RIDUZIONE DEI DIVARI, QUESTA LA VERA SFIDA DEL PAESE
Gli squilibri esistenti dovrebbero essere sanati con politiche di sviluppo e non con lotte intestine, scompensi che potremmo ricomporre grazie alla straordinaria occasione del Pnrr, le cui risorse - se bene utilizzate - dovrebbero proprio andare a incidere sulla velocità strutturale del Paese, riuscendo al contempo a colmare il gap tra Nord e Sud
Poco più di un mese fa è stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri il ddl Calderoli, ovvero il disegno di legge recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, che dovrebbe diventare realtà entro fine 2023.
Assunto che il tema non è di certo nuovo, né tanto meno illegittimo visto che deriva dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione che statuisce l'attribuzione da parte dello Stato alle Regioni di “forme e condizioni particolari di autonomia”, ciò che ci preoccupa è il clima da stadio che esso ha generato, rendendo più difficile un’analisi serena di cosa sia meglio decidere di fare per il Paese sul tema.
Non per le Regioni del Nord o per quelle del Sud, ma per l’Italia intera perché - come bene ha sottolineato il presidente di Confindustria Carlo Bonomi - alcune sfide che abbiamo di fronte - da imprenditore penso alle condizioni per competere sullo scacchiere internazionale - non hanno carattere locale, anzi. La dimensione su molti temi travalica i confini nazionali.
Al di là di alcuni nodi procedurali che ci auguriamo nell’iter di approvazione vengano dipanati, il “come” e il “su cosa” procedere all’autonomia differenziata diventano essenziali. Fondamentale, innanzitutto, definire preliminarmente i Lep, legati alle 23 materie delegabili alle Regioni con le risorse finanziarie necessarie, che devono essere garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale perché attinenti a diritti civili e sociali da tutelare per tutti i cittadini. Occorre, in questa direzione, una ricollocazione della spesa pubblica, così come l’istituzione di un fondo nazionale di perequazione, come più volte ribadito dal nostro Presidente Sergio Mattarella, da sottoporre a monitoraggio per valutare se, nel concreto, quei divari di sviluppo che già tagliano il Paese in due vanno riducendosi.
È altrettanto necessario stabilire quali saranno le materie oggetto di devoluzione. Non tutte possono passare dal Centro alla periferia. Di sicuro non istruzione, sanità e nemmeno la produzione di energia e tutela dell’ambiente.
Si tratta di temi estremamente delicati e importanti sui quali si gioca il futuro del Paese, rispetto ai quali - penso alla sanità, così come all’istruzione - già esistono delle ingiuste differenze da Nord e Sud e, spesso, all’interno della stessa regione.
Squilibri che dovrebbero essere sanati con politiche di sviluppo e non con lotte intestine, scompensi che potremmo ricomporre grazie alla straordinaria occasione del Pnrr, le cui risorse - se bene utilizzate - dovrebbero proprio andare a incidere sulla velocità strutturale del Paese, riuscendo al contempo a colmare il gap tra Nord e Sud.
La priorità della politica dovrebbe restare appunto quella di ridurre i divari, come la stessa Europa ci chiede da tempo e ci spinge a fare.
Non permettiamo, ancora una volta, che il futuro passi senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
Antonio Ferraioli presidente Confindustria SalernoINTERVISTA A VITO GRASSI, VICEPRESIDENTE CONFINDUSTRIA E PRESIDENTE
DEL CONSIGLIO DELLE RAPPRESENTANZE REGIONALI E PER LE POLITICHE
DI COESIONE TERRITORIALE
GRASSI: «INDIVIDUARE LE COMPETENZE DA DECENTRARE ALLE REGIONI»
Auspicabile una devoluzione focalizzata su “ambiti di materie” funzionali alle peculiarità territoriali e all’effettiva capacità delle rispettive amministrazioni di esercitarle di Raffaella Venerando
Mentre l’Europa scommette sul mettere insieme le potenzialità dei differenti paesi, nel nostro torna in agenda l'autonomia differenziata. Quali potrebbero essere gli impatti sul Mezzogiorno e, più in generale, per l’economia italiana?
Per rispondere a questa domanda è doverosa una premessa. L’autonomia differenziata costituisce un principio costituzionale, in sé meritevole di attuazione. Se ben calibrata, essa può rappresentare un’occasione per rafforzare la competitività e valorizzare le specificità dei territori. In Confindustria guardiamo quindi con interesse a un’attuazione del regionalismo differenziato che, senza aumentare i divari tra le Regioni, rafforzi i territori nel solco dei principi di sussidiarietà, unità, efficienza e solidarietà. Inoltre, il dibattito attuale potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per riaprire il confronto sul Titolo V della nostra Costituzione, che a distanza di 22 anni dalla sua riscrittura, mostra ormai con chiarezza alcune “crepe”, tra contraddizioni e lacune normative, incertezze interpretative e inattuazioni. Si pensi soltanto, ad esempio, che solo ora sembra avviarsi il percorso per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e che non ha ancora trovato attuazione quanto previsto dall’art. 119, vale a dire la creazione del fondo perequativo che dovrebbe compensare gli squilibri “sofferti” dai territori con minore capacità fiscale. Peraltro, il superamento di queste due
lacune rappresenta, a mio avviso, una condizione necessaria per avviare il percorso verso un’autonomia differenziata “giusta”.
Quanto potrebbe rivelarsi inefficace, se non dannoso, che scelte strategiche per l’economia nazionale, come quelle nel campo dell’energia e delle infrastrutture, vengano decentralizzate? E quelle relative a sanità e istruzione? Se da un lato il regionalismo differenziato può costituire un’opportunità per i territori, dall’altro è necessario porre grande attenzione alle materie - o agli ambiti di materie - che saranno oggetto di devoluzione. Per noi c’è un punto irrinunciabile: alcune materie strategiche, che contribuiscono a creare le condizioni per la competitività e lo sviluppo debbono essere “gestite” a livello nazionale, se non addirittura europeo, per garantire efficienza, ma anche omogeneità normativa e amministrativa e condizioni di partenza più simili, a tutela del mercato. Mi riferisco, per citare gli esempi più eclatanti, alle infrastrutture energetiche e di trasporto e, più in generale, ai servizi a rete, nonché al commercio con l’estero. Materie che necessitano di meccanismi di coordinamento, volti anche a superare veti o inerzie, che possono essere assicurati solo da una gestione unitaria, strettamente connessa, peraltro, agli orientamenti europei. Sarebbe opportuno, poi, individuare le attribuzioni devolute alle Regioni secondo un approccio graduale. Infatti, modifiche massive delle competenze legislative e amministrative potrebbero impattare in negativo sull’as-
setto delle organizzazioni regionali, a danno della loro stessa efficienza. In quest’ottica, sarebbe auspicabile una devoluzione focalizzata - più che su intere materie - su “ambiti di materie” (come peraltro previsto dal DDL Calderoli) funzionali alle peculiarità territoriali e all’effettiva capacità delle rispettive amministrazioni di esercitarle, individuando, quindi, specifici spazi di competenza regionali e spazi, invece, lasciati alla competenza statale.
Della rivendicazione regionale del residuo fiscale cosa ne pensa?
Credo sia un tema da ricondurre a una logica di rivendicazione politica, più che alla costruzione di un percorso equilibrato di attuazione della norma costituzionale in tema di autonomia differenziata. Si tratta, infatti, di un tema sensibile, molto discusso sia a livello politico che tra gli esperti, ma che non risulta, a oggi, all’ordine del giorno della discussione sull’autonomia, tant’è che non è richiamato, né regolato dal “DDL Calderoli” in quanto, su un piano generale, il trattenimento del residuo fiscale può rappresentare una soluzione
disallineata rispetto alle esigenze e ai principi di perequazione, che a loro volta, com’è ormai chiaro a tutti, rappresentano alcuni dei criteri cui deve uniformarsi l’attuazione della norma costituzionale sul regionalismo asimmetrico.
L’attuazione del PNRR potrebbe essere ostacolata da questo processo di riforma?
Il PNRR è un piano di riforme e di investimenti caratterizzato, sin dalla sua ideazione, da un forte protagonismo del livello nazionale. Per assicurare il raggiungimento degli obiettivi del piano, quindi, ritengo che l’attuazione dell’autonomia differenziata dovrebbe tener conto anche del fatto che un passaggio di competenze dal livello centrale a quello regionale potrebbe, in questa fase storica, generare incertezze nell’attribuzione delle competenze e, di conseguenza, potenziali ritardi nell’attuazione. È uno dei motivi per cui riteniamo vada privilegiato un approccio graduale e al tempo stesso flessibile nell’individuazione delle materie, per garantire un “passaggio di consegne” fluido e coordinato, anche nell’ottica del rispetto degli impegni presi con l’Unione Europea.
INTERVISTA A GIANFRANCO VIESTI, DOCENTE DI ECONOMIA APPLICATA
PRESSO IL DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE DELL'UNIVERSITÀ DI BARI
VIESTI E LE RAGIONI DEL NO ALL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
«Opportuno prevedere la possibilità di un referedum confermativo da parte dell’intero corpo elettorale»
di Raffaella VenerandoProfessore, è tornata in agenda l'autonomia differenziata da lei definita «una grande questione politica, che riguarda tutti gli italiani» e che, in particolare, pone il Sud a nuovi rischi di marginalizzazione. Partiamo dalla forma: quali sono i nodi procedurali del ddl Calderoli?
La materia è talmente importante che deve essere necessariamente da sottoporre ad analisi approfondita da parte del Parlamento, unica sede che dovrebbe avere il potere di concedere o meno nuove competenze alle Regioni. Sareb-
be anche opportuno prevedere la possibilità di un referedum confermativo da parte dell’intero corpo elettorale.
Parlamento che, però, è messo ai margini nell’attuale disegno di legge.
Sì, nell’attuale ddl Calderoli il ruolo del Parlamento è decorativo, può formulare soltanto un atto di indirizzo del quale il governo può non tenere conto e poi deve formulare l’approvazione finale a scatola chiusa, con un inevitabile effetto di coesione della maggioranza politica.
Estromesso anche dal processo che deve defi-
primo piano | autonomia differenziata
nire i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) per tutti i cittadini italiani, ma la determinazione non doveva essere un primo passo per sanare gli attuali squilibri regionali? Come mai ancora non sono stati definiti?
Non li abbiamo non da ora, ma da 22 anni perché la politica nazionale non ha svolto il suo compito e gli interessi dei cittadini delle aree più deboli non sono stati tenuti sufficientemente in considerazione.
Definire i Lep è un compito primario del Parlamento perché significa decidere di quali diritti sociali e civili deve godere ogni cittadino italiano e perché - dato che si tratta di raggiungerli - vanno stanziate le relative risorse a favore dei territori nei quali la realtà è molto peggiore dello standard che si vuole raggiungere.
Nessun limite di competenze da delegare non è di per sé un limite?
È una scelta politica cui sono chiamati Governo e Parlamento. La Costituzione offre alle Regioni la possibilità di chiedere ma pone su Governo e Parlamento l’onere di decidere se è nell’interesse nazionale, in un determinato periodo storico, è opportuno o meno concedere alcune competenze. Si tratta quindi non di un aspetto giuridico ma politico di primaria importanza.
Quanto potrebbe rivelarsi inefficace, se non dannoso, che scelte strategiche per l’economia nazionale, come quelle nel campo dell’energia e delle infrastrutture, vengano decentralizzate? E quelle relative a sanità e istruzione?
Assolutamente sì, in tutti i casi non è opportuno e per motivi diversi. Per infrastrutture ed energia dobbiamo puntare sempre più su politiche europee o quanto meno nazionali, e quindi mi sembra controproducente spezzettare le scelte su base territoriale.
Per istruzione e salute è un aspetto prettamente politico, i due grandi sistemi nazionali dell’istruzione e Ssn sono le architravi della cittadinanza italiana ed è a mio avviso profondamente sbagliato dare, nel primo caso, un potere concorrente alle Regioni e, nel
secondo, un potere esclusivo alle regioni. Nel report della Fondazione GIMBE emerge chiaro il rischio di una doppia fuga da Sud a Nord: non solo per farsi curare ma, per chi lavora in sanità, anche la strada per ottenere migliori condizioni lavorative. Un pericolo concretizzabile secondo lei?
Penso di sì, il Ssn si deve basare sull’assunto che tutti i cittadini hanno diritto a prestazioni che sono anche ben individuate perché si chiamano Livelli essenziali di assistenza (Lea, ndr). Il punto sta nello stanziare le risorse necessarie e nel controllare l’operato delle Regioni affinché siano effettivamente garantiti su base territoriale.
Mettere in atto, quindi, dei meccanismi che creano ulteriori squilibri al sistema credo vada in direzione opposta e sbagliata. In prospettiva cosa crede accadrà? Potrebbe accadere di tutto. Ce l’hanno insegnato le vicende del 2019. È molto importante che la società civile e i cittadini, ma anche le associazioni di rappresentanza, facciamo sentire continuamente la propria voce per impedire un esito - a mio avviso - molto negativo per l’intero Paese.
«Definire i Lep è un compito primario del Parlamento perché significa decidere di quali diritti sociali e civili deve godere ogni cittadino italiano e perché - dato che si tratta di raggiungerli - vanno stanziate le relative risorse a favore dei territori nei quali la realtà è molto peggiore dello standard che si vuole raggiungere»INTERVISTA A NINO CARTABELLOTTA, PRESIDENTE FONDAZIONE GIMBE
CARTABELLOTTA, GIMBE: «IL SSN, PILASTRO DELLA NOSTRA DEMOCRAZIA»
Per rilanciare un servizio sanitario pubblico, oggi equo e universalistico solo sulla carta, bisogna rivedere le modalità di finanziamento, programmazione, organizzazione e integrazione dei servizi sanitari e socio-sanitari
di Raffaella VenerandoPresidente, mentre l’Europa scommette sul mettere insieme le potenzialità dei differenti paesi, nel nostro torna in agenda l'autonomia differenziata. Quali potrebbero essere gli impatti sul mondo della sanità?
Concedere alle Regioni maggiori autonomie in materia di “tutela della salute” darà il colpo di grazia al Servizio Sanitario Nazionale. Aumenteranno le diseguaglianze regionali, legittimando normativamente il divario tra Nord e Sud e violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute. Infatti, nonostante i livelli essenziali di assistenza (LEA) siano definiti dal 2001 e monitorati ogni anno dallo Stato, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i diversi sistemi sanitari regionali. Peraltro, le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) sono proprio quelle che erogano i migliori servizi sanitari e hanno maggiore capacità attrattiva sui pazienti del centro-sud, alimentando il fenomeno della “migrazione sanitaria”.
Nel vostro recente report vengono sottolineate le disuguaglianze regionali in sanità tenuto conto dei Lea (livelli essenziali di assistenza). Qual è la fotografia attuale e a cosa servono? Garantiscono ad oggi l’universalità delle cure?
Ogni anno il Ministero della Salute valuta l’erogazione dei LEA che le Regioni devono garantire ai cittadini gratuitamente o attraverso il pagamento di un ticket. Il Report GIMBE sugli adempimenti nell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza nel decennio 2010-2019 dimostra che nella prima
metà della classifica si posizionano solo due Regioni del centro (Umbria e Marche) e nessuna Regione del Sud, a riprova dell’esistenza di una “questione meridionale” in sanità. Anche la successiva analisi GIMBE delle nuove “pagelle” relative al 2020, ovvero nel corso della pandemia, non vede nessuna regione del meridione ai vertici (ad eccezione della Puglia che si trova tra le 11 Regioni adempienti) dimostrando innanzitutto che il gap Nord-Sud non si è ridotto nonostante molte Regioni del Nord siano state colpite in maniera drammatica dalla prima ondata e, al tempo stesso, quelle del Sud siano state risparmiate grazie al lockdown; in secondo luogo, le Regioni settentrionali più colpite dalla pandemia hanno mostrato una differente resilienza, inevitabilmente condizionata dalla qualità del servizio sanitario regionale pre-pandemia; infine, la “sorella povera” della sanità, ovvero la prevenzione, è stata quella che ha pagato il conto più salato, in termini di erogazione di prestazioni essenziali.
Ma a cosa, o a chi, sono imputabili le drammatiche differenze tra servizi sanitari regionali? È un problema di sole risorse o anche di capacità amministrativa?
Le Regioni del Centro-Sud, dopo la riforma del Titolo V del 2001, non sono state in grado di organizzare adeguatamente i propri servizi sanitari, generando al tempo stesso enormi buchi nei propri bilanci. Di conseguenza, fatta eccezione per la Basilicata, tutte le Regioni del Centro-Sud sono finite in Piano di Rientro (e la maggior parte non sono ancora uscite) o addirittura commissariate (ad oggi lo sono Molise e Calabria). D’altronde, le nostre
analisi indipendenti documentano la grave crisi di sostenibilità del SSN ben prima dello scoppio della pandemia. L’imponente definanziamento pubblico di circa 37 miliardi di euro nel decennio 2010-2019; l’incompiuta del DPCM sui nuovi LEA che aveva ampliato prestazioni e servizi a carico del SSN senza copertura finanziaria; gli sprechi e le inefficienze; l’espansione incontrollata delle assicurazioni. Oltre alla non sempre leale collaborazione Stato-Regioni e alle aspettative spesso irrealistiche di cittadini e pazienti. In questo contesto la pandemia COVID-19 ha confermato il cagionevole “stato di salute del SSN” e se nel pieno dell’emergenza tutte le forze politiche convergevano sulla necessità di potenziare e rilanciare il SSN, progressivamente la sanità è stata nuovamente messa all’angolo. Intanto nel Paese è in atto da tempo quella che da più parti è stata definita la “desertificazione sanitaria”. Nel vostro report emerge chiaro il rischio che, oltre alla fuga da Sud a Nord per farsi curare, migliori condizioni lavorative potrebbero essere la sirena seduttiva per moltissimi giovanispecialisti e non - del Mezzogiorno. Nei fatti cosa potrebbe accadere?
La questione delle condizioni di lavoro del personale sanitario riguarda tutta l’Italia. Pensionamenti anticipati, burnout e demotivazione, licenziamenti volontari e fuga verso il privato lasciano sempre più scoperti settori chiave del SSN, in particolare i Pronto Soccorso, e deserti i numerosi concorsi. Per far fronte alla domanda di personale si ricorre così a insolite modalità: cooperative di servizi, reclutamento di medici in pensione e chiamate di medici dall’estero. Considerato
che i consistenti investimenti per nuovi specialisti e medici di famiglia daranno i loro frutti non prima rispettivamente di 5 e 3 anni, il nodo del personale sanitario è entrato nella sua fase più critica che richiede soluzioni straordinarie in tempi brevi. Tuttavia, tornando all’autonomia differenziata, la richiesta del Veneto di contrattazione integrativa regionale per i dipendenti del SSN, oltre all’autonomia in materia di gestione del personale e di regolamentazione dell’attività libero-professionale, effettivamente rischia di concretizzare una concorrenza tra Regioni con “migrazione” di personale dal Sud al Nord, ponendo una pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale e sul ruolo dei sindacati
Non solo rilievi ma anche proposte: quali riforme e azioni per la Fondazione GIMBE sarebbero indispensabili a garantire il diritto costituzionale alla tutela della salute a tutte le persone?
La politica deve saper cogliere le grandi opportunità per rilanciare il SSN: fine della stagione dei tagli alla sanità, PNRR, trasformazione digitale, approccio One Health. Se vogliamo rilanciare un servizio sanitario pubblico, oggi equo e universalistico solo sulla carta, bisogna rivedere le modalità di finanziamento, programmazione, organizzazione e integrazione dei servizi sanitari e socio-sanitari.
Ma questo richiede un piano pluriennale di rifinanziamento della sanità pubblica e coraggiose riforme “di rottura”. Ma ancor prima, un patto politico che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di Governi, metta al centro il SSN nella consapevolezza che rappresenta un pilastro della nostra democrazia e la più importante conquista sociale.
INTERVISTA A CHIARA SARACENO, SOCIOLOGA
SCUOLA, LEP NON SOLO QUANTITATIVI
Occorrerà ragionare su quali tipi di risorse educative è necessario rendere disponibili per contrastare le disuguaglianze e mettere tutti in grado di sviluppare appieno le proprie capacità, investendo di più la dove le disparità sono maggiori
di Raffaella VenerandoIl Consiglio dei ministri ha di recente approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata che, entro fine anno, dovrebbe avere piena attuazione. Anche
la scuola potrebbe rientrare nelle competenze da decentralizzare. Crede sarà così? Quali sono gli aspetti da non trascurare?
La possibilità è reale in quanto la autonomia sulla
scuola (e la ricerca) è prevista tra le 23 materie elencate nell’articolo 117 comma 3 della Costituzione, anche se non è chiaro che cosa significhi esattamente in termini concreti. Lo si può dedurre dalle richieste in questo campo avanzate da Lombardia e Veneto. Riguarderebbe molti aspetti cruciali: organizzazione scolastica per quanto riguarda sia la distribuzione delle scuole sul territorio, sia l’attuazione ed eventuale integrazione dei curricula, reclutamento degli insegnanti, remunerazione degli stessi, collaborazione con le imprese. Non è ben chiaro se e come questa autonomia rafforzerebbe, o viceversa indebolirebbe, l’autonomia scolastica così come è definita dalla legge n. 59/1997 e dal DPR 275/1999. Queste due normative, infatti, già concedono alle singole scuole ampia autonomia organizzativa e didattica, per rispondere alle specificità dei contesti in cui operano, anche se purtroppo spesso è lasciata lettera morta o utilizzata “ai margini”, quando non fortemente scoraggiata.
È certamente opportuno che a livello locale ci si occupi della scuola, per individuarne le necessità e la loro dislocazione, perché solo a livello locale si conoscono le specificità dei contesti, dei loro bisogni e potenzialità. Ma vale per i comuni o le associazioni di comuni, più che per le regioni. Inoltre, in una situazione in cui già esistono forti diseguaglianze territoriali nella offerta scolastica, con l’autonomia differenziata queste si cristallizzerebbero ulteriormente, ledendo il diritto costituzionale all’accesso paritario all’istruzione indipendentemente da dove si vive e dalla propria condizione sociale.
Da questo punto di vista, occorrerà discutere in profondità su che cosa debbano essere i LEP applicati ai servizi educativi per la prima infanzia e alla scuola. Se hanno il compito di garantire a tutti pari opportunità nell’apprendimento, non ci si può accontentare di indicatori esclusivamente quantitativi, come i tassi di copertura, che pure oggi non sono pienamente garantiti ovunque. Occorrerà ragionare su quali tipi di risorse educative è necessario rendere disponibili per contrastare
diseguaglianze sociali e territoriali, per mettere tutti in grado di sviluppare appieno le proprie capacità, investendo di più là dove le disuguaglianze sono maggiori. Per questo è stato sbagliato lasciare agli enti locali o alle singole scuole l’iniziativa in risposta ai bandi del PNNR nel settore dell’istruzione (e probabilmente non solo), come se si trattasse di scelte opzionali, senza verificare preliminarmente e puntualmente (non solo genericamente per macro-aree) dove mancano alcune strutture e dove sarebbe più necessario integrare l’esistente.
Se l’istruzione rientrasse nel disegno dell’autonomia differenziata, si acuirebbe anche la fuga degli insegnanti migliori verso il Nord del Paese?
Non è detto. Dipende dal grado di discrezionalità che verrebbe concesso per reclutare su base locale, ponendo barriere a chi viene dall’esterno. Stipendi maggiorati possono essere utilizzati per incentivare “gli autoctoni” a percorrere la strada dell’insegnamento là dove attualmente c’è carenza di insegnanti. Inoltre, non è detto che stipendi più alti (ma anche costi della vita più alti) incentivino i “migliori”.
Possono incentivare chi vuole fuggire da situazioni difficili che richiedono maggiori investimenti di energie e capacità di innovazione didattica, o semplicemente non trova lavoro in loco. Il rischio vero è che dando il via ad una differenziazione salariale non sulla base dell’impegno richiesto e profuso, ma solo del luogo di insegnamento, ci sarà chi lavorerà moltissimo senza modifiche di stipendio e chi lavorerà il minimo necessario avendo una integrazione stipendiale. Succede già ora, anche per resistenze sindacali, che non si faccia differenza tra chi lavora tanto (e bene) e chi lavora poco. Con l’autonomia differenziata si potrà avere il paradosso di un riconoscimento salariale al contrario.
Durante la pandemia tutti erano concordi sulla necessità di rimettere l’istruzione al centro. Poi...cosa è successo?
Come per la sanità, si è tornati al punto di partenza e si è proseguito nei tagli al finanziamento della scuola in base a considerazioni demografi-
che, invece di cogliere l’occasione del calo demografico per utilizzarle per migliorare la scuola. Il PNRR è una grande opportunità, ma va colta in modo efficace, cosa che non sembra avvenga. Un esempio parzialmente positivo è l’aver introdotto il livello di copertura del 33% come LEP nel caso dei nidi, prevedendo anche un finanziamento adeguato per la loro gestione. Ma si è lasciato che molti comuni del Sud non partecipassero ai bandi vuoi per disinteresse, vuoi per mancanza di tempo e/o delle professionalità necessarie per partecipare ai bandi, con il risultato che non sono stati allocati tutti i fondi destinati al Mezzogiorno e in molti comuni non sarà garantito neppure questo livello minimo. Un esempio negativo sono i fondi per il contrasto alla dispersione scolastica. Invece di individuare aree ad alta intensità di povertà educativa nelle quali creare reti collaborative tra scuole e tra queste e i possibili attori di una comunità educante, si è scelto di individuare singole scuole sulla base di alcuni (troppo) semplici indi-
catori di disagio, distribuendo poi i fondi a pioggia. Furto di istruzione: secondo la SVIMEZ un bambino di Napoli che vive nel Mezzogiorno frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del Sud. Proprio con l’emergenza sanitaria sono cresciute anche dispersione scolastica e povertà educativa, specie al Sud. Quali azioni sarebbero necessarie per contrastarle fin dalla prima infanzia?
Occorre ampliare l’offerta nidi e rendere i nidi economicamente accessibili, estendere il tempo pieno (di qualità) in tutta la scuola dell’infanzia e anche nelle scuole primaria e secondaria di secondo grado, non come semplice raddoppio delle ore di lezione, ma come arricchimento sia curriculare sia extracurriculare, in collaborazione con i soggetti locali - associazioni civiche, terzo settore, istituzioni culturali, servizi sociali - disponibili a cooperare in una comunità educante.
ROSSI DORIA: «PARI DIRITTI E OPPORTUNITÀ IN MATERIA D’ISTRUZIONE»
L’Italia è complessa e il tema delle perequazioni è decisivo per la tenuta complessiva della Nazione, molto di più di quello del regionalismo differenziato di Raffaella Venerando
Il Consiglio dei ministri ha di recente approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata che, entro fine anno, dovrebbe avere piena attuazione. Anche la scuola potrebbe rientrare nelle competenze da decentralizzare. Crede sarà così? Quali sono gli aspetti da non trascurare?
Non so se così sarà. Dipenderà dal consenso o meno di comuni organizzati entro l’ANCI, regioni, Parlamento e pubblica opinione. Vi è un grande dibattito democratico in corso. Vedremo. In generale, l’esperienza della storia repubblicana insegna che altro è un testo presentato in Consiglio dei Ministri e altro è la sua definitiva
approvazione e i contenuti che la connotano. Il testo iniziale mostra una spinta a regionalizzare l’istruzione pubblica fortemente - anche nei contenuti educativi e negli indirizzi culturali, il che, tuttavia, potrebbe smentire l’art. 1 della Costituzione, che garantisce l’unità della nazione e uguali diritti ai cittadini ovunque essi vivono. Inoltre non tiene conto dei divari come oggi si presentano e tende a “congelare” la situazione così com’è senza fin qui aver elaborato chiare procedure atte a garantire i livelli minimi di prestazione e le necessarie perequazioni sulla base dei divari presenti, favorendo, cioè, chi parte con meno per consentire, progressivamente, il supe-
ramento dei divari, come prescrive il comma 2 dell’art. 3 della nostra Costituzione. Insomma vi è il tema dell’equità delle risorse di fronte a situazioni diverse. Dare cose uguali tra disuguali non è equità. Poi, decentralizzare è una cosa e attribuire alle regioni gli indirizzi generali in tema di istruzione pubblica ne è un’altra. Peraltro, decentralizzare molte funzioni è già possibile, si pensi alla formazione professionale che è materia esclusiva propria delle regioni ben prima di questo testo o l’autonomia funzionale che le scuole già hanno o la possibilità per le regioni di esprimere contenuti ulteriori rispetto alle norme nazionali. Insomma: in Italia non siamo di fronte a un impianto accentratore che ha bisogno di decentramento. Perciò, direi che, in quanto a decentramento, la prima cosa da non trascurare è l’attuazione delle autonomie che già esistono. La seconda e più importante cosa da non trascurare è la garanzia, per tutti i bambini e ragazzi d’Italia, di avere pari diritti e opportunità in materia d’istruzione. Oggi l'Italia presenta forti differenze territoriali in termini di accesso ai percorsi di istruzione, a partire dai primi anni di vita di bambine e bambini. Lungo tutto il percorso di studi, la situazione penalizzata del Mezzogiorno è spesso l'elemento ricorrente anche se, inoltre - attenzione! - vi sono penalizzazioni anche entro le stesse regioni, comprese quelle del Nord, che riguardano per esempio piccoli centri nel confronto con grandi città, molte aree interne rispetto alle aree metropolitane, le periferie urbane nel confronto con le aree più protette delle città e questo è ovunque e non solo nel Sud. L’Italia è complessa e il tema delle perequazioni è decisivo per la tenuta complessiva della nazione. Ma ritornando al confronto Nord/Sud, ci tengo a partire da alcuni dei dati che l’Impresa sociale Con i bambini ha tenuto a documentare insieme a Openpolis. Sono divari che dovrebbero preoccupare ogni forza politica in Parlamento. L’offerta per la prima infanzia espressa in posti nido e in servizi per l’età tra 0 e 2 anni vede oggi, per ogni 100 residenti, la media italiana che esprime 26,9 posti ma - attenzione! - solo le regioni
meridionali sono sotto la media con Campania a 10,4, Calabria a 10,9, Sicilia a 12,4, Puglia a 18,9, Basilicata a 20,5, Molise a 22,7 e Abbruzzo a 23,9. La domanda cruciale è: può l’offerta pubblica non garantire una uguale o almeno comparabile buona partenza all’inizio della vita per tutti (come invitano a fare le Nazioni Unite e ogni studio internazionale) e che consente alle donne di poter lavorare e al reddito famigliare di crescere? Vi sono forti divari sul tempo pieno sia tra grandi comuni (60% delle classi a tempo pieno) e piccoli comuni (15% del totale delle classi a tempo pieno), sia tra regioni, non solo tra Nord e Sud con Molise, Campania e Puglia sotto al 20% di bambini della scuola primaria con il tempo pieno, mentre la media nazionale è quasi il 40%, con il Veneto al 32,5%, l’Emilia Romagna al 48,6%, la Lombardia al 53,4 e il Piemonte al 51,7%. La domanda fondamentale è: può un bambino nato in un piccolo comune avere in media un quarto delle possibilità di accesso al tempo pieno rispetto al coetaneo che vive in città più grandi e può un bambino del Veneto tra 6 e 10 anni avere, in media, meno ore di scuola di uno dell’Emilia o del Piemonte che, a loro volta, hanno più del doppio dei coetanei di Campania o Puglia? Il 12,7%, in media, di giovani italiani sono usciti prima del diploma o di una qualifica dal sistema educativo, ma nel Mezzogiorno la quota media raggiunge il 16,6%. La domanda cruciale è: può rimanere uno scarto così ampio nei tassi di fallimento formativo senza curare una via d’uscita concordata a livello nazionale? Cosa non trascurare? Bisogna non trascurare più queste domande cruciali. Se l’istruzione rientrasse nel disegno dell’autonomia differenziata, si acuirebbe anche la fuga degli insegnanti migliori verso il Nord del Paese? La risposta è molto difficile da dare perché il “patern” delle cause che hanno spinto gli insegnanti verso il Nord nella fase di attuazione delle legge detta “buona scuola” è davvero complesso. Questa migrazione è stata dovuta, infatti, a più con-cause che si combinano tra loro secondo traiettorie complesse.
Atteso che vi è stata una spinta alle sicurezze derivate dalla stabilizzazione del ruolo docente che la legge prevedeva, vi è stato un mix:
• fattori demografici che hanno visto una maggiore tenuta del numero di nascite e perciò di iscrizioni e dunque di classi in varie aree del Nord (non in tutte),
• maggior numero di cattedre derivate da maggiore offerta di tempo pieno o/e da migliori procedure di assegnazione delle cattedre di sostegno grazie al migliore funzionamento di Asl o anche alla maggiore consapevolezza dei genitori coinvolti,
• divario generale tra popolazione del Nord (2/3 circa del totale) e del Sud (1/3 del totale) in relazione alla diversa situazione del mercato del lavoro che vede il Nord molto più dinamico in termini di offerte di impiego (le più diverse) rispetto alla povera offerta di lavoro al Sud, entro un paesaggio che vede crescere la povertà multi-dimensionale.
Voglio sperare nella buona riuscita del PNRR e degli altri investimenti in istruzione: se vi saranno perequazioni atte a superare, anche in parte, i divari sopra descritti o anche misure (v. gli ingenti fondi di cui dico più avanti) - che prevedano occupazione in campo educativo - vi potrebbe essere un avvio di inversione di tendenza. Altrimenti, purtroppo, è prevedibile una stabilizzazione o un aumento del flusso di migrazione interna da Sud a Nord anche in campo educativo, in triste coerenza con quanto già da anni avviene in quasi ogni settore.
Durante la pandemia tutti erano concordi sulla necessità di rimettere l’istruzione al centro.
Poi…cosa è successo?
Come presidente di Con i Bambini a me piace stare ai fatti e documentarli e devo dire che l’istruzione ha un peso. Infatti, in questo momento vi sono, per l’istruzione, finanziamenti nel bilancio di ministeri, regioni e comuni, diciamo consuetudinari, che derivano dalla legge di stabilità. A questi vanno aggiunti finanziamenti derivati dalla programmazione dell’Unione Europea 2021-2027, con una innovativa attenzione ai minori in povertà, con il lancio del programma UE chiamato Child Garantee.
E poi vanno aggiunti gli ulteriori investimenti del PNRR la cui entità, finalità e le cui problematiche abbiamo voluto documentare, nel dicembre
2022, con una estesa documentazione che ci racconta, in dettaglio, misura per misura, dove e come cadranno i fondi che, complessivamente - attenzione! - sono ben 19,44 miliardi di euro destinati dal PNRR al potenziamento dei servizi di istruzione, cui si aggiungono altri interventi trasversali alle diverse missioni. Sono una quantità di soldi per l’istruzione che può essere paragonata al piano Marshall dopo la guerra o agli investimenti del primo centro-sinistra negli anni sessanta dello scorso secolo. Dunque, gli investimenti previsti in istruzione ci sono. E sono un segno di cambiamento di prospettiva rispetto al quadro ereditato dal periodo 2009-2015 che ha conosciuto il disinvestimento più grande di tutti i paesi OECD e il più massiccio nella storia dell’Italia unita, dal 1861! Vi sono ora risorse ingenti. Il vero tema - come Con i Bambini segnala in modo documentato nel suo dossier curato insieme a Openpolis - è che l’Italia riesca a evitare sprechi e a usarli bene, sostenendo le comunità educanti che operano nei territori, che sono capaci di riunire comuni, scuole, terzo settore, a partire dalle aree più fragili, secondo modelli operativi flessibili e fondati su criteri di prossimità con i bambini e ragazzi e anche con i genitori secondo modalità di efficacia/efficienza e, dunque, prevedendo la rigorosa valutazione dei risultati.
Proprio con l’emergenza sanitaria sono cresciute anche dispersione scolastica e povertà educativa, specie al Sud. Quali azioni sarebbero necessarie per contrastarle fin dalla prima infanzia?
Ritorno sulle comunità educanti. Perché, a partire dai 420 partenariati finanziati dal Fondo di contrasto della povertà educativa e da Con i Bambini (ma non solo), sono migliaia le buone pratiche in Italia (e molto diffusamente nel Mezzogiorno) che dimostrano, appunto, che si può contrastare dispersione scolastica e povertà educativa se si creano alleanze tra enti locali, scuole e organizzazione del terzo settore e del volontariato. Il compito che abbiamo è quello di rendere stabili queste spinte positive e queste esperienze.
Oggi si tratta di far dialogare, in modo operativo, i finanziamenti messi in campo da Italia e Europa, a partire dal PNRR e le esperienze che, sul campo, hanno funzionato. È possibile. Il mondo del terzo settore è attivato su questa prospettiva. E vi è anche attenzione,
da parte di molti decisori, per questa prospettiva. Dal suo osservatorio, i “ragazzi del Sud” hanno ancora quella che l’antropologo indiano Arjun Appadurai chiama “capacità di aspirare”? E a scuola c’è chi gliela insegna?
Penso di sì. E mi spiego, a partire da una lunga personale esperienza sul campo, con i ragazzi. La mia esperienza mi dice, però, che la capacità di aspirare è sia parte di una co-costruzione di prospettive positive lì dove si vive, sia emigrazione come una forma di resilienza di chi è spinto a reagire andando via, in risposta a una situazione di difficoltà, esclusione, mancanza di prospettiva lì dove vive. Spesso, per i ragazzi del Sud, si traduce con l’emigrazione.
Si pensi - faccio un solo esempio - ai 43mila laureati napoletani che se ne sono andati via dalla loro città negli ultimi 10 anni, nel Nord, in Europa, nel mondo. È un’enormità! È anche - certamente - "capacità di aspirare a..." Ma segnala anche uno squilibrio dolorosissimo e una perdita di risorse. Perché non sono venuti altrettanti ragazzi a Napoli dal resto del mondo. E perché queste migliaia di ragazzi di Napoli non sono partiti per scelta libera ma per poter far valere competenze
che non possono fare valere nel loro territorio per la pauperizzazione del territorio, che non è solo responsabilità nazionale ma anche delle cattive classi dirigenti nel Sud.
Viceversa se si creano occasioni resilienti lì dove si vive - penso, ad esempio, al quartiere Sanità di Napoli ma anche di tante altre esperienze positive nel Sud - allora si apre la via allo sviluppo locale.
Tante scuole, anche al Sud, partecipano a quest’ultima prospettiva costruendo iniziative di attivazione civica, tessendo alleanze territoriali con imprese, terzo settore, comuni, ecc.
Altre scuole sono più chiuse in sé.
Poi - va detto - esistono anche altre realtà...ed è quando, purtroppo, tanti e tanti (troppi!) ragazzi stanno chiusi in casa o intrappolati da povertà ed esclusione multidimensionale e non riescono a esprimere le proprie aspirazioni, non partono e non partecipano neanche a co-costruire speranze nei propri quartieri.
Le politiche pubbliche devono potere agire per favorire aspirazioni, come proprio Appadurai ci ricorda. Non riescono oggi a farlo quanto si dovrebbe e potrebbe fare.
INTERVISTA A CESARE MIRABELLI, PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE
MIRABELLI: «CLAUSOLA DI SUPREMAZIA PER ALCUNE COMPETENZE»
Per il presidente emerito della Corte Costituzionale, può esserci autonomia differenziata ma solo per alcune materie e lo Stato dovrebbe poter egualmente intervenire nonostante il trasferimento e senza ricorrere a contenziosi
di Raffaella Venerando
Autonomia differenziata, partiamo dalla forma: quali sono i nodi procedurali del ddl Calderoli?
Si tratta di un tema di particolare rilievo costituzionale, che non può essere ridotto semplicisticamente all’adesione alla richiesta di alcune Regioni di trasferire loro competenze oggi attribuite allo Stato. Va inserito, infatti, in un quadro generale in cui si sviluppa il principio autono-
mistico, sancito dall’articolo 5 della Costituzione, promuovendo l’operatività e la più ampia tutela delle autonomie territoriali nel rispetto, però, di un contesto statale unitario e indivisibile, in cui il mantenimento dell’unità nazionale equivale anche a una identità di diritti, di condizioni di equilibrio nello sviluppo economico e sociale tra le diverse aree e territori.
La Costituzione prevede anche, sempre nella rifor-
ma del Titolo V, un elemento finanziario di forte riequilibrio in favore delle aree svantaggiate, e cioè che siano attribuite risorse speciali ai territori che hanno minore sviluppo con interventi di sostegno anche dello Stato, oltre tema della garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (Lep) non ancora definiti. C’è un’eredità del passato da rimuovere. Mi riferisco alla necessità innanzitutto di uniformare i servizi essenziali offerti ai cittadini - sarebbe inammissibile, ad esempio, generare tutele sanitarie differenziate in aree territoriali diverse, tanto più che determinerebbero ovviamente anche un trasferimento di persone per godere di buone prestazioni sanitarie - ma anche di non attribuire più le risorse sulla base della spesa storica perché -diversamente - chi finora è stato svantaggiato rimarrebbe tale e non avrebbe accesso a migliori condizioni. Ciò non significa che non possa esserci autonomia differenziata. Il punto è il come, e in quali materie. Non è detto infatti che tutte e 23 le materie di competenza concorrente debbano essere trasferite. Su questo punto, sarebbe utile un metodo gradualistico, non una risposta passiva dello Stato rispetto alle richieste delle Regioni non ancorate a specificità locali.
Andrebbero individuati quali “stock” di competenze può essere opportuno trasferire anche per saggiare validità ed efficacia di questa riorganizzazione istituzionale. La Costituzione fa riferimento a ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia: mi chiedo: può lo Stato - nel trasferire alcune di queste competenze - porre delle condizioni, inserendo una clausola di supremazia per cui in condizioni di necessità, quando si verifica una esigenza unificatrice o un interesse nazionale, lo Stato possa egualmente intervenire nonostante il trasferimento di tali competenze alle Regioni senza ricorrere a contenziosi costituzionali?
Ritengo possa essere efficace anche per ragioni di chiarezza. Laddove, per esempio, si tratta di grandi reti, per evitare che ci siano contenziosi tra le parti, lo Stato si spoglierebbe e concederebbe ma trattenendo a sé una leva di emergenza.
Tornando al disegno di legge Calderoli, pur essendo stabilita la necessità di una maggioranza particolarmente qualificata per validare il passaggio di materie, il Parlamento resterebbe comunque ai margini del processo di approvazione. La mera ratifica del Parlamento pertanto non sarebbe plausibile?
No, anzi. Dovrebbe essere necessario un atto di indirizzo del Parlamento, non una discussione ex post per giunta da concludersi in tempi brevi e con un prendere o lasciare.
Il ddl Calderoli è costruito analogamente a quello che si è fatto per l’applicazione dell’articolo 8 della Costituzione nei rapporti tra Stato e confessioni religiose non cattoliche.
Ma si tratta di due situazioni profondamente diverse. In quest’ultimo caso si è verificata una larga parlamentarizzazione delle procedure, del “prima”, sulle bozze di accordo transitate la discussione c’è stata ed è restata la possibilità da parte del Parlamento di richiedere modifiche da negoziare con l’altra parete o di apportare modifiche di carattere non sostanziale, quali quelle dirette ad integrare o chiarire il disegno di legge.
Nessun limite di competenze da delegare alle Regioni non è di per sé un limite?
Si tratta di una valutazione politica, ma a mio avviso sanità, istruzione e grandi reti non possono che essere nazionali e, queste ultime, in prospettiva europee. La clausola di supremazia, che richiamavo pocanzi, semplificherebbe di molto le scelte da adottare, potendo lo Stato comunque intervenire se motivato. Un ultimo elemento: forse sarebbe opportuno fare una sorta di prova di resistenza, una valutazione di quali benefici e costi in chiave di gestione amministrativa e di possibili risultati di semplificazione si avrebbero con il trasferimento, se davvero migliorerebbe l’efficienza, se davvero ci sarebbero costi inferiori per i cittadini. Utile sarebbe lavorare per avere una modellistica di tipo organizzativo, capace di ispirare anche le scelte da fare sulla base del principio di sussidiarietà che muove sia verso il basso, sia verso l’alto. La sussidiarietà, ricordiamolo, non può essere solo devolutiva.
l'opinione
HID GLOBAL, CAMPIONI DI SICUREZZA
La società campana leader mondiale per lo sviluppo di sistemi operativi per microprocessori per smart card di tipo contact-less inanella un successo dopo l’altro. L’ultimo è l’accordo col principe di Johor (Malesia) per uno stadio che implementa la tecnologia del sistema di controllo accessi sperimentata già al mondiale in Qatar. Ne abbiamo parlato con Cesare Paciello, vicepresidente della Business Unit EMS (Events & Mobility Solutions) e Ceo della sede italiana di HID Global di
Raffaella VenerandoDottor Paciello, l’HID Global - di cui è ceo - negli ultimi anni è balzata agli onori della cronaca internazionale per essersi aggiudicata, per tre edizioni consecutive della Coppa del Mondo FIFA, l’emissione di smart ticket. Ci racconta dalla “prima volta” come sono cambiate le richieste e, di rimando, come è stata customizzata la vostra offerta tecnologica?
La nostra è un’azienda di ingegneria, leader mondiale per lo sviluppo di sistemi operativi per microprocessori per smart card di tipo contact-less. La Business Unit che gestisco si occupa di sviluppare prodotti e soluzioni in due verticali specifici: eventi e mobility (trasporto pubblico locale). La prima importante esperienza nel mondo eventi è stata, come lei ricordava, quella della Confederations Cup - seguita dalla World Cupin Brasile nel 2013. Il buon esito della stessa ci è valso la conferma per i due successivi appuntamenti sportivi. L'adozione del nostro biglietto cartaceo, dotato di una serie di fe-
atures di sicurezza fisiche e di un chip in cui vengono crittografati i dati (successivamente decriptati quando avviene l’access control allo stadio), ha consentito di fatto l'eliminazione del problema della falsificazione dei biglietti. Lo Smart Ticket ha certamente rappresentato l'elemento trainante della nostra offerta ma non il solo. Al ticket, infatti, accompagniamo una serie di servizi di personalizzazione - stampa, instant issuing con chioschi di emissione - cui
va ad aggiungersi la competenza e la disponibilità in loco del nostro team per tutta la preparazione e la durata dell’evento sportivo, garanzia che tutto si svolga senza complicazioni. In Qatar, ci siamo sfidati e superati, ampliando di molto l’offerta: il sistema di controllo degli accessi implementato è stato di gran lunga più impegnativo rispetto al passato. Siamo stati capaci di presidiare l’outer perimeter di tutti e gli otto stadi coinvolti nel mondiale in tempo reale.
Un progetto massivo che ci ha visti impegnati sia per la parte software, sia per quella hardware. Un dato che forse plasticamente può restituire la forza del lavoro messo in campo: per il solo mondiale del Qatar abbiamo gestito 35 milioni di credenziali. Lei mi chiedeva cosa fosse cambiato dal primo al terzo mondiale... direi che in questo lasso di tempo è cambiato il mondo, e noi con esso. Qualche anno fa l’esigenza primaria era evitare la contraffabilità del biglietto per immaginabili motivi di sicurezza interna, oggi - sempre richiamando l’esperienza ultima del Qatar - con l’ideazione, implementazione e gestione del sistema di controllo accessi siamo andati ben oltre il solo biglietto fisico non duplicabile, mostrando con buona evidenza che tecnologia e pensiero creativo sono la nostra forza distintiva. Ma non solo la Fifa ci ha scelti. Nel 2009 siamo stati i fornitori della Champion’s card per la finale disputatasi a Roma tra Barcellona e Manchester United. Il biglietto da noi progettato allora, oltre a consentire l’accesso all’Olimpico, permetteva la visita dei Musei capitolini e l’utilizzo dei mezzi del trasporto pubblico locale. Lavoriamo per la UEFA con la nostra piattaforma di controllo accessi per le finali di Champions, Europa League, Nations League e Supercup da cinque anni e le nostre soluzioni sono state utilizzate anche nell'ultimo Europeo (Euro 2020). Da allora siamo cresciuti molto e ancora molto
vogliamo innanzitutto sfidare noi stessi.
Il vostro sistema quindi garantisce maggiore sicurezza negli stadi?
È evidente che le problematiche relative a biglietti falsi o duplicati con il nostro sistema di ticketing sono bypassate. La sicurezza è un nostro elemento costitutivo e di rimando è insita strutturalmente in ogni nostro prodotto.
Oltre all’ambito sportivo, in quali altri campi sono utilizzati i vostri sistemi?
Come le dicevo, i verticali sono 2: eventi e tpl. Per il trasporto pubblico locale realizziamo tanto le carte fisiche - servendo un numero ragguardevole di città italiane, tra cui Napoli, Bologna, Milano, ma anche internazionali come Parigi, Casablanca, Lione e molte altre - quanto la virtualizzazione delle smart card su device mantenendone inalterata la sicurezza.
Negli ultimi mesi la penuria di chip e materiali semiconduttori ha causato l’interruzione di molte catene di montaggio. Questo fenomeno ha penalizzato anche il vostro segmento?
Sì, ci ha interessato da vicino impattando sulla nostra capacità di produzione. Abbiamo reagito stringendo accordi con i maggiori produttori mondiali di silicio garantendoci quindi uno stock adeguato di materia prima. L’effetto è stato duplice: da un lato ne ha risentito il cashflow, dall’altro il magazzino pieno ci ha consentito di avere le spalle forti per espandere ulteriormente il nostro raggio di azione.
Oggi le aziende sono sempre più sotto attacco. È possibile anticipare e prepararsi rispetto a potenziali minacce come possono esserlo i cyberattacchi e, più in generale, come un’impresa può adeguatamente proteggere il proprio patrimonio digitale?
Investendo e impostando una strategia di sicurezza informatica efficace che comprenda una approfondita valutazione dei rischi, ma anche la pianificazione di interventi di mitigazione dei rischi stessi. La nostra azienda è certificata ISO 27001, lo standard internazionale che descrive le best practices per un sistema di gestione della sicurezza delle informazioni. Proteggere il patrimonio dei dati è, per una realtà come la nostra, fondamentale.
La sua immagino sia una realtà molto attrattiva per le giovani generazioni. Cosa è necessario che offra oggi un’azienda del Sud per attrarre e trattenere talenti? Deve, più che offrire, garantire di essere un ambiente in cui è possibile coltivare il proprio talento ed evolvere. La relazione con gli atenei campani, di rimando, è per noi indispensabile per l’elevato valore dei profili formati. Un’azienda come la nostra ha necessità costante di nuove energie per conservare il proprio dinamismo tecnologico, ma ha pure la responsabilità di restituire al talento che ha la fortuna di incontrare opportunità di training continue.
La crescita deve essere reciproca, così come il coinvolgimento e la fiducia.
L’OFFERTA SCIENTIFICA PUBBLICA
PER LO SVILUPPO TECNOLOGICO TERRITORIALE: IL CASO CAMPANIA
Dinamismo accademico, condivisione di obiettivi strategici tra gli atenei di aree territoriali diverse, convergenza tra ricerca di base, mission-oriented e imprenditorialità possono permettere di capitalizzare gli investimenti pubblici in ricerca e formazione, trattenendo al Sud le migliori menti
di Autilia Cozzolino, Ricercatrice Ufficio Economia delle Imprese e del Territorio, SRM www.sr-m.it
Colmare i divari territoriali in Italia affidandosi alla ricerca pubblica è coerente con una nuova prospettiva che vede il problema del Mezzogiorno come una grand challenge da affrontare attraverso “missioni” di ampia rilevanza per la società che coinvolgono più settori e discipline scientifiche, nonché i portatori di interessi.
L’interazione tra attori pubblici e privati nelle numerose iniziative di trasferimento tecnologico messe in campo nel Mezzogiorno non fanno altro che favorire un approccio partecipativo alle decisioni di politica industriale e tecnologica, soprattutto se di competenza regionale. La Campania si distingue nel più ampio contesto meridionale per alcuni elementi di evidente rilievo alla luce della teoria dei sistemi regionali di innovazione.
Per iniziare, è tra le regioni più popolose d’Italia (terza: oltre 5,6 milioni di abitanti) ed è la più giovane (prima per età media: 43,6 anni), informazione di rilievo per la domanda di istruzione universitaria e per il ricambio generazionale nel mercato del lavoro. In Campania, 5 atenei pubblici non telematici (Unicampania, Unina, Uniparthenope, Unisa, Unisannio) hanno in organico 3.508 tra docenti e ricercatori delle aree disciplinari CUN da 1 a 9 (vale a dire 1-Scienze matematiche e informatiche, 2-Scienze fisiche, 3-Scienze chimiche, 4-Scienze della terra, 5-Scienze biologiche, 6-Scienze mediche, 7-Scienze agrarie e veterinarie, 8-Ingegneria civile e architettura, 9-Ingegneria industriale e dell’innovazione). Le tabelle pubblicate dall’ANVUR nei rapporti di area mostrano che tali atenei, in alcune aree CUN, hanno conseguito posizioni alte nei ranking stilati per quartile dimensionale.
Per l'Anno Accademico 2021/22, nelle aree CUN 1-9, si contano161 corsi di laurea specialistica (di cui circa la metà presso Unina) e il 29% (47) sono a carattere internazionale. Sono presenti, inoltre, 58 programmi di dottorato nelle aree CUN 1-9. Va evidenziato che la formazione dottorale campana sta consolidando il suo grado di apertura alle collaborazioni internazionali e ai rapporti con il tessuto imprenditoriale.
Come si osservava pocanzi, le caratteristiche demografiche e geografiche della Campania favoriscono la formazione di ecosistemi o cluster innovativi, in cui imprese, atenei, centri di ricerca pubblici e privati, attori del terzo settore e istituzioni contribuiscono, collaborando, all’avanzamento della frontiera tecnologica.
In particolare, in riferimento ai brevetti depositati o concessi, se ne contano 16. Guida l’ideale graduatoria regionale Unicampania con 7 brevetti, seguita da Unina (4), Unisa (3), Uniparthenope (2). Nel complesso, il settore con maggiore frequenza di brevettazione è Sanità e Biomedicale, con 9 brevetti.
Tra gli spinoff censiti alla banca dati Spin-off Italia, 109 sono associati ad atenei campani. I settori col maggior numero di spinoff sono life sciences (25), Energia e ambiente (24) e Servizi per l’innovazione (23). Il quadro delle istituzioni di collegamento tra ricerca pubblica e imprese in Campania risulta alquanto ricco e articolato. Di recente il MUR ha approvato il finanziamento degli ecosistemi dell’innovazione, di cui all’avviso n. 3277 del 3012-2021, nell’ambito della missione 4, componente 2 del PNRR. Sono stati finanziati 27 progetti. Al quarto posto della graduatoria si è qualificato SHe-
rIL - Samnium Heritage Innovation Lab, guidato da Unisannio, per un finanziamento di 5 milioni di euro. Hanno ottenuto finanziamenti sullo stesso bando, come capifila, anche Unina (Ecosistema Innovazione: sistema culturale e creativo e città storica del futuro), Uniparthenope (Physical Internet per la logistica delle merci ad altissima velocità), Unisa (Ecosistema della medicina personalizzata per le life science). Unina guiderà il National Research Centre for Agricultural Technologies-Agritech, con un budget di 320 milioni di euro (per il 45% destinato al Sud) e la partecipazione di 46 soggetti, tra cui 14 imprese. Il finanziamento è stato concesso su fondi PNRR (Decreto Direttoriale MUR n. 3138 del 16-12-2021), Missione 4 Componente 2 Investimento 1.4 “Potenziamento strutture di ricerca e creazione di "campioni nazionali di R&S" su alcune Key Enabling Technologies”.
A San Giovanni a Teduccio, Napoli, ha sede la iOS Apple Developer Academy, in collaborazione con tutti gli atenei pubblici napoletani. Il programma formativo, con didattica fondata sul challenge based learning, è focalizzato sullo sviluppo software, la progettazione di app e la creazione di startup. Sono attivi in tutte le università campane i Contamination Lab (CLAB) previsti dal Programma Nazionale per la Ricerca, in cui vengono promosse idee interdisciplinari per la definizione di progetti imprenditoriali innovativi in grado di impattare sul territorio, coinvolgendo studenti universitari e dottorandi. MediTech, il Competence Center del Sud Italia sui temi dell'industria 4.0, è stato istituito nel 2019 con sede a Bagnoli, presso la Città della Scienza. Hanno aderito al centro 5 università della Campania (Unina, Uniparthenope, Unisa, Unisannio, Unicampania) e 3 della Puglia (Uniba, Poliba, Unisalento), oltre che due amministrazioni regionali, con il coinvolgimento di oltre 100 imprese. Università ed enti di ricerca della Campania e di altre regioni hanno dato vita nel 2006 alla società consortile Biogem, con sede ad Ariano Irpirno (AV). Biogem ha tra i propri soci campani Unina, Unicampania, Unisannio, Unisob, CNR e Stazione zoologica Dohrn. Biogem collabora con gli atenei sul piano della ricerca ma anche attraverso il programma University Industry Internship Programme. Tutti gli atenei campani hanno aderito a PNICube-Associazione Italiana degli Incubatori Universitari e delle Business Plan Competition. I
5 atenei pubblici campani sono soci ordinari della Fondazione R&I-Ricerca & Imprenditorialità per lo sviluppo dei settori ad alta e media tecnologia. Unina è partner di TerraNext, parte della Rete Nazionale Acceleratori di CDP Venture Capital, con specializzazione nel meta-settore della bioeconomia. Tra i fondatori di TerraNext risulta il Cluster Italiano della Bioeconomia Circolare-SPRING, di cui sono soci Unina, Uniparthenope e Unisa. Ha sede a Napoli l'AGCOM, Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni, a cui è affidato il compito di assicurare la concorrenza in alcuni settori correlati alla rivoluzione informatica, quali le telecomunicazioni, l'editoria, i mezzi di comunicazione di massa e le poste. Atenei campani (Unina, Uniparthenope, Unisob) hanno stipulato convenzioni con l’AGCOM per lo svolgimento di studi e ricerche sugli aspetti economici, tecnici e socio-giuridici delle reti di nuova generazione.
La scelta riflette una visione del Mezzogiorno -e in particolare della Campania- come area territoriale in cui, sebbene occorra colmare divari nelle infrastrutture fisiche e sociali di base - dalla rete stradale alla scolarizzazione - è possibile attivare iniziative che consentano al Paese di partecipare alle sfide della globalizzazione con una strategia più lungimirante della concorrenza nei prezzi. Come sostiene da anni SRM, il Mezzogiorno, facendo leva sui suoi punti di forza, può dare un contributo essenziale alla crescita sostenibile e durevole dell’intero Paese. Questo è vero sia perché le regioni del Sud rappresentano un mercato di sbocco elettivo per le produzioni del Nord, ma soprattutto perché nei "cassetti" delle università, degli enti di ricerca e delle imprese del Sud possono trovarsi idee innovative in attesa di realizzazione pratica, su cui sviluppare reti di collaborazione.
Dinamismo accademico, condivisione di obiettivi strategici tra gli atenei di aree territoriali diverse, convergenza tra ricerca di base, ricerca mission-oriented e imprenditorialità possono permettere di capitalizzare gli investimenti pubblici in ricerca e formazione, trattenendo le migliori menti; e dunque possono rendere il tessuto produttivo del nostro Paese più robusto rispetto agli shock esterni e maggiormente proattivo rispetto alle opportunità fornite dalle tecnologie emergenti.
(Per i dati si ringrazia il Prof. Alessandro Sapio, Università degli Studi di Napoli Parthenope).
DALLA PARTE DELLE AZIENDE
Il vicepresidente di Confindustria con delega all’organizzazione, lo sviluppo e il marketing Alberto Marenghi in visita al Gruppo Sada: «Qui si interpreta la sostenibilità con coerenza, con risultati visibili»
a cura della redazione
Ascoltare da vicino le aziende, capirne ambizioni, aspettative, ma anche sforzi e sfide. È questo il senso del programma di visite che vede impegnato, oramai da mesi, il vicepresidente di Confindustria con delega all’organizzazione, lo sviluppo e il marketing Alberto Marenghi e che, lungo tutta l’Italia, gli sta svelando progetti e realtà di valore.
Per la tappa salernitana è stato il Gruppo Sada ad aprire porte e segreti dei suoi stabilimenti lo scorso 21 marzo.
Marenghi ha potuto constatare dal vivo quanto il concetto di sviluppo sostenibile, così come il binomio innovazione-crescita, siano da sempre nel DNA del Gruppo: uno dei tre stabilimenti di Salerno visitati è, infatti, tra i primi in #Europa in grado di stampare offset direttamente su microonda e ha visto, in un ventennio, l’apertura di 7 siti produttivi e il passaggio da 50 a 554 collaboratori. L’ingresso di clienti premium ha portato a consolidare i valori del Gruppo, in un percorso di trasformazione.
«Qui si interpreta la sostenibilità con coerenza, con risultati visibili», ha commentato il vicepresidente, accompagnato nelle aziende dal presidente
del Gruppo Sada Antonello Sada, vicepresidente di Confindustria Salerno, dal presidente dell’Associazione Antonio Ferraioli, il past president e presidente Unioncamere
- Andrea Prete e una rappresentanza della Squadra di Presidenza.
All’incontro ha preso parte il presidente del Consiglio delle Rappresentanze Regionali e
vicepresidente di Confindustria Vito Grassi. In Sada lo scarto di produzione favorisce l’economia circolare perché è la materia prima utilizzata dalle cartiere per produrre la carta. Si realizza così il principio di prossimità preservando la catena del valore locale e contribuendo alla ricchezza territoriale in ottica di responsabilità sociale condivisa.
GIOVANI, È IL MOMENTO DI AGIRE
La crescita del tessuto imprenditoriale e la risposta delle aziende alle continue sfide globali non possono prescindere dalla formazione e dallo sviluppo delle competenze all’interno delle nostre organizzazioni
di Marco Rinaldi, vicepresidente Gruppo GI Confindustria SalernoIl Gruppo Giovani è da sempre attivo e attento alle tematiche sociali e, attraverso l’organizzazione di incontri ed eventi, punta a coinvolgere e sensibilizzare tutti gli attori del tessuto sociale del territorio su alcune tematiche di specifica attualità. Solo per citarne uno su tutti: l’evento realizzato insieme al Banco Alimentare Campania a Fisciano il 30 giugno scorso, voluto non solo per evidenziare l’importante ruolo svolto dall’organizzazione, ma anche per sottolineare come la sostenibilità - che rappresenta ormai un elemento cardine per le aziende del futuro - non può che includere la responsabilità sociale. Abbiamo da poco superato il giro di boa del nostro mandato, per cui è sì tempo di bilanci ma soprattutto di nuova programmazione delle attività cui dedicarci nei prossimi 18 mesi. Nel corso dei primi due anni di mandato, abbiamo portato avanti numerose iniziative di approfondimento su questioni centrali per le nostre aziende, in primis sulla sostenibilità e sulla digitalizzazione, ma anche su tante altre tematiche, con l’obiettivo di far crescere il nostro background professionale. Ad oggi uno dei temi centrali, che è tra le competenze del Gruppo Giovani e sul quale
sicuramente concentreremo le energie nei prossimi mesi, è la valorizzazione del capitale umano, fattore chiave per la crescita di competitività delle nostre imprese. Il disallineamento tra la domanda e offerta di lavoro è, infatti, sempre più marcato. Per risolvere il paradosso dell’elevata disoccupazione giovanile da un lato e, dall’altro, della crescente difficoltà a reperire profili adeguati da parte delle aziende, è necessario investire maggiori risorse in formazione e informazione. Va per questo incentivato lo sviluppo degli ITS e siamo fieri che Confindustria Salerno abbia costituito il primo della nostra provincia per l’agroalimentare. Ne serviranno altri. Come è necessario che vi sia un maggiore sviluppo di academy formative, con percorsi intensivi di formazione per i giovani, con l’obiettivo di spe-
cializzarli in base alle competenze richieste dalle aziende. Su questo argomento porteremo avanti importanti iniziative nei prossimi mesi. Abbiamo inoltre pianificato diversi incontri per individuare gli strumenti utili ad aumentare l’attrattività delle nostre imprese, capire quali sono le motivazioni che guidano le scelte dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro e, infine, per identificare le soluzioni idonee a evitare il fenomeno oramai diffuso delle “grandi dimissioni”, giustificate non più solo da elementi economici.
Un ulteriore ambito, in cui i Giovani di Confindustria Salerno da anni collaborano con gli istituti scolastici, è l’orientamento degli studenti iscritti agli ultimi anni delle scuole secondarie. In questa fase è importante intraprendere il corretto percorso formativo ed essere guidati nelle scelte per essere pronti e formati ad affrontare le sfide future del mondo del lavoro, che, oggi più che mai, è in continua e rapida evoluzione. La crescita del tessuto imprenditoriale e la risposta delle aziende alle continue sfide globali non possono prescindere dalla formazione e dallo sviluppo delle competenze all’interno delle nostre organizzazioni.
È in gioco il futuro del Paese.
DALL’AMERICA LATINA ALLA
DIETA MEDITERRANEA: IL LUNGO VIAGGIO DI TEOREMA NEL GUSTO
L’azienda, fondata da Rossella Spatola, è la naturale evoluzione della realtà produttiva di famiglia: oggi produce e commercializza una vasta gamma di prodotti alimentari ispirati a salute e benessere
a cura della redazione
Teorema Mediterraneo Srl nasce nel 2015 dall’intuizione della giovane imprenditrice Rossella Spatola che, dopo i primi passi nell’azienda di famiglia, decide di partire alla volta del Sud America per conoscere il mondo del food da più di un’angolazione. Qui si occupa di importazione di prodotti alimentari, nel mentre germina in sé la voglia di rientrare in Italia e dare vita a una società che consideri l’alimentazione varia ed equilibrata come presupposto di una vita in salute. Inizia così una collaborazione con un medico nutrizionista per impostare un’idea di prodotti naturali, in linea con quella che è la dieta migliore al mondo, ovvero la dieta mediterranea. Con il tempo il progetto si evolve e, in concomitanza con il passaggio generazionale dell’azienda storica di famiglia, Teorema passa dal commercializzare al produrre direttamente le proprie linee. La compagine sociale varia e nuovi esperti salgono a bordo: tra questi una giovane biologa, esperta in nutrizione, Donatella Esposito, nonché cugina di Rossella. Le due, insieme, decidono di dare vita ad un’azienda tutta al femminile, puntando a prodotti naturali con packaging accattivanti e moderni. Ad oggi, dopo un anno di assestamento produttivo, l’azienda vanta un team solido di 10 donne e 4 linee di produzione in crescita:
• linea di condimenti disidratati per pasta, risotti conditi, mi-
scele e insaporitori a base di spezie, ereditata da 100 anni di storia;
• linea di marmellate naturali con frutta fresca, senza pectina e zuccheri aggiunti;
• linea di creme spalmabili con frutta secca di prima qualità;
• linea di vellutate, ultima arrivata in casa Teorema, preparata con verdure fresche, olio Evo e spezie.
I mercati di riferimento sono diversi:
• il canale turistico presso il quale l’idea di sugo disidratato in bustina è apprezzata in quanto rispecchia il tipico piatto di pasta italiano, comodo da trasportare e semplice da replicare a casa;
• il normal trade, soprattutto per la linea conserve dolci e salate;
• vendita al pubblico diretta attraverso la partecipazione a circuiti fieristici dedicati e portali e-commerce.
Teorema Mediterraneo punta anche
all’estero: grazie alla partecipazione ad eventi fieristici internazionali, l’azienda è già presente su diversi mercati quali America, Olanda,
Germania, Belgio, Svizzera, Francia, con la voglia però di crescere ed espandersi sempre di più soprattutto in Nord Europa. La continua ricerca di innovazione, di prodotti, di ricette e di packaging rende l’azienda particolarmente competitiva: in poco più di un anno è stata lanciata una linea del tutto nuova e diverse varianti di quelle già esistenti.
Niente è standard in Teorema, qualità a parte: il cliente potrà personalizzare il proprio packaging grazie alla presenza di un reparto di grafica interno e allo studio di ricette personalizzate, anche per piccoli quantitativi. Idee chiare sul prossimo futuro: entro due anni l’impegno sarà teso ad automatizzare i processi produttivi al 100%, a incrementare il canale e-commerce e a diversificare le linee produttive puntando non solo al food.
Teorema Mediterraneo srl via Lamia, 258 - Nocera Superiore (Sa) www.teoremamediterraneo.com
TABATATECH, INNOVARE SEMPLICEMENTE
All’avanguardia nella realizzazione di software che aiutano le imprese a crescere, semplificando i processi e rendendoli più efficaci
a cura della redazione
Viviamo in tempi nuovi in cui le imprese si trovano a dover ragionare di nuovi sistemi, modelli lavorativi e di digitalizzazione. Tempi in cui ciò che sembrava impossibile ora si mostra come la nuova frontiera dello sviluppo. In questa nuova dimensione, ciò che è veramente importante è capire come queste innovazioni possono essere messe a sistema ed essere concretamente utili a chi fa impresa. Questo è ciò che fa Tabata, azienda salernitana produttrice di software. Il suo credo? Ritenere che innovazione significhi trovare un nuovo modo di fare qualsiasi cosa e far sì che questo nuovo modo sia disponibile e utilizzabile da tutti. Concretamente il team di Tabata porta innovazione nelle
aziende, utilizzando, ad esempio, le potenzialità dei Sistemi di Business Intelligence, o l’efficienza della Digitalizzazione dei Processi, senza mai dimenticare che la persona è al centro, che è l’uomo che poi dovrà utilizzare quei Sistemi.
Compito dell’Innovazione è migliorare i processi: rendendoli più efficaci, proteggendoli dagli errori, cosicché l’azienda possa tenere il passo con la società e i mercati che cambiano, potendo al contempo contare sulla collaborazione di quanti lavorano e contribuiscono alla vita dell’azienda attraverso le loro idee. Un aneddoto è diventato il loro mantra: alla domanda ricorrente: “questo software a cosa serve?”, alla Tabata rispondono che “un software altro non è che un compagno di lavoro. Sta all’utilizzatore
decidere cosa vuole che faccia insieme a lui”. In tanti anni di attività hanno ormai chiaro che un software deve essere prima di tutto concepito come parte integrante dell’azienda ed essere parte attiva a sostegno del modo di lavorare dell’impresa stessa e delle sue scelte imprenditoriali.
In Tabata hanno fatto della ricerca verso l’innovazione la propria motivazione, integrandola in un qualsivoglia sistema produttivo. Da questo punto in poi, tutto ciò che sembra complesso diventa semplice e funzionale.
Tabatatech
via Marcello, 2/41
84085 Mercato San Severino (Sa) tel. 089 0977925 - www.tabatatech.it
SYNERGIE, IL LAVORO CHE TI CAMBIA LA VITA
Un Gruppo solido che conta oltre 700 filiali in tutto il mondo, con divisioni specializzate che supportano candidati e imprese per ogni posizione professionale e in tutti i settori economici
a cura della redazione
Sono i valori di un’azienda a renderla unica. Quelli che guidano Synergie sono la fiducia, l’empatia e il desiderio di creare dei rapporti a lungo termine con lavoratori e aziende. Synergie Italia S.p.A. nasce nel 1999 dall’incontro tra un team di professionisti italiani e il gruppo Synergie SA, prima agenzia per il lavoro francese e quinta a livello europeo. Con oltre 150 filiali in tutta Italia, più di 27.000 risorse occupate e 10.000 aziende partner, l’Italia è il secondo Paese del gruppo Synergie per fatturato e numero di filiali.
Solida realtà che promuove l'innovazione e la sostenibilità aziendale, sociale e ambientale, Synergie vanta divisioni specializzate che supportano candidati e imprese per ogni posizione professionale e in tutti i settori economici. I suoi servizi spaziano dalla ricerca, selezione e valutazione di personale specializzato e la somministrazione di lavoro a tempo determinato e indeterminato, alla progettazione e realizzazione di corsi di formazione, l’organizzazione aziendale, i servizi di outsourcing e di consulenza, la ricollocazione e la riqualificazione nell’ambito delle politiche attive del lavoro.
Synergie dedica un’attenzione particolare al benessere di tutto
il personale, promuove trattamenti etici ed equi e accoglie le convenzioni internazionali dei diritti umani e dei lavoratori.
Attraverso un monitoraggio continuo si impegna a favore di un utilizzo sostenibile delle risorse, secondo gli obiettivi dell'Agenda 2030: riduzione delle emissioni di CO2 e dei consumi idrici ed energetici, digitalizzazione dei processi interni ed esterni, differenziazione dei rifiuti e azioni di sensibilizzazione dei propri stakeholder.
Le sue collaborazioni spaziano tra marchi appartenenti ai settori più svariati: Aerospace, Automotive, Costruzioni, Fashion, Food, Hospitality & Beverage, Medical Care, IT & Digital, Tech e Telecomunicazioni.
Il suo brand S&You, specializzato nella ricerca e selezione di profili di executive e middle
management a livello nazionale e internazionale, mette a disposizione per ogni settore un team in grado di scegliere le professionalità più qualificate, per aumentare le possibilità di successo e lo sviluppo professionale nel lungo periodo. L’approccio, altamente personalizzato, è garanzia di cura, continuità e conoscenza approfondita. La Filiale Synergie di Salerno, nel centro storico e commerciale della città, a pochi passi da corso Vittorio Emanuele, offre consulenze attente e dedicate, per valorizzare l'unicità di ogni progetto.
Synergie Italia Agenzie per il Lavoro spa via Santi Martiri Salernitani, 15 84123 - Salerno
www.synergie-italia.it
ANVEST HEALTH: LA NOSTRA CURA PER IL TUO BENESSERE
Con i brand Laboratori Nutriphyt e Mamila, Anvest ha nel proprio portfolio soluzioni nutraceutiche, dispositivi medici, dermocosmetici, risultato di una costante ricerca scientifica ed ecosostenibili
a cura della redazione
Il mercato mondiale degli integratori segnala uno spread annuo del +7,7%, dato che spinge gli analisti a una valorizzazione della crescita stimata in circa 140 mld di euro nel 2027. In Italia, paese in cui nel 2020 la nutraceutica ha registrato un valore di 3,8 mld di euro, è previsto un tasso di avanzamento del 4% entro il 2025. Il comparto del babycare, invece, ha espresso in Italia un valore di 2,8 mld di euro nel 2020, con un livello di crescita stimato del 3% entro il 2025. Entrambi i mercati vedono protagonista Anvest Health srl, attiva nell’healthcare con il brand Laboratori Nutriphyt e nel babycare con il marchio Mamila. Il giovane management Anvest è rappresentato da Alessandro Sacrestano, amministratore delegato, e dal direttore generale Roberto Alfieri, i quali si avvalgono del contributo di circa 100 collaboratori, coordinati dall’headquarter storico di Castel S. Giorgio (Sa) e dalla sede sociale di Milano. «La nostra storia ha inizio nel 2008 con la fondazione di Laboratori Nutriphyt da parte di Sandro e Dario Alfieri, attuali membri del C.d.A.- racconta Roberto Alfieri - con una spiccata attenzione alla ricerca nel campo di soluzioni nutraceutiche, dispositivi medici e dermocosmetici. La mission è aiutare le persone a sentirsi meglio in ogni fase della loro vita. In piena pandemia COVID-19, abbiamo deciso di
allargare il profilo operativo alle necessità dei neonati, dando vita al brand Mamila, con prodotti dermatologicamente testati e a base di ingredienti biologici». «Da sempre attenta alla funzione della R&S, Anvest vanta a oggi - continua Alfieri - ben 44 soluzioni nutraceutiche a marchio Laboratori Nutriphyt, di cui 5 oggetto di brevetto depositato, che coprono 7 linee terapeutiche. La distribuzione sul territorio è capillare: 158 magazzini farmaceutici regolarmente serviti e più di 100mila medici informati sui prodotti LN in un anno, con oltre 22mila farmacie italiane servite».
Nell’anno in corso, Anvest Health, prossima alla trasformazione in S.p.A., ha avviato un piano di crescita i cui driver sono: ricerca e sviluppo, risorse umane e innovazione digitale. «Il primo obiettivo - spiega Alfieri - è la valorizzazione dell’expertise dei nostri specialist R&D attraverso lo sviluppo di un team di figure altamente qualificate e progetti di formazione e ricerca attuati in sinergia con università e Centri
di Ricerca. L’ingresso di profili manageriali, inoltre, è funzionale a un reengineering organizzativo che favorisca efficacia operativa e sviluppo sui mercati esteri. Infine, il progetto HR Future Skills esalterà le competenze digitali di tutte le risorse interne». Sviluppo del business che trova le sue basi in un solido sistema valoriale. Anvest Health si propone, infatti, come benefit & green company. «Il nostro impegno - conclude il DG - è porre al centro delle nostre attività il rispetto della persona. Iniziative di social responsibility ci vedono protagonisti in progetti e azioni a favore dei più deboli e coinvolgono tutto il personale. In parallelo, continueremo a caratterizzarci per l’ecosostenibilità della produzione e degli ambienti di lavoro, avendo a cuore la tutela del Pianeta».
Anvest Health srl via Gabriele Camozzi, 12 - 20152 Milano
https://anvesthealth.com
LE SOLIDE RADICI DELLA MORESE MICHELE & CO. S.R.L.
Nata nel 1816, l’azienda specializzata nella fabbricazione di pedane in legno per l’industria manifatturiera locale, è oggi alla sua quinta generazione
a cura della redazione
Perseveranza, senso del futuro e attenzione all’ambiente sono caratteristiche oggi indispensabili per chi fa impresa. Queste stesse peculiarità figurano, ormai dal 1816, nel DNA dell’azienda Morese Michele & Co. S.r.l., specializzata nella fabbricazione di pedane in legno per l’industria manifatturiera locale. Da piccola realtà artigianale, nel corso degli anni la società alla quinta generazione - capitanata oggi da Gerardo, Danilo e Angelo, coadiuvati dalla solida esperienza del loro papà Micheleha vissuto una costante crescita di uomini, mezzi e fatturato. Come nei cerchi di un albero si può leggere molto di più dei suoi anni, così nei prodotti Morese è impressa la competenza, la fatica e la dedizione tramandate di padre in figlio. Non c’è realtà produttiva che non si avvantaggi del pallet per la movimentazione delle proprie merci
e alla Morese sanno bene che occorre offrire ai clienti prodotti stabili, dalle più diverse dimensioni, durevoli nel tempo e con eccellenti performance. Grazie agli intelligenti investimenti in tecnologia e macchinari di ultima generazione per la lavorazione del legno, i processi sono attualmente meccanizzati e digitalizzati per un’ottimizzazione complessiva del ciclo produttivo. In più quelle firmate Morese sono soluzioni personalizzate ed ecosostenibili, certificate - il legno
utilizzato proviene da boschi e foreste gestite secondo i criteri della sostenibilità economica sociale ambientale dell’FSC - e rispondenti alle norme di legge europee e assemblati con le più moderne tecniche di produzione.
Morese Michele & Co. srl
via Cirillo Ospizio, 64 - 84085
Mercato San Severino (Sa) tel : 089 89 35 66 | info@moresepallets.com
FISIOTERAPIA DEL FUTURO, IL
GRUPPO FORTE INVESTE NELLA VIRTUAL THERAPY
Fondato negli anni '80 dal dottor Giuseppe Forte, rappresenta oggi una delle più importanti realtà sanitarie della Campania
a cura della redazione
Il Gruppo Forte è un dinamico network di strutture sanitarie il cui campo d’azione gravita nel settore della fisioterapia, riabilitazione, traumatologia sportiva e nel trattamento della scoliosi e delle patologie della colonna vertebrale.
Rappresenta una realtà in continua evoluzione, che ha saputo tradurre il concetto di assistenza sanitaria in veri e propri standard di eccellenza. Estrema attenzione per la cura della persona, investimenti continui in tecnologie all’avanguardia, consolidati know-how fanno del Gruppo Forte, il punto di riferimento nel territorio Salernitano, per quanti si interessano di fisioterapia, riabilitazione e medicina dello sport.
Il personale, coordinato da medici specialisti, si avvale delle più recenti e innovative tecnologie terapeutiche, virtuali, manuali e strumentali,
per elaborare e realizzare efficaci progetti riabilitativi personalizzati.
«L’importante ampliamento del parco tecnologico - spiega Alfonso Forte, direttore sanitario del gruppo - ci consente di adottare, tra i primi in Campania, la Realtà Virtuale per la riabilitazione sia motoria che cognitiva.
I sistemi digitali per la riabilitazione non solo rendono possibili percorsi di recupero, prevenzione e cura dei pa-
zienti, ma permettono di generare report utili alla verifica dell’efficacia degli esercizi attuati e alla pianificazione progressiva della strategia riabilitativa».
Il Gruppo Forte svolge anche un’intensa attività di ricerca scientifica e formazione in collaborazione con professionisti esterni e istituti di ricerca e vanta l’organizzazione di numerosi congressi e meeting scientifici nazionali e internazionali.
Gruppo Forte
Ce.Fi.Sa srl
via R. De Martino, 4 | 84124 - Salerno
I.R.F.R.I. srl
via Ferrovia, 1 | 84080 - Pellezzano (Sa)
I.R.F.R.I. srl Fkt
viale R. Wagner, 24 | 84131 - Salerno
www.gruppoforte.it
GRUPPO GABETTI, L’UNICO FULL SERVICE PROVIDER DEL SETTORE IMMOBILIARE
Numeri in crescita per diversi settori. Su tutti svetta la performance degli uffici, con un volume pari a 4,5 miliardi di euro, il 39% del totale investito. È l’asset class che, più di tutte, ha saputo adattarsi alle nuove esigenze di mercato, delineando non solo un cambiamento strutturale, legato a modularità e flessibilità, ma anche un approccio più etico e sostenibile dell’edificio
Il Gruppo Gabetti rappresenta un’eccellenza nel proprio settore, con fondamenta ben radicate nel Paese e con uno slancio e una visione da sempre orientati verso il futuro. A conferma di ciò il Gruppo è stato iscritto al registro dei marchi storici italiani, un importante riconoscimento che premia gli oltre settant'anni di storia di Gabetti. Un successo testimoniato anche dagli ottimi risultati ottenuti in termini di crescita, che evidenziano la nostra capacità di essere precursori del mercato, posizionandoci come l’unico full service provider del settore immobiliare in grado di coprire l’intera filiera su tutto il territorio nazionale. Il settore del real estate si conferma uno dei più redditizi e
resilienti. Nel 2022, sul territorio italiano, si è registrato un volume complessivo di investimenti corporate pari a 11,6 miliardi di euro, in crescita del 25% se comparato con il 2021, il secondo miglior anno finora analizzato negli ultimi 8. Una risposta positiva del mercato malgrado la complessità degli ultimi tre anni segnati dalla pandemia da Covid-19, il conflitto russo ucraino e il cambiamento climatico, quest’ultimo già presente da almeno un decennio nel dibattito internazionale tra gli operatori. Il comparto che ha meglio performato è stato quello degli uffici, con un volume pari a 4,5 miliardi di euro, il 39% del totale investito. Si tratta dell’asset class che, più di tutte, si è saputa adattare alle nuove esigenze di mercato, delineando non solo un cambiamento strutturale, legato a modularità e flessibilità, ma anche un approccio più etico e sostenibile dell’edificio.
Segue il comparto industrial/ logistica che si conferma tra le asset class di maggiore interesse per gli investitori, con un volume di 2,2 miliardi di euro, il 19% di quello complessivo, in lieve crescita rispetto al 2021. Il settore ho-
spitality, con 1,3 miliardi di euro investiti (il 12% del volume complessivo), è stabile rispetto lo scorso anno. Grazie a un intuito innovativo legato alle nuove forme di ospitalità, quali turismo esperienziale, smart e co-working room e digitalizzazione, è stato capace di riprendersi dalla crisi pandemica, complice anche il ritorno dei turisti.
Il comparto living conferma la progressiva crescita dei volumi investiti con 1,1 miliardo di euro (10% del totale investito) in netto aumento rispetto al 2021.
Riprende, seppure più lentamente rispetto alle altre asset class, la crescita dei volumi investiti nel settore retail con 740 milioni di euro da inizio anno (6% del volume complessivo). Il volume complessivo 2022 beneficia di investimenti nel segmento retail park, supermercati e big box. In controtendenza il settore sanitario/assistenziale che registra 230 milioni di euro (il 2% del totale), volume d’investimento in calo rispetto al 2021. Infine, il comparto a uso misto totalizza un volume complessivo di 900 milioni di euro, che ha riguardato principalmente immobili con destinazione d’uso uffici/retail.
ESPANSIONE INTERNAZIONALE, LA NUOVA PIATTAFORMA E-COMMERCE DI MAGALDI POWER SPA
Realizzato con il contributo di Simest, il portale consentirà non solo di acquistare in maniera più semplice e veloce le parti di ricambio delle macchine, ma offrirà ai clienti anche la possibilità di impostare una strategia di manutenzione guidata da una analisi predittiva in linea con i principi dell’industria 4.0
a cura della redazione
Presente in più di 50 Paesi e con sedi operative in Stati Uniti, Messico, Emirati Arabi, India e Australia, il Gruppo Magaldi, leader nel settore dei trasportatori a nastro metallico per la movimentazione di materiali ad altissima temperatura e in condizioni di processo severe, rafforza la propria presenza sui mercati esteri con un nuovo portale e-commerce. Realizzata con il contributo di Simest nell’ambito della Linea progettuale “Rifinanziamento e Ridefinizione del Fondo 394/81 - per lo Sviluppo del commercio elettronico delle PMI in Paesi esteri (E-commerce)”, la piattafor-
ma e-commerce consente non solo di acquistare in maniera più semplice e veloce le parti di ricambio delle macchine Magaldi, ma offre ai clienti anche la possibilità di impostare una strategia di manutenzione guidata da una analisi predittiva in linea con i principi dell’industria 4.0. Con 55 brevetti depositati a livello internazionale, il gruppo fa dell’innovazione la propria vocazione d’impresa. Fondata nel 1929 a Buccino, in provincia di Salerno, l’azienda è oggi guidata da Paolo Magaldi, conta 210 dipendenti, di cui il 50% ingegneri, per un fatturato complessivo tra 40 e 50 milioni di euro. Giunta alla terza generazione, la governance di Paolo Magaldi segue quella di suo padre, il Cavaliere del Lavoro Mario Magaldi, attualmente presidente del Gruppo, e del nonno Paolo, fondatore del Gruppo. Fortemente internazionalizzata, l’azienda mantiene saldo il carattere familiare: fanno parte del Consiglio di Amministrazione anche Letizia e Raffaello Magaldi, rispettivamente Vice Presidente Esecutivo e Vice Presidente Esecutivo Technical Operations di Magaldi Green Energy. Attualmente ci sono circa 250 impianti Ma-
galdi nel mondo, compresi Australia, Messico e India, in cui sono presenti impianti e apparecchiature progettate dal Gruppo per ridurre l’impatto ambientale delle centrali a carbone. L’attuale portfolio di prodotti del Gruppo rispecchia l’impegno aziendale in R&S, coprendo un’ampia gamma di materiali (fusioni, rottami metallici, ceneri, clinker, ecc.) che possono essere trasportati in modo efficiente e sostenibile. Parallelamente alla realizzazione di sistemi all’avanguardia per la movimentazione di materiali sfusi, la Magaldi si è orientata anche al settore della produzione di energia da fonti rinnovabili e al settore dell’accumulo di energia termica (thermal energy storage) attraverso le cosiddette “batterie di sabbia MGTES”, sviluppate da Magaldi Green Energy. Lo sviluppo e l’implementazione di queste tecnologie a basso impatto ambientale e ad alta efficienza energetica si inserisce a pieno titolo nel modello di business aziendale orientato a generare innovazione per uno sviluppo industriale sostenibile e, più in generale, ad entrare nel percorso globale di transizione energetica e decarbonizzazione.
PICCOLO È ANCORA BELLO
Nel 1973 uscì una raccolta di saggi dal titolo “Small is beautiful” dell’economista britannico Ernst Friedrich Schumacher che acquistò immediata fama, le cui indicazioni furono seguite in economia per lungo tempo.
Il lavoro dava evidenza al ruolo delle imprese minori, o anche piccole e medie imprese, nel sistema economico rispetto a quello svolto dalle grandi; il contesto socioeconomico fu di particolare rilevanza per dare alle imprese minori una notevole importanza imprenditoriale in anni nei quali l’intero sistema economico e monetario stavano cambiando, creando improvvisamente una dinamica quasi ingestibile dalle imprese stesse, specie quelle di maggiori dimensioni.
Fino al 1971 vi era stata una stabilità assoluta nel mondo economico e negli scambi monetari grazie agli accordi di Bretton Wood del 1945 che avevano dato certezza e solidità al sistema dei cambi; le grandi imprese formulavano piani e strategie a venti anni, fino al 1991, convinti dell’immodificabilità delle variabili del sistema. Quando nel 1971, l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon dichiarò la fine del gold exchange standard si venne a creare una tempesta monetaria acuita dalla crisi energetica del petrodollaro. Tutto cominciò a muoversi molto velocemente appesantendo le grandi imprese condannate a fare l’elefante nel
giardino. Così in quegli anni il piccolo diventò bello per la sua maggiore adattabilità ad un mondo in un continuo e imprevedibile movimento. In Italia in particolare, patria del piccolo è bello, il dramma delle grandi imprese fu una spinta al loro sviluppo e crescita favoriti anche dalla svalutazione della lira a causa degli effetti inflattivi generati dalla tempesta monetaria che, abbattendo i costi per l’export, ci fece diventare i primi cinesi d’Europa. In quegli stessi anni, la crescita del Sud si avvicina a quella del Nord fino al 1971 per poi staccarsi nuovamente dopo quando le piccole e medie imprese del Nord avevano ripreso a correre mentre le cattedrali nel deserto al sud soffrivano di immobilità.
Le grandi imprese, poco alla volta, riuscirono a sciogliere i tanti nodi che le bloccavano e presero un crescente potere anche grazie alla finanza più propensa a cavalcare le grandi imprese che non le piccole.
Oggi, a distanza di cinquanta anni da quel periodo di cambiamenti rapidi e imprevedibili, sembra che si sia tornati ancora una volta al “piccolo è bello” perché le circostanze in cui oggi si opera sono ridiventate rapidamente imprevedibili. Accade così che nelle grandi imprese, specie in quelle che sembravano più innovative come quelle della Silicon Valley - Amazon, Google, Apple, Facebook, Twitter, i licenziamenti si susseguano a migliaia ogni
singolo giorno, accompagnati dalla brusca caduta dei relativi corsi azionari che riportano l’euforia finanziaria alla realtà.
Ritornare alle piccole e medie imprese italiane è una realtà di cui tenere conto. Esse rappresentano un unicuum non ripetibile in altri paesi e nel mondo globale perché sono figlie della nostra storia fatta di artigianato, individualismo creativo e sensibilità sociale. Il tessuto socioeconomico costituito in larga parte proprio da queste imprese rappresenta la spina dorsale del Paese e i numeri che le rappresentano sono di assoluto riguardo, a dimostrazione del loro ruolo e della loro importanza nel traghettare il Paese in questo indescrivibile caos.
Le classificazioni - piccole, medie, micro- cambiano a seconda del range numerico scelto per collocarle, ma si mantiene un parallelo pur nelle diversità dei range; le piccole e medie imprese rappresentano il 92% delle realtà produttive attive, con l’82% degli occupati totali, un fatturato di oltre 2400 mld /euro pari al 41% del pil del Paese, il 48% dell’export e 1/3 degli investimenti. Tra esse vi sono aziende ad alta innovazione e, nel complesso, dal 2010 al 2019 sono cresciute del 6,5% di più della media UE mostrando così una maggiore produttività.
La realtà italiana è fatta da una storia scritta dagli artigiani e dalle imprese familiari che rimangono tali anche di fronte a crescite dimensionali; si
forma un legame profondo quasi inscindibile tra impresa e proprietà che non esiste altrove, meno che mai in Paesi come gli Usa in cui un’impresa può sempre essere ceduta di fronte ad un prezzo vantaggioso.
Esiste nel nostro Paese un sistema duale tra grandi e minori imprese che convivono tra di loro anche tramite forme di competizione collaborativa che fa crescere entrambe, per questo risulta abbastanza sterile il dibattito sul piccolo che non diventa grande rispetto alla storia che ha premiato il nostro duale sviluppo industriale collocando il nostro Paese, in gran parte privo di materie prime ma non di cervello e creatività, tra quelli a più alta industrializzazione in mezzo a giganti che guardano a noi sempre con rispetto.
Il governo che deve affrontare la difficile storia del nostro tempo e un suo rilancio non può prescindere dalla sua storia e dalla consapevolezza che la flessibilità del Paese in condizioni avverse si gioca anche sull’elasticità adattiva delle piccole e medie imprese che consentono al sistema un adeguamento meno traumatico rispetto alle grandi imprese il cui fallimento porta a disastri sociali. Le piccole imprese, invece, non falliscono tutte nello stesso tempo ma in modi e tempi diversi consentendo al sistema di modificarsi con minori traumi sociali.
Speriamo non cali l’attenzione sul ruolo delle imprese minori e sulla loro capacità di generare posti di lavoro di cui non possiamo fare a meno.
CHATGPT, OPPORTUNITÀ O MINACCIA?
Tante le possibili applicazioni dell’AI che, attraverso algoritmi avanzati di apprendimento automatico, è capace di elaborare testi e risposte molto simili a quelle umane. Molteplici anche le aree grigie che questa e tecnologie equivalenti presentano in relazione al rispetto di norme quali il diritto d'autore e la privacy
Andrea Boscaro Partner The Vortex andreaboscaro@thevortex.itDal suo lancio nel novembre scorso, il sito web di OpenAI - la società che ha sviluppato ChatGPT e altre funzionalità basate su GPT3 - ha ricevuto 304 milioni di visite in tutto il mondo (fonte Similarweb) e oltre 3,5 milioni provengono dall'Italia. L'efficacia dimostrata e le possibili applicazioni sono state però inevitabilmente affiancate da un intenso dibattito non solo sulla qualità delle risposte fornite, ma anche sulle implicazioni etiche, legali, educative e professionali del loro utilizzo. Dalle fasi di addestramento dei linguaggi a quelle di predisposizione delle funzionalità per gli utenti finali, dall'integrazione in strumenti quali i fogli di
calcolo o la posta elettronica, molteplici sono infatti le aree grigie che Chat GPT e le tecnologie equivalenti presentano in relazione al rispetto di norme quali il diritto d'autore e la privacy. Inoltre, tali tecnologie si basano sul linguaggio e presentano i relativi limiti di tale origine: basta chiedere a Chat GPT di fare 10 + 10 poi incalzarlo, di fronte alla risposta corretta, per chiedergli se ne è davvero sicuro e il bot si rivelerà affetto da un bias congenito: pur continuando a riportare il calcolo esatto, la macchina infatti si scuserà perché essa si limita a combinare statisticamente le parole e porgerà delle scuse semplicemente perché spesso, nelle conversazioni, esse seguono alle accuse. La formulazione delle domande dunque è cruciale sia per delimitarle ad ambiti di applicazioni rilevanti, sia per apprendere ad applicare schemi di istruzione codificati. Dalla richiesta al bot di “mettersi nei panni” di un certo ruolo al tono che il sistema deve adottare nel proporre suggerimenti, nel futuro forse la capacità di “avviare un prompt" diventerà una competenza necessaria e diffusa, come fare una ricerca su Google.
Trascrivere e riassumere un video o sbobinare un audio con Whisper, modificare immagini con Dall E, differenziare testi e contenuti con Copy.ai e integrare Chat GPT in Word o Excel per potenziarne le funzionalità sono competenze che fino a poco tempo fa risultavano impossibili da sviluppare. Il successo di ChatGPT alza dunque l’asticella sulla preparazione richiesta alle persone, alle aziende e alle organizzazioni così da adattarsi all'apertura dei nuovi orizzonti nell'Intelligenza Artificiale e, al contempo, a coglierne le opportunità sul piano della produttività personale, della comunicazione, dello sviluppo informatico parallelamente al cautelarle da usi malevoli quali gli attacchi informatici, i tentativi di phishing, la contraffazione, le recensioni false. Se questo cambiamento può apparire inverosimile, giova ricordare le parole del filosofo Cosimo Accoto secondo il quale viviamo nell’Era della Simulazione: un oggetto d’arredo, un gioiello, un macchinario prima di esistere nella realtà fisica, sono stati progettati come file digitali e perciò, in quanto tali, non solo possono avvalersi fin dalla loro progettazione delle funzionalità basate sulla IA ma, se sono oggetti connessi in Rete, possono incorporarla sia nel rapporto con l’uomo, sia nel rapporto con un altro oggetto. A ciascuno di noi e alle comunità alle quali apparteniamo la sfida di cogliere l’opportunità rappresentata da Chat GPT preparandosi al contempo delle minacce che solleva.
ACCORDO UE/SINGAPORE: CAMBIO NELLE REGOLE DI ORIGINE
Antonio PetruzzoÈstato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 31 gennaio 2023 (L27) il provvedimento della Decisione n. 2022/01 del Comitato doganale dell’Accordo di Libero Scambio tra l’UE e la Repubblica di Singapore che modifica alcuni elementi del Protocollo 1 del medesimo Accordo. Nello specifico, si fa riferimento a modifiche relative alla definizione della nozione di “prodotti originari”, ovvero il carattere originario delle merci per le esportazioni dall’UE verso Singapore. Infatti, a decorrere dal 1° gennaio 2023, come riportato anche dalla comunicazione dell’Agenzia delle Accise Dogane e Monopoli
prot. n. 49706RU, il carattere originario delle merci in esportazione verso Singapore può essere autocertificato dagli esportatori unionali soltanto in qualità di “esportatori registrati” (REX) e non più sulla base dello status di “esportatore autorizzato”. Come prova dell’origine preferenziale delle merci in esportazione verso Singapore non sarà più accettata una dichiarazione di origine, rilasciata in fattura da un “esportatore autorizzato”, ma sarà necessaria un’attestazione dell’origine da parte di un esportatore registrato al sistema REX. Si rileva come il sistema REX rientri tra le semplificazioni doganali a disposizione di esportatori e di importatori. L’inserimento in una banca dati europea consente agli operatori economici di autocertificare l’origine preferenziale delle merci direttamente in fattura o su altro documento commerciale che identifica le merci. Con la Circolare n.4/2021, prot. n. 20588/RU del 20 gennaio 2021, l’Agenzia delle Dogane annunciava l’avvio del Portale REX al fine di consentire la presentazione elettronica delle richieste di registrazione alla banca dati REX a far data dal 25 gennaio 2021.
Tale strumento a disposizione delle aziende va inquadrato in un sistema di digitalizzazione dei servizi doganali, coerente con l’obiettivo di una dogana paperless. Il Portale REX è disponibile all’interno dell’EU Customs Trader Portal (CTP) e ai fini dell’accesso l’operatore economico deve essere in possesso di un codice EORI valido oltre che essere abilitato alla presentazione della domanda di registrazione al REX tramite l’autorizzazione specifica denominata “REXSTP_ EXECUTIVE” da richiedere, in via preventiva, sul Portale Unico Dogane e Monopoli (PUDM).
L’Accordo di Libero Scambio tra UE e la Repubblica di Singapore, entrato in vigore il 21 novembre 2019, è da considerare il primo con un Paese del Sudest asiatico se si esclude il Giappone. L’accesso al beneficio daziario in importazione tra le parti contraenti è concesso alle merci che risultano in linea con le regole di origine preferenziale contenute nell’Allegato B del Protocollo 1 dell’Accordo. Queste regole stabiliscono le lavorazioni sufficienti a cui devono essere sottoposte le merci non originarie per poter essere considerate di origine preferenziale UE / Singapore. con la revisione dell’accordo con Singapore si manifesta un cambio di paradigma all’interno della prova dell’origine preferenziale con un’evoluzione che considera il passaggio dall’Esportatore Autorizzato all’Esportatore Registrato per una più rapida assunzione della qualifica.
La sola dichiarazione di origine in fattura non basta più. Necessaria la registrazione al sistema REXSenior Tax Specialist KPMG Studio Associato apetruzzo@kpmg.it
In questa rubrica, già in passato, si è affrontato il nodo dell’interdittiva antimafia, misura di prevenzione amministrativa che con il tempo è divenuta decisamente gravosa per chi la subisce.
Argomento certo spinoso, che deve tener conto, da un lato, di comprensibili esigenze di sicurezza e ordine pubblico, e allo stesso tempo, della tutela della persona, della presuzione d’innocenza, delle possibili indebite dilatazioni di una misura che, seppure amministrativa e non penale, ha effetti devastanti.
Si torna sul tema per una verifica, a distanza di poco più di un anno, degli effetti pratici delle riforme introdotte dal D.L 152/2021, che ha modificato il Codice Antimafia, per quanto qui interessa agli artt. 92 e 94. In particolare la riforma ha introdotto, quali novità più interessanti, la necessaria
INTERDITTIVA ANTIMAFIA PREFETTIZIA, LA RIFORMA DEL 2021 NON HA INCISO
comunicazione dell’avvio del procedimento (art. 92 co. 2 bis) e, in questo ambito preliminare, la possibilità da parte del Prefetto di graduare (art. 94 bis) il proprio intervento.
Quando si ritiene che l’agevolazione a certi ambienti criminali sia stata occasionale, il Prefetto può disporre il c.d. controllo giudiziario d’ufficio e, cioè, una sorta di preventivo tutoraggio dell’azienda, oltre che il controllo dei flussi finanziari dell’azienda o dell’imprenditore oggetto di attenzione. Nei casi in cui l’influenza di ambienti criminali non potrà dirsi occasionale, il Prefetto può emettere l’interdittiva antimafia.
Intanto si tratta di modifiche più volte invocate nelle aule giudiziarie e, quindi, parte del merito di queste nuove forme di garanzia va ascritto alla classe forense. L’esperienza pratica di questi primi mesi porta a dire che queste novità hanno
inciso poco o nulla. In ordine alla prima delle modifiche introdotte e del necessario contraddittorio preventivo che è imposto al Prefetto, in realtà la c.d. comunicazione dell’avvio del procedimento si traduce in fugace contraddittorio con un funzionario, spesso inutile, a seguito del quale gli uffici prefettizi chiedono ulteriori indagini alla Polizia Giudiziaria, che non smentisce quanto da essa affermato in precedenza. Insomma , una “carta in più”. Il controllo giudiziario preventivo disposto dal Prefetto, ulteriore riforma introdotta nel 2021 quale forma di graduazione della misura accompagnato anche dal possibile controllo dei flussi finanziari, non è quasi mai applicato. Eppure i casi in cui questo strumento potrebbe essere utilizzato sono la maggior parte, proprio perché l’indizio o le motivazioni spesso rientrerebbero nella c.d. occasionalità del pericolo
A trent’anni dalla sua istituzione, sono ancora molte le riflessioni da fare sull’efficacia reale di questa misura di prevenzione amministrativa
di infiltrazione. Per quanto è dato sapere, si contano pochi casi, meno delle dita di una mano. E invece la novità e la ratio era proprio quella, come detto, di graduare le ipotesi di intervento del Prefetto, senza trattare tutti allo stesso modo. Incide naturalmente il senso ampio, indefinito, del concetto di occasionalità dell’infiltrazione, che può essere allargato o ristretto a discrezione del Prefetto.
Si aggiunga anche che gli esiti del controllo giudiziario c.d. volontario, cioè richiesto dall’interessato al Tribunale penale di Prevenzione dopo aver subito l’interdittiva ex art. 34 bis del Codice, anche se sono positivi nel senso di escludere infiltrazioni, stanno incidendo pochissimo per cui nonostante lo Stato accerti dopo 18 mesi una “normalità” di gestione, questa non è considerata vincolante dai Giudici Amministrativi, e può essere solo un elemento di valutazione del Prefetto in sede di riesame della misura, senza alcun vincolo. Insomma, come detto, le auspicate riforme -preventivo contraddittorio e graduazione della misura- si stanno rivelando sostanzialmente inutili. Ma lo stigma sociale, la perdita di reputazione, il vero e proprio dramma che vivono molte famiglie quasi sempre coinvolte per parentele, per labili indizi come dice l’esperienza pratica, è tale che una ulteriore riflessione è necessaria.
Si crede siano maturi i tempi per riportare la questione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dopo che la famosa sentenza De Tommaso
del 2017, che pur censurava il sistema italiano delle misure di prevenzione, non è stata recepita riguardo all’interdittiva antimafia prefettizia, ritenendosi che le censure della Corte Europea riguardassero solo le misure sulla libertà personale e non quelle attinenti al patrimonio, così intendendo l’interdittiva antimafia prefettizia (Cons. di Stato. III 6.3.2018 n. 1408 ed altre successive).
Si tratta di posizioni del Consiglio di Stato che dovrebbero essere rimeditate perché la misura dell’interdittiva antimafia del Prefetto non incide solo sul patrimonio, ma anche sulla libertà della famiglia e della persona, sull’onore e sulla reputazione, che sono certamente diritti previsti e tutelati Convenzione dei Diritti dell’Uomo (vedasi art. 8).
Ci pare, poi, che si debba insistere sulla durata della misura interdittiva, che proprio per questa incertezza è definita provocatoriamente un “ergastolo amministrativo”.
Il Codice Antimafia prevede che essa debba durare 12 mesi (art. 86, 2° co.) ma tale norma è letta come misura temporale quando vi è una liberatoria antimafia, ma non per le interdittive subìte, secondo un ragionamento che non si condivide. Il tema va affrontato con decisione anche perché la Corte Costituzionale (dec. 57/2020) quando ha salvato il meccanismo della interdittiva come oggi concepito, ha chiarito che ciò era dovuto anche alla temporaneità della misura di dodici mesi, che però non è considerata perentoria, evidentemente, quando la si subisce.
Anche senza modificare l’attuale norma, si deve insistere affinchè, nei casi ove l’interdittiva non è obbligata secondo la legge ma discrezionale, decorso il tempo previsto dalla legge (12 mesi) senza evidenze nuove che possano portare ad esempio ad una misura di prevenzione penale, l’impresa può tornare sul mercato. Vi è un dato oggettivo di durata che non si può continuare ad ignorare. Nonostante le riforme, l’interdittiva antimafia quindi si pone ancora sul crinale della possibile violazione di principi costituzionali che è bene poter discutere con coraggio, tenendo conto, al di là dei buoni propositi, che questo istituto in quasi trent’anni di attività delle prefetture ha prodotto e sta producendo pochi risultati pratici sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, ma molte, troppe, imprese perse, fallite, prima di poter dimostrare la loro estraneità.
«Si crede siano maturi i tempi per riportare la questione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dopo che la famosa sentenza De Tommaso del 2017, che pur censurava il sistema italiano delle misure di prevenzione»
Requisito
PERDITE DA CESSIONE PRO-SOLUTO DI CREDITI INTERCOMPANY: POSSIBILE DEDUZIONE FISCALE
La cessione pro-soluto di un credito, laddove effettuata a un valore inferiore a quello nominale, genera una perdita sui crediti (e non una minusvalenza) la cui deducibilità, tuttavia, non è automatica ma deve discendere da un’analisi che tenda sempre a verificare l’esistenza degli elementi certi e precisi, enunciati dall’art. 101 comma 5 del TUIR. In buona sostanza, la cessione del credito pro-soluto, pur avendo un effetto estintivo del rapporto di credito, realizzando i presupposti per la conseguente derecognition dal bilancio, non esonera il cedente dalla dimostrazione della definitività della perdita realizzata e/o della superiore onerosità della procedura di recupero rispetto al valore effettivo del credito. Questa posizione dell’Agenzia delle Entrate è anche confermata dalla sentenza 5790/2021 della Corte
di Cassazione che, in aggiunta, ha precisato che il giudizio sulla deducibilità deve estendersi anche all’inerenza della perdita realizzata, o meglio alla congruità del corrispettivo pattuito per la cessione del credito a terzi. Tale ulteriore requisito, tuttavia, si intende “automaticamente” realizzato, qualora la cessione avvenga a favore di banche o altri intermediari finanziari vigilati, residenti in Italia o in Paesi, che consentono un adeguato scambio di informazioni che risultino indipendenti rispetto al soggetto cedente e al soggetto ceduto (circolare Agenzia delle Entrate 26E del 2013). Tuttavia, lo scenario si complica nei casi in cui oggetto della cessione sia un credito vantato nei confronti di una società controllata, posto che - anche laddove tale cessione avvenga a favore di intermediari vigilati, e quindi, sia effettuata a valori congrui
“per definizione” - l’Agenzia potrebbe ritenerla censurabile sotto il profilo dell’abuso del diritto. Questa considerazione scaturisce dalla circostanza che nei rapporti intercompany, l’adempimento o meno della controllata - debitrice potrebbe essere influenzato dalla volontà della controllante - creditrice. In pratica, la controllata potrebbe essere indotta, magari per fini elusivi, a non onorare il credito della creditrice stessa, al solo scopo di consentirne la cessione a terzi “vigilati” a basso prezzo, alterando quindi gli esiti dell’analisi di certezza e precisione, che incombe su quest’ultima. Ciò induce da sempre, la prassi professionale ad analizzare con grande cautela le fattispecie di cessione di crediti intercompany, prestando attenzione anche allo scenario effettivo di gruppo, in cui si è determinata la perdita realizzata dalla controllante
necessario è che la cessione avvenga a favore di banche o altri intermediari finanziari vigilati, residenti in Italia o in Paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni e che risultino indipendenti rispetto al soggetto cedente e al soggetto ceduto
(ovvero dalla controllata, nei casi in cui sia essa la creditrice) e alla sostanza delle “prove” degli elementi certi e precisi. In sintesi, mancando l’indipendenza tra le parti, ogni scelta può non essere genuina. La risposta n°102/2023 dell’Agenzia delle Entrate è interessante perché entra nella tematica sopra delineata, dando alcune indicazioni ben precise dei casi in cui una perdita da crediti intercompany ceduti a terzi, nonostante la mancanza di indipendenza, possa essere considerata deducibile.La fattispecie aveva a oggetto un credito di una controllante, generatosi per effetto di una surrogazione di quest’ultima, nella creditoria di taluni istituti di credito verso alcune controllate, figlia della sostanziale escussione di una fideiussione prestata in loro favore dalla stessa controllante. Tali surrogazioni erano, tra l’altro, avvenute nell’ambito di un complessivo piano di risanamento ex art. 67 L.F. del gruppo, nel quale erano stati definiti - occorre rimarcarlo - anche gli importi che sarebbero stati poi effettivamente rimborsati alla controllante in forza della suddetta surrogazione. La richiesta della controllante sottoposta al vaglio dell’Agenzia delle Entrate era di poter cedere i crediti ex surrogazione a favore dei citati intermediari vigilati e di dedurre ai fini IRES la connessa perdita che si sarebbe generata. L’Agenzia, aderendo alla tesi della richiedente, ha affermato che nel caso in cui la controllante proceda alla cessione pro-soluto dei crediti di surrogazione in favore di operatori professionali terzi, devono ri-
tenersi esistenti le condizioni evidenziate nella circolare 26E del 2013 e pertanto, è possibile dedurre le perdite da essa rivenienti, secondo l’art. 101 comma 5 del TUIR al momento stesso della cessione all’intermediario finanziario vigilato. La Risposta dell’Agenzia è senza dubbio positiva per gli operatori, in quanto chiarisce in via definitiva gli effetti fiscali della cessione pro-soluto di crediti a intermediari vigilati. Tuttavia, si ritiene che essa non possa essere applicata in modo generalizzato a tutte le possibili fattispecie di cessione di crediti intercompany in quanto, nel caso specifico, risultavano verificati de facto tutti i requisiti previsti - sia dal comma 5 citato, sia dalla sentenza della Cassazione sopra riportata - per la deduzione della perdita in una cessione di crediti. Più in particolare, gli elementi certi e precisi erano rinvenibili nell’articolata procedura di risanamento ex art. 67 L.F. che aveva accertato l’impossibilità per la controllata di onorare i crediti ex surrogazione della controllante. Mentre, la compresenza della “inerenza”, intesa come congruità del corrispettivo di cessione, poteva ricercarsi, sia nel suddetto piano asseverato, sia naturalmente nella qualità di intermediario vigilato del cessionario. Questi fatti oggettivi, in pratica, neutralizzavano ogni sospetto di interdipendenza nei comportamenti delle due parti. Infine, non può sottacersi la circostanza che il credito stesso derivava sostanzialmente dal subentro della controllante nei diritti degli istituti garantiti e non da un rapporto diretto
controllante - controllata di natura commerciale o finanziaria. Queste considerazioni, quindi, portano a concludere che ipotesi differenti, rispetto a quella rappresentata nella Risposta, potrebbero avere, a loro volta, differenti interpretazioni da parte dell’Agenzia.Mi riferisco in modo particolare, a tutte quelle fattispecie di cessione di crediti a terzi vigilati originati da rapporti commerciali o finanziari diretti tra controllante e controllata e/o che avvengano non in scenari regolamentati dalle norme sulla crisi d’impresa, in cui la famosa interdipendenza di scelte non è scongiurata. Ad ogni caso la sua soluzione. L’Agenzia delle Entrate ragiona sempre così, e un approccio diverso in uno scenario diverso può non essere criticabile, almeno stavolta.
«La cessione del credito pro-soluto, pur avendo un effetto estintivo del rapporto di credito non esonera il cedente dalla dimostrazione della definitività della perdita realizzata e/o della superiore onerosità della procedura di recupero rispetto al valore effettivo del credito»
Con la recente sentenza della Corte di Appello di Venezia, Sez. I penale, 4 gennaio 2023, emessa nell’ambito del processo alla Banca Popolare di Vicenza, si torna a parlare, con una pronuncia molto ben articolata, del tema relativo ai contenuti del Modello Organizzativo predisposto ai sensi del D.Lgs. n. 231/01 e dei conseguenti presidi, in uno con quello relativo ai poteri, all’autonomia e all’indipendenza dell’Organismo di Vigilanza a tal scopo nominato. Nel dettaglio, la Corte adita ha evidenziato la necessità che il Modello 231 sia caratterizzato da prescrizioni che non siano generiche, di portata generale o contenenti divieti attinenti a profili marginali rispetto alla esigenza di prevenire i reati ma, al contrario, sia calato nella realtà aziendale nella quale è destinato a trovare attuazione e sia, cioè, composto da vere e
MODELLO 231, BANDO ALLA GENERICITÀ
Alessandro Sacrestano management consultant Sagit&Associati srl amministratore unico Assindustria Salerno Service srl asacrestano@studiosagit.itproprie contro-misure di prevenzione realmente idonee ed efficaci a prevenire i reati che più facilmente possono verificarsi. Oltre a ciò, i giudici di appello si sono soffermati sui requisiti di indipendenza e autonomia dell’Organismo di vigilanza nominato, intesa come assenza di subordinazione del controllante al controllato e, in ogni caso, di possibili ragioni di condizionamento, ai fini della programmazione dell’attività di verifica dell’organismo nonché sulle garanzie di riservatezza delle comunicazioni da inviare all’Organismo. Sul tema, di particolare rilievo nella sentenza in discussione, è l’affermazione della Corte che stigmatizza lo stato di “osmosi” rilevato fra l’Organismo di vigilanza e i vertici aziendali, tanto da rendere del tutto impalpabili i margini di autonomia ed effettività dell’attività di controllo svolta da tale organismo.
Le caratteristiche intrinseche del Modello da adottarsi La Corte adita ha contestato a Banca Popolare di Vicenza che il Modello organizzativo adottato non fosse stato attuato e presidiato da un organismo di vigilanza realmente idoneo allo scopo sotto lo specifico profilo della dotazione di adeguati poteri e, soprattutto, degli indispensabili requisiti di indipendenza. In particolare, soffermandosi sulla qualità del Modello, i Giudici hanno sottolineato come esso si atteggia come uno strumento di gestione del rischio da commissione di determinati reati, ovverosia un dispositivo finalizzato a scongiurare la perpetrazione di attività delittuose poste in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo e, quindi, ad evitare le conseguenze sfavorevoli costituite, per l’ente in questione, dalle relative dalle sanzioni. Pertanto, un Modello adeguato deve essere caratte-
Una recente pronuncia della Corte di Appello di Venezia, Sez. I penale, ha evidenziato la necessità che lo stesso sia composto da vere e proprie contro-misure di prevenzione realmente idonee ed efficaci a impedire i reati che più facilmente possono verificarsi
rizzato dall’adozione e dalla conseguente attuazione di contro-misure di prevenzione idonee ed efficaci che, per essere ritenute tali, non solo devono rispondere ai parametri astrattamente delineati dalla norma, ma devono poi essere adeguate alla concreta situazione di riferimento. Nello specifico, invece, la Corte ha riscontrato che il Modello adottato da BPV fosse caratterizzato da prescrizioni per lo più generiche e, quindi, manifestasse gravi lacune tanto sotto il versante dell’idoneità quanto sotto quello dell’efficacia, limitandosi alla previsione della adozione di un’organizzazione interna basata sui criteri di ripartizione di competenze e segregazione funzionale in ordine a specifiche attività, nonché di cura di adempimenti formali, ovvero nell’impartire divieti attinenti a profili marginali rispetto all’esigenza di prevenire i reati. Le caratteristiche dell’Organismo di vigilanza nominato Quanto alle caratteristiche dei membri dell’Organismo di vigilanza nominato, i Giudici di appello hanno contestato a BPV di aver introdotto un organismo di vigilanza privo di autonomia effettiva rispetto alla direzione societaria, donde un ulteriore, decisivo profilo di inadeguatezza di tale strumento organizzativo. In particolare, si legge nella sentenza, la direzione dell’ODV era affidata, al Responsabile pro tempore della Direzione Internal Audit, affiancato da due soggetti esterni, avvocati, privi di rapporto di lavoro dipendente con la Banca. Era previsto, inoltre, che il Presidente di tale
organismo non rivestisse cariche sociali nelle società del Gruppo medesimo. Tuttavia, evidenzia ancora la pronuncia, tanto il presidente che i due ulteriori componenti dell’organismo erano soggetti privi della necessaria indipendenza. Nel dettaglio, il primo risultava dipendere gerarchicamente dal Direttore Generale e, funzionalmente controllato dal CdA, ovverosia proprio dai poteri che avrebbe dovuto controllare; anzi, la relazione sulle attività svolte dall’ODV era effettuata, in sede di CdA, proprio dal direttore generale. Quanto ai componenti “esterni”, essi erano soggetti che avevano ricevuto retribuzioni da società riconducibili alla Banca, con conseguente sussistenza di elementi oggettivamente tali da minarne l’autonomia di giudizio. Ne deriva, dall’esame documentale, che i verbali delle riunioni dell’OdV non fossero altro che la plastica espressione di un organismo che interpretava il proprio ruolo in modo meramente formale, posto che non offrono la benché minima contezza di alcuna programmazione di attività di verifica, né evidenziano che fossero state rilevate criticità, neppure in relazione ai casi più eclatanti.
Oltre a ciò, a tale organismo non risulta giunta alcuna segnalazione in ordine a questioni problematiche e rilevanti ai fini in esame e, questo, nonostante le numerose lamentele dei dipendenti per le continue pressioni sulla rete per la negoziazione di azioni, pressioni delle quali persino i sindacati si erano occupati. La costitu-
zione di un Organismo di vigilanza inadeguato, secondo i giudici, è confermato dalla semplice constatazione che la commissione dei reati non ha affatto richiesto alcuna condotta elusiva e fraudolenta del modello organizzativo; molto più semplicemente, detto modello non ha rappresentato ostacolo di sorta per la consumazione dei reati, tanto che gli autori delle condotte delittuose non si sono minimamente dovuti preoccupare di aggirarlo e, questo, proprio perché il modello in questione costituiva un presidio non solo del tutto formale ma anche radicalmente “fuori fuoco” rispetto alle condotte sub iudice.
Conclusioni
La pronuncia della Corte d’Appello evidenzia due aspetti fondamentali rispetto all’adozione di Modelli Organizzativi.
La proliferazione dei reati presupposto del Modello, sempre più attenzionati dal Legislatore ma, soprattutto, dai Giudici istruttori, impone all’impresa di adottare schemi per nulla generalisti che, ai fini della loro validità, si mostrerebbero inadeguati rispetto alla prevenzione dei reati e non costituirebbero alcuna esimente in capo all’impresa stessa. Su altro fronte, la sentenza ha anche evidenziato che la nomina di componenti dell’Organismo di vigilanza privi dell’effettiva indipendenza, costituisce ulteriore elemento, in ipotesi di contestazione di reato, che esclude qualsiasi esimente in capo all’impresa all’interno della quale il reato si è consumato.
WHISTLEBLOWING: IL PARERE FAVOREVOLE DEL GARANTE PER LA
PROTEZIONE DEI DATI
PERSONALI
Lo schema normativo approvato prevede la riservatezza assoluta del segnalante, delle persone coinvolte e del contenuto della segnalazione stessa, nonché la revisione del termine massimo di conservazione della documentazione della segnalazione
La materia del whistleblowing è attualmente disciplinata dalla legge 30 novembre 2017, n. 179, che ha modificato la previgente normativa per il settore pubblico (art. 54-bis, D.Lgs. 20 marzo 2001, n. 165), estendendo, inoltre, tale istituto al settore privato (v. art. 6, commi 2-bis ss., D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231) e integrando la disciplina dell’obbligo di segreto di ufficio, aziendale, professionale, scientifico e industriale.
Il cd. whistleblower è definito come la persona fisica che segnala o divulga informazioni sulle violazioni acquisite nell’ambito delle sue attività professionali, a prescindere dalla natura di tali attività o del fatto che il rapporto di lavoro sia nel frattempo terminato o non ancora iniziato.
Lo strumento della segnala-
zione da parte del lavoratore, pubblico o privato, risponde ad una duplice ratio:
1) tutelare il rapporto di lavoro, creando un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto segnalante;
2) potenziare le misure prevenzione e contrasto della corruzione e, in generale, dell’illegalità, favorendo l'emersione, dall'interno delle organizzazioni, di condotte contra legem.
La direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio (cd. direttiva whistleblowing), entrata in vigore il 16 dicembre 2019, ha il precipuo obiettivo di stabilire norme comuni, a livello europeo, al fine di tutelare coloro che, segnalando condotte illecite, contribuiscono a “rafforzare i principi di trasparenza e responsabilità” (considerando
2) e a prevenire la commis-
sione dei reati. La direttiva, in particolare, impegna gli Stati membri a estendere le misure di protezione non soltanto ai segnalanti che lavorano nel settore privato o pubblico, bensì anche ai c.d. facilitatori, ossia a coloro che assistono “una persona segnalante nel processo di segnalazione in un contesto lavorativo e la cui assistenza deve essere riservata” (art. 5), ai terzi connessi con le persone segnalanti, quali ad esempio colleghi o familiari, e ai soggetti giuridici collegati al segnalante.
Dall’ambito di applicazione del decreto sono, peraltro, escluse contestazioni o rivendicazioni di carattere personale nei rapporti individuali di lavoro o di impiego pubblico e le segnalazioni di violazioni in materia di sicurezza nazionale o di appalti relativi ad aspetti di difesa o
sicurezza nazionale. Il Governo, per recepire la direttiva (UE) 2019/1937, il 9 dicembre 2022 ha adottato uno schema di decreto legislativo che intende ricondurre a un unico testo normativo la disciplina relativa alla tutela dei cd. “segnalatori” di violazioni di disposizioni normative, tra le quali quella in materia di privacy. Con provvedimento n. 1 dell’11 gennaio 2023, il Garante per la protezione dei dati personali ha, invero, espresso parere favorevole sul citato schema, ritenendo che esso abbia adeguatamente recepito tutte le indicazioni che l’Autorità ha fornito in sede di dei lavori preliminari alla relativa stesura. Lo schema, in particolare, prescrive che il canale di segnalazione deb-
ba garantire la riservatezza assoluta del segnalante, delle persone coinvolte e del contenuto della segnalazione stessa (anche mediante il ricorso alla crittografia).
Le segnalazioni possono essere conservate solo per il tempo necessario alla loro definizione e comunque per non più di cinque anni a decorrere dalla data di comunicazione dell’esito finale. Esse possono essere effettuate in forma scritta, anche con modalità informatiche, in forma orale, per telefono o attraverso sistemi di messagistica vocale, oppure infine mediante un incontro diretto. Le informazioni sulle modalità per effettuare il whistleblowing devono essere pubblicate nel sito internet del datore di lavoro in
modo chiaro, visibile e accessibile. Con le stesse modalità e garanzie di riservatezza è, inoltre, prevista la possibilità di effettuare la segnalazione su di un canale esterno attivato presso l’ANAC in caso di assenza o inefficacia dei canali di segnalazione interna, di timore di ritorsione o pericolo per l’interesse pubblico. L’articolo 10 dello schema di cui trattasi, in attuazione dell'art. 14 della direttiva, prevede, infine, l’adozione di apposite linee guida da parte dell’ANAC, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, per le procedure di presentazione e gestione delle segnalazioni esterne, linee guida che dovranno essere riesaminate periodicamente, almeno una volta ogni tre anni.
LA RICERCA DELLA BELLEZZA
di Raffaella VenerandoCon una decisa accelerata negli ultimi anni, la sostenibilità è divenuta ormai un elemento imprescindibile nella progettazione. Nei suoi lavori le viene richiesta un’attenzione anche alla circolarità e all’utilizzo di materiali riciclati?
Ci rendiamo conto che da parte dei nostri clienti il tema dell’ecosostenibilità è sempre più sentito e condiviso, perché è il tema dei nostri tempi, ma non sempre riusciamo ad attuarlo e questo per due ragioni sostanziali: la prima è che l’ecosostenibilità ha un costo e non sempre si è disposti ad investire in questa direzione. La seconda è che dipende dal tipo di lavoro che ci viene commissionato. Mi spiego meglio: i progetti di architettura che oggi stiamo portando avanti hanno tutti una forte matrice “green” perché non solo sono finanziati da misure come il famoso Superbonus, ma perché le tecnologie utilizzate contemplano già una riduzione del loro impatto sull’ambiente. Anche nel caso delle progettazioni di interni di carattere residenziale l’approccio è fortemente ecosostenibile e questo si concretizza, non solo nelle soluzioni formali, ma anche nell’accurata scelta degli impianti elettrici
e termici o degli infissi esterni, ad esempio, che devono rispondere a precisi requisiti prestazionali, che calcoliamo e progettiamo attentamente. Nel caso invece di interni legati al modo del retail, il problema si sposta sulla necessità di offrire la migliore risposta possibile a temi che sono prettamente di carattere commerciale, alla migliore esposizione del prodotto offerto e sotto il profilo estetico, rappresentare al meglio la vision e l’anima del brand di riferimento.
L’ecosostenibilità è anche un valore estetico, culturale e i nostri progetti cercano sempre di esprimere questa nostra vicinanza e condivisione a questo tema così importante. Quali sono le sue fonti di ispirazione?
L’Architettura ha un suo lin-
guaggio, come la musica, la poesia e l’arte in generale. Così come bisogna conoscere la musica, la sua metrica, la storia della composizione per non usare note “stonate” all’interno di un’armonia, così bisogna conoscere la storia del linguaggio dell’architettura e della sua composizione per fare una buona architettura. Indubbiamente la storia del design italiano è un riferimento imprescindibile, ma guardiamo sempre con devota ammirazione i classici del Movimento Moderno degli anni venti del secolo scorso o grandi Maestri contemporanei che traggono spunto da quelle lezioni. Non abbiamo un unico riferimento, ma adottiamo soluzioni diverse legate alla tipologia di lavoro che stiamo seguendo e del contesto in cui
Non solo forma. L’architettura è arte che migliora la qualità della vita. Ne abbiamo parlato con Alessandra Pedone, founder PEDONE & TOMEO
va calato. La storia dell’architettura quindi ci viene in aiuto in relazione al risultato o appropriatezza del risultato che vogliamo ottenere. Se devo, ad esempio, progettare una casa nel Cilento, forse le torri del vento, tipiche di quel modello costruttivo, possono diventare un meraviglioso esempio cui ispirarsi non solo sotto il profilo estetico/compositivo ma soprattutto di gestione e controllo delle temperature interne.
Nel suo spazio a Battipaglia vita privata e professionale si incontrano, anche perché il suo socio è anche suo marito. Per quali aspetti la diversità di genere è, nel concreto, per lei un fattore di buona riuscita di un progetto?
Fra mio marito e me c’è sempre una dialettica aperta e positiva sui lavori e sui progetti. Siamo entrambi appassionati del nostro lavoro e questo ci aiuta. Abbiamo, e dico per fortuna, visioni diverse e questo è un vantaggio, perché ci porta
a vedere sempre le due facce della medaglia. In Architettura non esiste “genere”. C’è solo una buona idea o una pessima, un buon progetto e uno sbagliato. Sono le idee e le intuizioni a fare la differenza. Dettaglio o visione di insieme?
L’approccio al progetto di architettura è sempre unico e citando una frase di Rogers, va “dal cucchiaio alla città”. Direi che è solo una questione di scala di intervento, perché se disegni un interno, hai bisogno di approfondire e capire come funziona anche il centimetro quadrato di costruito, se devi progettare una villa, la faccenda diventa ancora più complessa. L’Architettura nel momento in cui viene progettata ha sempre un tema, uno scopo ed è quello che non deve essere perso mai di vista. Esiste, secondo lei, un design buono e, viceversa, uno cattivo?
Il design - che ricerca solo la bellezza superficiale, cosmeti-
ca, ma che è incapace di andare oltre - credo sia fine a sé stesso. L’arte in generale ha sempre espresso grandi temi attraverso la bellezza e cerchiamo sempre di capire la ragione profonda per la quale veniamo chiamati, cercando di dare in modo morale ed etico la migliore delle risposte possibili. Ad occhi aperti: cosa sogna di progettare per il futuro? Non posso che rispondere come uno dei grandi maestri dell’Architettura, Louis Kahn, cui fu posta la stessa domanda: “Aspetto chi mi dia la possibilità di progettare le piramidi”! Si fa riferimento, non alla grandezza dell’opera, le piramidi, piuttosto a un buon progetto che ha sempre bisogno del suo Faraone o per meglio dire Mecenate. Colui che crede nel bello e nell’architettura come mezzo per rendere migliore la nostra vita e sceglie, quindi, il suo esecutore perché si generi una simbiosi sugli obiettivi che si vogliono raggiungere.
BON TON ON BOARD: QUANDO LO STILE VOLA VIA
La prima riflessione da fare ogni volta che saliamo a bordo riguarda il nostro rapporto con lo spazio che, essendo condiviso, richiede comportamenti diversi da uno spazio privato.
Quando questo non è chiaro da subito si assiste a una serie di immagini poco eleganti perché, spesso, ad andarci stretti non sono gli spazi fisici tra un sedile e l’altro, ma le buone maniere.
Un esempio ricorrente: il viaggiatore scalzo che piazza i piedi nello schienale di fronte al suo. Non è forse il caso di scegliere scarpe comode, oppure, portare da casa un paio di calze ad hoc se i piedi lungo tante ore di volo richiedono un po’ di ossigeno in più? In molti casi è la compagnia stessa a fornirle, ma rientra nel bon
ton del viaggiatore conoscere se stesso e saper prevedere le proprie necessità senza offrire spettacoli sgradevoli.
La conversazione col vicino? Se da un lato è maleducato sedersi senza aver salutato chi ci siede accanto, attaccare bottone senza decifrare la disponibilità dell’altro a chiacchierare può trasformare il viaggio in un incubo per chi vorrebbe riposare.
Altrettanto fastidioso è chi ha bisogno di andare continuamente in bagno: con una scelta del posto lato corridoio si evita a chi viaggia con noi di doversi alzare ogni volta che dobbiamo farlo noi.
Merita un pensiero l’uso del profumo: tanti profumi, tutti insieme non producono un buon odore, quindi sarebbe meglio evitare di profumarsi prima di salire in aereo.
Alcuni comportamenti, talvolta involontari, possono risultare veramente fastidiosi: ma è vero che comodità fa rima per forza con mala creanza?ph Guido Stazzoni
Immortality,
ovvero l’eterno legame fra Videogioco e Cinema
Se inizialmente il videogioco ha assorbito come una spugna dal cinema idee, contenuti e caratteristiche principali, il cinema ha poi invertito la tendenza cominciando a fare lo stesso
IThe Game Awards sono il corrispettivo degli Oscar per il Videogioco. Nell’edizione del 2022, tenutasi pochi mesi fa, per la categoria "Best Performance", dedicata al miglior doppiaggio, motion e/o performance capture, è stato Al Pacino ad assegnare il premio. A vincerlo è stato Chris Judge, ovvero Kratos di God of War. Un attore che premia un attore, perché sì, ormai possiamo dirlo a voce alta che nei videogiochi ci sono degli attori, che siano "non conosciuti” - in rapporto allo star system cinematografico - come lo è Chris Judge, oppure “famosi" come Willem Dafoe (Beyond Two Souls), Giancarlo Esposito (Far Cry 6), Carrie Anne Moss (Horizon Forbidden West), per citarne alcuni. Tra le due categorie la linea è molto sottile, le uniche differenze effettive, infatti, sono il be famous e in quale medium recitano, perché in entrambi i casi, cinema o videogioco che sia, si tratta di una performance.
Tuttavia, approfondendo l’argomento, è opportuno sottolineare due aspetti. Il primo è che gli attori appartenenti allo star system hanno intercettato negli ultimi anni il videogioco come nuovo spazio di performance e, ovviamente,
di vetrina e nuova fonte di guadagno. Premettendo che ciò non avviene per tutti i titoli, ma principalmente per i cosiddetti tripla A aventi un grande budget di sviluppo alle spalle; d’altro canto gli attori che recitano nei videogiochi - e quindi come detto prima, meno conosciuti - hanno raggiunto una rilevanza e importanza mediatica tale nel medium che, quando avviene l’annuncio dei titoli videoludici, viene anche annunciato il cast.
Il secondo aspetto è una possibile differenza che si potrebbe evidenziare mettendo in parallelo la recitazione reale nel cinema e quella digitale nel videogioco. Una tale differenza, però, avrebbe potuto essere rilevante anni fa quando nel cinema l'uso della CGI (computer-generated imagery, letteralmente, immagini generate al computer) era ancora agli inizi, utilizzata poco e solo in casi eccezionali, anche e soprattutto a causa dei costi molto alti. Mentre nel videogioco i modelli 3D dei personaggi venivano principalmente animati “a mano” utilizzando delle reference di attori reali sia per i movimenti del corpo, sia per il volto. Non c’erano, quindi, ancora tecniche di motion capture avanzate per gli attori. Oggi invece l’uso significati-
vo della CGI e motion capture anche al cinema fa sì che la distanza in ambito recitativo tra i due media si sia ridotta notevolmente. Una differenza che si assottiglia ancora di più se pensiamo anche al contesto in cui avviene la recitazione: è possibile vedere un attore o un’attrice all’interno di un set in green screen, con indosso dei sensori, e recitare indifferentemente per il cinema o per il videogioco. Immaginate adesso, dopo tutto questo discorso, se ai The Game Awards al posto di Chris Judge avessero premiato un altro candidato alle nomination della categoria Best Performance, ovvero Manon Gage che ha recitato in un videogioco e in un film contemporaneamente. Se l'abbraccio tra Chris Judge e Al Pacino rappresenta l'unione fra cinema e videogioco nell’ambito mediatico e di spettacolo, Immortality lo rappresenta nell’aspetto dei linguaggi dei media. Il titolo sviluppato da Sam Barlow, infatti, è categorizzato come un interactive film video game, ovvero un videogioco che non usa motori grafici ma scene girate con azioni dal vivo e attori reali. La storia di Immortality ruota intorno alla misteriosa scomparsa dell'attrice Marissa Marcel, interpretata, appunto, da Manon Gage e l’obiettivo del/lla videogiocatore/trice è quello di investigare avendo a disposizione come unico elemento di indagine parti di pellicole dei tre film in cui ha recitato Marissa. Bisogna prestare attenzione a ciò che viene detto, analizzare chi e cosa c'è nel filmato e tutto ciò fa sì che il videogiocatore/trice debba essere uno spettatore attento come, appunto, nella visione di un film.
Ma è proprio nelle modalità di visione che risiede l'aggancio con il linguaggio del medium videoludico attraverso l’elemento dell’interattività. Partendo da una prima scena messa a disposizione da cui far partire l'indagine, è possibile cliccare su di essa su alcuni punti precisi che sbloccano e fanno da collegamento ad altre scene. Oggetti e persone sono, quindi, allo stesso tempo dei punti di fuga e
dei link essenziali per avanzare nel videogioco e sbloccare tutte le pellicole per ricostruire e svelare il mistero di Marissa.
Ma il fattore interattività non si ferma qui in Immortality: il semplice andare avanti e indietro nella pellicola diventa, infatti, un aspetto fondamentale delle indagini e la doviziosa ripetitività di tale azione porta alla scoperta di altri particolari, nonché di pellicole “sovrapposte”, apparentemente slegate dal contesto filmico che si sta analizzando. Già le precedenti opere videoludiche di Sam Barlow, ovvero Her Story e Telling Lies, erano degli interactive film video game, basati però su videoclip. Immortality sancisce il solido legame tra i due media che c’è da sempre, ma che ha preso nel tempo sfaccettature diverse.
Se inizialmente il videogioco ha assorbito come una spugna dal cinema idee, contenuti e caratteristiche principali, come ad esempio l’introduzione delle cutscene (scene d’intermezzo non interattive), il cinema ha invertito la tendenza cominciando poi a fare lo stesso. Ne sono una prova le tante trasposizioni cinematografiche e seriali di titoli videoludici degli ultimi tempi e la volontà di proporre al pubblico prodotti audiovisivi interattivi, tra cui spicca, tra gli altri, il film Black Mirror: Bandersnatch.
Immortality non solo sancisce, ma innova questo legame operando una riscrittura del linguaggio cinematografico che si adatta a quello videoludico e viceversa: se non ci fosse il fattore dell’interattività, sarebbe stato un film, se invece ci fosse stato uno sviluppo solo con motore grafico, sarebbe stato un videogioco.
Come ha affermato Jean-Luc Godard in un’intervista: «Da qualche parte, tra il videogioco e il CD-ROM, potrebbe esistere un altro modo di fare cinema», ed è così, ma come abbiamo vistoci permettiamo di aggiungere - da qualche parte, tra il cinema e la serialità, esiste anche un nuovo modo di fare videogioco. Una sinergia tra media che confluisce in un legame immortale.
ATTIVITÀ FISICA E PREVENZIONE: EVIDENZE SCIENTIFICHE
1 PARTE
L’Istituto Superiore di Sanità ci ricorda che svolgere attività fisica regolare significa fare una scelta a favore della propria salute. L’attività fisica non è un concetto astratto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce attività fisica (AF) qualsiasi movimento prodotto dall’apparato muscolo-scheletrico che richiede dispendio energetico e include le attività praticate quotidianamente. Il nostro peso rappresenta l'espressione tangibile del bilancio energetico tra entrate e uscite. L'energia viene introdotta con gli alimenti e utilizzata dall’organismo sia durante il riposo sia durante l'AF. Quando si introduce più energia di quanta se ne consuma, l'eccesso si accumula sotto forma di grasso, determinando un aumento di peso. Valori troppo bassi di dispendio energetico rendono difficile mantenere l'equilibrio tra entrate e uscite. Quantità eccessive di grasso corporeo (obesità) costituiscono un pericolo per la salute. Nel 2021 la Commissione Europea ha definito l’obesità una malattia cronica, progressiva, recidivante che a sua volta funge da porta d’accesso a una serie di malattie croniche non trasmissibili (NCD). Le NCD causano nel nostro Paese il 92% di morti e più dell’85% degli anni persi per disabilità. Un obeso grave ha una aspettativa di vita ridotta di circa 10 anni e ne passa 20 in condizioni di disabilità. La vita moderna promuove stili di vita estremamente sedentari: stare seduti molte ore predispone all'obesità indipendentemente dall’età. Sappiamo che (ISTAT 2020) solo il 36,6% della popolazione pratica almeno
uno sport, il 27,1% lo fa in maniera continuativa e il 9,5% saltuariamente; i soggetti che svolgono qualche attività fisica sono il 28,1%. I sedentari sono il 35,2%, quota che sale al 39,4% fra le donne. Praticano sport in modo continuativo il 58% dei giovani tra i 6 e i 10 anni, il 60,6% di quelli tra gli 11 e i 14 e il 50,1% dei 15-17enni, con valori più alti tra i maschi. L’abitudine a fare sport si riduce con il crescere dell’età. Quasi il 50% degli adulti ha uno stile di vita francamente sedentario e sicuramente attivo solo il 13%. La maggioranza dei bambini trascorre, all'età di 6 anni, oltre 2 ore al giorno di fronte alla televisione, pratica giochi passivi e trascura i giochi all’aperto. Anche per questo quote crescenti della popolazione infantile sono in sovrappeso o francamente obese. L’OMS ribadisce che l'attività fisica è un ottimo investimento per la salute ricordando che esiste una riduzione di circa il 30% nella mortalità per tutte le cause negli individui attivi, sia uomini sia donne. Tale riduzione aumenta all’aumentare della quantità di esercizio svolto. Per quanto riguarda le patologie metaboliche, l’AF protegge nei confronti del diabete tipo 2; favorisce inoltre la riduzione delle fratture dell’anca e della colonna vertebrale e riduce di circa il 30% il rischio di sviluppare limitazioni funzionali negli anziani, sia uomini sia donne. In quelli che hanno già limitazioni l’attività fisica ha effetti positivi sulle abilità funzionali, mentre in quelli a rischio di caduta ne riduce il rischio. Infine è dimostrato un rapporto positivo tra attività fisica e prevenzione delle neoplasie.
La Transizione Ecologica (raccontata da chi la fa)
di Maurizio Guandalini | Edito da ISTUD Business School pp.270 (acquistabile solo su Amazon)
La svolta verde è già in soffitta per la crisi energetica? Della Transizione Ecologica sono incerti tempi e modi. Dei 221 miliardi del Recovery Plan, circa 60 sono per il grande esodo verso il green. Risorse per l’economia circolare, la gestione dei rifiuti, l’efficienza energetica, le infrastrutture idriche e l’idrogeno. Come i cittadini e le imprese possono candidare progetti, studi, esperienze?
La nuova vita avrà saldi attivi sia nella salute che nel portafoglio? Aleggia, da un lato, la consapevolezza di sostenere il peso dei sacrifici per benefici che saranno goduti da altri, dalle generazioni che verranno e, dall’altro lato, che i cambiamenti climatici che stiamo vivendo siano irreversibili. Riusciranno gli stati a raggiungere la piena decarbonizzazione coniugando crescita economica e tutela ambientale?
L’ultima fatica curata da Maurizio Guandalini - editorialista, tra i più qualificati analisti indipendenti del sistema finanziario globale - coinvolge direttamente chi la transizione la sta già facendo da qualche tempo, con competenza e ottimi risultati, e ha i ferri del mestiere per capire dove si andrà. Diversi i temi trattati. Da come promuovere la transizione ecologica a scala locale ai costi e le opportunità per i cittadini, chi paga e come, gli ostacoli della burocrazia, l’economia circolare, come coniugare transizione digitale e sostenibilità, i progetti di energy social company, il ruolo della finanza, l’acciaio sostenibile, dal gas naturale all’idrogeno, la sostenibilità integrata e le emissioni zero. «Quella che avremo davanti non sarà una passeggiata rilassante. In generale l’applicazione al cammino della transizione ecologica richiederà gradualità, senza lasciare nessuno indietro ascoltando e adottando soluzioni meditate, affrancate da inutili contrapposizioni», Maurizio Guandalini.
BRADO
In questo film, che potrebbe essere definito un western esistenziale, il regista Kim Rossi Stuart racconta sostanzialmente la storia di un figlio che non voleva più avere niente a che fare con suo padre, ma che a un certo punto è costretto ad aiutarlo per mandare avanti il ranch di famiglia dopo che questi si è fratturato diverse ossa del corpo.
I due si ritrovano insieme per addestrare un cavallo piuttosto recalcitrante con l’obiettivo di portarlo in breve tempo a vincere una complessa competizione di cross-country.
L’occasione, tuttavia, diviene allo stesso tempo un modo per provare finalmente a sciogliere quel grumo di rabbia, ostilità, rancore, che ha impedito loro per tanto tempo di essere vicini e di avere un normale rapporto padre-figlio. Sarà un difficile percorso a ostacoli quello che dovrà compiere il cavallo, ma non sarà per niente facile anche quello che dovranno affrontare i due uomini per ricostruire l'amore e la vicinanza che avevano purtroppo perduto. In questa ardua impresa li aiuterà un'affascinante addestratrice di cavalli, di cui il giovane finirà inevitabilmente per innamorarsi.