, occorre ricordare ai lettori il contenuto dell’art. 595 del codice penale che punisce la diffamazione, in particolare nel caso in questione il terzo comma, applicato in via analogica dal giudice penale in occasione di post inviati sui social a carattere diffamatorio nei confronti di soggetti identificati: «se l'offesa (all’altrui reputazione) è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro».Gli elementi fondanti della norma sono pertanto l'offesa all'altrui reputazione, intesa come lesione delle qualità personali, morali, sociali, professionali di una persona, la comunicazione con più persone che siano almeno due, l'assenza della persona offesa, (viceversa

se fosse presente si configurerebbe la fattispecie dell’ingiuria) ovvero l'impossibilità di percepire l'offesa da parte di costui. In questa fattispecie di reato la giurisprudenza da qualche anno ha inquadrato tutti quei comportamenti offensivi che si compiono attraverso le reti informatiche e le moderne tecniche di comunicazione in generale tra cui i social network, le chat sul web, le comunicazioni e.mail destinate a più soggetti, commenti offensivi su pagine di soggetti visibili a tutti gli internauti. Tornando al caso di recente decisione le difese dei due titolari delle pagine del social sottoposte a sequestro preventivo si affidavano ai diritti sanciti dagli art. 3, principio di uguaglianza, e 21 della Costituzione ritenendo che l’oscuramento delle pagine realizzava una evidente lesione del diritto di libera manifesta-


zione del pensiero.Secondo la difesa le pagine web non godono della stessa tutela della testata giornalistica on line e il diverso trattamento in relazione alla possibilità di provvedimenti di sequestro integrerebbe una violazione dei principio di uguaglianza. La Corte ha ritenuto inammissibili i ricorsi precisando che il provvedimento di sequestro preventivo aveva riguardato le pagine attraverso le quali i due ricorrenti avevano pubblicati messaggi o video o commenti dal contenuto reputato offensivo per le persone offese e che il Giudice per le indagini preliminari ne aveva ordinato il sequestro preventivo in relazione al delitto di diffamazione ipotizzato, tramite l'oscuramento, prescrivendo al fornitore del servizio internet di renderle inaccessibili agli utenti. La giurisprudenza penale si è consolidata negli ultimi anni nel ritenere legittimo il sequestro preventivo di un sito web o di una pagina telematica qualora il giudice rilevi due presupposti, ovvero la fondatezza a prima vista della commissione del reato, il "fumus commissi delicti" e il pericolo dell’aggravarsi delle conseguenze di questo nelle more del giudizio perdurando la visibilità delle offese, il "periculum in mora". Pertanto, rileva la Corte, legittimamente viene “imposto al fornitore dei servizi internet, anche in via d'urgenza, l'oscuramento di una risorsa elettronica o l'impedimento dell'accesso agli utenti ai sensi degli artt. 14, 15 e 16 del D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70,

in quanto la equiparazione dei dati informatici consente di inibire la disponibilità delle informazioni in rete e di impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato”. Inoltre è stato sottolineato dalla Corte che le forme di comunicazione telematica come i blog, i social network, le newsletters, sono espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero “ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa, anche nella forma on line, poiché rientrano nei generici siti internet che non sono soggetti agli obblighi ed alle garanzie previste dalla normativa sulla stampa”. Tramite questi mezzi sul web chiunque può esprimere il proprio pensiero su ogni argomento suscitando opinioni e commenti da parte dei frequentatori del mondo virtuale. La presunta disuguaglianza lamentata dai ricorrenti nel trattamento riservato ai siti web e testate giornalistiche on-line deriva dalle differenze tra le due situazione e pertanto per la Corte “…un periodico telematico, strutturato come un vero e

proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile non può certo paragonarsi a uno qualunque dei siti web in cui chiunque può inserire dei contenuti, ma assume una sua peculiare connotazione, funzionalmente coincidente con quella dei giornale tradizionale, sicché appare incongruo, sul piano della ragionevolezza, ritenere che non soggiaccia alla stessa disciplina prevista per quest'ultimo”. In definitiva la Corte di Cassazione ha respinto i ricorsi dei due titolari delle pagine oscurate condannandoli al pagamento delle spese processuali e ad una sanzione pecuniaria di euro duemila. Che dire? Quando si esprimono le proprie opinioni sui social trascendendo dalla critica manifestazione di libertà di pensiero alla diffamazione, ascrivendo a soggetti ben definiti o identificabili azioni penalmente rilevanti, occorre fare attenzione a non incappare nel reato descritto che, vale la pena evidenziare, è perseguibile a querela della persona offesa da proporsi entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato.

Luglio | Agosto 2018

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norme e società

Contraffazione del marchio comunitario e concorrenza sleale Nel determinare l’esistenza di un rischio di confusione tra brand, il confronto tra gli stessi deve fondarsi sull’impressione “complessiva”, tenendo conto, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti

Maurizio Galardo avvocato cassazionista e dottore di ricerca in diritto commerciale studio legale Galardo & Venturiello mgalardo@galardoventuriello.it

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l Tribunale di Milano, Sezione Imprese, con la sentenza n. 9754 del 29/09/2017 ha deciso su un’interessante questione relativa alla contraffazione del marchio comunitario. Il fatto. Una società spagnola, operante nel settore della bellezza e della cosmetica, conveniva in giudizio una società a responsabilità limitata italiana chiedendo di accertare e dichiarare la nullità della registrazione italiana del marchio per mancanza di novità e che l’uso di tale marchio integrava: 1) contraffazione del marchio comunitario dell’attrice; 2) atto di concorrenza sleale si sensi dell’art. 2598 n. 1 e 3 cod. civ. poiché la somiglianza tra i due marchi era idonea a generare nel pubblico confusione con ogni conseguente pronuncia. La parte attrice contestava, inoltre, la liceità della registrazione del dominio della convenuta poiché contrario all’art. 22 cpi chiedendone la riassegnazione. In considerazione di queste violazioni l’attrice chiedeva, infine, una condanna generica al risarcimento del danno emergente e del lucro cessante, nonché del danno

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all’immagine anche solo potenziale. La società convenuta contestava la fondatezza della domanda sostenendo che i segni distintivi azionati da parte attrice erano parzialmente differenti sia nella parte denominativa (aggiunta di un sostantivo e di un acronimo) che in quella figurativa (presenza di un ideogramma cinese), circostanze che avrebbero reso il marchio dell’attrice “complesso” e comunque differente da quello successivamente depositato dalla convenuta.La parte attrice deduceva dunque innanzitutto la nullità del marchio successivamente registrato dalla società convenuta, in considerazione delle anteriorità dimostrate e del grado di confondibilità tra i segni distintivi oggetto di causa.L’attrice era titolare di due marchi figurativi europei registrati per la classe n. 3 (prodotti per la cura e il trattamento dei capelli, oli essenziali per capelli, cosmetici per capelli). Orbene, ai sensi dell’ 8 par. 1, lett, b) Reg, CE 207/09 è escluso dalla registrazione il marchio che «a causa dell’identità o della somiglianza (…) col marchio anteriore e dell’identità o somiglianza dei

prodotti o servizi per i quali i due marchi sono stati richiesti, sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione con il marchio anteriore». Per quanto riguarda, invece, l’ordinamento italiano, ai sensi del combinato disposto degli artt. 25 comma 1) lett. a) e 12 c.p.i. sono nulli i marchi che non possono essere oggetto di registrazione, ovvero «i segni che alla data di deposito della domanda (…) siano identici o simili ad un marchio già registrato nello Stato in seguito a domanda depositata in data anteriore (…) per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione tra i due segni». Il Tribunale nella pronuncia che si annota ha evidenziato la necessità di valutare la somiglianza dei segni e dei prodotti e l’idoneità a creare confusione nel pubblico di riferimento anche con riguardo ad un “rischio di associazione”, così confermando


l’orientamento della giurisprudenza secondo cui la somiglianza tra due marchi va valutata in virtù di un esame complessivo, ovvero visivo, fonetico e concettuale. Esso, pertanto, non dev’essere analitico, ma fondarsi sull’impressione complessiva fornita dai marchi confrontati considerando i loro elementi distintivi e prevalenti. Eventuali differenze fonetiche, dunque, potrebbero essere neutralizzate da somiglianze visive e viceversa, in virtù della ordinaria diligenza e consapevolezza che i consumatori utilizzeranno nel confrontare il marchio che “vedono” in concreto al momento di effettuare un acquisto con quello che “ricordano” dell’altro. Ciò peraltro vale anche per i marchi “complessi” caratterizzati cioè dalla presenza di un elemento denominativo e di uno figurativo.Nel caso di specie, il Tribunale dal confronti dei due marchi ha accertato che il marchio dell’attrice era anteriore a quello della convenuta e per le sue caratteristiche intrinseche privava il successivo del requisito della novità; inoltre trattandosi di un marchio forte, dotato di capacità distintiva sul mercato dei prodotti per capelli, dovevano ritenersi illegittime tutte le variazioni e modificazioni anche se rilevanti e originali che lasciano sussistere l’identità sostanziale del “cuore” del marchio, ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume. Sulla scorta di tale considerazione il Tribunale giunge, nel caso di specie, ad escludere il requisito della novità del marchio avversario dichiarando pertanto la nullità dello stesso per mancanza di tale requisito. Per quanto concerne poi il profilo relativo alla contraffazione e quindi alla concorrenza sleale, l’art. 9 Reg. (CE) 207/2009 dispone che «il titolare

ha il diritto di vietare a terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio: (…) b) un segno che a motivo della sua identità o somiglianza col marchio comunitario e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio comunitario o dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione tra segno e marchio». Alla luce di tale normativa e delle considerazioni sopra svolte in tema di requisito della “novità”, il Tribunale conclude per la confondibilità dei marchi delle due aziende ritenendo così sussistente sia la fattispecie della contraffazione, sia quella di concorrenza sleale nell’accezione dell’”imitazione servile”. Viene evidenziato in particolare come la valutazione del “rischio di confusione” tra marchi vada condotto in via “globale e sintetica”, ovvero secondo lo stesso paradigma che seguirebbe un consumatore di ordinaria diligenza nella fase di acquisto del prodotto. In relazione poi alla problematica della confondibilità del nome a dominio, poiché ai sensi dell’art. 22 cpi,«è vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito usato nell’attività economica o altro segno distintivo un segno uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione tra i due segni (…)». In considerazione di ciò e del rischio confusione, soprattutto per associazione, il Tribunale ha ordinato la riassegnazione del nome a dominio in capo all’attrice. Quest’ultima ha chiesto inoltre la

condanna generica al risarcimento del danno conseguente agli atti di concorrenza sleale sopra descritti. Il Tribunale sotto tale profilo ha ritenuto di aderire all’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 3478/2009 secondo cui «in tema di repressione degli atti di confusione posti in essere mediante specifici atti di concorrenza sleale (art. 2598 cod. civ.) ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni, non si richiede che un danno sia stato già prodotto in relazione ad un’attività concorrenziale in atto, essendo invece sufficiente una situazione di concorrenza potenziale». Il Tribunale adito pertanto in accoglimento delle domande proposte dall’attrice ha in definitiva accertato e dichiarato: 1). La nullità della registrazione italiana del marchio; 2) la contraffazione del marchio comunitario per effetto della produzione, offerta in vendita e pubblicizzazione di prodotti contrassegnati dal marchio italiano contraffatto; 3) la natura di atto di concorrenza sleale ex art. 2598 nn. 1 e 3 cod. civ. disponendo per l’effetto l’inibizione della prosecuzione delle attività illecite dirette alla commercializzazioni di prodotti contrassegnati al marchio contraffatto. Il Giudice adito ha inoltre: ordinato il ritiro dal mercato dei prodotti contraffatti disponendo una penale di euro 30,00 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza; ordinato la riassegnazione del nome a dominio all’attrice; condannato la convenuta al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio; e, infine, disposto la pubblicazione della sentenza sulla rivista Largo Consumo, la trasmissione della sentenza all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e la condanna della convenuta alle spese di lite.

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fisco

Key Enabling Technologies e R&S a supporto dello sviluppo: nuove agevolazioni dal Mise Oltre 560 milioni di euro, suddivisi per aree geografiche di destinazione: 287,6 milioni per le regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), 100 milioni per quelle in transizione (Abruzzo, Molise e Sardegna) e 175,1 milioni per le restanti

Giuseppe Arleo dottore commercialista giuseppearleo@libero.it

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l Ministero dello Sviluppo Economico, nell’ottica di promuovere l’innovazione delle imprese sul territorio nazionale attraverso una destinazione di risorse finanziarie verso quei settori che meglio garantiscono la crescita in termini di prodotti e di processi produttivi, con un aumento della competitività, ha individuato precisi KETs, Key Enabling Technologies ovvero Tecnologie Abilitanti Fondamentali in settori di particolare interesse per le specializzazioni manifatturiere nel territorio nazionale. I KETs sono fondamentali per lo sviluppo industriale del nostro Paese, individuabili nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nanotecnologie, materiali avanzati, biotecnologie, fabbricazione e trasformazione avanzate e spazio. Le tecnologie innanzi dette hanno sicuramente ricaduta nei settori applicativi della Strategia nazionale di specializzazione intelligente

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relativi a: “Fabbrica intelligente”, “Agrifood” e “Scienze della vita” e, pertanto, meritevoli dell’attenzione del Mise attraverso un nuovo intervento finalizzato ad ottenere agevolazioni in favore di progetti di ricerca industriale e sviluppo sperimentale (R&S) per un plafond complessivo di ben 560 milioni di euro. “Fabbrica Intelligente” concerne i processi produttivi e la loro automazione, la gestione integrata della logistica di rete, tecnologie di produzione di prodotti realizzati con nuovi materiali, sistemi di produzione evolutivi e adattivi, la meccatronica, la robotica, le tecnologie di informazione e comunicazione volte a virtualizzare i processi produttivi e di trasformazione. Agrifood, invece, riguarda soluzioni tecnologiche per lo sviluppo dell’agricoltura di precisione e di quella sostenibile, la produzione, conservazione, tracciabilità e qualità degli alimenti, il tutto riconducibile all’agricoltura e settori annessi. In-

teressa infatti anche l’industria del legno, quella meccano-alimentare, il packaging e, per finire, l’industria di trasformazione alimenti e bevande, la nutraceutica, la nutri-genomica. Il settore Scienze della Vita comprende, infine, tutte quelle discipline che studiano gli organismi viventi, dall’uomo agli animali alle piante, biotecnologie, bioinformatica e sviluppo farmaceutico, medicina rigenerativa, diagnostica avanzata. Il Mise ha previsto uno stanziamento fondi diverso a seconda delle aree geografiche. Nelle regioni individuate come meno sviluppate - ovvero Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia e Puglia - sono stati stanziati 287,6 milioni di euro. In quelle considerate di “transizione” - ovvero Molise, Abruzzo e Sardegna - sono stati stanziati invece 100 milioni euro, mentre nelle rimanenti sono stati stanziati 175,1 milioni di euro, ripartizione motivata dal fatto che ci sono aree nelle


quali è maggiormente avvertito un bisogno concreto e reale di R&S al fine di ridurre il gap delle imprese presenti su questi territori rispetto a quelle oramai proiettate sul mercato globale. Sono finanziabili i progetti che prevedono la realizzazione di attività di R&S finalizzata alla realizzazione di nuovi prodotti e processi produttivi o al miglioramento dei prodotti e processi già esistenti tramite lo sviluppo di tecnologie. I progetti possono essere presentati dalle imprese iscritte al registro delle imprese che esercitano attività di produzione beni e/o servizi e relative attività ausiliarie, attività di trasporto per mare o per terra, attività di intermediazione nella circolazione dei beni e relative attività ausiliarie; imprese che esercitano attività agro-industriali ma con prevalenza di industria; i centri di ricerca. C’è inoltre la possibilità ulteriore di presentare progetti congiunti anche tra centri di ricerca e imprese, oltre che tra imprese sopraindicate, utilizzando lo strumento del contratto di rete o forme comunque contrattualizzate che consentano di presentare progetti in maniera congiunta, il tutto a ragione di una reale, stabile e coerente collaborazione tesa alla realizzazione

del progetto presentato. Oggetto del finanziamento sono le spese e i costi sostenuti per l’attività di ricerca industriale e sviluppo sperimentale; nella fattispecie, come parametro - al fine di quantificare le voci di spesa all’interno del progetto - si è stabilito di avere la tabella dei costi standard unitari per le spese del personale dipendente dei progetti di ricerca e sviluppo all’interno dei Programmi Operativi Fesr 2014-2020. Nei limiti di quanto stabilito dal Regolamento Generale di Esenzione per Categoria, il GBER, dal 2014 attuato dall’Ue al fine di semplificare le procedure degli aiuti di Stato quando perseguono interessi nazionali come la creazione di posti di lavoro e l’aumento della competitività, le agevolazioni sono concedibili sotto forma di contributo alla spesa e finanziamento agevolato in cui sia il rimborso degli interessi di preammortamento, sia delle rate di ammortamento verrà disciplinato da un apposito provvedimento da parte del Mise in attesa di pubblicazione. La Commissione Europea, inoltre, si riserva di autorizzare i contributi qualora i progetti siano di entità più elevata. Nella fattispecie, in merito alle attività di ricerca industriale se il progetto supera i 20 milioni

di euro, così come per le attività di ricerca industriale se l’importo del progetto sia superiore a 15 milioni di euro, in entrambi i casi importi presi in maniera singola se a partecipare sono più imprese al progetto. La procedura valutativa, inoltre, è duplice. Essa può essere negoziale per progetti tra i 5 e i 40 milioni, presentati su tutto il territorio nazionale e regolamentati quindi, con tale procedura, a seconda degli Accordi per l’innovazione decreto 24 maggio 2017. La procedura, invece, è a sportello per i progetti tra gli 800mila euro e i 5 milioni di euro se presentati nelle regioni meno sviluppate e quelle in transizione. Nelle valutazioni fatte, oltre alla bontà delle proposte, sarà privilegiato l’ordine di arrivo dei progetti. Sicuramente l’obiettivo del Mise è di alto respiro e teso alla valorizzazione di settori ritenuti strategici per la nostra economia. Una opportunità da cogliere specie al Sud, perché grazie al potenziamento delle attività di Ricerca & Sviluppo si potrà avere uno sviluppo armonico e in un periodo ragionevolmente non lungo, con il riflesso non secondario di vedere incrementato l’indotto economico in regioni ad oggi ancora purtroppo viste come svantaggiate.

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fisco

Pignoramenti e diritto di difesa del contribuente La Consulta estende l’ambito di applicazione delle opposizioni all’esecuzione in materia tributaria

di Maurizio Villani e Alessandro Villani studio tributario Villani avvocato@studiotributariovillani.it www.studiotributariovillani.it

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a Corte Costituzionale, con la sentenza n. 114 del 31/05/2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 57, comma 1, lett. a), del D.P.R n. 602/1973 (recante disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) come sostituito dall’art. 16, D.lgs. n. 46/1999, nella parte in cui non prevede, per le controversie relative agli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento, le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c.. Con tale pronuncia la Consulta è finalmente intervenuta a colmare una carenza che incideva in senso limitativo sul diritto di difesa del contribuente, laddove a seguito di un pignoramento illegittimo subito dal Fisco, non era possibile contestare l’esecuzione di tale

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pretesa ex art.615 c.p.c., fatta eccezione per quella concernente la pignorabilità dei beni. E invero, prima della sentenza in commento, il contribuente che riceveva un pignoramento dall’Agente della Riscossione poteva proporre opposizione alla procedura esecutiva davanti al giudice ordinario limitatamente alla impignorabilità del bene (ad esempio in quanto bene intestato ad altro soggetto) ma, qualora avesse voluto contestare la pretesa dell’Ufficio nel merito (ad esempio nel caso di prescrizione del credito o della sua estinzione per rottamazione dei ruoli), non gli era consentito ricorrere allo strumento difensivo dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., in quanto non ammesso nel processo tributario se non per i casi di impignorabilità del bene. Il caso posto all’attenzione del Giudice delle Leggi trae origine da questioni di illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 57, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 602/1973, sollevate con diverse ordinanze dai Tribunali di Sulmona e Trieste che, nell’ambito di giudizi di esecuzione aventi

per oggetto pignoramenti presso terzi attivati da Equitalia, avevano ipotizzato possibili contrasti della norma impugnata con alcuni precetti costituzionali. In particolare, a parere dei giudici rimettenti, la limitazione posta dall’art. 57 cit. si poneva in contrasto con l’inviolabile diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., non avendo, di fatto, il contribuente che subiva un pignoramento, la possibilità di difendersi se non per far valere l’impignorabilità dei beni, ma non anche per tutelarsi da esecuzioni illegittime; nonché dall’art. 113 Cost., in quanto la disposizione censurata limitava ed impediva la tutela del contribuente contro una determinata categoria di atti della PA e dei concessionari di quest’ultima. Si precisa fin da ora che, con la sentenza in oggetto, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Sulmona per carenza di motivazione; ritenendo, invece, ammissibili le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Trieste. In particolare, nei giudizi


pendenti innanzi al tribunale di Trieste una società, assoggettata a riscossione coattiva, dopo aver proposto in sede tributaria ricorso avverso sia l’avviso di accertamento, sia la cartella di pagamento e dopo aver chiesto la sospensione giudiziale dell’esecuzione degli atti impugnati, contestava, con atto di opposizione all’esecuzione ex art. 615 del Cpc, il diritto dell’Agente della riscossione di procedere a espropriazione forzata nella forma del pignoramento presso terzi, effettuato ai sensi dell’art. 72-bis del D.P.R. 602/1973. Tuttavia, questa rappresentava un’eccezione che non poteva essere fatte valere né davanti alle commissioni tributarie, poiché gli atti dell’esecuzione esulano dalla giurisdizione tributaria, né davanti al giudice ordinario per le limitazioni poste dal citato art. 57. Per tale motivo, il giudice rimettente ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 57 cit. nella parte in cui prevedeva l’inammissibilità delle opposizioni all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni, in quanto costringeva «il contribuente a subire in ogni caso l’esecuzione, ancorché ingiusta; con la sola possibilità di presentare ex post una richiesta di rimborso di quanto ingiustamente precetto dalla pubblica amministrazione, o suo concessionario per la riscossione, ovvero di agire per il risarcimento del danno». La Consulta, pertanto, ritenendo fondata la questione sollevata dal giudice rimettente di Trieste, ha dichiarato l’illegittimità

costituzionale dell’art. 57, comma 1 lett. a) del Dpr 602/73 perché in contrasto con il diritto della difesa del contribuente, esponendolo a subire sempre e comunque l’esecuzione intrapresa dall’Ufficio. In particolare, secondo il Supremo Consesso, in materia di opposizione all’esecuzione degli atti tributari, «(…) l’impossibilità di far valere innanzi al giudice dell’esecuzione l’illegittimità della riscossione mediante opposizione all’esecuzione, (…), confligge frontalmente con il diritto alla tutela giurisdizionale riconosciuto in generale dall’art. 24 Cost. e nei confronti della pubblica amministrazione dall’art. 113 Cost., dovendo essere assicurata in ogni caso una risposta di giustizia a chi si oppone alla riscossione coattiva». I Giudici costituzionali hanno ravvisato una carenza di tutela giurisdizionale nelle ipotesi in cui (non essendo possibile il ricorso al giudice tributario perché carente di giurisdizione) sussisteva la giurisdizione del giudice ordinario e l’azione esercitata dal contribuente doveva qualifi-

carsi come opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., poiché l’art. 57 cit. non ammetteva l’opposizione al diritto di procedere alla riscossione innanzi al giudice dell’esecuzione (essendo ammessa soltanto l’opposizione riguardante la mera regolarità formale del titolo esecutivo o degli atti della procedura).In forza di ciò la suddetta disposizione è stata dichiarata incostituzionale per diretta violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, con la conseguenza che nessun limite è posto ora al contribuente che intenda spiegare opposizione avverso l’esecuzione forzata intrapresa dall’egente della riscossione. In conclusione, questa importante decisione ha riportato sul piano della bilancia quell’evidente squilibro che per troppo tempo ha favorito i poteri del Fisco e limitato i diritti di difesa dei contribuenti, aprendo così nuove opportunità di difesa per il contribuente spesso costretto a subire danni ingiusti derivanti da un’azione esecutiva illegittima intrapresa dal Fisco.

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Innovazione Tecnologica, la Campania investe 45 milioni L’obiettivo è rafforzare la competitività del sistema produttivo regionale attraverso la concessione di agevolazioni, sotto forma di contributi in conto capitale, per la realizzazione di Programmi di Innovazione e Ricerca

Alessandro Sacrestano management consultant Sagit&Associati srl amministratore unico Assindustria Salerno Service srl asacrestano@studiosagit.it

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a Campania punta sull’Innovazione Tecnologica e investe ben 45 milioni di euro nella procedura di bando per il sostegno alle imprese del territorio nella realizzazione di studi di fattibilità (Fase 1) e progetti di trasferimento tecnologico (Fase 2) coerenti con la RIS 3. L’obiettivo, dichiarato dall’assessore regionale Valeria Fascione nell’ambito dell’incontro di presentazione del bando tenuto presso Confindustria Salerno lo scorso 25 giugno, è quello di rafforzare la competitività del sistema produttivo regionale attraverso la concessione di agevolazioni, sotto forma di contributi in conto capitale, per la realizzazione di Programmi di Innovazione e Ricerca. Il bando è articolato in due differenti fasi. Per la Fase 1 sono agevolati gli studi preliminari per MPMI (Micro Piccole Medie Imprese) per

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esplorare la fattibilità tecnica ed economica, la difendibilità intellettuale e il potenziale commerciale di idee innovative. I progetti della Fase 1 devono avere durata massima di 6 mesi. La Fase 2, di contro, è finalizzata al supporto di progetti anche collaborativi di sviluppo precompetitivo, trasferimento tecnologico da parte delle MPMI. I progetti della Fase 2 devono avere durata compresa tra i 6 e i 18 mesi. Per entrambe le Fasi possono presentare domanda le MPMI come classificate nell’Allegato I del regolamento UE n. 651/2014 che siano costituite alla data di presentazione della domanda, esclusivamente in forma singola. Relativamente alla Fase 2, le MPMI possono candidarsi anche in forma associata. Nel caso di forma associata le MPMI possono presentare domanda congiuntamente a uno o più Organismi di ricerca, che sostengano tra il 10%

e il 30% dei costi. Per la Fase 1, gli studi devono afferire ad una o più delle Traiettorie Tecnologiche Prioritarie rispetto ad uno o più domini tecnologici produttivi, così come individuate dal documento RIS 3 Campania, di cui alla DGRC n. 773/2016. Dei 45 milioni complessivi, 5 sono dedicati alla Fase 1. Gli studi ammissibili sono quelli con valore non inferiore a euro 50.000 e non superiori a 120.000. L’intensità di aiuto concedibile è pari al 60% della spesa per le medie imprese e al 70% per le piccole. Alla fase 2 sono, invece, destinati 40 milioni di euro, comprensivi di una dotazione di 10 milioni di euro riservata prioritariamente ai progetti riguardanti le traiettorie previste dalla RIS 3 in ambito Aerospazio e identificate come coerenti con gli obiettivi di Clean Sky 2. Per la Fase 2 sono ammissibili


progetti di spesa non inferiori a euro 500.000 e non superiori a 2.000.000. L’intensità di aiuto è pari, per la ricerca industriale, al 60% della spesa per le medie imprese e al 70% per le piccole. Per lo sviluppo sperimentale, invece, l’intensità di aiuto è al 35% della spesa per le medie imprese e al 45% per le piccole. È consentita una eventuale anticipazione fino al 40% dell’agevolazione concessa, dietro presentazione di fidejussione bancaria o assicurativa ed erogazione a saldo dietro presentazione della rendicontazione di spese effettivamente sostenute pari o superiori all’80% delle spese ammesse. Per la Fase 1 sono ammesse le

spese di personale (ricercatori, tecnici e altro personale ausiliario nella misura in cui sono impegnati nell’attività di ricerca) e i costi dei servizi di consulenza e di servizi equivalenti utilizzati esclusivamente ai fini dell’attività di ricerca. Il costo del personale impegnato nelle attività di ricerca e sviluppo è da calcolarsi in base al costo orario standard così come indicato nella dd 140 del 21/05/2018. Per la Fase 2 sono ammesse le spese di personale (ricercatori, tecnici e altro personale ausiliario nella misura in cui sono impegnati nell’attività di ricerca) e i costi relativi a strumentazione e attrezzature nel-

la misura e per il periodo in cui sono utilizzati per il progetto. Agevolati anche i costi della ricerca contrattuale, delle competenze tecniche e dei brevetti, acquisiti o ottenuti in licenza da fornitori esterni. Infine, le spese generali, calcolate nella misura forfettaria del 15% del totale delle spese del personale. Le domande di agevolazione dovevano essere presentate a mezzo PEC, all’indirizzo avvisotrasferimentotecnologico@pec.regione.campania.it a partire dalle ore 12 del 5 luglio 2018. La procedura di selezione delle domande è a “sportello valutativo” e durerà di regola 30 giorni dal termine di presentazione delle stesse.

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fisco

Transfer Pricing, dal MEF la guida alla sua determinazione Il valore di mercato deve essere ricercato attraverso la comparazione della transazione in esame con altre similari ma indipendenti e la verifica della corretta costruzione del relativo prezzo

Marco Fiorentino Fiorentino associati / Synergia Consulting Group marcofiorentino@fiorentinoassociati.it

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a corretta applicazione dei prezzi nelle transazioni internazionali tra imprese non indipendenti è un tema da sempre oggetto di grande attenzione da parte dell’Agenzia delle Entrate (AGE), dato l’elevato rischio che, attraverso tali operazioni, i gruppi multinazionali possano sottrarre dalla tassazione redditi prodotti in Italia. La disciplina dei prezzi di trasferimento (il cosiddetto “Transfer Pricing”) è un argomento molto delicato per ogni singolo Stato, in quanto è sempre difficile determinare con precisione la congruità dei prezzi, soprattutto quando le transazioni riguardano attività complesse o si svolgono su più mercati. Tutte le legislazioni fiscali prevedono specifiche norme sul Transfer Pricing, atte a contrastare il fenomeno della traslazione all’estero di redditi. La normativa italiana, ha subito nel corso dell’ultimo periodo, importanti mutamenti, allo scopo di uniformarsi al Modello Ocse di Convenzione contro le doppie

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imposizioni, ma è rimasta tuttavia ferma la norma fiscale fondamentale (comma 7 art. 110 TUIR), che i componenti di reddito (costi e ricavi), derivanti da operazioni con imprese estere correlate, devono essere determinati secondo le condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti, operanti in libera concorrenza e in circostanze comparabili. In buona sostanza, nei rapporti con soggetti non indipendenti esteri, i valori delle transazioni devono essere in linea con quelli di mercato. In tale contesto, si inserisce il Decreto MEF del 14 maggio 2018 (in seguito il “Decreto”) che ha fissato regole ben precise per la determinazione dei prezzi di trasferimento, ribadendo che il valore di mercato deve essere ricercato attraverso la comparazione della transazione in esame con altre similari ma indipendenti e la verifica della corretta costruzione del relativo prezzo. Innanzitutto, due operazioni si possono considerare comparabili tra

loro, quando (art.3 del Decreto): • non sussistono significative differenze, che possano incidere in maniera rilevante sull’indicatore finanziario prescelto (di cui in seguito), per determinare il prezzo di trasferimento più appropriato; • anche quando tali differenze sussistano, sia possibile effettuare aggiustamenti, che eliminino o riducano gli effetti sulla comparabilità. I parametri da utilizzare per la verifica della comparabilità sono i seguenti: • termini contrattuali delle operazioni; • analisi: delle funzioni svolte da ciascuna delle parti nelle operazioni, dei beni strumentali utilizzati, dei rischi assunti dalle parti, ecc.; • caratteristiche dei beni ceduti e dei servizi prestati; • situazione economica delle parti e condizioni di mercato in


cui operano; • strategie aziendali perseguite dalle parti. Una volta verificata la comparabilità delle operazioni da prendere a riferimento, occorre individuare i metodi più adeguati per la determinazione del prezzo di trasferimento (art.4 Decreto). I metodi (OCSE) applicabili sono: 1. confronto del prezzo (CUP): confronta i prezzi applicati in transazioni comparabili con terze parti; 2. prezzo di rivendita (resale): confronta il margine lordo ottenuto dall’acquirente correlato nella successiva rivendita a terzi, rispetto al margine lordo realizzato in operazioni comparabili; 3. costo maggiorato (cost plus): confronta il margine lordo realizzato sui costi diretti e indiretti sostenuti per la produzione di un bene o per la prestazione di un servizio con il margine lordo realizzato in operazioni comparabili; 4. margine netto della transazione (TNMM): confronta il rapporto tra il margine netto e un’altra grandezza scelta (es. costi, ricavi, attività) realizzato da una impresa in una operazione con controllata e il rapporto tra margine netto e la medesima grandezza scelta realizzato in operazioni con parti terze comparabili; 5. ripartizione degli utili (profit split): si basa sull’attribuzione a ciascuna impresa che partecipa ad un’operazione di una quota di utile, determinata in base alla ripartizione che sarebbe stata concordata in operazioni comparabili, tenendo conto

del contributo rispettivamente offerto da tutte le parti partecipanti all’operazione. Il Decreto ammette, in via residuale, la possibilità di applicare metodologie differenti ma, in tal caso, occorre provare, congiuntamente che: • nessuno dei metodi base può essere ragionevolmente applicato in base al tipo di transazione; • l’applicazione del metodo diverso conduce ad un risultato coerente a quello di transazioni comparabili indipendenti. I primi tre metodi sono definiti “tradizionali”, mentre gli altri due sono qualificati come “transazionali”. Ovviamente, ogni metodo ha punti di forza e di debolezza tecnica e a tal proposito si evidenzia che, sebbene gli standard Ocse non prevedano più un rigido criterio gerarchico di scelta e indichino solo una mera preferenza per il metodo CUP, il legislatore italiano ha precisato che, laddove sia garantito lo stesso grado di affidabilità, la scelta deve ricadere sui metodi tradizionali e sul CUP in particolare. Ove il processo di analisi sia condotto correttamente, il legislatore ha stabilito che: • l’Amministrazione Finanziaria nelle sue verifiche, ha l’obbligo di applicare il metodo adottato dal contribuente; • qualunque valore all’interno dell’intervallo di valori ottenuti con il metodo prescelto, rappresenta un valore conforme al principio di libera concorrenza. Tale ultimo inciso è particolarmente significativo, in quanto la prassi più consolidata dell’Amministrazione Finanziaria considera come unico valore corretto, quello della mediana (ovvero il punto centrale dell’intervallo), disconoscendo tutti gli altri.

Infine, allo scopo di semplificare la procedura, il legislatore ha previsto che, per l’addebito dei costi per i servizi resi a supporto delle correlate, non costituenti il core business del gruppo e tipicamente a basso valore aggiunto (cost sharing), la valorizzazione può essere fatta aggregando tutti i costi (diretti e indiretti) connessi a tali servizi e aggiungendo un margine di profitto pari al 5 per cento. Sono considerati a basso valore aggiunto quei servizi che: • sono non core e di supporto; • non richiedono l’utilizzo di beni immateriali unici e di valore e non contribuiscono alla creazione degli stessi; • non comportano l’assunzione o il controllo di un rischio significativo da parte del fornitore del servizio. Un ultimo cenno agli oneri documentali. Come è noto, la norma - riconoscendo una certa aleatorietà nei processi valutativi di questa natura - prevede la possibilità di una protezione dalle sanzioni fiscali (penalty protection) in caso di contestazioni da parte dell’AGE, laddove la TP policy sia supportata da idonea documentazione, rappresentata dai cosiddetti “Master file” e “Country File”. Allo scopo di evitare che l’AGE possa contestare l’idoneità della documentazione - facendo quindi decadere la penalty protection - non per ragioni attinenti ai documenti stessi ma per il sol fatto di non condividere le scelte del contribuente su metodi e comparables, il Decreto precisa che la documentazione è adeguata, quando fornisce i dati necessari ad effettuare le analisi di rito, a prescindere dalla circostanza che le scelte risultino poi diverse da quelle effettuate dall’Amministrazione Finanziaria.

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lavoro

Trasferimento del lavoratore: quando non vi è abuso da parte del datore di lavoro? La condotta è legittima se eseguita in piena trasparenza, correttezza e buona fede

Massimo Ambron avvocato avv.massimoambron@fastwebnet.it

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a Corte di Cassazione - con sentenza n. 15885 del 15 giugno 2018 - si è pronunciata sul trasferimento di alcuni lavoratori, stabilendo i criteri in base ai quali quest’ultimo non costituisce un abuso del diritto da parte del datore di lavoro. Il fatto. Undici lavoratori, dipendenti di una Società operante nel settore dell’ingegneria e dell’impiantistica, adivano la Corte di Appello di Roma per chiedere la riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Frosinone che aveva rigettato la loro domanda di illegittimità dei licenziamenti disciplinari comminati dalla Società in seguito al rifiuto di ottemperare all’ordine di trasferimento in altre sedi imposto dal datore di lavoro. Nella richiesta di riforma della sentenza di primo grado, i dipendenti eccepivano la violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte del datore di lavoro, in quanto quest’ultimo avrebbe forzato la

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scelta dei lavoratori, prospettando due alternative. Nello specifico: il trasferimento presso la nuova sede produttiva, dislocata lontano e in luogo disagiato rispetto alla unità operativa dove operavano i dipendenti, oppure la sottoscrizione di un verbale di conciliazione tramite il quale veniva corrisposta una indennità risarcitoria a fronte dell’accettazione del licenziamento. La Corte di Appello di Roma non ha ravvisato alcuna violazione dei principi succitati, in quanto «la circostanza che il trasferimento fosse stato disposto in sedi lontane e disagiate non implicava di per sé, in assenza di ulteriori allegazioni, la illegittimità del provvedimento». La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dagli 11 lavoratori stabilendo che «l’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un

risultato lecito attraverso mezzi legittimi». È ravvisabile, invece, quando il datore di lavoro, anche se in assenza di divieti formali, eserciti il diritto secondo modalità che si pongono in contrasto con i principi di correttezza e buona fede per ottenere un risultato ulteriore e diverso rispetto a quello previsto dalla legge, oltre a richiedere ai lavoratori sacrifici spropositati e ingiustificati. La condotta tenuta dalla Società, secondo la Suprema Corte, era da ritenersi legittima, in quanto le opzioni prospettate sono state eseguite in piena trasparenza, così da permettere ad ogni singolo lavoratore di scegliere se trasferirsi in altra sede o accettare la risoluzione contrattuale a fronte di una indennità di denaro. In conclusione, le misure adottate dal datore di lavoro - in contrasto con l’interesse del dipendente - non configurano in maniera automatica un abuso del diritto qualora siano state adottate in piena trasparenza e correttezza.


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mercati

Dalla teoria alla pratica: la redazione del piano export Un progetto di internazionalizzazione avrà tante più possibilità di riuscita quanto più verranno messi preventivamente su carta i comportamenti da adottare, strutturandoli, studiandoli e condividendoli con un gruppo di lavoro dalle capacità trasversali

Fabrizio Ceriello consulente per l’internazionalizzazione delle imprese info@studioceriello.com

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roprio mentre questo numero di Costozero va in stampa, c’è la possibilità per le MPMI (Micro Piccole e Medie Imprese) campane di accedere a 15 milioni di euro messi a disposizione dalla Regione Campania per lo sviluppo del business aziendale all’estero. Oltre al rispetto dei requisiti previsti dal bando, nonché alla tempestività della richiesta (click day previsto per il prossimo 13 luglio), ciò che realmente consentirà alle aziende di accedere alla possibilità di vedersi finanziare (a fondo perduto) il 70% del proprio progetto è la costruzione di un piano export che consenta al nucleo di valutazione della Regione di constatare una coerenza tra gli obiettivi fissati, la strategia che si intende adottare per il loro conseguimento e le risorse (finanziarie, tecniche ed umane) aziendali messe a disposizione del progetto. Le MPMI hanno poca attitudine a mettere per iscritto l’idea imprenditoriale, prese dall’operatività

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quotidiana e dalla volontà di cogliere le opportunità che si presentano talvolta anche casualmente e finendo col pensare che per operare con l’estero ciò sia sufficiente. Tuttavia, un progetto di internazionalizzazione - intesa come la capacità di penetrare nuovi mercati e presidiarli stabilmente - avrà tante più possibilità di riuscita quanto più vengono messi preventivamente in evidenza alcuni aspetti connessi a tale progetto. Diventa quindi fondamentale costruire un piano export che possa rappresentare una fondamentale cartina di tornasole per chi, all’interno dell’azienda, svilupperà tale progetto, oltre a costituire il modo migliore per presentare ad interlocutori esterni l’idea imprenditoriale per la quale si chiede, in questo caso, un supporto finanziario. L’internazionalizzazione non è una mera espansione geografica dei mercati ma una vera e propria nuova filosofia che si fa strada nell’impresa; necessita di comportamenti struttu-

rati, studiati, condivisi da un gruppo di lavoro con capacità trasversali. Ciò comporta per le imprese che guardano ai mercati internazionali la necessità di assumere comportamenti non più improvvisati, ma studiati attentamente e soprattutto sviluppati da operatori capaci di riorganizzare le strategie aziendali compiendo talvolta operazioni complesse, che richiedono conoscenze e risorse specifiche per individuare ed esplorare mercati, selezionare partner, scegliere e gestire strategie logistiche, stipulare contratti e valutare i rischi di mercato. Il tutto finalizzato a costruire politiche di offerta adeguate alle caratteristiche dei singoli mercati che puntino ora sul prodotto, ora sul servizio, ora sulla distribuzione, l’assistenza o sull’immagine aziendale. Non predisporre un piano export, quindi, rappresenta un evidente errore di strategia, poiché si accetta il rischio di andare su nuovi mercati senza aver acquisito le dovute


informazioni. La redazione di un piano export, momento chiave per lo sviluppo dei mercati esteri, è rappresentata da una serie di attività che l’azienda deve sviluppare in maniera organica e strutturata. Tutte le operazioni determineranno poi quella che sarà la politica di distribuzione prescelta, ultimo tassello di una logistica dell’export non lasciata al caso. Sebbene non esista un modello unico per presentare la propria idea – dal momento che ogni azienda e ogni progetto sono unici - possiamo ipotizzare una metodologia generale che ogni impresa deve sapersi cucire addosso. Il piano export deve articolarsi lungo una serie di fasi collegate tra loro e coordinate dall’export manager che dovrà essere in grado di avere una visione di insieme dell’intero processo di espansione sui mercati esteri. La metodologia condivisa cui facciamo riferimento deve partire da una valutazione condotta sulla struttura aziendale: l’approccio ai mercati esteri, infatti, va subordinato ad una preventiva analisi delle capacità dell’impresa - dal punto di vista tecnico, finanziario e delle risorse umane - di governare i processi di internazionalizzazione e dell’essere in grado di proporre le risposte che i mercati si attendono sotto forma di prodotti e servizi. Solo successivamente si può iniziare a valutare l’ingresso in nuovi mercati, studiandoli - sia dal punto di vista macroeconomico che a livello del proprio settore di interesse - dal momento che i mercati lanciano informazioni precise che occorre saper trovare, selezionare, analizzare e utilizzare al fine di evidenziare la reale attrattività di quel determinato mercato. Questa attività di studio dei

mercati fornisce altresì informazioni relative alle modalità di entrata - sulla base dell’investimento finanziario che l’azienda è disposta a sostenere - oltre a far comprendere quelle che sono le opportunità e le minacce che l’azienda si troverà ad affrontare nel realizzare il suo progetto di penetrazione commerciale. Laddove l’azienda non disponga di competenze interne per la costruzione di un piano export, gli sportelli delle associazioni possono costituire

un valido punto di riferimento per quanto riguarda l’assistenza sui mercati dal punto di vista dell’attrattività e della ricerca di opportunità commerciali. Il parere e il supporto di consulenti esperti possono rivelarsi utili per risolvere criticità troppo tecniche e cercare informazioni mirate e puntuali. Vediamo nello schema che segue quella che può essere considerata una valida serie di operazioni da compiere per la realizzazione di un piano commerciale export.

1. DECISIONE L’azienda esprime la scelta di dedicare risorse allo sviluppo di un mercato estero. 2. ANALISI DELLE RISORSE AZIENDALI Attività di Export Check Up. Si tratta di valutare le risorse produttive, tecnologiche, umane, finanziarie e commerciali disponibili per attuare il programma. 3. RICERCA DI OPPORTUNITÀ In questa fase vengono raccolte e analizzate le informazioni sulle caratteristiche dei vari mercati per individuare gli spazi competitivi. 4. VALUTAZIONE DELLE ALTERNATIVE DI PENETRAZIONE Vengono esaminate le modalità di ingresso nel mercato estero individuato e, a seconda degli obiettivi, dell’esperienza e della struttura aziendale, si valuterà quale forma preferire per entrare nel nuovo mercato. 5. DEFINIZIONE DEI PREZZI L’azienda stabilisce le politiche di prezzo da adottare in funzione della sua posizione competitiva. 6. SCELTA DELLE FORME PROMOZIONALI Vengono definiti la strategia di comunicazione dell’azienda, le iniziative promozionali e gli obiettivi di immagine. 7. MESSA A PUNTO DEL PIANO DI AZIONE Tutte le decisioni relative all’ingresso nel mercato estero obiettivo vengono riassunte in un piano operativo che ne definisce i tempi di attuazione e i costi. 8. ORGANIZZAZIONE DELL’ATTIVITÀ EXPORT Si stabiliscono le responsabilità individuali nella realizzazione dei vari punti del programma. 9. REALIZZAZIONE DEL PROGRAMMA Con l’esatta individuazione dei ruoli e dei passi da compiere, sotto la supervisione dell’Export Office Manager, si portano avanti le attività stabilite. 10. REVISIONE DEL PROGRAMMA Sulla base di scadenze prefissate si effettuano verifiche sui risultati raggiunti e, se necessario, si apportano variazioni al programma originario.

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ricerca

Ricerca e innovazione per una maggiore sostenibilità delle materie plastiche L’esperienza di costante impegno del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Ateneo Salernitano che ha sviluppato, nel tempo, competenze di altissimo livello sui materiali per il packaging, sulle tecnologie di trasformazione, di riciclo e lo sviluppo sperimentale di sistemi di imballaggio a ridotto impatto ambientale

Luciano Di Maio professore associato di scienza e tecnologia dei materiali, Università degli Studi di Salerno ldimaio@unisa.it

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impatto ambientale dei materiali plastici rappresenta un argomento cha ha da sempre polarizzato l’attenzione di tutti. Negli ultimissimi tempi l’allarme legato alla diffusione nell’ambiente (soprattutto in quello marino) di materiali e di sostanze connesse al degrado dei materiali polimerici è salito a livelli altissimi. Ciò ha determinato chiare prese di posizione degli organismi di controllo a livello comunitario che comporteranno, in tempi brevi, l’assunzione di misure per limitare la diffusione e l’immissione incontrollata nell’ambiente di materiali polimerici. È infatti recentissima la proposta di una direttiva (prossimamente in discussione presso la Commissione Europea) per la messa al bando di molti prodotti in materiale plastico (primi fra tutti gli “usa e getta”) e per una gestione più responsabile dei rifiuti plastici che investe soprattutto i produttori i quali dovranno preoccuparsi del “fine vita” dei

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manufatti messi in commercio. La eco-sostenibilità dei materiali polimerici rappresenta pertanto una materia di studio che ha stimolato fortemente la ricerca scientifica industriale e accademica. A tal proposito, il Dipartimento di Ingegneria Industriale (D.I.In.) dell’Università di Salerno rappresenta un punto di riferimento nazionale per il suo impegno costante nella ricerca nel campo dei materiali polimerici. In particolare i ricercatori del gruppo di Scienza e Tecnologia dei Materiali del D.I.In. hanno sviluppato competenze di altissimo livello sui materiali per il packaging, sulle tecnologie di trasformazione, di riciclo e lo sviluppo sperimentale di sistemi di imballaggio a ridotto impatto ambientale. La ricerca e l’innovazione in tema di sostenibilità riguardano soprattutto lo studio dei polimeri biodegradabili e il riciclo delle plastiche, argomenti oggetto di numerosi lavori pubblicati su riviste internazionali, sviluppati

nell’ambito di diversi progetti di ricerca. Va ad esempio ricordata la collaborazione con il Corepla (Consorzio Nazionale per la Raccolta, il Riciclaggio e il Recupero degli Imballaggi in Plastica) che ha individuato nel gruppo di ricerca del D.I.In. un partner di riferimento per attività di ricerca e sviluppo mirate allo studio di nuove soluzioni per il recupero e la gestione degli imballaggi in plastica. Tale collaborazione, condotta dal gruppo di Scienza e tecnologia dei Materiali a partire dal 2016 e tuttora in corso, punta a determinare le migliori strategie e tecnologie per aumentare il recupero e l’utilizzo di polimeri riciclati provenienti dalla raccolta degli imballaggi flessibili attraverso lo sviluppo di nuove tecniche di processo e compatibilizzazione dei polimeri riciclati e lo studio di nuove possibili applicazioni per i polimeri da riciclo. Tra le tecniche in corso di sperimentazione presso il D.I.In. utili a modificare e migliorare le proprietà dei materiali polimerici


termoplastici, ivi compresi i polimeri post-consumo, l'uso delle nanotecnologie ha assunto negli ultimi anni un ruolo chiave. Infatti, stanno di recente assumendo sempre maggiore rilevanza le tecnologie di produzione di sistemi termoplastici nanocompositi come dimostrato dal numero in continua crescita dei lavori scientifici dedicati sia allo studio e messa a punto dei metodi di realizzazione dei sistemi nanocompositi a matrice termoplastica, sia alla comprensione degli effetti delle nanocariche sulla morfologia e le proprietà di tale nuova classe di materiali. Le nanotecnologie rappresentano, inoltre, una via sempre più utilizzata per conferire nuove funzionalità ai materiali tra i quali, nell’ambito degli interessi scientifici del gruppo di ricerca, vanno ricordati i film polimerici per l’imballaggio alimentare. L'industria del packaging alimentare è infatti sottoposta a crescenti pressioni per soddisfare l’incremento della domanda di sistemi di confezionamento sempre più evoluti e performanti. In questo ambito, le sfide che la ricerca scientifica è chiamata ad affrontare sono anche legate alle sempre più rigorose normative sulla sicurezza alimentare e, anche sulla base delle precedenti considerazioni, si è ultimamente generata una maggiore attenzione, da parte dei consumatori, per la sostenibilità dei materiali utilizzati per l’imballaggio. Tra le possibili soluzioni emergono indiscutibilmente due linee strategiche rappresentate dall’utilizzo di polimeri biodegradabili e dallo sviluppo di packaging attivi ad alta efficienza e riciclabilità costituiti da sistemi multistrato prodotti per coestrusione (una tecnica industriale che consente la produzione di film

Struttura di un film multistrato a base di polimeri ecocompatibili sviluppato presso il D.I.In.

polimerici multistrato evitando processi come la laminazione). In tutti i campi precedentemente citati, il gruppo di ricerca di Scienza e Tecnologia dei Materiali del D.I.In. ha negli ultimi anni potenziato le proprie competenze tecniche e scientifiche basate non solo sulle continue esperienze fatte “sul campo” collaborando con aziende del settore e con enti di riferimento nazionali e internazionali (Istituto Superiore di Sanità, Corepla, Fraunhofer Institute ad esempio), ma soprattutto grazie alla acquisizione e al continuo aggiornamento delle apparecchiature presenti nei laboratori ubicati nel Campus di Fisciano. In particolare le attività di ricerca vengono sviluppa-

te presso il D.I.In. con un approccio “globale” partendo dalla caratterizzazione chimico - fisica - reologica delle materie prime fino all’analisi delle prestazioni dei manufatti (che vengono studiati, ad esempio, per verificare le caratteristiche meccaniche o l’efficacia di nuovi sistemi di imballaggio a barriera attiva). Ciò è reso possibile dalla disponibilità presso gli spazi del Campus di Fisciano di impianti pilota che consentono di riprodurre in laboratorio i processi industriali di trasformazione delle materie plastiche (estrusione, compounding, processi di produzione di film coestrusi in bolla e cast) e che rendono decisamente peculiari le “expertise” del gruppo di ricerca.

Uno degli impianti di coestrusione per la produzione di film in bolla multistrato in dotazione al D.I.In.

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sicurezza

Il benessere organizzativo negli ambienti di lavoro La motivazione, la collaborazione, il coinvolgimento, la corretta circolazione delle informazioni, la flessibilità e la fiducia delle persone sono tutti elementi che portano a migliorare la salute mentale e fisica dei lavoratori, la soddisfazione dei clienti e degli utenti e, in via finale, ad aumentare la produttività di Adriano Papale - medico ricercatore Inail dipartimento medicina, epidemiologia e igiene del lavoro e ambientale | sezione supporto alla prevenzione a.papale@inail.it

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on "benessere organizzativo" si intende «la capacità dell’organizzazione di promuovere e mantenere il benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori per tutti i livelli e i ruoli» (Avallone e Bonaretti, Benessere Organizzativo, 2003). Studi e ricerche sulle organizzazioni dimostrano che le strutture più efficienti sono quelle con dipendenti soddisfatti e un “clima interno” sereno e partecipativo. La motivazione, la collaborazione, il coinvolgimento, la corretta circolazione delle informazioni, la flessibilità e la fiducia delle persone sono tutti elementi che portano a migliorare la salute mentale e fisica dei lavoratori, la soddisfazione dei clienti e degli utenti e, in via finale, ad aumentare la produttività. Il concetto di benessere organizzativo si riferisce, quindi, al modo in cui le persone vivono la relazione con l'organizzazione in cui lavorano. Tanto più una persona sente di appartenere all'organizzazione, perché ne condivide i valori, le pratiche, i linguaggi, tanto più trova motivazione e significato nel suo lavoro.

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Promuovere la salute dell’organizzazione comporta l’adozione di una strategia complementare a quella della tutela della salute. Si tratta di unire i risultati conseguenti alle azioni congiunte compiute dalle parti rappresentanti il datore di lavoro e dai lavoratori per migliorare la salute e il benessere lavorativo. Le aree da potenziare e migliorare riguardano l’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro: la maggior partecipazione dei lavoratori ad azioni salutari all’interno dei luoghi di lavoro; il controllo degli stili di vita con la conseguente promozione di scelte sane; l’incoraggiamento alla crescita personale e alla motivazione dei lavoratori

a partecipare al miglioramento dell’organizzazione del loro lavoro e dell’ambiente sociale e fisico in cui lavorano. È utile garantire forme di flessibilità oraria, l’opportunità di apprendimento permanente (long life training), spazi di socializzazione e, complessivamente, un ambiente di lavoro che promuova il benessere psicosociale. Tutte le fasi di riforma della normativa relativa alla salute e sicurezza dei lavoratori, a partire dagli anni Novanta, si caratterizzano per una lenta, ma progressiva, attenzione alla “persona” quale risorsa in grado di garantire il buon funzionamento dell’organizzazione. Altro fattore di novità è l’attenzione al benessere di chi lavora, che ovviamente comprende in sé non solo prevenzione e lotta alle discriminazioni, ma anche il contrasto ad ogni forma di violenza e molestia, sia fisica che psicologica. Qui entra in campo il tema del benessere organizzativo con tutto ciò che ne consegue, non ultimo il riferimento all’etica che deve improntare il comportamento dei lavoratori e connotare l’operato e le scelte delle aziende.


Occuparsi del benessere di un’organizzazione è qualcosa di complesso che richiede di superare il binomio individuo-organizzazione, per rivolgere lo sguardo verso una visione capace di pensare al benessere come ad un fattore multidimensionale e dinamico, fortemente ancorato al contesto di riferimento, al quale concorrono non solo aspetti quali il comfort dell’ambiente di lavoro, la sicurezza e la prevenzione degli infortuni, ma anche aspetti quali le relazioni interpersonali, la soddisfazione lavorativa e la motivazione, la circolazione delle informazioni, le relazioni con i vertici. L’ottimizzazione del benessere psico-fisico del lavoratore passa attraverso diverse azioni: • riscontrare le discriminazioni di genere spesso “indirette” e, perciò, trasversali e non facilmente rilevabili rispetto alle altre; • contrastare le discriminazioni oltreché di genere, anche di età e disabilità tra i dipendenti; • predisporre piani di azioni positive che favoriscano l'uguaglianza sul lavoro tra uomini e donne; • promuovere iniziative e strumenti flessibili, come telelavoro, part-time, lavoro agile, utili ad attuare politiche di conciliazione tra vita privata e lavoro ampliando la diffusione della cultura delle pari opportunità; • sostenere le iniziative relative al contrasto alle discriminazioni che accrescano il “benessere organizzativo”; • formulare piani di formazione del personale, intervenire sugli orari di lavoro, sulle forme di

flessibilità lavorativa, nonché sui criteri di valutazione del personale e attuare interventi di conciliazione. Lo stress legato all’attività lavorativa, quando eccessivo, può alterare il modo in cui una persona si sente e si comporta all’interno dei processi organizzativi, provocando un danno all’intera organizzazione. Pertanto, considerare il problema del work related stress anche dal punto di vista del work life balance può essere decisivo per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme. Pilastri del benessere organizzativo sono le pari opportunità per tutti, l’eliminazione delle discriminazioni e la valorizzazione delle diversità nei luoghi di lavoro. Un ambiente di lavoro in cui le persone sono trattate in modo giusto, equo e con rispetto favorisce il benessere lavorativo. Per i lavoratori, ad esempio, che cercano un compromesso tra famiglia e carriera, oppure devono gestire una disabilità, l’obiettivo dovrà essere quello di creare le condizioni

affinché ognuno riesca ad esprimere pienamente il proprio potenziale professionale. Valorizzando la diversità ed eliminando le discriminazioni, si può creare un clima organizzativo con relazioni positive tra e con i dipendenti, clima che può ridurre fenomeni quali assenteismo e turnover, rafforzare l’impegno dei dipendenti e migliorare di conseguenza la produttività. Il “benessere lavorativo” non è solo quello organizzativo, ma deve avere una visione più ampia, includendo anche tutti quegli aspetti sugli interventi messi in atto, al fine di favorire abitudini di vita e comportamenti che favoriscono il benessere della persona (promozione della salute). È particolarmente importante favorire un ruolo attivo del medico competente nell’orientare i lavoratori verso scelte e comportamenti favorevoli alla salute e nel contrastare stili di vita dannosi, come l’abitudine al fumo, l’abuso di alcol e di altre sostanze, l'alimentazione non corretta, la sedentarietà. Il medico competente, ai sensi dell’art. 25 del D.Lgs., 81/08, ha la facoltà di collaborare all’attuazione di programmi di promozione della salute.

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salute

Antonino Di Pietro direttore dell’istituto dermoclinico Vita Cutis www.antoninodipietro.it | www.istitutodermoclinico.com

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Estate, è tempo di micosi

Favorite da caldo, umidità e sudore, le manifestazioni più tipiche del contagio sono macchie sulla pelle, desquamazioni, arrossamento e prurito. Non sono difficili da risolvere, a patto di avere pazienza

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bagni, la piscina, le Spa degli hotel in montagna: tutto fantastico. Non fosse che dietro i punti di forza dell’estate si cela, purtroppo, anche un maggiore rischio di infezioni della pelle. I miceti - vale a dire muffe, funghi e lieviti - sono microrganismi naturalmente presenti nel terreno o sulla vegetazione che, specialmente d’estate, si propagano sullo strato più superficiale della nostra pelle oppure su capelli e unghie. Vengono appunto favoriti da caldo, umidità, sudore, e dal contatto diretto o indiretto con pavimenti bagnati, piatti doccia, panche, spogliatoi, servizi igienici, tappetini. Teniamo presente che i funghi sopravvivono a lungo, quindi l’infezione può essere veicolata anche da asciugamani, accappatoi, biancheria. Le manifestazioni più tipiche del contagio sono macchie sulla pelle, desquamazioni, arrossamento, prurito. Non sono problemi difficili da risolvere, a patto di avere pazienza. E soprattutto di farsi vedere subito da un dermatologo, evitando il fai da te. In genere i farmaci antimicotici si trovano in creme, pomate, ovuli, polveri o lavande, ma anche shampoo specifici e lozioni. Solo nei casi più ostinati si ricorre a prodotti per via orale. Ecco le forme di micosi più comuni. Tigna - o Tinea Capitis, contagiosissima, prende di mira il cuoio capelluto (specie nei bambini), ma anche le ascelle e

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più raramente la zona della barba. Si riconosce per le tipiche chiazze tonde, arrossate e coperte di squame, che a volte prudono e bruciano sotto i raggi del sole. La Tinea Corporis colpisce le zone del corpo senza peli in viso, braccia o gambe. Attenzione, perché il disturbo viene trasmesso facilmente anche da cani e gatti. Piede d’atleta - o Tinea pedis, è in agguato in ambienti pubblici umidi e affollati; si localizza negli spazi fra le dita dei piedi, a causa di scarsa igiene e forte sudorazione. Si manifesta con desquamazioni, fissurazioni e macerazione della pelle, prurito e cattivo odore. È molto tenace e va curata con costanza. Candidosi - è un’infezione comune, provocata da un lievito, che si annida nelle pieghe della pelle e nelle mucose; quando colpisce quella orale, con macchie biancastre, prende il nome di Mughetto, frequente nei più piccoli, negli anziani o dopo cure antibiotiche. Nella candidosi genitale il contagio avviene solo con i rapporti sessuali: ce ne accorgeremo per prurito e bruciore vaginale, arrossamento e perdite biancastre. Nel caso, dovrà comunque curarsi anche il partner. Pitiriasi - causata da un fungo, è frequente, fastidiosa e anche antiestetica. La si nota sotto forma di chiazzette bianche di 1-2 centimetri che possono poi raggrupparsi in macchie più vaste su spalle, dorso e collo. “Colpevoli” sono la forte sudorazione e gli ambienti umidi, oltre al fatto che si resta a lungo con la pelle bagnata. Ecco alcuni suggerimenti per tenersi alla larga dalle infezioni estive: in piscina e nelle docce di stabilimenti balneari, Spa e palestre, teniamo sempre addosso delle ciabattine. Meglio evitare di usare scarpe in plastica o gomma. É bene lavarsi i piedi due volte al giorno anche fra le dita, eliminando poi ogni traccia di sapone e asciugando con cura senza strofinare. Evitiamo di restare a lungo con il costume bagnato sulla pelle. Indossiamo biancheria e calze di cotone. Per prevenire la pitiriasi, dopo la doccia asciughiamoci molto bene usando anche il talco.


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Giuseppe Fatati presidente Fondazione ADI associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica

Gli anziani e il diabete/I parte

Le persone affette da questa patologia ricorrono alle cure ospedaliere più spesso di quelle che sane (60% in più). Nello specifico, le principali cause di ricovero ospedaliero sono rappresentate da malattie cardiovascolari e, fra queste, al primo posto c’è lo scompenso cardiaco

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li anziani possono essere distinti in tre categorie: gli anziani giovani, compresi tra 65 e 75 anni; gli anziani veri, tra i 76 e gli 85 anni e i grandi anziani, di età superiore agli 85 anni. Quando parliamo genericamente di anziani facciamo riferimento, soprattutto, alle persone con età superiore ai 75 anni. Secondo i dati della World Health Organization (OMS) del 2016, l’Italia si colloca tra i primi sei Paesi nel mondo per longevità, con un’aspettativa media di vita pari a circa 83 anni, a fronte di quella mondiale di circa 72 anni. L’ISTAT ha confermato il divario di sopravvivenza per livello di istruzione. L’aspettativa di vita media alla nascita varia da 82,3 anni per gli uomini con livello di istruzione alto a 79,2 anni per i meno istruiti (+3,1 anni); tra le donne da 86,0 a 84,5 anni (+1,5 anni). Il gradiente delle diseguaglianze nella speranza di vita per titolo di studio è presente in tutte le regioni ma si evidenziano interessanti differenze. Marche e Umbria hanno i differenziali, tra alto e basso livello di istruzione, più contenuti rispetto alle altre regioni sia per

gli uomini (1,9 e 2,1 anni) che per le donne (0,7 e 0,5 anni). In queste regioni si osservano anche le più alte speranze di vita per i livelli di istruzione bassi. Quando parliamo di aspettativa di vita (AV) tuttavia, dobbiamo fare una importante distinzione tra anni di vita reali e anni di vita in buona salute. L’AVBS infatti (Aspettativa di Vita in Buona Salute) a livello mondiale, è stata stimata essere, nel 2015, pari a 63 anni per entrambi i sessi. Seppure con le dovute correzioni della stima per quanto riguarda la realtà italiana, resta comunque oggettivo il significativo gap tra aspettativa di vita in buona salute e aspettativa di vita, che non è altro che l’equivalente degli anni trascorsi con co-morbilità e disabilità. I principali fattori che contribuiscono a tali condizioni sono evidentemente rappresentati dalle malattie cronico-degenerative, in particolare da depressione, disturbi neurologici, perdita del visus e dell’udito, malattie cardiovascolari e diabete. Il diabete è una delle malattie cronico-degenerative più diffuse nella popolazione, aggravata da molteplici complicanze che hanno un impatto significativo sulla quantità e qualità della vita dei quasi 4 milioni di persone affette in Italia da questa patologia. Quasi il 65% delle persone affette da diabete ha una età pari o superiore ai 65 anni e un paziente su 5 pari o superiore a 80 anni. Il 60% dei pazienti che afferiscono ai servizi di diabetologia ha più di 65 anni, il 25% più di 75. Altro dato interessante è l’età media della popolazione assistita che è aumentata, negli anni, in tutte le regioni. Infine è importante sottolineare che le persone affette da diabete ricorrono alle cure ospedaliere più spesso di quelle senza diabete (60% in più). Esaminando le principali cause di ricovero ospedaliero emerge che le prime sono rappresentate da malattie cardiovascolari e fra queste al primo posto c’è lo scompenso cardiaco.

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bon ton

Nicola Santini esperto di galateo, costume e società ph/Christian Ciardella

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Un guardaroba di frasi da rifare

Alla fine della telefonata noiosa, meglio dire «grazie per il tempo che mi hai dedicato», invece di scusarsi per averne abusato senza autorizzazione

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uelle che mandano al manicomio, quelle che non hanno senso, quelle ereditate dal tempo che fu, quelle, soprattutto, da rottamare perché figlie di una piaggeria senza un perché ma che, almeno una volta nella vita, abbiamo pronunciato anche noi. Si dice che il classico non annoia mai, ma quando dall'altra parte del telefono arriva l’intramontabile "scusa se ti disturbo", l'idea di parlare con una persona che deliberatamente sa di disturbare e se ne prende la briga, incurante, mi fa subito venir voglia di consultare l'elenco dei reati depenalizzati per vedere se con una mossa più elegante, ma non meno subdola, riesco a risolvere il problema alla radice. Chi si ritiene un filo più educato si rifugia in un altro classico: "posso disturbarti?", interrogatorio, al quale rispondo imperturbabile: "lo stai già facendo". A chi verrebbe in mente, infatti, di autorizzare qualcuno ad un deliberato disturbo? Chi invece è fan del lieto fine, dopo averti ammorbato nella maggior parte delle volte con richieste di favori, arriva con un pacifico "scusa se ti ho disturbato" con annesso tentativo di infusione di senso di colpa, al quale la testa risponde "ricordatelo la prossima volta" e la bocca pronun-

cia "figurati", che è quasi peggio di un "vaffa". Sostituire la parola scusa a grazie, permesso e per piacere, parole che a parer mio consentono quasi tutto nella vita è l'abitudine più malsana che il nostro modo di parlare abbia acquisito. Alla fine della telefonata noiosa, meglio dire "grazie per il tempo che mi hai dedicato", invece che scusarsi per averne abusato senza autorizzazione. Non che faccia guadagnare punti, ma almeno esprime un sentimento, quello della gratitudine, contro il quale è più difficile prendersela, anche quando il disturbo c'è stato. Menzione speciale, capace di rovinarmi la giornata fin dalle prime ore, è l'accoppiata "ciao-buongiorno" che è quasi peggio dell'abbinamento sandalo calzino di spugna, ormai non più esclusiva di bandiera dei turisti tedeschi, ma anche, ahimè, di fashion blogger e piaghe simili che in teoria dovremmo ascoltare e osservare per avere un guardaroba sempre à la page. Davanti agli uni e agli altri, meglio non vedere, non sentire, non copiare.

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arte

Vuoti d’amore Due nuove mostre all’Arter - space for art di Istanbul: Empty House, la personale di Can Aytekin (Istanbul, 1970) curata di Eda Berkmen, e Isle di Ali Mahmut Demirel (Ankara, 1972), a cura di Başak Doğa Temür ben rappresentano l’abbandono, la sottrazione, l’assenza di Antonello Tolve art critic / independent curator professor at the Academy of fine arts in Macerata

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ue nuove mostre, all’Arter - space for art di Istanbul, illuminano il passante distratto - quel passante che sull’Istiklal caddesi (la bretella che collega Taksim Meydanı a Galata Kulesi, frequentata da circa quattro milioni di persone al giorno) è stuzzicato da mille colori e profumi - per bagnarlo con una luce riflessiva,

eccezionalmente acuta, legata alla natura e alla cultura, allo spazio perfetto dell’architettura e a quello altrettanto perfetto degli organismi viventi nel loro ambiente. Tra il piano terra e il primo piano di questo palazzetto prezioso che presenta come mission i nomi dell’arte contemporanea in Turchia, Empty House, la per-

sonale di Can Aytekin (Istanbul, 1970) curata di Eda Berkmen, è un racconto sull’architettura, su un luogo intimo, su un ambiente in cui si consuma la vita e, contestualmente, su uno spazio del ricordo, del sogno, dell’immaginazione. Svuotata di orpelli, prosciugata di arredi e di oggetti che segnano il quotidiano passaggio della

Ali Mahmut Demirel, The Pit, 2017, Three Channel 4K video 6'45'', Courtesy Arter (Istanbul)

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vita, la scena architettonica proposta da Can Aytekin rappresenta un ragionamento sulla pulizia della casa, sulla rivisitazione di una spazialità vissuta in prima persona e ridefinita da una sottrazione che, davanti ai chiari e lucidi occhi della ragione, indica vacuità, assenza di qualcosa o di qualcuno, vuoto d’amore. L’interpretazione concettuale dello spazio domestico che l’artista propone in trentasei importanti opere (tra carte, olii su tela e una maquette), è infatti quella «di un visionario», così lo definisce Matt Hanson sulle pagine del “Daily Sabah”, «che dipinge il vuoto dagli interni dell’apparentemente banale», del dolore dei giorni che si susseguono e si incrostano di ricordi screpolati dal sole. Dopo ben cinque personaSvuotata di orpelli, prosciugata di arredi e di oggetti che segnano il quotidiano passaggio della vita, la scena architettonica proposta da Can Aytekin rappresenta un ragionamento sulla pulizia della casa, sulla rivisitazione di una spazialità vissuta in prima persona e ridefinita da una sottrazione che, davanti ai chiari e lucidi occhi della ragione, indica vacuità, assenza di qualcosa o di qualcuno, vuoto d’amore

li - Tapınak Resimleri / Temple Pictures (2005), Kaya Resimleri / Rock Pictures (2006), Bahçe Resimleri / Garden Pictures (2010), Her Şey Yerli Yerinde / Everything in Native Place (2014) e Ters Yüz / Reverse Face (2016) - dedicate a corpi naturali, al buio che bagna la mente, a una casa intesa come cosa, come scatola di meraviglie sfinite, questo nuovo progetto è una summa

The Pit (2017), video immersivo a tre canali, buca ad esempio lo sguardo con una tranquilla irrequietezza, con un sentimento di metamorfosi che se da una parte evidenzia la riappropriazione da parte della natura di ambienti disabitati dall’uomo e la rinascita di un habitat, dall’altra lascia intravedere l’insanità, il letto di morte di una cosa gloriosa. Non ci sono figure umane in questo percorso tripartito, soltanto macerie, tracce di una civiltà (di una verità) la cui mano incurante ha reciso la corda dell’esistenza, senza avvertire alcun pericolo

totale che appare e scompare, che si mostra e contestualmente mostra l’architettura reale in cui vivere l’esposizione, il momento di lettura dell’opera. Al secondo piano dell’edificio, Isle di Ali Mahmut Demirel (Ankara, 1972), a cura di Başak Doğa Temür, accoglie lo spettatore in un buio giallognolo e spietato, in uno spazio scenico che imprigiona lo sguardo per trasportarlo in un mondo dove tutto sembra muoversi con lentezza e leggerezza, sotto il silenzio sottile della poesia. Composto da tre video - The Pier (2015), The Pit (2017) e The Plant (2018) - il percorso offerto da Demirel presenta uno scenario apocalittico, qualcosa di acqueo, qualcosa che se ne sta in disparte sia dalla vita, sia dalla morte, dove la natura, come una sentinella silenziosa, si riappropria degli spazi per costruire nuovi ecosistemi. The Pit (2017), video immersivo a tre canali, buca ad esempio lo sguardo con una tranquilla irrequietezza, con un sentimento di metamorfosi che se da una parte evidenzia la riappropriazione da parte della natura di ambienti disabitati dall’uomo e la rinascita di un habitat, dall’altra lascia intravedere l’insanità, il letto di morte di una cosa gloriosa. Non ci sono figure umane in questo percorso tripartito, soltanto macerie, tracce di una civiltà (di una verità) la cui mano incurante ha reciso la corda dell’esistenza, senza avvertire alcun pericolo.

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finisterre

Alberto Grifi e la sua radicale sperimentazione audiovisiva Una vita e una storia di avanguardia contro le omologazioni, quella del grande outsider romano di Alfonso Amendola docente di sociologia degli audiovisivi sperimentali Università di Salerno

È

una storia di grande avanguardia quella di Alberto Grifi (Roma, 1938 –2007), uno dei cineasti italiani indipendenti più radicali. In generale, l’esperienza di Alberto Grifi è significativa in quanto parte di un processo di evoluzione sperimentale che si estende anche ad altri campi artistici, oltre a quello cinematografico. Fin da giovanissimo, Grifi pratica tutti i mestieri legati all’immagine (pittura, documentario, fotografia industriale e d’arte). Esordisce filmando l’opera teatrale Cristo ’63 di Carmelo Bene immediatamente censurata e la registrazione, sequestrata dalla polizia, è da considerarsi perduta. Conviene citare quest’opera in quanto primo “scandalo” che dà origine alla sua fama di imprevedibile e irriducibile provocatore. Decisivo l’incontro con Gianfranco Baruchello, artista allora poco più che esordiente, da cui nasce quel massacro cinematografico degli stereotipi del cinema americano, noto come La verifica incerta (1964). Con Baruchello si crea una straordinaria complicità tra due visionari. Due eccentrici della narrazione. Due maestri ancor oggi insuperati per la loro tensione narrativa ed esplorativa dei linguaggi della

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contemporaneità. Dentro La verifica incerta respirano metri e metri di spezzoni di film hollywoodiani degli anni Cinquanta, fortunosamente recuperati, rimontati secondo accostamenti apparentemente improbabili, ma altamente provocatori, in puro spirito situazionista (per capirci il motore generativo da cui nascerà il “Blob” televisivo dei situazionisti Enrico Ghezzi e Marco Giusti). Subito dopo, Grifi realizza una serie di film sperimentali, collaborando anche ad altri eventi, come l’happening organizzato da Nanni Balestrini nel 1967 alla Feltrinelli di Roma. Negli anni Ottanta, Grifi realizza dei documentari industriali in giro per il mondo e partecipa

a una ricerca del MIT di Boston sullo studio delle interazioni tra immagini e video e memorie elettroniche finché, tornato in Italia, si dà da fare per il restauro dei suoi video degli anni Settanta, costruendo una macchina per lavare il nastro magnetico. Insomma un grande giocatore d’azzardo verso le visioni e le narrazioni d’avanguardia che ritroviamo anche nei suoi potenti e innovativi film-documentari: Parco Lambro (1976), Il manicomio (1977), Il preteso corpo (1977). Emblematica è la realizzazione del “vidigrafo”, strumento costruito e inventato da lui stesso, per il film Anna (19721975). Questa nuova macchina


era in grado di trascrivere il video nuovamente su pellicola 16mm, in modo da poterlo proiettare poi nelle sale cinematografiche. Il film, nonostante «sia pensato e costruito come una storia, come narrazione strutturata secondo parametri cinematografici, è un film girato in video e proprio per questo risulta trasformato alla radice. Anna, infatti, è un prodotto sui generis che si rivela però una metafora potente, in grado di esemplificare il tipo di situazione innescata dal video e dal suo linguaggio in un contesto visivo dominato da altri media e dai loro criteri espressivi» (Simonetta Fadda). Realizzato in co-regia con Massimo Sarchielli, Anna diventerà un cult movie della cultura alternativa post sessantottesca. Verrà inoltre presentato al festival di Berlino e alla Biennale di Venezia nel 1975, a Cannes nel 1976. Il progetto del film parte «Emblematica è la realizzazione del “vidigrafo”, strumento costruito e inventato da lui stesso, per il film Anna (1972-1975), un film vero, di lacerante bellezza» con pochissimi mezzi, grazie all’aiuto concreto di personaggi come Rossellini, ma durante la difficoltosa lavorazione Grifi e Sarchielli vengono a sapere che a Roma si possono trovare dei videoregistratori, così approfittano subito della possibilità di lavorare a costi notevolmente inferiori rispetto al cinema e alle sue troupe poderose. Una scelta di natura economica

prima che estetica. Abbattere i costi della pellicola e poter girare senza affanno e interrottamente. Anna è un film vero e di lacerante bellezza. Innanzitutto perché il personaggio di Anna è reale. Anna è una sedicenne che Mario Sarchielli incontra nei pressi di Piazza Navona a Roma; una ragazza problematica, incinta e sotto l’effetto di sostante stupefacenti. Figlia di immigrati sardi in Francia, la ragazza era scappata da diversi riformatori. L’attore decide di prendersi cura di lei e portarla a casa. Inizia subito a prendere appunto sui comportamenti della ragazza, fino al momento in cui decide di riprenderla in video per girare un film. Un film che lavora sui margini dello spazio filmico. Da un lato è un film di grande forza espressiva e di passione politica. Dall’altro è una riflessione sul mezzo cinematografico. Un preciso “passaggio di codice” dalla pellicola al linguaggio analogico del video. Inoltre tutti i ruoli dell’esperienza cinematografica vengono gradualmente fatti saltare. Scrive ancora Simonetta Fadda: “La maneggevolezza del video, che permette a una sola persona di correre letteralmente dietro ai soggetti inquadrati, e la durata dei

«Realizzato in co-regia con Massimo Sarchielli, Anna diventerà un cult movie della cultura alternativa post sessantottesca. Verrà inoltre presentato al festival di Berlino e alla Biennale di Venezia nel 1975, a Cannes nel 1976» nastri, che assicura una grande autonomia, fanno esplodere le regole del set che vogliono sotto il controllo della cinepresa una realtà dai tempi e dai modi rigidamente predeterminati, una realtà decisamente irreale”. Insomma una piccola rivoluzione nel cinema realizzata da un grande outsider. Un punto di riferimento assoluto. La vita vera diventa scena. Adriano Aprà nel suo libro “Fuori norma“: La via sperimentale del cinema italiano sottolinea come il film di Grifi e Sarchielli «va visto oggi, in una prospettiva storica, come il punto di arrivo, ma anche come la fine, di una esperienza underground che aveva caratterizzato - assai in sordina a dire il vero - la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta».

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LIBRI

HOME CINEMA

a cura di Raffaella Venerando

Bassa risoluzione di Massimo Mantellini

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Einaudi pagg. 144 euro 12,00

nternet ha modificato radicalmente il nostro approccio con la profondità, con le informazioni, le relazioni sociali, i mercati e la cultura. Ascoltiamo musica in nuovi formati digitali, fotografiamo il mondo attraverso la piccola ottica dei nostri telefoni cellulari. Non leggiamo piú i quotidiani, preferendo l'informazione casuale che rimbalza sui profili social dei nostri «amici». Ma abbiamo sposato le cucine Ikea e i graffiti di Banksy, nuovi manufatti a bassa risoluzione che riempiono oggi le nostre vite. Questo libro indaga le relazioni fra simili scelte di riduzione e i mutamenti della società connessa. Spesso attraverso simili opzioni si intravedono i segni di una nuova intelligenza, altre volte esse raccontano per sommi capi la nostra usuale superficialità. Nella bassa risoluzione tecnologica il tempo reale travolge l'archivio. Internet, luogo della documentalità, si trasforma nello spazio in cui ogni cosa sarà rapidamente dimenticata.Bisogna opporsi alla bassa risoluzione e quindi alla tecnologia? Il libro invita piuttosto a combattere la superficialità e a imparare a conoscere meglio la tecnologia e le tante scelte che questa ci concede. Semplificare non significa necessariamente banalizzare. «La convergenza dei cittadini verso i media digitali ha creato due fenomeni distinti che rischieremo di confondere con grande facilità. Il primo - quello di gran lunga piú rilevante- è il disvelamento di un nuovo analfabetismo diffuso. Il secondo è quello di una riduzione complessiva delle aspettative informative. Per la prima volta un numero considerevole di persone che non sa leggere ha iniziato a scrivere».

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a cura di Vito Salerno

FINAL PORTRAIT L'arte di essere amici di Stanley Tucci

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critto e diretto da Stanley Tucci, FINAL PORTRAIT - L’arte di essere amici è tratto dal romanzo autobiografico di James Lord, Un ritratto di Giacometti. Il film è la storia di un’amicizia insolita e toccante tra due uomini profondamente diversi, eppure uniti da un atto creativo in costante evoluzione. Nel 1964, durante un breve viaggio a Parigi, il facoltoso scrittore americano e appassionato d’arte James Lord (Armie Hammer) incontra il suo amico Alberto Giacometti (Geoffrey Rush), un pittore di fama internazionale e uno degli artisti più colti e spiritosi del suo tempo, che gli chiede di posare per lui. Lusingato e incuriosito, Lord accetta. Le sedute, gli assicura Giacometti, dureranno solo qualche giorno: in realtà, il ritratto richiederà diciotto lunghi e tormentati incontri. La tensione tra i due uomini cresce man mano che il ritratto procede e la storia evolve diventando anche - attraverso gli occhi di Lord - un viaggio illuminante nella bellezza, la frustrazione, la profondità e, a volte, il vero e proprio caos del processo artistico. Il film descrive, infatti, le difficoltà del processo artistico - a tratti esaltante, a volte esasperante e sconcertante - ponendo l’interrogativo se il talento di un grande artista sia un dono o piuttosto una maledizione. La sceneggiatura di Tucci trasporta abilmente lo spettatore nella quotidianità di personaggi complessi e sfaccettati, all’apice della fama e della fortuna. Eppure, le loro vite scorrono in modo piuttosto banale e ordinario. C’è un lato comico in tutto questo, che nel film emerge quasi spontaneamente.



3 LUGLIO/ AGOSTO 2018

www.costozero.it

magazine bimestrale di economia, finanza, politica imprenditoriale e tempo libero

Patto della Fabbrica

al centro la cultura industriale


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