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he di cronac

Nel matrimonio ci son molti dolori, ma nel celibato non c’è alcun piacere.

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Samuel Johnson di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 8 GIUGNO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Clamorosa intervista tv della Cancelliera: «Non possiamo fermarci perché qualcuno non vuole procedere»

Il vero piano della Merkel «Voglio l’unità politica, ma dividiamo l’Eurozona tra chi corre e chi no» Scoperte le carte in vista del vertice del 29: «L’Ue deve avere poteri di controllo sui bilanci» Monti: «Rigore indispensabile, ha ragione la Germania. La fase critica ancora non è superata» LA SVOLTA DI ANGELA

L’ANALISTA INGLESE

Preso l’assassino di Brindisi

Unione sul serio, Stati Uniti d’Europa, non il controllo è l’unica soluzione dei conti a Berlino per il futuro di Osvaldo Baldacci

di Ian Traynor

ngela Merkel pensa a una riforma dell’Unione Europea. Pensa a un’Europa più politica con meno burocrazia e più autocoscienza. In particolare, la Merkel indica la necessità di un’unione fiscale e di politiche di bilancio più coordinate. Non esclude che per andare in questa direzione si possa procedere anche con un’Europa a due velocità e vorrebbe definire un piano di lavoro già a partire dal prossimo vertice di fine giugno. Che la cancelliera pensi a livello europeo e chieda una più forte unione politica è un buon segno. Negli ultimi tempi, la sensazione era che la Germania fosse concentrata solo su Berlino e vedesse l’Europa come un problema. a pagina 2

cco un indice della velocità con la quale si sta evolvendo la politica della crisi dell’euro: soltanto due settimane fa l’attenzione generale era puntata in modo quasi eccessivo sul nuovo presidente francese François Hollande, che giurava a Parigi nelle vesti di Monsieur Crescita per poi precipitarsi verso la sua prima missione, a sfidare Frau Austerity d’Europa, la cancelliera Angela Merkel. Sabato scorso il braccio di ferro “crescita contro austerity”aveva già fatto un passo indietro, e ieri addirittura Angela Merkel ha cambiato le carte in tavola a Hollande: è arrivato il momento dell’unità politica. Ma è davvero un obiettivo ragionevole?

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La banalità del male della porta accanto

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di Riccardo Paradisi

Oggi nuovo vertice per cercare una mediazione

Governo, rompere o no? Il Pdl si spacca sul “grilloberlusconismo” Alfano e Cicchitto appoggiano Schifani che aveva accusato frange del partito di essere troppo movimentiste. Ma restano i dissidi sul sostegno all’esecutivo • pagina 6

a pagina 5

Gli inviati Onu cacciati dal luogo dell’ennesima strage

India e Cina vogliono sostituire la Nato a Kabul

Assad spara sugli osservatori

Usa-Pakistan, ormai è rottura

di Luisa Arezzo

di Antonio Picasso

ashar al Assad ha perso ogni legittimità. Con queste parole durissime, mai dette fino a ieri, Ban Kimoon, segretario generale dell’Onu, ha chiarito meglio di chiunque altro che il “dittatore” di Damasco potrebbe avere i giorni contati. Ad accelerare la crisi la notizia di un nuovo massacro di almeno 78 civili, fra cui donne e bambini, avvenuto mercoledì in un villaggio vicino Hama. a pagina 10

i è chiusa ieri a Pechino la dodicesima edizione degli incontri tra Capi di Stato tra i membri della Shanghai cooperation organization (Sco). I sei membri a pieno titolo dell’organizzazione, affiancati da candidati partner e osservatori, hanno dimostrato una global vision che Stati Uniti ed Europa difficilmente saranno in grado di raggiungere.

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

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essantotto anni, commerciante di carburanti, pensionato. Lo stragista che ha piazzato e fatto esplodere l’ordigno davanti alla scuola “Morvillo-Falcone” di Brindisi, uccidendo la sedicenne Melissa Bassi e ferendo altre cinque ragazze, sembra avere finalmente un volto oltre che un nome. Si chiama Giovanni Vantaggiato e alla questura di Lecce ha confessato: «Sì, quella bomba l’ho fatta io da solo. L’ho pensata e l’ho costruita. Ho spinto il bottone per farla esplodere». Movente? «Un Confessa colpo di tel’omicida: sta» ha det«So come to Vantaggiato. Una ho fatto, ma non so versione che non perché convince l’ho fatto» gli inquirenti i quali riguardo al movente hanno definito l’interrogatorio “non soddisfacente”. Insomma resta il mistero del perché di un atto così atroce, che la follia non spiegherebbe del tutto. Perché infatti colpire proprio quella scuola intitolata al magistrato antimafia Giovanni Falcone e a sua moglie Francesca Morvillo? E perché proprio nel giorno dell’anniversario della loro morte a Capaci?

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

segue a pagina 16

19.30


Finalmente Frau Angela ha gettato la maschera

Cedere sovranità a Berlino?

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di Osvaldo Baldacci ngela Merkel pensa a una riforma dell’Unione Europea. Pensa a un’Europa più politica con meno burocrazia e più autocoscienza. In particolare, la Merkel indica la necessità di un’unione fiscale e di politiche di bilancio più coordinate. Non esclude che per andare in questa direzione si possa procedere anche con un’Europa a due velocità e vorrebbe definire un piano di lavoro già a partire dal prossimo vertice di fine giugno. Che la cancelliera pensi a livello europeo e chieda una più forte unione politica è un buon segno. Negli ultimi tempi, forse a torto, la sensazione era che la Germania fosse concentrata solo su Berlino e vedesse l’Europa come un problema. Il sospetto era che la virtuosa Germania dai bilanci sani e le esportazioni alle stelle potesse pensare di farcela da sola sul mercato globalizzato, e ritenesse di conseguenza che l’Europa o almeno una sua parte consistente fosse più una zavorra che una opportunità. Pensare invece a una unione politica vuol dire avere una visione più ampia, più includente, meno ripiegata su se stessa.

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Che ci sia bisogno di più Europa è un ritorno alla visione illuminata di Helmuth Kohl. Però bisogna anche vedere un po’ le carte. Non c’è dubbio che questo sia un momento in cui la Germania in Europa è particolarmente forte. Un momento in cui alla Germania può essere chiesto di fare di più, a partire dall’allargare i cordoni della borsa, sia nella solidarietà verso gli Stati in difficoltà sia nella maggior generosità verso i suoi stessi cittadini, dei quali bisogna riempire un po’ le tasche perché possano svuotarle acquistando prodotti europei. E poi c’è la questione degli eurobond, titoli di debito europei che possono assumere forme diverse ma sembrano sempre più necessari. Berlino finora ha sostanzialmente osteggiato questa linea, ora spinge in avanti. Anche se certo non sull’emissione di eurobond, l’unione fiscale ne sarebbe certamente una valida premessa e un necessario contrappeso. Se questa è la situazione generale, c’è da riflettere. Prima di tutto con un sano ottimismo sulla possibile spinta in avanti verso un’Europa più stretta, più politica e quindi più democratica ed efficiente. Ma anche con un po’ di altrettanto sana diffidenza. La Merkel infatti si trova davanti al solito bivio. Superato (forse) quello di una Germania con o senza Europa, ora torna il vecchio dilemma: una Germania europea o un’Europa tedesca? Che i Paesi europei e i loro bilanci possano diventare un po’ più tedeschi forse non è un male, e che chi mette i soldi (per esempio con gli eurobond) voglia avere un po’ più di potere per controllare che i conti non siano truccati appare ragionevole. Ma solo questo. Anzi, per ottenere questo, la Merkel si deve rendere conto che non può strangolare i Paesi europei chiedendo loro l’impossibile e non dando in cambio nulla se non la sua benedizione. L’Europa vuole la Germania e ne ha bisogno come la Germania ne ha dell’Europa, ma l’Europa non vuole certo diventare tedesca, questo deve essere chiaro. Con gli occhi aperti su questo pericolo, in fondo c’è da essere ottimisti. Alla fine, nella sua intervista tv la Merkel ha detto quello che i più avveduti in Italia dicono da tempo: ha parlato della necessità della crescita, ribadendo che essa però si fonda sul rigore e sui bilanci in ordine e ha sottolineato il problema centrale della competitività da far ripartire. Se è la competitività dell’intera Europa verso il mondo e non quella della Germania verso i partner europei, è un’ottima prospettiva.

In vista del vertice di fine giugno, la Cancelliera svela in tv la sua strategia

Le due Europe della Merkel

«Unità politica per dare a Bruxelles maggiori strumenti di controllo: non possiamo fermarci perché qualcuno non vuole procedere». Ecco la Ue che vuole la Germania di Francesco Pacifico

ROMA. Zone a fiscalità di vantaggio? Fondi europei meglio calibrati per ingrossare la ripresa? Maggiori finanziamenti alla Bei per far ripartire le grandi opere? Angela Merkel getta la maschera e annuncia il suo vero piano per la crescita: al Consiglio d’Europa di fine mese porterà la creazione di «unione politica», una nuova architettura per l’Europa.

E soltanto dopo aver omogeneizzato l’area potrà dotarsi di tutti quei firewall (eurobond, garanzie ai depositi bancari, project bond, mercato unico dei servizi, incentivi alla ricerca) che i principali governanti, la comunità accademica e i mercati reputano interventi basilari per risolvere la crisi. Ed evitare il default di Grecia e Spagna, quindi della stessa Europa. La cancelliera è convinta che «alla luce delle difficoltà attuali, è importante sottolineare che abbiamo creato strumenti di supporto nell’eurozona. E Berlino è pronta a utilizzare questi strumenti quando necessario ed e’ nella nostra volontà mantenere stabile la zona euro». Parole che fanno inorridire gli alleati. Il presidente uscente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker, le manda a dire: «Abbiamo reagito in tempi utili, siamo sempre in ritardo ma abbiamo reagito e se oggi possiamo discutere di quanto resta da fare di essenziale, circa il futuro dell’Eurozona, è perché abbia-

mo potuto regolare ciò che era pre-essenziale, cioé le misure prese per fronteggiare l’emergenza». Come dire, che ora bisogna chiudere il percorso di riforme. Più diretto Mario Monti, secondo il quale, «nell’immediato serve la volontà di preservare la moneta unica e di procedere a una maggiore integrazione fra l’unione bancaria che deve essere chiamata unione finanziaria». Mentre il socialdemocratico austriaco Hannes Swoboda chiama a raccolta la famiglia socialista europea perché la cancelliera «dia un segnale che il futuro dell’Europa è più importante della pace interna nella sua coalizione». E infatti sembra proprio che la proposta tedesca sia più a uso e consumo dei propri elettori che degli europartner. Ricalca lo stesso schema usato dalla premier quando si doveva trattare su Six Pack e Fiscal compact: imporre inaccettabili riduzioni ai fondi comunitari per chi non rispettava i parametri di Maastrict, con il solo obiettivo di salvare lo status quo e quel rigore che permette ai tedeschi di garantire forti sgravi fiscali alla proprie aziende esportatrici. Anche perché in Europa – con il protarsi della crisi e della disoccupazione, i ricatti dei grandi e dei piccoli, l’acutizzarsi delle differenze sociali – sembra venire meno quel clima di rinascita iniziato con la caduta del governo Berlusconi e rafforzatosi con il cambio della


«Ma quello tedesco è un ricatto» «Promettono fondi in cambio di controllo»: durissimo il commento di Marco Fortis ROMA. «Prima di fare quello che vuole la Merkel, sono necessari almeno cinque anni. E per quella data saranno tutti falliti, compresi i tedeschi». Marco Fortis, da economista che studia i sistemi industriali e le direttrici commerciali, fa fatica a capire perché Berlino stia mettendo a rischio un’architettura che è alla base dell’euro quanto del proprio successo. Ancora di più dopo che la cancelliera tedesca ha legato l’introduzione di nuovi firerwall economici (eurobond, garanzie sui depositi bancari) alla creazione di «un’unione politica», a una riforma istituzionale che superi l’attuale unanimismo in Europa. La Germania getta la maschera. La Germania deve dirci cosa vuole fare. Perché a un centimetro dal disastro dell’euro si possono fare tutti i progetti che vogliano, ma se non si spegne prima l’incendio non andiamo nessuno da parte. E anche oltre Reno non manca chi – Fischer o Schmidt – dice che l’impostazione tedesca è sbagliata. Quello della Merkel sembra un ricatto. È evidente che lo è. Posso comprendere che è difficile fidarsi dei greci, ma se davvero fosse un’europeista convinta potrebbe iniziare a fare gli eurobond con la Francia e con l’Italia che dal 1993 ha generato un avanzo primario di sessanta punti (i tedeschi sono fermi a 19) e otterrà il pareggio di bilancio prima ancora dei tedeschi. Senza contare un patrimonio privato che neppure Berlino e Parigi possono

vantare e banche non gravate da bolle immobiliari. Basterebbe? Con questi tre Paesi creeremmo un mini circuito virtuoso con il debito aggregato più basso al mondo e capace di raccogliere 700 miliardi di euro, che diventano 2.100 con la leva finanziaria. Ce n’è di cemento per creare la nuova Europa, mandare un segnale ai mercati e costituire un firewall sufficiente per avere tutto il tempo di mandare i pompieri i periferia, di intervenire con più calma in Grecia e Spagna. Infatti, c’è la Spagna in fiamme. A me viene il sospetto che in Germania convenga che perduri questa situazione. E le ragioni sono le più disparate: ci sono le necessità elettorali della Merkel, il fatto che ogni mattina a Monaco e ad Amburgo ci svegli senza il peso dello spread, ma soprattutto che il Paese si finanzia a tassi reali sotto zero, con gli altri europei – compresi gli italiani – che non solo gli prestano i soldi ma devono anche pagare i tedeschi per “costringerli”a prendere. Non era la

patria del rigore? Lo è. Ma è anche è un Paese che in casa applica la stessa ricetta keynesiana che vuole bandire nel resto d’Europa: la piena occupabilità si è creata anche all’assunzione di 500mila persone nella pubblica amministrazione, ha investito 50 miliardi in spesa tra il 2007 e il 2001, finanziati dalle altre nazioni che stanno investendo in marchi... pardon in euro. In ogni caso è più fare crescita in questo modo. Soprattutto sul versante estero. La forza della Germania si fonda proprio sulle posizione costruite con il Portogallo, la Grecia, la Spagna, l’Italia o la Francia, non certo con la Cina. Con questi “orridi usurpatori” il surplus è arrivato negli ultimi dodici anni a quota 300 miliardi. Se non bastasse questi stessi Paesi si sono dovuti indebitare per comprare questi beni. E di quale Paese sono le banche che li hanno finanziati. La Germania. Appunto. E a questo punto, con la crisi che monta, uno si aspetterebbe un dumping compensato come quello della Cina verso l’America o l’iniezione di fondi guadagnati nell’economia dei propri acquirenti. Pechino, oltre a fare incetta di T-bond, ha finanziato persino Fannie Mae. Invece la Germania non soltanto ha lasciato incancre-

Bisogna dare subito un segnale forte ai mercati per dimostrare che l’Europa ha davvero intenzione di salvarsi

guardia all’Eliseo. Mario Monti ieri ha rinviato il pacchetto per la crescita – la Ragioneria di fatto non l’ha bollinato – e annunciato: «Io e il mio governo e io abbiamo sicuramente perso in questi ultimi tempi l’appoggio che gli osservatori ci attribuivano, spesso colpevolizzandoci, dei cosiddetti poteri forti perché non incontriamo favori in un grande quotidiano rappresentante e voce di potere forte e in Confindustria». In ogni caso i tedeschi propongono cessioni di sovranità in cambio di moneta sonante verso i più poveri. Perché l’obiettivo della Merkel è superare un’Europa dove non si decide perché sono troppi a farlo (Commissione, Europarlamento, Ecofin, Consiglio d’Europa) e trasformare il Vecchio Continente in una federazione dove l’azionista forte – ca va sans dire la Germania – non è costretto a dover trattare sempre su tutto e contro tutti. Il ministro dell’Economia tedesco Wolfang Schäuble nelle scorse settimane ha suggerito l’idea di eleggere un presidente del Consiglio d’Europa e di superare l’approvazione a maggioranza assoluta delle principali misure. Concetto, questo, ribadito anche dalla Merkel , quando ha minacciato l’idea di una Europa “a due velocità”– a doppia velocità politica prima ancora che economica – «se alcuni Paesi rallentano l’Ue».

Sarebbe interessante capire cosa ne pensano i vari ministri del governo tedesco o i membri dell’Alta Corte di Karlshrue, sempre ligi nel ricordare che è vietato – Eurobond, trasformazione di pagatore di ultima istanza della Bce, licenza bancaria per il Fondo Salva Stati – tutto quello che non rientra nei trattati europei. Ma la cosa interessa più di tanto Berlino. Anche perché la Merkel per ora sembra più interessata a boicottare il Consiglio d’Europa del 27 giugno.

sarà risolta in una notte ma ci vorranno alcuni anni». E in quest’ottica ha anche spiegato che è sbagliato accusare i tedeschi di ingratitudine verso i partner e di ingenerosità verso la Grecia. «La domanda che dobbiamo porci è se Atene si identifica con quanto abbiamo proposto. Si tratta del maggiore compito che abbiamo di fronte».Eccola infatti ricordare che gli ellenici hanno ricevuto due salvataggi e una svalutazione sul debito, pari complessivamente a circa 1,5 volte il Pil del Paese stesso.

L’uscita di Berlino non piace agli alleati. Dura la replica di Monti: «Nell’immediato serve preservare la moneta unica e proseguire verso l’unione bancaria». E si lamenta: «Non ho più l’appoggio dei poteri forti» Al riguardo fa sapere che l’appuntamento «non sarà decisivo, non potrà comunque risolvere tutti i problemi dell’Eurozona». Con un’inversione a U troppo spericolata per un politico attenta come lei fa suo il grido di dolore di Hollande e di Obama e ammette – ospite a Londra di David Cameron – che «il fiscal compact, l’accordo europeo sulla disciplina di bilancio, non sarà sufficiente per risolvere la crisi». Secondo l’ex allieva di Kohl, «la crisi dell’euro non

nire la situazione, ma ha riversato i bond greci sulle istituzioni pubbliche e ridotto le posizioni persino in Italia o in Francia. Perché punire i propri acquirenti? È quello che mi chiedo anch’io. Pensi che anche con la Francia il surplus è di 300 miliardi. L’Italia poi dovrebbe essere trattata con i guanti bianchi visto che per la metà le sue importazioni dalla Germania sono costosissime Audi e Mercedes. Tra l’altro pagate cash. Sale il consenso alla Merkel. Non mi sembra che gli esportatori siano molto allegri in questa fase. Il problema è che in questa Germania c’è un’ala conservator-finanziaria, con le banche che hanno visto crescere la loro massa monetaria: i soldi, si sa, non si portano soltanto in Svizzera. E gli elettori? La massa popolare non vive i problemi subiti dai vicini italiani o francesi. E non ha la minima percezione di quello che sta accadendo o dei vantaggi dell’euro. Alla fine passa sempre la concezione – anche con quale ragione – che i greci e i portoghesi ne hanno fatte di cotte e di crude, che degli italiani e degli spagnoli è meglio non fidarsi. Risultato? Fino a quando la situazione non scoppia, non avremo novità. Basterà aspettare fine anno. Veramente la Germania arranca già ora: l’ultimo dato sulla produzione industriale parla di un -2,2 per cento. Se poi dovrà ridurre l’alto debito pubblico (sono 2mila miliardi di euro) secondo la cadenza imposta dal fiscal compact, allora Berlino farà fatica ad assumere nei prossimi 4 anni i 500mila nuovi statali promessi e dovrà tassare i cittadini o tagliare la spesa. Che cosa ci aspetta? E chi lo sa. Qui usciamo dall’ambito dell’economia ed entriamo in quello della politica. Perché ora tocca ai governi di Francia e Italia metterci forza politica e imporre alla Germania gli eurobond per spegnere il fuoco. (f.p.)

«La questione della solidarietà pura e semplice», replica ai detrattori, «non è il problema che deve essere in prima linea nelle discussioni. Gli aiuti concessi alla Grecia negli ultimi anni coprono una volta e mezzo il Pil del Paese», Merkel, paragonando questo ammontare al Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa, «il cui volume era pari al 3,8 per cento del Pil dell’area». L’ultima ukase della Merkel finisce anche per mettere in imbarazzo i maggiori attori internazionali. Ben Bernanke ieri ha fatto sapere che «nonostante tutte le azioni finora intraprese la situazione in Europa pone rischi significativi per il sistema finanziario e per l’economia degli Stati Uniti».


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l’approfondimento

Con l’esaurirsi delle alternative, maggior coesione sembra sempre più probabile: l’analisi dell’opinionista del “Guardian”

Stati Uniti d’Europa!

Cedere sovranità in favore di Bruxelles? È l’unica soluzione per garantire un futuro all’Unione (e alla sua economia). Frau Merkel ha promesso di parlarne al vertice del 29 giugno. Ma solo perché sa bene che Parigi e Londra diranno di no di Ian Traynor cco un indice della velocità con la quale si sta evolvendo la politica della crisi dell’euro: soltanto due settimane fa l’attenzione generale era puntata in modo quasi eccessivo sul nuopresidente francese vo François Hollande, che giurava a Parigi nelle vesti di Monsieur Crescita per poi precipitarsi verso la sua prima missione, a sfidare Frau Austerity d’Europa, la cancelliera Angela Merkel.

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«Occorrono nuove soluzioni. Ormai è tutto sul tavolo», aveva assicurato Hollande, lasciando intendere che avrebbe costretto Merkel a togliere la pinza dal naso e a prendere in considerazione quelle cose che a Berlino risultano sgradite perché emanano cattivo odore – prima di tutto gli eurobond – aggiungendo che la Germania avrebbe potuto risolvere la crisi in un colpo solo accettando di garantire il debito di Spagna, Grecia, Ita-

lia e via dicendo. Impossibile. Sabato scorso il braccio di ferro “crescita contro austerity” aveva già fatto un passo indietro, quando Merkel ha cambiato le carte in tavola a Hollande. È infatti arrivato il suo turno di dichiarare che non devono esserci affatto tabù nell’affrontare le opzioni più difficili con le quali sono alle prese i leader europei mentre aspettano di vedere che cosa accadrà in Grecia e in Spagna, e pianificare le loro prossime mosse nell’importante vertice di fine mese che si profila sempre più decisivo.

bilancio, fiscali, sociali, delle pensioni e del mercato del lavoro, finalizzata a forgiare una nuova unione politica europea entro i prossimi cinquedieci anni.

È sembrato che Merkel non alludesse soltanto al bluff di Hollande, ma a quello della Francia intera. Annunciando che non può esserci disaccordo sull’elenco delle priorità della zona euro, ha inteso mettere sul tavolo misure radicali e federaliste che comportano una perdita graduale della sovranità nazionale per ciò che compete le politiche di

Van Rompuy, Draghi, Juncker e Barroso stanno preparando un piano d’azione

Rieccoci quindi agli Use, gli Stati Uniti d’Europa, quanto meno per ciò che concerne la zona euro. Una simile “unione politica”, in virtù della quale ogni paese membro cederebbe i propri poteri fondamentali a Bruxelles, Lussemburgo e

Strasburgo, è sempre stata lontanissima da quello che i francesi erano disposti a prendere in considerazione. Berlino invece adesso sta lanciando un messaggio chiaro: se deve accollarsi la colpa di quelli che considera i fallimenti altrui, dovranno esserci azioni graduali ma incisive per l’integrazione, per procedere in direzione di un’unione bancaria, fiscale e in definitiva l’unione politica di tutta l’eurozona. Si tratta di un concet-

to controverso che Merkel non ha sempre appoggiato. Ora che la crisi si è fatta incandescente, tuttavia, pare proprio che non le resti alternativa. Nelle prossime tre settimane assisteremo a un’attività frenetica volta a perseguire questo obiettivo. Saranno tre settimane in cui il quartetto di “risolutori” dell’Ue correrà da una capitale all’altra per tastare il terreno.

Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo; Mario Draghi, capo della Banca centrale europea; JeanClaude Juncker, leader dell’eurogruppo, e José Manuel Barroso, capo della Commissione europea, dovranno infatti portare al summit del 28 e 29 giugno dell’Ue un piano di integrazione della zona euro. Tutti e quattro sono decisi federalisti europei. Prima del vertice si svolgeranno le fatidiche elezioni in Grecia e quelle del parlamento francese, e sembra che il tem-


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La crisi delle banche è strettamente legata a quella greca: il voto di Atene è la deadline

Spagna, tempo (quasi) scaduto per evitare il fallimento Il destino di Madrid deve essere deciso prima del 17 giugno. Altrimenti si rischia il crollo: ormai i mercati hanno perso fiducia nel governo di Manel Pérez l clima politico che circonda la crisi dell’euro negli ultimi giorni è cambiato in modo quasi impercettibile. Da un vago consenso sul concetto che la Spagna, nell’occhio del ciclone, non poteva aspettarsi nulla prima del 17 giugno – data in cui si terranno le seconde elezioni in Grecia, dopo che le prime non hanno portato alla formazione di un nuovo governo – si è passati a qualcosa di diverso: “Bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa, prima di quella data”. Un segnale di panico o una semplice previsione? Il segno più evidente di questo nuovo clima è stata la videoconferenza del 5 giugno tra i ministri delle finanze del G7, evento alquanto insolito e che in genere finora preludeva sempre a un’azione concertata da parte delle principali banche centrali. Ed è proprio questo che potrebbe infatti accadere al meeting del board della Banca centrale europea, la grande speranza per coloro che auspicano un’azione immediata a difesa della valuta unica.

I

Sulla Spagna convergono due trend. Il primo è l’assoluta e crescente sfiducia dei mercati nella sostenibilità dell’indebitamento pubblico, statale e privato (bancario) della Spagna. Il secondo è una vaga sensazione che la zona euro – che ai fini di ciò di cui stiamo parlando significa per lo più Germania, di questi tempi – potrebbe essere disposta a intervenire per scongiurare il disastro che seguirebbe il crollo della Spagna. I mercati azionari e valutari per tutto il giorno sono andati al rialzo e al ribasso in modo altalenante, a seconda delle voci sul prevalere dell’uno o dell’altro trend. È arrivato il momento di raccogliere i cocci. Luis de Guindos, ministro delle Finanze spagnolo, vuole che il settore bancario del suo paese sia in grado di ottenere i soldi europei senza che si arrivi al bailout. Se ciò accadesse, vorrebbe dire la fine politica del governo di Mariano Rajoy e un enorme sacrificio per il popolo spagnolo, che sarebbe sottoposto ai dettami dei creditori. Più di ogni altra cosa, un bailout vorrebbe dire che il paese sarebbe escluso dai mercati. L’unica fonte di nuovi finanziamenti per coprire gli interessi dei buoni sarebbe a quel punto il fondo di soccorso europeo, che imporrebbe al governo spagnolo tutte le deci-

sioni economiche, senza possibilità di appello.

Il governo si ritroverebbe con mani e piedi legati. I principali azionisti di quel fondo sono infatti quegli stessi paesi dove hanno sede le banche che hanno prestato somme incalcolabili alle loro controparti spagnole e allo stesso stato spagnolo. Come vediamo accadere oggi in Grecia, il bailout – uno dei termini più eufemistici introdotti

Far fronte all’indebitamento sia pubblico sia privato sta diventando la vera chimera

dalla crisi dell’euro – equivale a essere strangolati. È risaputo infatti che Atene non vede neppure un euro dei presunti soldi del bailout, perché vanno a finire tutti direttamente ai creditori, che in questo caso sono il Fondo monetario internazionale, la Bce e la Commissione europea. Dal punto di vista del creditore, tuttavia, le cose assumono tutt’altro aspetto. Autorizzare un bailout parziale soltanto delle banche nei guai potrebbe essere il primo passo verso la conclusione di trattative bilaterali sui debiti di quegli enti nei confronti dei loro creditori, senza poter garantire la riscossione con la stessa certezza che ci sarebbe qualora l’intero territorio fosse stato messo adeguatamente in sicurezza – vedi il paese che è stato salvato con un’iniezione di capitali. A dar retta a quello che il governo spagnolo sta suggerendo e che i leader tedeschi dicono ufficialmente, la Germania sta aiutando la Spagna. Ma stando alla stampa internazionale Angela Merkel e il suo ministro Wolfgang Schäuble sono le persone più interessate a far sì che Madrid accetti il pacchetto completo: un intervento vero e proprio di bailout.

Anche Obama, Hollande e Barroso sono nell’elenco di coloro che stanno sollecitando Berlino a fare un gesto decisivo. Il 5 giugno Cristóbal Montoro, ministro spagnolo del Bilancio, ha riassunto la situazione del governo spagnolo con una battuta – «I men in black (rappresentanti della troika) non verranno», un modo tutto sommato divertente per respingere l’intervento di salvataggio – ma ha anche dovuto ammettere che per salvare le banche serve denaro. «Il problema è dove trovarlo», ha detto. Quest’ultima frase probabilmente serve a farci comprendere meglio quel cambiamento di clima di cui si parlava all’inizio. La Spagna riesce soltanto a malapena a continuare ad accedere ai mercati, e senza aiuto dalla Bce e dalla zona euro, non riuscirà a fare molto di più. © La Vanguardia

po stia volgendo al termine anche per il settore bancario spagnolo. Il ministro delle finanze di Madrid, Luis de Guindos, dice che il destino dell’euro sarà deciso nel corso di queste settimane in Spagna e in Italia.

Il cambiamento radicale nell’integrazione su cui si sta rimuginando non salverà la Grecia, non sanerà le banche spagnole, non farà uscire l’Italia dalla crisi né porrà rimedio in tempi brevi alla crisi dell’euro. I leader forse sono rimasti a corto di tempo, hanno esaurito le riserve di politica del rischio calcolato e gli appelli dell’ultimo momento che hanno caratterizzato la cosiddetta “gestione della crisi” negli ultimi 30 mesi. Sperano, tuttavia, che presentando una strategia a medio termine per un’unione politica e fiscale nella zona euro finiranno col persuadere i mercati finanziari di essere effettivamente decisi a salvare l’euro, che la valuta è ormai irreversibile, e che prima o poi il fuoco della crisi si spegnerà. L’impatto di questo “progetto” – se mai dovesse decollare – sarà enorme. Logicamente, servirà un nuovo trattato europeo. E metterlo a punto sarà complicato. Probabilmente, poi, servirà anche una nuova Costituzione tedesca, che potrebbe rivelarsi un passo eccessivo. Il “deficit democratico”di cui tanto si parla si allargherà in modo esponenziale senza una revisione radicale dei presupposti elettorali del governo della zona euro. Che motivo ci sarebbe a votare un governo in Slovenia, per esempio, se in un’unione politica dell’eurozona le politiche fiscali, di spesa, delle pensioni e del lavoro fossero decise a Bruxelles? Emergerebbe così un’Europa a due velocità, ancora più arroccata, nella quale le decisioni più importanti sarebbero prese all’interno della zona euro e non nell’Ue a ventisette o ventotto. Il divario tra il Regno Unito e lo zoccolo duro dell’Europa potrebbe diventare incolmabile e alimentare il rancore reciproco, ponendo fine al travagliato rapporto tra Londra e Bruxelles, anche se l’“unione politica” è proprio ciò che David Cameron e George Osborne stanno sostenendo, definendola una «conseguenza logica e inesorabile» legata al fatto di condividere una medesima valuta. Arrivati ormai al terzo anno consecutivo di confusione, i leader europei si trovano davanti una scelta quanto mai complicata: la morte dell’euro o la nascita di una nuova federazione europea. © Presseurop.com


politica

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Le reazioni all’intervento del presidente del Senato che attacca scissionisti e antimontiani

Grilloberlusconismo Cicchitto sta con Schifani contro Santanché che strizza l’occhio agli ex-An. Il Pdl è nel caos. A farne le spese è solo il governo di Riccardo Paradisi on è un sasso nello stagno la lettera del presidente del Senato Renato Schifani pubblicata ieri dal Foglio. È un maremoto in acque da tempo già in tempesta. Perché il Pdl da mesi si dibatte in una rissa nervosa di posizioni, personalità, ex appartenenze, orientamenti strategici, sul sostegno da garantire o revocare al governo Monti.

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Sullo sfondo Silvio Berlusconi nella sua fissità da ingombrante “padre nobile”su cui s’appuntano aspettative contrastanti: un rientro in campo a capo di un soggetto nuovo, l’investitura di nuovi outsider come Daniela Santanché, un’uscita di scena alla Sarkozy per lasciare al segretario Alfano la libertà di muoversi liberamente senza il condizionante e paralizzante fantasma del padre che gli rimprovera quid mancanti.

che non ha consentito alla maggioranza di varare le riforme tenacemente volute dai nostri partner europei; va detto che la nostra credibilità all’estero precipitava di giorno in giorno perché Berlusconi sosteneva una linea e il ministro Tremonti l’esatto contrario; e va detto anche che la rottura con Gianfranco Fini segnò un punto di debolezza della coalizione e che la campagna condotta dai giornali di area sulla casa di Montecarlo ha finito per trasformare un contrasto politico in una frattura irreversibile». Un’analisi molto diversa rispetto a quella fatta in questi mesi dallo stesso Berlusconi accusato da Schifani di un eccesso di generosità che non solo lo trattiene in campo, seppure in modo defilato, ma gli inibisce quello che dovrebbe fare: liberarsi di cattivi consiglieri e amici interessati per lasciare ad Al-

Oggi sono in programma due vertici distinti per fare il punto della contesa e soprattutto per cercare una strategia meno improvvisata: si riuniscono sia la direzione sia il gruppo al Senato Ora la lettera di Schifani indotto a un intervento pesante dal rischio dissolvenza a cui il centrodestra e in particolare il Pdl sembra fatalmente andare incontro. «Si può restare insensibili – scrive il presidente del Senato – di fronte al lento sfilacciamento di un partito che è stato, e resta, l’architrave dell’Italia moderata e liberale? Io non me la sento di girare lo sguardo dall’altro lato. E non me la sento nemmeno di trincerarmi tra le rassicuranti pareti di Palazzo Madama». Non si trincera dunque e parla Schifani e dice, contraddicendo dietrologi e alibisti interni al Pdl e al centrodestra che «l’ultimo governo, prima che arrivasse Monti, non è stato scalzato da chissà quali forze oscure, ma da una mancanza di coesione

fano il lavoro di rinnovamento profondo del partito. Riportandolo a fare politica, a decidere una politica di alleanze, a stabilire la rotta. Il segretario del Pdl Alfano prende la palla al balzo avallando e benedicendo il richiamo di Schifani: «Parole serie, forti e talvolta dolorose, ma vere. Occorrerà agire, e subito». Un’urgenza che si traduce subito nella convocazione, fissata a stamattina, dell’ufficio di presidenza del Pdl. Le reazioni non si fanno attendere e vanno dalle ruvide levate di scudi, soprattutto da parte degli ex An con l’eccezione di Gasparri, alla ola entusiasta passando per la freddezza o il silenzio. «Una volta i presidenti del Senato stavano zitti – dice l’ex colonnello di An Altero Matteoli a proposito di ruvidez-

Via libera ai nuovi commissari regionali della sanità

«Non ci sono coperture», lo sviluppo è rinviato Il consiglio dei ministri non scioglie il nodo del “decreto Passera” contestato dalla Ragioneria di Marco Palombi

ROMA. Un’ora in tutto, un accordo sulla previdenza complementare, un paio di leggi regionali e uno schiaffo alla consuetudine per cui i governatori diventano pure commissari quando la loro regione ha il settore sanitario in dissesto (Giovanna Baraldi, subcommissario dal 2010 per il risanamento in Abruzzese, prenderà infatti il posto di Chiodi, mentre si chiude pure un altro pezzo di “era Iorio” in Molise visto che il nuovo commissario è Filippo Basso). Niente decreto sviluppo, niente delega fiscale al Consiglio dei ministri di ieri: «Ce n’è un altro in programma venerdì o sabato», si giustificava quasi il ministro ai Rapporti col Parlamento, Piero Giarda, lasciando palazzo Chigi.

È il decreto Sviluppo, in particolare, la pietra del contendere visto che Corrado Passera ci punta molto e ha creato parecchie aspettative sul tema dall’assemblea di Confindustria in poi: «Perché tanto tempo per questo decreto? - si domanda Francesco Boccia, coordinatore delle commissioni economiche del Pd -. Servono misure urgenti, le imprese attendono di sapere come potranno muoversi nel futuro, attendono decisioni sul credito d’imposta per la ricerca». Questo, dice il deputato bersaniano, «è il provvedimento più difficile, ma anche quello che può dare speranze. Aspettiamo la fumata bianca per il prossimo Consiglio in programma domani o sabato, come ha annunciato il ministro

Giarda. Altrimenti, visto che il tema è di fondamentale importanza, sarà bene che il presidente Monti prenda in mano la situazione per sbloccarla». Frasi in cui, per chi vuol capire, si dice tutto: il superministro già banchiere – Passera per i distratti – ha messo insieme un testo che è finito nel mirino della Ragioneria generale per mancanza di copertura. Questi sono i temi caldi: il credito d’imposta per la ricerca da concedere alle imprese (inizialmente da 600mila euro su un terzo dell’investimento, poi scesi a 300mila e ora non si sa), l’aumento di 150 unità di personale della nuova Agenzia per il commercio estero, una green tax che finanzi le produzioni “verdi”e qualche intervento per il settore dell’edilizia (l’esenzione dall’Imu sull’invenduto per i costruttori e per chi acquista una casa sotto un certo limite di prezzo per i primi due anni). Una roba che, complessivamente, potrebbe costare tra gli 800 milioni e il miliardo di euro l’anno ed ha attirato dunque l’attenzione, come detto, della Ragioneria generale dello Stato, organo senza il cui visto le leggi di spesa non possono essere emanate: dove lo trova Passera quel miliarduccio? Non si sa ancora e quindi il testo non viene “bollinato” e non esce da palazzo Chigi. Monti, è il pensiero del Pd, ora deve commissariare il “lento”Passera e procedere oltre. Per di più, il testo del ministro per lo Sviluppo economico ha anche l’obiettivo di riordinare tutta la materia degli incentivi alle imprese nel


politica

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durrebbe in una lacerazione. I partiti vanno rinnovati, ma non smontati e sminuzzati in tante liste. Applausi anche dal vicepresidente della Camera Maurizio Lupi: «Il richiamo forte del presidente Schifani è un aiuto al Pdl a percorrere con chiarezza e rapidità l’unica strada che può portarlo a tornare ad essere il primo partito italiano». Consensi anche da Futuro e libertà. Italo Bocchino chiede al presidente del Senato un passo in più ossia liberarsi dal berlusconismo mentre Briguglio segnala lo spiraglio di dialogo aperto dall’intervento di Schifani: «Ha dato un contributo politico di grande serietà e di verità che apprezziamo molto. Fli ha il dovere di una risposta politica costruttiva alla quale non ci sottrarremo». Aperture che si spiegano anche con il riorientarsi a destra del presidente della Camera Fini.

Fabrizio Cicchitto e Angelino Alfano hanno sposato le tesi di Renato Schifani che ha attaccato il «grillismo di destra» di chi è contro il governo. Sotto, Mario Monti con il ministro Passera za - non prendevano carta e penna. Alcuni addirittura si autosospendevano dal partito...». All’ex ministro alle infrastrutture il richiamo di Schifani non è piaciuto, soprattutto sembra averlo irritato di più il passaggio dove si invita il Pdl a non giocare la carta protestataria e ad avere senso di responsabilità di fronte alle gravi emergenze del Paese. Matteoli consigli al presidente del Senato di

Tornando al Pdl e alle reazioni interne. Tra le conseguenze del pronunciamento di Schifani anche la convocazione dell’ufficio di presidenza del Senato. Che il presidente dei senatori Gasparri vede come un necessario momento chiarificatore: «Il Pdl deve rimanere unito e discutere con franchezza al suo interno. Rimane la validità di un progetto unitario del centrodestra, insieme alla sfida presidenzialista che Alfano ha lanciato. Così come è stato opportuno affidare la guida del Pdl ad un segretario politico che ha segnato un cambio di generazione al vertice del partito. Dobbiamo sfidare tutti coloro che si dicono alternativi alla sinistra, cercan-

Nella riflessione del presidente di Palazzo Madama fa discutere anche il passaggio in cui si parla dei rapporti con l’Udc. Una questione a cui - tutti dicono - va data una risposta politica senso di una maggiore semplicità nell’accesso per gli interessati e di verifica dei risultati per lo Stato: peccato che Mario Monti e il resto del Consiglio a fine aprile avessero nominato l’economista Francesco Giavazzi (che peraltro dalle colonne del Corsera continua a picchiare sul governo) commissario proprio per la revisione del sistema degli incentivi. “Deve solo fare una relazione”, è la risposta.

E non si capisce, però, perché non attendere i risultati del suo lavoro prima di mettere mano alla materia oppure perché gli si è detto di scriverla se è inutile. Si vedrà oggi o domani, sem-

rio nel senso di depenalizzare sia l’abuso di diritto (vale a dire l’abitudine a magheggiare con strumenti tecnici, tutti singolarmente legali, che però alla fine comportano un ingiusto “sconto” sulle tasse da pagare) che alcune pratiche elusive oggi considerate sostanzialmente illegali. Norme benedette da molte grandi aziende e molte grandi banche, una delle quali – Unicredit, in associazione con alcuni consulenti di Barclays – andrà a processo penale proprio per elusione fiscale (Dolce e Gabbana, invece, sono in appello dopo che la Cassazione ha annullato una precedente assoluzione in secondo grado). Dopo le critiche arrivate da associazioni tipo “fisco equo”o da alcuni commentatori sulla stampa (vedi Nicola Porro sul Giornale), anche Giorgio Napolitano ha fatto capire a palazzo Chigi e al Tesoro che su quella strada non si poteva andare. Nella bozza circolata ieri, infatti, non c’era più la parola “depenalizzazione” e si parlava invece di pene tra i 6 mesi e i 6 anni tenendo conto anche della “proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti”. Ieri “ne abbiamo discusso”, ha spiegato il solito Giarda, ma niente approvazione definitiva. Non proprio il miglior Consiglio dei ministri della sua carriera da premier, per l’ex preside della Bocconi.

Credito d’imposta per la ricerca alle imprese, allargamento della nuova Agenzia per il commercio estero, la green tax e qualche intervento per l’edilizia: ecco le norme ancora in “frigorifero” pre che il buon Giarda non sia stato troppo ottimista. Anche sulla delega fiscale la situazione non è proprio tranquillissima. Fu approvata la prima volta a metà aprile, poi il testo venne mandato al Quirinale e lì s’è fermato fino ad ora: ad inizio maggio lo staff giuridico del Colle fa conoscere al governo le sue perplessità su alcuni punti, in particolare un paio di norme che intendono riscrivere il sistema sanzionato-

«dare un’occhiata ai sondaggi, visto che ha deciso di occuparsi del destino del Pdl. Da quando abbiamo deciso di votare tutto ciò che ci propone questo governo, continuiamo a perdere perché penalizza il nostro blocco sociale. La linea della responsabilità e del buon senso in politica non ha mai pagato e non porta voti». La tesi di Matteoli è che il sostegno a Monti è un suicidio per il partito.

Condivide invece lo spirito della lettera di Schifani il presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto «È indispensabile, sotto la guida di Alfano, e con il contributo di Silvio Berlusconi, rilanciare rinnovandolo il Pdl In tutto ciò, come dice Schifani, sono da evitare estremismi e grillismi ma anche l’accreditamento di liste improbabili e ancor di più la cosiddetta separazione concordata fra gli ex di Forza Italia e An. Adesso che questa aggregazione si è compiuta sarebbe un tragico errore smontarla, anche perché si tra-

do una convergenza attraverso la discussione su contenuti e leadership senza imporre nulla e senza subire imposizioni». La lettera di Schifani rappresenta per Gasparri “un contributo non ipocrita al dibattito”. In un altro passaggio Gasparri evidenzia il segmento della riflessione di Schifani in cui il presidente del Senato contesta le ipotesi di scomposizione del Pdl. «Ipotesi che vengono negate ma che continuano ad aleggiare. È bene che ognuno dica ciò che pensa al riguardo» dice Gasparri con un evidente riferimento agli ex di An. Dove i mal di pancia sembrano moltiplicarsi. Non c’è solo la stizza di Matteoli c’è anche l’indispettimento dell’ala più identitaria di ciò che fu Alleanza nazionale. Fabio Rampelli dice: «Basta con colpi di teatro». Anche se voci interne alla sua componente rilanciavano ancora due settimane fa l’ipotesi di candidare l’ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni in un’aggregazione di destra-destra.


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l Discorso della Montagna è la Magna Carta del Cristianesimo. Le otto beatitudini che vi vengono elencate raccontano di Dio, dell’uomo, del capovolgimento che il messaggio cristiano determina in tutto: dai rapporti umani a quelli sociali, dall’idea di divinità a quella di storia. La casa editrice Lindau ha inaugurato una collana che affronta tutte le beatitudini: usciranno ben otto volumetti, uno per beatitudine. Il primo è in libreria da aprile col titolo: Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. I due autori che affrontano il tema sono, ciascuno a suo modo, straordinari. C’è Gianfranco Ravasi, uno dei biblisti più raffinati del mondo, ma c’è anche un intellettuale non credente come Adriano Sofri che ha una grande sensibilità per la condizione e le ragioni degli ultimi. Fra i due nasce uno scambio che in alcuni momenti determina l’incontro, in altri allarga la distanza. Ravasi affronta l’argomento in chiave teologica e filologica, Sofri ha un approccio sociologico, politico, antropologico. Entrambi alla fine sembrano concordare su un punto: la forza e l’attualità del messaggio evangelico. Del celebre discorso di Gesù riferiscono ben due Vangeli: quello di Luca e quello di Matteo. Il primo però lo definisce il Discorso della Pianura perché - secondo lui - si svolse in un luogo piatto, dove migliaia di poveri, di derelitti, di malati, di storpi si avvicinarono al predicatore per ascoltarlo. Il secondo invece racconta che quella sorta di summa teologica e morale fu dettata mentre la folla e il Maestro stavano in una sorta di “montarozzo”: da qui il titolo di Discorso della Montagna. Ma l’analisi acutissima di Ravasi non si ferma certo solo a evidenziare questa differenza. Ne trova altre. E soprattutto ne sottolinea una. Il Vangelo di Luca recita: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio», mentre quello di Matteo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Nel primo il povero viene contrapposto al ricco ed è definito come categoria sociale.

I

«Il realismo della Beatitudine - osserva Ravasi - è confermato dallo sdegno che accompagna l’invettiva successiva contro “i sazi, i gaudenti..”. È questa una linea interpretativa che pervaderà la cultura e la spiritualità di tutti i secoli». Nel Vangelo di Matteo si fa però qualcosa di più e di diverso. Dal testo e dalla collocazione geografica «risulta una grandiosa dichiarazione d’apertura al ministero pubblico di Gesù che sembra accostarlo idealmente al Mosè del Sinai: con una curiosa e un po’ maccheronica espressione latina, Lutero parlava di un Mosissimus Mosesm, un Mosè all’ennesima potenza». I poveri in spirito di Matteo non rappresentano solo una categoria sociale, ma molto di più. Scrive Ravasi: «Il povero evangelico - che tra l’altro comprende anche il peccatore disprezzato, la donna e i bambini, quelli che sono denominati globalmente come piccoli - è certo il debole e il sofferente ma anche colui che si apre a Dio». E ancora: «La nostra solidarietà deve essere ric-

il paginone Il cardinal Ravasi e Adriano Sofri rileggono la prima delle otto Beatitudini del “Discorso della montagna”

“Il discorso della montagna” di Beato Angelico. Sopra, San Francesco, a cui si deve la più alta definizione della Povertà. In basso, Adriano Sofri e Gianfranco Ravasi. A destra, in alto, Simone Weil, la pensatrice francese che prese alla lettera il termine “solidarietà”

La classe opera

di Gabriell volto del Dio di giustizia e di amore nei confronti dei poveri, i suoi prediletti». Insomma, con il Discorso della Montagna si definisce la natura stessa della divinità.

ca di atti concreti, ma anche di un amore religioso, negato alla certezza che in questi ultimi si incarna la presenza di Cristo… Con le Beatitudini Gesù non punta tanto a definire il nostro status sociale, ma a svelare il vero

Il bellissimo saggio di Ravasi mette poi a fuoco i due filoni interpretativi che hanno riguardato nel tempo le Beatitudini. Da un lato le si è viste come un ideale utopico, «un progetto supremo da relegare nell’orizzonte della pienezza raggiunta». In questa linea rappresentano dunque soltanto dei «consigli evangelici destinati ai cristiani spirituali, ai religiosi che si consacrano a Dio nella totalità dei voti di povertà, castità e obbedienza». Non è un imperativo invece per gli altri credenti

che «non s’azzardano su questi sentieri d’altura ma, contemplandoli da lontano, procedono più lentamente e modestamente nelle vie della valle della quotidianità storica». Due percorsi insomma paralleli, ai quali allude anche Lutero. Dall’altro lato c’è la lettura che del Discorso della Montagna dà quella tradizione che parte da Sant’Agostino e passa attraverso San Tommaso d’Aquino. Qui le Beatitudini costituiscono «una chiave prevalentemente morale» che vale per tutti, «come fossero un nuovo decalogo evangelico che subentra all’antica legge». Ravasi vede nella Beatitudine di Matteo una sintesi fra queste due interpretazioni. Se da una parte è vero che non può riguardare direttamente solo chi sceglie un percor-


il paginone in spirito” vi ritrova «una concretezza preziosa» che ripropone il grande tema della solidarietà. Sofri chiede che questa espressione sia presa sul serio, «un po’ alla lettera». Come faceva Simone Weil quando scriveva: «Mi son detta qualche volta che, soltanto si pubblicasse sulle porte delle chiese che l’ingresso è vietato a chiunque gode di una rendita superiore a una qualche somma poco elevata, mi convertirei immediatamente». Nel linguaggio comune esiste poi una Beatitudine che non appare nel Discorso della Montagna. Recita così: «Beati gli ultimi che saranno i primi». Nel Vangelo se ne trova un cenno solo in Marco: «Ora molti dei primi saranno ultimi, e gli ultimi primi». Ma in Matteo c’è la parabola del vignaiolo che paga tutti allo stesso modo: chi ha lavorato più ore e chi solo una. Qui - osserva Sofri - saltano i concetti di produttività e di me-

Il biblista affronta l’argomento in chiave teologica. L’ex leader di Lc dal punto di vista sociologico ritocrazia. Categorie sconfessate platealmente in nome di un’eguaglianza proveniente dall’Alto, anzi dall’Altissimo. Una sorta di comunismo proprietario (a ciascuno è stato dato secondo i suoi bisogni) che provoca rabbia e fastidio proprio tra gli operai della vigna: «per loro è ingiusto che chi ha lavorato di meno prenda quanto che ha lavorato di più». Il padrone si fa forte di averli pagati esattamente quanto promesso, ma ai loro occhi ha tradito “la giustizia comparativa”. Una simile tendenza - sempre secondo Sofri - si ritrova anche nella parabola del figliol prodigo: colui che torna dopo aver dilapidato la sua parte di eredità, viene preferito a chi è rimasto fe-

aia e il Paradiso

la Mecucci so altamente spirituale, dall’altra è anche vero che Cristo «per definire la morale nel regno di Dio, non parte da una sequenza di precetti, come era d’uso nella tradizione giudaica… Egli propone un atteggiamento di fondo che pervada spirito e cuore e che dia anima al necessario impegno morale molteplice e quotidiano».

La più alta definizione di Madonna Povertà è quella di San Francesco: «Questa è quella virtù celestiale per la quale tutte le cose terrene transitorie si calpestano, e per la quale ogni impaccio si toglie dinanzi all’anima, affinché ella si possa liberamente congiungere con Dio eterno. Questa è quella virtù che accompagnò Cristo in sulla Croce,

che con Cristo fu seppellita, con Cristo risuscitò, con Cristo salì al cielo, e la quale anche in questa vita concede all’anime che di lei s’innamorano, agevolezza di volare in cielo; perché essa conserva l’arme dell’amicizia e dell’umiltà e della carità». Secondo Francesco la prima Beatitudine è quindi «un atteggiamento di fondo» che dà accesso al Regno di Dio. Un Regno che - parola di Santa Teresa d’Avila - «è in mezzo a noi». Monsignor Ravasi vede il concetto evangelico di povertà come più profondo e sfaccettato nella versione che ne dà Matteo piuttosto che in quella di Luca. Adriano Sofri preferisce al contrario quest’ultima perché nella semplice parola “poveri” e non “poveri

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dele e ha lavorato. Il rancore entra fra fratelli come prima fra lavoratori. Le due parabole cercano di superare non solo e non tanto la divisione fra ricchi e miserabili, ma fra ultimi e penultimi. Di scongiurare la guerra fra poveri. È questa almeno la lettura che ne fa Sofri. Da vecchio comunista e marxista, fa i conti con queste teorie. Mostra come in simile ambito i proletari siano gli ultimi che diventano i primi, mentre gli sventurati, gli handicappati - oggi diremmo gli immigrati - restano ai margini. Costituiscono una sorta di sottospecie: Lunpenproletariat.

Di ben altra profondità è il “rovesciamento”del Vangelo, dove non si premiano i penultimi a svantaggio degli ultimi. Sofri invita poi a non scegliere modelli irraggiungibili e, al tempo stesso, a non relegare certe parole in un altrove dal nostro, a considerarle impegnative anche per noi. Come? «Qualunque cosa si pensi del Regno di Dio - scrive -, bisogna che almeno a questo mondo i ricchi siano meno ricchi e i poveri meno poveri… I poveri non hanno che la scuola, l’istruzione prima ancora dell’educazione, per prendere una distanza dalla povertà, che li schiaccia al suolo. Per prendere il loro posto, ultimi e penultimi insieme, nella trasformazione della povertà in sobrietà, e dell’invidia in allegria». L’interpretazione che Ravasi e Sofri danno della prima Beatitudine è dunque profondamente diversa. Su questa ultima frase comunque potrebbero entrambi convenire. Molto interessante la postfazione di Roberto Righetto - curatore per Lindau dei libri sulle otto Beatitudini. Le ideologie ottimiste dei due secoli scorsi hanno portato l’uomo più che mai a essere «schiacciato, vilipeso, annientato nella sua anima profonda». Tanto da far dire a Dostoevskij che «tutto si può dire della storia fuorché sia uno spettacolo ragionevole». A essere sconfitto è il Dio progresso che determina un processo lineare verso il bene. Col fallimento di queste teorie si è caduti in un pessimismo radicale, nella condanna di ogni tentativo di filosofia della storia. E ora? Righetto suggerisce: «Le Beatitudini assieme al canto del Magnificat rappresentano veramente il capovolgimento di una concezione della storia secondo valori esclusivamente umani». «La città celeste ospita quanto di meglio c’è nel mondo umano». Conclude con un invito a innalzare «un inno alle Beatitudini in nome dell’arte e dell’amicizia, dello scherzo e del miracolo. Tutto ciò che piace a Dio e rimarrà nelle nostre opere buone».


mondo

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Hillary Clinton: «Una violenza inconcepibile». E Kofi Annan ammette: «Il mio piano mai stato applicato»

L’era di Assad tramonta Siria, strage ad Hama e Homs. Spari anche contro gli osservatori Onu. Ban Ki-moon: «Persa ogni legittimità». E la Russia apre a una possibile transizione di Luisa Arezzo ashar al Assad ha perso ogni legittimità». Con queste parole durissime, mai proferite fino a ieri, Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, ha chiarito meglio di chiunque altro che il giovane “dittatore” di Damasco potrebbe avere i giorni contati. Ad accelerare la crisi la notizia di un nuovo massacro di almeno 78 civili (ma c’è chi parla di 86 vittime e chi addirittura di 100), fra cui donne e bambini, avvenuto mercoledì nella zona di Hama, in Siria centrale: una piccola enclave, un villaggio sunnita - Mazraat al Qubeir abitato da poche decine di pastori e agricoltori, che due giorni fa è stato prima bombardato per ore, e poi messo a ferro e fuoco dalle milizie filo-regime. Lo hanno denunciato gli attivisti (mentre il regime ha bollato la notizia come «completamente falsa»), e benché al momento della chiusura di questo giornale manchino ancora le conferme indipendenti degli osservatori dell’Onu, il fatto che a questi non solo sia stato impedito l’ingresso nel villaggio, ma i militari gli abbiano sparato contro per evitare che si avvicinassero, la dice lunga sulla realtà della denuncia del Cns. Non solo: ieri il massacro è continuato ad Homs, dove almeno 15 persone avrebbero perso la vita, fra cui una bambina. Fra tutti i commenti di orrore e riprovazione, ha fatto quasi sorridere quello di Kofi Annan, inviato speciale per le Nazioni Unite e la Lega Araba che, ammettendo un esercizio di franchezza, ha confermato una verità lapalissiana a tutti già da tempo, ovvero che il suo piano per la Siria non è mai decollato e al momento è anche sostanzialmente fallito.

«B

Eppure qualcosa si muove almeno sul fronte diplomatico. Dopo il muro contro muro delle ultime settimane (e al netto della assoluta chiusura sia di Mosca che di Pechino a un’ipotesi di intervento armato

nel Paese sotto l’egida del capitolo VII, in stile Libia per intenderci), dal vertice russo-cinese in corso nella capitale cinese è venuta ieri la proposta di una conferenza internazionale in grado di garantire l’attuazione del piano di pace di Kofi Annan. Un disgelo da prendere con le pinze, vista anche la richiesta da parte del Cremlino di coinvolgere nell’ipotetica uscita di Assad anche l’Iran, ma comunque un segnale importante. Che occidentali e Lega araba (i cui ministri degli Esteri sono riuniti a Istanbul) hanno deciso di prendere sul serio, anche se i due protagonisti internazionali sembrano non voler sostenere la loro richiesta di un nuovo giro di vite contro Damasco e tentennano all’idea di avviare un processo di transizione in

stile yemenita (come proposto da Obama dopo la strage di Houla). L’insistenza di Mosca è però chiara e ha tutta l’aria di una contropartita: l’Iran deve partecipare al gruppo di contatto sulla Siria, in quanto «importante elemento di qualsiasi sforzo per risolvere una crisi nella regione» mediorientale. A dichiararlo è stato il portavoce del ministero degli Esteri, Alexander Lukashevich, proponendo di «considerare nuovamente i principi proposti dalla Russia» in merito.

E qui sta il nodo: Usa, Gran Bretagna e Francia hanno già escluso che Teheran possa entrare in un nuovo gruppo di contatto che lavori per una soluzione politica della crisi in Siria. L’idea piace in realtà all’inviato Onu Kofi Annan, che

A destra, il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton e il premier russo Putin. In alto, la disperazione di una donna. In basso, il monarca saudita Al Saud

Per l’ex direttore dei media del Consiglio di cooperazione aumentano i dubbi sul progetto saudita

L’Unione del Golfo è rinviata di Ahmad Abdul Malek li abitanti del Golfo hanno gli occhi puntati sull’Unione proposta circa sei mesi fa, quando il re saudita Abdullah bin Abdelaziz, durante il vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) tenutosi a Riyadh lo scorso dicembre, aveva suggerito di trasformare l’organismo di cooperazione in un vero e proprio organismo unitario. Alcuni giornali del Golfo hanno sostenuto che l’ultimo vertice consultivo dei leader del Golfo (tenutosi il 14 maggio) a Riyadh abbia rimandato la questione dell’Unione ad un vertice straordinario che si terrà a tale scopo. Prima del vertice si erano moltiplicate le speculazioni secondo cui sarebbe stata annunciata un’unione “preliminare” tra il regno saudita e quello del Bahrain. Ma il re Abdullah, che ha presieduto il vertice consultivo ed è il padre del progetto, ha annunciato il rinvio dell’Unione per studiare meglio la questione. Sembra che alcuni paesi del Golfo abbiano ritenuto di dover studiare il progetto di

G

Unione affinché quest’ultima non sia il frutto di una decisione “emotiva” o una semplice reazione agli eventi politici e di sicurezza che stanno caratterizzando la regione. Sono trapelate indiscrezioni riguardo ad alcune “riserve” espresse da certi paesi del Golfo in relazione alle leggi locali esistenti in ciascuno Stato.

Tali riserve sarebbero legate anche agli orientamenti di ciascun paese in materia di politica estera e di difesa. Il sultanato dell’Oman, per bocca del suo ministro degli Esteri, ha pubblicamente dichiarato di essere favorevole a mantenere l’attuale formulazione del Gcc in questa fase. Alcuni ambienti diplomatici del Golfo hanno negato che esista un legame «tra il mancato annuncio dell’Unione e le minacce iraniane», affermando che il rinvio è dovuto a cause interne legate agli stessi paesi del Consiglio di cooperazione. In questa posizione potrebbe esserci del buon senso, poiché una corsa “nostalgica” all’Unione po-

trebbe essere macchiata da numerosi inconvenienti, che rischierebbero di avere effetti controproducenti sull’Unione stessa. Vi sono politici del Golfo che – a differenza della ministra dell’Informazione del Bahrain, Samira Rajab – non sono rimasti sorpresi dal rinvio dell’Unione, e che ritengono che il ministro degli Esteri saudita Saud al-Faisal avesse ragione nell’affermare che alcune questioni (presenti nel rapporto della commissione per l’Unione, composta da 18 persone appartenenti ai 6 Stati del Gcc) necessitano ulteriori chiarimenti. Perciò la riunione dei ministri degli Esteri ha deliberato uno studio approfondito del rapporto, che sarà poi presentato ad un vertice straordinario dedicato all’Unione. Gli intellettuali del Golfo (al di fuori degli ambienti ufficiali) ritengono che l’idea dell’Unione sia macchiata da una certa ambiguità e confusione. C’è uno studio sulla gioventù del Gcc che indica che i giovani non si oppongono all’Unione, purché essa sia accompagnata o preceduta da


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La nuova carneficina è avvenuta nel villaggio di Al-Koubeir, tenuto sotto tiro per dodici ore consecutive. Ma il regime dice: «Tutte falsità»

potrebbe proporre un gruppo allargato a Paesi arabi ed Iran durante le consultazioni all’Onu. Il problema però è evidente: la discesa in campo di un influente Paese sciita in un conflitto che in fin dei conti vede una ribellione a guida sunnita contro una elite alawita ridimensionerebbe il ruolo dei Paesi arabi sunniti che, assieme agli Usa, chiedono ora sanzioni più dure contro il regime di Damasco. «L’idea presentata dal ministro (degli Esteri Sergey Lavrov) e che stiamo attivamente discutendo con i nostri partner sarà, speriamo, presa in considerazione dai nostri partner all’Onu» ha dichiarato Lukashevich. Una sorta di aut aut insomma, con un risvolto della medaglia a favore del Cremlino: se dovesse infatti passare l’idea di coinvolgere in qualche modo Teheran nei colloqui sulla crisi siriana, Mosca registrerebbe un doppio successo: un rilancio del proprio ruolo negoziale sia sul fronte della Siria che dell’Iran. Il 18 e 19 giugno, infatti, a Mosca si terrà un nuovo incontro dei Paesi mediatori per il nucleare iraniano, il cosiddetto gruppo dei 5+1 (i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza, più la Germania). E incontrando Ahmadinejad ieri a Pechino, Vladimir Putin ha ribadito il pieno sostegno russo al «diritto» di Teheran di «sviluppare tecnologie moderne per l’utilizzo pacifico dell’energia atomica».

«La strategia di Damasco rischia di produrre un genocidio, se non si interviene rapidamente» ha avvertito ieri il

titolare della Farnesina Giulio Terzi, presente per l’Italia al vertice degli “Amici della Siria” a Istanbul (il prossimo incontro si terrà il 6 luglio a Parigi) accanto a Hillary Clinton e ai ministri di Francia, Germania, Regno Unito, Turchia, Arabia Saudita, Giordania, Marocco e Qatar, presidente della Lega Araba.

E un nuovo affondo è venuto anche dall’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu, che ha chiesto nuovamente di ricorrere al più presto alla Corte penale internazionale: «Nello stesso momento in cui noi stiamo parlando, le persone in Siria muoiono»: ha affermato Ivan Simonovic, Assistant Secretary General per l’Alto Commissariato. «Vi sono prove di torture nel Paese, anche contro i bambini», ha spiegato Simonovic, sottolineando che le violenze in corso possono costituire crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e che questa situazione rende «ancora più urgente» il rinvio del caso alla Corte Penale Internazionale. «Nessuno può prevedere come si evolveranno le cose - ha detto ieri Ban Ki-moon - ma è necessario prepararsi a ogni scenario: la guerra civile è imminente». La verità è che la guerra civile è già in uno stato avanzato e che, come ha detto Hillary Clinton: «La violenza di cui è teatro oggi la Siria inconcepibile e il presidente siriano Bashar al-Assad se ne deve andare». Come è ancora da vedere, ma la strada, ieri, sembra aver preso una china irreversibile.

e di cronach

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un «aumento delle libertà e della partecipazione al processo decisionale, e da una maggiore tutela dei diritti umani».Vi è anche l’idea, però, che l’attuale struttura di sicurezza, frutto degli accordi e delle risoluzioni sulla difesa comune, sia sufficiente. Alcuni intellettuali del Golfo ritengono che quella della “distribuzione delle forze all’interno dell’Unione” sia una questione importante che dev’essere studiata, come ha affermato il ricercatore saudita Abdul Aziz alKhamis, il quale si domanda: «Quale leader possederà la maggior parte del potere? Quali saranno i limiti dell’autorità della nuova Unione?». Egli ha sottolineato che vi è «confusione, inadeguatezza, mancanza di dettagli». A ciò ha accennato lo stesso ministro degli Esteri saudita. Al-Khamis ha poi sollevato una questione importante, che è quella del rapporto fra il centro e le parti. Quali sono le competenze del centro? Una questione tanto più essenziale, in assenza di un importante fattore di unità: il parlamento. L’interrogativo che qui ci poniamo è il seguente: lo Stato centrale accetterà che uno

degli Stati membri si elevi a guida dell’Unione? Le regole dei rapporti fra gli Stati del Golfo lo permetteranno?

Al-Khamis accenna poi alla questione dell’assenza del popolo del Golfo e della sua volontà dal meccanismo di funzionamento del Gcc – una cosa che potrebbe permanere all’interno dell’Unione. Questo è un problema spinoso e intricato, che si presenta in maniera diversificata nei vari paesi del Gcc. In proposito, sono apparsi alcuni commenti sulla stampa. Fra essi vi è l’osservazione che, se l’Unione comprometterà le conquiste di sviluppo sociale e di civiltà di quei paesi che hanno preceduto gli altri nel cammino delle riforme, allora non si avverte alcun bisogno di una simile Unione. Se l’Unione impedirà alle donne degli Emirati o del Bahrain di guidare l’auto o negherà loro la libertà di viaggiare e di spostarsi, se limiterà la libertà di stampa e di informazione, la libertà di riunirsi pacificamente, o la partecipazione popolare, non vi è ragione di giungere a una simile Unione.Vi sono anche altri interrogativi che riguardano l’Unione

del Golfo: 1) Riuscirà questa a realizzare con un semplice tratto di penna ciò che il Gcc non è riuscito a realizzare in più di trent’anni? 2) Si realizzerà un principio di cittadinanza all’interno dell’Unione semplicemente annunciando la decisione di realizzare tale Unione? 3) Il parlamento kuwaitiano, che è eletto dal popolo, accetterà di aderire all’Unione? 4) Le donne saudite otterranno quello che hanno ottenuto le loro sorelle in Qatar, negli Emirati e in Bahrain? 5) L’Unione sarà davvero un’unione integrata? O sarà soltanto un’alleanza militare, mentre fra gli Stati del Golfo continuerà a sussistere una fragile formula di cooperazione? Le dichiarazioni che hanno preceduto l’ultimo vertice di Riyadh hanno evidenziato l’entusiasmo del regno saudita e del Bahrain per l’Unione. Dal canto suo, il sultanato dell’Oman ha invece manifestato chiaramente la propria volontà di non aderirvi, mentre gli altri paesi (da quanto è emerso dal vertice) hanno voluto esaminare più a fondo la questione, affinché la nuova entità sia in grado di svilupparsi, e non entri nei libri di storia come un’entità creata «imitando le unioni arabe fallimentari del passato». Questo punto di vista potrebbe essere il più corretto, ed è quello adottato dal vertice consultivo. Le consuetudini del Golfo dicono che ogni ritardo porta del bene. Speriamo che il destino dell’Unione vada in questa direzione.

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grandangolo Chiuso il summit annuale della Shanghai cooperation organization

Il nuovo ordine mondiale parte dall’Asia

Mosca e Pechino disegnano un nuovo Atlante. E il baricentro lo mettono in Estremo Oriente. Dall’Afghanistan all’Iran, passando per la cooperazione e l’economia, la Sco cambia pelle e si trasforma in un soggetto politico con ambizioni globali di Antonio Picasso fghanistan prossima fermata. Si è chiusa ieri a Pechino la dodicesima edizione degli incontri tra Capi di Stato tra i membri della Shanghai cooperation organization (Sco). Due giorni di consultazioni che hanno portato alla definizione di grandi scenari di geopolitica che possono far intimidire i summit occidentali. I sei membri a pieno titolo della Sco, affiancati da candidati partner e osservatori, hanno dimostrato una global vision alla quale Usa e Ue difficilmente sarebbero in grado di fornire un’antitesi. Primo e importante punto in esame è stato il destino

A

dell’Afghanistan. Nell’ottica della smobilitazione della Nato nel 2014, lo Sco ambisce a versarvi capitali e risorse. Sia umane che tecnologiche. Cina e Russia appaiono in prima fila. La prima sfruttando il corridoio del Vacan, noto anche come il dito del Pamir: una striscia di terra stretta appena 16 chilometri, che si incunea tra il Pakistan a sud e il Tajikistan e che permette ad Afghanistan e Cina di condividere una frontiera.

Pechino ha già detto di avere pronti 10 miliardi di dollari da versare nei fondi Sco, vincolandoli però a beneficio di Kabul. L’operazione, che si congiunge con gli investimenti cinesi in Pakistan e in Iran, permetterebbe ai cinesi di disporre di un’area di influenza sufficiente per poter contenere la crescita indiana, ma anche la presenza degli Usa in zona. La Russia non si è esposta tanto. Ma l’obiettivo di Putin in Afghanistan è multitasking.Tramite la Sco mira a definire una nuova politica centro-asiatica, area per molti aspetti lasciata a se stessa da parte del Cremlino negli ultimi anni. Salvo le questioni energetiche, infatti, la Mosca post sovietica paga ancora lo scotto dell’indipendenza concessa ai suoi antichi khanati. Oggi medita di tornare suoi propri passi. La Sco appare a Putin la strada più idonea. È questo il consesso dove si riuniscono le potenze davve-

ro emergenti dell’economia asiatica. Kazachistan e altri “stan”inclusi. Lascia perplessi, d’altro canto, che i russi insistano a tornare in una terra che ancora oggi viene ricordata come il cimitero dell’Armata rossa. In Afghanistan si possono tuttora visitare aree dove sono raccolte le vestigia ossidate della disgregata Urss. Rottami di un esercito che fu, ormai abbandonati da tutti: dai soldati Isaf, come dai talebani. Quanto conviene a Mosca tornare in Afghanistan? Certo, il metodo non sarebbe militare bensì economico e della cooperazione, come suggeriscono le dichiarazioni conclusive del summit di Pechino. Una fra tutte, la critica lanciata dal presidente afgano Karzai contro i raid della Nato che hanno provocato vittime tra la popolazione civile. Presso le cancellerie di tutta l’Asia questi errori sono tollerati sempre meno. La Sco soprattutto è convinta di poter fare meglio degli occidentali. Perché agli occhi della popolazione afgana si presenterebbe come un partner locale, quindi molto meno straniero rispetto alle truppe dell’Alleanza atlantica. Ma soprattutto perché entrerebbe non con armi alla mano. È sua intenzione infatti intervenire sullo sviluppo del Paese, lasciando che la sicurezza resti nelle mani di Kabul. Così hanno detto a Pechino. Buoni propositi la Sco li ha dimostrati anche per quanto riguarda l’Iran. Il Paese gode dello status di osservatore dell’organizzazione. Il che rappresenta per gli Ayatollah l’unica finestra veramente aperta sul mondo. Finestra che peraltro si rivela di non secondaria importanza.


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Ed è stato proprio a margine del summit di Pechino che ieri Putin ha incontrato Ahmadinejad. Il primo ha ribadito l’intenzione russa di sostenere il nucleare iraniano, ammesso che abbia finalità pacifiche e quindi nell’ambito della produzione energetica. Per Teheran questo potrebbe trattarsi di una vittoria mutilata. Il suo obiettivo sarebbe rivaleggiare a pieno titolo contro India e Pakistan, entrambe superpotenze nucleari ed evitare quindi di sottostare alle angherie un po’di tutto il mondo. Ma è probabile che oggi il nucleare iraniano possa avere una formula risolutiva non presso la Sco, oppure all’Onu, bensì a Damasco. Soluzione comunque tutta da definire, visti quel che succede sulle sponde del Mediterraneo. Per entrambi i dossier e non solo, Mosca e Pechino hanno posizioni molto simili. «Gli interessi di base dei nostri Paesi corrispondono sia nella sfera della politica estera che in quelle economico-commerciale, tecnologica, culturale», ha detto Putin rivolgendosi a Hu Jintao l’altro giorno, prima che si aprisse la Sco. «Noi abbiamo l’intenzione di rafforzare la nostra

I sei leader partecipanti hanno dimostrato una global vision che Usa e Ue difficilmente potranno eguagliare A lato, Manmohan Singh, primo ministro indiano assieme a Leon Panetta, capo del Pentagono. In alto a sinistra: Hamid Karzai e Hu Jintao e a destra, dei talebani pakistani

cooperazione nel quadro delle grandi organizzazioni internazionali: Onu, G20 Brics e Sco». La conferma si è avuta prima nella gestione del conflitto in Siria, ora nelle grandi strategie asiatiche. C’è tanto opportunismo in queste ambizioni. Ma è un comportamento che funziona.

È però l’India la prima a opporsi a questa Santa alleanza. Anch’essa osservatore nella Sco, alla stregua di Afghanistan, Iran e Pakistan. Ma dalle spalle certamente più solide. Non per niente molte delle manovre economiche e geopolitiche cinesi sono in funzione anti Delhi. E non è da escludere che il governo Singh possa sfruttare il sostegno occidentale per rafforzarsi ulteriormente a suo titolo personale. Vedi il suo prossimo ingresso in Afghanistan. Questo vorrebbe dire guadagnare punti in ambito regionale – sempre contro la Cina – come pure in sede Onu, quindi nella prospettiva di accaparrasi l’agognato seggio permanente al Consiglio di sicurezza. Sorprende però il buon rapporto che l’India vanta con la Russia. Buono e di lunga durata. In questo caso, spetterà a Mosca fare una scelta prima o poi: se parlare con i cinesi oppure con gli indiani. Il vertice Sco a questo punto suggerisce molti elementi di riflessione. Mette in luce come laggiù, agli stremi dell’Asia, il peso dell’Occidente sia seriamente ridimensionato. Le economie galoppanti non si preoccupano dei nostri intoppi. Anzi, i fallimenti e le difficoltà vissuti tra Washington e Bruxelles vengono sfruttati sapientemente come occasioni di crescita. Gli errori strategico-militari sono metabolizzati con l’obiettivo di non ripeterli. A Pechino si è parlato di cooperazione in favore di Kabul. Sembra quasi che la Nato non se ne sia mai fatta carico. Sembra quasi che noi ci siamo occupati soltanto di combattere un nemico che poi ci ha sconfitto. Lo snobismo di questo vertice verso il capitalismo occidentale fa quasi pensare ai vertici dei G6 e G7. Tra gli anni Settanta e Ottanta, era chi si affacciava su Atlantico e Mediterraneo a decidere la rotta del mondo. I tempi cambiano. E con essi gli equilibri del mondo.

La denuncia di Hillary Clinton, il duro affondo di Leon Panetta

«Al Qaeda è sempre forte». E Washington perde la pazienza con il Pakistan di Giovanni Radini on il Pakistan stiamo perdendo la pazienza». Secca e sibillina, la dichiarazione del segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta, parte da Kabul e arriva a Islamabad. Panetta era appena arrivato nella capitale afgana, per una visita a sorpresa, e subito ha fatto intendere l’umore che si respira dall’altra parte dell’Atlantico per quel Paese che dovrebbe essere il primo alleato della Nato in Asia centro-meridionale. La dichiarazione porta le lancette dell’orologio indietro di quasi nove mesi. Alla fine di settembre dello scorso anno, l’allora Capo di stato maggiore della Pentagono, l’ammiraglio Mike Mullen, aveva denunciato la torbida alleanza tra i servizi di intelligence pakistani, l’Isi, e il clan talebano degli Haqqani. L’invettiva aveva trovato sostegno dalla Clinton, sicché apriti cielo. Stati Uniti Pakistan non si sono parlati fino alla fine di maggio, quando il governo di Islamabad ha preso parte al summit di Chicago. Quello organizzato dalla Nato sull’Afghanistan. Nel corso di queste ultime due quasi tre settimane, i droni della Cia sono tornati a sorvolare e colpire le aree tribale al confine afganopakistano. Con tutti gli incidenti e le vittime collaterali del caso. E questo ha riacceso le tensioni.

«C

Ieri la gamba tesa di Panetta. È difficile dare torto al responsabile del Pentagono, quando la controparte si ostina a negare qualsiasi collaborazione nel contenere l’insorgenza talebana sul proprio territorio, ma soprattutto nel cercare di estirpare la presenza di al-Qaeda. Di questa, Hillary Clinton ha parlato come di una «minaccia reale in fase di estensione». Lo ha detto presiedendo il Global Counterterrorism Forum che si é aperto ieri a Istanbul. È difficile dare torto a Paneta perché, mentre questi polemizzava, un attentato colpiva il centro Quetta, provocando almeno otto morti. Gli Stati Uniti ritengono che la congiuntura sia favorevole per attaccare il Pakistan a 360 gradi. Quella in corso è

un’offensiva diplomatica priva di cortesie e senza che nemmeno resti riservata ai canali di dialogo bilaterali. Il primo passo lo ha compiuto sempre Panetta qualche giorno fa, quando in visita in India non ha escluso l’ipotesi di un coinvolgimento militare di Delhi nel teatro afgano. Dell’eventualità si mormora da tempo. Ora il Pentagono la sta rendendo più concreta. È indubbio che, se l’India si muove in Afghanistan, con l’ok degli Usa, lo faccia per dare contro al Pakistan. Sempre con il placet di Washington. È vero, sia gli Usa che l’elefante indiano soffrono di tensioni strutturali con il Pakistan.

Tuttavia, la loro buona intenzione di migliorare i rapporti prevede che sia Islamabad a dimostrarsi per prima volenterosa a cambiare. Il che significa garantire la massima trasparenza da parte di quelle frange della sicurezza nazionale, l’Isi appunto, che si teme siano in combutta con al-Qaeda. È possibile dimostrare il contrario? Difficile. Soprattutto perché gli Haqqani hanno effettivamente fatto delle aree tribali i loro quartier generale. Lo stesso dicasi per Abu Yahiya al-Libi, il leader qaedista che si presume essere stato ucciso lunedì scorso. Guarda caso in Pakistan e per mano Usa. Tutte le motivazioni per dare addosso al presidente Zardari e al suo establishment sembrano attendibili. Gli Usa sono contro il Pakistan. L’India pure. A Islamabad non restano molte carte in mano, quindi. E non si può pensare che vada a cercare alleati in Occidente – nel novero della Nato, si intende. La Russia, dal canto suo, non ha mai dimostrato una minima sensibilità per le vicissitudini del Paese dei puri. Diverso è il caso cinese. Spesso si dice che Pechino nutra un occhio di riguardo per i pakistani. Un po’ per dar fastidio all’India. Un po’per fare lo stesso agli americani. Il ragionamento ha senso sulla carta. Nella pratica, oltre ai tanti investimenti, va riconosciuto che la Cina si è sempre mantenuta ben in disparte rispetto agli scontri Usa-Pakistan. Segno che a Pechino poco importa dell’isolamento di Zardari. D’altra parte, buone ragioni o meno, il Pakistan si sta avviando a diventare il prossimo Stato fallito. E questo è un problema per tutti.


cultura

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Grande successo nella capitale tedesca della decima edizione del Festival Internazionale di Design, dove spiccano prodotti cinesi di qualità

Futuro made in Berlino Lo stile berlinese si fonda su un lavoro di squadra che rende i marchi vincenti. Dagli occhiali Mykita alle scarpe Zeha di Andrea D’Addio partita mercoledì, e durerà fino a domani, la decima edizione del Festival Internazionale del Design di Berlino, conosciuto con l’acronomimo Dmy. La cornice sono gli hangar dell’ex aeroporto di Tempelhof: lì dove un tempo si realizzò lo storico ponte aereo che evitò che la Ddr prendesse tutta la città, oggi settecento designer da più di trenta nazioni diverse e diciannove scuole internazionali di design espongono i propri prodotti o in alcuni casi semplicemente le loro idee durante quello che è diventato uno degli eventi più prestigiosi per capire come saranno caratterizzati gli oggetti del futuro. Nel 2011 furono circa trentaduemila i visitatori per un evento che catalizza ogni volta l’attenzione non solo dei professionisti del settore, ma di una larga parte dei cittadini berlinesi, a partire da tutti quei giovani creativi venuti qui a vivere e lavorare seguendo quell’immagine di capitale mondiale della creatività che Berlino ha saputo costruire negli ultimi anni.

È

ogni anno prepara circa un centinaio di tirocinanti. In questi anni a Berlino sono nati marchi capaci di conquistare mercati di ogni tipo. L’azienda di occhiali Mykita è ormai tra le più in voga tanto in Europa che negli Stati Uniti, così come le scarpe della Trippen e della Zeha. I cortili degli Hackascher Markt sono pieni di atelier di ogni tipo sempre al centro di mostre, iniziative e progetti che non si esauriscono con la presentazione dei propri prodotti, ma che cercano continuamente partenership e contesti in cui collaborare allo scopo di far risaltare un vero e pro-

realizzata in Germania, ben 189, realizzati da 23 designer, segno di uno sforzo che vuole il Paese asiatico sempre più impegnato a guadagnare fette di mercato anche per ciò che riguarda l’alta qualità dei prodotti, dopo un ventennio in cui l’aggettivo “cinese” è sempre stato utilizzato come sinonimo di bassi prezzi e scarso pregio. «Vogliamo mostrare la gamma di talenti del nostro Paese, non solo designer, ma anche architetti, critici, grafici, persone attive in più campi che hanno qui l’opportunità per farsi conoscere anche all’estero» ha dichiarato Cui Qiao, vice direttore del

Del resto Berlino è stata la prima città europea a essere insignita del titolo di City del Design dall’Unesco nel 2005 come «mirabile esempio di coordinazione tra politiche amministrative, incentivi culturali e supporto agli investitori». Solo parlando dell’aspetto didattico Berlino offre tre università (dell’arte, delle scienze applicate e della moda), un collegio dell’arte, una scuola e un’accademia del design, una scuola per la creatività in senso generale e una per la pubblicità attraverso il graphic design oltre a una fondazione, la Lette, che

prio movimento di stile berlinese. È da queste premesse che è nata la Dmy. Dieci anni sono un tempo relativamente piccolo, eppure già oggi si guarda a questa fiera come a un’occasione da non lasciarsi sfuggire per cercare di intercettare le tendenze del futuro. Al centro di questa edizione del Dmy c’è la Cina con la mostra China New Design-Revisit and Reflect. Si tratta della più grande mostra di prodotti cinesi mai

Centro Ullens per l’Arte Contemporanea di Pechino e co-curatore della mostra China New Design-Revisit and Reflecy: «Le industrie creative stanno diventando un fattore sempre più importante dell’economia cinese, ma non ci sono programmi dettagliati su come creare una vera piattaforma che sappia accoglierle. Non è importante se l’azienda che produce è cinese o occidentale

Scorci e skyline di Berlino, nominata dall’Unesco nel 2005 Città del Design. A sinistra, i cubi di legno multiuso proposti dai creativi della città giapponese di Nagoya. A sinistra, l’Electric Hotel ospitato al Dmy che chiuderà i battenti domani se comunque produce in Cina. Un buon design e buoni prodotti sono comunque buoni, indipendentemente da dove vengono o dove sono fatti. A Pechino, ad esempio, i prodotti tedeschi sono altamente considerati e sarebbe bello se i futuri progetti di design potessero raggiungere un analogo livello di compatezza anche in termini di strutture professionali. Come fare? Intanto iniziando a scambiarsi studenti universitari per progetti di medio periodo».

Accanto alla Cina, sono tanti i Paesi che cercano di mettersi in mostra. Nagoya è una città tra Tokio e Osaka, anche lei eletta città del design dall’Unesco e da più di vent’anni ospita una delle più prestigiose scuole giapponesi di disegno industriale. In un Paese noto per la razionalizzazione massima di ogni spazio a disposizione, in

particolare quando si parla di case e appartamenti, il limite imposto dalle dimensioni è diventato uno stimolo per i creativi di Nagoya per cercare di ovviare il problema attraverso soluzioni alternative che non solo risparmino ogni centimetro possibile, ma che lavorino anche sulla percezione di chi li osserva, facendoli sembrare più grandi di quel che in realtà sono. Ecco quindi dei piccoli cubi di legno colorati di circa due metri cubici di volume con un solo lato aperto e con un asse orizzontale sporgente al centro che possono essere utilizzati sia come scrivanie che come tavolo per mangiare da soli, con temperini, matite, righelli, forchette, coltelli, portatovaglioli e tutta la cartoleria e le suppellettili possibili fatti su misura in modo da non sprecare neanche un millimetro a disposizione. Dall’Est Europa invece arrivano i lavori di laurea di una ven-


cultura designer a tenere un open talk sul design contemporaneo. Salernitano, già autore di vari progetti tra cui gli interni del Museo d’Impresa di Castellammare di Stabia, Esposito ha portato al Dmy dei particolarissimi orologi da tavolo intitolati Ora, realizzati con materiali quasi completamente riciclati.

Quello della sostenibilità ambientale è un tema caro a tanti designer, come del resto dimostra la presenza dell’Electric Hotel, ovvero un furgoncino completamente metallizzato che sembra uno di quei chioschi che si trovano fuori dagli stadi italiani che vendono panini e bibite e che qui invece offre semplicemente energia elettrica. Proprio come se ci si trovasse davanti al bancone di una reception di un hotel, dietro le spalle del portiere campeggiano vari cassetti aperti sulla falsariga dei ripiani in cui si posano le chiavi delle camere d’al-

tina di designer provenienti dalla Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia e la Polonia, tutti riuniti grazie all’Accademia delle Belle Arti di Cracovia che negli ultimi anni si è spesa a favore di corsi di design anche di alcuni dei Paesi vicini, allo scopo di proporsi con maggiore forza e creatività agli occhi degli investitori e dei semplici potenziali clienti stranieri.

Stesso discorso vale per l’Olanda che forse, nel complesso, offre una serie di prodotti senza dubbio accattivanti per quanto riguarda l’occhio: dalle scarpe scolpite nella plastica alle reti per adulti su cui saltellare come dei bambini al luna park, passando per la pinza costruita per misurare la corrente elettrica che passa in alcuni cavi senza rischiare di prendere la scossa. Anche il design scandinavo fa la sua parte, soprattutto per ciò che riguarda i mobili di casa. E se la Svezia si divide tra progetti di alto design e uno stand anche di Ikea che mette in mostra, attraverso una serie

di pannelli ricchi di didascalie, quale sia la filosofia dietro alcune delle sue creazioni, la Norvegia punta molto sulle cucine e su un “nuovo” modo di intendere gli spazi tra tavolo e lavello per lavare cibi e piatti. Anche l’Italia è ovviamente presente. Il SudLab è un centro no profit di ricerca e sviluppo locale attraverso le arti contemporanee e le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate alla cultura che fa da aggregatore a varie idee e progetti di designer italiani. Il SudLab era già stato presente l’anno scorso al Dmy. Da allora è diventato un punto di riferimento del design italiano nel mondo tanto da essere stato invitato a partecipare alla conferenza organizzata dall’Università di Glasgow lo scorso aprile sull’importanza dello sviluppo di progetti che sappiano unire esigenze e competenze di musei, archivi, istituti culturali e nuovi media. Stefano Eposito invece è stato ieri il primo

bergo. Sono spazi messi a disposizione di chi vuole ricaricare il proprio cellulare o il computer. L’Electric Hotel infatti è stato pensato per i festival di musica. Lì dove si trovano ritrovi ambulanti per mangiare e bere, bagni chimici e tanti altri comfort, spesso ci si dimentica di provvedere a qualcuno che dia quel minimo di energia elettrica ormai necessaria anche a chi vuol fare selvaggia vita di campeggio. L’Hotel viene infatti di assunto di volta in volta dai festival interessati che gli danno una piazzola in una zona della propria manifestazione. Chi vuole può pagare due

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euro l’ora e farsi ricaricare il proprio apparecchio, chi invece ha voglia di sudare può mettersi in sella alla bicicletta, montata di volta in volta davanti al furgoncino, e crearsi l’energia da sé. Un trasformatore infatti convertirà quella dinamica in elettricità, vero olio di gomito messo a disposizione di chi vuole risparmiare. È da circa un anno che l’Electric Hotel viaggia in giro per l’Europa centrale offrendo i suoi servigi. Il prossimo 16 giugno sarà a Ferropolis, un ex ba-

Tra le varie proposte innovative presentate da più di trenta nazioni, l’Electric Hotel, un furgoncino che offre energia. Anche “pulita”

se militare vicino a Dessau, su di un lembo di terra circondato su tre lati dal lago Gremminer, per uno degli open air di musica rock e techno più in voga dell’estate tedesca. Quest’anno il Dmy ospita anche il German Design Award “Designpreis der Bundesrepublik Deutschland”, il più prestigioso premio del Paese nel campo del design, riconoscimento conferito dal Ministero dell’Economia e della Tecnologia fin dal 1969 per premiare l’eccellenza del product e del communication design. I vincitori verranno decretati solo in ottobre. In gara ci sono decine di desi-

gner con prodotti di ogni tipo, dal vestiario all’accessorio per la casa, passando per orologi da polso e tanto altro. Il design del resto comprende qualsiai cosa ci stia intorno, l’unico aspetto importante è capire quale sia valido e quale no, come del resto una volta ha ben riassunto il giornalista italiano Luca De Biase: «Il design è il punto d’incontro tra il passato e il futuro di un prodotto, tra le sue cause e le sue conseguenze. Il cattivo design si concentra sulle cause: pensando solo alle strutture storiche e produttive che lo motivano. Il buon design conosce le sue conseguenze. Fa prodotti capaci di parlare di se stessi: di informare sulle loro funzioni previste e addirittura di ispirare funzioni impreviste. Arriva a trasformare il prodotto in un fenomeno sociale dall’impatto superiore alle aspettative di chi lo ha fabbricato. Il design è progetto: guarda all’esperienza già fatta quanto all’esperienza che ancora si deve fare: per questo è il momento innovativo per eccellenza. È progetto pensato a tutto tondo, dalla ragione industriale all’emozione estetica e alla ragionevolezza funzionale. Il design è il punto d’incontro tra visione, tecnologia e creatività. E si va caricando di responsabilità. Non è più solo un mestiere. È l’attivazione interdisciplinare di sensibilità e capacità. E non è più solo un sostegno alla competitività delle imprese. Comprese le italiane, spesso eccellenti. Se riesce, è una risposta alla domanda, non del mercato ma della società: la domanda di senso».

Il Dmy di Berlino anche se chiuderà i battenti domani non finirà il suo lavoro. Sono molte infatti le esibizioni internazionali che lo vedranno coinvolto, seppur solo attraverso workshop ed esposizioni. Dopo essere stato presente al Salone del Mobile di Milano, sarà la volta del Noho Design District (durante l’Internationial Contemporary Furniture Fair di New York), del Designtide Tokyo, del Design Miami e del Buenos Aires’ Mesi. Del resto se una manifestazione del genere non avesse quantomeno l’aspirazione di far arrivare le idee e le selezioni che ha operato in ogni angolo del mondo, che festival internazionale sarebbe?


ULTIMAPAGINA «Sono stato io. So come ho fatto ma non so perché»: l’assassino di Brindisi e la banalità dell’orrore

La bomba della porta di Riccardo Paradisi segue dalla prima E, ancora, in concomitanza con la manifestazione sulla legalità che doveva tenersi quel giorno a Brindisi? Vantaggiato che ha precedenti per truffa non è legato alla criminalità organizzata. Eppure il suo atteggiamento evasivo potrebbe celare la volontà di coprire qualcuno. Un complice? Un organizzazione? Dall’enigma del movente sorge dunque una domanda che se possibile rende ancora più inquietante la vicenda: «Si è di fronte a un depistaggio?». «L’effetto terroristico – è d’altra parte il ragionamento del procuratore della procura di Lecce – è stato effettivamente raggiunto, la gente di tutta Italia è stata allarmata e inoltre siamo davanti all’indeterminatezza dell’obiettivo. L’unica certezza però è che lui ha messo la bomba e ha schiacciato il pulsante». Un’asserzione che potrebbe risultare minimalista ma che costituisce il punto di partenza per ulteriori indagini. Da questo “punto di partenza” riprende quindi l’indagine per sciogliere i dubbi sul movente, le eventuali complicità e il contesto nel quale è maturato l’attentato del 19 maggio.

Da parte sua Vantaggiato ha detto di avercela col mondo. Ha fatto riferimento a problemi economici: «Non so perché l’ho fatto ho agito di giorno per colpire qualcuno. Ho fatto tutto da solo, non so perché. Ho fatto esplodere la bomba di giorno, perché di notte non c’era nessuno». Non si capisce il nesso però tra i problemi di Vantaggiato e un’azione che ha come fine quello terroristico. Perciò, dicono gli inquirenti, «valuteremo se ha agito da solo». Ipotesi che non viene esclusa. Anche se la reticenza di Vantaggiato può appunto essere una scelta precisa per nascondere qualcosa o qualcuno a lui molto vicino. Un mandante? Ma perché usare un killer così maldestro e così a rischio d’errori? «Andiamo avanti scientificamente – dicono gli inquirenti – cercando di ricollocare il tutto partendo dai fatti certi ed accertati per arrivare ai perché». Insomma, «abbiamo un punto di partenza: l’episodio non è concluso, sarebbe un’indagine zoppa se ci fermassimo qui». Un uomo dai tratti misteriosi Vantaggiato anche a detta dei suoi parenti più stretti. «Per noi mio zio è un estraneo, io non l’ho mai conosciuto. Per mio padre quasi non era un fratello, perché non si parlavano da 35 anni» dice Carlo Vantaggiato, figlio di Antonio, uno dei fratelli di Giovanni. Il sociologo Franco Ferrarotti di fronte ai moventi apparentemente inesistenti e nichilsitici dell’attentato, parla di un segnale allarmante, della spia d’una società che ha superato la linea di confine. «L’attentato di Brindisi, ad opera di un uomo all’apparenza normale, con una famiglia normale alle spalle, che ha agito per una sorta di giustizia fai da te è un segnale di allarme di gravità eccezionale». Un atto che evidenzia come la società «intesa come corpo sociale tenuto insieme da valori e interessi condivisi, si vada sfilacciando sempre di più e, in nome dell’interesse personale, dell’autoreferenzialità e dell’individualismo

ACCANTO sfrenato si avvicini sempre più alla barbarie e alla giungla. Cosi si vive in un Paese non più sicuro». Ferrarotti osserva poi che «se l’epilogo di questa vicenda ha portato ad escludere variabili quali il terrorismo o l’ipotesi di una persona sessualmente deviata che se la prende con i ragazzini, l’atto isolato di un uomo, la sua giustizia fai da te, è altrettanto allarmante perché e’ sfociata in una violenza cieca e criminale».

In alto, l’attentato alla scuola di Brindisi. Sopra, i funerali di Melissa Bassi, la ragazza uccisa dall’ordigno. Sotto, Giovanni Vantaggiato arrestato come responsabile della strage

Il sociologo Franco Ferrarotti di fronte ai moventi apparentemente inesistenti parla di un segnale allarmante, della spia d’una società che ha superato la linea di confine

L’opinione pubblica e le classi dirigenti di questo paese – è convinto Ferrarotti - hanno esagerato sull’autereferenzialità e sull’individuo concepito come principio e fine della società. Essa dunque non è più sinonimo di insiemità, di corpo sociale tenuto insieme da valori condivisi e interessi generali, a tal punto da arrivare, in nome dell’interesse personale o tutt’al più famigliare, alla barbarie». Una barbarie che ha assunto in queste settimane anche risvolti mediatici. Il sospettato recentmente dato in pasto all’opinione pubblica e ora anche il preside della scuola finito nel tritacarne mediatico come possibile bersaglio d’una vendetta personale dell’attentatore. Angelo Rampino, il preside dell’istituto Morvillo-Falcone è scosso. Dopo l’arrivo in questura di Giovanni Vantaggiato, infatti, e la diffusione della sua identità, si erano diffuse voci su presunte vecchie ruggini tra l’imprenditore reo confesso dell’attentato e il dirigente scolastico che nella sua carriera ha anche prestato servizio, come docente, a Galatina, paese vicino a Copertino dove vive il proprietario del deposito di carburante agricolo fermato ieri sera. Rampino nega questa ricostruzione e spiega di non essere in buone condizioni di salute. Chiede di essere lasciato in pace.


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