L’ESPERIENZA DELLO SPAZIO DANIEL BUREN A MAINZ in viaggio di Cristiana Coletti
Foto ricordo, Daniel Buren (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
L’ESPERIENZA DELLO SPAZIO
“Se vuoi incedere nell’infinito Cammina nel finito da ogni parte.” J. W. Goethe (cit. E. H. Gombrich, Il senso dell’ordine) DANIEL BUREN Se andate a Parigi e chiedete di lui, tutti, ma proprio tutti, vi risponderanno “Les colonnes de Buren” – racconta lo storico dell’arte e curatore Klaus Bussmann nel suo testo pubblicato nel 2006 (Daniel Buren – Les Cadres Décadrés, Galerie Dr. Dorothea van der Koelen) in occasione della prima grande mostra personale di Daniel Buren a Mainz. Tutti conoscono la sua tanto famosa e controversa “Les Deux Plateaux” (1985-86): l’installazione composta da duecentosessanta colonne ottagonali a strisce bianche e nere che ha rivoluzionato lo spazio del cortile d’onore del Palais-Royal suscitando tanto scalpore. Come scrive Bussmann, Buren “ha trasformato un parcheggio relativamente triste in una sorta di messa in scena drammatica.” L’installazione entra in dialogo con la struttura dell’edificio del XVIII secolo e con la sua “megalomania di colonne: colonne neoclassiche e colonnati che girano tutt’intorno.” Riprendendo questo elemento e trasportandolo su due livelli – il livello della piazza, dove si cammina, ed un livello inferiore che viene illuminato dal basso – Buren ha ottenuto “un effetto di trasfigurazione e d’ironizzazione dell’architettura”. Secondo la rivista svizzera DU (n°5, 1990) grazie all’installazione delle colonne davanti al Palais-Royal “Daniel
Foto ricordo, Cadre décadré – 13 C1 (blu), travail situé, 2006 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
Buren è famoso in Francia quasi quanto Picasso.” Sappiamo che questa è soltanto una delle moltissime ed importanti opere in situ realizzate dall’artista francese più o meno nel corso degli ultimi quarant’anni. Ricordiamo che nel 1986 vinse il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia e che nel 2007 gli fu conferito in Giappone il Premio Imperiale – l’equivalente di un Nobel per l’arte. Daniel Buren è oggi, quindi, uno degli artisti più noti ed importanti al mondo. I suoi lavori sono entrati di diritto a far parte
Foto ricordo, Daniel Buren (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
dei libri di Storia dell’Arte Contemporanea. Tuttavia c’è qualcosa che non torna. Non riusciamo ad immaginarci il lavoro di Daniel Buren alla luce di un successo ormai certo, stabilito, raggiunto. Questi tre aggettivi sono incompatibili con la sua opera: entrano in contraddizione con lo spirito di ricerca e di invenzione che la caratterizza. E, ancora più profondamente, con l’idea che la genera. Una dichiarazione, pubblicata nello stesso numero della rivista DU, ci fa tirare un sospiro di sollievo: “Le persone conoscono il mio nome, ma pochi sanno cosa cerco di fare con la mia arte (Daniel Buren)”. Sono passati all’incirca altri buoni vent’anni dalla pubblicazione di questa frase e nel frattempo sono arrivati altri riconoscimenti, molte altre commissioni pubbliche, sono state allestite mostre strabilianti nei musei di tutto il mondo. Ma questa frase contiene ancora qualcosa di vero e, usando un termine inflazionato ma calzante, di necessario. Il nome di Daniel Buren viene associato comunemente all’immagine delle famose bande verticali di cm. 8,7 a colori alternati che sono divenute, loro malgrado, una sorta di marchio d’autore. Ma la loro vera funzione è notoriamente un’altra. Nasce e si sviluppa all’interno una ricerca artistica rigorosa e profondamente rivoluzionaria. Come ci ha ricordato lo stesso Daniel Buren durante l’intervista, il suo lavoro segue
Foto ricordo, Daniel Buren con Beate Reifenscheid e Dorothea van der Koelen (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
la traccia di un’indagine sulla pittura che si svolge a più tappe nel corso del Novecento: “Si trattava di un’interrogazione dell’oggetto, di un’interrogazione della pittura e dell’ambizione di riuscire ad arrivare ad una sorta di pittura ridotta al suo linguaggio più strettamente pittorico, togliendo la storia, le storie. Togliendo il pathos e togliendo la figurazione, che diventa immediatamente una specie di illustrazione di qualcosa.” È questa ricerca che lo ha portato dapprima a ridurre estremamente l’intervento pittorico sul supporto – un tessuto prestampato a righe verticali – e, successivamente, a decidere di utilizzare proprio il motivo prestampato come matrice che si può estendere all’infinito e trasportare su qualsiasi altro supporto. La necessità di raggiungere un’assoluta sintesi sul piano della pittura, poi, si è rivelata inscindibile dalla decisione di abbandonare lo spazio dell’atelier e di portare l’indagine al di fuori della galleria e del museo. Il fatto che nella Parigi dell’epoca il sistema dell’arte fosse statico e fossilizzato, che i dibattiti e le discussioni sull’arte avvenissero solo all’interno dei luoghi prestabiliti “le gallerie, i musei, la Storia dell’Arte” e che di conseguenza Daniel Buren, come altri artisti della stessa generazione, abbia sentito il bisogno di ribellarsi, non basta a spiegare la portata della sua rivoluzione sul piano dell’arte. Non si tratta, infatti, come sappiamo, soltanto di una ribellione al sistema – per quanto radicale e convinta sia comunque stata – ma della scoperta di un nuovo modo di intendere la pittura. Tutti conoscono la biografia di Daniel Buren e come è nata l’idea di usare le bande verticali cm. 8,7. Possiamo raccontare degli anni sessanta in cui insieme agli artisti Olivier Mosset, Michel Parmentier e Niele Torroni fonda il gruppo BMPT con cui organizza delle manifestazioni controverse. Possiamo leggere il loro leggendario testo, “Puisque peindre c’est…” del 1967, in cui elencano tutti i motivi per cui non si definiscono pittori. Possiamo raccontare della
censura della sua opera al Museo Guggenheim (New York) nel 1971 e descrivere come un trionfo ed una rivincita la bellissima mostra di grande successo nello stesso museo trent’anni più tardi. Possiamo, infine, tracciare una cartina con tutte le opere pubbliche che Daniel Buren ha realizzato, prendere nota delle idee che ha avuto ogni volta e di come queste si sono sviluppate nel corso degli anni e a seconda del luogo. Ma nessuna di queste cose ci aiuta a capire il significato della sua opera se non teniamo a mente il fatto che alla base c’è una teoria che nasce da un discorso radi-
cale e rigoroso sulla pittura. Un discorso che Daniel Buren ha continuato a sviluppare. Come lui stesso ci ha detto: “Credo di essere sempre restato, sin dall’inizio, sulla traccia di questa interrogazione della pittura. Traccia che mi ha portato, poi, ad interrogare il luogo e a lavorare in modo molto diversificato.” In un articolo di Swantje Karich, dedicato alla mostra di Buren a Norimberga (Frankfurter Allgemeine, 5 gennaio 2010), leggiamo: “(…) Qualcosa è cambiato: vedendo la facciata del museo di Norimberga torna in mente una frase di Peter Bürger, che
Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
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formulò un giorno la fondata domanda ‘Le stoffe da tenda di Buren (ndr. riferimento al supporto prestampato a bande verticali cm. 8,7) non restano stoffa da tenda nonostante il discorso che le accompagna?’ Questa domanda oggi, qui, non è più rilevante perché Buren dipinge di nuovo. Il ritmo, l’accordo dei colori è pittorico, l’impostazione sovversiva è andata perduta (…)”. Leggere questo passaggio sulle pagine di un autorevole quotidiano tedesco ci fa capire quanto poco scontato da parte nostra sia ribadire, ancora, un concetto: sin dagli inizi Daniel Buren si muove con estrema coerenza all’interno di una ricerca rigorosa che lo ha portato a sviluppare una teoria ed un modo di intendere la pittura e, attraverso questa, lo spazio. Scrivere oggi che Daniel Buren ha perso l’elemento sovversivo e dipinge di nuovo significa, a no-
Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
stro avviso, mettere un po’ in discussione tutta l’opera e la validità del pensiero su cui è fondata. Significa non vedere, poiché
Foto ricordo, Cadre décadré – 18 D2 (3 colori), travail situé, 2006 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
tutte le opere che ha realizzato e realizza stanno dentro una logica rigorosa, che scaturisce, ripetiamo, da un’indagine sulla pittura, oggi come ieri. Buren utilizza certamente i colori con più evidenza, già da alcuni anni, ma all’interno di un percorso che è senza soluzione di continuità. Possiamo certamente apprezzare questo nuovo sviluppo della sua opera e goderne la felicità, ma cercando, forse, di non cadere nel tranello di interpretarlo come un cedimento o un ritorno sui propri passi, né come la perdita di una caratteristica. L’elemento di provocazione – almeno sul piano visivo – è, infatti, sempre presente nel suo lavoro perché ne è una caratteristica intrinseca. Le tanto citate bande a strisce verticali, che Daniel Buren ha chiamato outil visuel, sono, appunto, uno strumento di lettura dello spazio. Si tratta di una matrice, l’arnese con il quale Buren trasforma lo spazio consentendoci di farne una nuova esperienza. Attraverso questo strumento – ad opera realizzata – noi siamo chiamati, poi, a viverla, mettendo in discussione le nostre coordinate e le nostre abitudini visive. Restando sorpresi, turbati. Facendo un paragone un poco azzardato, le bande a strisce verticali cm. 8,7 possono essere considerate, infine, come una sorta di legge alla base della costruzione dell’opera che ne garantisce, attraverso tutte le trasformazioni, i materiali, gli sviluppi e le nuove sfaccettature che va conoscendo, l’assoluta rigorosità. Com’è noto, Daniel Buren è un artista e, nello stesso momento, un teorico. Al suo pensiero, sviluppato nel corso degli anni, ha dedicato egli stesso numerose pubblicazioni. Non sta a noi spiegarne tutti gli aspetti. Sarebbe una scelta difficile e cosparsa di pericoli. Potremmo commettere l’errore di utilizzare dei termini ambigui o inappropriati. Oppure, ancor peggio, potremmo cedere alla tentazione di proporne
un’interpretazione! Proponiamo, invece, la lunga, stimolante intervista che Daniel Buren ci ha gentilmente concesso in occasione dell’inaugurazione delle mostre nei due spazi della Galerie Dr. Dorothea van der Koelen. LE MOSTRE TWO EXPLODED CABINS FOR A DIALOG (Mainz-Laubenheim) ENCORE DES CARRÉS (Mainz-Bretzenheim) Galerie Dr. Dorothea van der Koelen Dopo cinque anni dalla sua ultima mostra personale realizzata a Mainz con Dorothea van der Koelen, Daniel Buren torna proponendo due lavori specifici per gli spazi della galleria. L’inaugurazione, che ha avuto luogo il tre dicembre scorso, è stata aperta da un discorso di Dorothea van der Koelen nello spazio del capannone a Mainz-Laubenheim che ospita la grande installazione “Two Exploded Cabins for a Dialog” (metri 3 x 6 x 9). Due cabine di forma quadrata e di differente colore – rosso e verde – entrano l’una nell’altra trasformando lo spazio. Come descrive Daniel Buren: “Sono due quadrati che entrano l’uno nell’altro e che cambiano perimetro mantenendo la propria forma ed il proprio colore. È come un tamponamento fra due oggetti, due cubi. Nel momento in cui c’è il conflitto fra i due cubi, si creano dei tagli, delle porte e delle alternanze di colore ed altro. A priori sono molto semplicemente dei cubi e hop! Si fondono.” Le due strutture, incastrate l’una nell’altra, creano uno spazio nello spazio. Una sorta di labirinto che fa perdere al visitatore, divertito e turbato, il senso di orientamento. Lo sorprende, poi, all’improvviso, attraverso un riflesso prodotto dal gioco di specchi – il lato esterno dell’intera costruzione è fatto di specchio. Immaginiamo di fare un percorso
Foto ricordo, inaugurazione di Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
all’interno dell’installazione. Camminiamo entrando nella cabina rossa e vediamo di colpo un luogo che appartiene allo spazio dell’altra cabina, quella verde. Passiamo, soli, attraverso le strette aperture che consentono il passaggio di una singola persona alla volta, e ci troviamo al centro dell’installazione – una terza stanza creata dall’incontro fra le due cabine – con altre quattro persone entrate chissà da dove. Giriamo l’angolo e vediamo la persona che abbiamo appena lasciato alle spalle. Come ci ha detto Dorothea van der Koelen durante l’intervista “entrando si percepisce il gioco di specchi che porta l’osservatore in
uno stato di sospensione fra realtà e apparenza.” Daniel Buren aggiunge: “Amo molto questo effetto dello specchio che, in effetti, porta avanti un’idea che avevo sin dagli inizi del mio lavoro: fare delle cose che, in una certa maniera, allarghino la visione.” La mostra “Encore des Carrés” è stata aperta, invece, da un discorso di Beate Reifenscheid, direttrice del LUDWIG MUSEUM di Koblenz ed è composta da dieci opere costruite – ognuna – da sedici elementi uguali: tavole quadrate di cm 26,1 x 26,1. “Quindi tutte le opere sono esattamente uguali.” – ci ha raccontato Daniel
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Foto ricordo, Encore des Carrés, travaux situés, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
Buren – “Cambiano alcuni piccoli dettagli, ce n’è uno blu, uno rosso… ma hanno tutte la stessa forma e tutte hanno lo stesso numero di elementi. Ed è sbalorditivo che, guardando le opere, abbiamo l’impressione che si tratti di pezzi molto differenti.
to, come quadrate sono le cabine che si incrociano in “Two Exploded Cabins for a
Dialog”. Ma non soltanto. Le misure dello spessore delle pareti e delle porte dell’installazione corrispondono esattamente alla misura di tre bande a strisce verticali, ovvero cm. 26,1 – proprio la dimensione di ogni singolo elemento delle opere nella seconda mostra. Nell’intervista che ci ha rilasciato in occasione dell’inaugurazione, Dorothea van der Koelen ci spiega, ancor più da vicino, gli aspetti salienti delle due mostre. Nel lontano 1986, in occasione della Biennale di Venezia, la gallerista tedesca conobbe il grande artista francese. Come racconta Dorothea van der Koelen “Ci siamo incrociati diverse volte nel corso degli anni, ho visto molte sue opere e per me è sempre stato ed è anche oggi un artista grandioso, anche se nel frattempo sono passati venticinque anni.” Non è un caso che, visitando queste due nuove mostre, ci torni alla mente il titolo dell’evento per i trent’anni della galleria, festeggiato già nel 2009: “When Ideas Become Form”, quando le idee prendono forma.
Foto ricordo, Encore des Carrés, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
Questa differenza è tanto più visibile ed evidente quando, in effetti, ci si trova di fronte alla stessa cosa. È questo l’aspetto che mi interessa nel lavoro per la mostra in galleria.” Fra le due mostre citate esiste una relazione che è giocata sulla forma del quadrato: ogni elemento che compone le opere di “Encore des Carrés” è quadra-
Foto ricordo, Cadre décadré – 3 A3, 2006 travail situé (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
li, ma è questo che mi interessava. Quando, poi, con i miei mezzi, ho raggiunto un livello che mi sembrava molto difficile da superare, sono arrivato ad una sorta di ripetizione voluta che si basa su elementi molto semplici. Un supporto visibile a strisce verticali ed un modo di dipingere su questo supporto assolutamente ridotto. Dopo circa due anni di lavoro su questo piano, mi sono reso conto di aver posto, forse, delle buone domande sulla pittura. Sicuramente ho portato avanti l’idea che la pittura debba essere ciò che è. Avevo dimenticato, però, che, spingendosi così tanto oltre, non si poteva venir compresi se non da coloro che si muovevano nello stesso ambito. Per gli altri si trattava di qualcosa al limite, qualcosa di incomprensibile. Invece si trattava, comunque, di pittura. Foto ricordo, Daniel Buren (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
C. C.: Una pittura che si è svincolata dai luoghi tradizionali.
INTERVISTA CON DANIEL BUREN
D. B.: Sì. I luoghi dove si portavano avanti i discorsi e i dibattiti erano allora le gallerie e i musei, la storia dell’arte. Io mi sono detto “quello che è veramente interessante capire oggi è se questo discorso si può tenere fuori dai luoghi così precisi e specifici, dove l’arte si sviluppa da almeno due secoli.” In quel momento ho abbandonato l’idea di fare una pittura che ha una sua qualità, la sua fragilità, che si può mettere ovunque, ed ho cominciato a lavorare al di fuori dei luoghi specifici. Quindi, automaticamente, in strada. A partire da questo momento mi è sembrato più chiaro e netto dire “non sono un pittore, faccio altre cose”. Qui è iniziato un paradosso. Il mio lavoro era molto, molto vicino ad una pittura essenziale – almeno ai miei occhi. Se ne può sempre discutere, ma
Cristiana Coletti: Quando ha saputo di essere un artista e quando ha deciso di non chiamarsi pittore – mi riferisco al testo del 3 gennaio 1967 “Puisque peindre c’est…” firmato da Buren, Mosset, Parmentier, Torroni. Daniel Buren: Innanzitutto ho sempre messo in discussione il termine “artista”. Dopo tanti anni è certo che io sia un artista piuttosto che altro. Ma non amo questo termine. Ho sempre una specie di resistenza a chiamarmi così. Non lo faccio mai. Ma so di essere più che altro all’interno della categoria delle arti visive. Quindi generalmente si dice “artista”. C. C.: Perché non Le piace il termine? D. B.: Perché non vuol dire niente. Un cantante è un artista, un parrucchiere è un artista… Bene, non ho niente in contrario. Ma allora, di conseguenza, non mi sento veramente un artista. Tornando alla Sua domanda, inizialmente, quando ho cominciato a riflettere sulla pittura, lavoravo su una specie di traccia, che possiamo ritrovare peraltro in più tappe nel corso XX secolo. Si trattava di un’interrogazione dell’oggetto, di un’interrogazione della pittura e dell’ambizione di riuscire ad arrivare ad una sorta di pittura ridotta al suo linguaggio più strettamente pittorico, togliendo la storia, le storie. Togliendo il pathos, togliendo la figurazione, che diventa immediatamente una specie di illustrazione di qualcosa. Si è cercato di riuscire a ridurre più di quello che ha fatto Mondrian. Più di Barnett Newman. Si è cercato di realizzare qualcosa che fosse ancora più rigoroso di Pollock. Si tratta di questioni evidentemente molto ambiziose, un po’ fol-
per me era sostanzialmente questo: qualcosa di non troppo affascinante, né troppo bello, né troppo brutto, né troppo espressivo. E proprio in quel momento sono uscito, nel vero senso della parola, ed ho abbandonato l’idea dell’atelier. Credo di essere sempre restato, sin dall’inizio, sulla traccia di questa interrogazione della pittura. Traccia che mi ha portato, poi, ad interrogare il luogo e a lavorare in modo molto diversificato. Fu difficile capire per coloro che erano abituati al mio lavoro precedente. Molti restarono attaccati alla forma, perché – per semplicità – avevo utilizzato, ma in maniera differente, il tessuto sul quale dipingevo: un tessuto fabbricato che si trovava in commercio. Mi sembrò un ottimo materiale perché è neutro, si ha la possibilità di ingrandirlo in tutti i sensi senza toccare la matrice. Questa è ancora la base del mio lavoro, anche se, poi, si è andato diversificando. C.C.: Lei ha parlato di “outil visuel”, strumento visivo. D. B.: Sì, mi sono reso conto molto presto che questa matrice, questo segno è, in effetti, uno strumento. L’ho chiamato “strumento visivo”. Uno strumento che, contrariamente ad un altro che serve a fare ad esempio un tavolo e che non vediamo più quando il tavolo è costruito, resta lì, continuiamo a vederlo. Ed ha assolutamente il valore di uno strumento: serve a leggere, un po’come l’alfabeto è uno strumento per scrivere. Quindi è in questo modo che va inteso il concetto “strumento visivo”. C. C.: Abbiamo cominciato parlando dello sviluppo della Sua ricerca. Mantenendo
Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
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uno sguardo sul passato mi farebbe piacere chiederLe qualcosa di personale. Lei ha realizzato meravigliosi progetti. Quali fra questi sono per Lei i più significativi? D. B.: Difficile rispondere. Ci sono dei lavori legati ad una vicenda. Per esempio la tela – fra l’altro molto vicina alla pittura – che avevo fatto per il Guggenheim nel 1971. Siccome venne censurata io mi ricordo oggi, sicuramente, di questa censura. Un’opera che non venne vista, quindi, se non in fotografia, ma che fu incisiva per me e per gli altri. È un esempio vero ma, in effetti, aneddotico. Perché se l’opera fosse stata vista in quel
momento avrebbe aperto una discussione, un discorso sul lavoro. La censura ha, invece, cancellato questa possibilità. Si è parlato della censura, infatti, ma non dell’opera. Le censure sono molto pericolose e vincono. Rimpiazzano sempre il discorso proposto da un film, da uno scritto o da un’opera d’arte, con qualcosa che non ha assolutamente a che vedere con il film, con lo scritto o con l’opera d’arte. Con qualcosa che confonde tutto. Si critica e si combatte chi ha censurato. Ma questi hanno, in fondo, vinto: quando c’è la censura l’opera non esiste. E quando, più tardi, l’opera esiste, ha perduto il valore che aveva in quel momento. Si censura
Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
un’opera non perché è scandalosa e lo sarà per l’eternità. Ma, piuttosto, perché nel momento in cui viene realizzata dice qualcosa che alcuni non vogliono accettare. Se si impedisce all’opera di suscitare un dibattito, la censura vince. C. C.: Lei ha scritto un testo di introduzione ad un volume di fotografie sulla Sua opera. Nel Suo testo Lei parla della riproduzione fotografica delle opere in termini di photo souvenir. Può raccontarmi come è nata l’esigenza di usare questo termine? D. B.: Una cosa per me importante, che richiedo sempre e da tanto tempo, già prima degli anni settanta, anche alle riviste, ai giornali e certamente nel caso di cataloghi, è che la didascalia cominci con “photo souvenir” (ndr. foto ricordo), poi il titolo, l’anno eccetera. La ragione principale è che, nel periodo in cui è nato l’interesse per il mio lavoro, ovvero alla fine degli anni ’60, quasi tutti i più interessanti artisti, che io conoscevo molto bene e che pure lavoravano al di fuori dei luoghi specifici, per far sì che la loro opera sopravvivesse reintegravano i musei esponendo delle grandi fotografie delle proprie opere. Non si trattava solamente di una foto intesa come una documentazione, ma di una foto che veniva considerata opera d’arte e venduta in quanto tale. Sto parlando del periodo in cui lavoravamo in strada, si facevano dei graffiti e degli interventi che poi scomparivano. Alcuni facevano, ad esempio, delle performance e vendevano le fotografie scattate durante la performance, che diventavano una specie di opere incorniciate col vetro. Il principio era spesso di fare delle foto un po’ idiote, come le foto di famiglia. Questi artisti dimenticavano che nell’ambito delle arti visive, che è molto preciso, non c’è innocenza. Se si fa una cosa qualsiasi e poi la si incornicia, questa cosa non è più qualsiasi. Io ho capito subito che avrei sicuramente potuto negoziare e vendere tutte queste opere, fatte all’aperto e che sono a priori invendibili, attraverso delle fotografie e mi son detto “è molto intelligente, se vogliamo, per guadagnare un poco di soldi” – e all’epoca non ne avevo affatto – “ma ha un effetto drammatico, perché quello che cerco di mostrare col mio lavoro viene annullato dalla fotografia.” Da una parte mi rendevo conto che la fotografia è interessante perché se non si conosce il mio lavoro, se nessuno vede ciò che faccio, diventa un suicidio, un’utopia rinunciare del tutto alle fotografie. Ho studiato, quindi, la soluzione di presentare delle fotografie in un catalogo, un giornale, o anche una cartolina, ma dicendo sempre che si tratta di una foto ricordo, ovvero qualcosa che è un documento. E il documento, per definizione, non
te, ma ho scelto di essere più rigoroso. Ci sono altre soluzioni. Ripeto, se la fotografia dell’opera diventa l’opera, si fa un attacco molto sottile e pericoloso al lavoro stesso. L’opera diventa più o meno come un sogno. È un’altra cosa. Se Lei osserva con attenzione, per esempio, una di quelle foto riprese nel paesaggio, al di là del titolo e del fatto che si dica che c’è stato un incontro ecc., si accorge che la lettura di questa immagine rimanda alla pittura dei grandi paesaggisti del XIX secolo. Quindi, fare tutto ciò per ritrovarsi coi paesaggisti del XIX secolo… mi sembra un pochettino assurdo. C. C.: Lei ha scritto anche che la fotografia inquadra l’opera.
Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
è in vendita. Se si vendono delle cartoline il prezzo è molto basso e chi compra sa di non aver acquistato un’opera d’arte. Ho protetto la mia idea con la decisione di non vendere mai fotografie e facendo attenzione a non esporne. È ambiguo. Eventualmente, a volte, c’è una vetrina con qualche foto intesa come documento. Insisto sempre nel dire “attenzione, è un documento”. Ed il termine foto ricordo è un termine che si usa per una cartolina, per una piccola foto scattata durante le vacanze. È a questo livello che mi riferisco. E su questo livello la fotografia dell’opera è interessante. Ma è tutto qui. Ho voluto evitare la confusione. Se faccio un lavoro che non è assolutamente integrabile in un museo, resta lì dove è. Ci sono molti esempi di artisti che espongono fotografie. Se penso alle fotografie di Richard Long mi sembrano nulla, considerando il fatto che lui è assolutamente capace di realizzare un lavoro ben specifico e buono dentro la galleria. Dopo l’escursione sull’Himalaya, perché tornare e mettere in galleria delle foto dell’Himalaya come opere d’arte. Non c’è nessun problema, non voglio criticarlo. Ha deciso che è un’opera, allora è un’opera. Ma, secondo me, nasce una gran confusione. Se un artista propone come opera tre chilometri di marcia, poi rientra e mostra fotografie, documentando e raccontando “ho tracciato questa linea” eccetera, è magnifico. Ma se torna e considera la foto come opera d’arte – ma non lo è più affatto, perché la fotografia è un’altra cosa rispetto all’opera che ha realizzato – credo che si generi una pericolosa confusione. Chiaramente non mi riferisco ad artisti che hanno lavorato solamente sulla fotografia, come nel caso di Jeff Wall, ad esempio, è evidentemente un’altra
cosa. Ma se si fanno altri lavori, allontanandosi dal sistema per, in effetti, ritornarci e non con un’opera, ma con un surrogato, credo si faccia qualcosa di pericoloso, ma non da un punto di vista morale: l’opera stessa subisce una vera una perdita. Io ho cercato di evitare questa confusione. C. C.: La fotografia vince sull’opera come la censura? D. B.: Si! Esattamente! Ma nel caso della fotografia succede con l’aiuto dello stesso artista! All’epoca mi hanno detto di non attaccare questi artisti. Devono avere la possibilità di guadagnare. Non li ho attaccati, ovviamen-
D. B.: Sì. Questo è un altro discorso. Bene, ci sono dei lavori che poi scompaiono e che non tutti hanno la possibilità di vedere sul luogo. Ma nel caso di lavori che restano in un luogo si deve fare lo sforzo di andare a vederli di persona. Una delle qualità dei lavori di questo genere – e torno a parlare delle mie opere perché è più facile che parlare delle opere degli altri – è che l’opera viene – utilizzando un termine che non mi piace molto – inquadrata in qualsiasi modo, nel senso più positivo, da colui che l’osserva. È una libertà. E se il lavoro è fatto in maniera tale che bisogna camminare un centinaio di metri per vederlo, vuol dire che bisogna fare un percorso attraverso altre cose che ci sono. Il fatto stesso di questo minimo esercizio fisico che porta da un punto ad un altro ecc. è una cosa estremamente importante. È un’azione non controllata e non controllabile che è aperta e libera. C’è chi dice “voglio andare un poco più lontano” ed ha lo stesso
Foto ricordo, Encore des Carrés, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
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diritto di colui che per vedere i vari pezzi fa un chilometro, osserva la differenza dei colori o che so io. Tutto ciò non si può assolutamente fotografare. Quando si fa una foto ricordo, quindi, si fa già una cosa che entra in contraddizione con l’opera. Per questo in un catalogo mostro almeno venti foto della stessa opera, che comunque non è la stessa, per cercare di mostrare alle persone, che non hanno visto il lavoro, che non c’è solo un punto fisso di osservazione, ma che da un punto ad un altro si ha addirittura un’altra visione. L’opera diviene di colpo molteplice. Soprattutto nel caso in cui taglia inquadrando precisamente, la foto è un’interpretazione eccessivamente rigida ed estetizzante di un’opera di questo genere.
il ’68 è stato molto più forte a Parigi, o in Francia? È a causa di tutto ciò. È un bene come un male, ma non è un caso. L’ambiente artistico era una completa nullità. Non solamente perché non era buono – e non lo era neanche sul piano accademico – ma perché era falso. Parigi aveva l’impressione d’essere sempre il centro del mondo dell’arte. Se fosse stato vero, sarebbe stato stupido metterlo in mostra un po’… così, possiamo dire, come fanno oggi gli americani. Ma se, addirittura, non è vero, allora, francamente, si diventa ridicoli. Parigi credeva di essere un centro, ma non lo era più, neanche dal punto di vista economico: anche se gli artisti importanti non erano in Francia, fino agli anni ’50 il
mercato dell’arte era Parigi, come successivamente è divenuta New York. Ma negli anni ’60 non era più Parigi. In quanto artista mi sono rivoltato contro questo ambiente, per mostrare fino a che punto era nullo e cosa si doveva fare per superare la situazione. Non che la situazione oggi sia estremamente brillante, ma è cambiata completamente. È un altro mondo. La Francia si è decentralizzata, ci sono dei musei ovunque. La gente va a vedere le mostre, va nelle gallerie. Tutto ciò non esisteva fino alla fine degli anni ’70. La costruzione di Beaubourg (ndr. Centre Georges Pompidou) fu un momento importante. Ha dato il via alla costruzione di musei in tutto il mondo. D’un tratto da ultimi della
C.C.: Secondo Lei può essere inteso anche un testo critico in questo senso? Il testo inquadra l’opera? D. B.: Sì, penso di sì. Ma in questo caso si ha più apertura e, soprattutto, non c’è una competizione nell’ambito visivo. A volte un lavoro è completamente seppellito da testi. Oppure ci sono dei testi così potenti che diventa difficile dire qualcosa di diverso. È sicuro che il testo dia e tolga qualcosa, ma il punto è che il testo resta estremamente differente. Il testo può annullare un’opera, ma lo fa, eventualmente, usando i propri termini. Significa che se Lei vuole guardare l’opera, può sempre sganciarsi dal testo. Nel caso della fotografia si ha una trasformazione che resta sul piano visivo ed è pericolosa e più sottile perché non è dichiarata. È un’interpretazione, come lo è un testo, ma non manifesta. La foto è lì per fissare un momento. Questo momento diventa la qualità dell’opera. Ed è pericoloso. C. C.: C’è un altro argomento di cui mi farebbe piacere parlare con Lei. Nella Parigi degli anni ’60 Lei ha lottato contro l’accademismo. Com’è oggi Parigi, non è più accademica? D. B.: La situazione a Parigi, in tutti gli ambiti artistici, negli anni ’60, per come l’ho vista io, era totalmente insopportabile. Degradata, assolutamente non vivace, paralizzata. Tutto ciò era una conseguenza di quello che per i francesi era la cosa più importante all’epoca. Si uscì dalla guerra ma non si era ancora mai usciti dalla guerra. C’è stata la guerra in Indocina, poi in Algeria. Non si è mai fermata. Quando si arrivò agli anni ’60 si era accumulato così tanto orrore, e così tante erano le battaglie politiche, che un ragazzo o una ragazza, quasi tutti, a loro modo, si sono rivoltati. Questo spiega come si è arrivati al ’68. La gente si dimentica come ci si è arrivati. Ma non è nato dal nulla. E perché Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
classe siamo diventati un po’ gli inventori di un sistema. Ci sono stati una serie di cambiamenti per cui ciò che si fa in Francia oggi è al giusto livello. Certo, con le sue qualità e i suoi difetti. È come la Germania e l’Italia, per fare degli esempi vicini. Ma prima non era così. Io me ne rendevo conto perché sapevo cosa succedeva fuori della Francia. Conoscevo bene gli Stati Uniti perché ci ho lavorato. Sapevo che l’atmosfera a New York era tutta un’altra cosa che a Parigi. Negli anni sessanta, quando ho girato l’Europa, ho visto la situazione, per esempio, in Germania, mi sono reso conto che loro erano vent’anni più avanti della Francia. I giovani artisti avevano una chance di lavorare. Era quasi impossibile in Francia. Anche in Italia, dove non c’erano musei e nessuna struttura, c’erano delle gallerie stupefacenti, dei collezionisti ovunque e una straordinaria effervescenza. A Parigi stavamo messi molto, molto male. Io mi sono ribellato a questa situazione. Ho spesso pensato che la mia rivolta, così radicale, non avrebbe avuto risultati altrettanto buoni se io fossi stato tedesco o americano. C. C.: Parliamo delle mostre di oggi negli spazi della galleria di Dorothea van der Koelen. Quali sono le caratteristiche del luogo che le Sue opere, realizzate per l’occasione, ci consentono di leggere? D. B.: Diciamo che rispetto a quello che realizzo di solito c’è una differenza in queste due mostre. Volutamente siamo molto vicini a … chiamiamolo un oggetto, che qualcuno può
Foto ricordo, inaugurazione di Encore des Carrés, travaux situés, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
trovare interessante e vuole avere nel proprio spazio, come di solito è un quadro o qualcosa di simile. È questo, ma al contempo, non è affatto questo, perché ci sono delle regole per le quali si crea una cosa diversa. Nello spazio della galleria, che è una casa, un’abitazione, ci sono degli elementi molto duri in relazione all’installazione. I pezzi sono piccoli. Alcuni stanno su una parete di mattoni ben visibili, molto aggressivi. Altri pezzi sono su pareti in cemento, altri ancora su pareti ridipinte. Si ha quindi una situazione che si trova in una normale abitazione. Ma è anche una situazione un po’, come dire, complica-
ta. Non siamo nel famoso cubo bianco che rende tutto molto carino, ben rifinito, eccetera. Trovo questo contesto complicato ma interessante. Ho lavorato su un’idea molto semplice. Sono partito da una forma estremamente elementare, il quadrato per poi lavorare con alcuni elementi e sempre con gli stessi. Quindi tutte le opere sono esattamente uguali. Cambiano alcuni piccoli dettagli, ce n’è uno blu, uno rosso… ma hanno tutte la stessa forma e tutte hanno lo stesso numero di elementi. Ed è sbalorditivo che, guardando le opere, abbiamo l’impressione che si tratti di pezzi molto differenti. Questa differenza è
Foto ricordo, Two Exploded Cabins for a Dialog, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
L’ESPERIENZA DELLO SPAZIO
tanto più visibile ed evidente quando, in effetti, ci si trova di fronte alla stessa cosa. È questo l’aspetto che mi interessa nel lavoro per la mostra in galleria. Il fatto che domani qualcuno possa comprare un’opera per una parete che non conosco, non importa. Non ho bisogno di conoscerla. L’opera va semplicemente collocata al centro della parete in relazione all’altezza e alla larghezza. Fra ogni elemento ci deve essere un preciso spazio indicato dalle modalità stabilite. So che se la parete è più piccola gli elementi verranno collocati il più vicino possibile e l’opera avrà un aspetto. Sulla parete accanto, magari, che è più ampia, l’opera sarà evidentemente molto più grande. È la stessa opera ma diventa una cosa completamente differente. Mi interessava mostrare questo. Una cosa evidentemente molto semplice. Nell’altro spazio della galleria si tratta ancora una volta di un gioco sul quadrato. In questo caso, però, l’opera è tridimensionale. Sono due quadrati che entrano l’uno nell’altro e che cambiano perimetro mantenendo la propria forma ed il proprio colore. È come un tamponamento fra due oggetti, due cubi. Nel momento in cui c’è il conflitto fra i due cubi, si creano dei tagli, delle porte e delle alternanze di colore ed altro. A priori sono molto semplicemente dei cubi e hop! Si fondono. Anche in questo caso, a condizione di avere lo spazio, si può ben immaginare che quest’opera possa essere collocata in un luogo completamente differente. È un pezzo quasi tradizionale. Si può trasportare come una scultura. Ma, come Lei ha visto, l’opera è fatta in un certo modo: la parte esterna è completamente riflettente. Si può immediatamente immaginare, anche senza avere molta immaginazione, che in qualsiasi ambiente l’opera si trovi, il luogo
in questione entra a far parte dell’opera cambiando l’opera. Quello che amo nei lavori di questo genere è mostrare che sono fatti per incorporare ed essere messi in discussione dal nuovo luogo dove si andranno a trovare. Da una parte si ha un oggetto che si sposta come tutte le opere un po’ tradizionali, e, allo stesso tempo, ci turba ogni volta, in un senso o nell’altro, a causa delle differenze che scaturiscono cambiando luogo. Questa è una cosa specifica del mio lavoro e di quello che penso. La mia opera non è come un oggetto che è sempre uguale, anche se lo si trasporta. “Il Bacio” di Rodin, ad esempio. Ce ne sono dodici copie che gironzolano per il mondo intero. È sempre la stessa cosa. Per quanto bella sia l’opera, non si è affatto influenzati da ciò che succede intorno. L’opera è stata fatta per concentrare tutti gli sguardi su se stessa. Mentre, nel caso del mio lavoro, l’opera distrae da ciò che è in virtù del modo in cui è costruita e questo fa parte dell’opera. C. C.: Il titolo di quest’opera è “Two Exploded Cabins for a Dialog”. Che tipo di dialogo nasce? D. B.: Il titolo è volutamente molto piatto. Si tratta evidentemente del dialogo divertente fra due quadrati che si tamponano. E di colpo, tutto quello che accade nell’ambiente diviene un po’ barocco. Ci sono due elementi estremamente semplici, due cubi, si incrociano e hop! Tutto quello che succede in questo incontro trasforma i cubi in qualcosa di molto più fantasioso, un po’ un labirinto, un po’ qualcosa che non si sa nemmeno bene come funzioni… Questo è un dialogo ed il dialogo per definizione porta a qualcosa di nuovo. Ed è un dialogo che nasce anche gra-
zie agli elementi riflettenti. Da qui scaturisce un dialogo fra le persone, non solamente fra quelle che passeggiano dentro l’installazione e che si incontrano, ma anche con quelle che vediamo apparire proprio accanto a noi, a causa del gioco con lo specchio, ma che, in effetti, si trovano dietro o dall’altra parte. C. C.: Lei utilizza spesso lo specchio. D. B.: Sì. Amo molto lo specchio e l’utilizzo da molto tempo. Mi piace anche per l’aspetto fugace dei riflessi. Evidentemente si può vedere se stessi nello specchio, ma questa è l’ultima cosa che mi interessa. L’aspetto che amo di più è quello che faccio emergere nella situazione in cui lo specchio funziona come un terzo occhio. Mostra, ad esempio, nello stesso angolo, quello che c’è davanti all’osservatore e tutto quello che c’è dietro. Amo molto questo effetto dello specchio che, in effetti, porta avanti una mia idea che avevo sin dagli inizi del mio lavoro: fare delle cose che in una certa maniera allarghino la visione. C’è, quindi, un allargamento, un poco meccanico, se vogliamo, ma è un allargamento. Non possiamo sfuggire a quello che abbiamo alle spalle. Faccio, ad esempio, molte opere dove gli specchi si trovano sopra oggetti chiusi, per esempio cubi. In questo caso lo specchio ci consente di vedere quello che c’è dentro, anche se non siamo dentro. Mostra qualcosa che l’occhio non potrebbe vedere senza questo artificio. Nel caso di quest’opera si vede l’interferenza degli specchi quando si entra nell’installazione o se ci si trova fuori, o sulla proiezione delle porte che sono staccate dai cubi. Lo specchio ha un effetto molto particolare. Grazie alle sue qualità mostra cose completamente nuove di un dato spazio. Certamente, se ci fosse solo lo specchio, non l’utilizzerei: un altro vantaggio dello specchio è, infatti, che vediamo noi stessi muoverci all’interno dello spazio e vediamo le altre persone, ma non sappiamo esattamente dove sono. Possiamo vedere, in più, noi stessi da dietro. Non ci conosciamo da questa prospettiva. Anche questo mi sembra interessante. C. C.: Concludendo mi farebbe piacere parlare della collaborazione con Dorothea van der Koelen, che è iniziata già diversi anni fa.
Foto ricordo, Encore des Carrés, travaux situés, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
D. B.: In confronto ad altri galleristi lei è una persona molto unica. Probabilmente come lo è ogni individuo, lei è speciale. In più è molto concentrata su quello che fa ed è una cosa formidabile. Fa un lavoro, anche con le pubblicazioni, i cataloghi, i libri, di grande qualità.
INTERVISTA CON DOROTHEA VAN DER KOELEN Cristiana Coletti: La collaborazione con Daniel Buren è iniziata già da molti anni. Come è cominciata? Dorothea van der Koelen: Ho conosciuto Daniel Buren nel 1986 in occasione della Biennale di Venezia in cui lui rappresentava la Francia. Mi ricordo ancora. Era prima dell’inaugurazione ufficiale e Daniel Buren stava all’ingresso fra le colonne. Sono andata verso di lui ed abbiamo cominciato a parlare. Avevo ventisei anni allora. Il padiglione mi entusiasmò assolutamente tanto! Siccome ero amica di Harald Szeemann, poi, che realizzò la grande mostra di Berlino “Zeitlos” (ndr. senza tempo), il suo grande attacco contro lo “Zeitgeist” (ndr. spirito del tempo) portato avanti dallo storico dell’arte Christos Joachimides, che mostrava tutti i pittori selvaggi dei primi anni ’80, considerati al’epoca gli artisti dello spirito del tempo. Contro questo movimento allestì Szeemann al museo Hamburger Bahnhof la mostra “Senza tempo” con artisti che lavoravano con il Minimalismo, l’Arte Concettuale eccetera. Ed era veramente avvincente, non solo perché ha compiuto un gesto contro l’arte di moda, ma anche perché con ciò diceva “questa arte è senza tempo, sopravvive. Non è un’arte di moda, questa è arte”. Anche per questa mostra Daniel Buren realizzò un magnifico lavoro. Szeemann mi invitò, poi, anche ad Amburgo in occasione dell’inaugurazione della mostra “Einleuchten” e Daniel Buren era di nuovo presente. Insomma, ci siamo incrociati diverse volte nel corso degli anni, ho visto molte sue opere e per me è sempre stato ed è anche oggi un artista grandioso, anche se nel frattempo sono passati venticinque anni. C. C.: Cos’è che L’ha colpita del suo lavoro? D.v.d.K: In quanto figlia di un architetto e di un’artista che pensa sempre in senso spaziale, sono molto legata sia all’architettura che allo spazio. Inoltre amo molto la libertà. Quando si sviluppa un principio strutturale che si può quantificare all’infinito
Foto ricordo, Dorothea van der Koelen con Daniel Buren (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
per me questo rappresenta un frammento di infinito e un simbolo di libertà. Che le strutture si sviluppino in senso verticale è, poi, forse, necessario perché serve a rendere visibile il concetto di sconfinato. Se fosse orizzontale andrebbe a urtare da qualche parte con qualcosa. Una linea che almeno da una parte è infinita è nell’insieme infinita. Proprio la linea, poi, è il secondo aspetto che mi piace. Amo le linee. Cartesio, ma anche Kant, hanno detto che nella geometria, che si compone essenzialmente di linee, si possono ottenere grandi cognizioni filosofiche perché non si viene distratti dall’oggetto. Quando si cerca di giungere ad una cognizione bisogna in principio liberarsi da tutto quello che ci lega a qualcosa in una relazione emozionale. Solo a questo punto si può formulare un pensiero chiaro. Ritornando all’arte, le linee compongono la geometria e la geometria, a sua volta, è parte del Costruttivismo, dell’Arte Concettuale e dell’Arte Concreta. Nella sua forma di pittura analitica Daniel Buren ha cercato la riduzione. Ha deciso di non cambiare la forma di base, si tratta
Foto ricordo, Cadre décadré – 16 C4 (rosso), 2006 travail situé (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
sempre di strisce larghe esattamente 8,7 centimetri, ma soltanto il supporto a cui l’affida. Il fatto che da questa idea potesse scaturire un lavoro così vasto, complesso e ricco è per me estremamente affascinante. Ha utilizzato in vario modo strutture architettoniche o oggetti presenti nello spazio. Ha lasciato libere pareti di musei dove di solito si trovavano dei quadri. Ha messo strisce sugli elementi verticali di una scala mobile che scomparivano e riapparivano continuamente, sulle vele delle barche, su sedie, pareti, intere sale. Le famose colonne del Palais Royal. Ha costruito interi spazi nei musei. Insomma, un lavoro, che oggi come ieri, nella sua straordinaria varietà, non si esaurisce mai. C. C.: L’outil visuel è uno strumento per leggere, per fare una nuova esperienza dello spazio. Le caratteristiche dello spazio che possiamo leggere cambiano a seconda del luogo, giusto? D.v.d.K.: Sì. Certamente, cambiano a seconda del luogo e Daniel Buren non ha mai una soluzione standardizzata. Ho sempre pensato che un artista è avvincente quando non si può prevedere cosa farà di nuovo, ma che, quando ha trovato qualcosa di nuovo, guardando indietro riesce a spiegare come ci è arrivato. Questo vuol dire che lavoro è coerente ma, contemporaneamente, sorprendente. E questo secondo aspetto è il nuovo – l’innovazione e l’invenzione rappresentano un elemento essenziale dell’arte. Queste opere che si chiamano travaux situés nascono per il luogo, ma anche nel luogo. Daniel Buren è nel luogo nel momento in cui una mostra, come questa qui da noi, viene allestita, quando nasce, quando viene sistemata. È un processo al quale prende parte anche fisicamente e non solo intellettualmente. È bello anche realizzare concretamente l’opera insieme a Daniel Buren. È avvincente quando le idee prendono forma. In occasione della mostra di qualche anno fa, vivevamo qui e lavoravamo all’allestimento tutti insieme. Ed anche questo aspetto è bello. È indicativo, infine, in relazione alla Sua domanda, il fatto che Daniel Buren raccolga molte fotografie delle sue opere ma che, contemporaneamente per lui sia assolutamente importante chiamarle foto ricordo perché non si tratta dell’opera ma, appunto, solo
L’ESPERIENZA DELLO SPAZIO
Foto ricordo, Cadre décadré – 14 C2 (verde), 2006 travail situé (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)
di una foto ricordo. C. C.: Il titolo di quella mostra era Les Cadres Décadrés. Mi vuole raccontare qualcosa su questa mostra prima di arrivare a quella attuale? D.v.d.K.: Nel 1991 abbiamo esposto per la prima volta qui in galleria opere di Daniel Buren. Ma già dal primo incontro a Venezia mi diceva che voleva farsi venire una bella idea per il nostro spazio. Poi il tempo passa ma arriva anche il momento in cui si decide di fare il progetto. Così è nata la mostra che ha citato. C’è anche un catalogo che la documenta. Era composta da diciannove opere: in strutture in acciaio furono inserite lastre in plexiglas su cui erano applicate strisce verticali colorate o bianche. Queste strutture in acciaio e plexiglas sono state poi installate ad una certa, precisa distanza dalle pareti così che, attraverso luce, si creasse un gioco d’ombre sulla parete. Nel caso dei lavori grandi che sono due metri per due o, addirittura, due metri per due metri e ottanta, si poteva girare intorno all’opera, perché la distanza dal muro in quel caso era di novanta centimetri. Si potevano avere diverse prospettive. Ed è avvincente.
ogni singolo elemento delle opere esposte (ndr. 26,1 cm x 26,1 cm), invece, nello spazio della galleria a Mainz-Bretzenheim. C. C.: A questo punto introduciamo l’altra mostra “Encore des Carrés”. D.v.d.K.: Allora, in galleria ci sono dieci opere che sono composte ognuna da sedici elementi tutti uguali e dello stesso formato, dipinti di un colore sul quale vengono applicate strisce bianche. Se l’opera
è pensata per la parete colorata le tavole, chiamiamole così, hanno due strisce bianche all’esterno. Se la parete, invece, è bianca, le tavole sono colorate all’esterno ed hanno una sola striscia bianca al centro. Queste opere possono essere installate in modo diverso ma sempre ad una distanza corrispondente ad un numero dispari di strisce (ndr. ogni striscia 8,7 cm). Quello che trovo interessante è che gli artisti – e questo succede già da decine di anni – arrivino in galleria e vedano le pareti di mattoni. Non si tratta di comuni mattoni. Ci sono dodici diversi colori, cosa di cui non ci si accorge in un primo momento. Ogni mattone, dopo essere stato cotto, è stato ricoperto in una polvere colorata, come impanato, ed ha acquisito una superficie fantastica. Quando gli artisti vengono, quindi, inizialmente si spaventano “oh, questo ambiente, è così difficile per me. La mia povera arte. Che effetto avrà? Come si può risolvere? Sarebbe molto più bello se fosse tutto bianco…”. Ma, poi, sono entusiasti e dicono “invece, grazie a queste particolarità, è venuta fuori una mostra molto originale!” Daniel Buren, che ha lavorato in questo caso sul contrasto potitivo-negativo, è stato molto contento del risultato. C. C.: Anche Lei è contenta del risultato. D.v.d.K.: Certamente, sono molto contenta di questa mostra perché è una mostra di una meravigliosa varietà. E di questo si accorge quando la mostra è montata. È una mostra molto poetica nel dialogo con le sale, con l’architettura. È veramente un travail situé.
C. C.: Le due mostre attuali sono collegate. Come? D.v.d.K.: Nella mostra “Two exploded cabins for a dialog”, come il titolo descrive, ci sono due cabine o capanne – la parola francese è cabane – ovvero due strutture quadrate che sono colorate all’interno. Una è rossa e l’altra verde. La parte esterna è una superficie interamente composta da specchio. Entrambe hanno quattro porte che per l’esplosione, nell’impatto fra le due strutture, sono volate verso l’esterno. Al centro, fra le due, si è creata un terzo ambiente che ha le caratteristiche dell’uno come dell’altro spazio, rosso e verde, e nella parte esterna è completamente ricoperto da specchio. Attraverso le porte esterne si entra nella struttura mentre le porte interne sono entrate dentro le pareti costruendo così delle strutture a croce molto interessanti. Le strisce di Buren le troviamo sulle porte, ovvero nel vano interno e nella cornice esterna dell’anta. Lo spessore di ogni elemento – delle pareti e delle porte – corrisponde allo spessore di tre strisce, ovvero tre volte 8,7 centimetri, ovvero 26,1 centimetri. Questa è l’esatta misura di
Foto ricordo, Encore des Carrés, travail situé, 2011 (© Galerie Dr. Dorothea van der Koelen)