Omelie Anno C 2009-2010

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Parrocchia Madonna di Loreto

Frati Cappuccini -­ Chivasso

La nostra fede così fragile “In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!»” (Lc 17,5). E avevano proprio ragione, perché anche noi oggi rivolgiamo la stessa supplica a Gesù. Viviamo tempi difficili, lo vediamo tutti: crisi economica che ci dà un senso profondo di angoscia e di instabilità, giovani generazioni che non hanno certezze per il futuro, lavoratori che non sanno se i contributi versati garantiranno loro una pensione equa, che permetterà alla loro famiglia di vivere dignitosamente. Sullo sfondo lo spettacolo disdicevole del mondo politico, fatto di ripicche, vendette, discussioni interminabili. Anche nella Chiesa italiana vediamo incertezze, ritorni al passato con titoli blasonanti, ristrettezze di cuore, poco spazio ai laici, troppo spesso messi ancora in un angolo, servi silenziosi di un clero ottuso e a volte bigotto. Abbiamo bisogno di speranza! Ma la risposta di Gesù è sorprendente. Invece di esaudire l’invocazione degli apostoli, li esorta e rimprovera : “«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso (a quei tempi ritenuto una delle piante più resistenti per le sue radici profondissime): “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.» Cosa vuole dirci Gesù? Ti chiediamo di aumentare la fede, e tu ci dici che ne basterebbe un microscopico granellino di senapa? Gli apostoli vivevano in un contesto, quello fariseo, che puntava alla “quantità” della fede (quantità che troppo spesso è misura anche della fede nelle nostre comunità, infatti diciamo “quanta gente c’era in chiesa”). Gesù vuole portare gli apostoli su un altro piano: la fede come scelta fondamentale di fiducia in Dio, da seminare nel nostro cuore della nostra vita, fondamento che dà senso e forza ad ogni nostra azione quotidiana. Se questo seme non c’è, tutto il resto -­‐ preghiere, messe, rosari, digiuni, pellegrinaggi, rinunce… -­‐ è vanità. “La fede è un dono di Dio per chi si apre incondizionatamente al suo agire, rispondendo alla sua chiamata e fidandosi delle sue promesse: della fede non si è padroni né la si può imporre agli altri, ma la si può solo accogliere con gratitudine, ben sapendo – come ricorda Paolo – che «non di tutti è la fede» (2Ts 3,2). La fede è un atteggiamento vitale che coinvolge l’intera persona, colta nella sua unità, è aderire con tutto noi stessi a Dio che ci ha amati per primo. Un bambino attaccato al seno di sua madre ha piena fiducia (cf. Is 66,12-­‐13), in braccio a lei si sente sicuro (cf. Sal 131,2); ecco, questa è la fede: un’adesione al Dio fedele (cf. Is 65,16), un mettere la fiducia solo in lui rimanendo saldi. E per un cristiano questa adesione è necessariamente rivolta anche alla persona di Gesù: è lui il Cristo, è lui la verità, la vita, la via ultima e definitiva per andare al Padre (cf. Gv 14,6). E aderire a Gesù significa vivere come egli ha vissuto, cercare di vivere l’amore fino all’estremo come egli ha fatto, perché non vi è autentica fede che non dia come frutto concrete azioni d’amore (cf. Gc 2,14-­‐26).” (Enzo Bianchi) Ecco perché al termine del passo evangelico ci dice: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Siamo “servi inutili”, senza utile, per amore. Non si può fare il bene, cercando un contraccambio in valuta… perché una vita vissuta per amore (come quella di una mamma e di un papà) non ha prezzo. È proprio così: più noi viviamo come Gesù ha vissuto, più facciamo nostri i suoi modi, più ci rendiamo conto che è lui e lui solo la nostra ragione di vita: lui, il Signore che si è fatto nostro servo (cf. Lc 22,26-­‐27). Non che la nostra vita sia inutile, ma trova in lui la sua ragione profonda: senza di lui non possiamo nulla, è dalla comunione con lui che dipende il nostro amore. www.parrocchiamadonnaloreto.it

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«Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Questa è la consapevolezza che dovrebbe sempre accompagnare la nostra fede, dono che il Padre ci rinnova ogni giorno attraverso suo Figlio Gesù Cristo: è lui, come diceva un antico padre della chiesa, «la fede perfetta». Il Signore vi dia Pace Fra Alberto

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Il corpo e il sangue del Signore Per spiegarci cos'è l'eucaristia, l'evangelista Luca rilegge l'episodio della moltiplicazione dei pani in chiave eucaristica. Gesù accoglie le folle che lo seguivano senza fare distinzioni di sorta. Dichiara benvenuti e ben accetti in modo particolare i peccatori, i poveri, i malati, gli esclusi. A tutti annuncia la buona notizia del Regno di Dio, donando speranza e perdono. Nessuno è allontanato, tutto sono accolti come fratelli nella sequela, persone che si sono messe in ascolto di Gesù per essere liberate dalle loro pene e schiavitù. Gesù offriva ai suoi discepoli il dono della Parola e il pane eucaristico, che lui stesso distribuiva a piene mani alle folle. Con la sua benedizione questo pane si moltiplica in un processo inarrestabile di condivisione. Gesù non vuole che il suo cibo diventi un alimento consumato in solitudine, nè che lo si accolga perchè lo si è meritato. Il dono di Dio è dono sempre, senza condizioni. E' chiaro che questo pane è tutta grazia, acquistata dal Signore a caro prezzo. Pace e bene. (fr. Carlo B.)


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Il Dio dei vivi In modo casuale iniziamo il mese di Novembre con un Vangelo molto particolare, che parla della Risurrezione e si riallaccia alla vicina memoria che abbiamo fatto dei nostri cari Defunti. La legge del Levirato Ci può un po’ scandalizzare oggi questo Vangelo, noi abituati ad un'altra sensibilità… ma teniamo conto che nel mondo ebraico la necessità della Discendenza era così centrale, così importante da mettere in secondo piano ogni altra cosa, persino la relazione di amore che dovrebbe legare ogni uomo alla propria donna. Inoltre le donne ai tempi di Gesù non avevano alcun peso sociale e non venivano considerate, se non per perpetuare la generazione della famiglia patriarcale. La «legge del levirato» (Dt 25,5-­‐6) affermava: quando un uomo muore senza aver lasciato discendenza, la vedova deve sposarne il fratello, in modo da dargli un figlio che prenda il nome del fratello morto e non lasci estinguere il suo nome in Israele.

La polemica dei Sadducei Questa pratica a noi sembra assurda e scandalosa, ma permetteva la continuità della discendenza. Ora i Sadducei, stravolgendo questa norma finalizzata alla vita, creano ad arte un caso grottesco di sette fratelli che muoiono senza lasciare figli, per mettere in ridicolo la concezione farisaica della Risurrezione dei morti, concezione che sanno condivisa anche da Gesù. I Sadducei erano i rappresentanti della classe aristocratica di Gerusalemme. Ricchi e potenti grazie alle entrate del tempio, la loro la fede in Dio bastava e avanzava per stare bene sulla terra (dunque perché credere a una beatitudine dopo la morte?). In polemica con i farisei (più recente corrente religiosa di pensiero, legata al basso popolino) ritenevano validi solo i precetti di Mosè, presenti nella Torah, e rifiutavano le 600 prescrizioni successive della Tradizione ebraica (la “Legge orale”, la siepe costruita intorno alla Torah, praticata dai farisei), fra cui c’era anche la fede nella risurrezione, perché esulava a loro parere dai dettami della Torah biblica. La prima riflessione che possiamo fare è affermare che può esiste un modo per avvicinarsi alla fede, all’aspetto religioso della vita, pregiudizionalmente polemico come nel caso dei Sadducei, chiuso alla verità del testo biblico. La risposta di Gesù: vivere di Lui, con Lui, per Lui è avere la Vita Eterna, già qui… Il discorso di Gesù ci fa capire che Lui crede nella risurrezione dei morti . Questo per noi che abbiamo appena celebrato la memoria dei defunti è molto bello e consolante. Notiamo: 1. Gesù per portare avanti questa idea, cita la Bibbia e dice che Dio è il Dio dei Vivi, e fa riferimento al fatto dell’apparizione di Dio a Mosè sul monte Sinai. Su questo monte infatti si presenta come il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe e parla di queste persone come fossero ancora vive, seppur morte fisicamente da 200 anni. Gesù conosceva la Bibbia e come uomo, come uno di noi la meditava e da essa traeva delle risposte ai tanti quesiti della vita. Anche noi ogni giorno dovremmo dare ragione della nostra fede e per fare questo occorre studiare la Parola di Dio. www.parrocchiamadonnaloreto.it

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Gesù in questo modo riesce a far capire ai Sadducei che già nella Scrittura ci sono delle tracce della Risurrezione. 2. La dimensione del “dopo” va oltre le categorie umane della beatitudine eterna. La visione di Cristo non è per niente simile alla visione del Corano che vede la vita dell’Aldilà come il “meglio” della vita umana, ampliata al massimo grado. La teologia cristiana della Risurrezione è veramente qualcosa di stupendo e nello stesso tempo sorprendente: il cristianesimo crede che ciascuno di noi è immortale, che noi tutti siamo persone fatte da almeno due parti, corpo e anima, una mortale e una immortale. Siamo molto di più di quello che si vede. C’è una parte che ci identifica, qualcosa di unico e irripetibile, che non è semplicemente il nostro volto, qualcosa che ci caratterizza, sintesi del nostro pensiero, emozioni, capacità di giudizio e di scelta… la nostra anima che resta dopo la morte del corpo, che prosegue il nostro percorso di vita e ci porta ad incontrare Dio (dottrina esclusivamente cristiana). 3. Tre modalità diverse di incontro. Se la nostra vita, la nostra anima ha sempre cercato Dio e si è purificata nel cammino terreno, preparandosi a questo incontro, saremo pronti per la Comunione del Paradiso, Dio ci accoglierà direttamente. Oppure se uno con tutte le sue forze non ha voluto avere nulla a che fare con Dio, Dio rispetterà questa scelta e lo lascerà cadere all’Inferno. L’inferno paradossalmente ci dice che Dio è buono e rispetta la nostra libertà e non ci obbliga ad amarlo. E poi c’è una terza condizione, al contrario delle altre due solo “temporanea”, dove noi ci liberiamo da alcuni pesi e ristrettezze, che ci impediscono la piena comunione con Dio. In questo Purgatorio possiamo essere aiutati dai fratelli che sono rimasti sulla Terra, che manifestano il loro amore per noi attraverso la preghiera di intercessione, soprattutto nell’azione liturgica eucaristica. Questo amore aiuta il defunto ad avere stima in se stesso, a lasciarsi amare da Dio e a camminare per liberarsi dal male del suo cuore, confidando nella grazia divina. Nel credo noi professiamo “la comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della Carne (Corpo/Anima e non solo dell’Anima) e la vita eterna”. Alla fine dei tempi infatti crediamo che Dio verrà e riunirà la nostra anima al nostro corpo (ecco perché veneriamo nei cimiteri “dormitori” i corpi dei defunti) ci ridonerà un corpo “glorificato” come il suo e sarà la Vita Eterna. Tutto questo ci fa capire che il nostro Dio è un Dio dei Vivi e questo pensiero ci dà molta speranza. «Il vero problema non è dunque quello di porsi domande oziose sul «come» della resurrezione e della vita futura nel Regno. Occorre piuttosto chiedersi: per chi e per che cosa vivo qui e ora? Ovvero: sono capace di amare e accetto di essere amato? A queste domande ha saputo rispondere Gesù, lui che ha creduto a tal punto all’amore di Dio su di sé da amare Dio e gli uomini fino all’estremo. È in questo esercizio quotidiano che egli è giunto a credere e ad annunciare la resurrezione; anzi, potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte che si è manifestato vincitore attraverso la resurrezione. Sì, credere la resurrezione è una questione d’amore, è “credere all’amore”, l’amore vissuto da Gesù, l’amore che porterà noi tutti a risorgere con lui per la vita eterna.» (Enzo Bianchi) Il Signore vi dia Pace fra Alberto

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Salvati per rendere la vita un canto di lode Troviamo ancora Gesù in cammino verso Gerusalemme, dove si compirà la sua glorificazione, nel dono di se per donarci la salvezza. Sulla strada gli si fanno incontro dieci lebbrosi che urlano a distanza: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!». Confidando infatti nella sua compassione…

La lebbra Questa malattia terribile e devastante (che esiste ancora nel mondo a causa della malnutrizione e della scarsità di igiene) produceva nel mondo antico anche la solitudine e l’emarginazione (Lv 13,45-­‐46). Infatti essendo molto infettiva i lebbrosi erano tenuti a distanza dai centri abitati e vivevano raminghi e solitari, con un campanello per avvertire il loro passaggio. In Israele inoltre si pensava che fosse strettamente connessa al castigo di Dio per i peccati commessi (Nm 12,14) e quindi verso il lebbroso non c’era alcuna pietà. Ecco perché questi malati non osano neppure avvicinarsi a Gesù, ma di lontano lo implorano, nella loro solitudine disperata Dei dieci lebbrosi uno è straniero, un samaritano, considerato dagli ebrei un nemico e un pagano. La malattia e il dolore accomunano ogni uomo, senza distinzioni di religione o di etnia.

Il Tempio Gesù non li guarisce sul momento, ma chiede loro di andare dai sacerdoti (come aveva già fatto all’inizio del suo ministero in un caso analogo; cf. Lc 5,14). Obbedendo alla Legge mosaica, li invia all’autorità religiosa alla quale spettava certificare l’avvenuta guarigione e riammetterle nella comunità (Lv 13,16-­‐17). Gesù è infatti rispettoso della tradizione, ma vuole darle compimento. «E mentre essi erano per via, furono purificati»: la guarigione non è istantanea, richiede un cammino, un fidarsi; Dio non ama i miracoli eclatanti, chiede sempre consapevolezza, cammino, fiducia. Ci si accorge della guarigione lungo il cammino della vita, ci si accorge dagli effetti di una vita nuova. Tutti e dieci sono guariti, eppure uno solo riconosce che ciò è avvenuto grazie alla potenza di Gesù, e per questo ritorna indietro «lodando Dio a gran voce e prostrandosi ai piedi di Gesù per rendergli grazie». Perché? Il samaritano non aveva più il Tempio, distrutto qualche secolo prima dagli invasori assiri, ma tornando confessa che ormai la presenza di Dio ha trovato nella persona di Gesù il suo tempio (Gv 2,21), la sua manifestazione piena e definitiva. Il lebbroso riconoscente ha capito che Dio è grande, che Dio è buono, che ci si può fidare di lui.

Dono di Dio e gratitudine dell’uomo Gesù, sconfortato, costata con stupore che solo uno su dieci è tornato per «rendere gloria a Dio», e per di più questi è un samaritano, il «nemico» religioso per i giudei. Dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato: «la tua fede ti ha salvato». Occorre notare che Gesù non dice “la tua fede ti ha guarito” ma “ti ha salvato. La salvezza è qualcosa di più totalizzante che non la semplice guarigione. “La tua www.parrocchiamadonnaloreto.it

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fede ti ha salvato” e in questo modo Gesù afferma che esiste uno stretto legame tra la fede di quest’uomo, che ha riconosciuto e accolto in Lui la salvezza portata da Dio, e la sua capacità di rendere grazie. Il samaritano è tornato da Gesù, lodando Dio a gran voce: infatti non può tacere, urla la sua gioia, la sua solitudine e la sua emarginazione sono finalmente finiti. Ma perché gli altri non sono tornati?.Guarire gli uomini dalla loro ingratitudine è ben più difficile che guarirli dalle loro malattie. Infatti se la fede è relazione personale con Dio, allora la guarigione fisica deve corrispondere a una guarigione interiore del cuore. Gesù non vuole solo guarire, ma salvare. Solo colui che si sente salvato può lodare e ringraziare il Signore, perché la salvezza ha prodotto in lui una nuova vita, in comunione con Dio. La presenza e l’azione di Dio nella nostra vita non può riguardarci solo quando siamo nella necessità, ma deve coinvolgere tutta la persona e tutta la nostra esistenza, rinnovata dalla grazia divina.

La vita come canto di lode Alla gratuità dell’agire di Dio verso l’uomo deve corrisponde il riconoscimento del dono e la riconoscenza, la gratitudine di chi riconosce che «tutto è grazia», che l’amore del Signore precede, accompagna e segue la sua vita. Lo schema ricorrente nei Vangeli è quello di una misericordia divina (in Gesù) che si china sulle miserie umane. L’amore salvifico di Dio viene sempre prima della gratitudine umana, risposta libera e liberante ad ogni azione divina nella nostra vita. “La tua fede ti ha salvato” sono parole che Gesù dice anche al cieco di Gerico (Lc 18,42) e alla donna con perdite di sangue (Lc 8,48), parole che vanno ben oltre alla guarigione. Ma queste stesse parole Gesù le usa anche nei riguardi della peccatrice in casa del fariseo (Lc 7,50), dove non c’è una malattia fisica. Ciò vuol dire che per Gesù la cosa importante era la remissione dei peccati, e che la guarigione del corpo era soltanto un segno di qualcosa di più grande avvenuto “dentro”. Ciò che opera il miracolo, ciò che guarisce la lebbra, che ridona la vista, che sradica il gelso, che sposta le montagne è il “il granellino di senape”, è la fiducia e l’affidamento a Dio (cf. Lc. 17,6).

Dio rimane fedele anche se noi siamo ingrati E gli altri nove lebbrosi perché sono stati guariti? Perché Dio è misericordia, anche se non ce ne accorgiamo. In ogni momento della vita Lui ci fa misericordia, perché anche “se siamo infedeli, lui rimane fedele”. Nonostante la nostra ingratitudine, egli ci concede pazientemente il tempo di arrivare alla fede in lui. Accetta e comprende la nostra debolezza. Al posto dei dieci lebbrosi noi come ci saremmo comportati?

La nostra vita è un miracolo Anche oggi è molto forte la ricerca dei miracoli. Basta osservare le folle che si accalcano attorno a santoni più o meno presunti. Molto meno numerosa è la folla di chi sa compiere i miracoli in forza della sua fede “granellino di senape”. È questa fede che dobbiamo implorare e cercare. Trasformare la nostra vita in un miracolo! www.parrocchiamadonnaloreto.it

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Qualcuno può dire: “Ma noi che miracoli possiamo compiere?”. Non potremo guarire la lebbra, né ridare la vista ai ciechi, ma vincere il nostro egoismo, perdonare, dare senza contraccambio, metterci a servizio di chi ha meno di noi non è un miracolo? Senza contare il miracolo più grosso: accogliere la salvezza come un dono incessante di Dio ed affidare tutto il nostro cuore a Gesù.

La vita non è scontata se diventa Eucaristia “La tua fede ti ha salvato.” Queste parole di Gesù ci aiutano a comprendere che la salvezza è veramente tale se facciamo della nostra vita una lode: ogni nostro giorno è un dono di Dio, che va accolto riconoscendone l’origine nel suo Amore di Padre. Per questo il cuore della fede cristiana è l’eucaristia, cioè un «rendimento di grazie». Celebrare insieme l’eucaristia ci ricorda che la liturgia cristiana consiste essenzialmente in una vita capace di rispondere con gratitudine al dono inestimabile di Dio, il dono del Figlio Gesù Cristo che il Padre, nel suo immenso amore, ha fatto all’umanità (Gv 3,16). Ecco perché nella nostra comunità, invito ogni famiglia a cercare un momento idoneo, al termine della giornata, per ringraziare il Signore delle sue meraviglie, che compie in ogni istante nelle nostre esistenze: i cristiani rendono grazie a Dio facendo di ogni momento un’eucaristia vivente. Di fronte al dono di Dio si può solo rispondere cercando di divenire donne e uomini eucaristici (Col 3,15; 1Ts 5,18), capaci di vivere «nel rendimento di grazie» (1Tm 4,4); i cristiani dovrebbero essere coloro che «rendono continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore Gesù Cristo» (Ef 5,20). L’ultima parola di santa Chiara di Assisi fu: «Ti ringrazio, Signore, di avermi creata». Sì, ogni giorno è per noi un dono dell’amore di Dio in Gesù Cristo! Il rendimento di grazie è dunque l’atteggiamento radicale di chi apre ogni giorno la trama della propria esistenza all’azione di Dio, Lui che è sommo Bene e desidera per noi ogni Bene, la vita piena (Gv 10,10). La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all’uomo, eppure troppo poco spesso manifestati nella nostra vita. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance. Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, nutrirsi, lavarsi, lavorare… persino amare; tutto è normale e dovuto. Come vorrei vedere uscire dalle chiese -­‐ almeno ogni tanto -­‐ qualcuno che torna a casa lodando Dio a gran voce. Come vorrei vedere più sorrisi sulle labbra dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono stati ancora oggi salvati e fatti Figli di Dio. Vi invito perciò a ringraziare sempre Dio per ogni cosa della vostra esistenza e non dare mai più nulla per scontato: il sole, l’azzurro, la propria famiglia, il lavoro o la scuola, le fatiche e le gioie quotidiane … sono tutte occasioni per lodare Dio, nonostante tutto quello che ci fa soffrire. “Laudate et benedicete mi’ Signore et rengratiate et servitelo cum grande humilitate.” (San Francesco) Il Signore vi dia Pace vostro fratello Alberto www.parrocchiamadonnaloreto.it

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II Domenica di Pasqua “I dubbi di Tommaso sono quelli dei cristiani della “terza generazione”, quelli che non hanno visto il Signore lungo le strade della Palestina, e poi morto e risorto. Quei dubbi sono anche i nostri: come possiamo credere dopo 2000 anni che sia ancora vivo e non sia tutto una pia favoletta? Come credere e fare esperienza della sua vita, se non ci appare come ai primi discepoli? E poi perché non appare più? L’incontro del Cristo risorto con Tommaso risponde a questi nostri interrogativi: il Signore risorto è il Vivente; possiede una vita che non è riconducibile ai nostri sensi; possiamo vederlo per fede aderendo alla sua Parola. Ma la vicenda di Tommaso mette a fuoco due momenti della fede nel Dio di Gesù Cristo: l’incontro personale con il risorto non è separabile dalla testimonianza degli apostoli. Inoltre dice a noi che chi vuole credere nel Signore risorto non può separarsi dalla comunità dei credenti, dalla Chiesa. Ci dice che il luogo dove possiamo vedere Gesù risorto, della sua manifestazione di Vita è la celebrazione eucaristica. Qui si incontra la sua voce, si accoglie la sua pace e il suo perdono, si sperimenta la sua gioia e si riceve il suo Spirito.” ( fra Carlo B.)


XI Domenica del Tempo Ordinario: "Il fariseo che abita in noi" (Lc 7,36-­‐ 8,3) E' atteggiamento abituale di Gesù entrare nelle case di tutti e sedersi a tavola con i "giusti" e i "peccatori". Per lui tutti gli uomini in realtà sono puri. Ma il fariseo che c'è in noi ha un altra idea di Dio e della sua santità. Essa consisterebbe nell'osservanza religiosa: più è scrupolosa e più l'obiettivo è realizzato. Con i propri meriti ci si contempla allo specchio, si tengono alla lontana gli impuri e si guadagna persino il buon Dio. Gesù al contrario propone la santità come rapporto di amore con lui. Rapporto che nasce dalla grazia divina, che ci ama e ci perdona, affinchè possiamo amarlo con tutto il cuore. La prostituta, che ha già conosciuto il Signore, è su questa lunghezza d'onda. Gesù non vuole mettere contro il fariseo e la donna. Non sta dalla parte delle passioni disordinate, nè è contro l'ordine e le leggi. Quello che conta è la persona umana, che viene prima di ogni cosa. Gesù non discrimina mai nessuno. Il male non si vince ghetizzando i peccatori... ma stando loro vicini, facendo chiarezza sul loro peccato, suscitando il bene che c'è in ciascuno di noi. Pace e Bene (fra Carlo B.).


Perdoniamo nella misura in cui ci sentiamo amati e perdonati Simone il fariseo pensava di avere fatto un gesto nobile nell’invitare il discusso Rabbì di Nazareth alla sua mensa. Non lo vedeva con disprezzo, come facevano molti del suo movimento, anzi. Era davvero incuriosito dalla predicazione di questo falegname del Nord scopertosi Profeta. Gesù accetta l’invito, perché lui sa portare luce dove c’è bisogno di luce e dove c’è desiderio di luce. Dopo i convenevoli tutti si erano distesi ai bordi della stuoia che fungeva da tavola, colma di ogni ben di Dio. Era normale, in occasione dei banchetti, lasciare le porte di casa aperte, affinché i passanti potessero entrare ed ammirare la suntuosa ospitalità del padrone di casa. Ma quando Simone e gli altri invitati vedono entrare “quella”, di colpo tutti tacciono. L’imbarazzo cresce, la donna si avvicina a Gesù, si inginocchia e scoppia a piangere bagnandogli i piedi. Scioglie i capelli, gesto ambiguo, gesto di seduzione, sufficiente in una coppia per chiedere il divorzio, e asciuga i piedi di Gesù. Quella donna mostra a Gesù il suo amore, perché desidera vero amore. Nel cuore di Simone c’è imbarazzo e incertezza: non può essere un Profeta, altrimenti saprebbe che razza di donna è questa e non si lascerebbe toccare, per non contrarre l’impurità rituale. Gesù sorride: ha di fronte a sé due prostitute: la donna (pubblica peccatrice) e Simone (che non sa di essere peccatore). GIUDIZIO: La donna è una prostituta, è “quella”, una segnata, una peccatrice, una dannata. Non importa perché è arrivata fino a quel punto di abiezione, non importa al perbenismo ipocrita la ragione di una scelta dolorosa, è condannata da sempre e per sempre. In nome della religione e della moralità che erge i muri per non mettersi in discussione, questa donna è il suo ruolo, il suo mestiere. Nessuna comprensione, nessuna possibilità, solo disprezzo, anche quando viene desiderata e usata. MA alla donna non importa tutto ciò. La donna piange, piange sentendosi amata da un uomo vero, sentendosi capita e accolta da Dio. Senza giudizio, senza peso, senza ambiguità. Piange tutto il suo dolore, tutta la sua tenebra, tutta la sua rabbia. La bambina che c’è in lei scopre il volto dell’assoluta misericordia. Simone è una prostituta. Si vende a Dio, e si vende bene. Conosce bene la religione, vive fino in fondo i precetti di Israele, non come il popolino ignorante che si danna perché non conosce la Legge. Paga la decima anche sulla ruta e sulla menta, prega con fervore, studia la Torah giorno e notte. È in una posizione di privilegio nella classifica dei meriti. È devoto, ma freddo. Può permettersi di giudicare – la legge è dalla sua parte – può mantenere le distanze. Gesù converte entrambi. Lui è il Maestro:


Alla donna insegna che il metro di giudizio di Dio è l’amore e il perdono. La donna ha amato, tanto, male, facendosi del male, ma ha amato. A Dio basta, lui, che è l’Amore, riconosce l’amore anche quando è fatto a pezzi e fragile e disperato. Per Dio basta questo, salta ogni logica – religiosa, morale, perbenista – e va dritto all’essenziale: guarda al dentro, al desiderio, al dolore, alla verità. Quell’amore è l’origine del perdono, il perdono che Dio dà, sempre gratis, sempre senza condizioni, smuove l’amore. Con Simone, usa la delicatezza. Se lo avesse rimproverato “Come ti permetti di giudicare?” , Simone si sarebbe chiuso a riccio. Senza rabbia, Gesù invece aiuta Simone nel discernimento, pone un caso da risolvere, quello dei due debitori, uno debitore di qualche euro, l’altro di qualche centinaia di migliaia di euro, che si vedono inaspettatamente condonati ogni pendenza. Chi sarà più contento? Simone ragione, riflette, giudica bene: sta imparando il punto di vista di Dio. È chiamato, il fariseo, a mettersi nei panni del debitore. Un altro evangelista ci dice che Simone è stato lebbroso: ragione in più, lui che ha sperimentato la solitudine e l’emarginazione, per annullare la distanza che crea la lebbra del giudizio. A Dio non importa la devozione se non è sorretta dalla passione, non cerca giusti ma figli, a lui non importa (a noi sì: molto!) la nostra immagine spirituale. Vuole dai suoi discepoli verità, passione, forza, anche a costo di sbagliare. La Chiesa non è il clan dei perfetti ma la comunità dei perfetti, l’insieme non dei giusti ma dei figli. Questo lo vediamo nelle letture di oggi: Il re Davide sperimenta la compassione di Dio che lo stana dalla falsa immagine in cui si è rifugiato. Davide, potente, realizzato, sazio, annoiato cerca di salvarsi la faccia dopo avere avuto una relazione con Bersabea, che ora aspetta un figlio da lui. Invece di ammettere il proprio errore e assumersi le proprie responsabilità si inventa una tragica commedia in cui, alla fine, Davide diventerà assassino di Uria, marito di Bersabea. Per salvarsi la faccia Davide l’ha persa di fronte al popolo. Ma Natan, profeta scomodo, lo mette di fronte alle proprie responsabilità. Davide prende coscienza del proprio limite. E, riconoscendolo, diventa grande, il più grande. Dio preferisce chi sbaglia per troppa passione a chi non sbaglia per troppa tiepidezza. Chi è tiepido, lo sappiamo, è vomitato da Dio (Apocalisse 3,16) Il fariseo Paolo era un assassino in nome di Dio. Poi Dio l’ha gettato in terra. Ora, scrivendo ai Galati, riflette sulla sua precedente esperienza di fede: non è la legge che salva, non la norma, non il comandamento che posso osservare per scrupolo e per dovere, ma la passione di un amore di cui mi sento amato. No, la legge non serve a nulla, è l’amore che salva. Allora tutti siamo prostitute. La Chiesa è la comunità dei “perdonati” perché “amati da Dio”. Troppo spesso anche noi ci vendiamo per un complimento, per coltivare il nostro ego (anche spirituale), per avere un ruolo sociale ed ecclesiale riconosciuto ed apprezzato, per essere, se non migliori, almeno non inferiori agli altri, disposti, come Davide, a tradire un’amicizia sincera pur di non ammettere i nostri errori. Vogliamo apparire soli e belli, inattaccabili dal giudizio altrui. Invece dovremmo sentirci tutti perdonati e amati. Questo fa un buon cristiano e


un buon sacerdote. Amati e perdonati da Dio, redenti e salvati, figli e uomini, discepoli e cercatori di Dio. Tutti, se vogliamo, possiamo costruire la Chiesa, il sogno di Dio, comunità di persone che hanno sperimentato nella propria vita la tenerezza del Padre e, perciò, diventano capaci di perdono e di misericordia.


Parrocchia Madonna di Loreto

Frati Cappuccini -­ Chivasso

Chiesa di fratelli uniti a Cristo •

Oggi è un giorno di comunione: comunione con il Signore e tra di noi. Vogliamo celebrare ciò che ci unisce e ci rende pietre dello stesso edificio, della nostra Chiesa. In un mondo dove c’è divisione, dobbiamo come cristiani ricercare i motivi per una rinnovata esperienza ecclesiale nello Spirito.

Essere Chiesa! È la sfida che ci presenta questa celebrazione, il “sogno” di Gesù Cristo per tutti i figli di Dio. Nel nostro mondo si può progettare, costruire, ampliare... ma prima bisogna “essere”, cioè edificare dentro al nostro cuore la condizione di figli dello stesso Padre e la consapevolezza della realtà che ci costituisce membra di uno stesso Corpo.

Gesù, nel brano di Vangelo che abbiamo ascoltato, usa l’immagine della vite e dei tralci per spiegarci il mistero della Chiesa: del Capo unito al Corpo. Perché celebrare la solennità della Chiesa è prima di tutto celebrare Cristo Sposo e Capo della sua Chiesa.

Nell’Antico Testamento la vigna è diventata per i profeti, nella prospettiva dell’Alleanza, il simbolo stesso di Israele, dal quale Dio attende i frutti. Dio ha posto nella sua vigna tutta la sua speranza, ma nel corso della storia la sua vigna è diventata selvatica. Il tema biblico dell’amore e della tenerezza che Dio manifesta per la sua vigna-­‐sposa a motivo del nostro cuore inselvatichito si tramuta in un tema di tradimento e di delusione.

In Giovanni il simbolo della vite si concentra nella persona di Cristo. Gesù nell’ultima Cena fa del prodotto della vigna il sacramento della nuova Alleanza nel suo sangue, primizia del banchetto preparato nel Regno dal Padre È lui la vera Vite, in lui si realizza il popolo della nuova ed eterna Alleanza. E questo perché egli è il Figlio e il Padre è il vignaiolo. Nessuno fa parte del nuovo popolo di Dio se non è in lui, come il tralcio è nella vite. Ogni tralcio che è in Gesù diviene una cosa stessa con Lui, riceve vita da Lui: è il mistero della Chiesa. Ma nello stesso tempo in cui si crea questa unione profonda sia la vite che i tralci rimangono perfettamente unici e personali: è lo stesso mistero di unità e di unicità che lega il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma come è possibile questo innesto, essere una cosa sola con Gesù? La Chiesa ha la forza di rendere possibile questo «innesto» e questo permanere in Gesù, attraverso la successione apostolica.

Essere Chiesa è entrare nella dinamica di comunione che c’è tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo! L’incontro personale e comunitario con il Signore della vita esige un dinamismo continuo, una partecipazione sempre più profonda nel mistero della Trinità. Noi siamo figli nel Figlio Gesù e tutto questo comporta un rapporto di comunione con il Padre nello Spirito, che ci apre alla vita e ci rende costruttori del Regno insieme al Signore.

Il frutto è riservato ai tralci. Dobbiamo sentire tutti la responsabilità di questa risposta all’Amore di Dio, amando non a parole ma con la vita quotidiana. Condizione assoluta è rimanere nella Vite, in Gesù, e che le parole di Gesù rimangano in noi. Solo così esse ci aiutano a rimanere nel suo amore e ad obbedire con la vita al suo comandamento dell’amore, amando come Lui ci Ama. I discepoli di Cristo devono seguire il Maestro sulla via del sacrificio di sé e dell’amore ai fratelli ... Attraverso l’amore noi porteremo frutti di vita e riveleremo al mondo l’Amore che Dio ha per ogni uomo, nella Chiesa.

Infatti, se i tralci sono uniti alla vite, per mezzo della vite stessa sono uniti anche fra di loro. Questa comunione, reclama il donarsi vicendevole, pagando di persona. Un dono di sé all’altro che prima del «fare» è un «essere». Accoglienza, dunque, che si fa desiderio di

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accogliere l’altro non più da sconosciuto, ma come fratello, accettandolo come è e migliorandolo nella pazienza dell’amore. La comunione è responsabilità verso l’altro fino a correggerlo fraternamente, ma sempre con la misericordia e l’amorevolezza che noi sperimentiamo in Dio Padre. La comunione è ricomporre le diversità vivendole come ricchezza e non come un terreno di scontro o peggio di sfruttamento. •

Comunione è camminare insieme. Se lo imparassimo davvero, quante crisi, quanti fallimenti si potrebbero evitare. Saremmo credibili, saremmo eco dell’intima comunione della Trinità. La Chiesa è un corpo che ha bisogno di tutti. Proprio di tutti: dal Papa fino al bambino che va a catechismo. Ognuno arricchisce la Comunità ecclesiale col suo dono di vita. Riusciremmo allora, giorno dopo giorno, a ricomporre quel meraviglioso mosaico, che Cristo Sposo affida alla Chiesa Sposa: mosaico di tanti tasselli e colori diversi, sotto la guida dei singoli Vescovi.

A volte, pensando alla Chiesa, ci fermiamo alla costruzione di mattoni che ci accoglie per la liturgia domenicale o festiva, per la celebrazione dei Sacramenti. Ma l’edificio è solo una visibilità di ciò che vuol significare, e ci rimanda alla realtà del Corpo mistico. Cristo è la pietra angolare dell’edificio in cui dimora: è il Capo della sua Chiesa. E Pietro ci invita a divenire “pietre vive” e a lasciarci impiegare per la costruzione di un edificio spirituale. La chiamata ad essere pietre vive esige un quotidiano impegno di docilità e di disponibilità ai progetti del Signore. Esige lo sforzo a lasciarci mettere una vicino all’altra e ad essere impastate tra di noi con il vincolo della carità. Abbiamo bisogno di crescere nell’amore per costruire insieme una comunità fraterna ed accogliente, per poter testimoniare la stessa carità di Cristo che ci chiama alla comunione con lui e tra di noi.

Inscindibile dall’amore è la gioia. Essa ci è stata promessa da Gesù. La gioia e l’amore devono formare il «clima» delle nostre comunità, della nostra Chiesa. La gioia si diffonderà nei nostri cuori nella misura dell’unione nostra con Gesù, del nostro «rimanere in lui». Essa permane anche nelle sofferenze perché sa riconoscere in esse la mano del Padre che «pota» perché portiamo più frutto.

Celebrare la solennità della Chiesa locale è imparare ad amarla. Forse dovremo vincere la tentazione che ce la fa giudicare o sottovalutare. Cristo ci chiede di amarla anche se ai nostri occhi non sembra bella: sembra più peccatrice che santa. Ci chiede di amarla perché attraverso il nostro amore diventi più bella. Gesù, la vera Vite, ha amato la Chiesa, i suoi tralci, l’ha amata fino a donare la sua vita per lei. L’ha voluta e l’ha amata come mistero di comunione. Sapeva che è composta da uomini fragili, meschini, peccatori, eppure ci chiama tutti alla santità. L’ha amata affinché diventasse bella, affinché Lui potesse avere una sposa senza macchia né ruga (cf Ef 25,27). Imparando ad amare la Chiesa avremo il cuore pieno di riconoscenza e di gioia per il Signore e per tutti i fratelli che condividono con noi il cammino della vita.

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ASCENSIONE: salita al cielo del Signore e festa sulla terra Anche se oggi si celebra l’Ascensione del Signore, la nostra attenzione deve essere rivolta alla terra: è qui che prima di tutto vediamo i frutti della Risurrezione di Gesù. N0n possiamo rimanere con lo sguardo fissi al cielo, persi nell’azzurro di un mondo immaginario o spiritualista. Di questo pericolo ci avverte prima di tutto l’angelo. Noi ora siamo la presenza di Gesù risorto nel mondo. Questo è il compito che ci ha lasciato. Bisogna mettersi per strada, come gli apostoli che ritornano a Gerusalemme “pieni di gioia”. Essi capirono subito che può sperare nel cielo solo chi si mette in gioco sulla terra, nel quotidiano del vivere, amando il mondo e i fratelli come Gesù ci ha amato. L’ascensione del Signore in cielo non è perciò cosa diversa dalla sua risurrezione. Nel Vangelo d’altronde questa avviene nel giorno stesso della Pasqua, mentre negli Atti degli Apostoli dopo quaranta giorni: il tempo delle apparizioni del Risorto. La logica dell’incarnazione, che ha guidato il piano di Dio, poteva terminare forse con la salita in cielo di Gesù? Tutt’altro: ora in Lui la nostra umanità è innalzata presso il Padre nella gloria. E la sua assenza fisica non mortifica affatto la sua presenza spirituale. Noi, i suoi discepoli, la sua Chiesa, siamo diventati i suoi continuatori del percorso dell’incarnazione di Dio nel mondo. E siamo testimoni fedeli del suo Amore e della sua Misericordia, se ci impegnamo a ridurre ogni giorno la distanza tra il mondo di Dio e il nostro, tra l’amore di Dio e il nostro… a ridurre la distanza fra i fratelli. (fra Carlo B.)


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La mia voce sale a Dio perché mi ascolti «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Così si conclude oggi il Vangelo. La scorsa domenica avevamo visto l’episodio dei 10 lebbrosi guariti, ma uno solo fu anche salvato. La fede va a braccetto con la gratitudine… gratitudine prima di tutto per la vita che Dio ci dona, per ogni giorno donatoci da Dio e che va speso nell’amore.

«Necessità di pregare sempre, senza stancarsi». Per vivere una vita veramente come una lode, una eucaristia celebrata con ogni nostro atto quotidiano, occorre avere il cuore ben sintonizzato sulle onde di Dio. Il nostro mondo ha smarrito la dimensione della preghiera. Troppo spesso “pregare” viene inteso come un “chiedere a Dio qualcosa che noi non riusciamo ad ottenere umanamente, imparare delle formule…”. Ma la preghiera è proprio questo? Gesù ci chiede inoltre di “pregare” non solo ogni tanto… sempre. E come si fa? Mica possiamo girare tutto il giorno con la corona del rosario in mano! Mica possiamo passare tutta la giornata in chiesa! Magari lo potessimo fare! E poi chi ci darebbe i soldi per comprare il pane, per pagare le bollette per la luce, per il metano, per la nettezza urbana … o per l’affitto? Se pregare continuamente ci ottenesse tutte queste cose, sarebbe una pacchia. Eppure Gesù è molto chiaro: afferma la necessità di pregare sempre. Se il “pregare” si identifica con il “dire le preghiere”, pratica imparata anni fa a catechismo, allora non potremmo mai accontentare Gesù. Infatti “dire le preghiere” non è “pregare”. Pregare non è passare la giornata a recitare Padre Nostri e Ave Marie, ma vivere tutta la vita in comunione con Dio, lodandolo, ringraziandolo, chiedendo luce, forza, perdono, interrogandolo, per capire cosa dobbiamo fare ogni giorno. La vera preghiera è qualcosa di più profondo e ricco: parte dalla mia dimensione interiore, che si mette in ascolto della Parola di Dio e alla luce di essa mi metto in gioco per realizzare in me la volontà divina, il suo progetto di amore, nella mia famiglia, a scuola, sul lavoro, nella vita. Mi metto in dialogo con Lui e tutto acquista un significato diverso. Questo lo si può fare “sempre”, perché non disturba le nostre necessarie attività quotidiane, ma le potenzia e le eleva, raccordandole alla sua volontà. Pregare sempre è vivere insieme a Dio, presi per mano dal Signore Gesù, che ci accompagna con la sua parola e la sua grazia. Pregare sempre è come l’olio nel motore, che consente a tutti i meccanismi di funzionare e impedisce che gli ingranaggi si blocchino. Serve poco mettere un po’ d’olio ogni tanto, se il lubrificante non circola in continuazione. Così è la nostra vita. Serve poco dire la preghierina alla sera, se tutta la giornata è stata vissuta senza la sua luce, il suo aiuto, il suo perdono, la nostra lode, la nostra gratitudine. Così come non serve il segno di croce al mattino se poi, durante la giornata, il Signore è lontano dai nostri pensieri (la fronte), dai nostri sentimenti (il petto), dalla nostra attività (le spalle).

Dio non è un despota ma un Padre La preghiera deve essere rivolta a un Padre, e non a un despota onnipotente. Dio è un Padre che sa quello di cui abbiamo bisogno. Cuore della parabola è infatti l’insistenza della donna, la sua fiducia: Dio verrà e farà il nostro bene, ma accorre che noi continuiamo a crederci… Lui verrà e ci salverà! Dio non realizza quasi mai cosa io ho chiesto…ma realizza nella mia vita sempre il mio bene.

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La Chiesa sta attraversando momenti difficili… ma questo clima anti-­‐cristiano è soprattutto dovuto alla nostra fede, sempre più piatta, superficiale e superstiziosa. La domande inquietante che termina il brano evangelico “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». ci vuole scuotere dal nostro torpore. Gesù si chiede se lo slancio di generosità da parte di Dio nel Suo Figlio, se questo suo modo di coinvolgersi con l’umanità in Gesù, abbia una risposta adeguata da parte degli uomini. Gesù non si chiede se al suo ritorno esisterà ancora il Vaticano con i suoi dicasteri, o le parrocchie, o gli oratori… ma la fede.. Oggi non abbiamo più molte certezze, ma Gesù ci chiede di metterci in gioco! Vale la pena… anche se la Chiesa è fatta da persone inadeguate. La fede è prima di tutto fiducia ed abbandono, un modo di essere che rischia di essere messo in crisi oggi dalla modernità. Dobbiamo essere certi che Dio ascolta la preghiera dei suoi figli. Allora la preghiera come luogo per incontrare Dio e illuminare il quotidiano, aiuterà la nostra Chiesa ad accogliere le indicazioni dello Spirito e vivere da autentici figli di Dio. Noi non preghiamo per convertire Dio, ma per convertire il nostro cuore e vedere le meravigliose opere che realizza nella nostra vita. Allora io oggi devo rivolgermi a Dio nella preghiera dicendo: “Voglio che quando tu tornerai una piccola fede ci sia ancora… la mia… nonostante tutto. Signore, se tu non ci fossi cosa sarei io, se non avessi incontrato Te Vangelo vivente sulla mia strada che sarebbe di me?” Il Signore vi dia Pace Fra Alberto

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III Domenica di Pasqua Bisogna essere capaci di percepire una presenza: la presenza viva del Risorto, che riempie la celebrazione liturgica, proprio come in certi mosaici delle antiche basiliche romane il Pantocràtor, la grande figura del Cristo Signore, riempie tutta l’abside delle basiliche, mentre gli uomini ai suoi piedi si fanno piccoli, microscopici. Perché è Lui che deve dominare, come in un primo piano cinematografico. (Mariano Magrassi) Cari fratelli stiamo camminando nel tempo di Pasqua e ci stiamo addentrando passo dopo passo nel mistero del Cristo risorto, che coinvolge anche le nostre esistenze per vivere da risorti. Dopo la figura di Tommaso, che abbiamo visto la scorsa domenica, ecco oggi la figura di Pietro, in questa appendice del vangelo di Giovanni, forse voluto proprio dai discepoli dell’apostolo che Gesù amava. Pietro aveva incontrato Gesù tre anni prima, lo aveva seguito fin dalla chiamata sul lago di Tiberiade, in quella pesca miracolosa che sembra ripetersi nel vangelo odierno. Da quel giorno tutto era cambiato, nuova vita e nuovi sogni di gloria… ma ora Pietro era travagliato nel suo cuore: Gesù lo amava e gli aveva affidato la Chiesa… ma lui non era riuscito a tenere fede alle promesse fatte a Gesù (“anche se gli altri ti abbandoneranno, io ti seguirò fino alla morte”), non era stato all’altezza della fiducia riposta su di lui dal Signore, aveva giurato e spergiurato di “non conoscerlo”… Lo aveva tradito miseramente, anche se poi Gesù era risorto, era apparso ai suoi discepoli sereno e senza recriminazioni di sorta, aveva donato loro lo Spirito della Pace, quella vera, che porta armonia nel corpo e nel cuore, che porta fraternità nell’umanità ferita… eppure nell’animo del vecchio apostolo rimaneva l’ombra del rimorso: Gesù non era ancora risorto nel suo cuore. “Io vado a pescare”, dice Pietro agli altri apostoli e con quelle parole getta la spugna, sigilla la sua sconfitta, afferma che non ce la fa, non se la sente di annunciare Gesù con la sua misera vita (d’altronde alla prima difficoltà lo ha rinnegato davanti a una serva insignificante), non si ritiene capace del compito affidatogli dal Signore… sente di essere solo un pescatore e nulla più. Pietro conosce e misura la sua pochezza e fragilità di fronte al mistero di un Dio cosi grande nell’Amore. La liturgia ci offre oggi Pietro come figura di quei credenti che non sono riusciti ad accettare il proprio limite. Gesù è risorto, ma non per lui… e in questo stato d’animo Pietro incontra il suo Signore. Dopo tre anni torna a pescare, forse le cose andranno meglio… ma sembra che non ci sia mai limite al peggio. All’animo cupo e tenebroso di Pietro si aggiunge una notte senza frutto… ed ecco l’imprevisto! Gesù si mostra a lui e agli altri apostoli nella concretezza della loro vita. Sulle prime luce dell’alba un uomo sulla riva che chiede come è andata la nottata di lavoro. Un disastro! E lui con fare semplice e deciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. Ma chi è mai costui che pretende di sapere? Bisogna fidarsi? D’altronde non ce nulla da perdere? Ecco il miracolo non solo della pesca prodigiosa, ma di una vita con un significato nuovo, con occhi e cuore nuovo. Quei pesci rappresentano una vita che se vissuta nel Signore diventa abbondante di frutti e di bene. Gesù è più grande del nostro limite e peccato. Gesù accoglie i suoi sulla riva… Pietro dalla gioia raggiunge il Maestro a nuoto. Gesù si comporta con naturalezza, scherza, ride, mangia con loro. Poi improvvisamente prende Pietro in disparte e gli fa la domanda a bruciapelo: «Mi ami tu, Simone?». Pietro ricorda il momento del Sinedrio quando dopo il tradimento i suoi occhi si sono incrociati con quelli del Signore: «Come faccio ad amarti, Rabbì, come oso ancora dirtelo, come faccio?» pensa Pietro.«Ti voglio bene» risponde Simone. Ma Gesù insiste: «Mi ami, Simone?» «Basta, basta Signore, lo sai che non sono capace, piantala!» pensa Pietro. «Ti voglio bene» risponde Simone. E Gesù affida ancora una volta a Pietro il compito di guidare la sua Chiesa. Poi riconoscendo la povertà di Pietro insiste: «Mi vuoi bene, Simone?» Pietro tace, ora. È scosso, ancora una volta. È Gesù che abbassa il tiro, è lui che si adegua alle nostre esigenze. Pietro ha un groppo in gola. A Gesù non importa nulla della fragilità di Pietro, né del suo tradimento, non gli importa se non è all’altezza, non gli importa se non sarà capace. Chiede a Pietro solo di amarlo come riesce. «Cosa vuoi che ti dica, Maestro? Tu sai tutto, tu mi conosci, sai quanto ti voglio bene» Sorride, ora, il Signore. Sorride. Pietro è pronto: saprà aiutare i fratelli poveri ora che ha accettato la sua povertà, sarà un buon Papa. Sorride, ora, il Signore e gli dice: «Seguimi».


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La ricchezza disonesta del cuore In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi…Cerchiamo di cogliere con semplicità il messaggio evangelico: un amministratore, accusato di aver sperperato le ricchezze a lui affidate da un uomo ricco, prima di lasciare il proprio incarico, chiama i debitori del padrone e, con un’operazione di falsificazione delle ricevute, se li rende amici. Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. 1. Gesù non condanna la ricchezza: infatti aveva molti amici ricchi e il suo corpo riposerà, anche se per poco, in una tomba non sua, ma del ricco Giuseppe di Arimatea. Come tutte le cose create, la ricchezza (e non pensiamo soltanto ai soldi, ma al tempo, alle capacità, alla salute, alla professione, alla casa, alla famiglia…) è buona o cattiva secondo l’uso che se ne fa. Infatti, se la ricchezza fosse un male di per sé, e se la condizione “evangelica” della vita fosse la miseria, l’aiuto ai poveri non sarebbe stato messo a biglietto di ingresso per il regno dei cieli (“Avevo fame e voi non…”), ma sarebbe stato sconsigliato. Meglio lasciarli nella loro condizione “beata”. 2. Un amministratore che ha saputo rinunciare al suo tornaconto. Va infatti fatto notare che secondo l’uso della Palestina, l’amministratore aveva diritto a concedere prestiti con i beni del suo padrone, e poiché non era retribuito, poteva farsi la paga alterando l’importo del prestito. Nel concedere gli sconti ai debitori, l’amministratore rinuncia a un suo guadagno per procurarsi degli amici. Rimedia alla sua disonestà, distribuendo la ricchezza che aveva accumulato per sé. È questa prontezza di intelligenza che il padrone loda. Sì, padrone e amministratore sono entrambi “figli di questo mondo” e il loro ragionamento è certamente mondano, segnato da furbizia, ma anche da falsità e ingiustizia. 3. La furbizia dei figli di questo mondo. Gesù dunque non loda questa azione in quanto tale ma, guardando ai suoi discepoli, “figli della luce” ma poco furbi, incapaci di strategie efficaci nella vita, prova una tenerezza mista a tristezza... L’invito di Gesù ai suoi discepoli è a procurarsi amici con la stessa determinazione che hanno i figli di questo mondo, ma anche facendo un uso diverso della ricchezza: si tratta di condividerla con i poveri che, essendo i primi cui è promesso il regno (cf. Lc 6,20), potranno accoglierli nelle dimore eterne, cioè dove c’è la vita in Dio per sempre. Questo è il modo di “profittare del tempo presente” (cf. Ef 5,16), del tempo che abbiamo in dono da vivere, per trasformare la ricchezza disonesta in fonte di comunione e di amicizia. 4. La ricchezza è buona quando non diventa alternativa a Dio, come ammonisce Gesù: “Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”. Le parole finali di Gesù si fanno dunque chiare: il discepolo non può servire a Dio e al denaro: o amerà Dio con tutto il cuore, tutta la mente, tutti beni di questo mondo, oppure amerà come Dio i beni di questo mondo, trasformandoli in idoli. Significativamente, il termine usato dalla nostra pericope per il denaro è Mamon, “mammona”, un termine in uso al tempo di Gesù e che nella sua radice si rifa al verbo aman, “credere”, “porre la fiducia in”. 5. “Dov’è il tesoro, là è anche il cuore” (Lc 12,34) aveva ammonito Gesù, nel senso che se amiamo il denaro, allora esso come un idolo ci aliena, ci inganna e ci seduce, impedendoci l’amore e il servizio di Dio. La ricchezza è pericolosa perché promette ciò che non è in grado di mantenere, una felicità che non riesce a dare. Occorre vivere in una “sobrietà evangelica”, www.parrocchiamadonnaloreto.it

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lodando il Signore per quello che si ha senza cadere nella logica perversa di questo mondo che ti spinge a non essere contento di quello che già abbiamo e quindi siamo sedotti alla frenesia dell’accumulo. Lo stile del cristiano è sobrietà e libertà da una ricchezza che può renderci schiavi. Questo vale anche a livello ecclesiale. Molti beni storici e patrimoniali vanno amministrati nell’attenzione alla condivisione. Ricordiamo il santo Papa Leone che ai barbari che gli chiedevano i beni della Chiesa, rispose: “I nostri tesori sono i poveri”. 6. I cristiani (chiamati oggi da Gesù “figli della luce”) sono nel mondo, ma non del mondo. Occorre per noi cristiani essere irreprensibili nelle cose terrene: colui che segue Cristo deve essere radicalmente onesto, non può cedere alle lusinghe di questo mondo. Il credente in Cristo deve essere una persona affidabile e in questo modo il Signore ci donerà già qui la vera ricchezza, la libertà del cuore di credere che Gesù è la vera ricchezza di ogni uomo, una ricchezza che va condivisa con ogni uomo. Il Signore vi dia Pace! fra Alberto

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XII Domenica del Tempo Ordinario: La carta di indentità di Gesù Quando Gesù ci interroga su chi sia Lui per noi, non si serve dei sondaggi che valgono quel che valgono... Lui ha un altro metodo: prega il Padre e dal rapporto filiale che ne consegue, scaturisce la domanda. Tutti, credenti e non, facciamo fatica a rispondervi, perchè non è semplice l'adesione della bocca al cuore. E' quanto lascia trasparire Pietro. D'altra parte credere in Lui non è possibile se si ragiona secondo i criteri mondani, per cui vale chi trionfa e non vale chi perde. Né è possibile aderire a Lui come ad una serie di verità di fede imparate a catechismo. Gesù allora ci aiuta: sono il Cristo, il Figlio di Dio, il Messia vittorioso però attraverso la croce. Per lasciarvi totalmente liberi, mi sono servito del vostro peccato, per costruire la storia della salvezza.Per credere in Lui occorre seguirlo con la nostra vita. Ma perchè la croce? Ci chiede di soffrire più degli altri? Ovviamente no! Però ci chiede di non vivere di noi stessi, inseguendo gloria e onori personali. Bisogna mettere Lui al centro E dunque in questo senso possiamo aspettarci qualche problema in più, se non viviamo per autogloriarci, né per essere approvati dagli altri. Pace e bene (fra Carlo B.)


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Un regno di peccatori, pentiti e perdonati Quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare diritto, continuava a cadere. Allora Dio creò il perdono, e il mondo si resse in piedi. (Racconto chassidico) Oggi celebriamo l’ultima domenica dell’Anno liturgico… celebriamo la Solennità di Gesù Cristo re dell’Universo. Eppure il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato ha tutta l'aria di descrivere non i trionfi di un re, ma la sua fine malinconica e ingloriosa. Si racconta di un re che muore sopra un patibolo infamante, deriso dai suoi sudditi.

La scena drammatica Lo scenario presentato dall'evangelista Luca è grandioso. Tutto avviene su un'altura fuori di Gerusalemme, dal nome infausto: Golgota, che significa luogo del teschio (il posto delle esecuzioni capitali). I personaggi della scena: il popolo, i capi del popolo, i soldati romani, il governatore Pilato e due malfattori crocifissi con Gesù. Il racconto si svolge in due scene rapide. a) La prima, la scena degli insulti. Sono in primo piano i nemici di Gesù, gente dal cuore cattivo, che lo deride nell’agonia: i capi del popolo affermano «Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto (il Messia)». e i soldati mentre gli danno l’aceto lo scherniscono dicendo «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Il popolo è passivo davanti a quella ingiustizia e Pilato dietro le quinte è presente in quella scritta posta sopra il suo capo «Costui è il re dei giudei».Così l'autorità romana si faceva burla non solo di Gesù (un re da burla), ma con lui anche dei giudei, indicandoli come suoi sudditi. E infine anche uno dei due malfattori crocefissi con Gesù lo insulta: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». Infatti Gesù in vita ha salvato tanti, ha guarito, risanato, perfino risuscitato. Perché ora non vuole salvarsi? Perché dalla croce non vuole manifestare il suo potere regale? In questo modo tutto il mondo gli crederà e Lui potrà regnare sull’umanità. Si vuole un Dio che ci salvi ma lasciando il nostro cuore uguale a prima. Non ci dispiacerebbe un bel finale della storia con l’arrivo dei “nostri”, come nei film western degli anni Sessanta. b) “Io non sono venuto a chiamare quelli che si credono giusti, ma quelli che si credono peccatori.” (Matteo 9,13). Ecco che all’improvviso cambia la scena, la prospettiva: avviene il dialogo della salvezza. Prende la parola il secondo malfattore, che con simpatia chiamiamo il buon ladrone. È l'unico personaggio, dei tanti attorno a Gesù, che risulti capace di sentimento, di nobiltà d'animo. Anche se attanagliato dal dolore, il buon ladrone sa scendere nell'interiorità. Lui riconosce la giustezza della pena che sta subendo, e soffre per l'ingiustizia che vede inflitta a Gesù. Lo chiama per nome “Gesù”, che significa Dio salva. Pensa sì alla salvezza, ma chiede a Gesù una salvezza integrale, una salvezza del cuore, vede in Gesù un destino di eternità, di serenità e libertà. E lo supplica: «Ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno». Così, dal profondo, compie un atto di fede nel Regno del cielo. E il Signore lo accoglie nel suo Regno come primizia dell’umanità redenta dal suo sacrificio: «Oggi sarai con me nel paradiso». “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.” (Luca 15,7)

Un popolo di pentiti e perdonati Oggi celebriamo la vera follia del cristianesimo, celebriamo Gesù, che a differenza dei potenti di questa terra che chiedono i nostri servigi, la nostra vita per conservare il loro potere, è un Re che si mette al nostro servizio, che dona la vita per noi, suoi sudditi. Oggi ci dovremmo solo inginocchiare www.parrocchiamadonnaloreto.it

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davanti alla sua croce e adorare l’infinita misura dell’Amore di Dio. Gesù è Re, il più grande sovrano, perché desidera fabbricarsi un trono nel cuore degli uomini. Gesù realizza il suo “Regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”, ma rispettoso della nostra libertà. “Gesù estende le sue braccia dalla croce per abbracciare tutti i peccatori.” (Papa Giovanni XXIII). Riconosciamoci bisognosi del suo perdono, della sua salvezza: “Se diciamo: «Siamo senza peccato», inganniamo noi stessi, e la verità di Dio non è in noi. (1Gv 1,8). “Il buon ladrone è l’immagine dei credenti e della Chiesa che, nella storia, sono chiamati a testimoniare la regalità di Cristo, condividendo le sofferenze del Crocifisso, invocando la venuta del Suo Regno, e attendendo il Veniente nella gloria.” (Enzo Bianchi) Oggi ricordiamo tutti i cristiani perseguitati nel mondo. Sulla croce c’è la Chiesa martire con Cristo per renderlo vivo ancora oggi nell’amore ai fratelli. Ma il Vangelo di oggi è anche un messaggio di speranza, perché al buon ladrone Gesù rivolge la parola che tutti noi vorremmo sentire nel nostro ultimo giorno: «Oggi sarai con me nel paradiso». Sì, questa è una promessa riservata a tutta l’umanità, anche ai malvagi e ai peccatori: dipende da ciascuno di noi accoglierla, accettando di perdere la nostra vita per Gesù Cristo, il Messia che regna dalla croce, che ci coinvolge in questo suo amore totale e ci chiede di spendere la nostra vita per i fratelli nella giustizia e nella verità. “Il paradiso comincia solo nel momento in cui si ha il coraggio di riconoscere il proprio peccato. Chi si pente ama. E amando, appartiene già a Dio.” (Fèdor Dostoevskij)

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PENTECOSTE: dono dello Spirito che fa la Chiesa Sovente noi cristiani cerchiamo Dio per trarne conforto e consolazione. Non facciamo male ! Infatti Gesù prega il Padre di donarci un "altro Consolatore", ma purtroppo noi ci fermiamo qui. Dio non è uno che si limita a solllevarci il morale. Ci dona il suo Spirito, la sua vita divina, che è sempre vivace, dinamica e fortificante nella testimonianza. La Pentecoste è anche ora, oggi. Essa ci dice come Dio continui ad aprirci gli occhi alla speranza, e che non esistono zone escluse dalla sua azione. Dunque anche fuori dalla Chiesa dobbiamo saper scorgere i suoi segni. Stiamo vivendo un tempo di grandi trasformazioni a tutti i livelli. E la nostra tentazione di credenti è quella di arrestarci ad una visione medioevale del mondo, quando eravamo maggioranza, così da evitare ogni dialogo e non cercare le ragioni del nostro credere. Non possiamo continuare ad non dare risposte alle nuove domande , che il nostro tempo ci pone. Lo Spirito di Dio, invece, ci spinge a tornare ad essere minoranza, per poter di nuovo rifondarci sul Vangelo, e per lasciare da parte quelle tradizioni che gli hanno tolto l'ossigeno. Pace e Bene (fra Carlo B.)


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Una preghiera che è specchio del cuore Ritenersi giusti “Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Quante volte anche noi come il fariseo della parabola, ci riteniamo bravi e giusti, perché viviamo scrupolosamente tutti i precetti della Chiesa. Ma chi è il vero “Giusto”? Gesù risponde alla domanda: “Chi è il giusto davanti a Dio?” Rivolgendosi ai farisei al cap 16,15 dice: “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole.”Gesù parla ancora oggi ai presuntuosi, che si ritengono sicuri della loro integrità morale e per questo disprezzano gli altri ritenuti non come loro giusti.

Preghiera specchio del cuore e della vita Con questo racconto, Gesù illustra non solo il modo migliore per pregare, ma anche per vivere: . È dalla preghiera e nella preghiera che si manifesta lo stile di vita che abbiamo nel cuore. “Due uomini salirono al tempio” Si sale al Tempio per incontrare Dio, perché si ha sete di Dio, perché si cerca il suo volto (espressioni che troviamo nei salmi). Qual è la motivazione che mi spinge ad andare in chiesa? Fariseo e pubblicano: due modi di pregare e di vivere. Questi due personaggi infatti rappresentano gli estremi della società d’Israele, due figure contrapposte. Fariseo è rappresentante di un movimento che vive e interpreta la Legge in maniera rigorosa, perciò non un ebreo qualunque ma il migliore. Pubblicano non è un semplice peccatore occasionale, ma un peccatore incallito perché ha scelto nel suo riscuotere le tasse un lavoro impuro, che lo mette in contatto con i pagani e lo portava alla disonestà e avidità. Due figure, il migliore e il peggiore. Come queste due persone si porranno davanti a Dio guardando alla loro vita?

Preghiera del presunto Giusto •

In Israele si prega in piedi, modo abituale per rivolgersi a Dio anche oggi. Anche il pubblicano sta in piedi. Quindi questo atteggiamento non è di ostentazione o sbagliato.

Inizia “ringraziando”. Modo meraviglioso per rivolgersi a Dio riconoscendo il suo dono e la sua grazia, però il resto della preghiera ci fa capire che non dal Signore gli deriva il suo ringraziare… ma dal fatto che non è “come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”. Comprendiamo che questa preghiera è falsa e stonata, perché loda Dio perché è migliore degli altri. Ringrazia Dio ma condanna i fratelli. In questo modo si dimostra non in sintonia con Dio, che è il Misericordioso.

Inoltre ribadisce il suo essere migliore affermando “Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”, cioè nel rispetto della Legge fa molto di più di quello che è prescritto. Il Digiuno era prescritto una volta all’anno nel giorno dello Yom Kippur, giorno della espiazione. Il fariseo in realtà non sta pregando, non guarda a Dio, non attende nulla da Lui, non gli chiede niente, si rivolge a Dio perché costati la sua perfezione. La lode che dovrebbe rivolgere a Dio, la rivolge a se stesso. Egli è un uomo che si vanta di quello che

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è e di quello che fa. Giudica gli altri e si vanta delle opere che compie, per autocelebrarsi davanti a Dio. Tra le opere di cui si vanta nessuna esprime un amore al prossimo, ai fratelli. Gesù dice: “Guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio. Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle.” (Lc 11,42)

Preghiera dell’umile davanti al solo Giusto… Dio •

Prega in piedi ma a distanza, quasi per esprimere che non si senta degno di essere al cospetto di Dio. Non alza gli occhi perché è consapevole della sua posizione morale. Si batte il petto, perché ha viva coscienza di essere un peccatore. Il pubblicano prima di pregare con la bocca, prega con il corpo.

“O Dio, abbi pietà di me, peccatore” Mentre lo sguardo del fariseo resta fermo alla sua presunta giustizia in rapporto agli altri, senza mai distogliere il suo sguardo dal proprio io, per alzarlo al Signore, al contrario lo sguardo del pubblicano si alza al Signore, senza guardare agli altri, ma guarda la sua vita direttamente in rapporto a Dio, il solo Giusto, e chiede il suo intervento. Mette la sua vita nelle mani di Dio, mette la sua persona alla presenza del Signore, si sente interpellato da Lui, vede con chiarezza la sua vita in rapporto a Dio. La sua preghiera è un vero stare alla presenza del Signore: sono un peccatore, ma abbi pietà di me. Chi prega, consapevole del proprio limite, della propria miseria, della propria creaturalità, si pone davanti a Dio con la giusta ottica dell’umiltà, confidando nella sua grazia e nella sua bontà divina.

Il credente non è un giusto, ma un giustificato Il pubblicano, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato. La conclusione ci lascia sconcertati. Davvero le molte opere buone del fariseo non contano nulla? Che ha fatto il pubblicano per ricevere misericordia? Forse Dio non lo conosce bene e come può essere efficace la sua preghiera? Il pubblicano è il solo giustificato, perché il fariseo pone la sua fiducia in se stesso, considera le sue opere come la causa della salvezza. Il fariseo non è giustificato, cioè non incontra Dio, perché la sua vita non è rivolta a Dio ma al suo Io. Paradossalmente nella preghiera ci si può separare da Dio e dagli altri, falsare la coscienza ingannandosi su Dio e sull’uomo. Il pubblicano è davvero un peccatore, ha coscienza del suo peccato. Egli sa che non può fare nulla per cancellare il suo peccatore, può solo affidarsi a Dio, lui solo può colmare la distanza e liberarlo. Allora prega perché Dio si chini su di Lui, lo perdoni, lo ricolmi della sua grazia, gli dia la forza per cambiare vita. Ebbene questo uomo incontra Dio e viene reso giusto. Ecco perché solo chi è umile può guardare in modo giusto alla sua vita e sa stare veramente davanti a Dio, umilmente perché sa di aver ricevuto tutto da Lui: “chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.

La giustificazione come dono gratuito di Dio nella mia vita Chi è pieno di se e non si riconosce come uomo, cioè una creatura limitata e fallibile, non può essere colmato dai doni divini. Dio esige uno spazio vuoto, dove la grazia divina viene per dimorare e agire. Nel presente contesto escatologico (17,20-­‐37) l’accento della parabola cade sul giudizio di Dio, che non dipenderà tanto dalle prestazioni di ognuno di noi, dalle opere che abbiamo fatto o dall’osservanza scrupolosa della Legge, bensì dall’accoglienza in noi della grazia divina che opera nell’amore, che non è mai giudizio. “Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse www.parrocchiamadonnaloreto.it

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camminassimo.” (Ef 2,8-­‐10) Questa parabola perciò primariamente non è incentrata sul giusto modo di pregare, anche, ma descrive prima di tutto due modi di “vivere”. Il giudizio di Dio si può comprendere a partire dalla coscienza che abbiamo della nostra vita. Quale metro usiamo per guardare alla propria vita e a partire da chi: il fariseo a partire dagli altri guarda alla sua vita e si considera giusto; il pubblicano a partire da Dio sa di essere un peccatore. Le nostre mormorazioni e maldicenze partono da una logica del fariseo: ci fanno sentire migliori degli altri. Attenzione: mai quello che fanno o non fanno gli altri potrà legittimare le mie scelte di vita e potrà rendere la mia esistenza santa e giusta. Il pubblicano davanti a Dio non fa tante considerazioni in rapporto agli altri, egli è ben consapevole della sua vita, non ha bisogno di confrontarsi con nessuno né nella bontà, né nella cattiveria. Prende coscienza di come sta andando la sua vita confrontandosi con Dio stesso. È la bontà e santità di Dio che gli fanno capire la sua vita. E allora conta solo su Dio per cambiare vita. L’amore misericordioso di Dio deve essere la misura per valutare la nostra vita. Solo confrontandosi con Dio, ci sentiremo sempre in cammino per crescere e potremmo avere un cuore umile. La mia vita verrà vista come dono immeritato di grazia. Il giusto secondo la concezione biblica è colui che rispecchia la santità di Dio, il suo agire nella storia: il fariseo sbaglia non perché ha compiuto le opere sbagliate, ma perché pretende di stabilire lui la giustizia in rapporto a se stesso e ai fratelli; il pubblicano è giusto perché stabilisce la giustizia in rapporto a Dio. Dio non è indifferente di fronte ai nostri comportamenti buoni e ci premierà, ma nessuna opera può darci diritto alla comunione con Dio, perché da Lui nasce il bene e a Lui torna il bene. Le nostre opere non sono inutili, ma insufficienti… ci vuole sempre la grazia divina. L’errore è credere di meritarsi Dio: Dio è un dono puramente gratuito. Dio si dona e noi dobbiamo accoglierlo. Le opere buone tu le fai perché la grazia di Dio ti ha conquistato, Dio agisce in te. Le opere sono risposta alla Grazia che ti precede. Ecco perché il cristiano non è un uomo giusto ma giustificato, reso giusto dalla grazia di Dio. I santi, Francesco, Chiara, Teresa, padre Pio… hanno vissuto nella loro vita questa pura verità: più ci si avvicina a Dio, più si vedono le nostre ombre e la sua misericordia che si china a guarire le nostre debolezze. Chi giudica pensa di sapere cosa pensa Dio, mentre alza solo muri di divisione e disprezzo: un mondo con il dito puntato. Occorre invece camminare con le scarpe dell’altro, perché tutti ricerchiamo la felicità e il bene. Ecco perchè Paolo ci esorta alla stima vicendevole. La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità. (Rom 12,9-­‐13) Beati noi se sapremo vedere quanta grazia e quanto bene c’è nella vita del fratello. Siamo tutti nudi di fronte a Dio, tutti mendicanti, tutti peccatori. Ci è impossibile giudicare, se guardiamo all’ultimo posto che il Figlio di Dio ha voluto abitare. ncora una volta, il Signore chiede a ciascuno di noi l’autenticità, la capacità di presentarci di fronte a lui senza ruoli, senza maschere, senza paranoie. Dio ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci Ama. Il Signore vi dia Pace Fra Alberto www.parrocchiamadonnaloreto.it

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IV Domenica di Pasqua La figura del buon Pastore non ha niente a che vedere con la figura del capo carismatico, che vorrebbe sottomettere tutti ai suoi disegni di potere. Cristo è il vero Pastore, perchè per difendere la vita di ogni uomo ( e non solo di quelli che aderiscono a Lui) non ha risparmiato la propria. Questo suo segno di Amore ci convince ogni giorno ad abbandonare i falsi pastori di questo mondo ed i loro sentieri di morte. Ma affidarci a Lui significa, inoltre, unirci a Dio strettamente, senza sapere preventivamente il percorso che ci sarà dato di fare. Sappiamo solo che avremo vita in ogni momento, e contro ogni apparenza mondana, e che dovremo attrezzarci degli stessi sentimenti di Cristo e perciò avere la stessa attenzione sua per i poveri, per i fratelli malati, la stessa pratica della giustizia, la sua accoglienza, il suo spirito fraterno, la stessa condivisione dei beni, la sua fedeltà al progetto di Dio, la sua onestà, sincerità e franchezza, il rifiuto di ogni forma di violenza, il suo perdono e la sua forza di riconciliarsi sempre e senza condizioni. Tutte cose che i capi carismatici non predicano, ma che impongono agli altri. Pace e Bene (fra Carlo B.)


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L’abisso che nasce da un cuore senza Amore «C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente»: così incomincia la parabola narrata da Gesù nel vangelo odierno. S. Luca continua a farci riflettere sul nostro rapporto con la ricchezza. La scorsa domenica ci ammoniva invitandoci ad essere scaltri nelle cose del cielo come gli uomini sono scaltri nelle cose della terra, oggi ci aiuta a capire che la ricchezza è vera ricchezza soltanto se ci aiuta a creare “ponti” fra un umanità ferita e un umanità benestante. 1. Un uomo senza nome. A volte si ha la tendenza a farci un nome con le cose che possediamo. Il ricco della parabola è senza nome, è definito unicamente da ciò che possiede; egli ammassa avidamente beni per sé, illudendosi forse di difendersi in questo modo dalla paura della morte, come se avere molte cose potesse impedire l’evento che lo attende al termine della sua esistenza. Alla sua porta c’è un uomo povero, ridotto così male da avere il corpo ricoperto di piaghe. Sicuramente nessuno lo cerca, e figurati se a qualcuno interessa sapere come si chiama. Gesù, invece, lo chiama per nome: Lazzaro. 2. Due condizioni di vita L’uomo ricco, accecato dalla sua brama idolatra, non si accorge della presenza alla sua porta del “povero Lazzaro”, desideroso di “sfamarsi di quello che cadeva dalla sua tavola”. Il comportamento di questo ricco ha un nome preciso: ingiustizia, quella denunciata dai profeti dell’Antico Testamento (cf. Am 6,1-­‐7; Ger 22,13-­‐19; Ab 2,6-­‐11), da Gesù («Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati … Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione»: Lc 6,21.24), dagli apostoli (cf. Gc 2,5-­‐9; 5,1-­‐6); quell’ingiustizia che si manifesta nell’accumulare una quantità smisurata di ricchezze, finendo per privare gli altri addirittura del minimo necessario di sussistenza. Oggi dimentichiamo le immense masse di umanità che vivono nelle favelas o nelle periferie delle grandi città. Oggi queste parole suonano stonate ai nostri orecchi, non vogliamo più ascoltarle, abituati come siamo alla presenza di poveri resi tali dalla nostra ricchezza non più percepita come ingiusta. Eppure per Dio non è così, «Dio aiuta» (questo significa il nome Lazzaro) i poveri, le vittime della storia: sì, ci sarà un giudizio di Dio alla fine dei tempi, nel quale Dio ci chiamerà a rendere conto del nostro comportamento e «renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (cf. Sal 62,13; Rm 2,6; Ap 2,23). Ciò che ci cancella davanti a Dio, non è la ricchezza, ma l’indifferenza verso gli altri. 3. Il Paradiso si costruisce giorno per giorno Il ricco ostinato nella sua opulenza, vive isolato dal mondo, non guarda in faccia nessuno. Lazzaro, che sembra non maledire Dio per la sua condizione, vive anche lui solo, a causa del cuore indurito del ricco; le solo creature che hanno pietà per lui sono i cani (animali impuri per il mondo ebraico) che gli leccano le ferite. Gesù continua: «un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto». C’è un ribaltamento delle sorti terrene! Il ricco senza nome (Dio non può perciò chiamarlo a sé) in mezzo ai tormenti, si rivolge al patriarca Abramo, chiedendogli innanzitutto di «mandare Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnargli la lingua», per lenire le sue sofferenze. Ma si sente rispondere: «Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali». Ma come mai Dio che è misericordioso e grande nell’amore, non vuole salvare il ricco? www.parrocchiamadonnaloreto.it

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4. Un abisso che divide Gesù non vuole impaurirci o descrivere «le pene dell’inferno», ma semplicemente ricordarci che nella vita può esserci un «troppo tardi»: con le nostre azioni quotidiane costruiamo il nostro Paradiso o il nostro Inferno. Colui che rimane alieno ad ogni pur minima attenzione al fratello, senza accorgersene crea un abisso terribile che lo separa dagli altri e persino da Dio ( una definizione dell’Inferno può essere “Solitudine). Allora ci danniamo o ci salviamo con le nostre mani? Dio di fronte ad un cuore che rimane ostinatamente tenebroso, non può che prenderne atto… eppure noi continuiamo a sperare nel giorno in cui la misericordia di Dio brillerà, con la luce radiosa del Risorto, su ogni aspetto del creato, vincendo le ultime tenebre dell’Inferno. Occorre credere, sperare ed amare con quella forza che ci viene dalla Croce di Cristo, vittoriosa sul peccato del mondo. “La nostra fede è generata dall’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, rilette alla luce della vita di Gesù, quella vita all’insegna della comunione e dell’amore che lo ha condotto alla vittoria sulla morte, alla resurrezione. La fede, se è autentica, è «fede operante mediante l’amore» (Gal 5,6), si traduce cioè in azioni concrete ispirate dall’amore fraterno. È infatti l’amore l’unica realtà su cui saremo giudicati al termine della nostra vita: l’amore che può dare senso ai nostri giorni sulla terra, l’amore che è qui e ora condivisione dei beni in modo che siano distribuiti «a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,35). Ma ricordiamolo: «se uno ha ricchezze nel mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude il cuore, come può l’amore di Dio rimanere in lui?» (1Gv 3,17).” (Enzo Bianchi)

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28 marzo 2010 – Domenica di Passione La morte di Dio Dio non è uno che ti manda le disgrazie. Non è un padrone che ti castra e ti impedisce di volare. Non è un despota che ti fa stare buono e zitto sennò ti castiga e allora lavora. Non è uno che brandisce la Legge e aspetta di lapidarti. Ci vuole il deserto e la verità, la fame di senso e la Parola per riuscire ad arrendersi all’evidenza di Dio. Un Dio che lascia crescere i suoi figli, che ha fatto bene ogni cosa e fa piovere sui giusti e gli ingiusti: un Dio che, come un Padre, scruta l’orizzonte e accoglie con dignità il figlio che lo voleva morto, ed esce a spiegare le sue ragioni all’altro figlio offeso; un Dio che, unico giusto, potrebbe condannarmi e non lo fa, chiedendomi di uscire dalla mediocrità del peccato, dalle false verità, dalla falsa libertà. Siamo alla fine del deserto quaresimale, amici: ora vediamo davanti a noi la Città Santa, Gerusalemme, dove si compie per noi la salvezza. Inizia la grande settimana, la più grande. La settimana piena di stupore e di sangue, di amore e di emozioni. Inizia la settimana Santa. Osanna! Gesù entra a Gerusalemme trionfalmente. La gente applaude, agita in alto i rami strappati dalle palme e dagli ulivi, stende i propri mantelli al passaggio del Rabbì di Galilea. Piccola gloria prima del disastro, fragile riconoscimento prima del delirio. Gesù sa, sente, conosce ciò che sta per accadere. Troppo instabile il giudizio dell’uomo, troppo vaga la sua fede, troppo ondivaga la sua volontà. Ma che importa? Sorride, ora, il Nazareno e ascolta la lode rivolta a lui e che egli rivolge al Padre. Messia impotente e mite, energico e tenero, affaticato e deciso. Non entra a Gerusalemme a cavallo di un puledro bianco, non ha soldati al suo fianco che lo proteggono, nessuna autorità lo riceve: entra in città cavalcando un ridicolo ciuchino, ricordando a noi, malati di protagonismo, che il potere è tale solo se non si prende troppo sul serio, che la gloria degli uomini è inutile e breve. Osanna, figlio di Davide, Osanna nostro incredibile Dio, nostro magnifico re. Osanna dai tuoi figli poveri e illusi, feriti e mendicanti, Osanna re dei poveri, protettore dei falliti, Osanna! Innalza a te il grido di lode la tua Chiesa, santa e peccatrice, riconosce in te l’unica ragione di vivere, l’unica ricerca, l’unico annuncio, Osanna maestro amato.


La passione Luca racconta la sua passione lasciando trasparire tutto il bene che ha ricevuto da Cristo. Ama il Dio di Gesù, ama il Signore che egli ha conosciuto attraverso le parole vibranti di Paolo. E racconta le ultime ore di battaglia, racconta dello scontro titanico tra il Dio rifiutato e la tenebra incombente che suggerisce (a ragione?) a Gesù di abbandonare l’uomo al suo destino. La battaglia, l’agonia è, in Luca, tutta concentrata nella preghiera sanguinante del Getsemani. Capiranno, gli uomini? O anche quel gesto passerà inosservato e inutile come tanti altri? Altro è predicare e guarire, altro morire, nudi, appesi alla croce. Sì, Gesù muore nudo per noi. Gesù sceglie: consapevolmente, drammaticamente, dolorosamente, di donare la sua vita perché ognuno di noi abbia la Vita. Andrà fino in fondo, si immergerà nella volontà degli uomini (di morte), sperando che essi scoprano la volontà di Dio (di dono di sé). Accetta di morire il Nazareno, il Figlio di Dio, perché nessuno possa dire che ciò che egli annuncia è fantasia o delirio. Nella sua agonia, tutto diventa miracolo: al servo viene riattaccato l’orecchio, Pilato ed Erode diventano amici, Pietro piange il suo tradimento, Gesù viene riconosciuto “giusto” dal procuratore pagano, le donne vengono consolate e scosse, il ladro appeso alla croce perdonato e la folla torna a casa percuotendosi il petto, per l’incapacità di agire a difesa del Giusto perseguitato. È piena di inattesa dolcezza la morte di Dio. Amato amore Così sei amato, fratello, così sei accolta, sorella. Meditando la passione ancora oggi restiamo anche noi allibiti, costernati. Assistiamo allo spettacolo della morte di Dio, del dono totale di sé. Ecco Dio: pende dalla croce, morto per amore. Dio muore d’amore. Quando accogliamo il dolore e lo viviamo in comunione con il dolore di Cristo, quando, nonostante la violenza, siamo resi capaci di perdonare e donarci, anche la nostra vita produce inattesi miracoli, prodigi e conversioni, senza che neppure ce ne accorgiamo. Buon cammino fratelli e sorelle. Lasciamoci trascinare dalla narrazione, riviviamo in noi gli odori, i suoni, le luci e i colori di quei tre giorni in cui Dio morì donando se stesso. Fra Alberto e tutta la comunità dei frati Cappuccini


V Domenica di Pasqua La Chiesa è la Sposa che manifesta al mondo il mistero d'amore tra Dio e l'uomo in una circolarità d'amore che attraverso un continuo scambio stringe in unità il Padre, il Figlio, lo Spirito e la Comunità stessa. Questa è la realtà nuova, sorprendente, nata da quel comandamento unico ed inedito, che ha la caratteristica del linguaggio del cuore, lasciato da Gesù ai suoi prima di lasciarli. Nuova Gerusalemme, fidanzata, dimora di Dio, sposa, Chiesa del Signore: sono immagini che trascendono la storia e divengono verità di fede. Sono realtà da credere e da vivere. Infatti il battesimo è vivere la comunione con Dio amando. Che cosa c'è di più bello che l'amore? Ogni uomo sperimenta nella vita momenti di addio: istanti carichi di commozione, di tenerezza. Ci sono molti modi di accomiatarsi e Gesù lo ha fatto con semplicità e familiarità: prima di morire ha radunato i suoi intorno ad una mensa, scegliendo un momento di comunione, di intimità. Nel congedarsi, ha consegnato ciò che aveva di più caro: ha comandato ai suoi di amarsi l'un l'altro, come lui li aveva amati. Ha affidato a noi una responsabilità grande: quella di trasmettere l'amore di generazione in generazione. La passione di Gesù, la sua morte in croce, la sua risurrezione sono l'apice della sua glorificazione come Figlio, perché sono «le manifestazioni più grandi» della rivelazione di ciò che Dio è: Amore. E nel rivelare un Amore che giunge al sacrificio della stessa vita, chiede a chi vuole seguirlo di lasciarsi possedere e trasformare dal suo amore per viverlo nella relazione con gli altri. Ai discepoli non è chiesto di testimoniare con entusiasmo e generosità il piccolo, mediocre, meschino, reticente amore umano, ma l'amore divino: universale, illimitato, senza esclusività né preferenza. Testimoni perché beneficiari. Il nuovo in questo comandamento è l'appello alla fede nella risurrezione. Nella vita quotidiana, poi, ogni battezzato è chiamato ad amare perché Dio lo ama, ad amare come Gesù stesso ha amato. È nuovo, perché non sempre è un amore facile. Soprattutto quando, sulla scia di Cristo, il credente si trova a dover amare i nemici. Anche i nemici. Ma proprio il comandamento nuovo, vissuto in questa dimensione eroica dal sapore di croce, diventa il solo contrassegno che permette ad un uomo di essere riconosciuto come discepolo di Gesù. E solo questo amore, che si spinge fino ad amare i nemici, può far brillare sulla terra la luce di quel cielo nuovo e quella terra nuova del Regno dei cieli.


Abbiamo fra le mani la «novità» straordinaria da costruire con Dio. Discepoli del Signore come Paolo e Barnaba, i cristiani sono chiamati a porre la loro fede nel Signore, ad incoraggiare i fratelli e le sorelle a perseverare nella fede; ad aprire le loro porte e tutti coloro che vivono nello smarrimento e che attraversano momenti di prova; a trasmettere l'amore e la speranza che li abita. È bella una chiesa che raduna gli uomini nel nome del Signore. Alcune sono veri e propri monumenti storici e architettonici, ma sarebbero solo luoghi turistici se non accogliessero la Chiesa, quella costituita da pietre vive. Dio fa nuove tutte le cose! Questa verità acquista una dimensione particolare se ogni discepolo -­‐ cioè ogni membro della Chiesa -­‐ ricalcasse le orme di Cristo. Con la sua morte e la sua risurrezione, con il suo messaggio di amore ricevuto in eredità, la Sposa del Signore, ed ogni battezzato, sono chiamati ad essere artefici del Regno. Dio fa nuove tutte le cose: Giovanni lo afferma con serenità e con entusiasmo. È un entusiasmo che scaturisce dalla speranza intrisa di amore e di fede, lo stesso che dovrebbe intridere la vita di ogni cristiano. Ogni figlio di Dio è chiamato a riscoprire e a far scoprire in questo mondo di peccato e di morte che si può desiderare ed attendere un mondo in cui non vi sarà più morte, né lacrime, né ti-­‐ more o tristezza. È chiamato a non lasciar deperire la fede al contatto delle dure realtà del mondo presente, ma ad essere capace di sognare un «mondo altro», attenderlo nella fiducia e augurarsi ardentemente che esso venga. E chiamato a ritrovare quella fede ardente e quell'ardente supplica degli inizi della Chiesa: «Vieni, Signore Gesù». Fra Tak in questi giorni è a Rimini al Convegno del Rinnovamento e pregherà per voi. Uniti nella preghiera e nell'Amore del Signore PACE e BENE !


Dio è Trinità Di questi tempi è già difficile farsi ascoltare quando si parla di Dio. Ma quando si accenna a Dio, che è Trinità, c'è il rischio della sordità assoluta. Eppure è lo specifico della nostra fede. E' Gesù stesso che ci rivela, in ogni momento della sua storia, come Dio sia Padre-­‐Figlio-­‐Spirito. Ma tutto ciò quale impatto può avere sulla nostra vita? Abbiamo a che fare con un Dio che è Relazione di persone divine. Ognuna di esse è dotata di una propria identità, che si instaura nel rapporto con l'altra. La comunione non annienta le diversità, nè rinchiude Dio in se stesso. Dio per natura è dono nell'Amore. Proprio per questo Dio è relazione e comunione di persone, così prorompente da uscire da se, per donarci la pienezza della vita. Perciò nel dire Dio Trinità, scopriamo che Lui vive per farci esistere, per farci godere del suo amore, per trasformarci in Lui. Se siamo fatti come Lui, dobbiamo sviluppare le nostre identità nelle relazioni e in spirito di comunione. Esistere per Dio significa uscire dai nostri sterili individualismi e vivere in Lui, con Lui e di Lui. Pace e bene. (fr. Carlo B.)


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Un incontro che da vita all’Amore La scorsa domenica Gesù ci ha parlato di un fariseo e di un pubblicano, che pregavano al Tempio. Ma solo la preghiera del pubblicano fu ascoltata da Dio e sembra essere giunta oggi a compimento: nel brano evangelico abbiamo infatti un rappresentante autorevole dei pubblicani, Zaccheo di Gerico, e attorno a lui tanti falsi giusti, farisei del “buon senso” e del “si è fatto sempre così”.

L’anelito che saliva dal cuore del peccatore, ha trovato salvezza in Gesù, che passava accanto a lui, lungo la via. Resta per noi un mistero capire come mai un uomo così ricco come Zaccheo, desideri vedere Gesù a tal punto da arrampicarsi su un albero. Perché rendersi ridicolo agli occhi dei concittadini o perdere del tempo (il tempo è denaro) dietro a questo “rabbì”. Non bastava vederlo in lontananza. D’altronde Gesù “doveva passare di là” (Lc 19,4). Quella che muoveva Zaccheo non era una semplice curiosità e nel proseguo del racconto capiamo che questo uomo aveva il cuore turbato e pensava di trovare pace solo “vedendo Gesù” (“ Venga al tuo volto la mia supplica, salvami secondo la tua promessa.” Sal 119,170). Tutto ci fa intendere chiaramente che vi è una predisposizione, non ancora chiara, ma assai forte, da parte di Zaccheo a lasciarsi incontrare da Gesù, incontrare qualcuno che entrando nella sua vita gli avrebbe apportato un senso nuovo. Questo uomo dalla “piccola statura” (19,3), simbolo della nostra umanità piccola, frustrata dal dover troppo spesso guardare agli altri dal basso in alto, per sfuggire a questa continua umiliazione, rischia di trasformarsi in una sorta di arrampicatore sociale, uno scalatore per potersi trovare in una posizione sicura di rilievo. Per essere felici però si accorge amaramente che non basta guardare le cose dall’alto in basso. La supremazia esige non solo fatica, ma prima di tutto comporta tutta una serie di compromessi con la propria coscienza, crea uno spazio vuoto nel cuore pieno di apparente autosufficienza. Zaccheo era ricco. Zaccheo era capo. Zaccheo era solo! Gli alberi sono sempre stati, fin dai tempi degli uomini primitivi, luoghi di momentanea sicurezza per difendersi dai pericoli della vita. Ma non si può vivere sempre come delle scimmie, saltando di ramo in ramo. Questa affannosa ricerca e conquista di una posizione di prestigio, non può che portarci allo sfinimento delle energie vitali. Occorre arrendersi e nella tempesta ecco una voce che ci “chiama per nome”: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». (Lc 19,5) 1. Chiamati per nome: Dio in Gesù manifesta il suo conoscerci fino in fondo, nei sogni, nei desideri, nelle gioie, nelle speranze, nelle delusioni, nei dolori. Lui conosce tutto di noi. Ci conosce per nome. (“Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Lc 10,20) 2. Gesù si fa piccolo per incontrarci: Zaccheo era sul suo albero di privilegio, mentre Gesù in basso sulla strada della vita. Passando, il Signore Gesù “alzò lo sguardo”(Lc 19,5) e con questo gesto manifesta la divina “compassione” (“Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento.” Sap 11,23) che guarda ad ognuno di noi come da sempre pretendiamo che si guardi, dal basso in alto. Il Signore Gesù manifesta a Zaccheo e a noi tutti un altro modo di vivere, un altro modo di guardare al mondo, il Suo, in cui si amano “tutte le cose esistenti” senza nessun disprezzo, neanche per le cose più piccole, neppure per le persone di “piccola statura”, poiché se Dio “avesse odiato qualcosa, non l’avrebbe neppure formata” (Sap 11,24) www.parrocchiamadonnaloreto.it

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3. Gesù viene nella nostra vita, a casa nostra: Gesù va a casa di Zaccheo per fargli sentire che lui è importante agli occhi di Dio, ma soprattutto perché finalmente si senta all’altezza di se stesso, senza complessi o frustrazioni. Tu vali molto di più di quello che hai, perché sei un “figlio amato di Dio”. 4. Tutti mormoravano: a volte il bene di Dio fatto agli altri invece di aprirci alla speranza, ci apre all’invidia. Troppo spesso nella vita quotidiana siamo nemici di quella gioia che Gesù regala a Zaccheo. Invidiosi del bene altrui invece di aprirci alla gioia ci arrocchiamo nel nostro orgoglio, affermando che Dio è ingiusto. («Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”». Lc 5,31-­‐32) 5. Un uomo che si sente amato: così Zaccheo da “piccolo” di statura diventa “grande”, come dimostra la scelta che liberamente compie: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,9). Diventa grande perché decide di vivere alla grande. Gesù può ancora oggi compiere il miracolo nella tua vita. Basta lasciarsi incontrare e lasciarsi amare, perché “il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10). Il Signore vi dia Pace. Fra Alberto.

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Una fede pasquale La fede pasquale nasce a contatto di una tomba vuota. Come dire: si parte alla ricerca di qualcosa chi dia sapore alla nostra vita, quando ci troviamo la strada sbarrata davanti a noi. Eppure Qualcuno ha rotolato via la pietra che ci impedisce di continuare a vivere. Chi sarà? Dove sarà? Andiamo a cercarlo… E la vita continua… Incominciamo a leggere la nostra vita in profondità, cogliendo in essa un’armonia nuova… È la sensazione di essere sostenuti dalla benevolenza di Dio. Poi un giorno, dulcis in fundo, veniamo a contatto con la Parola di Dio e sciacquiamo i nostri panni nella sua acqua. Scoprire il volto di Cristo affiorare dal profondo di noi stessi. Così è la vita. Buon cammino, fratelli! Fra Carlo B.


“Gesù è vivo veramente” !!! Oggi una Pasqua divina ci è stata rivelata, una Pasqua nuova, santa, una Pasqua misteriosa, una Pasqua solennissima. Pasqua, il Cristo redentore, Pasqua immacolata, Pasqua grande, Pasqua dei credenti. Pasqua che apre le porte del Paradiso, Pasqua che santifica tutti i fedeli. (dalla liturgia bizantina) Pietro e Giovanni corrono nel silenzio della città ancora immersa nel sonno. I mercanti tirano fuori le mercanzie per la giornata dopo il sabato di riposo. Il sole si sta alzando e inonda di luce la pietra che riveste le abitazioni di Gerusalemme. Tra gli stretti vicoli della città, calpestando il selciato appena rifatto dal grande re Erode, il fiato corto, i due escono dalla città. Corrono lasciando al loro fianco la cava di pietra in disuso riutilizzata dai romani. I pali verticali, come alberi rinsecchiti, svettano in alto, aspettando nuovi condannati. Il sangue rappreso tinge di rosso il legno scuro. Corrono, ancora, il fiato manca, la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, si attarda; scendono rapidamente oltre la cava. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba di Giuseppe di Arimatea è aperta, la pesante pietra che ne bloccava l’ingresso ribaltata. Giovanni aspetta, le tempie pulsano, ansima. Ripensa al volto sconvolto di Maria che, dieci minuti prima, lo aveva tirato giù dal letto parlando del furto del corpo Gesù. Arriva Pietro. Giovanni lo guarda lungamente, poi abbassano la testa ed entrano. Nulla. Gesù è scomparso. Nulla, solo il lenzuolo, come sgonfiato, afflosciato e la mentoniera al proprio posto, come se Gesù si fosse dissolto. Nulla, Gesù è scomparso. Tutto è iniziato da quella corsa. Quella tomba vuota, ultimo drammatico regalo fatto a Gesù da parte del discepolo Giuseppe di Arimatea, ricco e potente, che non aveva potuto salvare dalla morte il suo Maestro, è rimasta lì, vuota, a Gerusalemme, muta testimone della resurrezione. Tutta la nostra fede è basata sull’assenza di un cadavere. La morte è stata sconfitta, amici. Il Dio nudo, appeso, osteso davanti a noi, il Dio sconfitto e straziato, il Dio deposto sulla fredda pietra non è più qui, è risorto. Risorto, amici. Non rianimato, non ripresosi miracolosamente, non vivo nel nostro ricordo e amenità consolatorie di questo genere. Gesù è davvero vivo, risorto, presente per sempre, uguale a prima ma glorioso come mai prima. Non è facile credere a questa notizia, lo so bene. Incontreremo, in questi cinquanta giorni, la fatica che hanno fatto gli apostoli, che è la nostra, a convertire il cuore a questa sconcertante novità. Ci vuole fede per superare il proprio dolore. Tutti abbiamo una qualche ragione per sentire vicino Gesù crocifisso. Tutti ci commuoviamo davanti a tale strazio, tutti sappiamo condividere il dolore che è esperienza comune di ogni uomo. Ma gioire no, è un altro paio di maniche, gioire significa uscire dal proprio dolore, non amarlo, superarlo, abbandonandolo.


È Pasqua. Una Buona Novella, inaudita, risuona in un grido: Gesù è vivo! Ma il messaggio di Pasqua, compimento di un mistero, non tocca solo il Cristo nella sua risurrezione, ma ogni credente, rivelando ad ogni uomo il proprio destino. I cristiani sono risorti con Cristo. Non solo risusciteranno nell’ultimo giorno, ma sono già dei risorti. Con il Battesimo sono già stati sepolti con Cristo. Con lui sono rinati alla vita nuova nella fede. La vita eterna irrompe nella storia, nell’oggi, con la risurrezione del Signore. Come figli del Padre nel Risorto sperimentano la gioia e la pace. Stamani corriamo amici, anche noi. Pasqua, al di là delle uova di cioccolato e delle campane in festa è la vittoria dell’amore, la pienezza della vita. La scommessa, terribile, di un Dio abbandonato alla nostra volontà è vinta. A noi, ora, occorre credere, vivere da risorti, vedere i teli di lino e di riacquistare coraggio nella testimonianza, come Giovanni e Pietro. A noi, discepoli affannati nella corsa, sempre in ritardo rispetto alla forza dirompente di Dio, resta solo la sfida della fede. Gesù è risorto, amici, smettiamola di cercare il crocefisso, smettiamola di piangerci addosso e di lamentare un Dio assente. Gesù è risorto, amici. È la Pasqua la Pasqua del Signore, gridò lo Spirito. Non una figura, non un mito, non un’ombra ma la Pasqua vera del Signore.


Domenica di Pasqua -­‐ Tempo di Pasqua -­‐ Anno C E' Pasqua; è la festa centrale dei cristiani, dove la loro fede poggia tutta sulla risurrezione. Con Gesù la morte non è la fine: l'ultima parola è quella della vita. In questo senso l'evento pasquale riguarda non solo i cristiani, ma avanza la pretesa di riguardare tutti gli uomini; è un annuncio di speranza e di futuro per un mondo che, dietro i molti tentativi fatti per nasconderlo, sembra inevitabilmente segnato proprio dalla morte. E non solo quella naturale, che ci tocca specialmente nelle persone che amiamo. Più tragica è la morte violenta, provocata dall'incoscienza o dalla malizia degli uomini: dalle guerre, dalla droga, dalle mafie, dalla fame, dagli incidenti stradali, dalle malattie evitabili, dall'intolleranza, dalla violenza sopraffattrice. Ma ecco che, in questo quadro disperante, è brillata, e continua a splendere, la luce del Risorto, che continua a indicare agli uomini la via che porta a lui, vivente in eterno. Ai cristiani spetta il compito di annunciarlo, di generazione in generazione; per questo Gesù ha istituito la sua Chiesa, che è la sua famiglia, l'insieme di quanti ripongono la propria vita nelle sue mani, e pur consapevoli di avere per primi bisogno della sua misericordia, cercano di renderne partecipi quanti ancora non lo sanno o l'hanno dimenticato. La Pasqua, quando è autenticamente vissuta, comporta una gioia tanto grande da non poterla contenere nel privato della propria intimità; la gioia vera si espande, e si accresce quando è condivisa. Tra i diversi brani di vangelo proposti dalla liturgia pasquale si legge anche quello in cui Luca racconta, prima delle manifestazioni del Risorto, i fatti della mattina di Pasqua. Le pie donne si recano al sepolcro per completare sul corpo di Gesù i riti funerari, forzatamente interrotti all'arrivo del sabato che secondo la legge impediva ogni lavoro. Ma trovano il sepolcro aperto e vuoto: si intuisce la loro perplessità, il loro ansioso interrogarsi su quanto poteva essere accaduto. Lo comprendono solo per un intervento dall'alto: "Ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante". Ci è così raccontata un'esperienza indiretta del risorto, la constatazione della tomba vuota e di alcune tracce. Questi segni sono però sufficienti per muovere la fede: "Entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette". Non è un'esperienza inferiore alle altre, anzi è significativa di come anche oggi un cristiano può partecipare all'evento centrale della propria fede, la Risurrezione, attraverso i segni dell'amore di Dio, anche se non vede il Risorto in carne ed ossa. Giovanni, il discepolo amato dal Signore, anticipa la beatitudine di coloro che, a detta di Gesù, "pur senza aver visto crederanno". E' l'amore capace di aprire alla fede, e non pretesa di "vedere per credere".Tornando alle donne al sepolcro, l'evangelista nota due "uomini in abito sfolgorante" i quali ricordano loro che Gesù aveva predetto la sua morte e la risurrezione. Quello che in quel momento i discepoli non avevano capito e perciò non avevano considerato, ecco, si è avverato: l'hanno visto crocifisso, ed ecco, il terzo giorno è risorto. Le donne allora si recano subito a dirlo agli apostoli, presso i quali però -­‐ come si sarebbe ripetuto tante volte in seguito ai testimoni del vangelo -­‐ non trovano fiducia: "Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse". Tuttavia, uno di loro è preso dal dubbio, e ritiene sia il caso di verificare:


"Pietro si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l'accaduto". I teli. Sta per cominciare a Torino l'esposizione della Sindone, dove trovano evidenza i segni di come un uomo crocifisso possa aver sofferto. Ma quanti si recheranno a vederla non dovranno dimenticare che, come Pietro al sepolcro, del Crocifisso essi vedranno i teli, non lui. Lui, come aveva predetto, è risorto.


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Omelia del 5 Settembre 2010 -­‐ XXIII Domenica di Tempo Ordinario Anno C -­ Lc 14,25-­33 «Siccome molte folle andavano con lui, Gesù si voltò e disse…»: Gesù non esita a mettere in guardia i tanti che lo seguono, attratti dalla sua autorevolezza, e pone tutti di fronte alle esigenze radicali della sequela, anche a costo di scoraggiare chi si candida con troppa facilità a seguirlo (cf. Lc 9,57-­‐ 62). Colpisce il fatto che questa preoccupazione di Gesù non sia la nostra: anzi, siamo così spesso in ansia per il numero basso, per la scarsità dei cristiani «praticanti»… Ebbene, per ben tre volte nel brano evangelico odierno Gesù parla di un’impossibilità («non può essere mio discepolo») e annuncia che vi sono alcune rinunce da compiere per vivere alla sua sequela, pena il fallimento della sequela stessa: rinunce però – diciamolo subito – che hanno senso solo se vissute liberamente e per amore di Gesù Cristo, non per costrizione o spirito di schiavitù, magari mascherato da virtù! Gesù dice innanzitutto: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Questa parola è illuminata da un’altra pronunciata da Gesù quando vennero a riferirgli che i suoi famigliari, da cui egli si era allontanato per condurre una vita itinerante, tutta tesa ad annunciare e testimoniare il Regno di Dio, lo cercavano con insistenza: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica». Sì, per il cristiano il legame d’amore con Gesù, Parola di Dio fatta carne (cf. “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;e noi abbiamo contemplato la sua gloria,gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” Gv 1,14), deve avere l’assoluta precedenza su ogni altro vincolo, anche di sangue: è Cristo che egli deve amare con tutto il cuore, la mente e le forze (cf. “Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze.” Dt 6,5). Attenzione, non si tratta di una richiesta totalitaria: non bisogna amare lui soltanto, ma lui più degli altri nostri amori; bisogna amare, come lui ha amato (cf. “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.” Gv 13,34), tutte le altre persone, senza alcuna distinzione. Poi Gesù afferma: «Chi non mi ama più della propria vita, non può essere mio discepolo». Noi siamo costantemente tentati di preservare la nostra vita a ogni costo, di lasciar prevalere quella terribile pulsione dell’egoismo che ci spingerebbe a vivere non solo come se gli altri non esistessero, ma anche come se Gesù Cristo non ci fosse. Ebbene, un cristiano maturo deve prima o poi giungere a comprendere che la propria esistenza trova senso e vale la pena di essere vissuta solo lasciando vivere Cristo in sé (cf. “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” Gal 2,20); il suo amore infatti vale più della vita (cf. “Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode.” Sal 63,4), al punto che per lui dovremmo essere pronti anche a dare la nostra vita… È lui che ha detto: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24). E insieme a Cristo ciascuno di noi può anche portare la propria personalissima croce quotidiana, obbedendo così al suo monito: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo». Per chi vive in questo modo risulta quasi naturale rinunciare anche ai propri beni, mettendo in pratica il monito di Gesù: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Si tratta semplicemente di saperli usare a servizio dei fratelli, di saperli condividere con gioia, senza lasciarsi definire da essi o rendere schiavi dalla malattia del possesso e dell’avarizia. Se infatti Gesù è il tesoro della nostra vita (cf. “Dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” Lc 12,34), come potremo ancora essere preda dello stupido «inganno delle ricchezze» (“Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione www.parrocchiamadonnaloreto.it

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della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto.” Mt 13,22), fino a smarrire il nostro cuore dietro ad esse? Gesù accompagna queste sue parole con due brevi parabole. Come per costruire una torre o affrontare una battaglia è indispensabile calcolare in anticipo con intelligenza le proprie forze, così anche per seguire lui: il discepolo, infatti, è chiamato non solo a incominciare ma anche a «portare a compimento» la sua sequela. Sì, la vita cristiana non è questione di un momento o di una stagione, ma richiede perseveranza fino alla fine, fino alla morte. E la perseveranza esige un grande amore per Gesù Cristo, l’amore da cui nasce la disponibilità ad andare con lui anche dove noi non vorremmo ( come ha fatto Pietro e tutti gli altri); infatti sarà lui, Cristo, a “portare a compimento ciò che ha iniziato in noi” (cf. “Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.” Fil 1,6) e tutto ciò implica la fede totale da parte nostra solo in Lui, “mio Dio e mio Tutto” come soleva dire san Francesco. (Enzo Bianchi)

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VI Domenica di Pasqua Amare Gesù vuol dire aderire alla sua vita con la totalità della nostra esistenza. Non c’è altro modo di volergli bene. L’amore non è un sentimento relativo. È un assoluto: è vita, intimità profonda di comunione. In questo caso comunione tra il Padre e chi, tramite Gesù, si apre ad accoglierlo. Allora sì che Dio può manifestarsi nel suo Spirito ed abitare in noi. Egli ha il compito di renderci presente il Signore e di dare spessore di interiorità ai nostri giorni, alla nostra vita.: far scomparire l’uomo naturale, che fa conto sull’egoismo e sui vantaggi materiali, e far emergere in noi l’uomo spirituale, che si fonda sull’amore autentico verso Dio e i fratelli. L’ulteriore dono della pace del cuore ci aiuterà ad accogliere con maggiore docilità, anche in mezzo alla sofferenza, la volontà di Dio. Pace e bene (fra Carlo B.)


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La moltitudine immensa degli Amati da Dio Qualche tempo fa citavo una frase di Léon Bloy: “C’è una sola tristezza al mondo, quella di non essere santi”. E in questi giorni uggiosi di inizio novembre, a volte la tentazione della tristezza e dello scoraggiamento assale il nostro cuore, ricordando i nostri cari mancati o ripensando ai diversi problemi della nostra vita. Se questo è vero, è altrettanto vero che la festa di oggi è fatta apposta per fugare tale tristezza, mostrandoci appunto come tanti nostri fratelli e tante nostre sorelle la santità l'hanno raggiunta, cioè una vita riuscita, felice, piena nonostante tutte le prove e le incomprensioni della vita. E se loro questo itinerario l'hanno percorso, perché non potremmo e non dovremmo percorrerlo anche noi? Ieri abbiamo letto la stupenda pagina lucana di Zaccheo. Nel mondo ebraico l’idea di peccato era strettamente legata all’idea di “sbagliare il bersaglio”: peccare voleva dire “sprecare la vita” senza giungere alla meta dei nostri giorni. E qual è la meta dei nostri giorni? Appunto una vita “santa”, una vita felice perché io l’ho vissuta per Dio e per i fratelli, una vita piena di senso, nelle gioie e nei dolori, nelle speranze e nelle delusioni, una esistenza vissuta guardando alla vita di Gesù. Zaccheo si lascia incontrare da Gesù e la sua esistenza acquista un senso nuovo, giusto, vero. La nostra tristezza, in questa odierna celebrazione dei Santi (fra cui ora c’è anche Zaccheo), allora diventa gioia, esaltazione dello spirito, fiducia nell’amore benevolente del Padre, impegno generoso di fedeltà a Cristo, volontà di imitazione, sicurezza di aiuto e di intercessione non di uno solo ma di «tutti i Santi», piccoli e grandi, di ieri e di oggi, perché anche noi realizziamo fino in fondo il «disegno» di Dio sulla nostra vita. Perché, in realtà, questa è la «santità»: permettere a Dio di portare a compimento in noi il suo progetto di amore. Una festa, dunque, quella di oggi, dai molti significati: un richiamo pressante alla santità, un invito alla gioia come per una festa di famiglia, una nostalgia verso la città celeste, un bisogno di supplica presso chi può aiutarci a raggiungere la mèta altissima della nostra assimilazione a Cristo, un desiderio di contemplare e di imitare dei «modelli» in cui Dio stesso sembra essersi rispecchiato ed anche compiaciuto. “Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».” (Apocalisse 7,9-­‐10) In quella moltitudine ci sarai anche tu, con tutte le persone che ami. In quella moltitudine di saremo tutti, perché tutti amati da Dio in Gesù Cristo, che ha donato la sua vita perché tutti noi avessimo la Vita in Lui, che è pienezza di Amore, di Pace e di Bene. Buona Festa a tutti Felici in Gesù Fra Alberto GUARDA ANCHE L’ARTICOLO “UNA VITA CHE DA’ DIRITTO AL TITOLO DI SANTI” www.parrocchiamadonnaloreto.it

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