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he di cronac

Spesso, fra i ricchi, la generosità è soltanto una forma di timidezza Friedrich Nietzsche

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QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 26 GENNAIO 2011

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Le stime internazionali per i nostri conti nel 2011 restano invariate, ma peggiorano le previsioni per il 2012

L’Europa non aspetta Ruby Calo del Pil a Londra, paura nella Ue. Fmi: «In Italia ripresa incerta» In Gran Bretagna il prodotto scende a -0,5% e il Fondo monetario lancia l’allarme consumi. Napolitano avverte l’esecutivo: «Bisogna fare ancora di più per forzare la crescita economica» IL CAVALIERE INESISTENTE

IL DISCORSO DEL PRESIDENTE

Contro la crisi ci vorrebbe un governo

Così risponde Obama al nuovo “incubo declino”

di Enrico Singer

di Gianfranco Polillo

e cattive notizie arrivano da più fronti. Dal Fondo monetario internazionale che ha rivisto al ribasso le previsioni della crescita italiana. Da Londra dove è tornato il segno meno davanti alla percentuale di variazione del Pil. a pagina 2

n attesa che il fuso orario ci permetta di conoscere nello specifico ciò che Barack Obama ha detto nel suo tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, atteniamoci alle anticipazioni, la cui attendibilità resta, tuttavia, da verificare. a pagina 4

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Parla Giorgio La Malfa

Parla Luigi Paganetto

«Cameron deve salvarsi dal crac della finanza»

«Modello tedesco, anche in politica»

«La realtà anglosassone è simile a quella americana, non al resto d’Europa: da noi mancano strategie per rilanciare i consumi»

«Grande coalizione tra i partiti e solidarietà tra lavoratori e imprenditori: ecco la ricetta per salvare il nostro Paese»

Gabriella Mecucci • pagina 5

Riccardo Paradisi • pagina 3

Terzo polo e Pd contro Calderoli

Ancora uno stop al federalismo

Francesco Pacifico • pagina 6

Vi ricordate Asia Bibi? Ora bisogna salvarla di Luisa Santolini a Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sancisce che «ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche e nel culto».

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a pagina 10

Al Cairo scontri in piazza con la polizia. A Beirut si forma il nuovo governo

Il Mediterraneo è una polveriera Sangue in Egitto. E intanto il Libano sceglie Hezbollah di Antonio Picasso

La Lega presenta i primi numeri della riforma ma incassa il no secco di tutte le opposizioni

Oggi manifestazione a Montecitorio

ra Beirut e il Cairo, ieri, si è scatenata la furia delle popolazioni del Mediterraneo. Per motivi che sembrano distanti fra di loro, ma che a ben vedere hanno più di una similitudine. I libanesi hanno protestato nelle maggiori città del Paese contro la nomina del nuovo primo ministro, Najib Mikat, appoggiato e portato al potere da Hezbollah. Gli egiziani, invece, hanno scelto la piazza per chiedere al presidente “eterno” Hosni Muba-

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rak di andarsene: oltre 30mila persone sono scesi per strada e hanno affrontato con sassi e bastoni i poliziotti intervenuti per sedarli. Ci sarebbe anche, fra le uniformi, una vittima. Le due proteste sono accomunate da due popoli che si agitano fra dittature vecchio stile e aumento dell’islam radicale, che ha puntato il Vicino Oriente per impiantarci le caserme del prossimo terrore.Vantano una vicinanza con l’Occidente non solo geografica, ma commerciale e culturale. a pagina 12

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON I QUADERNI) • ANNO XVI • NUMERO 17 • WWW.LIBERAL.IT • CHIUSO IN REDAZIONE ALLE ORE 19.30 EURO


la polemica

prima pagina

Il dramma di un Paese ingessato dal suo premier

pagina 2 • 26 gennaio 2011

Ci vorrebbe un governo contro la crisi di Enrico Singer e cattive notizie arrivano da più fronti. Dal Fondo monetario internazionale che ha rivisto ancora una volta al ribasso le previsioni della crescita dell’economia italiana. Dalla Gran Bretagna dove è tornato il segno meno davanti alla percentuale di variazione del Pil nel quarto trimestre del 2010. Da Bruxelles dove tra pochi giorni – il 4 febbraio – ci sarà un vertice dei capi di Stato e di governo della Ue per affrontare uno dei temi che vedono il nostro Paese più indietro degli altri e senza iniziativa: l’innovazione e l’efficienza energetica. Nuove emergenze e vecchi ritardi che rappresentano l’ennesima dimostrazione che la crisi non è finita. Peggio: che la ripresa nel resto del mondo e anche in Europa c’è, ma che l’Italia resta indietro. Che ostinarsi a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, ripetendo il mantra della tenuta dei conti pubblici che ci fa stare meglio di chi sta peggio, è una magra consolazione. Anzi, può rivelarsi un tranello perché rischia di costruire la grande illusione di avere già ottenuto il risultato più importante: la stabilità. Mentre il traguardo da raggiungere è la crescita. Altrimenti stabilità significa stagnazione. Che è l’anticamera della recessione. Quantomeno, è uno stallo che ci fa perdere posizioni nelle classifiche europee. E, attenzione, non c’è soltanto la solita Germania che tira. Addirittura la disastrata Spagna, che per quest’anno sarà l’unico Paese dell’eurozona ad andare peggio di noi (con uno striminzito +0,6 per cento), ci supererà nel 2012 con un +1,6 per cento contro il nostro 1,3.

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Le buone notizie dovrebbero arrivare dal governo. Ma non è così. Ieri, proprio mentre venivano diffuse le previsioni del Fmi, da Palazzo Grazioli partiva l’annuncio di un vertice convocato da Silvio Berlusconi che aveva deciso di «convocare tutto lo stato maggiore del Pdl». L’illusione che si potesse trattare di una riunione dedicata ai temi che avevano fino a quel momento dominato la giornata, però, è durata un attimo. Il vertice era stato deciso per affrontare ancora una volta il caso Ruby e le strategie per rimanere in qualche modo in sella. Tanto che l’unico ministro invitato al “summit”non era Giulio Tremonti, ma il Guardasigilli, Angelino Alfano. Altro che crisi economica e declassamento dell’Italia. Per Berlusconi la preoccupazione numero uno sono gli scandali e i processi. Il resto può attendere. Ma questa è, se possibile, notizia peggiore dell’outlook del Fondo monetario. Appena pochi giorni fa Emma Marcegaglia lo ha spiegato meglio di qualsiasi statistica: da sei mesi l’azione del governo è ferma, mentre le imprese e tutto il Paese hanno bisogno di iniziative per agganciare la crescita. Quelle sue parole hanno sollevato reazioni stizzite tra i ministri di Berlusconi. Ma lei le ha confermate anche ieri in una lettera a Renato Brunetta che rivendicava la bontà di misure come la semplificazione e la riforma della pubblica amministrazione.

Certo, «il peggio è alle spalle» e nel mondo ci sono segni di ripresa, ma proprio per questo, secondo la presidente di Confindustria, c’è bisogno di un «ulteriore e più intenso» sforzo del governo. E in Europa ci sono anche altri appuntamenti da non perdere. Uno per tutti, la corsa alla presidenza della Bce. Il mandato di Jean-Claude Trichet scade a fine ottobre, ma la partita si decide adesso e fra i candidati alla successione c’è il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, che deve vedersela con il tedesco Axel Weber sostenuto da Angela Merkel. Chissà se Berlusconi avrà il tempo di occuparsene.

il fatto Per le economie dell’area Ue continua l’allarme: la ripresa c’è solo in Germania

Fumo da Londra, paura in Europa Il Fondo monetario dice che è ferma proprio mentre la Gran Bretagna va indietro. «Forzare la crescita», dice Napolitano: ma in Italia non c’è nessuno che lo ascolti di Errico Novi

ROMA. La scossa? Eccola. A interrompere lo stato di alterazione psichica in cui il caso Ruby ha fatto precipitare il dibattito, provvede il Fondo monetario internazionale. Arrivano di prima mattina i dati sulla crescita, e quelli dell’Italia – già non particolarmente brillanti – sono rivisti al ribasso: invariati per il 2011 (all’1 per cento), corretti all’1,7 per cento (quindi dello 0,1 in meno) per il 2012 . Non solo, perché tra i motivi di allarme suggeriti dal Fmi ce ne sono almeno un paio che chiamano in causa esplicitamente il Belpaese: primo, chi accusa «elevati livelli di debito» dovrebbe metter mano a politiche di risanamento ancora più rigorose; secondo, il precedente ammonimento si rende ulteriormente necessario viste le turbolenze sui debiti sovrani, non solo per Irlanda, Grecia e Portogallo, ma anche per la Spagna e, «seppur in misura minore», per l’Italia. Non c’è motivo di stare allegri, dunque. Né di fare feste e concedersi relax. Serve piuttosto restare vigili, considerato che, sempre secondo la massima autorità monetaria internazionale, la situazione finanziaria globale sarà pure in via di miglioramento, ma «la stabilità resta a rischio». E il fattore di pericolo maggiore, ancora una volta, non suona estraneo ai conti ita-

liani: è «l’interazione fra i rischi dei debiti sovrani e del settore bancario, che si sono intensificati».

Cosa dovrebbero fare, dunque, gli Stati, secondo l’Fmi? «La politica deve assicurare la ristrutturazione dei bilanci delle banche e degli Stati, e continuare la riforma del mercato». Serve dedizione, vigilanza e operosità. Il messaggio è questo. A raccoglierlo con sollecitudine, e a rilanciarlo, ci pensa il presidente della Repubblica. «Ognuno faccia la propria parte», chiede durante la cerimonia di consegna dei premi “Qualità Italia”. Soprattutto «è un imperativo andare oltre la crescita indicata nelle previsioni della Banca d’Italia», occorre «forzare la crescita prevista che è troppo al di sotto delle nostre esigenze ed è bassa rispetto alle previsioni in Europa e nel mondo».Tutto vero. Napolitano legge bene i dati. Che appunto riferiscono di un’Italia messa non benissimo rispetto alla stessa media della zona euro, confermata all’1,5 per il 2011 e in calo anch’essa di un decimale di punto per l’anno dopo, per una previsione pari a +1,7. Certo, la Spagna è messa peggio, giacché sempre secondo le stime dell’Fmi perde un decimale quest’anno (da un già modestissimo +0,6) e tre decima-


l’intervista

«Modello tedesco, anche in politica» «Governo unitario e solidarietà economica: ecco la ricetta per l’Italia», dice Luigi Paganetto di Riccardo Paradisi ’uscita dell’Italia dalla crisi sarà più lenta rispetto ad altri Paesi dell’Unione - dice il Fondo monetario internazionale nel suo rapporto per il 2010 - mentre si dà atto al nostro Paese d’aver mantenuto più di altri i conti in ordine.

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Eppure, se ci si arresta a questo quadro, dice a liberal l’economista Luigi Paganetto, si è destinati a non comprendere in profondità lo scenario in cui siamo coinvolti e di conseguenza a non uscire da una crisi come quella che mette in fibrillazione nazioni e mercati dal 2008. Dalle crisi come questa si esce diversi da come ci si è entrati. «Dobbiamo essere consapevoli infatti che lo schema tradizionale che racconta d’una crisi a cui segue una ripresa è datato e parziale, è un modo superato di porre il problema. Frutto di un automatismo che nasce da una visione congiunturale. Questa è una crisi strutturale, che segna la modifica dell’assetto economico mondiale, dei suoi equilibri, del rapporto tra le grandi aree economiche del pianeta. Siamo di fronte a paesi emergenti o appena emersi che dal sudest asiatico al Brasile, passando per la Turchia, lanciano alla vecchia Europa una sfida storica. Una sfida che vede tutto il vecchio continente e anche gli Stati Uniti in affanno. Con un’eccezione paradigmatica – dice Paganetto – che è la Germania la quale prima di altri s’è resa conto che a questa mutazione si risponde andando la dove ci sono i trend di crescita, in quelle aree di economia

emergente dove è necessario essere con la propria attività prima di subirne i contraccolpi». La Germania ha creato una condizione di vantaggio «perché da un lato ha utilizzato subito e con molta determinazione la sua capacità d’espansione verso l’est europeo e dall’altro ha spostato il suo baricentro verso i paesi del sudest asiatico senza però smobilitare la sua cultura. I tedeschi hanno investito su politiche per l’innovazione e l’export, hanno messo a ri-

I tedeschi hanno investito su politiche per l’innovazione e l’export, mettendo a riparo l’economia nazionale

paro l’economia nazionale senza chiuderla in una ridotta». Inutile, secondo Paganetto, recriminare sui disequilibri della globalizzazione. «È vero, il tasso di cambio sullo yuan non si fissa sul mercato, il costo del lavoro in Cina e bassissimo e i diritti sindacali quasi inesistenti – ma questo fa parte dell’attuale dinamica del mondo. È auspicabile che questo cambi naturalmente, e sta cambiando, ma intanto non possiamo chiuderci nell’illusione della fortezza Europa». In particolare l’Italia deve fare un’operazione di tipo diverso e Paganet-

li per il 2012. Ma è con la Germania che il paragone diventa impietoso: il Pil di Berlino vale un +2,2 per cento nel 2011 (previsione migliorata di due decimali) e un +2 per cento per l’anno dopo (dato confermato).

Siamo dunque in ritardo rispetto all’area della moneta unica. Figurarsi nel confronto con le economie emergenti e con la crescita mondiale nel suo insieme. Nel primo caso le stime dell’Fmi per quest’anno e il prossimo sono in entrambi i casi del +6,5 (con un decimale in più rispetto all’outlook per il 2011). L’Europa continua a procedere con lentezza e al suo interno l’Italia frena in modo ancora più vistoso. Imbarazzante è quindi il raffronto con Cina e India, che viaggiano tra il +9,6 e il +8 per cento, e che però inducono il Fondo monetario a evocare un rischio di «surriscaldamento» per l’inflazione delle materie prime e l’afflusso di capitali stranieri. Sono tutte per l’Europa, in ogni caso, le raccomandazioni più allarmate provenienti da Washington: si suggerisce vivamente di aumentare la «dimensione dell’European financial stability facility», cioè del sistema di salvataggio dei debiti sovrani. Serve più flessibilità. Ma prima di pensare alla terapia d’emergenza, aggiungono all’Fmi, bisognerebbe appunto «compiere progressi con piani di risanamento di medio termine ambiziosi e credibili». Insidie arrivano dai «Paesi periferici dell’area euro» che potrebbero ampliarsi fino a toccare il cuore dell’Europa.

to cita di nuovo la Germania: «I tedeschi hanno rafforzato le competitività nella chimica, nella siderurgia, nell’automobile, l’hanno lanciate sul mercato internazionale e l’hanno fatto senza sacrificare la cultura dell’economia sociale di mercato. Il settore automobilistico in Germania ha salari più alti del nostro Paese e nell’auto si è messa in campo una politica di consenso sociale – come la partecipazione agli utili – che ha quasi azzerato scioperi e tensioni. Non si tratta di ricalcare il modello tedesco ma insomma noi siamo ancora alle società pubbliche nella gestione dei servizi indecisi di fronte allo svuotamento necessario delle sacche di spesa che non sono produttive, al mettere in competizione tra loro le pubbliche amministrazioni sui servizi redditizi, per non parlare dei ritardi in termini di innovazione e ricerca». Insomma non basta aspettare la ripresa. Bisogna però evitare di gettare la croce solo sulle inadempienze della politica. «Intanto c’è da portare innovazione nel settore dei servizi che rappresentano il 70% dell’economia nazionale. Occorre tenere presente che proprio nei servizi si vince la sfida competitività: gli Usa hanno investimenti nei servizi doppi rispetto a quelli europei e ancora maggiori rispetto a quelli italiani. Inoltre se è vero che c’è una parte dell’industria e dell’impresa italiana che crea successi costruendo aree e nicchie e di grande successo in giro per il mondo, ma c’è tutta una parte non piccola di attività produttiva che questi successi non li consegue e non li cerca perché magari s’appoggia a logiche corporative e rendite di posizione. Ma se le imprese

non sono sollecitate – per esempio a far rete e innovazione – non prendono strade virtuose d’altro canto le politiche per l’innovazione sono sollecitate dall’Ue che ne ha fatto il focus delle politiche legate alla strategia di Lisbona ribadite anche in un recente documento della Commissione europea».

Bisogna peraltro dire che per mettere in campo le risorse necessarie verso il cambiamento occorre tagliare il debito, si tratta di una scelta non rinviabile. Il fondo monetario ci ha di recente ricordato che la sostenibilità del debito si giudica oltre che dallo stato dei conti dalle prospettive di crescita. Per realizzare una politica economica attiva è però necessario evitare di continuare di usare l’avanzo primario per pagare gli interessi. Un intervento sul debito si fa intanto con un taglio verticale della spesa ma anche con una politica coraggiosa e attraverso un’imposta patrimoniale o l’alienazione di patrimonio pubblico consenta di mettere in moto una politica legata alle esigenze del Paese. Per fare una politica del genere, mirata rispetto alle esigenze del Paese, ci vorrebbe però un consenso più ampio, perché non si fanno operazioni come l’inserimento d’una patrimoniale o seri tagli sulla spesa se non c’è un consenso allargato e ampio. In Germania s’è capito anche questo. Lì le classi dirigenti del Paese si sono unite al di là degli schieramenti per la difesa del bene comune e dell’interesse nazionale».

di statistica britannico rispetto al Pil del Regno Unito. Si tratta forse del dato peggiore della giornata. Nel quarto trimestre 2010 si scende dello 0,5 per cento rispetto al trimestre precedente. E l’attesa era invece di un +0,5. Rispetto allo stesso periodo del 2009 la crescita c’è ma anche qui si sconta parecchio rispetto alle vecchie stime: anziché del previsto +2,6, il miglioramento è solo del +1,7. È davvero il segno che bisogna attestarsi sul grado di allerta più alto possibile. Con un occhio sempre aperto sugli spread dei titoli di Stato

nuova manovra correttiva, e da indurlo in ogni caso a misure e indirizzi sempre più votati al rigorismo. Pesa però la scarsa iniziativa di cui l’esecutivo diventa più facilmente imputabile proprio in un clima dominato dal caso Ruby anziché dai temi economici.

E invece in serata a Palazzo Grazioli si enumerano soprattutto le strategie per reagire alla tempesta mediatica. Berlusconi convoca non a caso il ministro della Giustizia Alfano e il suo super-esperto Ghedini. Nella giunta per le Autorizzazioni della Camera il pdl Antonio Leone si affida a un’agguerrita relazione per invitare al no sulla richiesta di ispezionare gli uffici di Spinelli. Sempre a Montecitorio, Cicchitto e gli altri si battono per fissare ad oggi la mozione di sfiducia contro Bondi (tra le proteste in particolare del terzo polo), e tentano di calendarizzare pure una discussione sull’incompatibilità di Fini. C’è spazio per tutto, insomma, ma non per il nodo della crescita e per dare una qualsiasi risposta agli appelli dell’Fmi. «Eppure quei dati preoccupano perché confermano una tendenza del nostro Paese ad allontanarsi dalle economie più forti», dice Francesco Boccia, uno degli economisti di prima linea del Pd. «L’Italia non può essere impantanata nel degradante dibattito di queste settimane, serve», dice il deputato, «una fase nuova che affronti il problema della bassa crescita con soluzioni vere e non con la solita propaganda che ci ha portati a questo punto». No, inutile illudersi: a Palazzo Grazioli sono troppo impegnati a controllare i tabulati di Ruby.

«Ciascuno faccia di più», chiede il Capo dello Stato, dopo l’allarme di Washington, esteso «in parte anche all’Italia» per le tensioni sullo spread dei debiti sovrani

E a coronare questo quadro con molte tinte fosche si aggiungono infine le previsioni dell’Ufficio nazionale

che, per tornare all’Fmi, «in alcuni casi hanno raggiunto massimi decisamente al di sopra dei livelli visti a maggio scorso».

E allora? E allora, insiste Napolitano, «occorre andare più lontano, avere più ambizione». Appello rivolto senza dubbio alle imprese affinché valorizzino «l’eccellenza creativa e l’innovazione», impegnandosi per «elevare la competitività». Ma il richiamo è indirizzato «a ciascun soggetto istituzionale, economico e sociale». Quindi innanzitutto al governo, sul quale dovrebbe ricadere al massimo questa sollecitazione. La questione bruscamente riportata al centro del tavolo dal Fondo monetario è d’altronde così nota al ministero dell’Economia dall’aver costretto a ipotizzare una


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l’approfondimento

Nella notte il presidente Usa ha pronunciato il tradizionale discorso sullo stato dell’Unione: un’analisi tra politica ed economia

Il giallo di Washington

Una volta erano i giapponesi, ora sono i cinesi a turbare i sogni degli americani. Obama è di fronte a un bivio: rilanciare i consumi o perdere la sfida con Pechino. Ma anche l’Europa dovrebbe ripensare il proprio futuro di Gianfranco Polillo n attesa che il fuso orario ci permetta di conoscere nello specifico ciò che Barack Obama ha detto nel suo tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, atteniamoci alle anticipazioni, la cui attendibilità resta, tuttavia, da verificare. L’attenzione è soprattutto concentrata sugli aspetti politici, all’indomani della sconfitta alle Mid term, e i cui contraccolpi sono già visibili nella scelta dei nuovi responsabili dello staff economico della Casa Bianca. La sostituzione di Paul Volcker, uno dei grandi vecchi dell’economia americana, con Jeffrey Immelt la dice lunga sulle reali intenzioni dell’Amministrazione. Paul Volcker era stato il presidente della Fed che negli anni Ottanta aveva guidato la riscossa dell’economia americana, abbattendo l’inflazione e costringendo le imprese a un doloroso processo di riconversione produttiva. Uomo indubbiamente fortunato: capace di intercettare quei primi segnali di cambiamento che, grazie allo sviluppo dell’Ict, avrebbero consentito agli Stati Uniti di re-

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cuperare spazio nei confronti del Giappone e riconquistare quel primato tecnologico che ancora li caratterizza, seppure con qualche affanno. Jeffrey Immelt, nuovo consigliere economico del Presidente, è invece il Ceo di General Electric, la grande multinazionale che non sembra tramontare mai. È soprattutto un segnale nei confronti della business community, preoccupata per gli eccessi di statalismo che hanno finora caratterizzato la politica presidenziale e scottata dalle recenti riforme – sia quella pensionistica che sanitaria – che hanno notevolmente ingessato il bilancio del più forte Paese occidentale. Convergenza al centro, come sostengono alcuni politologi americani? Vedremo. Del resto questa è una costante del sistema politico americano. Le grandi democrazie si governano da questo luogo geometrico. I discorsi ispirati, i dream sono armi importanti nella conquista del consenso. Ma poi, inevitabilmente, arriva il risveglio e la dura realtà dei numeri s’impone ai grandi progetti ecumenici.

Tanto più se le primarie per la riconquista della candidatura – i lavori inizieranno tra un anno – sono alle porte.

Queste anticipazioni, presunte o reali che siano, sono tuttavia riduttive. Gli Stati Uniti sono ancora immersi in una crisi dalle difficili prospettive. Due i temi sul tappeto: la forte disoccupazione e l’eccesso di spesa pubblica, dopo gli interventi decisi sia per salvare il sistema bancario che per rilanciare (poco) i consumi. Le risposte non potranno essere di

Jeffrey Immelt all’economia garantirà qualche «azzardo» in più

breve respiro. Jobless recovery: con questo termine gli analisti indicano il male oscuro dei prossimi anni. Quel po’ di ripresa che si riuscirà a realizzare non sarà accompagnata da un recupero dei posti di lavoro, persi durante la crisi. Avremo, pertanto, un Pil leggermente più alto, ma tanta sofferenza sociale e un’ulteriore crescita delle diseguaglianze. Quel tallone d’Achille che già oggi si manifesta nell’impotenza dell’Amministrazione di contenere, ad esempio, le retribuzioni milionarie di quei manager che

hanno contribuito, con il loro azzardo morale, a determinare la catastrofe che conosciamo. E che continuano a vivere come se nulla fosse accaduto.

Ma c’è qualcosa che va anche oltre queste difficili contingenze. È il tarlo dell’insicurezza che corrode sia le famiglie che l’establishment. Le prime si arrabattano, comprimendo i consumi e cercando di risparmiare risorse: sia per pagare i debiti contratti durante gli anni della grande euforia, sia per premunirsi nell’incerto futuro. L’upper class guarda invece, con crescente diffidenza, ai grandi cambiamenti geopolitici che scuotono il mondo. E di nuovo ritornano tesi, che sembravano sepolte in ricordi polverosi. Non è la prima volta che gli Usa temono un possibile declino. Negli anni Settanta era il pericolo giallo l’angoscia ricorrente: l’ipotesi che il Giappone – come scriveva Kindleberger – potesse superare la potenza industriale americana e comportarsi a Manhattan come le grandi banche d’affari locali erano


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«La realtà anglosassone è simile a quella americana, non a quella del resto d’Europa»

«Adesso Cameron deve salvarsi dal grande crac della finanza» «La crisi britannica dipende dagli errori delle banche e il governo risponde con tagli drastici all’economia sociale»: parla Giorgio La Malfa di Gabriella Mecucci

ROMA. Il Pil inglese ha fatto registrare un meno 0,5 nel quarto trimestre del 2010. IL calo è rispetto al terzo trimestre dello stesso anno. L’indice cresce invece dell’1,7 sull’ultimo periodo del 2009, ma cresce meno del previsto. Risultato, dunque, inferiore alle attese. Il segno meno ha scosso la Gran Bretagna, qualcuno ha cominciato a parlare inappropriatamente di recessione. Il cancelliere dello scacchiere, George Osborne ha prontamente dichiarato che proseguirà

L’onda si è abbattuta sul sistema bancario. La Germania, come sappiamo, sta crescendo del tre per cento. E l’Fmi la giudica come l’unica economia europea che continuerà a salire ad alti ritmi, non solo perchè ha una forte industria manifatturiera, ma soprattutto perchè questa incorpora dosi massicce di sofisticata tecnologia. A questo poi vanno aggiunte le scelte politiche della Merkel: investimenti in ricerca e riforma della macchina amministrativa.

sere una concausa di quel segno meno? Quando si devono tagliare - in tempi molto stretti - cifre parecchio consistenti, ci possono essere anche contraccolpi negativi che aggravano nel breve periodo la situazione. Detto questo, il governo inglese col deficit che aveva raggiunto non aveva alternative. La crisi delle banche ha provocato un fortissimo esborso statale, da qualche parte i soldi dovevano rientrare.

«Quella che manca all’Italia è proprio una strategia contro la caduta della produzione e dei consumi» sulla strada del rigore intrapresa. Giorgio la Malfa, oltreché economista, è un profondo conoscitore del mondo anglosassone, giriamo a lui le domande che i nuovi dati pongono. La Malfa a che punto è la situazione? Questa crisi sembra non finire. Il momento è ancora difficile. La ripresa è tenue ed incerta e si susseguono colpi di coda. Occorre tenere la guardia ben alta. Il dato inglese è particolarmente preoccupante? La crisi lì è particolarmente preoccupante perché l’economia britannica si fonda sui servizi finanziari. E la caduta è partita proprio da lì. Lo Stato ha dovuto spendere molto per soccorrere le banche e quindi il deficit è molto cresciuto. È arrivato a toccare il 10 per cento. Per questo i tagli sono stati particolarmente duri? Esatto. Tutti noi abbiamo visto le manifestazioni di massa, anche violente, degli studenti inglesi per l’enorme aumento delle tasse universitarie. Poi ci sono state le forti riduzioni occupazionali nel comparto pubblico. La crisi ha investito l’economia inglese in pieno, ormai, infatti, in quel paese è quasi scomparsa l’industria manifatturiera e, da anni, ha nettamente prevalso la finanza. In Germania, dunque, le cose vanno meglio perché c’è ancora un forte settore industriale e l’economia non si è «finanziarizzata» come in Gran Bretagna? Non tutte le crisi sono uguali. A quella che stiamo vivendo resiste peggio chi ha una marcata «finanziarizzazione».

L’Italia sembrerebbe somigliare più alla Germania che all’Inghilterra... Anche noi abbiamo un’industria manifatturiera, anche se molto meno forte e tecnologizzata di quella tedesca. E non abbiamo un sistema economico caratterizzato dai servizi finanziari come quello inglese. Le nostre banche, infine, hanno retto bene e non hanno avuto bisogno del robusto intervento dello Stato realizzato Oltremanica. Già, ma siamo andati in recessione un anno prima che apparisse il segno meno in Inghilterra. E la crescita del nostro Pil è ben distante dai ritmi tedeschi. Ho già detto che Germania e Italia non sono la stessa cosa. Io sono profondamente solidale con Giulio Tremonti quando dice una serie di no ai ministri questuanti. Ma una trafila di no non fa una strategia. Quella che manca all’Italia è proprio la strategia. La vera preoccupazione di Berlusconi è stata quella di dire che noi stavamo meglio degli altri. Per quanto riguarda il sistema bancario è vero, ma non dipende da lui. Le qualità che l’hanno fatto reggere vengono da lontano. Torniamo all’Inghilterra e alle sue attuali difficoltà. Il cancelliere dello scacchiere ha sostenuto che non cambierà linea. Il governo conservatore continuerà la terapia del rigore. Può questa strategia es-

Secondo lei il premier Cameron ha una strategia e la porterà avanti con fermezza? Speriamo di sì. È difficile giudicare. Occorre aspettare un po’di tempo per capire davvero come andrà. Quello che è sicuro, invece, è che il governo italiano non ha nessuna strategia.

solite fare nei territori periferici del grande impero finanziario. Poi Paul Volcker impose la stretta monetaria e fu la rinascita industriale e tecnologica. Oggi è la Cina a preoccupare: la seconda potenza mondiale dopo il suo sorpasso proprio nei confronti dell’altro gigante asiatico. Una Cina che, per molti versi, ha ancora il volto della Sfinge: indecifrabile per un Occidente che batte il passo alla ricerca di una sua prospettiva.

Si comprende, allora, il senso d’allarme che ha accompagnato, a sole 24 ore di distanza dal discorso sull’Unione, gli ultimi dati dell’Fmi. Per gli Usa la crescita prevista è del 3 per cento, nel 2011, e del 2,7 per cento, l’anno successivo. Un po’ meglio delle precedenti previsioni per l’anno incorso, un po’ peggio per quello successivo. In compenso l’Asia, nel suo complesso, crescerà dell’8,4 per cento. La Cina del 9,6 e del 9,5. Tre volte tanto. Ed ecco allora che le previsioni di un possibile sorpasso, entro questo decennio, come ormai da più parti si sostiene, sembrano quasi divenire inevitabili. E con esse, l’apprensione di chi non vuole nemmeno immaginare un mondo dominato da una potenza estranea, come solo la Cina può essere agli occhi non solo degli americani, ma di tutto l’Occidente. Non sappiamo se Obama rifletterà su questo possibile scenario. Certo è che noi europei dovremmo mostrare preoccupazioni ancora maggiori. Per la zona dell’euro il tasso di crescita previsto è pari a uno striminzito 1,5 per cento, che solo nel 2012 aumenta di qualche (0,2 per cento) decimale. La Germania, di cui si è tanto celebrata la forza economica, si svilupperà al ritmo del 2 e del 2,2 per cento: quasi il doppio dell’Italia ed un po’ più della Francia. Ma siamo ben lontano dalle cifre che abbiamo riportato per il resto del Pianeta, visto che le economie emergenti e quelle sottosviluppate cresceranno al ritmo del 6,5 per cento. Dinamiche così diverse non vanno drammatizzate. Alla loro origine è l’esistenza di un processo storico che non può e non deve essere fermato. È la voglia di riscatto d’intere popolazioni, dopo gli anni bui dell’imperialismo e del colonialismo. O dei fallimenti del cosiddetto “socialismo reale”. Quello che, tuttavia, impressiona è la velocità del cambiamento, la sua continua accelerazione. Delle possibili conseguenze sulle nostre condizioni di vita non c’è ancora sufficiente consapevolezza. Ci attardiamo in falsi problemi, in lotte di potere fine a se stesse, quando Annibale è alle porte. Attendiamo, allora, il discorso di Barack Obama. Speriamo che da leader non solo americano, ma di tutto l’Occidente, possa contribuire e risvegliare coscienze da troppo tempo addormentate.


diario

pagina 6 • 26 gennaio 2011

Rubata ad Arona la salma di Mike Bongiorno

Caso Cucchi: 12 a processo

ARONA. La salma di Mike Bongiorno è stata trafugata dal cimitero di Dagnente, piccola frazione di Arona in provincia di Novara. Il furto dei resti del noto presentatore, deceduto l’8 settembre del 2009, è avvenuto durante la notte. Secondo le forze dell’ordine, la bara è stata rubata dopo che i ladri hanno rotto la lapide della tomba. Mike Bongiorno aveva una villa ad Arona dove trascorreva parecchio tempo: dopo la sua morte, la moglie aveva voluto che il corpo del marito fosse seppellito nel piccolo camposanto. «L’abbiamo appena saputo: ci siamo raccolti in famiglia davvero sgomenti» ha detto Michele Bongiorno junior. Al momento non è giunta alcuna rivendicazione del furto e neppure pervenute richieste di denaro. Sull’episodio indagano i carabinieri e sul posto si stanno anche recando in elicottero gli

ROMA. Per la morte di Stefano

esperti del Ris. Con il furto della salma di Mike Bongiorno sembra ripetersi un film già visto. Il fatto richiama infatti alla memoria quanto accaduto nel marzo del 2001, in un paese poco distante da Arona, a Meina: in quel cimitero era sepolto Enrico Cuccia, il banchiere di Mediobanca, morto l’anno precedente. Anche allora fu trafugata la bara. Venne chiesto un ingente riscatto alla famiglia ma pochi giorni dopo il telefonista della banda venne intercettato: la bara fu ritrovata in un fienile della Val Susa.

Cucchi avvenuta il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini di Roma, sei giorni dopo essere stato arrestato per droga sono stati chiesti dodici rinvii a giudizio mentre, nel corso dell’udienza davanti al Gup, è stato condannato a due anni un funzionario dell’amministrazione penitenziaria regionale. Il rinvio a giudizio riguarda 3 agenti della polizia penitenziaria e 9 persone tra medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. Il processo prenderà il via il 24 marzo prossimo davanti alla terza corte d’assise di Roma. I dodici sono stati rinviati a giudizio a vario titolo per lesioni e abuso di autorità, favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falsità ideologica.

La Ragioneria fa i conti sulla futura fiscalità municipale: la cedolare secca costa 3 miliardi ma è coperta dal gettito solo per la metà

Federalismo, è corsa a ostacoli Il Terzo polo e Bersani bocciano la nuova proposta del governo di Francesco Pacifico

Al vertice di ieri mattina, alla presenza di Casini, Fini e Rutelli, il Terzo polo ha bocciato anche la nuova bozza federalista targata Calderoli: il progetto dei centristi è esattamente opposto a quello del governo. Anche il Pd è arrivato alla stessa conclusione: «Il testo presentato dal governo contiene una totale svendita dello spirito e del concetto stesso di federalismo»

ROMA. La “dalemiana” Velina Rossa è convinta che il Pd speri ancora in Bossi «per sgomberare Berlusconi da Palazzo Chigi e poi subito procedere ad approvare il federalismo». Ma della stessa idea non sembra essere Pier Luigi Bersani. Oggi l’Anci dovrebbe ratificare il suo giudizio sul decreto. Domani Roberto Calderoli presenterà alle Camere le modifiche (sblocco delle addizionali Irpef e tassa di soggiorno al 5 per cento). Il voto definitivo slitta al 3 febbraio prossimo, mentre non ha certamente svelenito il clima la relazione tecnica della Ragioneria generale del Tesoro. Dai calcoli dei suoi dirigenti la cedolare secca sugli affitti c’è certezza soltanto per la metà della copertura.

Al Nazareno, intanto, non è piaciuto che Roberto Calderoli – pronto a fare ponti d’oro ai sindaci sul federalismo municipale – si sia detto disponibile ad accogliere soltanto qualche emendamento sulla salvaguardia dei servizi pubblici tra i tantissimi presentati dal Partito democratico al decreto. Mentre sulla proroga di sei mesi, cavallo di battaglia del Terzo Polo, potrebbe concederne soltanto la metà del tempo. Eppoi più passano le ore e più il Carroccio sembra spaccato sull’ipotesi di scaricare il Cavaliere per votare il federalismo con Pd e centristi. Anche perché questo vorrebbe dire intaccare il potere d’interdizione di Giulio Tremonti, che impone una riforma a costo zero. Non c’è spazio per un’operazione di ingegneria parlamentare, degna del miglior movimentismo al quale ci hanno

abituato le forze indipendiste in Europa. Anche se le trattative vanno avanti. Mario Baldassari, senatore di Fli e presidente della commissione Finanze, ha fatto sapere che sulla proroga «pare che la Lega si orienti per 3 mesi. Oggi in commissione qualcuno della maggioranza ci ha detto che 6 mesi sono troppi, mentre 3 potrebbero essere un tempo ragionevole. Se si trova l’accordo...». Così dopo una serie di astenzioni e un sì al nuovo fisco regionale il Pd – e se Calderoli non si mostrerà più flessibile – è pronto a votare no sul decreto sulla fiscalità. Seguirà la strada annunciata già dal Terzo Polo, con l’esecuti-

vo che rischia di andare sotto e, più generalmente, di ritrovarsi senza una maggioranza per governare. Pier Luigi Bersani – dopo un vertice al Nazareno con i capigruppo Dario Franceschini e Anna Finocchiaro e il presidente della Stato Regioni Vasco Errani – che «non si baratterà il voto sul decreto federalista in cambio di un’assicurazione sulla fine del governo. Questa roba devasta il Paese». Il parlamentare Marco Causi fa sapere che «abbiamo presentato due testi e 64 emendamenti. Possiamo discutere solo se li accettano». Ma l’uscita netta di Bersani di fatto segue l’offerta molto esplicita del presidente dell’Anci, Sergio Chiamparino,

e il tentativo più felpato fatto da Enrico Letta per creare un asse con il Carroccio. Siccome da via Bellerio non sono arrivati segnali, ecco un cambio repentino di strategia. E al presidente della Bicameralina Enrico La Loggia, che si chiede come faranno le opposizioni a bocciare il testo dopo l’avallo dei sindaci, il deputato Marco Stradiotto replica che «l’Anci sta giocando una partita come se fosse quella del Milleproroghe». In attesa di capire se domani il governo cambierà idea – scelta che potrebbe spingere il Pd verso un’inversione a U – chi sembra non voler cambiare posizione sul federalismo munici-

pale è il Terzo Polo. Che al momento voterà no. Ieri mattina il numero uno di Fli, Gianfranco Fini, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, il presidente di Alleanza per l’Italia Francesco Rutelli e alcuni parlamentari dell’area hanno valuto gli ultimi scenari al netto del preaccordo tra Calderoli e i sindaci Per quanto un no al decreto comporterebbe la fine del governo e forse del berlusconismo (ed è facile capire quanto la presenza del premier sia un ostacolo all’approvazione del federalismo) ai centristi sta però più a cuore modificare l’impianto del federalismo municipale ed evitare che i sinda-


26 gennaio 2011 • pagina 7

Roma: Olimpiadi 2020? No grazie!

Una legge contro i rischi degli impianti fotovoltaici ROMA. La proliferazione di impianti fotovoltaici in Puglia richiede una immediata presa di coscienza da parte delle forze politiche presenti per determinare iniziative legislative e regolamenti attuativi. La direttiva europea, che assegna all’Italia l’obiettivo di produrre energia rinnovabile per un 17% sul consumo finale di energia, ha trovato finora nelle leggi nazionali e regionali un recepimento che non garantisce il corretto rapporto tra ambiente e infrastrutture. Per fare un esempio di potenziale sfascio ambientale, solo nella parte sud della provincia di Brindisi sono stati autorizzati – o sono in via di autorizzazione – impianti per una potenza di circa 1300 MW, con una conseguente occupazione del territorio di circa 5000 ettari. Il business è molto appetibile per l’incentivo che lo Stato offre a coloro che realizzano impianti fotovoltaici:

g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i

430mila euro per megawatt. Il costo reale per megawatt è pari a 130mila euro con un beneficio netto di 300mila euro. A questo rischio di sfascio ambientale e di business poco trasparente si dovrà aggiungere la preoccupazione degli enti locali quando, al termine dei 20 anni, bisognerà rottamare il silicio dei pannelli impiantati. L’Udc regionale della Puglia ha già chiesto al Governo di emanare un decreto legge per eventuali infiltrazioni mafiose e al Consiglio regionale la moratoria per il rilascio di nuove autorizzazioni e un’anagrafe del fotovoltaico. Angelo Sanza

È lo slogan che possiamo adottare per gli antiolimpiadi a Roma nel 2020. Il passato dovrebbe dare qualche indicazione per il futuro: i Mondiali del ’90, il Giubileo del 2000 e i Mondiali di nuoto del 2010.Vent’anni di disastri, di ritardi a non finire e di soldi pubblici, ovvero dei contribuenti, gettati dalla finestra. L’ultimo esempio? Il polo natatorio che doveva inaugurare i Mondiali di nuoto del 2010 è, a tutt’oggi, in costruzione; si è ricorsi ai circoli sportivi che ampliarono le proprie piscine, a proprie spese, con l’autorizzazione del Commissario, istituito ad hoc con decreto del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che ha portato al sequestro delle strutture sportive perché il Commissario non aveva i poteri che gli erano stati attribuiti. Si dice che le Olimpiadi del 2020 porteranno investimenti per 13 miliardi, già ma il comune di Roma sta ancora predisponendo un piano generale per l’eliminazione delle buche, mentre buona parte di tombini e caditoie sono ostruiti. Un consiglio al sindaco Gianni Alemanno: lasci perdere, perché non passare alla storia per nulla aver fatto potrebbe, invece, passare per quello che ha fatto l’ennesimo disastro.

Primo Mastrantoni

LA STAGIONE DELLA CLASS ACTION ci, trovatisi senza risorse, possono poi “rivalersi” aumentato le tasse locali e le tariffe dei servizi. Fini, Casini e Rutelli prima hanno chiesto a Linda Lanzillotta una relazione tecnica sulle modifiche ipotizzate dal ministro della Semplificazione. Quindi, di fronte a un quadro non tranquillizzante, hanno ribadito il loro no. Proprio la Lanzillotta ha fatto presente che se «l’Anci si occupa dei Comuni, noi ci dobbiamo preoccupare dell’impatto che questa riforma avrà sui cittadini. Noi restiamo fermi sulle nostre proposte sulla cedolare secca, e parallelamente per i vantaggi agli inquilini attraverso meccanismi per evitare l’aumento della pressione tributaria e tariffaria». Secondo l’ex ministro degli Affari regionali, servono in primo luogo servono «la determinazione dell’aliquota per le seconde case e gli esercizi commerciali, dell’addizionale Irpef e della nuova Tarsu che si abbatterà sui contribuenti. Ma il testo raddoppia l’imposizione a carico delle imprese». Mario Baldassarri garantisce che il giudizio del Terzo Polo non sarà condizionato da un eventuale accordo tra il governo e l’Anci. «Noi abbiamo posto problemi seri, l’Anci è una cosa, il Parlamento un’altra. Se i Comuni ottengono la licenza di tassare, e sono soddisfatti, noi non siamo d’accordo». Giovanni Pistorio, che ha partecipato al vertice come rappresentante del Mpa, sottolinea che il movimento di Raffaele Lombardo è «d’accordo sul federalismo: essendo siciliani non possiamo avere paura di un avanzamento dell’autonomia. Ma siamo preoccupati per alcune storture. Sulla perequazione infrastrutturale stiamo aspettando il decreto previsto dalla legge 42. Eppoi sono state violate alcune garanzie che la Costituzione prevede per le Regioni a Statuto speciale, senza dimenticare che in questo federalismo municipale di municipale, inteso come autonomia, non c’è nulla». Al riguardo qualche rassicurazione alle opposizione doveva

darla la relazione tecnica della Ragioneria. Ma non deve esserci riuscita se Baldassarri parla di testo «irricevibile». Stando allo studio la cedolare secca sugli affitti darà un gettito tra i 3,4 e i 4,2 miliardi nei primi tre anni di introduzione, ma quest’anno anche per venir meno di una parte di Irpef costerà alle casse dello Stato circa 3 miliardi. Soldi – ed è questo che non convince Pd e Terzo Polo – che sarà recuperata in parte dalla lotta all’evasione per gli affitti in nero: 600 milioni nel 2011, un miliardo nel 2012 e 1,4 miliardi nel 2013.

Il Pd ritira le offerte fatte alla Lega per un nuovo governo. Calderoli: sì a una miniproroga

Dall’alto: Casini, Fini, Rutelli e Calderoli. Nella pagina a fianco, il ministro Giulio Tremonti tra Bossi e Berlusconi

L’Imu, quella che Chiamparino ha bollato come «una nuova Ici», sostituirà imposte esistenti per un valore di circa 11,5 miliardi. di questo il gettito Irpef e delle addizionali assorbito dall’Imu vale 1,650 milioni. Il resto si recupera dall’Ici. Secondo via XX settembre le casse comunali beneficeranno della sanatoria sugli immobili fantasma, visto che «si può ritenere ragionevolmente che si produca un rafforzamento degli effetti rispetto all’attuale normativa e che ci sia una spinta verso nuovi accertamenti». Se per il momento il futuro del fisco municipale sembra vincolato a una battaglia parlamentare e prettamente politica, ben presto anche i governatori potrebbero scendere in campo e far saltare il tavolo. Se il federalismo entrerà in vigore tra dieci anni, al centro dei loro cahiers de doleances ci sono temi molto legati all’attualità come la ripartizione del fondo sanitario e il taglio ai fondi per il trasporto locale. E in questa chiava va letto il rinvio al parere sul decreto sull’armonizzazione dei bilanci pubblici Raffaele Fitto ha promesso un tavolo ai governatori per superare tutte le difficoltà. Quindi, presentando il “Quinto rapporto sulla coesione economica sociale e territoriale”. Il testo, oltre a segnalare che ci sono 29 miliardi di fondi Ue non spesi dall’Italia, suggerisce che bisogna «concentrare le risorse comunitarie e nazionali su pochi obiettivi prioritari».

Tuo figlio frequenta una scuola affollata? A scuola ci vai tu perché sei un precario dell’insegnamento? Vivi in un comune la cui acqua potabile presenta livelli di arsenico superiore a quelli consentiti dalla legge? Sei rimasto fermo sull’autostrada bloccata dalla neve? Ti sei espresso con un televoto a favore di un candidato del Grande Fratello? Hai preso una buca guidando l’auto? Ebbene, quale che sia la categoria cui appartieni, quasi certamente c’è un risarcimento pronto anche per te. È scoppiata la stagione della class action, e ce n’è una per ogni gusto, necessità o diritto calpestato.

Antonia Fiore

L’IMMAGINE

Tinte sacre Le tinte vivaci sono utilizzate in numerose occasioni legate alla spiritualità induista, tra cui il Tihar, una festività in onore di Laxmi, la dea dell’abbondanza e della fertilità OLTRE AL GIALLO DELLE STELLE: L’OLOCAUSTO DIMENTICATO Erano tredici milioni di uomini e i nazi fecero tredici milioni di grigia grigia cenere. Così cantava Fausto Amodei. Tredici milioni di morti. Milioni e milioni di persone rinchiuse nei lager e contrassegnate dal simbolo della loro colpa. Nero, verde, rosso, giallo, rosa, viola, blu, marrone. Per identificare a prima vista le categorie sociali ed etniche che il totalitarismo nazista e fascista voleva sterminare, i dirigenti dei campi di concentramento avevano stabilito che i deportati portassero, oltre al numero di matricola, un’etichetta di un dato colore e forma sulla parte sinistra della giubba e sui pantaloni. Oltre al giallo della stella di David formata con due triangoli sovrapposti e con sopra impressa la scritta “Jude”, gli altri internati portavano un singolo triangolo di stoffa con il vertice verso il basso. I colori concorrevano all’obiettivo di negare l’identità e il percorso esistenziale della persona, caratterizzando il prigioniero secondo stereotipi in voga nella società anche prima della guerra. Omosessuali, rom, dissidenti, comunisti, testimoni di Geova sono solo alcune delle categorie di persone sterminate dai nazisti. Eppure se chiedi a qualcuno cosa sia l’Olocausto con ogni probabilità ti risponderà: «Il genocidio degli ebrei», e tenderà a stimare il numero delle vittime intorno ai sei milioni.Tante erano infatti le vittime della shoah, che la letteratura, la politica, il cinema e l’arte in genere non hanno mai smesso di ricordare e commemorare giustamente. In occasione della giornata della memoria, il nostro intento sarà rendere giustizia agli altri sette milioni di uomini rimasti uccisi dall’ideologia più feroce che la storia ricordi.

Associazione Via de’ Poeti – Bologna

GUERRA E PACE Cuffaro leggerà in carcere Guerra e Pace, il capolavoro di Tolstoj che narra della Russia e della sua gente, di Napoleone e di uomini pronti alla guerra che scordano che solo l’amore può portare alla pace. Speriamo che Cuffaro capisca che non è mai troppo tardi per trasformare la propria esperienza terrena in qualcosa di più puro e irrinunciabile.

Bruno Russo


pagina 8 • 26 gennaio 2011

il paginone

Esce «Lettera a un amico antisionista», il libro nel quale il popolare gior he cos’ è l’antisionismo? Ed esiste davvero l’antisionismo senza antisemitismo? Sono queste le due domande che Pierluigi Battista mette al centro del suo nuovo libro: Lettera ad un amico antisionista (Rizzoli). Interrogativi ineludibili proprio a ridosso del giorno della memoria che – se non vuole essere solo commemorazione ma anche ricerca e comprensione di un sentire ampio e orribile – non può non fare i conti con tutte le caratteristiche dell’odio antiebraico di ieri e di oggi. Il pamphlet di Battista – per esplicita ammissione dell’autore – ha l’ambizione di essere una sorta di “controcanto”a Lettera ad un amico ebreo di Sergio Romano. Un saggio che non accettava «l’aspirazione di un certo ebraismo intransigente a confiscare la Storia, a vedere nell’Olocausto la colpa mai sufficientemente espiata». «Non bisogna – sosteneva ancora Romano - canonizzare il genocidio, nè esso può garantire a Israele una sorta di franchigia morale». Affermazioni queste con le quali polemizzarono intellettuali ebrei, e non solo: si scatenò infatti, nel 1997, quando il libro uscì, un dibattito aspro, polemico, intransigente. Romano metteva in discussione le ragioni di fondo che stanno alla base di Israele e della sua politica . Ne risultava un pamphlet che si beccò più meno esplicitamente l’accusa di antisemitismo. Forse un’accusa tanto pesante era immeritata, ma Battista a distanza di anni, ha sentito il bisogno di fare il “controcanto” a Sergio Romano. Vuole fare «con l’amico antisionista» un’operazione speculare, identica e opposta, a quella che nel 1997 venne fatta con «l’amico ebreo»: mettere a fuoco ad una ad una tutte le indignazioni fuori misura e fuori luogo, i tic compulsivi, le sparate politically correct che vengono lanciate contro Israele e indirettamente anche contro gli ebrei, a partire dalle ragioni stessa della nascita del loro stato.

C

Martin Luther King, padre dei diritti civili, è stato autore di una celebre Letter to an Anti-Zionist Friend. La scrisse nell’agosto del 1967, poche settimane prima di essere ucciso. Battista riparte proprio da lì e da alcune fra le più celebri affermazioni che conteneva: «Tu dichiari, amico mio, di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente ‘antisionista’. E io dico: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, questa è la verità di Dio... Tutti gli uomini di buona volontà esulteranno nel compimento della promessa di Dio, che il suo popolo sarebbe ritornato nella gioia per rico-

Il mondo visto dal Non c’è (solo) la persecuzione nazista alla base dello stato sionista: Pierluigi Battista affronta la retorica pro-palestinese di Gabriella Mecucci struire la terra di cui era stato depredato. Questo è il sionismo, niente di più, niente di meno... E cos’è l’antisionismo? È negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che rivendichiamo giustamente per la gente d’africa e accordiamo senza riserve ad altre nazioni del globo. È una discriminazione nei confronti degli ebrei, per il fatto che sono ebrei, amico mio. In poche parole, è antisemitismo. Lascia che le mie parole echeggino nel profondo della tua anima: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, puoi starne certo».

Israele è nato per un deliberato dell’Onu e ha accettato sin da subito l’intera direttiva che prevedeva anche «due popoli, due stati»

Criticare Israele senza essere tacciati di antisemitismo: questo chiedono gli antisionisti. Ma spettava a loro stabilire un argine e vigilare che non venisse oltrepassato. E invece il confine è quasi inesistente: «È vero – scrive Battista – che se pure gli antisionisti non sono tutti antisemiti senza sfumature, non c’è purtroppo antisionista che non sia prigioniero di un’ossessione che con l’antisemitismo, fatalmente, ha molte parentele. Di fronte alle più terribili nefandezze storiche e ai genocidi dei nostri giorni – come quello ceceno o quello dei cattolici sudanesi – la reazione è un assordante silenzio. L’indignazione del nostro antisionista scatta solo per il conflitto arabo-israeliano. E naturalmente a protezione di una sola parte: la sua «è una compulsiva duplicità». Si ricorda che nel 1948 vennero espulsi 700mila palesinesi dalle loro terre. È vero e fu un evento terribile. Ma perché dimentica-

re che nello stesso periodo 600mila ebrei furono costretti a fuggire dai paesi arabi, cacciati dal Marocco, dall’Algeria, dalla Libia, dalla Siria, dall’Iraq? E che dire dei centomila falasha in fuga dall’Etiopia? L’unica differenza fra queste masse di disperati che si spostavano da un luogo all’altro, è che gli ebrei si potevano rifugiare in Israele dove veni-


il paginone

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rnalista dialoga a distanza con il saggio sull’ebraismo di Sergio Romano

lla parte di Israele me Danilo Zolo che definisce Istraele uno stato “colonialista e razzista”. Da noi c’è anche quel genere di antisionista che dice le cose più terribili contro Istraele, ma sostiene le cose più belle sugli ebrei della diaspora. Eppure nessuno di costoro difese Fausto Coen quando venne cacciato da Paese Sera, né l’ebreo De Benedetti umiliato Arrigo dall’Espresso, né l’eretico comunista Terracini che denunciava l’aggressivo antisionismo del suo partito. E Battista fa anche i nomi di grandi giornalisti e commentatori che ora hanno denunciato «l’intrinseca violenza» dell’ebraismo in rapporto alla «mitezza del cristianesimo» (Baget Bozzo e, con parole diverse, Eugenio Scalfari), ora hanno parlato di «razza dominatrice» (Asor Rosa), ora hanno chiamato non Israele, ma l’intero popolo ebraico a discolparsi per Sabra e Shatila (Barbara Spinelli).

Battista porta decine di esempi che si muovo nella stessa direzione. Ricorda che Israele è nato per un deliberato dell’ Onu e che ha accettato sin da subito l’intera direttiva e cioè “due popoli, due stati”. Ma gli arabi da questo orecchio non hanno mai voluto sentirci: non hanno mai voluto, nemmeno negli anni Trenta, prendere in considerazione l’idea di confine: quella terra era tutta loro, e basta. E sarebbero gli ebrei gli imperialisti e i colonialisti? Arrivarono (tornarono) in Palestina, a partire dai primi del Novecento, fuggendo dai sanguinosi pogrom dell’Europa orientale, della Galizia. Desiderosi di ricongiungersi dopo due millenni nella terra dei padri, acquistarono campi dagli arabi, proprietari assenteisti, ad altissimo prezzo e li coltivarono con passione, tirando fuori prodotti da quelle distese aride e incolte. E poi, quando nel ’48, fra loro spuntò chi voleva usare l’arma del terrorismo, Ben vano accolti, mentre i palestinesi non venivano accolti dai loro confratelli arabi, ma costretti nei campi profughi. Bisognava dare l’immagine visiva della cattiveria degli israeliani in attesa della riconquista della Palestina. Sulla vicenda dei palestinesi espulsi da parte degli israeliani, nelle università di Tel Aviv come in quelle di Haifa si è sviluppato un grande dibattito autocritico: basta leggere i saggi di Benny Morris per rendersene conto. Nel mondo arabo invece non esiste l’ombra del ripensamento sui propri errori e orrori. E riguardo allo stato di Israele circolano ancora offensive scempiaggini come quelle scritte da un romanziere raffinato e di successo qual è Tahar Ben Jalloun: «Israele è così, Stato superiore, che ha tutti i diritti e nessun dovere, che gode di un’impunità permanente, fiero assoluto, moderno nell’esercizio della morte. Sarà solo. Unico autore del suo martirio. Solo di fronte al mondo che avrà rinunziato a capire alcunchè del destino di un popolo nato per essere eletto e morto per esserlo stato». Sbarchiamo sulle nostre sponde per trovare un intellettuale co-

In mezzo a terribili attacchi terroristici e guerre sanguinose, questo Paese è stato e rimane l’unica vera democrazia di quell’area

Qui, Sergio Romano e, sopra, Pierluigi Battista. Nelle altre foto, alcune immagini di Auschwitz

Gurion, il grande padre dello stato, non esitò a sfidare l’Irgun. E del resto, un non violento doc qual era Aldo Capitini nel 1967 (Guerra dei sei giorni) difendeva gli ebrei contro la “lobby ebraica”italiana, usando argomenti simili a quelli che oggi mette in campo Battista. Chi scrive trovò, nel 2002, e pubblicò una sua lunga lettera di risposta a Lucio Lombardo Radice che gli chiedeva di firmare una petizione filoaraba. Il “pacifista” per antonomasia rispondeva schierandosi senza mezzi termini a favore di Israele. Capitini è stato studiato e ristudiato da tanti intellettuali di sinistra – incredibile a dirsi – nessuno aveva mai parlato di questa lettera. Eppure, bastava aprire il primo fascicolo del suo archivio per trovarla.

Battista polemizza duramente, e a ragione, con l’idea che lo Stato ebraico sia il frutto della persecuzione nazista. Una sorta di ricompensa elargita dalla comunità internazionale dopo la Shoah, un prezzo da pagare, scaricato però tutto sugli incolpevoli palestinesi. E’questo l’argomento più insidioso perché contiene una parte di verità: un terzo dei combattenti del giovane esercito israeliano erano sopravvissuti allo sterminio. Ma i palestinesi non erano così incolpevoli: il Gran Muftì di Gerusalemme selezionava musulmani per farli aderire alle SS. E poi il sogno di uno Stato ebraico non nacque certo allora, era già forte nel 1917 e il fondatore del sionismo fu quell’Herzel che certo non venne sfiorato dalla Shoah. Perché allora – se le cose stanno così – tutto questo affrettarsi a legare lo Stato ebraico all’Olocausto? Semplice, per poter dire che se non ci fosse stato questo, nessuno l’avrebbe rivendicato. E perché mai l’iraniano Ahmadinejad è ossessionato dal negazionismo, se non per trovare lì il fondamento della mancata legittimità di Israele? Ma la prova provata che non è nell’Olocausto che va ricercato il fondamento unico dello Stato ebraico, la si ritrova proprio fra gli ebrei israeliani che per anni si vergognarono per la sorte degli ebrei della diaspora che inermi andarono al massacro senza resistere. A Gerusalemme non si esaltava certo questa fine da agnelli sacrificali, ma piuttosto la rivolta del ghetto di Varsavia. Il coraggio di reagire. L’ebreo sionista non era una vittima, ma un uomo capace di combattere, di vincere. Tra tutte le ragioni di Israele che Battista sottopone “all’amico antisionista”, la più forte e inconfutabile è però che in mezzo a terribili attacchi terroristici, in mezzo a guerre sanguinose, Israele è stato e rimane pervicacemente l’unica vera democrazia di quell’area. E’ questa la sua grande, commovente forza. Non mancano certo errori e persino orrori nella sua storia, ma sono poca cosa rispetto a quello che accade nei territori in mano ai palestinesi, oggi governati da Hamas. Possiamo ricordare il torto degli israeliani di aver risposto in modo arrogante, proprio di recente, a chi chiede come Obama di interrompere gli insediamenti a Gerusalemme Est. Possiamo stigmatizzare una politica dove non sono mancate asprezza e aggressività, ma come dimenticare le tante disponibilità verso i palestinesi: le proposte di Barack ad Arafat, la cacciata con la forza dei coloni voluta dall’odiato (dagli antisionisti) Sharon? In realtà ieri come oggi – a ridosso del giorno della memoria – è utile fare i conti con un passo di un romanzo di Roth con il quale Battista termina il suo efficace e appassionato pamphlet: «Perché intorno a me odiano tanto Israele? Oramai ogni volta che esco di casa litigo con qualcuno.Torno a casa infuriato e passo la notte in bianco. In un modo o in un altro, sono legato ai due peggiori flagellui del pianeta, Israele e l’America. Ammettiamo che Israele sia un paese4 spaventoso…». «Non è vero», lo interrompe la sua interlocutrice. Ma lui: «Comunque ammettiamolo, be’, ci sono molti paesi che sono assai più spaventosi, Eppure l’ostilità contro Israele è quasi universale con le persone con cui ho a che fare».


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grandangolo Questa mattina alle 11.30 un meeting trasversale

Vi ricordate Asia Bibi? Adesso bisogna salvarla La libertà religiosa non ha colori di partito. Ecco perché rappresentanti di ogni schieramento politico, comunità religiose e associazioni della società civile manifestano insieme a Montecitorio. Per chiedere al Pakistan e alla comunità internazionale di fermare la condanna a morte di Luisa Santolini a Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 Dicembre 1948 all’Art.18 sancisce che «ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nella osservanza dei riti». Ebbene, malgrado queste solenni affermazioni, a 60 anni di distanza - secondo il Rapporto presentato poche settimane fa dall’Associazione Aiuto alla Chiesa che soffre - sono più di 60 la Nazioni nel mondo dove si verificano gravi violazioni del diritto alla libertà religiosa dei propri abitanti.

L

Oltre il 70 per cento della popolazione mondiale vive in condizioni di estrema difficoltà ad esprimere liberamente il proprio credo religioso: parliamo di oltre cinque miliardi di persone! Un panorama che non può non destare profondo sconcerto e che non può non interpellare la coscienza di ciascuno di noi. In questo dram-

matico panorama si inserisce la vicenda di Asia Bibi, che tutti ormai conoscono, perché è la prima donna pakistana condannata a morte per il reato di blasfemia, secondo le leggi di quel Paese. Asia Bibi è “un solo caso” nel panorama mondiale, ma la sua triste vicenda è emblematica e infatti ha avuto vasta eco internazionale.

Una donna cristiana di 45 anni, madre di cinque figli, una lavoratrice agricola, che è accu-

Il Novecento è stato il secolo del massacro cristiano: oltre 45 milioni di martiri nel mondo sata di avere offeso il Profeta Maometto, e per questo picchiata, imprigionata e infine condannata a morte in seguito ad un processo sommario e con una sentenza condizionata dai

gruppi di pressione integralisti islamici. Precedentemente dalle sue colleghe di lavoro era stata dichiarata “impura” perché non musulmana e poi al suo rifiuto di abiurare è stata accusata di blasfemia da un imam locale, marito di una sua compagna di lavoro.

È in carcere dal giugno 2009. Asia si è sempre dichiarata innocente e vittima di questa legge che troppo spesso viene usata per vendette personali che nulla hanno a che vedere con il Corano o il Profeta Maometto. Ora siamo in attesa che nelle prossime settimane il caso di Asia Bibi passi al vaglio dell’ Alta Corte di Lahore perché una sentenza capitale non può essere eseguita senza l’assenso dell’Alta corte. E la tensione sale... Per completare il quadro è bene ricordare che uno o due giorni dopo l’Epifania ad opera di un uomo della sua scorta è stato assassinato il Governatore del Punjab, Salman Taseer, musulmano e membro del Pakistan People’s Party, che aveva difeso Asia Bibi e si era adoperato anche presso il Presidente Ali Zardari per far ottenere la grazia alla donna. La sue posizioni moderate in favo-

re anche di una modifica della Legge sulla blasfemia gli sono costate la vita. Questo è terribile ed è il segno del crescente clima di intolleranza che si diffonde nel Paese. Chiediamo al presidente del Pakistan Zardari la revoca della sentenza per Asia Bibi, anche se gruppi islamici integralisti aumentano le pressioni contro questa ipotesi: due leader musulmani molto influenti hanno minacciato proteste su scala nazionale se il Presidente scagionerà Asia Bibi e secondo Hafiz Ibtisam Elahi Zaheer, un esponente musulmano molto noto a Lahore la grazia rappresenterebbe «una negligenza criminale» e causerebbe «tensioni interrereligiose». Il mufti Muneer Ur Rehman, molto noto nel Paese, ha dichiarato: «Se il Presidente perdonerà Asia Bibi faremo sentire la nostra voce in tutto il Pakistan fino a quando non farà marcia indietro».

La vita di Asia Bibi è nelle mani del Presidente e noi vogliamo fargli sentire la nostra vicinanza per questo atto di coraggio che è in realtà un atto a favor della libertà e della dignità umana. Chiediamo la abolizione della legge sulla bla-

sfemia che in concreto è applicata contro ogni giustizia: una Legge che dal 1986 ad oggi ha causato l’incriminazione di 993 persone con l’accusa di avere profanato il Corano o diffamato il Profeta Maometto.

Fra questi 479 musulmani, 340 ahmadi (una setta che il Governo non riconosce come musulmana) 120 cristiani, 14 indù, 10 di altre religioni. Questa legge crea uno stato insopportabile di paura e di tensione perché chiunque può essere accusato di blasfemia, senza contare che oltre trenta persone sono state uccise in Pakistan senza processo solo perché accusate di blasfemia. Chiediamo il rispetto della libertà religiosa, della dignità e dei diritti inalienabili di tutti i cittadini del Pakistan a qualunque religione appartengano. Noi non manifestiamo contro nessuno ma solo a favore del dialogo e della pace, mentre per ora la risposta è stata una manifestazione in tutto il Pakistan, il 24 dicembre scorso, voluta da una alleanza di gruppi radicali ed estremisti islamici, contro il rilascio di Asia Bibi, che hanno annunciato ritorsioni se sarà perdonata. Questa campagna ha già pro-


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Adesioni entusiaste da parte di tutte le realtà religiose presenti

Cristiani, musulmani ebrei e sikh insieme per chiedere un atto di giustizia di Massimo Fazzi

ROMA. La società italiana «si mobilita per lanciare un mes-

dotto i suoi effetti: la famiglia ha cambiato casa ed è nascosta ed è di questi giorni la notizia che forse Asia Bibi verrà trasferita in un carcere più sicura, ma questo aumenta le preoccupazioni se non sarà sufficientemente protetta.

Il risultato è che Sherry Rehman, una parlamentare musulmana del partito del Governo, ha ritirato la sua proposta di legge per modificare la legge sulla blasfemia e la Commissione voluta dal presidente Alì Zardari e composta da leader politici religiosi e della società civile, e guidata dal ministro Bhatti per una revisione globale della normativa, è sottoposta ad una pressione fortissima. Vogliamo lanciare un messaggio di solidarietà non solo ad Asia Bibi chiedendone l’immediato rilascio, ma a tutte le organizzazioni cristiane, musulmane e di altre religioni impegnate per la legalità e la abolizione della legge sulla blasfemia.Vogliamo ribadire il diritto universalmente riconosciuto della libertà di pensiero, di coscienza, di religione.

Questa è negata in molti Paesi quali la Cina, l’India, la Corea del Nord, Iraq, Pakistan, Turchia, Indonesia, Somalia, Nigeria, Cuba dove sono soprattutto perseguitati i cristiani e dove le vittime sono suore, vescovi, sacerdoti, ma anche padri di famiglia, studenti, donne e bambini, colpevoli solo di credere in una religione diversa da quella di Stato. Contrariamente a quanto si crede il ‘900 è stato il secolo del più imponente massacro di cristiani: in cento anni i martiri cristiani sono stati 45 milioni. Persecuzioni che non hanno avuto precedenti per ferocia, vastità, durata e quantità di vittime! Ebbene davanti a questi fatti non possia-

mo dire che non lo sapevamo e che qui in casa nostra abbiamo altro a cui pensare. La politica deve riacquistare la stima, la concretezza e il prestigio perduti e una strada per farlo è proprio un’azione a livello nazionale ed internazionale per

za del nostro essere uomini e donne. La libertà religiosa è la conditio sine qua non di ogni altro diritto e siamo certi che in questa battaglia avremo molti alleati anche non cristiani, convinti che l’emarginazione o peggio l’eliminazione delle minoranze e dei cristiani in particolare sarebbe comunque una perdita per tutte le comunità e tutte le Nazioni.

La classe politica deve Benedetto XVl ha svegliarsi dall’indifferenza che diventa involontaria complicità tutelare i più deboli e i più esposti come sono quelli che appartengono alle minoranze religiose. La classe politica deve svegliarsi da una sorta di indifferenza che sconfina in una involontaria complicità e l’opinione pubblica deve riappropriarsi di un ruolo non vicariabile di stimolo, di sostegno, di spinta verso gli ideali della pacifica convivenza. Gli organismi internazionali sono spesso troppo tiepidi o troppo timidi e noi vorremmo dire anche a loro che esiste una società civile che li sostiene se solo si fanno carico di una presa di posizione ferma e costruttiva in campo internazionale.

Una società rispettosa delle diversità ma non disposta a tacere o a mettere a tacere la propria coscienza davanti a palesi ingiustizie e soprusi. In altre parole la piena e libera espressione della propria fede non è la affermazione di un privilegio o la difesa di un gruppo, ma il riconoscimento di un diritto universale in for-

dedicato proprio alla libertà religiosa la Giornata mondiale della pace e al recente appello del Papa fa eco quello del Presidente della Repubblica che nel messaggio inviato al Pontefice ha rimarcato con forza che le persecuzioni contro i cristiani nel mondo devono cessare immediatamente. Pochi giorni fa il Parlamento europeo ha condannato i recenti attacchi contro le comunità cristiane con una risoluzione approvata in seduta plenaria a Strasburgo nella quale gli europarlamentari chiedono all’Alto Rappresentante della politica estera Ue, Catherine Ashton, di garantire che la libertà di credo e di religione e la sicurezza delle comunità religiose, cristiani inclusi, resti una priorità nelle relazioni internazionali dell’Unione, individuando gli strumenti a disposizione della Unione per assicurare protezione e sicurezza ai cristiani di tutto il mondo e stilando una lista di misure che possono essere prese contro quei paesi che volontariamente non garantiscono protezione alle comunità religiose.

Dunque qualcosa si muove. Noi ci stiamo ponendo in quel solco e siamo pronti a fare la nostra parte fino in fondo. Abbiamo però bisogno del sostegno di tutti perché da solo nessuno ce la farà.

saggio di solidarietà per Asia Bibi. Parlamentari, associazioni cattoliche, società civile e comunità religiose si danno appuntamento mercoledì 26 gennaio alle 11.30 in Piazza Montecitorio per dar vita ad una manifestazione a favore di Asia Bibi condannata a morte in Pakistan per blasfemia». Lo rende noto la deputata Luisa Capitanio Santolini, presidente dell’Associazione Parlamentare “Amici del Pakistan”. L’iniziativa, dal titolo Asia Bibi: libertà, giustizia e diritti umani è stata illustrata in una conferenza stampa lo scorso lunedì 24 gennaio. Oltre all’onorevole Santolini, per segnalare l’interesse e la cooperazione trasversale che riscuote l’iniziativa, sono intervenuti i rappresentanti del comitato promotore costituito dall’Associazione di Cooperazione Internazionale Italia-Pakistan; Associazione Pakistani cristiani in Italia; la sezione italiana di Amnesty International; Comunità di Sant’Egidio; TV2000; Religions for Peace; Umanitaria Padana Onlus e la Cisl. La lista di coloro che hanno aderito è tuttavia molto più lungo di quello dei promotori, un’ulteriore segno di quanto il caso di Asia Bibi interroghi le nostre coscienze.

Saranno presenti oggi in piazza le Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani); l’Acmid Donna (Associazione delle Donne Marocchine in Italia); l’Aiac (Associazione Internazionale dell’Apostolato Cattolico); l’Aidlr (Associazione Internazionale per la Difesa della Libertà Religiosa); l’American Jewish Committee, sezione Italia; l’Argo (Analisi e Ricerche Geopolitiche sull’Oriente); l’Asiac (Associazione di Studio sull’Asia Centrale e il Caucaso); l’Asia Maior (Osservatorio Italiano sull’Asia); l’Associazione D.i.a.l.o.g.u.e.; l’Associazione Federale Donne Padane; l’Associazione interreligiosa “Ascoltare le Sofferenze”; l’Associazione interreligiosa “Interdependence”; l’Associazione Progetto Africa; l’Asus (Accademia per le Scienze Umane e Sociali); la Campagna italiana contro le mine; la Cisl (Confederazione Italiana Sindacato Lavoratori); il Centro “Giovanni Paolo II” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Campobasso; la Comunità ebraica “Mevakshé Derekh”; il Comune di Carenno (Lc); la Comunità Sikh in Italia; il Coro della Scuola Germanica di Roma; la Fondazione ”Achille Grandi” per il Bene Comune; il Forum delle Associazioni Familiari; il Gruppo Martin Buber – Ebrei per la pace; HazteOir.org, Il Web della cittadinanza attiva (Spagna); l’International Minorities Alliance Italy; l’Intersos; l’Istituto Tevere - Centro Pro-dialogo; Italilindia, Società italiana per lo studio dell’India moderna e contemporanea; Lettera 22, Associazione indipendente di giornalisti; Minareti.it , portale del mondo arabo-islamico italiano; l’Ofs, Ordine Francescano Secolare del Lazio; la Provincia Romana dei Frati Minori; il Serra Club Roma; il South Asian Minorities writer Association Italy; la South Asian Christian Writers Association Italy; Sudestasiatico.com, spazio di libera informazione; Telepadania; Transparency International Italia; l’Ugei, Unione Giovani Ebrei Italiani; l’Unione Induista Italiana; l’Unione Buddhista Italiana; Vis, Volontariato Internazionale per lo sviluppo; Zapping (Radio Rai1); la Rivista Culturale La Società, diretta da Claudio Gentili


quadrante

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Nepal, 50 vittime per il freddo

Lascia la zarina Usa dell’ambiente

Libero (e picchiato) il dissidente He

KATHMANDU. Ammonta a oltre

WASHINGTON. Alla vigilia del-

PECHINO. Il dissidente He Depu,

50 vittime il bilancio dell’ondata di freddo straordinario che da settimane sta colpendo le regioni meridionali del Nepal. I danni maggiori si sono verificati nel Terai. La regione ha registrato il maggior numero di vittime e da giorni è colpita da continui black out elettrici, che hanno messo in ginocchio ospedali, industrie e aeroporti. Per evitare altre vittime, sono state chiuse centinaia di scuole. Al momento restano aperti solo gli istituti cattolici che garantiscono, per chi lo desidera, lezioni regolari nonostante il maltempo. Secondo i medici locali le persone ad alto rischio sono i profughi della guerra civile maoista, che vivono da anni in tende o baracche di fortuna.

l’atteso discorso sullo Stato dell’Unione che Barack Obama ha pronunciato nella notte a Washington, lo staff di collaboratori con cui il presidente americano si insediò alla Casa Bianca all’indomani della sua elezione perde un altro pezzo. Ad andarsene questa volta è la consigliera per le politiche legate alla lotta ai cambiamenti climatici e all’energia Carol Browner. Un’uscita di scena che ha un valore particolare rispetto alla diaspora dei consulenti politici ed ecomonici che ha caratterizzato gli ultimi mesi della presidenza Obama. Non è questione di nomi, infatti, ma di agenda politica. E la Casa Bianca sostiene che il posto potrebbe rimanere vacante.

uno dei fondatori del Partito democratico (fuorilegge in Cina), è stato liberato due giorni fa dopo aver scontato otto anni di reclusione. Appena fuori dalla prigione ha avuto una discussione con la polizia ed è stato picchiato. He, scrittore e attivista politico, era stato condannato nel novembre 2002 per aver collaborato con i membri del partito democratico e per aver scritto in difesa della democrazia. Internato nella prigione n.2 di Pechino, egli ha raccontato a Radio Free Asia di aver subito torture per almeno 85 giorni, che definisce «i giorni peggiori della mia vita». He Depu ha promesso di continuare il suo impegno per la democrazia nonostante le continue violenze della polizia.

Dopo la caduta dell’esecutivo guidato da Hariri, il “Partito di Dio” indica in Najib Mikati - magnate sunnita - il nuovo premier

Beirut sceglie Hezbollah

Mentre al Cairo esplode la rabbia contro il governo di Mubarak di Antonio Picasso a Beirut al Cairo, il Vicino Oriente affonda in un vortice di manifestazioni di piazza e scontri. È possibile che i disordini del Cairo vengano sedati nell’arco di un giorno, con l’intervento dell’esercito. Diversa è la crisi nel Paese dei cedri. Qui Najib Mikati è diventato il nuovo Primo ministro. L’incaricato ha guadagnato nell’arco di una sola giornata la fiducia di quasi 70 parlamentari, sui 128 totali dell’Assemblea nazionale di Beirut. Se il Libano fosse un Paese normale, la notizia dovrebbe essere accolta positivamente. A neanche due settimane dalla caduta del governo Hariri, la nomina di un nuovo premier segnerebbe l’immediato rientro della crisi e la ripresa della quotidiana attività politica nazionale. Tuttavia, il Libano è ben lungi dal rispondere ai parametri dell’ortodossia democratica occidentale. Ed è quindi prevedibile che la scelta di assegnare l’incarico a Mikati rappresenti l’apertura dell’ennesimo dramma per il Paese dei cedri.

D

In realtà gli scontri di ieri, registrati a Beirut,Tripoli e Sidone, non possono essere ricondotti in maniera esclusiva alla nomina di Mitaki. Già nella tarda serata di lunedì infatti, la capitale era stata interessata da strali di violenza. Alcune macchine incendiate avevano illuminato la notte lungo la Corniche. Nel frattempo, i primi posti di blocco della polizia avevano suggerito che martedì sarebbe stata una giornata campale. Del resto, già dalla scorsa settimana, il “Movimento 14 marzo”, costituito dai sunniti e da una forte componente cristianomaronita, ma soprattutto guidato dal premier uscente, Saad Hariri, aveva indetto il “giorno della rabbia”, per contestare le dimissioni degli 11 ministri di Hezbollah e la conseguente caduta dell’esecutivo. Gli episodi di ieri, quindi, erano già calcolati. A questo punto, la sorpresa non deve nascere da quel che è successo nelle piazze, bensì dalla scelta decisamente inopportuna del Presidente della Repubblica, Michel Suleiman, di

Gli scontri violenti che hanno animato le piazze dell’Egitto e del Libano sono un segnale di disagio più ampio: le popolazioni mediorientali sono divise fra l’islam radicale e le dittature vecchio stampo come quella del Cairo

assegnare l’incarico a Mikati proprio in coincidenza con quel che stava già accadendo fuori dai palazzi del potere. Era necessario chiudere così frettolosamente il capitolo sulla crisi di governo? È possibile che Suleiman, la cui mano tesa a Hezbollah e alla Siria non va dimenticata, abbia orchestrato questa escalation, scegliendo di incaricare Mitaki quando la rabbia dei sunniti è ancora percepibile? Va detto, d’altra parte, che sarebbe improprio etichettare il nuovo Primo ministro come un traditore del clan Hariri, venduto a Hezbollah. Mikati è un marinaio esperto della politica libanese. Nato nel 1955, quindici anni più anziano di Hariri, è anch’egli di confessione sunnita e ha già ricoperto l’incarico di premier nel 2005, solo per pochi mesi. Era l’aprile di sei anni fa, Rafiq Hariri era appena stato ucciso in un attentato la cui ripercussione più im-

mediata era stata la Rivoluzione dei cedri. Di fronte al vuoto di potere, seguito ai disordini di allora, il presidente Emile Lahoud chiamò Mikati per formare un governo di unità nazionale. La scelta cadde su lui in quanto sunnita ben visto, ma non per questo alleato, dal Partito di Dio e soprattutto dalla Siria. Lo stesso è accaduto in questi giorni. L’incarico è stato assegnato per la seconda volta a lui sulla base delle identiche ragioni di sei anni fa. La Costituzione libanese prevede che, sulla base delle proporzioni di potere spettanti a ogni confessione religiosa, il Primo ministro sia sunnita. Mikati è apparso l’unico candidato accettato dalla coalizione sciita (Hezbollah, Amal e la frangia restante di maroniti che fanno capo al generale Michel Aoun). Complessivamente, il curriculum del premier entrante presenta le voci classiche della establishment nazio-

nale. Studi di economia e management portati avanti fra l’American Univerity di Beirut e poi Harvard. Un’esperienza da protagonista nel mondo degli affari. Poi la discesa in campo alla fine degli anni Novanta. Con le elezioni del giugno 2009, Mikati è stato eletto all’Assemblea Nazionale nella fila del “14 marzo”. Da questo gruppo parlamentare si è distaccato in un secondo tempo. Ha ribadito la necessità di migliorare i rapporti con Damasco. Già questo gli ha permesso di conservare il suo affermato rapporto preferenziale con il regime Baath e con la comunità sciita.

Il Primo ministro incaricato, tuttavia, non è solo un tessitore politico. Mikati vanta un’esperienza di primissimo livello negli affari internazionali. La società della sua famiglia, Investcom, è una multinazionale delle telecomunicazioni. Nel


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Strage all’aeroporto di Mosca, dubbi su mandanti e esecutori MOSCA. Il giorno dopo la strage, fra minacce e avvertimenti, rimane fitta la nebbia sull’attentato che ha colpito ieri l’aeorporto di Mosca. Anche l’identità del kamikaze non è sicura: in mattinata si era parlato della possibilità che fosse una donna, mentre nel pomeriggio si è tornati a credere che l’autore della strage sia stato un uomo, tra 30 e 40 anni, di corporatura robusta e aspetto europeo. Non avrebbe agito da solo: avrebbe fatto parte di un commando giunto nella capitale russa dal Caucaso settentrionale, con ogni probabilità dalla Cecenia. Almeno, è la versione del quotidiano Kommersant, che cita proprie fonti riservate negli ambienti investigativi, secondo cui i servizi segreti sarebbero stati messi sull’avviso circa il pericolo di un attacco dinamitardo su più vasta scala in seguito alla completa distruzione di un piccolo edificio situato all’interno di un circolo sportivo e saltato in aria la sera del 31 dicembre scorso. In quel caso

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

la deflagrazione, stando alle anonime fonti del giornale, sarebbe stata provocata da un’altra caucasica che avrebbe innescato accidentalmente la carica che portava con sè per via della sua inesperienza. Nel frattempo, le autorità hanno minacciato ritorsioni e leggi speciali contro i colpevoli. E per colpevoli, ha spiegato il presidente Medvedev, «intendo anche coloro che, con la propria negligenza, hanno permesso che accadesse tutto questo».

Da sinistra il premier Najib Mikati; l’ex primo ministro Saad Hariri e il leader di Hezbollah, Nasrallah

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato

2006, il premier ha venduto le sue quote, per il valore di 5,5 miliardi di dollari. Tre anni fa, Forbes ha stimato il patrimonio personale di Mikati per una cifra di 2,6 miliardi di biglietti verdi. Si tratta di un impero finanziario non può che far gola a Hezbollah che, dalla fine del 2010, deve contare su un budget ridotto a causa dei tagli effettuati sui sussidi che gli provengono dall’Iran. Il che fa pensare a un’ulteriore evoluzione del Partito di Dio. Negli ultimi mesi, si è fatta l’ipotesi che il segretario del movimento, Hassan Nasrallah, fosse intenzionato a emarginare gli interessi politici ed economici del partito e dare più slancio alla componente operativa. L’obiettivo, si presume, sarebbe una nuova guerra contro Israele. A questo punto, però, è difficile che Hezbollah possa usare le ricchezze personali di Mikati per un conflitto privato. Di fronte a questo scenario così complesso – ma dall’aspeto terribilmente libanese – la maggioranza del “14 marzo” ha parlato di ribaltone. I sostenitori di Hariri sono scesi in piazza in tutte le città del Paese. E non è servito l’appello del loro leader per far tornare la calma. «Io capisco la vostra rabbia – diceva ieri il primo ministro sfiduciato – ma la democrazia è il nostro unico rifugio». La dichiarazione, però, da un lato appare inefficace. Ormai la piazza libanese è calda e, purtroppo, sembra pronta alla deflagrazione. Dall’altra, contrasta con la sfida lanciata 24 ore prima. Quello di indire una “gior-

politici e le rivalità etnico-religiose, non va escluso che molti sciiti in uniforme tentino di approfittare per fare pressione e abusare violentemente della propria posizione a discapito dei nemici sunniti.

Resta nell’ombra il verdetto dell’Onu sull’omicidio E mentre il Libano dell’ex premier Rafic Hariri, che ha spaccato in due il Paese nata della rabbia”non poteva che apparire come un gesto di provocazione. Una provocazione a cui è seguita la sfida altrettanto rischiosa di Suleiman di incaricare Mikati. Da sottolineare che, negli scontri di ieri, sono stati coinvolti anche i giornalisti, soprattutto quello locali e arabi in senso lato. Una troupe di al Jazeera è stata presa d’assalto nella capitale. La sua macchina è stata data alle fiamme. L’esercito, a quel punto è stato costretto a intervenire. Peraltro, non si sa se, tra i suoi ranghi, ci sia qualche facinoroso in un certo senso soddisfatto per quel che sta accadendo. Le Lebanese Armed Force sono costituite perlopiù da cristiani, nei quadri ufficiali, e da sciiti. In un Libano in cui la guerra civile è una soluzione come tante altre per risolvere i problemi

sembra crollare in un nuovo vortice di conflitti, la comunità internazionale sembra restare attonita di fronte agli eventi. Né dalla Lega Araba né dall’Iran sono giunte dichiarazioni che potrebbero dare uno scatto evolutivo, o anche in senso contrario, alla situazione. I sostenitori stranieri, rispettivamente di Hariri e del blocco sciita, non si sono espressi. Del resto, i contemporanei scontri che si sono verificati al Cairo devono aver tolto l’attenzione dal Libano. In un Vicino Oriente sempre più in fiamme, è l’Egitto ad assumere una posizione prioritaria nelle criticità. Anche gli Stati Uniti, tuttavia, sono rimasti in silenzio. I fatti libanesi, però, dovrebbero suggerire a Obama che la sua strategia per il processo di pace nella regione è da revisionare in toto. L’unica a muoversi è stata la Francia. Il Presidente dell’Assemblée Nationale, Bernard Accoyer, ha subito cancellato la visita a Damasco in programma con oggi. A dire il vero quella di Parigi appare come una mossa poco ragionata. Questo dovrebbe essere il momento per far sentire al Libano, ma non solo, la vicinanza dei governi occidentali. Non tirarsi indietro di fronte alla crisi.

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cultura

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A Palazzo Reale, una collezione d’arte tra le più importanti al mondo con pezzi provenienti dai quattro angoli della terra

Maometto’s style Manoscritti, ceramiche, tappeti e gioielli: a Milano si celebra la cultura islamica di Rossella Fabiani arte e la cultura per far conoscere i valori dell’Islam. E per far capire che il mondo musulmano non è poi così diverso da quello europeo. È un messaggio semplice quello che la sceicca del Kuwait, Hussah Sabah Salem al-Sabah, ha deciso di far passare attraverso la mostra Al Fann, Arte della civiltà islamica, allestita al Palazzo Reale di Milano (catalogo Skira).

L’

«Attraverso l’esposizione dice Sheikha Hussah - vogliamo far crollare l’erronea concezione che le persone hanno dell’Islam e della sua arte. Tra noi e voi ci sono molte meno differenze di quante ve ne immaginiate». Figlia dell’undicesimo

no la “Dar al-Athar al Islamiyya” (Casa delle Antichità dell’Islam), di cui Sheikha Hussah è la direttrice. «Collezionare opere d’arte è diventata una vera e propria ossessione per mio marito», confida la sceicca che ammette: «Abbiamo subito anche diverse truffe, pagando prezzi eccessivi per oggetti che valevano molto meno. Per acquistare un manoscritto di AlJazari, un importante studioso del XIII secolo, ritenuto il Leonardo musulmano abbiamo venduto un appartamento a Londra». Attualmente la loro raccolta conta circa 26mila pezzi e al Palazzo Reale di Milano se ne possono ammirare 350, alcuni dei quali mai visti prima. Perché questa esibizio-

C’è tutta la raffinatezza di una civiltà erudita e raffinata in quei 350 oggetti, selezionati tra i più significativi delle migliaia che compongono la sterminata collezione degli sceicchi del Kuwait emiro del Kuwait, Sabah II, laureata in letteratura inglese alla Kuwait University e patita di arte moderna e contemporanea, insieme al marito, Sheikh Nasser Sabah Ahmed al-Sabah, ha dato vita a una collezione di oggetti d’arte tra le più importanti al mondo. Pezzi provenienti dai quattro angoli della terra e che spaziano dal VII al XVII secolo. Una raccolta, dice elegantissima nel suo soprabito di lana con intarsi-gioiello, «iniziata un po’ per caso, nel 1975, quando mio marito acquistò sul mercato antiquario una bottiglia di vetro di epoca mamelucca». Nel 1983 i coniugi alSabah hanno donato una parte della loro collezione al Museo nazionale del Kuwait: mille e duecento opere che costituisco-

ne è la seconda, «la prima - soprattutto di gioielli - fu organizzata nel 1994 a Palazzo Vecchio a Firenze». Visitare la mostra milanese, significa aggirarsi tra pagine di Corano mirabilmente dipinte e manoscritti miniati, brocche in bronzo, bicchieri e vasi in vetro smaltato, piatti e coppe in ceramica decorati. E ancora, sfarzosi tappeti di lana, magnifici tessuti in velluto e seta e cascate di diamanti, rubini e smeraldi. C’è tutta la raffinatezza di una civiltà elegante ed erudita come quella islamica in quei 350 oggetti selezionati tra i più significativi delle le migliaia che compongono la sterminata collezione degli sceicchi del Kuwait. Raccontano oltre 1400 anni di storia (tra il VII e il XVII secolo) e una distanza geografica vastissima che si snoda dalla Spagna alla Cina. E testimoniano l’arte di questa civiltà millenaria, protagonista di uno straordinario dialogo culturale tra Oriente e Occidente. Curata dal professore Giovanni Curatola, docente di Archeologia e storia dell’Arte musulmana all’Università di Udine e Milano, la mostra si articola in due momenti diversi: un percorso cronologico scandito in quattro tappe (dagli inizi fino ai tre grandi imperi del Cinquecento, Ottomani, Safavidi e Moghul) e una seconda parte in cui si ritrovano alcuni temi trasversali a tutta l’arte musulmana, quali la calligrafia, la decorazione geometrica, gli arabeschi e l’arte figurativa. A chiudere, gli spettacolari gioielli per cui la collezione al Sabah è nota. «Il tempo materiale per preparare una mostra di questo genere non è stato lunghissimo - dice il curatore - abbiamo impiegato quasi un anno e mezzo. La cosa difficile è stata invece

dovere scegliere tra tantissimi pezzi. In relativamente pochi anni, Sheikh Nasser e Sheikha Hussah sono infatti riusciti a raccogliere un numero esorbitante di manufatti». Capolavori, ma anche semplici curiosità. Difficile dire quale sia il reperto più bello in mostra. Secondo Curatola «per la loro capacità di evocare mondi diversi e anche lontani, forse i miei preferiti sono gli scacchi in cristallo di rocca». Ma il messaggio intrinseco di questa esposizione «è quello di volere dimostrare come - a sorpresa - quella islamica sia un’arte molto poco religiosa, se comparata alla nostra occidentale. Basta fare un giro in una mostra di pittura rinascimentale e contare le opere di ispirazione religiosa».

«Al contrario, l’arte islamica è molto più laica di quanto una persona poco informata possa pensare. E non certo per la proibizione delle immagini, o perché Maometto non possa

In queste pagine, la collezionista e sceicca del Kuwait Hussah Sabah Salem al-Sabah, e alcuni oggetti in mostra a Palazzo Reale di Milano, nell’ambito dell’esposizione “Al Fann, Arte della civiltà islamica”

essere rappresentato». Soprattutto, però, l’arte islamica è caratterizzata dall’essere stata estremamente permeabile agli influssi locali ed esterni.Tutte le conquiste militari musulmane, infatti, sono avvenute a spese di culture artisticamente molto avanzate e ben organizzate, E i musulmani sono stati eredi, in modi diversi, di ognuna di loro. E dunque si tratta di un’arte tutt’altro che chiusa e autoreferenziale, ma anzi si nutre di apporti disparati come base di sviluppo per successive elaborazioni. Guardiamo all’Egitto al momento della conquista islamica e vediamo come i motivi geometrici e anche quelli floreali siano alla base di una parte dell’arte musulmana, Come i fregi in legno di epoca fatimide con le figure di animali che ci rimandano a una tradizione artistica precedente, mentre certe forme di intaglio ci parlano della produzione artistica legata al nome di Samarra, la città sulle sponde del Tigri per quasi 60


cultura stegno agli archi sovrapposti che richiamano le strutture degli acquedotti romani. Anche la Sicilia è un caso acclarato di contaminazione. I nomadi provenienti dall’Asia centrale via Iran (i Selgiuchidi) irrompono, invece, intorno al Mille in Anatolia: il loro debito artistico nei confronti dei luoghi di provenienza ultima o di transito (come la Persia), ma anche con la Siria, è evidente. E se Bisanzio sarà una rivale potente e agguerrita sul piano culturale e artistico, saranno in questo caso le “province” caucasiche dell’arte cristiana (arte georgiana e arte armena) a non poter essere ignorate, e ad avere avuto un impatto ben maggiore e duraturo di quello della BisanzioCostantinopoli propriamente detta. I territori di cultura iranica sono sempre stati per posizione geografica il luogo di cerniera fra il Mediterraneo e l’Asia lontana.

E con gli oggetti presenti in mostra, il contributo iranico, anche orientale (ossia di quelli che oggi sono gli Stati moderni dell’Afghanistan e dell’Uzbekistan) è ben rappresentato considerando l’enorme importanza che quei manufatti – eredi di una tradizione tecnica e artistica vivacissima – hanno avuto nella storia artistica dell’islam. Da ultimo il subcontinente indiano. Se i casi precedenti sottolineano quanta apertura agli ap-

I pezzi raccontano oltre 1400 anni di storia e una distanza che si snoda dalla Spagna alla Cina. E testimoniano l’arte millenaria, protagonista di uno straordinario dialogo tra Oriente e Occidente anni capitale dell’impero abbasside. La Siria ci può raccontare un’altra storia: quella delle influenze occidentali filtrate attraverso le crociate.

E le influenze non vanno mai in una sola direzione. La bicromia nei portali delle architetture siriane la si ritrova in contesti differenti nell’area del Mediterraneo. Per non dire dello sviluppo dell’arte vetraria, sempre siriana, con i ritrovamenti archeologi di vetri di fattura in bilico tra Occidente e Oriente e che seguono passo passo gli spostamenti e le roccheforti di un famoso ordine militare cavalleresco medioevale, gli “Ospedalieri”. Anche perché le minoranze religiose esistevano, e in alcuni casi prosperavano, e non è sorprendente trovare iconografie, per esempio cristiane, in un contesto islamico. I musulmani che penetrarono nel Nord Africa, dove sono rimaste stabilmente per secoli, hanno incontrato tribù locali orgogliose delle proprie tradizioni autoctone e pronte a difenderle anche in periodi successivi all’islamizzazione. Il caso della Spagna è poi emblematico con la grande moschea omayyade di Cordova e le colonne di so-

porti abbia caratterizzato l’islam, il caso indiano è interessante per due motivi principali. Il primo è che abbiamo a che fare con una civiltà di insediamento antichissimo, con manifestazioni artistiche particolari che in una certa misura sono agli antipodi del sentire musulmano; il secondo è che queste culture, a lungo concorrenziali, e temporaneamente sconfitte, non sono state affatto assimilate come spesso è avvenuto altrove. Anche l’India scrive dunque una pagina importante e imprescindibile dell’arte islamica. E una sottile corrente di influssi provenienti dalla Cina (via Asia centrale) è una delle costanti dello sviluppo artistico islamico. I commerci, le carovane, il peregrinare delle popolazioni nomadi, il precetto del pellegrinaggio, le guerre, tutto spinge nell’islam a un dinamismo e a una circolazione ad ampio raggio delle tecniche e delle iconografie. Dati alcuni elementi di fondo unificanti e qualificanti (calligrafia, geometria, arabeschi), l’arte islamica è estremamente varia e ricca di forze e di spinte innovative. E tutti i pezzi collezionati dagli sceicchi del Kuwait, dalla Spagna alla Cina, raccontano questo.

26 gennaio 2011 • pagina 15

«Speriamo presto di potere ospitare anche una mostra italiana»

«Così l’arte ha unito i nostri due mondi»

A tu per tu con la grande collezionista e sceicca del Kuwait, Hussah Sabah Salem al-Sabah a incontriamo nella sua suite all’Hyatt di Milano e negli occhi ha la calma e il distacco di chi come lei segue una via spirituale. E la sua sembra essere quella sufi, la mistica dell’islam. Le sue assistenti sono giovani e carine.Tipico di chi non è insicuro e non ha nulla da temere. È amatissima dal suo team femminile che dà la sensazione di proteggerla più che di assisterla. Per Sheikha Hussah la mostra milanese è anche un’occasione di scambio culturale. «Dall’Italia - dice la collezionista - abbiamo imparato molto su come si allestiscono le mostre e anche sul modo di realizzare un catalogo». E non solo. Dall’Italia, «sono già partite missioni di scavi e di esperti nella conservazione del patrimonio culturale e presto arriveranno anche docenti per formare i nostri giovani nell’arte grafica. Una volta che la “Dar Al Athar al Islamiyya (Dai)” - che è parte del Museo nazionale del Kuwait, distrutto durante l’invasione irachena del 1990-91 del piccolo emirato - sarà pronta, fra due o al massimo tre anni, speriamo di potere ospitare anche una mostra d’arte italiana». Oggi il Dai, sotto la guida appassionata di Sheikha Hussah, è una prestigiosa istituzione scientifica di livello planetario, nota per le sue attività in campo culturale e in particolare per una ricca stagione annuale di eventi nel campo delle arti islamiche con conferenze tenute dai principali specialisti del settore, spesso di fama mondiale. Una vita spesa per l’arte quella degli sceicchi del Kuweit.

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zione e l’esito. La mostra al-Fann celebra l’artista che segue un processo creativo almeno duplice nel tentativo di poter condividere la propria passione con un pubblico. La prima, e più grande creazione, è l’idea o il messaggio insita in essa; la seconda è nella scelta di un metodo. Mio marito, Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah, fondatore della Collezione al-Sabh, e altri come lui possono dirsi i continuatori dell’opera dell’artista dal momento nel quale questi se ne distacca. Diventando collezionisti d’arte essi si appropriano dell’idea dell’artista - che vive nell’opera d’arte - e la conservano e la proteggono, assicurandosi che il messaggio sopravviva all’artista medesimo».

Ma non è solo rivolto al passato lo sguardo dolce e deciso della sceicca Hussah Sabah Salem al-Sabah, che è fermamente impegnata nel promuovere l’educazione e la

Da voi abbiamo imparato molto su come si allestiscono le mostre e sul modo di realizzare un catalogo. E dal vostro Paese arriveranno da noi docenti per formare i nostri giovani

«Che cos’è arte? mi è stato chiesto molte volte e, onestamente, è una domanda alla quale io trovo difficilissimo rispondere. È una parola che uso spesso, ma che è quasi sempre associata a un’altra parola nella risposta. C’è l’arte visiva, l’arte teatrale, l’arte letteraria, l’arte cinematografica e, ovviamente, l’arte islamica. Fann, una parola araba, è arte senza qualificazione e senza limiti. È lo sforzo concettuale ed è l’oggetto; l’inten-

formazione nel suo Paese e solidale con l’Occidente quando dice di «capire i governi europei che vietano o che vogliono introdurre norme che impediscano l’uso del niqab che è il velo integrale indossato dalle donne musulmane. Il velo integrale è inaccettabile e non è nemmeno un precetto religioso». «Se una donna vuole coprire il capo con il hijab, libera di farlo. Ma il niqab è inaccettabile. In nessun passo del Corano è scritto che una donna debba coprire il proprio volto». Si tratta «di fanatismi religiosi che nulla hanno a che vedere con l’islam». E sulla vicenda di Sakineh, la donna iraniana accusata dell’omicidio del marito e a lungo tenuta sotto la mannaia della lapidazione, la sceicca al Sabah è convinta che «prima di potere risolvere il problema della lapidazione, bisogna porre rimedio alla questione del velo». Perché vietare per legge il niqab, secondo la moglie del primo ministro del Kuwait, si può. E anzi è doveroso. «Si tratta di una questione di sicurezza nazionale. Bisogna sapere chi c’è dietro a quel velo». Esiste anche un aspetto non meno secondario: la comunicazione tra gli esseri umani. E con un gesto emblematico, prendendo un foglio di carta in mano e ponendolo davanti al viso, la sceicca Hussah si chiede: «Come possiamo comunicare se davanti a me c’è un muro che ci separa?». (ros.fab.)


ULTIMAPAGINA Oscar. Incetta di nomination per la pellicola “Il discorso del Re”. Tonfo invece per “Hereafter” e “La versione di Barney”

E Colin canta: Oh, mia bella di Pietro Salvatori utto secondo le previsioni. O quasi. Al Samuel Goldwyn Theater di Beverly Hills, l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha annunciato ieri, durante una cerimonia conclusasi intorno alle tre pomeridiane, ora italiana, chi si giocherà le statuette nel corso della prossima notte degli Oscar, prevista esattamente fra un giorno e un mese. Tom Sherak e la Mo’Nique, a sorpresa vincitrice l’anno scorso grazie a Precious, pellicola di Lee Daniels, hanno determinato i vincitori e gli sconfitti di quest’anno. Già, perché vincere la statuetta è importante, dà lustro, ti fa iscrivere in un albo d’oro che sarà consultato negli anni a venire, ti permette una seconda, spesso fugace, uscita nelle sale. Ma è la candidatura il vero volano pubblicitario per la macchina industriale di un film, e per il cachet di un attore, ritenuti tra i cinque migliori dell’anno cinematografico. Fa eccezione la categoria Miglior film.

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È la pellicola dell’anno quella ad attendere con vera ansia la notte delle stelle, soprattutto dopo la rivisitazione delle regole che ha portato a dieci il numero di candidature possibili. C’è spazio un po’ per tutti, dai grandi nomi come quelli di Nolan per Inception e Danny Boyle per 127 ore, gli eclettici fratelli Coen dell’attesissimo Il grinta (remake dell’unico western che portò John Wayne ad abbracciare lo “zio Oscar”), il controverso Darren Aronofsky, il cui Cigno nero, Black Swan, è atteso a breve anche nelle sale italiane. C’è anche Fincher, presenza prevista, dato che buona parte della critica ha considerato il suo The Social Netwok il miglior film dell’anno almeno sotto il punto di vista della qualità registica. E probabilmente ci saremmo fermati qui (o forse no, chi lo sa), seguendo le regole che prevedevano soli cinque film in lizza. Invece c’è spazio anche per I ragazzi stanno bene, commedia accolta da pareri non unanimi all’ultimo Festival di

ghilterra, re per caso dopo l’abdicazione del fratello, Edoardo VIII, alle prese con la timidezza e una devastante forma di balbuzie. Il semi-sconosciuto Tom Hooper è la vera rivelazione delle nomination. A sorpresa ha condotto con maestria il suo film a conquistarsi ben dodici statuette, due più dell’acclamatissimo Il Grinta, ben quattro al di sopra di The Social Network e Inception. Non

STATUINA solo. Hooper ha anche scalzato il ben più quotato Nolan tra i migliori registi dell’anno. Non si trova Inception tra le pellicole che hanno potuto sfruttare tra le migliori mani dietro la macchina da presa. Fatto che ha portato a storcere il naso a molti, che per inventiva e gestione scenica del complicatissimo intreccio della sceneggiatura ritengono il film con Di Caprio tra le cose migliori viste quest’anno. Assente anche Danny Boyle, che pur ripetendosi non è riuscito a confermare l’exploit di The Millionaire: al suo posto David Russel con The Fighter. A completare la cinquina dei migliori registi i Coen, il Fincher di Facebook, e Aronofsky. Grecia, Danimarca, Canada, Algeria e Messico si contenderanno il titolo di Miglior film straniero. Quest’ultimo sfodera un nome di copertina, quell’Inarritu autore di Babel e di 21 Grammi. Il suo film, Biutiful, trainato da Javier Bardem, candidato come miglior attore, parte in pole position, davanti a In un mondo migliore, stucchevole romanzo di formazione della pur brava Susanne Bier, In un mondo migliore. Oltre a Bardem, anche Jeff Bridges, James Franco, Colin Firth e Jesse Eisenberg tra i migliori attori. Ennesima candidatura tra le donne per Nicole Kidman, per Rabbit Hole. La affiancheranno Natalie Portman, che i rumors danno come favorita, Annette Bening, Michelle Williams e Jennifer Laurence.

Ennesima candidatura a miglior attrice per Nicole Kidman. La affiancheranno Natalie Portman, data come favorita, Annette Bening, Michelle Williams e Jennifer Laurence Roma, The Fighter, segno tangibile che la narrazione noir quando sposa il pugilato è sempre vitale, e il drammatico Winter’s Bone. A sorpresa, ma neppure troppo, entra in lizza anche Toy Story 3, dando una concreta possibilità ad una pellicola d’animazione di aggiudicarsi - e sarebbe una notizia - il premio più ambito. E siamo a nove. Il decimo è Il discorso del Re, storia un po’ tenera e un po’ drammatica di Giorgio VI d’In-

stwood, a lungo mattatore del tappeto rosso dell’Academy, probabilmente il 27 febbraio rimarrà a casa, o si presenterà unicamente per questioni di bon ton. Il suo film torna a casa con un’irrisoria nomination per gli effetti speciali. A mani vuote anche Paul Giamatti, che in molti già

Clamoroso il tonfo di Hereafter e de La versione di Barney, osannato riadattamento cinematografico del romanzo di Mordecai Richler. Clint Ea-

vedevano con pelata e papillon a ritirare il suo meritato premio, e il suo La versione di Barney. Anche in questo caso scorrere la lista e trovarlo citato unicamente nella categoria “Miglior trucco” sembra più un sadico scherzo di veti incrociati posti dai grandi studios che non un giudizio di merito sulla sua formidabile prova attoriale.

Eastwood e Giamatti saranno due scomodi convitati di pietra, in una kermesse che sembra rimane schiava di un metodo di selezione quantomeno bizzarro. E che ha decretato già Il discorso del Re come vero vincitore dell’anno. Comunque vada. A sinistra, un fotogramma del film “The Social Network”, di David Fincher. In alto, una scena della pellicola “Il discorso del Re”, di Tom Hooper


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