BELLA ITALIA Fotografie e dipinti in mostra al Von der Heydt-Museum Wuppertal in viaggio di Cristiana Coletti
Schwebebahn (teleferica), Wuppertal (Š foto di Stephan Rose)
BELLA ITALIA
Kaiserwagon, Schwebebahn (teleferica), Wuppertal (© foto di Stephan Rose)
fra il 1815 ed il 1900. Si svolge come un viaggio in Italia, da nord a sud, centrato sul tema antico della Sehnsucht, ovvero la nostalgia, l’anelito, il desiderio mitteleuropeo nei confronti del nostro Paese. Pur mostrando l’immagine di un’Italia idilliaca, filtrata attraverso lo sguardo e le aspettative dei viaggiatori e dei turisti di allora, “BELLA ITALIA” non rappresenta una tacita conferma dei clichés che tutti conosciamo. Va oltre. Proponendo un confronto con la letteratura dell’epoca – le relazioni di viaggio – e con la Storia, la mostra tematizza le contraddizioni fra realtà ed idealizzazio-
Questa che ci lasciamo alle spalle è l’estate dell’Europa, delle partite e delle scommesse ancora aperte. È l’estate in cui gli antichi stereotipi e pregiudizi riaffiorano sulla superficie di un mare divenuto amaro ed ostile. Quanti di noi hanno seguito l’incontro Italia - Germania col fiato sospeso e con una volontà di rivincita esasperata dalle tensioni sociali, politiche ed economiche che tempestano il nostro continente? Tensioni sottolineate ed acuite dalla stampa, a nord e, soprattutto, a sud delle Alpi. Anche se qualcuno sembra adoperarsi per istigare antipatia e diffidenza, le persone sanno ancora fare appello al proprio buon senso. Sanno guardare con simpatia e curiosità. Esprimono il proprio desiderio di esplorare e conoscere l’altro. Il successo della mostra “Bella Italia”, inaugurata al Von der Heydt-Museum di Wuppertal il 10 luglio scorso, è una dimostrazione di quanto stiamo dicendo. Andiamo, allora, a Wuppertal! La città della famosa Schwebebahn, in italiano teleferica, una sorta di metropolitana che viaggia sospesa nell’aria.
“BELLA ITALIA” VON DER HEYDT-MUSEUM WUPPERTAL 10 luglio – 9 settembre 2012
La mostra, che nasce dalla collaborazione fra il VON DER HEYDT-MUSEUM, il MÜNCHNER STADTMUSEUM e la collezione privata DIETMAR SIEGERT, presenta al pubblico tedesco duecentodieci fotografie e dipinti realizzati nei decenni
Von der Heydt-Museum Wuppertal, (© Von der Heydt-Museum Wuppertal)
ne. Ci invita a cercare di capire in quali situazioni nascessero e come si sono divulgati gli stereotipi, all’interno di un percorso alla scoperta delle sensazioni e delle emozioni che questa Italia suscitava e suscita ancor oggi nell’immaginario dei nostri vicini d’oltralpe. “Bella Italia, un’espressione che ricorda quanto l’Italia rappresenti per noi mitteleuropei il Paese delle vacanze per antonomasia.” – ci ha detto Gerhard Finckh, Direttore del Von Der Heydt-Museum – “Questa espressione è in parte influenzata dalla tradizione del Grand Tour (ndr. il lungo viaggio intrapreso da studiosi e da benestanti viaggiatori mittel- e nordeuropei, a partire dal XVII secolo, con lo scopo di perfezionare il proprio sapere. Per conoscere da vicino le vestigia dell’antichità, per vedere l’arte del Rinascimento) ma è anche un’espressione moderna, legata alle esperienze degli anni ’50. ‘Bella Italia’ nasce, infatti, in Germania negli anni ’50, quando, finita la guerra, noi tedeschi ricominciammo a viaggiare in Italia col camper o con la tenda. E non per vedere i monumenti ma per andare sulla spiaggia, a Rimini. Oggi il turismo in Italia riunisce i due aspetti, il mare e la spiaggia, ma anche la cultura, l’arte.” Robert MacPherson, Cascata delle Marmore presso Terni, 1858 (Collezione Dietmar Siegert)
Conosci il Paese dove fioriscono i limoni? Fiammeggiano nel cupo fogliame le arance d’oro, Un vento lieve spira dal cielo azzurro, Quieto il mirto ed alto sta l’alloro, Lo conosci davvero? Laggiù! Laggiù O amato, con te vorrei andare! Johann Wolfgang von Goethe
Oswald Achenbach, Veduta sul Vaticano, 1883 (Collezione Von der Heydt-Museum Wuppertal)
BELLA ITALIA
“Quando giunsi [in Italia] il mio occhio era ancora un vetro grezzo; ora comincio a vedere.” Friedrich Theodor Vischer
Giorgio Sommer, Porto di Messina, 1870 (Collezione Fotografia Münchner Stadtmuseum)
La sfumatura moderna dell’espressione “Bella Italia” dà un accento più vivace al titolo ma non è un tema trattato dalla mostra che resta, invece, sulle tracce del Grand Tour. Nel periodo preso in esame la fotografia si inseriva nel contesto del viaggio in Italia entrando in dialogo con la preesistente tradizione della pittura e della grafica, disegni, acqueforti ed incisioni. Sfogliando il prezioso catalogo della mostra, “BELLA ITALIA – FOTOGRAFIEN UND GEMÄLDE 1815-1900”, pubblicato dalla casa editrice KEHRER (Heidelberg/ Berlino), oltre le perfette riproduzioni delle opere esposte, troviamo l’esaustivo saggio “Fra l’esperienza formativa ed il dolce far niente: il Grand Tour nella pittura, fotografia e letteratura del XIX secolo” di Ulrich Pohlmann, Direttore della Collezione Fotografia del Münchner Stadtmuseum e curatore della mostra insieme a Gerhard Finckh e Dietmar Siegert. Scandito in capitoli specifici, il saggio ci racconta il fascino che l’Italia esercitava su scrittori, artisti e studiosi che venivano per conoscere la ricchezza del nostro patrimonio culturale ma anche per vivere la bellezza della natura, alla ricerca di una vita migliore e, a volte, alla ricerca addirittura di se stessi. Un viaggio che passava attraverso i sensi, l’intelletto e l’animo.
Quali erano le tappe classiche del Grand Tour? Verona, Torino, Milano, Genova, Venezia, Firenze. Roma con lo splendore delle sue architetture antiche, col Caffè Greco, dove dal 1847 si incontravano i pittori-fotografi, e poi la campagna romana e i Colli Albani. Napoli, metropoli vivace ed esotica, Pompei e Capri con la leggendaria Casa Pagano e la birreria Zum Kater Hiddigeigei. Il percorso arrivava spesso soltanto fino a qui. Raramente, infatti, i viaggiatori si spingevano più a sud affrontando il pericolo delle epidemie di colera e la minaccia del brigantaggio. “BELLA ITALIA” ci
Giorgio Sommer, Giovanni da Bologna “Ratto delle Sabine”, Loggia dei Lanzi, Firenze, 1868 (Collezione Dietmar Siegert)
Oswald Achenbach, Veduta su Capri, 1884 (Collezione Von der Heydt-Museum Wuppertal)
mostra anche le tappe raggiunte dai più coraggiosi, portandoci fino in Sicilia, a Palermo e Messina. Col crescere delle attività degli operatori turistici James Cook e Carl Stangen il Grand Tour cambiò fondamentalmente, come cambiò anche il profilo dei viaggiatori. Ulrich Pohlmann cita una definizione del vocabolo turisti estrapolata da un dizionario dell’epoca. Secondo questa definizione i turisti sono una tipica classe di viaggiatori del tempo moderno, che non perseguono nel loro viaggio scopi specifici, come ad esempio scopi di natura scientifica, ma viaggiano soltanto per poter descrivere il viaggio. In questo contesto il dipinto, prima, e la fotografia, poi, diventarono un ambito ricordo da portare a casa per rivivere e raccontare la propria esperienza. Come Pohlmann racconta nell’intervista che ci ha gentilmente concesso, la prima fotografia si inserì nella tradizione della pittura ed è per questo molto simile ad
essa nella scelta dei motivi e della prospettiva. Cominciò, però, ben presto ad esercitare un’influenza sui pittori stessi che reagirono al fascino del dettaglio e della precisione delle immagini. Molti fotografi della prima ora erano artisti formati in Accademia che trovarono nel-
Una sala della mostra „Bella Italia“ (© Von der Heydt-Museum Wuppertal)
la fotografia una nuova forma di espressione e di sviluppo del proprio lavoro. Alcuni di questi seppero intraprendere la strada della commercializzazione nel settore del turismo ma anche in quello della scienza. La possibilità di fotografare monumenti, opere d’arte e reperti archeologici, aprì, infatti, una nuova porta per la documentazione, lo studio e la diffusione dell’arte e delle ricerche archeologiche. Ricordiamo che proprio grazie ai primi scatti vennero divulgati particolari degli affreschi della Cappella Sistina fino a quel momento pressoché inaccessibili. Le fotografie dall’Italia entrarono, così, insieme ai dipinti, i disegni e le stampe, nell’immaginario dei viaggiatori e di coloro che, pur non essendoci stati, si creavano un’idea del Paese attraverso le testimonianze. Anche in questo contesto la fotografia rappresentò una rivoluzione. Essendo più economica ed accessibile dei dipinti rendeva possibi-
BELLA ITALIA
INTERVISTA CON ULRICH POHLMANN Direttore della Collezione Fotografia Münchener Stadtmuseum
sibile osservando quali motivi hanno scelto i fotografi rispetto ai pittori. Sia nella scelta dei motivi e della prospettiva che nella forma di rappresentazione vediamo che ci sono delle forti somiglianze. Ma vediamo anche le differenze fra pittura e fotografia. Per i pittori era importante la resa della luce mediterranea. Lo vediamo nei dipinti dei paesaggi e nelle vedute di una città con la sua architettura. Quindi, anche se la raffigurazione di un soggetto idillico era estremamente simile in fotografia e in pittura, c’è nella pittura una ricerca diversa, attenta al colore. La fotografia è più realistica.
Cristiana Coletti: Come è nata l’idea della mostra “Bella Italia”? Ulrich Pohlmann: Tre anni fa ho realizzato un progetto con il Musée d’Orsay, “Voir l’Italie et mourir” (ndr. Musée d’Orsay 7 aprile – 19 luglio 2009). Il direttore del Von der Heydt Museum Wuppertal, Gerhard Finckh, vide la mostra e si entusiasmò. Propose, allora, di realizzare una mostra che avesse raccolto i dipinti della collezione del Von der Heydt Museum e le fotografie del Münchner Stadtmuseum e della collezione privata Dietmar Siegert. Non si tratta di un remake della mostra a Parigi ma si svolge anche questa attorno al tema della Sehnsucht dei mitteleuropei nei confronti dell’Italia. Per l’esposizione al Von der Heydt Museum abbiamo selezionato dipinti e fotografie sino ad ora non noti ed abbiamo inserito un nuovo aspetto: le relazioni di viaggio del XIX secolo. C. C.: Ed arriviamo spontaneamente alla mia prossima domanda. Qual è il concetto della mostra e quale il suo particolare valore? U. P.: La mostra esplora il mito Italia, ovvero l’immagine dell’Italia nel XIX secolo che arriva fino ai giorni d’oggi. La ritroviamo negli stereotipi, nei clichés che continuano ad esistere a nord delle Alpi. L’idea era quella di
Ulrich Pohlmann, Direttore della Collezione Fotografia Münchener Stadtmuseum
creare un dialogo fra i diversi media – fotografia, pittura e letteratura – e rendere visibile la relazione che esiste fra loro. La fotografia rappresenta una realtà diversa rispetto alla pittura. La stessa cosa vale per la letteratura. Le relazioni di viaggio sono a volte molto più schiette e dirette nel raccontare le condizioni sociali e la realtà, mentre la fotografia e la pittura riportano volentieri un’immagine idealizzata. C.C.: Qual è la relazione fra pittura e fotografia che la mostra mette in evidenza? U. P.: Questa relazione diventa già vi-
C. C.: La fotografia era allora un medium tutto da scoprire. Erano già ben definite le linee di sviluppo o erano ancora labili i confini fra i diversi campi di applicazione? U. P.: La prima fotografia ha ancora molti volti. Da una parte è scienza, dall’altra arte, ma inizia anche ad essere commercio. Comincia a diventare un’industria. Ci sono fotografi dei primi tempi, come ad esempio Giacomo Caneva, che si consideravano artisti ed erano pittori formati in Accademia. Molti di questi fotografi hanno realizzato le proprie fotografie soprattutto come modelli che gli artisti potevano usare per i dipinti. Poi ci sono fotografi come i Fratelli Alinari, che hanno assorbito l’esperienza dell’arte, della pittura nel proprio lavoro, ma che hanno saputo vedere nella fotografia anche le possibilità commerciali, gli sviluppi industriali. Hanno fondato un’azienda per la realizzazione e la commercializzazione delle riproduzioni di opere d’arte, di fotografie rivolte al mercato del turismo, ecc. Nel caso dei Fratelli Alinari subentra, quindi, un interesse commerciale molto più forte e preponderante. Un tipo di interesse che non riscontriamo nel lavoro di altri fotografi, come, appunto, Giacomo Caneva. C. C.: Qual è l’aspetto delle fotografie di allora che colpisce ed affascina il Suo sguardo da intenditore oggi?
Giorgio Sommer, Casa di Marco Olconio, Pompei, 1872 (Collezione Dietmar Siegert)
U. P.: Ci sono diversi aspetti. In primo luogo mi affascina il rapporto dei fotografi del XIX secolo col tempo. Ho l’impressione che in molte di queste immagini la dinamica della vita quotidiana sia stata rallentata. Vi percepiamo una calma, una stasi che ci costringe a guardare con concentrazione ed attenzione. Mi affascina molto questa qualità metafisica delle fotografie del XIX secolo. L’altro aspetto che mi affascina e mi commuove sempre è vede-
re nelle fotografie del XIX secolo una dissimulazione della realtà. A partire dal 1870 a Roma c’erano molti nuovi edifici che non compaiono mai nelle fotografie. Roma viene mostrata come una città dove l’antichità è ancora viva. Le architetture vengono isolate e la Roma moderna non è presente. Da una parte la foto restituisce in un certo senso la realtà, dall’altra parte la mistifica. Spesso, mano a mano che abbiamo informazioni sul fotografo e sul soggetto, ci rendiamo veramente conto di cosa viene rappresentato nella fotografia. Un esempio è la fotografia di Pompeo Molins dove vediamo una zona del Monte Pincio con veduta su Roma. Si vede la cupola di San Pietro che emerge attraverso la foschia. E ci sono alcune persone eleganti che passeggiano accanto alla balaustra della terrazza. C’è anche un cagnolino. In un primo momento può sembrare che si tratti di un’immagine della quotidianità romana nel 1860. Sembra che si
Pompeo Molins, Veduta dal Belvedere su Roma con Castel Sant’Angelo e San Pietro, Roma, 1856/57 (Collezione Dietmar Siegert)
tratti di persone comuni che passeggiano e guardano il panorama sulla città. Ma se leggiamo le relazioni di viaggio di quel periodo ci accorgiamo subito che il Pincio, in tutta la zona intorno all’Accademia di Francia, era chiuso ai pedoni e ai turisti. Nelle vicinanze vivevano, infatti, alcune famiglie nobili benestanti che avevano il permesso di passeggiare liberamente in quest’area. Quindi, il luogo che vediamo in questa fotografia era, allora, riservato ad una piccola élite ed offriva un panorama privilegiato su Roma. Sapendolo possiamo guardare la foto con occhi diversi. C. C.: Ci sono anche altri soggetti, le persone. Cosa accadeva in questo caso? U. P.: Possiamo vedere che succede qualcosa di simile anche nella rappresentazione delle persone. Alcuni si offrivano come modello per fotografie e dipinti. Questa attività gli dava la possibilità di guadagnare una paga. Si incontravano sulle scale di Piazza di Spagna. Questi modelli sono diventati il prototipo dei romani e pure degli italiani in generale. Si tratta, ovviamente, di una selezione dubbiosa. Sappiamo che le strutture sociali erano molto complesse e diversificate anche nell’Italia del XIX secolo. Ecco, le fotografie aprono questioni anche su aspetti di questo genere che spingono a confrontarsi con la storia del Paese e degli abitanti.
Fratelli Alinari, Battistero di San Giovanni, Firenze, 1855 (Collezione Dietmar Siegert)
C. C.: Attraverso le fotografie si costruì un’immagine dell’Italia. Un’immagi-
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ne, in parte idealizzata, che i turisti benestanti potevano portare a casa in ricordo del viaggio ma che venne trasmessa, in certe occasioni come le Esposizioni Universali, anche a coloro che non avevano la possibilità andare in Italia. U. P.: Esattamente. La maggior parte delle persone si creano un’immagine di qualcosa. Fanno l’esperienza di un Paese straniero, degli abitanti e delle città, prima di tutto attraverso immagini. Inizialmente si trattava di dipinti, di stampe, fino all’invenzione della fotografia. La fotografia porta con sé un mondo di immagini completamente nuovo che, però, in parte, conferma gli antichi stereotipi. Ovvero, rispetto agli altri media la fotografia non si preoccupava sempre, necessariamente di mostrare un’immagine più “illuminata” dell’Italia e delle sue architetture. Ma era molto più accessibile, diffusa e meno costosa rispetto alla pittura. Nel momento in cui il turismo di massa organizzato in Italia incominciò – a partire dagli anni ’60 e ’70 del 1800 – le fotografie rappresentavano anche una buona fonte per prepararsi ad un viaggio. Le persone sapevano già cosa avrebbero visto e visitato. A Monaco, ad esempio, c’era il Kunstsalon Littauer dove si potevano acquistare fotografie di questo genere. C. C.: Tornando a parlare nello specifico della mostra, ci sono opere rare e molto preziose. Secondo quale criterio sono state scelte ed esposte? C’è un’opera in particolare che avrebbe voluto ma non ha potuto inserire? U. P.: Ci sono diversi criteri alla base della selezione delle opere per la mostra. Da una parte, dal punto di vista del contenuto, volevamo completare un viaggio in Italia da nord a sud. Rispetto alla fotografia, poi, abbiamo voluto concentrarci nel periodo di tempo fino al 1875 o, al massimo, fino al 1880. Certo, ci sono anche alcune fotografie che risalgono agli ultimi decenni del secolo. Ci siamo concentrati sul periodo antecedente alla produzione di massa, all’industrializzazione, per mostrare cosa è in grado di fare la fotografia. Per questo c’è un focus particolare sui primi venticinque anni quando i fotografi venivano dall’esperienza dell’incisione su rame, della miniatura, mentre successivamente i fotografi di professione non avevano necessariamente una preparazione artistica. Un altro criterio è la qualità. Abbiamo cercato opere conservate perfettamente. Non c’è un’immagine sbiadita. Sono
fotografie che possiamo vedere nello stato originale. C’è l’intenzione, quindi, se vogliamo, di rendere visibile la calligrafia del fotografo. Ci sono pezzi molto preziosi in mostra. Per esempio le fotografie di Richard Calvert Jones, che apparteneva al milieu di William Henry Fox Talbot. Si tratta dei primi viaggiatori in assoluto che scattarono fotografie in Italia. Sono opere che oggi vengono vendute sul mercato per somme a sei cifre, in Euro. Nella scelta delle opere, poi, abbiamo volutamente trascurato un capitolo: i dagherrotipi. Ci sono due collezioni meravigliose di dagherrotipi. Una è quella di John Ruskin e l’altra quella di Alexander John Ellis che appartengono a musei inglesi. Per via dei costi non li abbiamo compresi nel progetto. Se ci fossero stati, avrebbero rappresentato sicuramente un punto culminante della mostra. C. C.: E fra le opere esposte, qual è la Sua preferita? U. P.: Oh, ci sono diverse fotografie che mi affascinano molto. Ne cito una che fa parte anche dei primi fotomontaggi. È un’opera di Giorgio Sommer intitolata “Tarantella”. In una veranda sono messe insieme diverse figure. Ognuna è stata fotografata separatamente e montata, in un secondo momento, insieme alle atre per formare una composizione di gruppo. Ci sono i rappresentanti tipici della vita popolare napoletana: il lazzarone, i danzatori di tarantella, i suonatori, i giovani pescatori. C’è il parroco e, naturalmente, anche il bersagliere con la divisa, posi-
zionati davanti allo sfondo che mostra un Vesuvio fumante. Insomma è una geniale invenzione del fotografo! C. C.: Questa intervista è rivolta ad un pubblico italiano. C’è qualcosa di particolare che vuol dire ai nostri lettori? U. P.: Sì. In Italia ci sono soltanto pochi musei che collezionano fotografia. Sarebbe veramente auspicabile che ci fossero più luoghi dedicati alla fotografia del XIX del XX secolo ed alla fotografia contemporanea. Sarebbe auspicabile che la fotografia ricevesse il sostegno statale che merita. In questo momento si stanno facendo degli sforzi a Roma per fondare un museo di fotografia negli spazi dell’ex-mattatoio. Posso solo sperare che questo progetto riesca a realizzarsi. Posso sperare che le collezioni di fotografia, che sono sino ad ora proprietà privata, possano diventare accessibili sia al pubblico che alla scienza, ai ricercatori. Me lo auguro veramente molto perché in Italia, sotto questo punto di vista, c’è una situazione deficitaria. Ed è un vero peccato perché ci sono collezioni eccellenti e fantastici colleghi e colleghe che si sono impegnati e si impegnano molto per realizzare questo progetto. Hanno bisogno di sostegno. A questo proposito voglio segnalare che in questi giorni una mia collega dell’Università La Sapienza, Raffaella Perna, sta lavorando alla pubblicazione degli esiti del convegno “Per un museo della fotografia”.
Giorgio Sommer, Tarantella, Napoli, 1875 (Collezione Dietmar Siegert)
Giorgio Sommer, Turisti con portantini sul cratere del Vesuvio, 1880 (Collezione Fotografia Münchner Stadtmuseum)
le una divulgazione assai più ampia e rapida. Ma quale era l’Italia che questi viaggiatori conobbero? La risposta a questa domanda è piuttosto complessa. L’immagine che emerge dalle fotografie e dai dipinti è perlopiù un’immagine idealizzata, costruita sullo splendore dei paesaggi naturali, la bellezza delle architetture e delle vestigia antiche, da una parte, e con scene pittoresche della vita popolare, dall’altra. Il viaggiatore cercava, spesso, una conferma alle proprie aspettative, al proprio desiderio di vivere un’esperienza felice, appagante. I fotografi e i pittori rispondevano a questa esigenza attraverso la resa di un soggetto isolato da tutto ciò che lo potesse allontanare dall’ideale atteso. L’Italia moderna è pressoché assente. Tranne qualche rara eccezione, non si vedono nei dipinti – e nemmeno nelle fotografie – situazioni spiacevoli o drammatiche. Il confronto con le relazioni di viaggio coeve, che la mostra suggerisce, apre, a questo punto, una parentesi importante che ci consente di guardare oltre le immagini. Resoconti del tipo “L’Italia com’è veramente” di Gustav Nicolai sono, infatti, molto diretti e schietti. Mettono in risalto anche le contraddizioni e gli aspetti difficili di un
viaggio in Italia che, in realtà, non era sempre idilliaco. Sono testimonianze
che raccontano la sporcizia, i pericoli, il chiassoso presente dell’Italia nel XIX secolo. E rappresentano, infine, una preziosa fonte per la ricerca di quella porzione di verità che può nascondersi dentro uno stereotipo. La fotografia di Giorgio Sommer “Mangiatori di maccheroni” (vedi pag. succ.) ci offre l’occasione per tentare di sbirciare oltre un noto cliché. Come ha spiegato Ulrich Pohlmann durante la presentazione della mostra alla stampa, questa foto è stata realizzata nello studio del fotografo a Napoli. È una messa in scena, intesa con molta simpatia ed affetto, che sottolinea ed esagera alcuni aspetti tratti dalla realtà. Nelle relazioni di viaggio viene raccontato, infatti, che una parte della popolazione napoletana intorno al 1860 utilizzava il berretto per mangiare la pasta. Più precisamente, con parole del curatore: “Avevano un berretto dove mettevano la pasta e il sugo che poi mangiavano con le mani.
Filippo Belli, Scena di genere sui Colli Albani, Marino, 1875 (Collezione Dietmar Siegert)
BELLA ITALIA
Dopodiché il berretto veniva lavato in mare.” Estrapolata dal contesto originale questa scena può risultare irritante agli occhi di noi italiani. Ma non bisogna dimenticare lo spirito con cui è stata scattata e le sensazioni che suscitava e suscita ancora nel pubblico tedesco. Ulrich Pohlmann: “Oggi, naturalmente, associamo l’Italia con la pasta, gli spaghetti, le linguine, le tagliatelle, il buon cibo, il buon vino! Sorridiamo, quindi, davanti a questa foto che guardiamo con molta simpatia. Ci accorgiamo che si tratta di una messa in scena ma ci ritroviamo anche qualcosa di questa gioia di vivere e della cultura popolare dell’Italia nel XIX secolo. Una gioia di vivere che percepiamo, credo, anche oggi.” Questo sguardo, pieno di simpatia, rivela lo spirito con cui è stata concepita ed allestita la mostra e spiega anche il successo che sta avendo. Tutte le testate giornalistiche tedesche più importanti hanno dedicato a “BELLA ITALIA” interessanti recensioni e dibattiti sul tema dei clichés. Per noi italiani questa mostra può rappresentare uno spunto per guardare i dipinti e le fotografie di allora con occhi diversi. Uno spunto per riprendere in mano la letteratura dei tanti scrittori e poeti che nei secoli hanno viaggiato attraverso il nostro contradditorio ma incantevole Paese.
Giorgio Sommer, Mangiatori di maccheroni, Napoli, 1865 (Collezione Dietmar Siegert)
Due vasche, l’una sovrastante l’altra con un antico, tondo orlo marmoreo, che sommessa dall’alto inclina l’acqua verso l’acqua che sotto era in attesa, tacendo a quella che sommessa parla e quasi dentro il cavo della mano dietro ombra e verde in segreto mostrandole come un oggetto sconosciuto il cielo (…) Rainer Maria Rilke, Fontana Romana
Giuseppe Ninci, Il Tevere con Castel Sant’Angelo, Roma, 1860 (Collezione Fotografia Münchner Stadtmuseum)