mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 9 GIUGNO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il Nazareno prova a rompere con Di Pietro mentre Berlusconi sfila l’asso dalla manica: le “liste-Bertolaso”
Pdl e Pd, nostalgia canaglia Si sfidano a suon di primarie. Come se il bipolarismo non fosse fallito Continuano a non parlare di politica ma di come scegliere il capo. Duellano sui tempi della legge elettorale ma l’accordo l’hanno fatto saltare loro. Insomma, per loro il tempo non è proprio passato PRESIDENZIALISMO
LETTERA AL PREMIER
Tre obiezioni sul modello francese
Caro Monti, ti è rimasto poco tempo
Ritratto dell’ex banchiere
di Francesco D’Onofrio
di Enrico Cisnetto
a vicenda del passaggio da un sistema politico-costituzionale di tipo parlamentare - anche se fortemente caratterizzato dagli attuali poteri del Presidente della Repubblica - a un sistema cosiddetto semipresidenziale alla francese non deve essere valutata esclusivamente alla luce delle specifiche congiunture parlamentari in atto, perché concerne un punto essenziale del contesto politico italiano per quale esso era al tempo della Costituente, e quale esso è oggi nel quadro della integrazione europea. Non si tratta di giudicare in termini astratti della forma di governo preferibile. a pagina 5
l nervosismo del presidente Monti è per molti versi comprensibile, ma ciononostante appare sopra le righe e controproducente. Egli è oggetto di due tipi di critiche. La prima gli viene dai partiti che pure lo votano in parlamento, i quali mostrano verso di lui una crescente insofferenza, tanto che il Pdl, se non fosse per le (interessate) prudenze di Berlusconi, avrebbe già rotto e fatto saltare il governo. La seconda gli viene da alcuni opinionisti (io sono fra questi) e dal mondo imprenditoriale, cosa che ha indotto nei giornali un atteggiamento decisamente meno morbido di prima. a pagina 4
L
Passera, il ministro della crescita
I
di Marco Scotti segue dalla prima
L’affondo del ministro Severino ai partiti
di Luisa Arezzo
Le elezioni per il Parlamento francese
austerity può produrre una spirale senza ritorno e portare la discoccupazione a livelli da Grande depressione, «al 25%». Agire ora, quindi, è indispensabile per superare la crisi e per crescere, «quanto alla stabilizzazione dei conti è un piano più di lungo termine». È questo l’appello del presidente degli Stati Uniti lanciato durante il suo discorso del venerdì. Obama si è detto molto preoccupato per la crisi in Europa: «Soffiano venti contrari alla ripresa».
E Hollande cerca una maggioranza l verdetto finale uscirà soltanto dal ballottaggio del prossimo 17 giugno che distribuirà tutti i 577 seggi dell’Assemblea nazionale, ma già domani, il primo turno delle elezioni politiche comincerà a chiarire l’assetto della Francia di François Hollande. Il neo-presidente cerca una maggioranza “contro”Angela Merkel.
opo due giorni di crescita significativa, le Borse europee sono tornate a soffrire pesantemente, dimostrando – se mai ce ne fosse bisogno – che il problema dell’Unione europea è, prevalentemente, legato alla crescita. Che non si vede e su cui gli investitori non si sentono di scommettere, pretendendo interessi sempre più alti sui titoli di stato dei paesi membri dell’Ue (eccezion fatta per la Germania), con particolare attenzione a quelli dell’Europa meridionale. L’Italia non fa eccezione, anzi, tra i Paesi europei è quello che per primo ha avvertito i segnali della crisi, tanto da aver anticipato di un anno la recessione sul Prodotto interno lordo (-1,4 per cento nel 2008). In compagnia, nell’intera area Ocse, del solo Giappone che, proprio come Roma, combatte da sempre con un debito pubblico monstre. La crescita (o, per meglio dire, l’assenza di crescita) è un problema annoso che l’Italia si trascina da almeno un decennio, cioè dal momento in cui il combinato disposto tra l’enorme indebitamento accumulato soprattutto dalla metà degli anni Ottanta e la crisi congiunturale seguita all’attentato alle Torri Gemelle di New York è esploso.
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Legge anti-corruzione: «Senza fiducia, tutti a casa» di Gaia Miani ulla legge contro la corruzione rischia di saltare tutto. Il minstro Paola Severino, ieri, lo ha detto chiaramente ai partiti per contrastare la melina sulla norma che ci chiede l’Europa a gran voce. «Saremo costretti a mettere la fiducia, ma non un voto contrario, ce ne andremo tutti a casa», ha detto il ministro. Aggiungendo: «Lo dico con molta pacatezza». Come a dire: non ci sono più margini… a pagina 7
S
Borse a picco. Gli Usa contro la Merkel: «Soffiano venti contrari alla ripresa»
Obama all’Europa: «Ci rovinate!» Nuovo attacco di Washington. La Spagna chiede aiuto alla Ue
L’
EURO 1,00 (10,00
di Enrico Singer
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CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
NUMERO
110 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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19.30
pagina 2 • 9 giugno 2012
la crisi italiana
Il segretario del Pd dice cose contraddittorie
Patti, primarie, paletti: quanto politichese! di Osvaldo Baldacci ersani dice la sua. Che esprima il suo punto di vista e ottenga il via libera dei suoi (perché ne ha bisogno) è una buona cosa. È anche altrettanto evidente che in questo momento (ma solo per demerito degli altri) il Pd sia l’elemento principale del gioco politico attualmente su piazza. Prima di tutto per questione di numeri, ma poi anche per assetto. I miei dubbi sui veri problemi e persino la tenuta del Pd rimangono, ma intanto restiamo ai fatti.
B
Dalle condizioni appena citate il segretario del Pd si candida a premier e detta la linea. Sua prerogativa e persino suo dovere. Poi però bisogna andare a vedere le carte. Ed è per questo che riflettendo su quanto ha detto ieri in direzione emerge che si stanno facendo dei passi avanti ma il nodo della chiarezza è tutt’altro che sciolto. Bisognerebbe incominciare dalla linea politica, ma partiamo dalla primarie. Il Pd faccia quel che vuole. Ha fatto delle primarie il suo marchio di fabbrica e vuole insistere. Ne ha tutto il diritto. Ma dev’essere chiaro che è un suo problema interno. Quel metodo, tanto criticato anche dall’interno del Pd e che ha mostrato la corda persino dal punto di vista giudiziario in troppe situazioni, e che inoltre ha dato risultati politici pessimi premiando gli estremi, quel metodo non è il metodo dei moderati. Per tanti motivi non è condiviso dai centristi. Uno dei motivi chiave è che nei termini in cui è stato realizzato finora a sinistra è un metodo da bipolarismo forzato, cioè da qualcosa che i moderati ritengono superato e fallito. Non c’è da parte dell’Udc un’obiezione dogmatica al bipolarismo in senso astratto e alle primarie in senso astratto, ma finora l’Udc è l‘unico partito ad aver avuto ragione in questi anni proprio denunciando il fallimento di quel sistema. Perché dovrebbe caderci oggi? Un altro aspetto importante del discorso di Bersani: ha accettato la sfida di Alfano per un accordo sulle riforme entro tre settimane. Benissimo, era ora, purché non sia una corsa contro il muro, una gara a chi meglio scarica le colpe sugli altri, oppure un inciucio di sopravvivenza. In quest’ottica si inserisce il terzo punto, l’apertura all’accordo con i moderati. Non è un’eresia. Anzi, se è fatto in nome del bene del Paese, in continuità col risanamento condotto da chi sostiene lealmente e responsabilmente il governo Monti, può essere un utile proseguimento dell’impegno attuale. Il punto è che questo patto di legislatura richiede alcune verità. Non può essere fatto su qualche nome o su qualche poltrona, deve essere fatto sui programmi. E non può essere fumo negli occhi con dentro tutti ma deve includere solo chi realmente condivide una linea e un programma di governo per 5 anni. Dev’essere un patto che non lascia spazi agli estremismi e ai doppi giochi. Bersani l’ha detto ad esempio a Di Pietro: non può insultare e criticare tutti i giorni le istituzioni, il governo e il Pd, e poi dettare le linee dell’alleanza. Ci vuole coerenza. E in questo senso il Pd deve capire un’altra cosa: i riformisti sono una gamba importante, ma l’altra sono i moderati. Questo vuol dire pari dignità politica. Il Pd non può pensare di fare il perno che gioca tra centro e sinistra.
Il segretario si candida alle primarie aperte: «Le faremo entro l’anno»
Bersani sceglie di ammiccare Bacchetta Di Pietro e strizza l’occhio ai moderati, ma in realtà si lascia aperte tutte le porte per le alleanze del futuro. Aspettando una nuova legge elettorale di Franco Insardà
ROMA. Qualcosa si muove nel Partito democratico, ma la strada da seguire sembra ancora confusa, nel tentativo di non chiudere le porte a possibili alleati. Su una cosa Pier Luigi Bersani alla direzione del suo partito, che ha approvato all’unanimità la sua relazione, è stato però deciso: «Per noi la legislatura si chiude nel 2013 con questo governo», avvertendo però che «non servono approcci troppo ragionieristici nella tenuta dei conti pubblici». Il segretario del Pd ha ringraziato, comunque, il premier Mario Monti «per il carico che si è preso» e, tra gli applausi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nella replica pomeridiana ha, poi, ripetuto il concetto: «Guardiamo al 2013 e questo è chiaro anche per il percorso definito oggi. Ribadiamo la lealtà dell’impegno, ma esprimiamo problemi e sollecitazioni sul tema sociale su cui siamo estremamente preoccupati».
Il tutto mentre sulla direzione del partito arrivava, come una secchiata di acqua ghiacciata, la dichiarazione di Romano Prodi al Corriere.it: «La spinta al suicidio di questo partito non ha limiti», riferita alla polemica per le nomine alle authority. Argomento ripreso, puntualmente, da Bersani nella sua replica: «Abbiamo una storia alle spalle su tutti questi temi e non c’è nessun innocente. Ma questa cosa di sottovalutare il meccanismo delle regole è un errore. Perché dovete spiegarmi per quali mo-
tivo per l’Autorità dell’energia davanti a scelte opinabili non vengono fuori giornalate?». Il segretario del Pd ha lanciato vari segnali che lasciano spazio alle interpretazioni più disparate. Un patto dei democratici e dei progressisti, il cambiamento della legge elettorale e una legislatura costituente (la prossima). E ancora lo svolgimento di“primarie aperte”, nelle quali ha annunciato: «Io mi candiderò alle primarie aperte per la premiership non per allestire generiche carovane o determinare questa o quella rendita di posizione ma per riconnettere politica e società e mettere in movimento la forza dei progressisti senza lasciarla spettatrice di acrobazie altrui spesso senza capo né coda».
In vista delle elezioni Bersani ha proposte per tutti: ai partiti di centrosinistra per un accordo di governabilità, ai moderati per un patto di legislatura e ai movimenti e liste civiche. «La proposta politica l’abbiamo da tempo e la teniamo ferma», ha detto il segretario «un centrosinistra di governo aperto a un patto di legislatura con forze democratiche e civiche moderate. Un patto di legislatura tra progressisti e moderati davanti alle esigenze di ricostruzione del Paese». Per finire poi con un messaggio, questo sì molto chiaro, ad Antonio Di Pietro, archiviando di fatto la “famosa”foto di Vasto: «Veda se attaccarci e insultarci ogni giorno o
la crisi italiana
9 giugno 2012 • pagina 3
Il Pdl prova a rottamare Berlusconi «Consultazione per il candidato premier», dice Alfano. E il Cavaliere lancia la “lista-Bertolaso” di Errico Novi
ROMA. Berlusconi, dicono, non ha mai licenziato nessuno. Risparmierà anche il Pdl: «Occorre un segnale di compattezza», dice anzi all’affollata riunione di Palazzo Grazioli. Solo che poi spiega: «Se ci saranno liste fatte da altri, da Bertolaso, Montezemolo o Sgarbi, io non posso farci nulla». Non potrà farci nulla neppure se i promotori di simili formazioni pretendessero di presentarsi in coalizione con il Pdl: sarebbe una corte impossibile da respingere e si cederà. «Non ho intenzione di fondare un nuovo partito, lo smentisco», assicura ancora il Cavaliere a una folla di dirigenti dallo sguardo tremante. Poi però, «se ci fossero iniziative assunte da figure esterne». Se insomma il partitone, o meglio i colonnelli del partitone berlusconiano, speravano di stipulare una “po-
rettamente il capo dello Stato non se ne può parlare in questa legislatura.
salva, come proclama gongolante Giovanardi, ma la sostanza no.
Buone intenzioni tra cui spicca la svolta delle primarie. È vero che, come dice Alfano, a destra si tratta di un inedito, anche nel senso che non si è mai discusso in profondità sull’adozione di un simile strumento. Anche per questo, l’accelerazione appare come un antidoto al rischio che Berlusconi decida di spacchettare tutto. Significativo è che proprio all’inizio del documento si parli di disponibilità a «partecipare a primarie aperte a tutta la coalizione per l’individuazione del candidato premier». Si legge con chiarezza, in queste righe, il senso del «mandato politico» che il gotha del Pdl attribuisce ad Alfano: «Aprire un confronto con tutte le forze di centro», come conferma Cicchitto a fine vertice. E ancora più significativo è l’accenno apparentemente estemporaneo fatto da Ignazio La Russa su possibili candidature a sorpresa: alle primarie, dice il coordinatore pidiellino a nome degli ex An, «il nostro candidato è Alfano», ma «se si creassero le condizioni per una coalizione siamo pronti a valutare altre soluzioni». Che è un modo per accelerare sul tentativo di avvicinare i moderati ma anche per indicare l’investitura dell’attuale segretario come un’ipotesi più difensiva che altro.
Non si dirada dunque l’incubo dell’arcipelago, cioè la geminazione dal Pdl, o meglio dal sole-Berlusconi, di listini personali che formerebbero tante isolette. Il vecchio partito resterebbe su una di queste isole, col rischio di fare la fine dei soldati italiani in Mediterraneo, il film di Salvatores: abbandonati e dimenticati da tutti. È davvero un incubo, che l’ufficio di presidenza del Pdl tenta di allontanare anche con le parole pronunciate da Alfano: «Nel nostro Paese ci sono due grandi aree storiche, e della nostra Silvio Berlusconi è il protagonista». Non basta, il riconoscimento, a frenare del tutto il Cavaliere. Certo, segretario e presidente sono d’accordo sul fatto che i giornali di centrodestra danneggiano più il Pdl che altri, Alfano in particolare esibisce la simmetrica e inquietante vicinanza tra un titolo del Giornale e uno di Repubblica, ma si tratta di corollari. Gli unici a incitare, con forza, l’ipotesi arcipelago sono la Santanché e Galan, isolati. Ma proprio Berlusconi non manca di ricordare che il crollo nei sondaggi deriva anche dalla sua eclissi. E i due temerari tifosi della balcanizzazione invocano proprio una «leadership mediatica» del Cavaliere che unisca le isole dell’arcipelago. Ipotesi sulla quale rischia di divampare un duro scontro.
Approvato un documento che apre a una scelta «di coalizione» per palazzo Chigi. Il segretario dice che «in Italia ci sono due grandi aree e Silvio è il protagonista della nostra» lizza casco” contro il rischio spacchettamento, escono delusi.Tra le mani stringono non un’assicurazione, ma una letterina di buone intenzioni. Innanzitutto, primarie per la premiership, che nascondono anche il tentativo di dismettere definitivamente la leadership del Cavaliere. Sulla consultazione, Alfano sottolinea che «non c’è precedente storico nella nostra area». Coinvolgimento «fisico e on line» degli elettori, per definire in modo aperto, appunto, il programma «in vista delle elezioni del 2013». Ancora, la rassicurazione, questa sì forte, sul fatto che «il Pdl è stato e sarà leale a quanto previsto dal programma di governo», con la postilla che non saranno votati «interventi su altre materie» ritenuti contrari «agli interessi dell’Italia e degli italiani». Proposte di politica economica tra cui non mancano antichi cavalli di battaglia come la Bce prestatrice di ultima istanza». Fino al rilancio per una «grande riforma presidenzialista», tentato proprio nel giorno in cui Bersani dice che di eleggere di-
La vera angoscia, il vero nodo, il motivo stesso per cui ci si incontra a palazzo Grazioli, non è neppure la severa lettera con cui Renato Schifani ha chiesto «un’operazione verità». Tutto in realtà riconduce a quella tentazione del Cavaliere: moltiplicare l’offerta politica, pur senza dismettere il Pdl. E appunto, il leader non fa molto per tranquillizzare i suoi, anzi. Perché è vero che esclude di fatto di affidare a singole personalità del partito la creazione di formazioni satelliti, ma comunque non esclude di dire sì ad alleanze con le liste messe su da altri. Si dà il caso che la civica di cui si starebbe occupando Bertolaso sia tutto fuorché un’iniziativa spuntata dal nulla all’insaputa di Berlusconi. Quindi, la forma sarà pure
se vuol fare l’accordo, se vuol mancare di rispetto alle istituzioni o se vuole fare l’accordo. Le due cose insieme non stanno». E nella sua replica ha aggiunto: «Ogni giorno leggo una serie di dichiarazioni di Di Pietro irraggiungiblili persino per Grillo. C’è un limite a tutto, su questo è il caso che ci intendiamo». E a proposito del leader del Movimento 5 Stelle ha detto: «Noi non abbiamo guerre da fare, ma ad un partito che viene dato per il secondo o terzo del Paese sarà consentito chiedere chi è e cosa intende fare, senza limitarsi per favore a parlare della raccolta differenziata, ci arriviamo anche noi».
Ma svanito il fumo delle dichiarazioni a effetto, utili per tacitare dissensi interni e mal di pancia di alleati presenti e futuri, il rischio è che tanta carne sul fuoco possa bruciarsi e di commestibile rimanga davvero poca roba. Sulla legge elettorale Bersani raccoglie la sfida di Angelino Alfano, per verificare in tre settimane «se c’è l’accordo. Ai primi di luglio dobbiamo sapere con ragionevole certezza la soluzione. Ribadisco il no al Porcellum che considero una causa principe del distacco dei cittadini e che non ha consentito la governabilità. Considero peraltro che i tempi ormai sono molto stretti. Non si mostri di voler proseguire l’iter o far finta di proseguirlo con qualche voto a maggioranza. In una situazione come quella in cui stiamo sarebbe ridicolo», chiarendo che la
riforma «sia però liberata da ogni condizionamento, il semipresidenzialismo non è percorribile in questo scorcio di legislatura» e rilanciando il doppio turno e i collegi.Tanto per rilanciare la palla in tribuna.
Noi vogliamo chiamare dentro il Pd tutte le forze e le energie della società, ma allo stesso tempo dobbiamo sapere che se qualcosa nasce nella società noi dobbiamo stare attenti, ascoltare».
Ai “dem” critici nei confronti del governo Bersani manda un messaggio e avverte Stefano Fassina per tutti: «Non offrite alibi alla destra ipotizzando la caduta del governo. Tutte le critiche devono stare al di qua del rischio di indurre instabilità. Dobbiamo essere consapevoli che il quadro è in fibrillazione». L’intervento di Bersani è stato accolto positivamente dagli esponenti del suo partito che hanno sottolineato gli aspetti positivi più vicini alla loro sensibilità politica. Per Beppe Fioroni il segretario ha fatto «bene a fissare le primarie e a candidarsi, se questo serve a costruire uno schema con ”l’area riformista alleata con l’area moderata». Evidenziando che servono «non primarie di partito, che sarebbero un congresso, non di coalizione ma primarie d’area». Marco Follini ha invece affidato a Twitter il suo pensiero: «Mi pare che oggi Bersani abbia dato il benservito a Di Pietro. Era ora». Walter Veltroni ha spiegato che «il Pd non deve delegare al sistema della alleanze il suo compito, ma deve costituire il principale interlocutore della sfida riformista. La discussione se far nascere liste civiche è assurda.
Sulla vicenda primarie Massimo D’Alema ha lanciato l’idea di farle «lo stesso giorno del Pdl, così siamo sicuri che i loro elettori non partecipano alle nostre, con una regola che si autocostituisce. Non ho una opposizione di principio sulle primarie, ma ho posto l’esigenza di regolarle per farne non un momento salvifico, un camminare sui carboni ardenti, ma un momento organizzato e regolato di partecipazione democratica». Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha fatto sapere di aver molto apprezzato la relazione del segretario Bersani, ovviamente, soprattutto nel passaggio sulle primarie, per le quali, si apprende dal suo staff, avrebbe pronta già la “macchina”. Renzi ha, però, espresso qualche timore per alcuni interventi di esponenti del partito, tra cui Marini e D’Alema, che hanno chiesto una riflessione sulle regole del meccanismo delle primarie. Un invito a cambiare la legge elettorale è arrivato da Paolo Gentiloni: «Accettiamo la sfida di Alfano di un accordo e un’intesa in tre settimane. Se Veltroni dice che peggio del Porcellum c’è solo il Porcellum con le preferenze, io dico che ancora peggio è il Porcellum con le primarie».
pagina 4 • 9 giugno 2012
la crisi italiana
Lettera aperta al premier che ha dato segni di (comprensibile) nervosismo: le linee di politica economica forse vanno cambiate
Caro Mario ti scrivo...
Non basta la lotta all’evasione, servono anche tagli drastici alla spesa e dismissioni. Il governo Monti deve cambiare strada prima che sia troppo tardi. Anche perché il suicidio dei grandi partiti rischia di mandare a rotoli il Paese di Enrico Cinsetto l nervosismo del presidente Monti è per molti versi comprensibile, ma ciononostante appare sopra le righe e controproducente. Egli, che meno di altri nella sua vita ha mai sopportato il contradditorio, è oggetto di due tipi di critiche.
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La prima gli viene dai partiti che pure lo votano in parlamento, i quali mostrano verso di lui una crescente insofferenza, tanto che il Pdl, se non fosse per le (interessate) prudenze di Berlusconi, avrebbe già rotto e fatto saltare il governo. La seconda gli viene da alcuni opinionisti (io sono fra questi) e dal mondo imprenditoriale, cosa che ha finito per indurre i giornali anche più favorevoli ad un atteggiamento decisamente meno morbido di prima. Delle prime, Monti non si lamenta pubblicamente (morsicandosi la lingua) per evitare guai al governo, le seconde le soffre oltre ogni limite, e finisce per uscirsene con reazioni tipo
quella «sono stato abbandonato dai poteri forti», che denuncia un vittimismo del tutto fuori luogo. Infatti, a parte chi fa da cassa di risonanza dei partiti che sono all’opposizione, nessuno di quelli che hanno denunciato alcuni limiti del governo e, soprattutto, proposto ricette alternative o integrative di quelle adottate dal governo, lo ha fatto in modo preconcetto, antagonista o comunque anche solo malevolo. Tutti sono stati costruttivi, e c’è da chiedersi perché un uomo avveduto e misurato come il professor Monti debba considerare critiche e suggerimenti alla stregua di attacchi personali o, peggio, strumenti di manovre politiche e di palazzo. Sciocchezze, professor Monti: lei è presidente del Consiglio, e come tale non solo non ha il diritto di prendere cappello, ma ha il dovere di rispondere dialetticamente a chi interpreta gli umori dell’opinione pubblica e a chi produce idee e lancia proposte. Suvvia, lei lo
ha fatto con i politici – ricorda quei suoi appelli «ditemi, sono qui per ascoltare e imparare» lanciati nelle aule parlamentari e di commissione? – dai quali sapeva benissimo che non avrebbe potuto raccogliere uno straccio di idea neanche a spremerli, e si chiude a riccio, adontandosi persino, con editorialisti, economisti e colleghi professori? Per poi magari chiamarli per dar loro qualche incarico! Capisco che
Il Parlamento ha accettato la riforma delle pensioni senza fiatare
chi è disabituato al confronto politico faccia fatica a sottoporsi al rito del dibattito. E capisco pure che la dialettica politica degli ultimi anni è stata così squalificata che ora chiunque si sente autorizzato ad aprire la bocca.
Tuttavia, il momento richiede saldezza di nervi e comprensione del fatto che il Paese va coinvolto se si vogliono prendere decisioni difficili, co-
me fare le sempre evocate e mai realizzate riforme strutturali. Vede, Presidente, Lei di fronte alla scoperta di un buco nelle entrate tributarie di 3,5 miliardi che, si badi bene, non deriva da un minor gettito (che, invece, è aumentato nel primo quadrimestre rispetto allo scorso anno) bensì da uno scarto con quanto previsto (erroneamente) nel Def, se ne è uscito dicendo che sulla cosiddetta «lotta all’evasione fiscale» si dovrà essere «ancora più duri», perché «certe azioni della Guardia di finanza, che hanno fatto prendere un pizzico di salutare paura in più al contribuente» hanno dato «buoni risultati». Ecco, se mi consente, questo significa sfidare l’opinione pubblica senza neppure avere buone carte in mano. Perché il tanto incensato contrasto agli evasori ha sì fatto registrare (nei primi quattro mesi del 2012) un aumento di incassi del 3,7%, ma in valore asso-
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Solo così, ritrovando l’unità nazionale, potremo davvero migliorare il nostro sistema
Presidenzialismo? Prima ci sono tre Italie da cambiare
Divisioni tra laici e cattolici, divisioni tra fascisti e antifascisti, divisioni tra Nord e Sud. È ora di aprire una nuova fase basata sull’«identità» di Francesco D’Onofrio a vicenda del passaggio da un sistema politico-costituzionale di tipo parlamentare - anche se fortemente caratterizzato dagli attuali poteri del Presidente della Repubblica - a un sistema cosiddetto semipresidenziale alla francese non deve essere valutata esclusivamente alla luce delle specifiche congiunture parlamentari in atto, perché concerne un punto essenziale del contesto politico italiano per quale esso era al tempo della Costituente, e quale esso è oggi nel quadro della integrazione europea. Non si tratta infatti di giudicare in termini del tutto astratti della forma di governo preferibile: parlamentare semplice; parlamentare razionalizzato; semipresidenziale alla francese; presidenziale alla nord-americana; presidenziale alla sudamericana; o altre ancora che l’esperienza costituzionale del mondo ci offre.
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Si tratta invece - anche in questo caso del cercar di comprendere il perché in una data esperienza storica vi sia stata una scelta o un’altra in uno Stato a regime monarchico o in uno Stato a regime repubblicano; in uno Stato dignitosamente definibile come democratico o in uno Stato che prescinde dalle specifiche forme di democrazia ritenute necessarie. Nel caso italiano occorre infatti aver presente che alla scrittura della Costituzione si giunse anche sulla base del risultato del referendum istituzionale nel quale gli italiani erano stati chiamati a scegliere tra Monarchia e Repubblica. In quella circostanza si era in particolare al termine di una guerra mondiale perduta dall’Italia a conclusione di una esperienza di governo, che - come tutti sappiamo - era stata quella fascista di Mussolini. In quel contesto risultava di tutta evidenza che l’unità nazionale doveva essere quindi costruita non più sulla base dello scontro tra laici e cattolici - che aveva caratterizzato l’origine del Regno d’Italia - né sulla base della contrapposizione tra fascisti e antifascisti, che aveva caratterizzato il Ventennio mussoliniano. L’unità nazionale finì pertanto con l’essere rappresentata proprio dalla Costituzione repubblicana, sul cui testo complessivo finirono con il convergere non soltanto i due partiti maggiori, ma anche altri partiti che diedero vita a una larghissima maggioranza dell’Assemblea medesima. In quel contesto la forma di governo prescelta fu pertanto costruita tutta dentro un quadro di unità nazionale ricercato non tanto su questa o quella istituzione di governo in quanto tale considerata, ma sull’insieme delle istituzioni che concorrevano a determinare la politica nazionale, come si esprime in particolare l’articolo 49 della Costituzione in riferimento ai partiti politi-
ci. Il sistema parlamentare vigente sulla base della Costituzione originaria comprende, pertanto, sia il principio democratico della volontà popolare filtrata dai partiti politici in parlamento, sia le istituzioni di garanzia costituzionale e di controllo dell’esercizio del potere stesso di governo, sia la definizione di una specifica funzione istituzionale anche del tutto nuova, quale è quella rappresentata dal Presidente della Repubblica. L’unità na-
Mai come adesso, la coesione deve essere vissuta e inserita nel contesto di integrazione europea
zionale, pertanto, finisce con l’essere vissuta complessivamente da un sistema costituzionale che è contemporaneamente orientato alla legittimazione dei poteri di governo sulla base del consenso parlamentare, (del quale il rapporto di fiducia tra parlamento e governo rappresenta ad un tempo legittimazione e limite), e sulla predisposizione di molteplici e significativi poteri di controllo, dei quali è sostanzialmente garante supremo un Presidente della Repubblica distinto dal Governo della Repubblica. Non si tratta pertanto di un sistema parlamentare per così dire ottocentesco, non solo perché si passa dalla Monarchia alla Repubblica, ma soprattutto perché esso trova una fonte di legittimazione nuova nei partiti che determinano la politica nazionale. Il mutamento del sistema di governo da parlamentare razionalizzato, quale è il sistema italiano, a sistema cosiddetto semipresidenziale alla francese deve pertanto fare i conti proprio con il significato della unità nazionale, che è radicalmente diverso in Italia e Francia.Tutti sappiamo infatti che proprio la Francia è caratterizzata da un fortissimo sentimento di identità nazionale basata sulla amministrazione pubblica - che di quella unità costituisce il fondamento anche a prescindere dalla forma di stato monarchica o repubblicana, e dal sistema di governo parlamentare o semipresidenziale. Il contesto italiano è stato invece caratterizzato dallo scontro fra laici e cattolici al momento stesso della unità nazionale monarchica, ed è divenuto repubblicano solo al termine della lunga esperienza fascista e della significativa sconfitta militare al termine della seconda guerra mondiale.
Da quel momento a oggi l’unità nazionale mentre non è stata certamente più posta in discussione in riferimento allo scontro tra laici e cattolici, lo è stata in riferimento al rapporto tra Nord e Sud, come le indicazioni anche costituzionali della Lega hanno dimostrato nel corso degli ultimi venti anni. Non si tratta dunque di una questione puramente teorica, perché la scelta tra il modello parlamentare vigente (che può essere ulteriormente modificato), e il cosiddetto modello semipresidenziale francese è sostanzialmente una scelta sull’unità nazionale. Mai come in questa fase, l’unità nazionale deve essere vissuta nel contesto del processo di integrazione europea, proprio perché esso tende alla costruzione di una nuova statualità europea, da edificare senza che vengano meno le originarie unità nazionali dei singoli Stati europei. Opera certamente lunga e difficile ma mai come oggi necessaria.
luto ciò ha corrisposto a solo 74 milioni di euro. Briciole, per il bilancio dello Stato. Così andando le cose, il totale della lotta all’evasione a fine anno si aggirerà intorno ai 6 miliardi di euro. Lei è proprio sicuro che ne sia valsa la pena, se sull’altro piatto della bilancia si mette che il «terrore fiscale» ha generato fughe di capitali all’estero, ha indotto a cancellare investimenti e rinviare consumi, ha reso i beni di lusso e più in generale la ricchezza oggetto di riprovazione sociale? Quanto vale tutto questo in termini economici? Io penso che tentare di risolvere i nostri problemi con il “moralismo fiscale” non solo sia sbagliato, ma addirittura controproducente. Perché non discuterne?
E perché Lei, professor Monti, in questi mesi ha lasciato cadere nel vuoto le proposte che sono venute da molte parti sul taglio del debito come obiettivo del risanamento e come strumento del rilancio dell’economia? Ci sarebbe stato (e c’è ancora) tutto il tempo per impostare una grande operazione di dismissione del patrimonio pubblico – per realizzare la quale chiedere il concorso della ricchezza privata, in modo non vessatorio – e di significativo taglio (7-10 punti di pil) della spesa corrente, cui far corrispondere un proporzionale abbassamento della pressione fiscale su imprese e lavoro. Un programma che avrebbe dato al suo governo, professor Monti, una tale credibilità da rendere indispensabile la sua prosecuzione anche oltre il 2013, trasformandosi in un vero e proprio esecutivo di grande coalizione. Ma Lei, inspiegabilmente, si è sottratto. E così agli occhi di un numero sempre crescente di italiani appare ogni giorno di più come quello che “tira a campare”, vittima sì del ringalluzzimento autodistruttivo (più lo fanno più perderanno voti) dei partiti – che avrebbero taciuto se il governo avesse continuato a non tentennare come è stato nella prima fase (si pensi alla riforma delle pensioni passata senza neppure un’alzata di sopracciglio) – ma anche dei propri limiti strategici e di comunicazione. Del governo Monti, invece, c’è ancora molto bisogno. È indispensabile per rappresentare l’Italia nell’infuocata (e pericolosissima) arena europea. Serve perché i partiti non sono minimamente preparati alle elezioni (e non solo a quelle anticipate, per la verità) e nessuno si è premurato di costruire scenari politici chiari per il futuro. Ma serve nella misura in cui cambia decisamente, e rapidissimamente strada. Prima che sia troppo tardi. (twitter@ecisnetto)
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la crisi italiana Il “Piano Passera” per lo sviluppo è pronto ad essere approvato dopo le correzioni della Ragioneria
Il ministro della crescita Lo aveva detto fin dall’inizio della sua avventura di governo: per ripartire, servono investimeni. Il «banchiere in prestito» è il tecnico che cerca di interpretare al meglio la «buona politica» di Marco Scotti segue dalla prima Prendiamo i numeri che si riferiscono a quanto sostenuto: nel decennio 2000-2009, la crescita media dell’Italia è stata dello 0,47 per cento, con picchi concentrati nei due estremi della serie che stiamo considerando (+ 3,9 per cento nel 2000, -5,1 per cento nel 2009). Un lasso di tempo sostanzialmente sprecato, fermo, in cui il nostro paese ha patito drammaticamen-
«Sosterremo Monti», dice il presidente di Confindustria
E Squinzi «fa pace» con il governo ROMA. Giovedì Monti aveva lamentato di essere stato «lasciato solo» dai poteri forti (leggi, tra gli altri, Confindustria) e ieri, prontamente, è arrivata la siposta del neopresidente di Viale dell’Astronomia, Giorgio Squinzi. «Sosterremo tutto quello che il governo farà nella direzione giusta di ritrovare lo sviluppo in questo paese. Su questo potrà contare sul nostro pieno supporto, nel modo più assoluto» ha detto Squinzi in margine a un convegno dei giovani di Confindustria. E poi ha aggiunto: «Onestamente penso che il momento è così difficile, abbiamo talmente tante preoccupazioni che assolutamente non mi sembra sia il momento di fare polemiche». Per spiegarsi meglio, ha anche detto che «stiamo vivendo una crisi che mai nella mia vita ho vissuto. Dal dopoguerra ad oggi non abbiamo avuto un periodo così difficile. Tuttavia dobbiamo ritrovare la capacitá di fare impresa e chiedere di poterlo fare perchè la forza del paese sta nel produrre e ci aspettiamo che questa sfida venga colta da tutti». Da parte sua, Jacopo Morelli, leader dei giovani industriali, nel medesimo
convegno di Santa Margherita Ligure ha lanciato un altro allarme: «Disoccupazione che cresce, imprese che falliscono e tensione sociale. L’Italia è ai limiti della frustrazione e la protesta civile rischia di esondare in rivoli minacciosi e inaccettabili». Questo, evidentemente per Morelli è un quadro che lascia poco spazio alle speranze ai giovani imprenditori: «42 aziende al giorno chiudono, stiamo diventando un paese più povero, diseguale e spaventato». Guardando poi oltre le statistiche negative, ha spiegato ancora Jacopo Morelli, «le conseguenze sono drammatiche» e alle imprese tocca giocare un ruolo importante: «Mettiamo le nostre risorse e il nostro impegno per creare lavoro e nuova ricchezza». I giovani industriali (oltre 13mila associati di Confindustria), ha aggiunto il loro leader, hanno «energia per contribuire a organizzare la riscossa» in un’Italia in cui 42 aziende chiudono i battenti ogni giorno e «che lascia senza occupazione più di un terzo dei giovani, in cui è a rischio di povertà un bambino su quattro». E ha concluso mandando un messaggio chiaro: «Passa dai giovani ogni politica di rilancio. Prima se ne prende consapevolezza meglio è».
te il confronto con le altre potenze mondiali che pure, eccezion fatta per la Cina, hanno vissuto anch’esse momenti difficili. E le previsioni per il 2012, dopo due anni di timida ripresa, sono di un nuovo tonfo del pil che, secondo alcuni analisti, potrebbe scendere del 2 per cento.
Qual è il male oscuro dell’Italia? Prima di tutto, una scarsa attenzione ai costi della macchina amministrativa, che grava sul pil per oltre il 50 per cento. Nessuno, com’è ovvio, pretende di rinunciare alla sanità pubblica che, soprattutto in alcune regioni, funziona piuttosto bene o a sistemi di welfare. Ma è anche vero che proprio sulle tematiche concernenti il lavoro, molto si è detto ma ben poco si è fatto, se è vero che la disoccupazione continua a crescere e i cosiddetti ammortizzatori sociali sono strumenti imperfetti di per se stessi, perché non garantiscono nuove collocazioni ai lavoratori ma solo un parziale sostegno al reddito per un lasso di tempo definito. Da questo punto di vista, assai migliore è la situazione nel nord-Europa, dove a fronte di meccanismi di flessibilità (ma non di precarietà) si riesce non solo ad avere una disoccupazione bassissima (in Danimarca sotto il 5 per cento) ma addirittura a ricollocare in tempi rapidissimi coloro che sono rimasti senza lavoro, destinando così i fondi risparmiati dai sussidi di disoccupazione al sostegno delle famiglie e dei giovani. Non è tutto: in Italia da troppo tempo si è smesso di puntare sulle infrastrutture – che sono state il volano del boom economico a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta – e sulla ricerca. L’imprenditoria nostrana è troppo parcellizzata e non è in grado di reggere l’urto con i grandi mercati. Ma, soprattutto, è poco tecnologizzata, e si concentra in settori che non sono più competitivi. Questo scenario serve a spiegare quanto importante sia la figura del ministro dello Sviluppo economico e quanto, soprattutto, sia fondamentale la presenza
di un uomo come Corrado Passera al dicastero di Via Veneto. Basti pensare a chi l’ha preceduto – su tutti, il ministro Claudio Scajola cui veniva comprata una casa a sua insaputa – per tracciare una netta distinzione e sperare che le voci che si sono rincorse ieri su possibili dimissioni (poi, fortunatamente, smentite) dell’ex numero uno di Intesa Sanpaolo rimangano tali. Troppo importante quello che sta facendo Passera per il Paese e troppo importante, soprattutto, il suo ruolo di polo di aggregazione dei moderati in vista delle elezioni dell’anno prossimo.
Non è un mistero che Passera sia da tempo annoverato tra coloro che potrebbero proseguire la propria esperienza politica anche dopo la fine del governo tecnico guidato da Mario Monti. Al di là di scenari futuri e futuribili, è bene che si comprenda quanto il ruolo di Passera in questi mesi sarà nodale per cercare di risollevare un’Italia malata ma che non vuole arrendersi. Nonostante le previsioni a tinte fosche, infatti, il sistema-Italia non va del tutto cestinato. Piuttosto, ammodernato e reso più efficiente. Le grandi eccellenze su cui puntare esistono: alcune, come la moda e l’agroalimentare, sono da tempo il fiore all’occhiello dell’imprenditoria nostrana; altre, come (incredibile a dirsi) il turismo, sono invece ad oggi sottoutilizzate. Com’è possibile che il nostro paese, che detiene il maggior numero di siti“patrimonio dell’umanità”(secondo l’ultimo aggiornamento dell’Unesco del giugno dello scorso anno), 47 su 936 totali, non sia al primo posto nella classifica per numero di turisti l’anno, quasi doppiato dalla Francia (75,5 milioni contro i 41,2 milioni del nostro Paese)? Soprattutto ora che i Paesi emergenti – i cosiddetti Brics – iniziano a muovere una quantità enorme di persone, poiché possono contare su una popolazione di oltre tre miliardi di abitanti, sarebbe davvero un crimine non incentivare quanto più
In queste pagine: uno scatto del ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera; la sede di Intesa Sanpaolo; l’ex ministro dello Sviluppo economico del governo Berlusconi, Claudio Scajola; l’attuale ministro della Giustizia, Paola Severino
possibile una “industria” che attualmente è in grado di creare il 7 per cento del Prodotto interno lordo. Corrado Passera è uomo abituato alle grandi sfide, come quella che gli fu offerta quando divenne amministratore delegato di Poste Italiane, una delle più importanti aziende nostrane che versava in cattive acque e che il manager lariano è riuscito a risollevare attraverso un piano a due velocità: da un lato, una forte espansione al di fuori del cosiddetto “core business”, con la
borsa si ripiegava come un castello di carte, è senz’altro la più grande e ambiziosa con cui si sia misurato. Ma bisogna che l’intero governo Monti, fino ad oggi giustamente concentrato a “mettere in sicurezza i conti pubblici”, corra al fianco del manager comasco, garantendogli tutto il supporto necessario. Lo stesso Passera, ieri, ha affermato in una nota che «stiamo lavorando con determinazione e senso di responsabilità, dando progressiva attuazione alla no-
Magari in Italia non ci sarà un nuovo Mark Zuckerberg, capace di dare vita a Facebook a soli vent’anni, ma è importante che il governo tecnico ridia speranza a due generazioni di giovani che sono nate e cresciute con la consapevolezza che la loro collocazione nel mondo del lavoro sarà problematica e deficitaria rispetto a quanto avviene in altri paesi. Passera, inoltre, è perfettamente conscio del fatto che il sistema imprenditoriale nostrano, un tempo capace di cammi-
Il ministro Severino sfida i partiti in vista del voto in Aula
Anti-corruzione: «Senza fiducia, ce ne andiamo» di Gaia Miani
ROMA. Martedì prossimo il
Il decreto sarà lo snodo da cui si potrà capire quanto il suo progetto per ridare nuovo slancio all’Italia sarà efficace creazione di servizi bancari, dall’altro, una razionalizzazione delle risorse che ha portato a uno snellimento dell’intero apparato. Grazie a questo gigantesco progetto è stato possibile chiudere nel 2002 il primo bilancio in attivo dopo decenni di “rosso”. Conclusa l’esperienza in Poste, Passera è stato il manager capace di portare a compimento la fusione di due colossi del credito come Intesa e San Paolo Imi, con la creazione di un polo bancario di enormi dimensioni, radicato in tutto il territorio italiano.
Un uomo, insomma, che non si tira indietro di fronte alle sfide. Quella che Mario Monti ha deciso di offrirgli nel novembre dello scorso anno, mentre lo spread schizzava ai massimi storici e la
stra Agenda per la crescita, ma siamo consapevoli che solo facendo sistema e lavorando insieme possiamo perseguire obiettivi di crescita sostenuta e sostenibile, nella ferma convinzione che sviluppo e creazione di occupazione siano responsabilità imprescindibili di una classe dirigente al servizio del bene comune». Il Decreto Sviluppo, atteso da mesi e che è stato ancora rinviato, sarà lo snodo da cui si potrà capire quanto il progetto ideato da Passera per ridare nuovo slancio all’Italia sarà efficace. In particolar modo cercando di offrire nuovi spazi di occupazione, incentivando l’imprenditoria giovanile e le start up tecnologiche che, nel resto del mondo, stanno divenendo un polmone sempre più importante per le asfittiche economie occidentali.
nare speditamente senza aiuti, oggi più che mai necessita di sostegno. Non è un caso che il ministro dello Sviluppo abbia voluto presenziare alla cerimonia di insediamento di Giorgio Squinzi alla guida di Confindustria, garantendo agli imprenditori un appoggio fattivo da parte dell’esecutivo.
Non resta, a questo punto, che aspettare di capire quali saranno le linee guida del Decreto Sviluppo, consci come siamo che solo attraverso la crescita (e non soltanto con le tasse) si può pensare di far ripartire l’Italia che rischia, ogni giorno di più, di divenire, da crocevia nel Mediterraneo, una semplice comparsa al tavolo dei “grandi”. Uno scenario che non vogliamo neanche immaginare.
governo metterà la fiducia sul ddl anti-corruzione e, se questa non ci sarà, «l’esecutivo tornerà a casa». A dirlo, ieri, è stato direttamente il ministro della Giustizia Paola Severino, a margine del Consiglio Ue Giustizia a Lussemburgo. La Guardasigilli s’è comunque detta «serena» perché, ha aggiunto, «credo che il provvedimento sia importante, corretto e condivisibile. Se il Parlamento lo condividerà ci darà la fiducia, e se non ci darà fiducia torneremo a casa, e sono serena anche su questo secondo caso».
Inevitabili le reazioni, visibilmente irritate, di Pd e Pdl. «Una fiducia accettabile», ma solo sul testo «uscito dalle commissioni» è quanto ha detto la capogruppo del Pd in Commissione Giustizia alla Camera, Donatella Ferranti: «Certo, quel testo sarebbe ancora migliorabile. In ogni caso, il nostro consenso sarà sul testo delle commissioni e non accetteremo alcun intervento sui processi in corso». Un sì tra i denti anche quello annunciato dal Pdl: «Voteremo la fiducia» anche se «è una scelta che soffoca il dibattito» ha commentato il capogruppo del partito in commissione Giustizia alla Camera, Enrico Costa. «Avremmo potuto ancora fare le nostre argomentazioni. La fiducia non credo sia la scelta migliore: è il Par-
lamento la sede del confronto». Da Lussembrugo, la Guardasigilli è intervenuta anche su un’altra polemica, sottolineando di non essersi mai «dichiarata disponibile» a «considerare la giustizia come merce di scambio», per-
ché il progetto riforma sui reati contro la pubblica amministrazione «è serio e la serietà non si scambia con nulla». Definire quindi la norma sulla concussione, che era stata criticata dalla magistratura milanese e dal leader dell’Idv Antonio Di Pietro, come «salva-Ruby»,«credo sia profondamente ingiusto». Qualsiasi «cittadino di buone intenzioni», ha spiegato Severino, può infatti «capire perfettamente che è una norma costruita esclusivamente per motivi di carattere tecnicogiuridico» e che «tiene conto della necessità di distinguere» la concussione per costrizione da quella per induzione, che sono «due cose profondamente diverse».
economia
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Il Presidente americano: se continua l’austerity si rischia una nuova Grande depressione. Bene l’Italia, Atene resti nell’Euro
Ue, lo schiaffo di Obama
«Gli Usa sostengono l’Europa, ma adesso rafforzate le banche». Madrid pronta a chiedere aiuti. La Merkel: «Stiamo aspettando» di Luisa Arezzo austerity può produrre una spirale senza ritorno e portare la discoccupazione a livelli da Grande depressione, «al 25%». Agire ora, quindi, è indispensabile per superare la crisi e per crescere, «quanto alla stabilizzazione dei conti è un piano più di lungo termine». È questo l’appello del presidente degli Stati Uniti lanciato durante il suo discorso del venerdì. Barack Obama si è detto molto preoccupato per la crisi in Europa. «L’Europa ha il nostro sostegno e può farcela, ma è una delle nostre grandi preoccupazioni, perché è il nostro maggiore partner commerciale. Servono misure dure, adesso. Prima i leader europei agiranno, prima il mercato e la gente potranno tornare ad avere fiducia e prima potrà esserci la ripresa» ha dichiarato Obama in conferenza stampa, a Washington.
L’
Poi la stoccata finale: La situazione in Europa «continua a porre venti contrari alla ripresa dell’economia statunitense». Lo schiaffo di Obama all’indecisione della Ue è arrivato ieri nel tardo pomeriggio. Mitigato però da una serie di consigli per i lea-
In alto, Mariano Rajoy, premier spagnolo e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Che ieri ha visto scendere in campo il presidente americano Barack Obama contro la sua politica dell’austerity
I dati Istat di aprile
E in Italia produzione giù del 9,2 ROMA. L’economia italiana continua a mandare segnali negativi: un intervento che corregga la tendenza recessiva e rimetta in modo la produzione diventa ogni giorni più urgente. A confermarlo, ieri sono arrivati i dati sulla produzione industriale: ad aprile l’indice, corretto per gli effetti del calendario, è diminuito in termini tendenziali del 9,2% (19 i giorni lavorativi contro i 20 di aprile 2011). Si tratta di un record negativo dal novembre 2009. Nella media dei primi quattro mesi dell’anno, secondo l’Istat, la produzione è diminuita del 6,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La diminuzione più marcata nei livelli produttivi riguarda il raggruppamento dei beni intermedi (-12,8%) ma anche gli altri comparti presentano cali significativi: del 7,9% per i beni di consumo, del 6,2% per i beni strumentali e del 3,8% dell’energia.
der europei. «L’area euro deve rafforzare il sistema bancario iniettando capitale nelle banche indebolite». E su Atene: «È nell’interesse di tutti che la Grecia resti nell’area euro». E infine l’appoggio alle riforme avviate da Madrid e Roma:
«Da un lato c’è la Grecia, che in effetti ha speso più di quello che poteva. D’altro canto ci sono Paesi come L’Italia e la Spagna che hanno un surplus e che hanno fatto riforme intelligenti, come quelle sul mercato del lavoro. Ora però - ha aggiunto Obama - bisogna dare tempo e spazio perché queste riforme possano raggiungere i loro obiettivi e avere successo». Sulla crisi europea, in particolare sul rischio default spagnolo, è intervenuta anche Angela Merkel: «La Spagna non ha ancora chiesto nessun
nistero spagnolo dell’Economia ha detto di non essere al corrente di una possibile conferenza telefonica dell’Eurogruppo prevista in questo fine settimana per discutere delle richieste di aiuto della Spagna. Interpellato dall’Afp dopo le indiscrezioni secondo cui sarebbe imminente un intervento europeo per il salvataggio delle banche spagnole, il portavoce del ministero ha risposto: «Non sono a conoscenza di questa conference call». Il portavoce ha poi affermato che non c’è nessun commento del ministero rispetto all’imminenza di un piano di salvataggio: «il capo del Governo ha detto ieri chiaramente che non aveva intenzione di fare commenti». Certo è che più la Spagna aspetta più aumenta il costo del salvataggio, che deve prevedere una rapida riduzione del deficit e un processo di consolidamento del sistema bancario. L’Europa «uscirà dalla crisi con un euro solido e con un futuro», ha detto sempre ieri Frau Merkel, aggiungendo che l’Eurozona «dispone di tutti gli strumenti per assicurare uno sviluppo stabile dell’area».
«La Spagna non ha ancora chiesto nessun intervento e la Germania non farà alcuna pressione sugli Stati affinché accettino un sostegno» ha detto ieri la Cancelliera a Berlino aiuto e la Germania non farà alcuna pressione sugli Stati affinchè accettino un sostegno» ha detto ieri la Cancelliera a Berlino. «Sta ai singoli Paesi rivolgersi, per così dire, a noi». L’ipotesi di una richiesta in questa direzione da parte di Madrid è stata ventilata ieri dall’agenzia Reuters, secondo la quale gli spagnoli sarebbero pronti a chiedere un pacchetto di aiuti per il proprio sistema bancario già da oggi. La richiesta potrebbe seguire a una conference call dei ministri delle Finanze dei ministri, sempre in calendario per oggi. Dopo la quale dovrebbe essere emesso anche un comunicato dell’Eurogruppo. Ma qui comincia il mistero e il valzer dei silenzi e delle smentite. Bruxelles infatti non conferma la riunione dell’Eurogruppo nel week end. Anche il mi-
Secondo la Merkel, sono già state approntate tutta una serie di misure per assicurare la stabilità dell’Eurozona e per aumentare la competitività dell’area.Tra queste, la Cancelliera ha citato le riforme strutturali, i piani per lo sviluppo e per la solidarietà tra Paesi membri. Gli strumenti per esercitare questa solidarietà sono il fondo salva-Stati europeo Efsf e il futuro fondo permanente Esm. È chiaro, tuttavia, che «chi vuole fare ricorso a questa solidarietà, deve presentare una richiesta di propria iniziativa». La palla, insomma, passa a Madrid. Mentre le borse annaspano.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Anticonvenzionale. Tutt’altro che ubbidiente. Capace di assumere posizioni teologicamente eterodosse. E di rendere il desiderio trascendente. Teodolinda Barolini, autorevole studiosa dell’Alighieri, lo restituisce al lettore “ripulito” dalla visione addomesticata e corretta, comunemente prediletta dagli esegeti
erti libri non si smettono mai di leggere ed esaminare. E non è affatto retorica affermare che la Divina Commedia di Dante è così poeticamente felice e ricca di spunti da dover essere collocata sopra un immaginario e immenso leggio di casa nostra. Teodolinda Barolini, già presidente della Dante Society of America, critico letterario e direttore del dipartimento italiano della Columbia University di NewYork, è uno dei più accreditati e autorevoli studiosi dell’Alighieri. Il suo libro, appena edito dalla Bompiani (Il secolo di Dante, 697 pagine, 26,00 euro) è la summa delle sue riflessioni sulle «origini della cultura letteraria italiana», così come recita il sottotitolo. Per erudizione e per acume, questo scritto non può che appassionare i lettori e spingerli a tornare alle radici della letteratura di altissimo livello in un periodo come il nostro in cui abbondano operette, tentativi e falsi capolavori spinti dal marketing editoriale. Non è casuale osservare che in testa alle classifiche dei libri più venduti negli anni Sessanta figuravano autori come Sciascia, Pasolini e Calvino.
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LA VERITÀ SU DANTE di Pier Mario Fasanotti
la verità su
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Lady D. e il “romance” di Paolo e Francesca on la dolente e sensualissima storia di Paolo e Francesca, Dante inserisce nella sua Commedia (V canto dell’Inferno) il genere romance. Storia vera? La domanda ce la dobbiamo porre, precisa Teodolinda Barolini che ne scandaglia tutti i particolari, visto che «non esiste traccia di testimonianza storica cui il poeta possa aver attinto». Se le fonti sono dubbie o addirittura nulle, a rompere il silenzio fu lo stesso poeta fiorentino. Il quale, diventando storico di riferimento oltre che cantore di una passione romantica, ha salvato la bella e raffinata Francesca dall’oblio. E la donna, in quanto al centro di un adulterio (fa l’amore con il cognato, quindi un legame quasi incestuoso) della realpolitik dei Malatesta di Rimini che combinarono un matrimonio di interesse territorial-finanziario-militare, del turbine passionale che la vede vulnerabile eppure domina (è lei, solo lei, a parlare con il pellegrino che s’aggira nei gironi dell’Inferno), ecco, dicevamo, questa donna assume i contorni dell’icona popolare, come Diana Spencer, principessa del Galles. Figura quella di Francesca che ha la benedizione, la comprensione e il perdono pur essendo nel luogo peccaminoso dei lussuriosi, condannati a essere trasportati dal vento, come atomi dolorosamente ed eternamente irrequieti. Lo stesso vento-passione (legge del contrappasso) che pone nel vortice giustizialista personaggi come Semiramide, Didone, Cleopatra, Achille e mille altri. La studiosa di Dante non lo dice, ma il racconto in versi di questo dramma potrebbe essere definito shakespeariano ante litteram. Francesca nasce in una famiglia che vuole il dominio su Ravenna (in realtà lo ebbe, nel 1275) e deve sposare Giovanni detto Gianciotto, secondogenito di Malatesta da Verucchio, poi ucciso («Caina attende chi a vita ci spense» dice Francesca a Dante; caina è il riferimento al cerchio più basso dell’Inferno in quanto il signorotto è fratricida). La donna viene vista poi come il simbolo della femminilità che si ribella (lei con un bacio adultero) allo strapotere delle grandi famiglie. Ma anche Dante si commuove: «Francesca, i tuoi martìri/ a lagrimar mi fanno tristo e pio». La poesia sublime dell’esule fiorentino fa sì che la vicenda di Francesca non scada nel voyerismo, perché non tralascia importanti elementi del dramma, come la politica e il potere. E il romance si contrappone alla ragione, a quella ragione che avrebbe dovuto frenare una donna sull’orlo di un peccato carnale.
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E oggi? A parte qualche rarissima e nemmeno troppo solida eccezione, è forse meglio tacere. L’autrice si pone come obiettivo quello di ridurre o demistificare un’enorme quantità di esegesi dantesche o comunque punti di vista spesso erroneamente reiterati nel corso dei secoli. Per esempio intende scardinare la dicotomia tra il Dante poeta e il Dante narratore del vero. C’è poi un altro aspetto importante: l’Alighieri, da molti protetto dall’accusa di eresia con lo scudo dell’allegoria, talvolta è uscito dal solco dell’ortodossia cattolica. E tuttavia, annota la Barolini, non ha mai destato la stessa attenzione che l’ayatollah Khomeini ha avuto nei confronti del romanziere indiano Salman Rushdie. Certo, Dante fu sempre considerato un eccelso poeta. Ma è anche vero che la Chiesa italiana non era certo schiva nel comminare pene radicali a chi usciva dal seminato canonico: sei anni dopo la morte di Dante, per esempio, l’astrologo, medico e matematico Cecco d’Ascoli fu mandato al rogo.
Secondo la Barolini «la cultura italiana è piuttosto pesante nella sua attenzione alla fonte autorevole, nella sua riflessiva genuflessione verso il passato. Allo stesso tempo, la convenzionalità non è una caratteristica dei grandi poeti e scrittori italiani…». L’Alighieri osa inventare - enanno V - numero 22 - pagina II
trando quindi nella eterodossia un vestibolo infernale per collocarvi due gruppi assolutamente non riconosciuti dai teologi, gli angeli neutrali che non presero posizione durante la ribellione di Lucifero e le anime umane che non si erano impegnate né nel far del bene né nel far del male («suggerendo che persino l’impegnarsi nel male è preferibile al non impegnarsi per nulla»). Non è dunque vero che Dante abbia accettato «con perfetta docilità» le Sacre Scritture. Se lo si raccomandava come «mastro di dottrina cristiana», si eludevano alcuni particolari della sua opera. «Dante - scrive la Barolini - non accetta semplicemente le cose come stanno». Per esempio pone i pagani virtuosi adulti nel limbo senza che ci sia alcuna giustificazione teologica per questa operazione. È poeta, quindi può far tutto? Va bene, ma su un ter-
dante
Mentre Paolo, bello ma essere secondario dentro la narrazione, piange e non parla, Francesca invece parla, ma tutto non dice. Quel giorno in un luogo appartato i due leggevano un libro «per diletto» (la storia della Tavola Rotonda). Libro definito «galeotto» in quanto descriveva il bacio che Lancillotto dette a Ginevra. Annota la Barolini: «Il romanzo Lancelot e il suo autore - “il libro e chi lo scrisse”- sono dunque responsabili di aver messo insieme Francesca e Paolo, una formula questa che sembra non lasciare molto spazio all’iniziativa personale dei lettori del libro. Eppure la successiva dichiarazione,“quel giorno più non vi leggemmo avante”, conclude potentemente con una loro azione attiva». Gli attori non sono più quelli della finzione, ma loro due in carne e ossa. Non lessero più quell’avventura cavalleresca. E dunque? Ancora la Barolini: «L’ellittico verso conclusivo è un’asserzione di controllo esercitato sui lettori della Commedia, i quali vengono lasciati appesi a un’affermazione che fa pensare mille cose ma non dice nulla. Francesca, in definitiva, usa qui delle parole per imporre silenzio». Largo, larghissimo spazio a tutti coloro che hanno fantasticato o vogliono immaginare il proseguo dell’inizio della passione. Anche perché quelli che si soffermarono successivamente (non mancò neppure il Boccaccio), sul dramma romagnolo, insistettero nel descrivere lo sposo di Francesca, Gianciotto, come uomo sgraziato nell’aspetto (pare fosse zoppo), grossolano, uomo d’armi, crudele. Mentre il fratello Paolo, in second’ordine negli affari della politica dinastica, era «uomo molto bello del corpo e ben costumato, e acconcio più a riposo, che a travaglio», quasi un dandy. Insomma tra i due amanti scatta l’amore per l’immediato equilibrio. Francesca, poi, è femmina che legge, quindi ancora più vittima di canoni sociali brutali e maschilisti. E vittima, probabilmente, di una trappola: «Soli eravamo e senza alcun sospetto», eppure ci fu un delatore. «Questa è la glaciale evocazione del costume malatestiano delle esecuzioni in famiglia», osserva la Barolini. Così Dante tratteggia un essere femminile destinato a infilarsi immediatamente nell’immaginario nostro e collettivo, una donna che coniuga forza e vulnerabilità. Che cosa ci può es(p.m.f.) sere di più elettrizzante?
reno estremamente scottante come quello ecclesiale è un osare, un azzardare e pure un disobbedire. I teologi consideravano il limbo luogo deputato ad accogliere solo i bambini non battezzati, dopo che gli ebrei virtuosi erano stati liberati dal medesimo sito con la discesa di Cristo agli Inferi. Dante, oltretutto, si scandalizza di fronte all’ingiustizia che consente di dannare un individuo per il solo fatto che è nato oltre i confini della cristianità. Ma ci sono anche i confini geografici, tanto è vero che il poeta si preoccupa di coloro che vivono «a la riva dell’Indo» (Paradiso, XIX, 70-71). Come dire: se c’è un tempo o un luogo di sospensione, questi sono dovuti al fatto che a giudicarli non sono i teologi, ma Dio.
«È questo - scrive la Barolini - il Dante che noi dobbiamo restituire ai lettori italiani, che ne hanno una visione addomesticata e corretta oltre ogni possibile riconoscimento». Quello di Dante è un «multiculturalismo». Il poeta di Firenze è bandiera di umanesimo. Lo diventa con una mossa teologicamente eterodossa, ossia collocando i grandi pensatori del paganesimo (si pensi ad Averroè) nel limbo per poi isolarli in una zona privilegiata. Dante, inoltre, è l’erede di una tradizione lirica italiana che presenta un’indiscutibile complessità, con radici che scendono dal terreno provenzale. Fu Palermo
a diventare la prima capitale dei poeti vernacolari d’Italia. La famosa scuola siciliana. Caposcuola fu Giacomo da Lentini, probabile inventore del sonetto. Come Giacomo, «il notaro», altri furono in prevalenza funzionari di corte. Pier della Vigna, messo da Dante nel girone dei suicidi, era cancelliere e segretario privato dell’imperatore Federico. Nucleo centrale della poesia trobadorica «l’irrisolta tensione tra la fedeltà del poeta-amante alla sua donna e la fedeltà a Dio: la servitù d’amore dovuta all’una entra inevitabilmente in conflitto con la servitù d’amore dovuta all’altro». Giacomo da Lentini addita con grande chiarezza questo conflitto: «Sanza mia donna non vi vorria gire/ quella ch’ha blonda testa e claro viso/ ché sanza lei non poterla gaudere/ estando da la mia donna diviso». Preferisce l’amante al Paradiso. E poi: il Paradiso è desiderabile solo se è consentita l’opportunità di vedere «la mia donna in ghiora stare». In Toscana il caposcuola era Guittone d’Arezzo (criticato per la sua lingua «municipale» e per uno stile goffo e involuto). Poi Guittone oscillerà tra le due posizioni antitetiche, ponendosi come auctoritas morale, obbediente «al didattismo borghese» e cantore della misora, ossia la moderazione, e di un modello di vita improntato all’impegno civile. Pur giurando di respingere il desiderio carnale, non spingeva verso la contemplazione
monastica. Dante saluta il bolognese Guido Guinizzelli come padre del «dolce stil novo». Questi sostiene che «il nobile amante dovrebbe obbedire alla sua donna nello stesso modo in cui l’intelligenza angelica obbedisce a Dio». Stabilisce dunque somiglianza e similitudine.
Dante unisce i due poli del desiderio. Come? «Facendo sì che il viaggio verso Beatrice coincida con il viaggio verso Dio, facendo crollare molto più a fondo di quanto la teologia possa giustificare la distinzione tra la donna - il sacro e luminoso segno della presenza di Dio sulla terra - e l’entità ultima, il cui significato essa incarna». Beatrice è donna che regala beatitudine, è «colei che beatifica». Invece Guido Cavalcanti concepisce la passione come una via senza uscita, che conduce non alla vita ma alla morte. Scrive la Barolini: «Beatrice è portatrice di vita, a differenza di quella di Cavalcanti che è portatrice di morte… solo che la beatitudine che la donna di Dante porta non è di facile accesso… per trovare la beatitudine/felicità offerta da Beatrice, l’amante deve ridefinire il proprio concetto di cosa sia la felicità». Beatrice non è un semplice desiderio: chi l’ama si concentra «in quelle parole che lodano la donna mia». Il desiderio trascendente. Ecco il manifesto poetico della Vita nova: «Lo stilo de la sua loda».
MobyDICK
arti
cco la frase che vi dovevo, fin dalla «puntata» scorsa, quella, promessa, sul velo. (Adesso vorrei occuparmi d’un altro velo, quello curioso di Eros e Psiche, ma rimandiamo alla prossima). Torniamo a quando m’ero reso conto ch’era un peccato sprecare, la frase, in condominio, e portar via spazio alla bella storia del sociologo Pierre Bourdieu, che vado a raccontarvi, e che appunto, in Etudes Méditerranéennes, nel 1960, scriveva: «Le rinunce più manifeste e anche le più spettacolari sono forse quelle che riguardano le tradizioni investite di un valore essenzialmente simbolico, come il velo o la chéchia. Alla funzione tradizionale del velo si era aggiunta, in effetti, come in sovrimpressione, una funzione nuova, legata al contesto coloniale. Senza spingere l’analisi troppo lontano, vediamo infatti che il velo è prima di tutto una difesa dell’intimità e una protezione dalle intrusioni. E, confusamente, gli europei l’hanno sempre percepito come tale. Con il velo, la donna algerina crea una situazione di non reciprocità: come un giocatore sleale, vede senza esser vista, senza lasciarsi vedere. Ed è tutta la società dominata che, con il velo, rifiuta la reciprocità, che vede, che guarda, che penetra, senza lasciarsi vedere, guardare, penetrare».
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Bellissimo, mi pare, e quanto ci aiuta a capire le discussioni contemporanee sulle nostre storie di rifiuto del velo islamico! Se poi accompagnate questa riflessione alla foto che qui vi mostriamo, con la donna islamica velata che sfreccia quasi sprezzante sulla sua lambretta, nel pieno dell’Algeri anni Cinquanta, coartata dall’occupazione francese, capite perché vi si consiglia di raggiungere il Festival Europeo della Fotografia di Reggio Emilia (c’è tempo sino al 24 giugno) ove tra tante proposte c’è anche la possibilità di apprezzare questa stimolante mostra, dedicata al sociologo francese (morto nel 2004, in odore di guru sovversivo) e curata da Andrea Rapini (tesi di specializzazione sulla storia sociologica della Lambretta, mi racconta, divertito) e Franz Schulteis. E non ci sono soltanto interessanti fotografie di «lavoro», che oggi assumono anche una dimensione estetica, ma pure appunti di ricerca dai taccuini, pannelli esplicativi, un estratto dell’affascinante video, ove questo elegante signore dalla bell’aria di divo vissuto, all’americana, racconta con divertita, ironica pacatezza, la sua statura di «terrorista» del pensiero (temutissima, in Francia). Dunque, Bourdieu, all’epoca (nasce nei Pirenei ma studia a Parigi) è un allievo apprezzato eppur ribelle, che si occupa di filosofia (e studia con Canguilhem le
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Pierre Bourdieu conversioni algerine di Marco Vallora pre, «sul campo», quello che diventerà il suo mestiere, la passione di sociologo applicato, anzi, di etnologo. E le immagini documentano proprio tattilmente questo cammino duro. Dapprima i «corpi» mussulmani visti da dietro, da lontano, per rispetto dei loro tabù, ma anche per, letteralmente, paura. Lo racconta Bourdieu stesso: talvolta una semplice risposta può determinare la vita o la morte. Complicità o guerra. I rapporti francoalgerini ovviamente non sono facili, distesi: una semplice macchinetta potrebbe creare dei problemi. Poi il dialogo si approfondisce, la rosa delle domande e degli sguardi si amplia, il «mestiere» documentale
L’occupazione francese documentata da un testimone d’eccellenza: il celebre sociologo, allora militare “in castigo” in Algeria. Da non mancare la mostra al Festival Europeo di Fotografia di Reggio Emilia
«strutture temporali della vita affettiva», poi, contro-sartriano, sarà vicino a Derrida e Althusser), il classico filosofo teorico-sognatore, che si scontra con la vita militare da insubordinato, un po’ alla Truffaut400 colpi.Viene subito sbattuto in Algeria, chiaramente per punizione, c’è la guerra, siamo intorno al 1955, colonialismo duro, lui è vicino alle idee del Pcf e si domanda perché mai il partito (lo sa benissimo, ovviamente, il perché, è un nascente, un albeggiante sociologo) chieda ai suoi adepti di accettare i ruoli di dirigenza milita-
re. No, lui ci vuole andare il più possibile a livello zero, da soldato più che semplice, per fraternizzare con la popolazione. Racconta la sua disperazione, sulla nave che lo traghetta all’inferno - è la fine - tra quei ragazzi eccitati e analfabeti, che son fieri dell’impresa, lui un signorino della filosofia che s’è appena occupato di Leibniz (come poi si occuperà anche di Beethoven e di Manet). Non c’è altro al presente che disperazione: un oceano di sconforto. In realtà, lui che non ha ancora troppo chiaro il suo destino, altro che accademico, sco-
partecipazione e costruzione gnoseologica (Bourdieu si considera uno «strutturalista costruttivista» critico. È vero che ci sono delle strutture levystraussiane che ci sovrastano e condizionano, ma c’è spazio comunque per la ribellione e la creatività, che si oppone a quelle griglie soffocanti. Esattamente come la rivolta contro gli accampamenti claustrofobici e cartesiani, in cui i giovani algerini vengono delocalizzati e sviltalizzati, secondo un’urbanistica apparentemente innocente del castrum-decumano latino esportato. E non è vero che la cultura, in questo senso soprattutto coloniale, trasmetta sapere.Trasmette solo una serie di habitus culturali, che si impongono con la violenza e si spacciano per verità culturale assoluta. Ma nemmeno la scienza può illudersi d’essere veramente scientifica).
«La fotografia è legata al rapporto che ho sempre mantenuto con l’oggetto delle mie ricerche di cui non ho mai scordato che si trattava di persone, sulle quali portavo uno sguardo che definirei naturalmente, se non temessi il ridicolo, affettuoso e spesso tenero». Da abbraccia-
prende piede, ma senza mai soffocare il rapporto di pietas e comprensione. Senza cancellare l’emozione del confronto amichevole, dell’incontro fortuito, in un momento drammatico che può rendere fratelli o nemici. Comunque, mai l’ottica fredda, «superiore», del presunto scienziato, semmai condivisione viva e sofferta. Quello che fotograficamente lui chiama progressiva «conversione dello sguardo», e che noi possiamo leggere attraverso gli scatti. Fotografie che lo raccontano, palpabilmente, con una discrezione pudica, che si fa crescente
re. Decidere con chi stare. Se con lui o con il suo generale, che così ragiona: «L’essenziale è, in effetti, raggruppare questo popolo che è dappertutto e da nessuna parte, l’essenziale è rendercelo afferrabile. Quando lo avremo catturato, solo allora, potremo permetterci di appropriarci del suo spirito dopo averne afferrato il corpo». Pierre Bourdieu In Algeria. Testimonianze dello scardicamento Reggio Emilia, Festival Europeo della Fotografia fino al 24 giugno
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e si sfogliano i cento numeri di Omnibus, dall’aprile 1937 al gennaio 1939, ci si accorge subito che la presenza debordante della fotografia rappresenta la novità più vistosa del settimanale di Leo Longanesi. Il grande formato, le enormi fotografie a mezza pagina, assieme alla suggestiva abilità dell’impaginazione, agli stessi caratteri tipografici, sono le attrattive inconsuete con cui questo prototipo del rotocalco moderno aggredisce il lettore per coinvolgerlo poi grazie alla qualità della scrittura giornalistica, critica, creativa. Nella sofisticata cucina longanesiana, che non disdegna il pettegolezzo della nota di costume e la suspense del feuilleton a puntate, la fotografia non è mai informazione o documento ma una sorta di objet trouvé, che anima il museo immagi-
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anno V - numero 22 - pagina IV
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MobyDICK
«È l’ora delle immagini» decretava su “Omnibus” già dagli anni Trenta Leo Longanesi. Che girava per Roma con la sua Kodak a far fotografie, per rivelare la vita italiana e dare forma alla sua idea di cinema nario dell’attualità all’insegna dell’accostamento imprevisto e della decontestualizzazione spudorata. «È l’ora delle immagini. Il nostro nuovo Plutarco è l’obiettivo Kodak, che uccide la realtà con un processo ottico e la fissa come lo spillo fissa la farfalla su cartoncino. Oggetti e persone, fuori dal tempo, dallo spazio e dalla legge di casualità divengono una visione. La fotografia coglie il mondo in flagrante». Parola di Longanesi. Nessuna sorpresa se in un rotocalco particolarmente ospitale nei confronti del cinema (la rubrica di critica è curata da Mario Pannunzio che si rivela acutissimo nel cogliere il clima dell’epoca, entra e esce dal film, guarda oltre lo schermo, non perde mai di vista la sala) sono moltissime le fotografie divistiche, che danno vita a un teatrino personale di preferenze e idiosincrasie. Svettano su tutte Greta Garbo e Marlene Dietrich, evocate a più riprese come numi tutelari della liturgia stellare, un cabalistico gioco di maschere che riserva una nicchia a sé a Mae West ma guarda con benevolenza anche a Carole Lombard, Ginger Rogers, Katharine Hepburn, Joan Crawford, Jean Harlow, Luise Rainer, Claudette Colbert, Charles Laughton, Clarke Gable, Adolphe Menjou, Fred Astaire, Gary Cooper, Buster Keaton, Erich von Stroheim. Senza trascurare il piccolo esercito di anonimi - comparse cinesi, truccatori al lavoro, aspiranti attrici in attesa, sconosciute figuranti a pranzo - pescati dai cassetti longanesiani o catturati dai fotografi di redazione che
delineano un imprevedibile paesaggio italiano tra aneddotica e antiquariato. Comincia qui la collaborazione con Cesare Barzacchi, che firma l’Album di famiglia, destinata a durare nel corso degli anni. Brillante e modesto, il grande fotografo scatta ma la regia di molte foto è del direttore: «Andavamo insieme sul posto per farmi vedere come dovevo inquadrare. Per mettere in evidenza certi dettagli che sfuggivano agli osservatori, e faceva degli schizzi sulle pagine del taccuino, perché fotografassi come lui voleva». Se finirà con il delegare sempre di più il suo braccio operativo, all’inizio è lui stesso che girando per Roma con la sua Kodak fa molte fotografie, curiose testimonianze di un occhio attento alla folgorazione visiva dei particolari, della sua voglia di cinema.
Leo Longanesi non è al suo primo incontro con l’immagine, importante già nella nuova serie di L’Italiano inaugurata all’inizio del 1931. Ma se le fotografie e i collage possono arrivare anche in copertina, sono i disegni con il gusto a volte graffiante della deformazione caricaturale a contrassegnare la grafica della rivista. Il disegnatore satirico più presente è lo strapaesano Mino Maccari con un gran numero di vignette dall’estro beffardo. Naturalmente pochissimi bozzetti ma soprattutto foto nel numero speciale dedicato al cinema del gennaio-febbraio 1933. Singolare omaggio alle inespresse potenzialità del film, il fascicolo guarda strabicamente al set americano e alla tecnica sovietica. In un curioso montaggio di parole e immagini, Chaplin e Ejzenstein, Stroheim e Vidor, Capra e Pabst, Balázs e Grosz
Il mond in flagra di Orio Caldiron sono chiamati a traghettare l’idea longanesiana di cinema, assieme alle fotografie dell’inaugurazione dell’acquedotto a Malabergo, del dopolavoro a Molinella, della fiera paesana di Treviso, della piazza del mercato di Radicena, della domenica italiana a Chiavari e a Venezia. Sono immagini polemiche, sarcastiche, provocatorie come insulti, in grado di
rivelare la vita italiana di allora meglio di qualsiasi film dell’epoca. Si capisce subito che il cinema virtuale, quello che non c’è ma potrebbe esserci, deve molto alla fotografia, a cui nella rivista sono dedicati più di un intervento: «La macchina fotografica ha un’autorità incontestabile sugli ingenui.
Un disegno e alcuni scatti fotografici di Leo Longanesi (a sinistra). La grande novità di “Omnibus” (il rotocalco di attualità considerato il capostipite dei settimanali d’informazione italiani), uscito tra il 1937 e il 1939 sotto la direzione di Longanesi, era lo spazio riservato alle immagini
do ante È l’occhio del prossimo, un occhio di vetro che rapisce le immagini e le fissa sulla carta. Le persone deboli, senza carattere, cercano rifugio, davanti alla macchina, nei comportamenti artificiali, e se sanno che quell’occhio le fisserà implacabile per rispecchiarle così come le vede: ecco, allora, le finzioni per apparire diverse, ecco le resistenze e quello sguardo freddo che non concede confidenza. Ma l’occhio incorruttibile della macchina rivela la loro falsità e ce la mostra su un pezzo di carta. Non si può suggestionare un obiettivo: le macchine non hanno idee, sono impenetrabili come i numeri».
Sotto l’espressione seriosa e imperturbabile alla Buster Keaton, a cui assomiglia in modo imbarazzante, Longanesi nasconde l’irascibilità a fior di pelle. Nei suoi vivacissimi interventi se la prende con la borghesia, le cui debolezze e incapacità impediscono agli italiani di essere una nazione moderna come la Francia e l’Inghilterra. Nel fascicolo monografico la bestia nera è il cinema nazionale, incapace di riscattarsi dalla querula superficialità di chi non ha nulla da dire. Il confronto con le cinematografie straniere, nelle quali prevale lo sguardo dei grandi autori americani, russi, tedeschi, è decisivo come un colpo basso. Senza ricorrere agli artifici scenografici o cedere alle
tentazioni letterarie, il nostro cinema potrà rinnovarsi soltanto abbandonando i teatri di posa: «Bisogna portare le macchine da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Una donna che passa in fretta diventa a volte un’apparizione straordinaria di una verità insospettata. Accadde così di scoprire durante brevi attimi una realtà diversa dall’ordinario, più profonda e netta che non sapremo più rievocare. Sotto la scossa di un’emozione uomini e cose ci appaiono diversi, in una luce bianca, in una realtà insospettata, strana, autonoma, ferma al di sopra di tutto». Nel settembre1936 riprende l’argomento sulla rivista Cinema, in un intervento intitolato Il gioiello convesso, quasi un progetto per un film da fare che non si farà: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si sperde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una sua verità che il cinema assai di rado riesce a mostrarci. È la verità delle cose vere, se così si può dire, questo carattere misterioso e elementare, questa magia del momento che non si riesce a trasportare
do i dialoghi su un taccuino. Per farne che? Per allestire un documentario sulla vita degli anonimi. La vita degli anonimi, ecco un titolo alla Fabre. E come Fabre osservava gli insetti, osserverei questi personaggi della strada. I miei tre vicini avevano una vivacità di gesti, un linguaggio, una certa maniera di prendere la vita che nessun film è riuscito mai a mostrarci». Ma le fotografie che accompagnano l’articolo, quasi tutte di Longanesi - un prete che intreccia le mani dietro le spalle, due turiste straniere tra i ruderi, un reduce che nonostante le medaglie appuntate sul petto sembra un poveraccio - suscitano l’indignazione, interrompendo bruscamente la breve esperienza longanesiana di redattore della rivista.
Non gli va meglio con Omnibus il cui anticonformismo infastidisce il regime che all’inizio del ’39 chiude bruscamente il settimanale. Ma Longanesi non resta disoccupato a lungo. Accetta la proposta di occuparsi di un altro rotocalco, il quindicinale Storia dell’editore Tummnelli, modificandone il titolo
«Bisogna portare - scriveva - le macchine da presa nelle vie, nei cortili, nelle stazioni. Una donna che passa diventa un’apparizione di una verità insospettata» sullo schermo.Vedo una donna vestita di nero, di tutte le figure che animano la piazza è la più vera, quella che meglio spicca sulle altre. Dove andrà? Vorrei che l’obiettivo la seguisse e mi raccontasse poi sullo schermo tutto quello che c’è nascosto dietro di lei. C’è un vero ancora da fare, un vero che vedremo, un vero che verrà; e c’è un falso che vediamo e che morirà. Fotografiamo le stelle cadenti, la luna nel pozzo piuttosto che i sorrisi di gomma della Diva Bacioni». Nel mese successivo è ancora più esplicito in Sorprendere la realtà, che suggerisce come cogliere in fallo l’anonima vita di ogni giorno: «Stando seduto ore e ore al caffè come faccio, non mi manca l’occasione di vedere passare sotto i miei occhi straordinarie scene e magnifici personaggi anonimi. Giorni fa, a un caffè di piazza del Popolo, avevo alla mia destra, seduti a un tavolo, due uomini e una ragazza che parlavano tra di loro. Se io fossi un operatore girerei per strada con la macchina da presa e coglierei scene di questo genere, stenografan-
in Storia di ieri e di oggi. Come era avvenuto con L’Italiano, punta sulla formula monografica e sui temi a lui più congeniali come l’arte popolare, la caricatura, la guerra, la propaganda, l’America, l’Inghilterra, l’Urss, Napoleone. Subito dopo la moda, nel 1942 è la volta della Storia del cinema. Il grosso fascicolo sembra chiudere il cerchio. Le fotografie si sono mangiate il testo, ridotto ai margini con qualche breve articolo. La pioggia di foto, quasi quattrocento, celebra un modello insolito per l’editoria italiana, allestendo per la prima volta una straordinaria pictorial history del cinema mondiale. Mentre gli interventi critici sono oggi irrilevanti, le didascalie - scritte da Longanesi? - sono spesso geniali, attente ai valori espressivi, narrativi, poetici dei singoli film. Se è difficile far storia di un medium così giovane e solo in parte legittimato, la voce off accompagna i fotogrammi di ieri, raccontando in diretta il romanzo dell’immagine. Non la storia fotografica, ma la storia immaginaria del cinema.
Il Bibliofilo
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Quell’ingegnere che misurava le rotaie di Pasquale Di Palmo
l passeto è considerato il piccolo capolavoro di Anita Pittoni, indimenticabile figura della Trieste novecentesca che diede vita a quello straordinario progetto editoriale che risponde al nome delle Edizioni dello Zibaldone. Legata ad alcuni tra i più importanti scrittori triestini del tempo come Saba, Giotti, Quarantotti Gambini, nonché compagna di Giani Stuparich, la Pittoni coltivò una sua particolare forma di scrittura che dimostra tutta la sua versatilità, in quanto spazia dalla poesia alla prosa, dal racconto all’elzeviro, e si misura indifferentemente con italiano e dialetto. El passeto è appunto una singolare prosa poetica composta in dialetto triestino, tutta giocata sul filo dei ricordi familiari, in cui spicca la figura del padre ingegnere del Comune che, coerente con il suo ideale di stampo socialista, lavorava a un progetto di canalizzazione delle acque a beneficio della collettività. Il «passeto» è il metro snodabile che, nella memoria della Pittoni, si lega indissolubilmente alla figura del genitore morto prematuramente, che la domenica misurava le rotaie del tram per controllare che fossero perfettamente allineate, apparendo, mentre saltava da una parte all’altra delle stesse, come un uccello percosso dalle intemperie. La stesura originale di questa prosa si trova in una lettera che la Pittoni spedisce al poeta Angelo Barile in data 27 settembre 1963. Nello stesso anno prende corpo il progetto di allestire dieci esemplari dell’opera manoscritti, con versione dattiloscritta a fronte, numerati da I a X. Ogni copia presenta delle piccole variazioni stilistiche rispetto all’altra. Il volumetto figura come un fuori collana delle Edizioni dello Zibaldone. I fogli, sciolti, sono raccolti all’interno di una custodia color marrone, con il titolo manoscritto in nero. Nel 1966 l’operetta venne stampata in facsimile, sempre per i tipi dello Zibaldone, in occasione di una lettura che la Pittoni tenne all’Università di Trieste. Le copie
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sono 75, rigorosamente numerate, con firma autografa e dedicate ad personam. In un esemplare da noi consultato si leggono, sul retro del primo foglio in cui figurano i dati relativi alla tiratura del volumetto, le seguenti parole manoscritte dall’autrice: «Il primo abbozzo di questa storia è contenuto in due paginette di una mia lettera ad Angelo Barile del settembre 1963. Più tardi ho ripreso il tema, e, nelle varie stesure che sono andata facendo tra il ’64 e il ’65, il testo è stato via via accresciuto e ritoccato, fino ad assumere, con il VII esemplare, la forma definitiva. Ma lievi ritocchi, che uno scrittore non può evitare in ogni trascrizione manoscritta, differenziano anche gli esemplari dalVII al X. Questa edizioncina
Una prosa manoscritta in dialetto triestino di Anita Pittoni in dieci esemplari. Il primo abbozzo in una lettera ad Angelo Barile di 75 esemplari, facsimile del X esemplare autografo, è stata ideata da Luigi Sobrero, ordinario di Meccanica dell’Università degli Studi di Trieste, durante il pranzo di Natale del 1965 a casa sua». Lo scritto sarà infine ristampato nel 1977 nella serie «Città Amica», edita da Marino Bolaffio, per i tipi dell’Editoriale Libraria di Trieste, arricchito da tre disegni di Livio Rosignano. Il volumetto ha caratteristiche completamente diverse rispetto a quello originariamente concepito dalla Pittoni, causa di contrasti e dissapori con lo stesso Bolaffio: copertina di un rosa intenso, dimensioni maggiori, il testo suddiviso in due sezioni che comprendono il dattiloscritto e, su carta velina, la riproduzione dell’autografo redatto nel giorno di Pasqua del 1974 da una donna volitiva che si spegnerà di lì a qualche anno.
Narrativa
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Ginevra Bompiani LA STAZIONE TERMALE Sellerio, 160 pagine,12,00 euro
resso l’editore Sellerio esce La stazione termale di Ginevra Bompiani, una scrittrice che si è sempre distinta per uno stile tutto personale, discorsivo se necessario, molto fluido e fatto di tenui colori e spesso di teneri sentimenti come in questa prova. «Un mondo strano» questo delle terme: «È come se qui si mettesse tutto a tacere, come una bolla d’aria… che idea strana questo benessere… chiudersi in un bozzolo, far finta che il mondo non ci sia. Però c’è». La noia generata dalla residenza alle terme è - dice la protagonista - «una noia complicata… continuo ad annoiarmi ma non vorrei andare via prima di aver capito tanti segreti». Alle terme si trovano una zia - che certamente ha dei segreti - e una nipotina che incontrano nel corso delle giornate una coppia di donne di età matura con le quali stringono rapporti di amicizia. «Siamo arrivate nel pomeriggio - racconta la piccola - ho capito subito che avevamo sbagliato albergo ma la zia ha fatto finta di niente. L’albergo più bello è quello accanto… Ora sappiamo di essere nell’albergo più brutto di tutto il paese e ce lo godiamo. Ha i suoi vantaggi essere in un posto più brutto, perché non ti preoccupi di perderti qualcosa… Ti fanno i massaggi, il peeling, ti ficcano le mani nella paraffina, il meglio è il massaggio dei capelli, ma poi mia zia fa anche delle cose segrete che fanno un po’ male». (Ci si trasforma «in un forno a onda, la manopola rovente rasenta i 40 gradi e ancora non tocca il segno, non si sopportano più. Finalmente tutto finisce, la paziente si guarda nello specchio, vede la solita faccia con le sue rughe profonde intorno alla bocca, sul collo, intorno agli occhi, assenti dalla fronte e dalle guance». Ma i segreti della zia stanno tutti nei suoi pianti: «Ieri ho sentito mia zia che piangeva in
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libri
Filosofia
Coppie di donne alle terme Segreti e silenzi al femminile in una stazione termale. E una bambina cerca di capire... Il nuovo romanzo di Ginevra Bompiani di Leone Piccioni
camera sua… si è affacciata e aveva gli occhi rossi… forse ha un fidanzato segreto, suo marito è morto… Mia zia ha pianto di nuovo, sono entrata di nascosto nella sua stanza e ho frugato tra le lettere che stava scrivendo, ma non rivela niente. Piangerà per un uomo, non per il marito che è morto. Questo è vivo se gli scrive… L’ho sentita piangere per la terza volta… La cosa strana è che non sono riuscita ad immaginare a chi può essere diretta; nemmeno se a un uomo o a una donna. Sarà mica una donna? Magari è una donna. Certo sarebbe un segreto mica male». Anche altre pensano all’amore: «L’amica apre la finestra sul balcone e guarda la luna. Non riesce a non sorvegliare la luna in ogni sua fase, ogni cielo nuovo. Non riesce a dedicarla a qualcuno, fase per fase, il falcetto che cresce verso la mezzaluna, la mezzaluna che si gonfia fino alla luna piena, e poi la discesa triste, come se ogni volta fosse un lungo sospiro, e fiato attonito e poi sfinito. E la stretta dolorosa di quella dedica a mezz’aria, che plana dal balcone alla piazza. È terribile non essere amati, è terrribile non essere primi nell’amore di nessuno». I personaggi della Stazione termale, come si vede, sono tutte donne: c’è tutt’al più il ricordo di un fidanzato che viene lasciato, anche per far posto ad amori omosessuali. Arriva il giorno della partenza: il cielo è grigio, «come era stato quasi sempre». Triste questa partenza: la città come le avrebbe accolte? «Una città non riunisce come una stazione termale». Ma i ricordi rapidamente si attenuano, si annebbiano, l’uscita dal «bozzolo» non dà certo la felicità.
Sbarazzati dell’uomo e avrai l’Idea
anlio Sgalambro è un filosofo del paradosso. Non si spiegherebbero altrimenti l’apologetica del delinquente, la trattatistica sull’empietà o la sua teoria che Socrate fosse il mandante del suo stesso suicidio. Provocazioni speculative che il pensatore siciliano, amico e coautore di Franco Battiato, ha in questi anni proposte come ruvide sfide all’intelligenza. Nello stesso filone va posto Della misantropia, l’ultima pubblicazione del pensatore insulare dove l’analisi del misantropo diventa il suo paradossale elogio: «I più alti spiriti sono stati misantropi. L’idea infatti è raggiungibile solo in uno stato di misantropia. Il misantropo non vede più l’uomo, la cui carne detesta, ma l’Idea dell’uomo». Del resto, sostiene ancora Sgalambro, la dottrina delle idee fu ispirata a Platone da un odio subdolo e profondo per la realtà: «Le idee nacquero forse perché a un certo punto Platone detestò Socrate e ne fece un’idea. In ultimo infatti di Socrate non rimase che l’Idea». Sgalambro ha ragione. Carta canta. Prendiamo il Simposio di Platone: «La vita della mente comincia a diventare acuta - scrive il filosofo ateniese - quando quella degli occhi è sul punto di perdere la sua forza di penetrazione». Insomma l’Idea diventa raggiungibile solo se si elimina l’uomo in carne e ossa, se di lui non si vede più l’uo-
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di Riccardo Paradisi mo incarnato, con una testa un cuore e delle viscere, ma l’umanità che è in lui, l’archetipo dell’uomo che contiene il suo retaggio celeste. Porfirio diceva di Plotino (il più grande platonico dopo Platone ) che «non voleva gli si facessero ritratti o sculture, quasi si vergognasse di avere un corpo». Ma non c’è bisogno di essere platonici per essere misantropi, è condizione sufficiente e in parte necessaria essere dei filosofi. Immanuel Kant, per dire, conobbe la misantropia come pochi altri. Nel tempo in cui stava lavorando alla Critica era in preda alla misantropia e detestava la stessa ragione di cui si occupava. Non aveva forse avvertito Platone, nel Fedone, che «l’odio contro gli uomini e quello contro i ragionamenti nascono assieme e nella stessa maniera»? Che la misantropia - ci si può chiedere - sia figlia del pensiero che divide la carne e il mondo dal cielo? Non è la conclusione cui giunge Sgalambro - che apre delle questioni più che chiuderle - ma insomma è una conclusione che si può ipotizzare. Sì, perché nella conclusa ragione del mondo, nella dialettica del pensiero che pensa se medesimo e il divenire, non c’è redenzione a questa tensione tra l’immanenza e la sua risoluzione. Nemmeno
Manlio Sgalambro elogia la misantropia. Come un illustre predecessore: Platone
nell’ascetica gnostica che proprio prevedendo una fuoriuscita dal mondo redime lo spirito senza salvare la carne, tomba dell’anima. E se a questa filosofia qualcuno parla di resurrezione dei corpi - come fece San Paolo ai sapienti d’Atene - la reazione è l’amaro sarcasmo: «Ne parliamo un’altra volta». In questo scacco la filosofia ha persino teorizzato con Hegel la ragione elargita al delinquente dalla stessa natura del mondo. «Ciò che la società condanna, il mondo lo assolverebbe avocandone a sé l’elemento distruttivo. Il delinquente esprime qualcosa oltre il mero se stesso al pari delle altre figure che hanno caratterizzato la civiltà: l’asceta il santo il saggio il cittadino il politico». Il delinquente insomma finisce con l’esprimere l’immanenza dell’ordine che rappresenta e lo introduce nel mondo che vorrebbe dimenticarlo. A rammentarglielo ci ha pensato Nietzsche dando un nome all’ospite inquietante dell’Occidente: il nichilismo, di cui l’anticristianesimo militante è infine il corollario. «La volontà distruttiva del delinquente - scrive giustamente Sgalambro - non proviene da una cattiva società ma dallo stesso nocciolo del mondo. Il delinquente come un milite obbediente esegue gli ordini del mondo». Manlio Sgalambro Della misantropia Adelphi, 128 pagine, 10,00 euro
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Pop di Stefano Bianchi
ufus Wainwright è il più bravo di tutti. Lo dico con cognizione di causa, ora che ha finalmente trovato chi ha avuto il coraggio di bacchettarlo sulle dita riportandolo fra di noi, comuni mortali. È stato Mark Ronson, il produttore discografico più in auge del momento che ha lanciato in orbita fior di voci femminili (Amy Winehouse, Adele), l’audace che s’è preso la non facile responsabilità di tenere a freno l’ego del Grande Narciso. Missione compiuta, a giudicare dalla cristallina bellezza di Out Of The Game, il disco più spontaneo e meno ridondante del trentanovenne canadese. Finora, senza nulla togliere al suo notevole talento, il divin Rufus (che qualche anno fa ebbe l’umile idea di etichettarsi world’s greatest entertainer) aveva cantato come se dovesse ogni volta cavar fuori dal cilindro l’evergreen che ti fa restare lì, a bocca aperta. Prolisso per chi non riesce proprio a digerirlo, geniale per chi lo adora, il figlio del cantautore Loudon Wainwright e della folksinger Kate McGarrigle (nonché fratello della cantautrice Martha) ha bulimicamente frequentato la grandeur
spettacoli Rufus Wainwright riscopre i Seventies
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Opera di Pietro Gallina andato in scena all’Opera di Roma con strepitoso successo Attila, dramma lirico in un prologo e tre atti di Giuseppe Verdi, libretto di Temistocle Solera, revisionato da F.M. Piave. La prima ha avuto luogo a Venezia, alla Fenice, il 17 marzo del 1846. Attila fu un successo di quelli memorabili: vi concorsero ragioni patriottiche giacché la febbre del Risorgimento era alle porte. Lo stesso Verdi, che lo aveva concepito in condizioni di salute precarie, ne riferiva alla contessa Maffei: «Applausi e chiamate ve ne furono anche troppe per un povero ammalato. Li amici miei vogliono che questa sia la migliore delle mie opere». A lungo dimenticata, Attila è stata ripescata proprio per Venezia nel 1951, in forma di concerto; ma il rientro sulle scene ebbe luogo a Firenze (1962). Pare che l’idea per l’Attila venne al compositore quando, visitando il Vaticano, si soffermò sul celebre affresco di Raffaello nel quale il flagello di Dio viene fermato da papa Leone I. Pure, poco prima del debutto, al suo amico romano Luccardi, chiede di mandargli dell’affresco «due segni con la penna
È
orchestrale travestendosi da George Gershwin del pop; ha ironizzato e drammatizzato, si è compiaciuto e flagellato. Intendiamoci, in carriera ha avuto la fortuna di appuntarsi perlomeno tre fiori all’occhiello: Want One (2003), Want Two (2004) e Release The Stars (2007). Dischi indubbiamente belli ma un pizzico algidi e melodrammatici, vocalmente in bilico fra un Thom Yorke meno stressato e uno Scott Walker meno dark. Mancava, insomma, l’album schiettamente popular, il meno possibile sopra le righe, senza troppi barocchismi addosso. Detto e fatto. Coadiuvato dal prode Ronson, Wainwright è uscito col settimo disco dai soliti (istrionici) giochi. E per farlo come si deve, si è ispirato agli anni Settanta: quando la pop music, nelle mani compositive di Elton John, Harry Nilsson, Carole King e altri geni sfornava capolavori a raffica. «Mi sono preoccu-
pato, insieme a Mark, di lavorare molto di più sulla forma-canzone», ha spiegato, «per ottenere un’atmosfera anni Settanta che risultasse calda, profonda, gradevole all’ascolto». Vedi Jericho, stilosissima ballad con un’alchimìa di archi svolazzanti e fiati sbarazzini, innamorata pazza dell’Elton John di Honky Chateau; oppure Song Of You e Candles: al colmo della delicatezza e del savoirfaire la prima canzone, solenne la seconda con un toccante finale di cornamuse. Altrove, invece, Wainwright si diverte col bianco e il nero: con un orecchio al blue eyed soul di Daryl Hall & John Oates e l’altro a Billy Joel (Out Of The Game); pillole funky che scivolano nel pop e nella lounge stile Burt Bacharach (Barbara); un frizzante rhythm & blues come Perfect Man. In questo affettuoso omaggio ai Seventies, non potevano poi mancare il glam rock alla Queen shakerato col white soul (Rashida); la gioiosità degli impasti vocali di Welcome To The Ball, intrecciata al vaudeville degli archi «beatlesiani» e degli ottoni; la muzak modello Abba agganciata all’estetismo degli Sparks (Bitter Tears); l’armonia ellittica di Montauk, che cita Philip Glass, pilotata da un pianoforte che scivola nel romanticismo; la placida country music di Respectable Dive (Neil Young docet), con tanto di chitarra twangin’ e una puntura di swing; il folk acustico di Sometimes You Need, propenso a farsi avvolgere da incantevoli sinfonie. Sì, Rufus Wainwright è il più bravo di tutti. Rufus Wainwright Out Of The Game Decca, 17,99 euro
Attila, Verdi e gli incantesimi di Muti per spiegarmi… i colori del vestiario e l’acconciatura della testa». L’appiglio vero proviene dall’Attila, König der Hunnen di Z. Werner (1808). Verdi scrive a Piave: «Eccoti lo schizzo della tragedia di Verner.Vi sono cose magnifiche e piene di effetto». Poi il libretto torna al Solera! Forse perché era più portato per i temi patriottici, giacché aveva avuto il padre morto allo Spielberg? Comunque sia, Solera, quel «poltronaccio di librettista», si eclissò in Spagna per seguire la carriera di sua moglie soprano. A completare tutto in fretta pensò di nuovo Piave. Il risultato è un curioso pasticcio, dove tra l’altro Verdi ha l’idea di far inserire una scena riguardante la fondazione di Venezia: strizzata d’occhio alla Fenice? Si centrò l’amor patrio nella proposta fatta da Ezio a Attila sebbene un compromesso fu proposto all’invasore? Allora Verdi a Solera: «Alcuni qui trovano a dire del duetto, Avrai tu l’universo/ Resti l’Italia a me. Io capisco cosa vuol dire, ma bisogna che tu lo spieghi bene in una lettera per darla nel naso a quei talentoni». Alla prima il pubblicò gridò: «A noi, a noi l’Italia» e l’incomprensione
svanì nel nulla. Anche Attila e gli Unni, da Tacito fino a Mme de Staël, son dipinti come violenti, ma nel fondo semplici e onesti. Troppo nel testo: Attila sembra rimandare al Katisha nel Mikado di Gilbert&Sullivan, che era «solo un pochino sanguinario». E all’operetta rinvia lo stesso infastidito Solera: «Non saprei dirvi quanto mi ha annientato il constatare che un lavoro di cui non ero poco fiero, viene concluso in parodia». Musicalmente Attila sprigiona potenza e muscoli. Poche emozioni intime e sfumature espressive; quando vi si scatena la tempesta o quando ulula lo spirito delle montagne, pare che si inauguri l’entrata nella Romantik. L’orchestrazione è spesso rustica, pomposa, però geniale. S’impiegano
numerosi ottoni, una macchina del tuono e un ricco apparato percussivo. I cori di Attila invece sono per lo più omofoni, meno raffinati, ma funzionali. Quando giunge Cara patria, già madre e reina di Foresto, vi è un possente uso del coro all’unisono che per gli Italiani era vero appello alle armi.Vendetta, fede, amore e patria, moventi principali dei drammi verdiani, si addensano in Attila; in tre vogliono il sangue del re: Odabella, Ezio e Foresto, ma solo Odabella ci riuscirà. Gloria all’orchestra che sta riconquistando lustro internazionale per i suoi timbri inspiegabilmente luminosi, guidata da un Muti incantatore, in un’interpretazione da brividi. Onore al coro e alle voci, soprattutto di Tatiana Serjan, Ildar Abdrazakov, Nicola Alaimo e Giuseppe Gipali. Mirabili scene, costumi e regia di Pier Luigi Pizzi.
MobyDICK
pagina 16 • 9 giugno 2012
ccidenti, com’è severa la critica con Madonna, regista di W.E. È la storia di Wallis Simpson, la pluridivorziata quarantenne americana dalla bellezza nascosta, che stregò Edward VIII, sovrano dell’Impero britannico. Lui abdicò al trono perché, come disse nel discorso d’addio ai sudditi, «…ho constatato che mi è impossibile assumere le pesanti responsabilità e assolvere i miei doveri di re come desideravo, senza l’aiuto e il sostegno della donna che amo». È una storia d’amore - o meglio di «possessione» come alcuni intimi definivano la devozione totalizzante di David, come era chiamato dai suoi cari, per «la donna più indipendente che abbia mai conosciuto». W.E. è la seconda regia della popstar, dopo l’esordio con Filth & Wisdom, stroncato pure quello ma pour cause. La regista stessa ha definito il corto allungato a 87 minuti, «la mia personale scuola di cinema». La storia romantica non è la parte della biografia dei futuri duchi di Windsor che interessa alla Material Girl. Madonna è da sempre fissata con la moda, il design, i gioielli, il lusso. Ma il film, con le due protagoniste demonizzate e bistrattate, è concepito come denuncia della diffamazione a mezzo stampa di una celebrità, e la deformazione della sua immagine che ne consegue. Il film ha qualche difetto ma non merita le pesanti stroncature che ha subito.
cinema Tracy) a Meryl Streep, ammiriamo attori con il coraggio (e l’arte) di essere vulnerabili sotto i riflettori, che ci lasciano spiare, cogliere, sentire le loro emozioni più segrete, intime o vergognose. Può essere un handicap anche per un autore, quale Ms. Ciccone aspira a essere come cineasta, ma non le impedisce di fare un film godibile come W.E., che si segue con interesse fino alla fine. La parte più riuscita è quella sulla coppia storica; è meno forte la storia di Wally Winthrop (Abbie Cornish, Bright Star), giovane malmaritata con uno psichiatra algido e violento control freak, che porta il primo nome della Simpson, da cui è ossessionata.
A
Non ho molte simpatie per l’icona Madonna. È emersa in contemporanea con un’altra cantautrice, Cindy Lauper (Girls Just Wanna Have Fun, Time After Time, She-Bop). Molte di noi preferivano l’esuberanza spontanea della rossa Cindy (origini siciliane-svizzere) alla calcolata ironia della rocciosa Ms. Ciccone che amava scandalizzare perbenisti e femministe chiamandosi boy toy, giocattolo per maschi. Madonna è celebrata per le sue trasformazioni «da camaleonte», ma cambiare look, passare da single a maritata, da yoghini a studiosa della Cabala, da cantante ad attrice (negata) o da attrice a regista, non la rendono né irriconoscibile né molto diversa. È sempre una macchina da guerra che afferma, come ha fatto al Lido: «Il segreto del mio successo? Non è il talento ma la determinazione. Io non mollo. Mai». Si
Wally, ricca, infelice e sfaccendata, passa il tempo nelle stanze d’asta glamour di Sotheby’s, dove sono in mostra gioielli, abiti e oggetti preziosi che appartenevano alla donna che volle essere regina e dovette accontentarsi di fare l’odiata-invidiata star fashionista, nota per la frase immortale: «una donna non può mai essere né troppo magra né troppo ricca». La regista e co-autrice del copione non ha riflettuto sul particolare che chiedeva a pubblico e critici di immedesimarsi nei problemi e nelle ingiustizie inflitte a due socialite assai privilegiate (come Madonna stessa, che si sente una povera stramiliardaria incompresa, mostrificata dai media e
Madonna revisionista riabilita Wally di Anselma Dell’Olio
il film è forse dovuta all’antipatia che suscita la mascella rigida, i muscoli scolpiti, lo stile anni Quaranta curato all’inverosimile, la spocchia e la durezza di carattere della star. È questa ultima caratteristica che la rende una pessima attrice. Dopo l’imbarazzante pas-
gior attrice dell’anno», poi del decennio, poi di tutti i tempi dai Golden Raspberry Awards, detti i Razzies (raspberry = lampone, sinonimo di pernacchia in inglese), mi dissocio solo per Who’s That Girl, dove la protagonista, la spiritata, impunita ex galeotta Nikki Finn, strafottente e anticonformista, collimava perfettamente con le sue doti naturali. In tutti gli altri ruoli (a parte Evita) è ingessata, iperdifesa, granitica. Non rie-
Stroncato dalla critica, il film della popstar dedicato alla vicenda dei Duchi di Windsor è invece godibile. Anche se la “Material girl” non riesce nel tentativo di ridare dignità storica all’americana, che per l’immaginario collettivo è una mangiatrice d’uomini può ammirare chi non devia dai propositi - nel suo caso essere ricca e famosa; ma qualunque sia l’obiettivo, i fissati ispirano di rado simpatia, affetto. Si può essere tifosi sfegatati di «Madge», anche adoratori, ma non si ha mai voglia di proteggerla e coccolarla, come avviene con Cindy. La brutale animosità della critica verso
so falso di Travolti da un insolito destino, remake dell’originale italiano con la regia dell’allora marito Guy Ritchie, l’ho rivalutata con Evita. Ma come molti sostenevano, era solo l’eccezione che conferma la regola. Definita «Peg-
sce a trasmettere alcun sentimento autentico; protegge la sua interiorità con un atteggiamento da carabiniere incavolato. Da Marilyn (che Madonna ha impersonato nel periodo del fidanzamento con Warren Beatty e il film Dick
Sopra, a sinistra: Madonna alla seconda regia sul set di “W.E.”. A destra: gli autentici Duchi di Windsor. In alto, la locandina e una scena del film
maltrattata dai mariti). Il film ha valori tecnici di qualità. Fotografia e art direction sono impeccabili, come la maniacale attenzione a ogni particolare di costumi, accessori, acconciature, arredamento. Ma impera la voglia di determinare una revisione nella percezione di Wallis Simpson, detestata, svillaneggiata e relegata in eterno al ruolo di rovina-regnanti, mangiatrice di maschi. (Il vero passo falso del film è il casting della guardia sexy intellettuale di Sotheby’s, più boy toy ragazzo-giocattolo - che figura credibile). Nel ruolo della donna spigolosa con il physique du role della matrigna perfida, c’è una stupenda Andrea Riseborough (We Want Sex, Brighton Rock, Non lasciarmi). L’attrice racconta un annedoto rivelatore sentito in un documentario sull’ex re. Lui aspettava sempre in fondo alle scale mentre la moglie si preparava. Dopo un po’ il maggiordomo gli portava una sedia. Se si prolungava l’attesa gli portava una sigaretta. Seduto, Edward fumava e aspettava. E aspettava. A volte lei scendeva e uscivano; altre volte aspettava così a lungo che l’ex regnante finiva in lacrime. Il revisionismo su Wallis non è riuscito, ma il film sì. Da non perdere.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Se le norme danneggiano e non proteggono nessuno
LE VERITÀ NASCOSTE
Il regolamento di polizia locale del Comune di Lecce, e la famigerata ordinanza antibivacco, vietano una serie di comportamenti; tra questi quelli di stare seduti sui gradini delle chiese, dei monumenti e delle abitazioni private. Norme che, basta fare un giro nel centro storico, sono costantemente ignorate da residenti e turisti. Se i primi dovrebbero conoscerle, per i visitatori della città non c’è nemmeno un cartello per avvisarli. È il caso di piazza Duomo dove spesso le persone siedono sui gradini per chiacchierare e godersi la bellezza del luogo. All’ingresso solamente due divieti, ossia l’ingresso a bordo di moto o in bicicletta. Ma da qualche giorno è difficile sedersi senza, dopo un poco, essere invitati ad alzarsi. Dalla polizia municipale? No, dai “nonni”vigili ambientali.Tutti di fronte al gentile invito dei cari nonnini non esitano, accettano l’invito e lasciano la piazza. Lecce è una città con pochissime panchine, lo spazio pubblico è considerato solamente luogo di passaggio. Quando si arriverà a capire che queste norme danneggiano tutti e non proteggono nessuno?
Alessandro Gallucci
IL DILEMMA DELL’IVA
QUELLO CHE CONTINUA A MANCARE ALL’EUROPA: LA POLITICA Il Sole 24 Ore del primo novembre 2011 ha stilato un manifesto per l’Europa con cinque misure da varare a livello comunitario per disinnescare la crisi economico-finanziaria e ridare sicurezza ai mercati. Le cinque misure possono essere così riassunte: 1) Governo economico europeo; cioè muoversi verso un governo economico Ue. 2) Estensione mandato Bce; cioè la Bce come la Fed. 3) Euro project bond; cioè emissioni comuni di obbligazioni per rilanciare la crescita. 4) Euro union bond; cioè emissioni comuni di obbligazioni per sostenere i paesi in crisi. 5) Mercato unico bancario; cioè abbattere i vincoli delle autorità nazionali. Al di là della giusta e autorevole “ricetta” sopra evidenziata, dispiace vedere mancare, ancora una volta, la centralità dell’uomo e i suoi più intimi valori oltre il presupposto minimo necessario e fondamentale per fare la “vera”Europa: la Politica. L’Europa politica del popolo europeo non può nascere senza che le singole volontà e le istituzioni nazionali non decidano di cedere definitivamente e concretamente sovranità. Senza l’Europa politica non può esistere né vivere a lungo un’Europa della finanza, dell’economia, solo perché razionale e indispensabile per un mercato comune sempre più mondiale e globalizzato. Anche se quest’ultimo esisteva già con la Cee. La storia ci insegna che le vere e durature “unificazioni” si sono fatte più con il cuore che con la mente. Quindi non perdiamo altro tempo e soprattutto non perdiamo l’occasione delle prossime elezioni europee del 2014, per una forte e vera mobilitazione politica e popolare per promuovere il riconoscimento di un potere costituente al Parlamento europeo in modo da dare un’“anima” politica e popolare alla sola Europa possibile. Quella del popolo europeo! Vincenzo Inverso C O O R D I N A T O R E NA Z I O N A L E C I R C O L I LI B E R A L REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Caro direttore, vorrei chiederle di riflettere con me su quanto le sto per dire. Primo assunto: Il presidente del Consiglio Monti ci dice che tutti dobbiamo renderci conto del grave momento economico e tutti dobbiamo collaborare. Uno dei tanti motivi della nostra crisi e del nostro debito è stato dimostrato sia la capacità di alcuni nostri concittadini di non pagare le tasse o di fare in modo di apparire “poveri”, con il fine di eludere la dovuta corresponsione delle imposte statali. Secondo assunto: facciamo un esempio. Chiamo l’idraulico. Mi fa un preventivo. Mi dice una cifra.Va bene, dico, accetto e mando avanti il lavoro. Finito il lavoro vado per pagare ma il prezzo, attenzione, è un altro.Va aggiunta la fatidica Iva. «Se non le serve una ricevuta, signora, perché deve pagare questa Iva? Tanto lei non se la scarica (!) e paga in più e a me non interessa averla, tanto la devo dare allo Stato». Che faccio? Pago io di più, solo per far “risultare”allo Stato che il mio idraulico ha un guadagno o spendo meno così io risparmio e l’idraulico è contento perché i soldi sono“al nero”? È un dilemma, questo dell’Iva, che ovviamente non si limita alle prestazioni idrauliche, ma che coinvolge molte categorie. Ecco che chiedo: ma sarebbe così difficile fare in modo che l’Iva e tutte le spese “obbligatorie e inevitabili”(per esempio quelle relative alla casa, o quelle relative ai mezzi di trasporto) fossero detraibili
dalle tasse? Tutti saremmo più invogliati ad avere ricevute e lo Stato avrebbe il polso (in modo un tantinello più verosimile) dei guadagni “sommersi”.
Norma Zambrini
SENZA TERMOVALORIZZATORI ROMA COME NAPOLI La necessità di attuare immediatamente misure-tampone non può essere messa in discussione, ma se manca la pianificazione, si rischia di trascinare il Lazio nella stessa situazione della Campania: un’emergenza infinita ed un susseguirsi di commissariamenti incapaci di risolvere definitivamente la situazione. Basterebbe cominciare ad attuare quanto stabilito nel Piano Regionale approvato pochi mesi fa, invece, senza termovalorizzatori, Roma rischia di fare la fine di Napoli: cumuli di rifiuti che, nella impossibilità di essere stoccati e soprattutto smaltiti, invaderanno le strade della capitale. Una soluzione c’è ed è la costruzione degli impianti necessari al completamento della intera filiera; a questo va affiancata immediatamente una azione di sensibilizzazione alla riduzione e differenziazione del rifiuto: le popolazioni locali dovranno fare la loro parte, ma sono soprattutto le Istituzioni a dover dare il buon esempio. Noi siamo contrari alle discariche e, consapevoli dei pericoli e dell’inquinamento che questo tipo di impianto comporta, ben comprendiamo e siamo
L’IMMAGINE
Criceto batte pupazzo Chiedete a un bambino di trovare un compagno di gioco e lui ne sceglierà uno a quattro zampe, ma anche a otto o senza. Già a partire dagli 11 mesi, i bambini dimostrano infatti una predilezione per gli animali rispetto a giocattoli e pupazzi e il loro interesse riguarda persino le specie solitamente più temute dagli adulti, come i serpenti e i ragni. È quanto risulta da un recente studio condotto da alcuni ricercatori della Rutgers University e dell’Università della Virginia, pubblicato online sul British Journal of Developmental Psycology. Studiando il comportamento di bambini tra gli 11 e i 40 mesi lasciati liberi di giocare interagendo con diversi giocattoli e con alcuni animali - un criceto, un pesce, un geco, un ragno e un serpente - tenuti in teche o gabbie, gli scienziati hanno osservato che i bambini hanno dimostrato un’attenzione significativamente maggiore verso gli animali rispetto ai giocattoli. In presenza dei genitori, poi, il loro interesse è addirittura aumentato, così come la sua qualità: i piccoli gesticolavano e vocalizzavano di più rivolgendosi agli animali. Secondo gli autori dello studio, il fatto che i bambini provino una naturale affinità con gli altri esseri viventi avvalora la tesi secondo cui i piccoli, nel corso della loro vita, possono beneficiare della presenza di animali, i quali rappresentano un valido supporto per l’apprendimento.
vicini alle popolazioni locali che protestano per rivendicare il diritto alla salubrità dell’ambiente in cui vivono e di riflesso alla loro salute. D’altra parte i rifiuti dovranno essere stoccati da qualche parte e prima o poi un sito verrà individuato ed aperto, e magari ciò avverrà con l’intervento dell’esercito, come avvenuto in Campania: la nomina di Commissari che suggeriscono zone incompatibili non fa che allungare i tempi ed alzare la tensione.
Alfonso Fimiani
FARE CARRIERA, UN CONCETTO SUPERATO
Abbassa la cresta! L’eudipte crestato è un vero maestro di seduzione e quando fa ondeggiare i suoi ciuffi di piume gialle non passa inosservato. Ma non è un Don Giovanni: malgrado l’aria da rubacuori, questo pinguino dell’Atlantico è un tipo fedele e ogni anno nel periodo degli accoppiamenti - nei primi giorni di primavera o in estate - va in cerca della stessa partner delle stagioni precedenti
Non voglio parlare assolutamente della mia posizione universitaria della quale mi ritengo soddisfatto. Ma fare carriera nell’Università di oggi è diventato veramente quasi impossibile. Questo vale sia per ottenere un posto da ricercatore se si è nella situazione di dottorando, sia se da ricercatore si pensi di poter diventare professore associato. I nostri governi si riempiono la bocca con il ritorno alla meritocrazia, ma nella realtà dei fatti nulla cambia. Ci sono ricercatori con una produzione scientifica enorme che forse mai, se non tardissimo, riusciranno a diventare professori associati. Lo stesso vale per gli ancora più giovani dottori di ricerca con splendidi curriculum corredati anche di esperienze all’estero, che - quando va bene - diventano ricercatori superati i 40-45 anni. I tre unici parametri che muovono tutto sono il nepotismo, l’appartenenza politica e l’anzianità ma non la meritocrazia. Sarebbe il caso almeno in questo di operare una svolta, e non dico diventare un esempio, ma almeno adeguarsi agli altri Paesi europei seri.
Alessandro Bovicelli
mondo
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Al via il primo turno delle elezioni politiche che disegneranno il nuovo assetto del Parlamento. Il verdetto solo il 17 giugno
Socialisti a caccia del bis Domani Francia al voto: il partito di Hollande punta alla maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale. Ma Ump e Front National non demordono di Enrico Singer l verdetto finale uscirà soltanto dal ballottaggio del prossimo 17 giugno che distribuirà tutti i 577 seggi dell’Assemblea nazionale, ma già domani, il primo turno delle elezioni politiche comincerà a chiarire l’assetto della Francia di François Hollande. In gioco ci sono molte ambizioni contrapposte. Il Partito socialista spera di conquistare la maggioranza assoluta in Parlamento per confermare la vittoria alle presidenziali e avere mano libera nella trattativa più difficile: quella con Angela Merkel sul futuro dell’Europa. La destra dell’Ump, che ha già perso l’Eliseo, il Senato e la maggior parte delle regioni e delle città, insegue il sogno di un’improbabile rivincita. Il Front national di Marine Le Pen vorrebbe entrare anche a Palais Bourbon per dare peso e qualche prospettiva al boom di voti (il 18 per cento) ottenuto nelle presidenziali. Il Front de gauche di Jean-Luc Mélenchon spera di costituire un suo gruppo in Parlamento. E i Verdi si augurano di restarci almeno con una pattuglia di deputati. I sondaggi prevedono che il partito del non voto potrebbe arrivare anche al 40 per cento, per effetto soprattutto della delusione degli elettori del centrodestra, e questo rende azzardati i pronostici della vigilia.
I
Ma Hollande, nel suo primo mese da presidente (è stato eletto il 6 maggio scorso) ha fatto di tutto per convincere i francesi a scommettere su di lui. Ha mantenuto le sue promesse di maggiore impatto simbolico – ha tagliato di un terzo il suo stipendio e quello dei ministri e ha riportato a 60 anni l’età pensionabile di chi ha più di 41 anni di contributi – e ha impresso una svolta netta alla posizione della Francia nella Ue. Sono sepolti i tempi dell’asse Merkozy. Il nuovo capo dell’Eliseo ha subito messo in chiaro che Parigi pretende che il rigore di bilancio, quello che i tedeschi chiamano il Fiskalpakt – sia accompagnato da un piano per la crescita come chiedono anche Italia, Spagna e la mag-
gioranza, ormai, dei Paesi di Eurolandia. Ma proprio per questo ha bisogno che dalle elezioni esca una fumata bianca per dare forza alla sua linea. Sarkozy ha perso l’Eliseo sull’Europa imbarcandosi nel tandem con Berlino sul sellino posteriore: quello dove si pedala, ma non si governa il manubrio. Hollande preferisce fare la sua corsa, ma per convincere Angela Merkel a uscire dal bunker dei no ha bisogno di poter contare su un vasto consenso popolare all’interno
to di forze a Palais Bourbon, sede dell’Assemblea nazionale, che è ancora dominato dall’Ump che lo conquistò nel 2007 sull’onda del successo di Nicolas Sarkozy su Ségolène Royal. Il problema sarà vedere se si tratterà di una maggioranza assoluta o se, per governare, i socialisti dovranno ricorrere all’appoggio dei Verdi e del Front de gauche. Anche in questo secondo caso – che molti considerano il più probabile – ci sono due varianti: al Ps po-
Per i sondaggi il partito del non voto potrebbe arrivare anche al 40 per cento, per effetto della delusione degli elettori di centrodestra, e questo rende azzardati i pronostici oltre che sull’alleanza degli altri leader europei e sull’appoggio decisivo di Barack Obama. Da qui al vertice europeo del 28 e 29 giugno che dovrebbe trovare la formula per conciliare rigore e crescita, il nuovo presidente francese ha una serie di appuntamenti-chiave: il bilaterale con Mario Monti, il 14, gli incontri al G20 di Los Cabos, in Messico, il 18 e il 19, il pre-vertice di Roma a quattro (con la Merkel, Monti e lo spagnolo Rajoy) il 22 e a tutte queste riunioni vorrebbe arrivare con una nuova vittoria elettorale in tasca.
L’opinione prevalente dei politologi francesi è che Hollande ce la farà: che il suo Ps otterrà la maggioranza rovesciando l’attuale rappor-
trebbe bastare la stampella dei Verdi (che Hollande ha già fatto entrare nel suo governo), o potrebbero essere indispensabili anche i deputati del partito di Jean-Luc Mélenchon che è, di fatto, l’ultima reincarnazione del vecchio Pcf. In questa eventualità i margini di manovra di François Hollande diventerebbero più stretti e, su alcune battaglie, l’Eliseo potrebbe apparire ostaggio della politica dell’estrema sinistra. Il sistema elettorale in due turni – la maggior parte dei seggi di deputato si deciderà soltanto al ballottaggio – rende rischiose le previsioni e merita qualche spiegazione. Soprattutto adesso che
se ne ipotizza l’introduzione anche in Italia. È vero che il primo turno è una specie di grande “primaria”dove ogni sensibilità politica può trovare un suo candidato, ma lo scontro finale al ballottaggio è, poi, deciso da tutto il corpo elettorale e non soltanto dalla sinistra o dalla destra. E l’esperienza della Quinta Repubblica francese dimostra che le maggioranze si scompongono e si ricompongono anche in modo asimmetrico superando i tradizionali schieramenti di gauche e di droite. Per fare un esempio: se al primo turno dovessero arrivare in testa un candidato del Ps e uno del Front National, non è detto – anzi, finora è sempre successo il contrario – che gli elettori della destra moderata dell’Ump convergano sull’esponente del partito di Marine Le Pen.
Non è un caso che il Fronte nazionale, nell’attuale Parlamento, non ha alcun deputato e che i sondaggi glie-
ne assegnano al massimo tre o quattro anche adesso, nonostante il 18 per cento dei voti ottenuto nelle presidenziali, se continuerà a funzionare la regola che ha funzionato fino a oggi. Senza contare che in molte circoscrizioni i ballottaggi si decideranno con delle “triangolari” perché non è obbligatorio che la sfida finale sia a due: il candidato arrivato al terzo posto al primo turno può anche decidere di rimanere in corsa complicando il gioco. In queste potenzialmente triangolari, mortali per la destra come per la sinistra, confida invece la leader del Front national (che ha preso il nome di Movimento Bleu Marine per l’occasione). L’obiettivo di Marine Le Pen è di arrivarci in alcune decine di circoscrizioni, ma i numeri e le prospettive di astensione non promettono l’exploit sperato dopo l’inedito 18 per cento delle elezioni per l’Eliseo. Tra l’altro la figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore del Front, è protagonista di una delle sfide più interessanti: quella nel collegio di Henin-Beaumont, nel Nord della Francia, dove il suo rivale è proprio Jean-Luc Mélenchon, il tribuno della sinistra radicale. Lo scontro tra i paladini delle due estreme è stato al calor bianco. Nelle strade è comparso anche un volantino contraffatto che mostra Jean-Luc Mélenchon con le sembianze di Adolf Hitler e il Front de gauche ha deciso di portare in tribunale il Front national. A Henin-Beaumont, se-
A destra, dall’alto: Marine Le Pen, Jean-Luc Mélenchon e Francois Bayrou. Sotto, il neo-presidente francese Hollande e in basso a sinistra Palais Bourbon, sede dell’Assemblée nationale
condo i sondaggi, dovrebbe essere Mélenchon a spuntarla grazie anche ai voti del Ps, dei centristi di François Bayrou e di una parte dell’Ump.
Nell’insieme, il Front de gauche dovrebbe ottenere tra i 20 e i 25 deputati. Sufficienti per creare un gruppo parlamentare autonomo. Ma non necessari per la maggioranza di Hollande all’Assemblea nazionale che potrebbe essere assicurata dalla pattuglia dei deputati Verdi. Marine Le Pen, per parte sua, ha lanciato un nuovo affondo contro l’Unione europea in un’intervista al quotidiano austriaco Kurier sostenendo che soltanto il crollo della Ue potrebbe rendere possibile «l’Europa delle nazioni». La pasionaria della destra si definisce «europea convinta», ma dice di voler tornare a «un’Europa delle patrie in cui ci sarà la cooperazione tra le nazioni». È
il suo modo d’interpretare – e di replicare – alla nuova Francia di Hollande che vuole recuperare un ruolo di protagonista in un’Europa non più bipolare e, sostanzialmente, gregaria della Germania, ma multipolare. Anche se Hollande si guarda bene dall’auspicare il crollo della Ue e lavora, al contrario, per darle nuova forza. Ecco che anche nella francesissima battaglia
di massima con l’opposizione socialdemocratica e verde sull’introduzione della Tobin tax, l’imposta sulle transazioni finanziarie nell’eurozona, fino a ieri bloccata dai liberali.
È un altro sviluppo che a Parigi è valutato con soddisfazione. La tassa sulle transazioni finanziarie è l’unico punto programmatico che Hollande ha in
Il premier Jean Marc Ayrault ha stabilito che i ministri che non vinceranno nei rispettivi seggi parlamentari dovranno dimettersi. A rischio la poltrona di Pierre Moscovi, ministro delle Finanze per l’Assemblea nazionale – dove a fare la differenza sono gli interessi locali e la personalità dei candidati – entra da protagonista il dibattito sull’Europa. Nel bene e nel male. Ed ecco perché il risultato del voto – quello di domani e quello del ballottaggio di domenica 17 – avrà una ricaduta diretta sui nuovi equilibri che si stanno determinando a livello di Unione. Fino a dove arriverà la Merkel a cedere alle pressioni combinate di Obama, Hollande, Monti, Rajoy,Van Rompuy e dello stesso Draghi, è presto per dirlo. Ma il prevedibile successo interno del nuovo presidente francese dovrebbe favorire i segnali di svolta che già ci sono stati. In Germania la coalizione di centro-destra tra la Cdu-Csu di Angela Merkel e i liberali dell’Fdp di Guido Westerwelle si è accordata in linea
comune con Sarkozy, che l’aveva proposta più di un anno fa, ed è collegata alla più generale trattativa tra Berlino e Parigi sul patto per la crescita che dovrebbe accompagnare il patto fiscale sul pareggio dei bilanci. È stata proprio l’opposizione socialdemocratica e verde tedesca – di cui Angela Merkel ha bisogno per far ratificare il Fiskalpakt prima delle ferie dal Bundestag e dal Bundesrat con la necessaria maggioranza dei due terzi – a spingere sul governo per il sì alla Tobin tax ed anche su questa pressione del fronte interno tedesco conta Hollande per arrivare ad altri passi positivi negli incontri con Monti, la Cancelliera e gli altri leader europei prima che «suoni il gong dell’ultimo round», per riprendere una definizione dell’ex presidente della Commissione europea, Romano
Prodi. In un’intervista al Sole 24 Ore, Prodi ha affrontato lo stesso tema che Angela Merkel aveva posto, giovedì, parlando alla prima rete della televisione Ard: la necessità di arrivare a un’Europa politica oltre che economica. Per l’ex premier ed ex presidente dell’esecutivo di Bruxelles dal 1999 al 2004, oggi bisogna sostenere l’Europa non fosse altro che per «istinto di sopravvivenza, perché o si è uniti o si esce dalla storia». Il vertice del 28 e 29 giugno sarà il round decisivo e c’è da sperare che il senso di urgenza «aiuti tutti a cambiare atteggiamento perché negli ultimi tempi la Ue ha dimostrato la più incredibile fantasia nel rinviare i problemi e nel non volerli affrontare alla radice».
E decisivo sarà il comportamento di Angela Merkel: «Siamo al paradosso di una Cancelliera che ogni giorno si richiama a idee europeistiche a parole salvo poi, nei fatti, spingere la sua politica antieuropea tanto avanti da rendere impossibile l’uso degli strumenti indispensabili per uscire dalla crisi: nuovo ruolo della Banca centrale ed eurobond sono ormai le premesse per mettere in campo politiche che siano concretamente europeiste», ha detto Prodi. Sono parole che Hollande – se si potesse esprimere con la libertà di un “ex” – potrebbe sottoscrivere. Ma i rapporti tra Parigi e Berlino gli impongono ancora maggiore diplomazia.
mondo
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Il governo di Bogotà ha pagato loro il biglietto per venire a Roma e incontrare Benedetto XVI: «Un’esperienza meravigliosa»
Nelle mani delle Farc Ostaggi dei ribelli colombiani per 14 anni. Incatenati 24 ore su 24. Ecco l’odissea di sei poliziotti rapiti nel 1998 e liberati solo due mesi fa di Maurizio Stefanini io sa quel che fa. È stata un’esperienza terribile, ma anche grazie a quella ho potuto vedere da vicino il Papaı. «La cosa peggiore è che ho perso la mia famiglia». Abbiamo tradotto dall’originale in spagnolo hogar, che però è più forte dell’italiano “famiglia”. Indica letteralmente il “focolare”, e assieme la famiglia e la casa. Il centro fisico, morale e simbolico assieme degli affetti. A Roma, sei sottufficiali colombiani che sono stati liberati il 2 aprile del 2012 dopo essere stati prigionieri delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (Farc) per periodi compresi tra i 13 e i 14 anni si incontrano con la stampa nella sede dell’Ambasciata di Colombia presso la Santa Sede, dopo aver partecipato all’incontro mondiale delle famiglie a Milano ed essere stati ricevuti come invitati speciali all’udienza generale con Benedetto XVI. Un viaggio pagato dal governo di Bogotá nell’ambito di una serie di misure anche psicologiche per aiutare gli ex-prigionieri a reinserirsi nella normalità, dopo quell’eternità passata nella jungla: chiusi in sommarie gabbie di filo spinato, o legati agli alberi con una catena al collo.
«D
«La differenza tra noi e i “civili” come Íngrid Betancourt era che a noi ci tenevano incatenati 24 ore su 24», raccontano. I sottufficiali della Polizia José Libardo Forero e Jorge Trujillo Solarte ricordano quando furono catturati il 12 luglio del 1999 a Puerto Rico: una località di poco più di 7000 abitanti, nel Dipartimento di Meta. «Siamo stati assediati dalle Farc per due giorni aspettando i rinforzi. Ma questi non sono arrivati, abbiamo esaurito le munizioni, e abbiamo dovuto arrenderci». A raccontare è José Libardo Forero, la cui loquacità rivela l’intenzione di scrivere un libro sulla sua storia. «Come abbiamo resistito in questi anni? Abbiamo studiato la Bibbia. Abbiamo cercato di ingannare il
tempo facendo qualche piccolo lavoro di artigianato. Un politico prigioniero che sapeva le lingue mi ha insegnato russo e inglese. Ho allevato animaletti della selva». «Avevo un figlio di 7 anni e una figlia di 4. Per tutto quel tempo ho avuto con me le loro foto da piccoli. Quando sono tornato a vederli, io non riconoscevo loro e loro non riconoscevano me. Addirittura ho scoperto di essere nonno, perché mia figlia aveva avuto un bambino». Lui è uno di quelli che sembra più in forma: forse perché ha potuto ricongiungersi con la moglie, che lo ha accompagnato in questo viaggio. «Ci eravamo conosciuti che eravamo molto piccoli». Ma lui stesso dice che «quando sento un aereo, ancora tremo». Più volte hanno rischiato la vita, quando i guerriglieri erano attaccati dall’alto, e quando i militari arrivavano loro vicino. Nel 2009 era riuscito anche a fuggire, ma dopo un mese nascosto nella selva fu ripreso. «Sono stati gli abitanti che ci hanno segnalato, per paura dei guerriglieri». Trujillo Solarte è invece quello che più si dispera per aver perso il suo hogar. «Un’esperienza del genere ti distrugge la vita». Ma il suo problema maggiore ora è quello di riabituarsi a dormire in un letto. «Mi addormento per un’ora, e mi risveglio. Ripenso al passato, e mi viene il terrore di stare ancora nella jungla». I sottufficiali dell’esercito Luis Alfredo Moreno e Róbinson Salcedo Guarín furono invece presi a Miraflores, nel dipartimento del Guaviare, il 3 agosto 1998, mentre i sottufficiali dell’esercito Luis Alfonso Beltrán Franco e Luis Arturo Arcia fu-
A sinistra, dall’alto: Raùl Reyes, numero 2 delle Farc ucciso in Ecuador nel 2008. Ingrid Betancourt, il generale Mendieta (liberato nel 2010 dopo 12 anni) e due degli ostaggi appena rilasciati: Luis Alfredo Moreno e Róbinson Salcedo Guarín rono catturati il 3 marzo 1998 alla Quebrada El Billar, nel dipartimento del Caquetá. Luis Arturo Arcia rievoca quella battaglia, che è considerata la pià grave sconfitta subita dai governativi colombiani nel corso della lunga guerra contro le Farc. Un battaglione di 153 uomini che cadde nell’imboscata di 600 guerriglieri. «Caddero 83 soldati, 43 furono sequestrati». Anche loro sono stati rilasciati il 2 aprile 2012, nell’ambito di un’iniziativa di immagine con cui le Farc hanno tentato di riprendere un’iniziativa politica dopo le sconfitte degli ultimi anni. Ma loro sono i pri-
mi ad avvertire: «non cadete nella trappola dell’immagine romantica che le Farc vogliono rivendere di sé. Non sono loro i buoni». L’ambasciatore presso la Santa Sede César Mauricio Velásquez ricorda che, malgrado l’impegnativo annuncio delle Farc che le liberazioni del 2 aprile 2012 avrebbero rappresentato la fine della strategia del sequestro, «in realtà restano ancora nelle loro mani oltre 200 ostaggi».
E di recente le Farc hanno di nuovo preso prigioniero per 33 giorni il fotoreporter francese Romeo Langlois, preso mentre era embbedded con un reparto colombiano caduto in un’imboscata. Dopo aver chiesto alla stampa un “informazione equilibrata”sul conflitto lo hanno rispedito in Francia con un messaggio per il neo-presidente Hollande. Che, peraltro, ha rifiutato di impicciarsi negli affari interni colombiani: forse ammaestrato dai pasticci combinati dal suo predecessore Sarkozy a proposito del caso Betancourt. I sei rievocano ricordi di fame, sete, freddo, caldo, fatiche, umiliazioni, malattie. «Malaria, appendiciti». Le comunicazioni
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bardamento di un accampamento in territorio ecuadoriano, assieme a altri 22 guerriglieri. L’uccisione il 3 marzo 2008 del capo del Blocco Centrale delle Farc Iván Ríos, a opera di un guerrigliero disertore. La morte il 26 marzo 2008 del capo delle Farc Tirofijo: per cause naturali, ma mentre era sotto bombardamento. L’Operazione Jaque (= Scacco), con cui il 2 luglio del 2008 sono stati liberati 15 sequestrati, compresa la mediatica Íngrid Betancourt.
con le famiglie andavano a periodi intermittenti. Possibilità di inviare lettere in un primo periodo: in particolare nel periodo in cui il presidente Pastrana tentò un accordo di pace con le Farc, offendo loro una “zona di ripiegamento” in cui andò a stringere le mani al loro leader Tirofijo. Ma le Farc pretendevano di trattare nel mentre continuavano a combattere ed a prendere ostaggi, che spesso erano tenuti prigionieri proprio nella zona di ripiegamento. Nel 2002 i colloqui di pace furono dunque interrotti, anche per l’esasperazione dell’opinione pubblica colombiana di fronte a quuesta situazione: un ripensamento della stessa “colomba” pentita Pastrana, prima ancora che fosse eletto in modo plebiscitario il “falco”
AZIENDA SANITARIA LOCALE DELLA PROVINCIA DI BARI ESTRATTO ESITO DI GARA (art. 122 CO. 5 D.LGS.163/06)
Azienda Sanitaria Locale Bari, Lungomare Starita 6, P.I. 06534340721. Lavori di adeguamento per l’ottenimento del Certificato di Prevenzione Incendi del Presidio Ospedaliero “Umberto I°”di Corato. - CIG 3300175E8C - CUP D56E11000610002. Data di aggiudicazione dell’appalto 22/05/2012, visionabile su www.asl.bari.it. Offerte ricevute: n. 06. Aggiudicatario: CONSORZIO FRA COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO – CONS. COOP. – SOCIETA’ COOPERATIVA – in sigla CONSCOOP - - Via Galvani, 17/b – 47122 FORLI’. Importo di aggiudicazione: Euro 1.126.515,98. Accesso agli atti: c/o Area Gestione Tecnica ASL BA, c/o Ospedale di Venere, Via Ospedale Di Venere 1, tel. 080/5015963, fax 080/5015940, area.tecnica@asl.bari.it Data pubblicazione GURI: 06/06/2012. Il Direttore Area Gestione Tecnica Ing. Sebastiano Carbonara
Álvaro Uribe Vélez. E per alcuni anni furono interrotti anche gli invii di lettere. Poi ripresero di nuovo. I prigionieri comunque riuscivano a rendersi conto di quel che accadeva nel mondo, attraverso l’ascolto della radio.
Dalla radio seppero pure che due Papi, prima Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI, pregavano in continuazione per loro, e chiedevano di non dimenticarli. «Ora sono venuti a ringraziare il Papa per la sua costante orazione, che ha per-
stretto a sdraiarsi per un malore che è un evidente postumo dell’incubo nella selva, ma di fronte ai giornalisti i sei cercano di non apparire piegati dalla lunga prigionia. Dopo aver ricevuto un primo trattamento psicologico, anzi, dicono che stanno già facendo corsi di addestramento intensivo per recuperare il tempo perso. «Ci sono armi, norme, tecniche nuove che non conoscevamo, e che abbiamo dovuto apprendere».
Ovviamente, loro non sono analisti militari. E tuttavia la
«Come abbiamo resistito in questi anni? Abbiamo studiato la Bibbia. Un politico prigioniero ci ha insegnato russo e inglese», hanno detto i sottufficiali della polizia José Forero e Jorge Solarte messo loro di sopportare il supplizio del sequestro e recuperare la libertà», ha spiegato l’ambasciatore César Mauricio Velásquez. Róbinson Salcedo Guarín è quello particolarmente toccato per l’incontro col Papa. «Un’esperienza meravigliosa. Non avrei mai pensato che potesse capitarmi qualcosa del genere». Dopo la conferenza vedremo poi uno di loro co-
conoscenza di prima mano che hanno delle Farc può forse consentire loro di comprendere l’evoluzione di quel movimento. A un certo punto, un gruppo armato che sembrava se non invincibile insradicabile ha iniziato a ricevere un rovescio dopo l’altro. L’Operazione Fénix, con cui il primo marzo del 2008 il numero due delle Farc Raúl Reyes è stato ucciso nel bom-
L’Operación Camaleón, con cui il 14 giugno 2010 furono liberati 4 militari prigionieri. L’Operazione Sodoma, con cui il 23 settembre 2010 fu ucciso il comandante militare delle Farc Mono Jojoy. L’Operazione Odiseo, con cui il 4 novembre 2011 fu ucciso il nuovo leader delle Farc Alfonso Cano. Un insieme di disfatte che alla fine è sembrato aver convinto anche il presidente venezuelano Hugo Chávez che le Farc non erano più un’opzione politica e militare su cui poter contare. Tant’è che dopo lunghi anni di sostanziale contiguità e appoggio all’improvviso il governo bolivariano si è messo a arrestare uomini delle Farc e a estradarli in Colombia: una decisione che ha accentuato la crisi delle stesse Farc, e in cambio della quale peraltro Chávez ha ottenuto importanti concessioni. Dalla fine di una guerra commerciale che era costata cara a entrambi i Paesi, al ritiro da parte del nuovo presidente Juan Manuel Santos dell’offerta di basi militari agli stati Uniti fatta dal suo predecessore Uribe, fino all’intesa per un oleodotto che attraverso la costa colombiana del Pacifico potrebbe permettere al Venezuela di esportare direttamente petrolio verso la Cina, senza passare per la strettoia del Canale di Panama. Ma adesso le Farc sembrano all’improvviso tornare in salute. Il sequestro di Langlois; l’attentato di Bogotá all’ex-ministro dell’Interno Londoño; 12 soldati uccisi vicino al confine col Venezuela, che i guerriglieri hanno passato e ripassato contando su quella che non si capisce bene se è un ritorno di complicità o semplice inefficienza dell’esercito di Chávez. Forse, considerando le pessime condizioni di salute del presidente venezuelano e la crescente debolezza della situazione dell’ordine pubblico, più la seconda. Ma i sei non credono che in realtà le Farc stiano tornando in salute. «Hanno bisogno di controbattere l’immagine delle loro sconfitte, e per far vedere che tornano a colpire stanno usando sempre più mine e esplosivi». Insomma, un colpo di coda della belva moribonda, attraverso un ricorso sempre più massiccio a metodi di guerra sporca.
e di cronach
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parola chiave GIOCO
Mentre l’Italia si scalda i muscoli per gli Europei, è bene riflettere sul fatto che giocare è la forma suprema di apertura al mondo. Che proprio come nel calcio, svela nuove, inattese possibilità di Giancristiano Desiderio ono iniziati gli Europei 2012 ed eccoci di nuovo in campo: gli azzurri, acciaccati un po’ moralmente, domani si giocano quasi tutto con le furie rosse della Spagna. Da qui a un mese, con o senza Nazionale italiana, non si parlerà d’altro che di calcio. Forse, con la crisi che sappiamo, non è nemmeno un male. Tuttavia, proprio perché il calcio abbonderà, noi preferiamo «giocare» con l’essenza stessa del campo: il Signor Gioco. Ma per farlo, occorre prioprio partire dal pallone.
S
Il gioco del calcio in Italia è quello che è diventato. Non da oggi, da molti anni ormai. I giocatori sembrano esser diventati giocatori d’azzardo. Il gioco truccato però è il contrario del gioco. Anche se non abbiamo una definizione del gioco, comunque sappiamo che il trucco snatura il gioco fino a negarlo. Gregory Bateson, uno che si è soffermato un bel po’ sulla natura fascinosa e misteriosa del gioco, diceva che non è possibile dire a qualcuno «gioca». Gli si può dire, però, «trucca il gioco» e in questa azione di «trucco» c’è l’intrusione di un elemento estraneo
al gioco nel gioco che così muore o, meglio ancora, si ritrae e finisce. È curiosa questa cosa ma il rapporto che c’è tra il gioco e il trucco sembra prestarsi bene per pensare la differenza che Eugen Fink poneva tra il pensiero presocratico o addirittura pre-eleatico e la metafisica nata dal pensiero dell’essere che con il suo principio di ragione diventa la misura assoluta su cui tutto è modellato. Il primo è contrassegnato dal gioco del mondo e dall’apertura dell’uomo al mondo in cui le cose appaiono e scompaiono, si danno e si lasciano, sono solo parzialmente controllabili; il secondo è caratterizzato dalla ricerca del controllo e della razionalità, sempre insidiata dalla sensibilità che scompagina i piani dell’essere razionale, e la ricerca del controllo può anche sfociare nel controllo assoluto con le utopie che sognano un essere tutto dispiegato nella sua razionalità. Il gioco mette tutto questo in fuorigioco. È questa caratteristica di avere in sé abbandono e controllo essere e apparire - che lo rende così affascinante e importante nella storia della filosofia del Novecento: il gioco of-
fre la possibilità di ridefinire il concetto di essere. È con questo scopo che Fink, che fu allievo tanto di Husserl quanto di Heidegger e l’ultimo assistente di Husserl a Friburgo, pensa il gioco come un elemento che può rinnovare il pensiero non metafisico del mondo. Nel saggio Il gioco come simbolo del mondo si inizia a «giocare» proprio con il pensiero presocratico: il corso del mondo è un bambino che gioca a dadi. La sua tesi è che il fenomeno umano del gioco acquista un significato universale - il gioco è lo stesso cosmo e il gioco e il mondo si chiariscono l’uno con l’altro. C’è differenza tra il gioco dell’uomo con sé e con le cose e il gioco come mondo, eppure è la peculiarità dell’essere-nel-mondo dell’uomo che fa sì che il gioco umano possa essere assunto a simbolo del gioco cosmico.
Per chiarire: l’essere-nelmondo è proprio quella «apertura» alle cose del mondo - è essa stessa le cose del mondo - che rende l’uomo uomo. Detto in altre parole, noi siamo linguisticamente orientati, abbiamo un senso dell’essere che è la nostra stessa cultura
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per saperne di più
Friedrich Nietzsche
Gregory Bateson Questo è un gioco Raffaello Cortina Editore
Nell’uomo autentico si nasconde un bambino: che vuole giocare.
Eugen Fink Il gioco come simbolo del mondo Hopeful Monster
Novalis Giocare significa fare esperimenti col caso.
Friedrich Schiller
Hans-Georg Gadamer Verità e metodo Bompiani
L’uomo è veramente uomo soltanto quando gioca.
Pietro Aretino
Bernhard Welte Filosofia del calcio Morcelliana
Due cose mantengono vive le creature: il letto e il giuoco; peroché l’uno è refrigerio de le fatiche e l’altro ricreazione de i fastidi.
Antonio Ghirelli Storia del calcio in Italia Giunti
Anatole France Il gioco è un corpo a corpo con il destino.
Giancristiano Desiderio Il divino pallone Vallecchi
Pier Paolo Pasolini Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo.
Gianni Brera Storia critica del calcio italiano Baldini & Castoldi
Enzo Bearzot Il calcio pare esser diventato una scienza, anche se non sempre esatta. Tuttavia, per me, si tratta prima di tutto e soprattutto di un gioco.
Nick Hornby Febbre a 90° Guanda
nella quale siamo immersi fin da quando siamo nel grembo materno e poi nella «lingua madre». Il gioco, dunque, non è un’immagine falsa del mondo, né un’immagine mitica in cui viene ricondotto a regole prefissate e sacre, ma è un modo con cui l’uomo realizza la sua apertura al mondo. La parola apertura richiama l’uso della parola «apertura» che si fa nel calcio: un passaggio particolarmente riuscito è un’ottima apertura che, appunto, apre nuove possibilità e rivela ai giocatori come possono giocare al meglio la palla. La apertura al mondo è caratterizzata secondo Fink dalla totale gratuità. La conoscenza, in fondo, è spontanea e la sua spontaneità è garanzia di verità. L’apertura al mondo è gratuita e qui c’è il suo sentimento di meraviglia, sia positiva - lo stupore - sia negativa - il terrore. In questo gioco in cui le cose appaiono e sono, l’uomo sembra quasi mimare l’onnipotenza del mondo, senza potersi fare esso stesso signore del mondo, pena la possibilità di giocare. Così il gioco è simbolo del mondo che è senza fondamento, senza scopo, senza senso, senza valore, senza progetto, senza ragione ma al contempo è proprio questa «apertura» che fornisce la possibilità per l’essere delle cose che impone così il suo senso, il suo valore, il suo principio. Il gioco umano presuppone il giocatore, anche se non può essere ridotto al giocatore, mentre il gioco del mondo è senza giocatore e per noi - uomini e giocatori -
hanno detto
Sia sul campo che nella vita valgono due concetti: controllo e abbandono. Il primo è decisivo, il secondo indispensabile. Senza abbandono il controllo produce l’eterna colpa della tracotanza
In apertura, la formazione dell’Italia che ha affrontato la Russia nell’ultima amichevole prima dell’Europeo in Polonia e Ucraina (in alto, le mascotte del logo). Sopra, la Spagna che ha vinto l’ultima edizione dell’Europeo e che sarà avversaria degli azzurri nella gara di esordio di domani
conserva il suo enigma e la possibilità di pensarlo e viverlo e giocarci.
È probabile che l’uomo inizi la sua storia sulla Terra giocando. Il cogito di Cartesio potrebbe essere sostituito dal «gioco dunque sono» perché in quel sum finale - cogito ergo sum - che resta come sommerso cosa c’è se non il gioco? Il gioco più antico è senz’altro quello della palla. Un gioco che non riguarda solo gli uomini. Anche gli animali giocano. Gadamer nel suo capolavoro quando introduce le famose pagine sul gioco parla proprio del gatto che gioco con la palla. E Bateson ha un vasto campionario di animali e personaggi che giocano: dai gibboni alle lontre, dai gatti ai delfini, dai giocatori di canasta agli strambi protagonisti della partita di crickett di Alice nel paese delle meraviglie. Platone nel Teeteto parla di bambini che giocano a palla e il platonico Cusano nel 1460 scrive Il gioco della palla.Tutte le storie del gioco e dei giochi - e le storie del calcio - iniziano ora con questo, ora con quella popolazione presso cui la palla era presa a calci. Quando si dice che il calcio è lo sport più bello del mondo in fondo si dice che il calcio è il gioco più bello del mondo. Prima dello sport - fenomeno sociale - c’è il gioco che, per dirla con Fink è fenomeno cosmico. Se il lettore me lo concede vorrei inserire anche il mio nome nella schiera di autori di cose «giocose»: Il divino pallone. Un titolo che vuole essere
un po’ la sintesi tra gioco e divinità (ma è giocato sul noto «il divino Platone»). E per non concludere dicendo che «tutto è gioco» e «è solo un gioco» vorrei ritornare sul punto della questione, quasi come se mettessi la palla al centro.
Il gioco è importante perché mette insieme i due concetti più importanti per capirci qualcosa nella nostra esistenza: abbandono e controllo. Per giocare a calcio devo aver un buon controllo di palla. Se non sono in grado di controllare la palla è meglio che cambi gioco. Il controllo della palla, però, non è finalizzato a se stesso, altrimenti non c’è partita e non si può giocare. Il fine del controllo è il gioco ossia l’abbandono. Lo dice anche il linguaggio comune: «Mettere la palla in gioco». Se provate a trasferire i concetti di abbandono e controllo dal campo di calcio al campo della vita vedrete che le cose non mutano: nella vita dobbiamo imparare a controllare e controllarci ma il fine della vita non è il controllo, altrimenti la vita migliore sarebbe quella della caserma o dell’ospedale. Il fine del controllo è la vita che è fatta di controllo e abbandono. Detto in due parole: come il giocatore per giocare non deve essere il padrone assoluto del pallone, così l’uomo per vivere non deve essere il padrone assoluto della vita. Il gioco è la possibilità stessa di giocare, l’esistenza è la possibilità stessa di vivere. Il controllo assoluto del gioco e della vita è l’eterna colpa della tracotanza.