ISSN 1827-8817 10319
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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 19 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dopo la risoluzione delle Nazioni Unite, il raìs annuncia una tregua. I ribelli lo smentiscono: «Ci bombarda»
Finalmente. Il mondo reagisce Ma Gheddafi sfida l’Onu: «Per chi ci attacca sarà un inferno» L’Italia fornirà basi e forze per fermare il massacro. L’opposizione compatta dà il suo sostegno ma è il governo che è diviso. Bossi: «Sono con la Germania» e i leghisti non votano in comissione L’IPOCRISIA LEGHISTA
LA STRATEGIA DI OBAMA
Berlusconi ora garantisca l’unità dell’esecutivo
Forse è tardi, ma meglio tardi che mai
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di William Kristol
na volta tanto, l’Onu ha preso la decisione giusta. La risoluzione urgente con cui autorizza non soltanto la “no fly zone”, ma anche l’utilizzo di ogni misura possibile per tutelare la popolazione libica, batte quel colpo che i libici, e il resto del mondo, aspettava da tempo. Si è finalmente detto con chiarezza a tutto il mondo arabo – e a tutta la galassia di dittatori e autocrati sanguinari – che la comunità internazionale non rimarrà a guardare davanti al massacro di una popolazione inerme per opera del proprio padrone. a pagina 2
d Morrisey, il grande editorialista e one man show da giorni è (comprensibilmente) esasperato. Lo ha scritto anche su Hot Air: «La mancanza di leadership e i tentennadell’Amministrazione menti Obama riguardo alla Libia» per non parlare della loro «debolezza e incomptenza, mi stremano»; un modo carino per dire che lo stanno letteralmente mandando al manicomio. Non potrei essere più d’accordo con la sua esasperazione e rabbia: io non solo ho provato molta rabbia, ma addirittura nausea. a pagina 7
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Continuano le celebrazioni del 150°
C’è un motivo se Napolitano ha riunito l’Italia «La giornata dell’Unità ha rappresentato uno scatto d’orgoglio del Paese»: un’altra lezione di onestà storica per il Presidente a Torino Giancristiano Desiderio • pagina 28
Parla il gerenale Mario Arpino
«Lo scontro è inevitabile. Vi spiego come andrà» Luisa Arezzo • pagina 2
Gli Usa: «La situazione è molto grave». Sale ancora la radioattività
Un sarcofago a Fukushima Una soluzione “stile Chernobyl” anche in Giappone di Pierre Chiartano
Solo il Colle ha «salvato» la festa
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ENERGIA & GOVERNO
ENERGIA & RICERCA
Una strategia contro la paura
La sicurezza può costare di meno
di Francesco D’Onofrio
di Luigi Paganetto
i fa presto a parlare di unità. Unità nazionale, convergenza politica di fondo pur nella concorrenza elettorale, correttezza istituzionale, coesione sociale, comune sentire. Neppure in occasione delle celebrazioni della ricorrenza dei 150 anni di storia patria – peraltro riuscite, e ne va dato merito esclusivamente al Capo dello Stato – si è vista piena e convinta unità. E non solo per il comportamento della Lega – autolesionista prima ancora che eversivo – ma anche per la totale mancanza di protagonismo del governo nella preparazione dei festeggiamenti come nel loro svolgimento.
ROMA. A Fukushima il problema nucleare andrà seppellito sotto una spessa coltre di cemento armato. Un sarcofago – senza piramidi... – come altare e monumento per una scienza che ha fallito di nuovo. Mentre continua il lento e inesorabile conteggio delle migliaia di vittime dello tsunami. Gli Stati Uniti non si fidano del governo giapponese: starebbe coprendo la vera gravità dell’incidente alla centrale nucleare a nord di Tokyo. È arrivato un loro team d’esperti per verificare. E neanche i cittadini del Sol levante si fidano dei proprio governanti.
ra di tutta evidenza che il dramma nucleare giapponese avrebbe finito con l’incidere in modo significativo anche in Italia. È evidente infatti che sebbene si sia trattato di una vicenda drammatica ma anche irripetibile almeno in termini geologici, le conseguenze del possibile crollo di una delle centrali nucleari giapponesi avrebbero suscitato sia un più generale timore sul nucleare in quanto tale, sia un più circoscritto impegno concernente la sicurezza.
è bisogno di un approccio al nucleare che non risenta di ideologie o sentimenti del momento. Anche se il momento è grave come ora. In questa ottica, occorre in particolare un esame accurato dei costi e dei benefici di investire sul nucleare con una valutazione delle opzioni in campo. La scelta del nucleare non va legata soltanto all’esigenza di avere un mix più completo delle diverse fonti di energia o di aumentare la certezza degli approvvigionamenti.
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Il 17 marzo c’era un solo presidente di Enrico Cisnetto
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la crisi libica
il commento I paradossi di un intervento travagliato
Berlusconi ora garantisca l’unità dell’esecutivo di Vincenzo Faccioli Pintozzi na volta tanto, le Nazioni Unite hanno preso la decisione giusta. La risoluzione urgente con cui autorizzano non soltanto la “no fly zone”, ma anche e soprattutto l’utilizzo di ogni misura possibile per tutelare la popolazione libica batte quel colpo che i cittadini libici, e il resto del mondo, aspettava da tempo. Si è finalmente detto con chiarezza a tutto il mondo arabo – e a tutta la galassia di dittatori e autocrati sanguinari che popolano il nostro vasto pianeta – che la comunità internazionale non rimarrà a guardare davanti al massacro di una popolazione inerme per opera del proprio padrone. La società civile dell’Italia, va detto, ha sempre mantenuto un’unione abbastanza compatta sull’argomento: Muammar Gheddafi è un mostro che, per quanto utile in termini economici e geografici, non deve e non può ritenere di avere le mani completamente libere. L’idea di fornire le basi a un intervento militare appositamente approvato dal Consiglio di Sicurezza del Palazzo di Vetro ci permette (in maniera forse un poco ipocrita, ma transeat) di non offendere quell’articolo della nostra Costituzione che ripudia la guerra. Inoltre, ed è un altro fatto che è necessario citare, con la sollevazione popolare contraria al dittatore è stata messa a rischio anche la nostra presunta supremazia sul Mar Mediterraneo.
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Fiumi di inchiostro (e di parole) si sono riversate nelle scorse settimane sul Belpaese: gente da tutti i porti, non soltanto gli analisti nostrani, ha chiesto all’Italia di prendere una posizione precisa nei confronti dei moti libici. Per motivi storici, per vicinanza geografica, perché una volta eravamo di casa lì. Complice l’attendismo interessato del nostro esecutivo – che non voleva dare un dispiacere al Colonnello, che forse voleva preservare le forniture di petrolio, che sicuramente non brilla in politica estera – abbiamo rischiato di farci scippare l’occasione da competitori interessati e provenienti in massima parte dal Regno Unito. Un derby vecchio, che avevamo già vinto e che, appunto, rischiavamo di vedere riaperto nell’ignavia generale. Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché la maggioranza parlamentare attualmente al potere in Italia, composta dal Popolo delle Libertà e dalla Lega Nord, ha dei seri problemi di comunicazione interni. E quindi il procedimento con cui il Consiglio dei ministri, ieri mattina, ha aderito alla risoluzione Onu si è scontrato con un impasse parlamentare provocato proprio dall’azionista di maggioranza. Quella Lega Nord che per simpatia istituzionale si è degnata (con ben sei esponenti) di recarsi in Parlamento ad ascoltare il presidente Giorgio Napolitano nel giorno del 150esimo anniversario dell’Unità di Italia. Ma che poi, per motivi elettorali, dimostra di non capirne proprio moltissimo, di quell’unità. Un atteggiamento pacifista che sarebbe anche apprezzabile, se venisse da uno schieramento politico che poi non propone di sparare cannonate contro le barche che portano gli immigrati in Italia. Un atteggiamento disfattista, in realtà, che dimostra una volta di più che il nostro Paese non ha un governo.
l’analisi Tre scenari per lo scontro in Libia, al di là della partita a scacchi diplomatica
Il grande bluff di Gheddafi
Il raìs nell’angolo annuncia una tregua. Parla il generale Arpino: «Non ci credo, andrà avanti. Ma se le misure internazionali saranno prese subito, potrà essere fermato» di Luisa Arezzo heddafi va avanti. A modo suo, certo. Facendo balenare la possibiltà di un cessate il fuoco immediato, come dichiarato ieri dal suo ministro degli Esteri, Mussa Kussa, e poi continuando l’assedio a Misurata. A poco più di ventiquattr’ore dall’approvazione della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la situazione in Cirenaica è tutt’altro che avviata verso una soluzione. Con la Francia (e la Gran Bretagna) sempre più determinata (almeno a parole) a espugnare il Colonnello. Al grido di «Fatti, non parole» Sarkozy e Cameron dicono di non fidarsi delle aperture del governo libico e di essere pronti ad entrare in azione. Per farlo, comunque, avranno bisogno dell’aiuto di tutti. E dunque, mentre la situazione si ingarbuglia, la comunità internazionale prende tempo cercando di organizzare un eventuale attacco. Ma quali sono le mosse da fare e soprattutto, qual è l’obiettivo. Lo abbiamo chiesto al generale Mario Arpino, già capo di stato maggiore della difesa, che di attacchi ne sa qualcosa, basti pensare alle guerre balcaniche e all’Iraq. Generale, cominciamo da Gheddafi. Bisogna credergli? Quali scenari dobbiamo aspettarci? Direi che abbiamo davanti tre possibilità. La prima è che il Colonnello continui nella sua marcia e vada a schiacciare i bengasini completando l’opera che sta facendo. La seconda è che apra delle finestre di dispo-
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nibilità ma di fatto continui ad avanzare verso Bengasi; la terza è che smetta l’assedio e si fermi, mantenenedo fede alle dichiarazioni di disponibilità fatte nelle scorse ore. Dichiarazioni che però non fa mai in prima persona (lui si riserva tutti gli interventi più bellicosi) ma lascia sempre fare ad altri. Per quanto mi riguarda, penso che il primo scenario sia quello più verosimile. Gheddafi andrà avanti. Se le misure della Nato e della comunità internazionale saranno prese subito potrà essere fermato. Fra tre giorni potrebbe essere troppo tardi. Dunque bisogna entrare in azione. In che modo? Intanto bisogna vedere su quale area si decide di intervenire: se su tutta la costa o solo sull’area delle città vittime dell’assedio. Misurata è già perduta, ma Tobruk e Bengasi ancora resistono. Se si decidesse di colpire solo qui, forse il coinvolgimento dell’Italia potrebe essere marginale, perché un rischieramento di inglesi e francesi a Cipro (dove c’è una base inglese, ndr.) sarebbe molto più conveniente, visto che l’isola sta di fronte a Bengasi. L’Italia potrebbe mettere a disposizione Tanker e Awacs, visto che Sigonella può benissimo ospitare i primi e i secondi sono già ospitati nella forward operation base di Trapani. I caccia utili agli strike potrebbero a quel punto essere basati a Creta e Cipro. Se invece dovessimo andare a proteggere dagli
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il retroscena
La vera forza del Colonnello è in terra L’arsenale di Tripoli non fa paura. E nemmeno la sua aviazione. Il problema sono i soldati dunque guerra sia, c’è voluto come al solito troppo tempo, ma il match Gheddafi contro il resto del mondo si farà. In teoria si può cominciare subito, grazie ai missili cruise imbarcati sulle unità navali statunitensi e gli aerei da combattimento che sono già stati posizionati. Il grosso delle forze però deve essere ancora schierato e questo richiederà qualche giorno. Però la imposizione della no fly zone presuppone la neutralizzazione della difesa aerea libica e magari qualche attacco sugli aeroporti utilizzati dai lealisti. Anche se Gheddafi dispone soltanto di poche dozzine di aerei ed elicotteri. La terribile aviazione del Colonnello è in realtà ben poca cosa, persino per gli standard di questa quasi guerra, ed è peraltro militarmente ininfluente sugli esiti di una guerra civile. Proprio per questo anche una no fly zone non cambierebbe la realtà di un conflitto che viene raccontato in modo volutamente distorto. Le cose cambierebbero se, come chiesto dalla Francia, gli aerei alleati attaccassero le forze e gli obiettivi militari dei lealisti a terra e fornissero supporto aereo diretto agli insorti. Allora sì che gli insorti potrebbero prevalere. E anche in fretta. Però deve essere chiaro che non ci sono città distrutte dalle bombe degli aerei. Non ci sono massacri di civili e fosse comuni a migliaia. Non ci si sono neanche vere e proprie battaglie, ma solo scontri limitati per estensione, durata e numero di partecipanti. E badate, tutto questo, chi lo deve sapere, lo sa. I satelliti (anche quelli italiani) fotografano a più non posso. Lo spionaggio elettronico (e non solo) va alla grande. Informatori non mancano. Sappiamo anche quante sono le famose “fosse”. Come lo sapevamo ai tempi del Kosovo e della guerra alla Serbia nel 1999. Ma… niente fosse, niente massacri e niente intervento. Però i reso-
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di Stranamore conti dei media, frutto di una combinazione di mancanza di informazioni, insipienza e di manipolazione, hanno prima parlato di avanzate trionfali delle forze ribelli, poi di altrettanto fulminee riscosse da parte dei lealisti. Poi sembrava che l’Esercito libico si fosse ammutinato in massa e che a combattere per Gheddafi fossero solo i mercenari. Per carità, i mercenari ci sono, ma il nerbo dei reparti pro-Gheddafi è costituito da reparti regolari con personale libico. Poi ci sono le milizie irregolari e quelle tribali, le più feroci. I mercenari sono utili, preziosi e in Libia ci sono sempre stati, così come i “consiglieri” stranieri, ma non sono così determinanti come si crede.
Hanno anche scritto che dal 2004 ad oggi Gheddafi si è ri-armato grazie all’aiuto militare occidentale e che l’Italia ha fornito di tutto e di più. Ma non è vero. La Libia doveva ancora cominciare a comprare davvero per ricostruire le sue forze armate. Più che altro in questi anni ha rimesso in funzione un po’ dei sistemi d’arma bloccati da anni di embargo e ha acquistati materiali ed equipaggiamenti per la sicurezza interna e la sorveglianza dei confini, anche su nostra indicazione, per controllare i flussi migratori. I grandi pacchetti militari dovevano ancora essere sottoscritti e certo non c’era alcuna significativa fornitura in corso. In pole posi-
attacchi i civili, allora anche le basi italiane potrebbero essere usate per velivoli da combattimento. In questo caso però bisognerebbe aspettare il via libera del Parlamento... Sì. Il passaggio parlamentare è indispensabile per l’uso dei cacciabombardieri e dei cacciaintercettori. Non serve invece per autorizzare l’uso delle basi, già avallato da un accordo Nato permanente. La Francia dice di essere già pronta ad intervenire. Ma con quali possibilità di successo? La Francia ha i suoi awacs, i suoi radar volanti, le sue cisterne per il rifornimento, ma da sola può solo colpire qualcosa e basta. Non è in grado di sostenere uno sforzo continuato. Può insomma dar vita a un gesto dimostrativo e nulla più. Oltretutto, per questo tipo di attacchi serve una superiorità aerea che non possiede. E senza il supporto di una no fly zone si troverebbe davanti gli aerei di Gheddafi che, non dimentichiamolo, sono dei Mirage francesi. Un problema non da poco per Sarkozy... Sarkozy, che adesso fa il duro e puro, quegli aerei li ha messi in condizione di volare. Parliamoci chiaro: i pezzi di ricambio dei Mirage si producono solo in Francia ed è lì che il Colonnello li ha comprati. Andiamo avanti per ipotesi. Se le parole di Gheddafi fossero un bluff e la battaglia sul campo continuasse, cosa succederebbe?
tion poi c’era la Francia, la Russia e buona ultima sarebbe arrivata L’Italia. Dunque l’arsenale di Gheddafi è sempre quello di cui disponeva a fine 2004, il che vuol dire le vestigia del potenziale militare libico costruito pre-embargo.Tecnologicamente rappresenta lo standard di 20 anni fa. E quell’arsenale era già uscito malconcio durante i confronti con gli Usa e in Africa. Per non parlare del livello addestrativo del personale, dell’efficienza dei mezzi, della disponibilità di pezzi di ricambio. Gheddafi ha un pugno aerei e di elicotteri, condotti dai pochi piloti esperti ed istruttori, i quali volano solo di giorno, volano poco (curioso che nessuno dica quante sortite vengono effettuate, vero?) volano male e colpiscono meno. La vera forza di Gheddafi è in terra, non in cielo. Ed è comunque rappresentata da mezzi e materiali che funzionano poco e male. La Libia“lealista”poi ha una autonomia operativa relativamente limitata. E gli insorti? Loro stanno ancora peggio. Perché hanno esattamente le stesse armi di cui dispongono
C’è il caso che lui a breve si fermi, è vero, ma magari perché è già arrivato. Così non fosse, occorre orchestrare la grande giostra dei cieli che richiede un impegno non indifferente di caccia intercettori e caccia bombardieri, tutti pronti in pattugliamento, tutti pronti e armati di bombe e con i caccia che li proteggono. Prima che si alzino in volo, però, devono essere state preventivamente distrutte le difese aeree libiche, perché questi attacchi si devono fare ad alta quota e dunque in modo esposto ai missili. A bassa quota nemmeno a pensarci, perché le difese libiche a corto raggio sono nutritissime e ricalcano il sistema di difesa aerea
La guerra in Libia è sempre stata condizionata dalla logistica. Chi si rileggesse le cronache della Seconda Guerra Mondiale scoprirebbe che i problemi di allora valgono anche oggi: si avanza lungo le strade costiere, ma mano a mano che si allungano le linee dei rifornimenti si diventa più vulnerabili e lo slancio rallenta. Così i ribelli sono avanzati e a un certo punto non riuscivano più a tenere e sostenere quello che avevano conquistato. Dunque la marea ha cambiato corso. Però attenzione, non è che ora si debba credere alla propaganda inversa: abbiamo letto che il piano di Gheddafi è quello di tagliare in due il “saliente” cirenaico, in modo da stringere i ribelli in una enorme sacca, tra il mare e le forze lealiste. Ma Gheddafi i soldati per condurre una operazione del genere e tenere sigillato un“fronte”lungo centinaia di chilometri non li ha e non li ha mai avuti. Ed infatti avanza lungo la costa e poi chiude d’assedio solo un centro abitato dopo l’altro. E comunque anche se prendesse Bengasi, poi dovrebbe fronteggiare una bella guerriglia, non solo urbana, chissà per quanto. E dubito sia in grado di farlo. Solo che Gheddafi ormai deve sparire. Lo hanno detto Obama, Sarkozy, la Lega Araba, la Ue. Difficilmente però se andrà… militarmente. Perché la no fly zone non lo detronizzerà. Ci vuole altro e infatti l’Onu ha autorizzato ogni azione che possa proteggere la popolazione civile.
lì il dispiegamento fu enorme: c’erano truppe di terra pronte ad intervenire e in volo si facevano dalle 2700 alle 3500 sortite al giorno (sia protezione che attacco). Credo poco alle guerre lampo a meno che non siano preparate come quella irachena. Il generale Clark, ai tempi del Kosovo, era convinto che Milosevic sarebbe caduto nel giro di pochi giorni e dopo 4/5 bombe. Io gli risposi di non esserne affatto convinto, ma ciò detto l’operazione è cominciata. Abbiamo bombardato 75 giorni dopodiché c’è sì stata una ritirata ma Milosevic non se ne è andato. E parliamo del minuscolo Kosovo, grande nemmeno come il Friuli Venezia Giulia. Gheddafi ieri ha detto: «Se mi attaccherete sarà l’inferno e sono pronto a colpire il Mediterraneo». Dunque noi. Questo rischio c’è? Se si mette in moto “la giostra” lui non si muove. Il Mediterraneo lo può attaccare solo con aerei e navi ma non sarebbe in grado di spostarli di un centimetro. Ha gli scud, certo, ma non vanno oltre i 300 chilometri né sono di precisione. L’unica arma che davvero ha è l’arma del terrorismo. Serissima. Si può immaginare una sua uscita di scena? Difficile. Certo, potrebbero cercare di ucciderlo. Un attentato alla sua persona con un attacco aereo mirato potrebbe essere preso in considerazione. Ma se fallisse, torneremmo agli scenari di cui sopra.
«Se si entrasse in azione solo sui cieli di Bengasi, il coinvolgimento dell’Italia potrebbe essere marginale. Verrebbero usate le basi di Creta e Cipro, davanti alla Cirenaica» a corto raggio sovietico. Se l’intervento va fatto è necessario un impiego ingente. Ricordo che per la piccolissima Bosnia abbiamo avuto 300 aerei rischierati in Italia su 15 basi con 12 nazioni che partecipavano. Èd è durata 980 giorni. Questo è l’altro punto. Quanto potrebbe durare l’attacco? Al momento si immagina un’operazione breve, chirurgica e circoscritta. Forse si è troppo ottimisti? Un’operazione breve fu quella sull’Iraq: 38 giorni. Ma
i fedeli del Colonnello, solo in quantità e qualità molto inferiore. I volontari non mancano, ma i professionisti sì. Da una parte c’è qualità e mezzi, dall’altro buona volontà e numeri. Poi gli insorti non hanno una struttura di comando e controllo e non c’è una organizzazione e neppure una capacità logistica.
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Le commissioni approvano la decisione: il Carroccio non vota
L’opposizione c’è il governo no «Basi e forze per fermare le stragi»: solo la Lega rallenta il sì bipartisan di Franco Insardà
ROMA. Il ruolo attivo dell’Italia per la protezione dei civili e delle aree sotto pericolo di attacco in Libia trova tutti d’accordo. Tranne la Lega. Le commissioni riunite di Affari esteri e Difesa del Senato e quelle della Camera hanno approvato, con l’astensione dell’Idv, la risoluzione avanzata dal governo che, come si legge nel testo uscito da Palazzo Madama: «Valutata positivamente la risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu n. 1973 del 17 marzo 2011, impegnano il governo: ad adottare ogni iniziativa per assicurare la protezione delle popolazioni della regione nello scrupoloso rispetto della risoluzione 1973 e delle relative prescrizioni; ad adottare ogni iniziativa necessaria per assicurare che l’Italia partecipi attivamente con gli altri paesi disponibili, ovvero nell’ambito delle organizzazioni internazionali di cui il Paese è parte,
giamento evidenziato da Ferdinando Adornato, a nome del suo partito, nel corso della riunione: «L’Udc condivide l’impostazione del governo e garantisce il suo sostegno. Ma chiediamo al presidente del Consiglio di farsi garante, perché abbiamo letto una dichiarazione del ministro Bossi che va in senso contrario». Anche l’Idv ha assunto una posizione dissonante., avendo presentato un testo di risoluzione alternativo a firma del senatore Pedica, quest’ultimo ha votato a favore del proprio documento, non partecipando al voto della risoluzione bipartisan. Stessa cosa hanno fatto i rappresentati dell’Idv alla Camera.
In mattinata Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc, che dopo aver sottolineato il ritardo sia dell’Italia che dell’Europa ha detto che «dovremmo fare quello che chiede l’Onu, un in-
Adornato: «L’Udc chiede al presidente del Consiglio di farsi garante dell’azione del governo». Bersani: «Chiediamo soltanto che in queste ore non ci siano dichiarazioni estemporanee e contraddittorie» alla piena attuazione della risoluzione 1973 ai fini della protezione dei civili e delle aeree popolate sotto pericolo di attacco ivi compresa la concessione in uso di basi sul territorio nazionale; a tenere costantemente informato il Parlamento».
L’unica nota stonata è stata la mancata partecipazione dei rappresentanti della Lega alle commissioni, un atteggiamento conseguente alle dichiarazioni del leader del Carroccio, Umberto Bossi, secondo il quale «la Lega Nord si sente vicina alla posizione della Germania», che si è astenuta all’Onu sulla “no-fly zone”. Come al Senato, anche alla Camera la Lega non ha partecipato al voto, anche se ha autorizzato il voto anche in sua assenza. Un atteg-
tervento che preveda anche, purtroppo, l’utilizzo delle armi in difesa della popolazione civile che viene massacrata da Gheddafi. Ci auguriamo che il governo dica parole chiare e precise, che non ci siano doppie voci all’interno del governo. È necessaria una posizione chiara e netta. Per cominciare si rimuova il Trattato di Amicizia. Io fui forse l’unico segretario di partito a guidare una delegazione davanti all’ambasciata libica quando fu firmato quel trattato di pace. Ecco, basta con i baciamano a Gheddafi, c’è bisogno in questo momento di salvare gli abitanti della Libia». Concetti ribaditi anche dal presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, che in una nota ha dichiarato: «Noi che per primi e quasi da soli abbia-
Qui accanto, ribelli libici preparano la battaglia finale. Nella pagina a fianco, i ministri Frattini e La Russa annunciano la decisione italiana di fornire le basi per i raid in Libia
Oggi a Parigi il vertice straordinario tra Europa, Lega araba e Unione africana
La frammentazione del fronte occidentale
L’asse franco-tedesco, che governa le scelte politiche della Ue, ha toccato il suo minimo livello di coesione di Enrico Singer lla fine il via libera alla no-fly zone è arrivato. Sul filo di lana, come nei film di Hollywood sulle guerre indiane in cui gli squilli di tromba che annunciavano la carica delle giubbe blù del Settimo cavalleggeri precedevano di poche scene la scritta The End. Nel caso della Libia, però, la parola fine sembra ancora lontana, anche se la risoluzione dell’Onu ha già avuto l’effetto di costringere il raìs di Tripoli ad annunciare, almeno, lo stop dell’offensiva delle sue milizie. La contromossa del regime di Gheddafi che ha offerto un immediato cessate il fuoco che lascia, comunque, i due terzi del territorio sotto il suo controllo, apre diversi possibili scenari e rende azzardata, per il momento, qualsiasi previsione. È sempre più chiara, invece, la strategia che tutti i protagonisti – dagli Usa, all’Europa, alla Nato – hanno scelto fino a questo momento. E che rivela, ancora una volta, ritardi, divisioni, interessi contrastanti in un gioco di scatole cinesi dove l’iniziativa di ognuno condiziona quella degli altri. Proprio come è successo l’altra notte attorno al tavolo rotondo del Consiglio di sicurezza dove la no-fly zone è passata con dieci “sì” e cinque astensioni. Se quelle di Russia e Cina hanno rappresentato un successo per la diplomazia americana che è riuscita a scongiurare un voto contrario, che avrebbe avuto il valore di un veto, l’astensione della Germania è
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una sconfitta per il tanto sbandierato “fronte occidentale”. Così come pesano, e avranno ripercussioni negli equilibri del G20, anche le astensioni di Brasile e India che sono le potenze emergenti dell’economia mondiale. Già questo primo distinguo delinea due schieramenti che difendono posizioni antagoniste nella crisi. Ma anche all’interno dello schieramento che si potrebbe definire più determinato a sostenere la rivolta contro Gheddafi sono subito emerse – tanto nella Ue che nell’Alleanza atlantica – degli atteggiamenti discordanti. Con la Francia e la Gran Bretagna che insistono per un’azione immediata e la Germania che esclude qualsiasi sua partecipazione diretta a operazioni militari così come ha fatto la Turchia che è il pilastro decisivo del quadrante Sud della Nato.
E con l’Italia che, dopo un balletto di riunioni d’emergenza, ha adottato una linea di “attiva partecipazione” alla risoluzione 1973 dell’Onu, ma che ha dimostrato finora di muoversi a rimorchio degli avvenimenti. Per rimanere all’Europa, dire che la Ue ha perso l’ennesima occasione per far sentire la sua “voce unica” è ripetere un ritornello che sta diventando noioso e scontato. È molto più utile prendere atto che le divisioni ci sono e cercare di capire perché le diverse capitali seguono i loro interessi e quali sono. Partiamo dalla Francia di Nicolas
la crisi libica
Sarkozy che è stato il primo Paese a riconoscere il governo provvisorio di Bengasi e a proporre “bombardamenti mirati”contro Gheddafi anche fuori da un mandato dell’Onu se la situazione umanitaria lo avesse imposto. Nel risiko dell’assetto futuro del Maghreb, Parigi ha scelto di cavalcare la “primavera araba”per due ragioni opposte, ma convergenti. Il progetto sul quale Sarkozy aveva molto investito in politica estera per restituire prestigio alla Francia – l’Unione per il Mediterraneo – puntava proprio sui regimi che, in Tunisia e in Egitto, sono stati travolti della protesta.
Ben Ali e Mubarak erano i migliori amici dell’Eliseo che aveva tentato un’operazione di recupero anche con Gheddafi, ricevendolo con
l’azione militare per evitare che Gheddafi schiacci nel sangue la rivolta, rimane l’opzione numero uno. E questa sarà la posizione che Nicolas Sarkozy sosterrà anche nel vertice straordinario che si terrà oggi a Parigi tra Ue, Lega araba e Unione africana alla presenza del segretario dell’Onu, Ban Ki-moon. Il “sì”arrivato della Lega araba alla no-fly zone prima del voto al Consiglio di sicurezza ha, non solo, favorito l’approvazione della risoluzione 1973, ma rappresenta un oggettivo sostegno al fronte della fermezza di cui la Francia di Sarkozy sta cercando di prendere il comando in Europa assieme alla Gran Bretagna. È un rovescimento completo rispetto alla linea che Parigi – allora in piena sintonia con Berlino – sostenne ai tempi della guerra in Iraq di cui Jacques Chirac fu un tenece oppositore ingaggiando in sede Nato un estenuante boicottaggio dell’invio di forze armate inquadrate in una missione dell’Alleanza atlantica. È anche la conferma di quanto sia a geometria variabile quell’asse franco-tedesco che, tradizionalmente, governa le scelte politiche dell’Unione europea e che, oggi, è al suo minimo livello di coesione.
L’Unione per il Mediterraneo, nel disegno francese, avrebbe dovuto bilanciare lo strapotere che Berlino esercita all’interno della Ue e mettere in ombra il tradizionale ruolo dell’Italia tutti gli onori nel 2007. L’Unione per il Mediterraneo, nel disegno francese, avrebbe dovuto bilanciare lo strapotere che la Germania, grazie alla sua forza economica, esercita all’interno della Ue e avrebbe anche dovuto mettere in ombra il tradizionale ruolo mediterraneo dell’Italia. Adesso che i vecchi attori del suo progetto sono fuori gioco, Sarkozy – a un anno dalle elezioni presidenziali del 2012 – vuole prima di tutto allontanare da sé l’immagine di “amico dei tiranni”e punta tutto sui possibili nuovi governi dell’area. A partire da quello che potrebbe prendere il posto del regime di Gheddafi e che potrebbe redistribuire anche le forniture di petrolio e di gas in base al sostegno ricevuto in questa fase critica. Senza escludere, nemmeno, l’ipotesi di una divisione in due del Paese che oggi sembra fantapolitica, ma che potrebbe anche diventare una tappa verso il progressivo isolamento del raìs costretto nella sua roccaforte tripolina nel caso riuscisse davvero a congelare la situazione sul terreno lasciando la Cirenaica agli insorti. Nell’analisi di Parigi, tuttavia,
La Germania, naturalmente, non è contraria a partecipare attivamante alla no-fly zone perché nutre simpatie pro-Gheddafi. Il ministro degli Esteri, Guido Westerwelle, lo ha detto chiaramente: Berlino vuole che il raìs se ne vada, ma è convinta che sono più efficaci le pressioni politiche e le sanzioni economiche, mentre teme che l’opzione militare possa rivelarsi rischiosa perché, se la no-fly zone fosse insufficiente a fermare le truppe di Gheddafi, la mossa successiva non potrebbe essere altro che un’invasione. La clausola della risoluzione 1973 che esclude esplicitamente l’impiego di forze di terra avrebbe dovuto sciogliere le riserve tedesche. Ma così non è stato e il risultato è la frammentazione del fronte occidentale sul quale il raìs di Tripoli ripone le sue ultime, fragili, speranze di rimanere in sella.
mo sollevato le problematiche relative alle precedenti scelte del governo saremo come sempre responsabili nel sostenere i diritti umani e l’interesse nazionale. Non possiamo esimerci comunque dal criticare il governo italiano e l’Unione europea per i tentennamenti e le incertezze che hanno contribuito a far precipitare la crisi, con il rischio di rendere dubbio il successo di operazioni decise troppo tardi». Durante il dibattito Massimo D’Alema ha chiarito che «nessuna iniziativa in quest’area può essere presa senza il consenso dell’Italia. Nessuno può pensare di fare nulla se noi non siamo d’accordo. Siamo come un “passaggio a livello” e quindi occorre dire subito sì». D’Alema ha però mettere aggiunto che il blocco navale «de-
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Presidente della Repubblica e che il Parlamento sarà costantemente informato ai fini delle decisioni che intenderà adottare. E infatti i ministri della Difesa e degli Esteri hanno informato sugli ultimi sviluppi della crisi libica le commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, annunciando la chiusura dell’ambasciata italiana a Tripoli, ha illustrato i punti della risoluzione, compresa la “no fly zone”, e ha spiegato che «con il documento viene meno la minaccia di Gheddafi di poter vendere prodotti petroliferi ad altri Paesi, come la Cina o il Brasile».
Il titolare della Farnesina ha ribadito che il governo apprezza e condivide «pienamente la risoluzione delle Nazioni Uni-
Berlusconi ha riferito al Consiglio dei ministri che ogni decisione viene adottata in accordo con il Presidente della Repubblica e che il Parlamento sarà costantemente informato ve servire a impedire il traffico di armi e l’arrivo di mercenari, non a impedire la fuga a chi scappa e che, in mare, va aiutato». E il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha spiegato: «Il governo conosce la nostra disponibilità, noi chiediamo soltanto che in queste ore non ci siano dichiarazioni estemporanee e contraddittorie. Bisogna parlare con gli altri Paesi disponibili e con la Nato. Nessuno faccia lo stratega, questa è una cosa seria».
Quella di ieri è stata una giornata molto intensa: prima la riunione del Comitato interministeriale, presieduta da Silvio Berlusconi, alla quale hanno partecipato i ministri Franco Frattini, Ignazio La Russa, Giulio Tremonti, Angelino Alfano, Paolo Romani, Altero Matteoli, Ferruccio Fazio, e i sottosegretari alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti e Gianni Letta, poi il Consiglio dei ministri straordinario e infine la riunione delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato. Il premier ha anche riferito al Consiglio che ogni decisione viene adottata in accordo con il
te, con l’attiva partecipazione che comprende l’uso delle basi, ma esclude esplicitamente azioni militari terrestri. La determinazione italiana – ha aggiunto il ministro – ha le proprie radici nella necessità di marcare la condivisione sostanziale alla risoluzione e di essere ben presenti in un terreno che ci riguarda da vicino, rimarcando l’assoluta fedeltà dell’Italia alla prospettiva atlantica, dell’Onu e della Ue». Frattini ha poi informato che «l’Italia sta inviando una seconda nave di aiuti umanitari a Bengasi». La Russa ha chiarito che «sono sette le basi aeree che l’Italia può mettere a disposizione in relazione», si tratta di Amendola, Gioia del Colle, Sigonella, Aviano, Trapani, Decimomannu e Pantelleria. Il ministro della Difesa ha detto: «Abbiamo motivo di ritenere che Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna stiano già per fare la “coalizione dei volenterosi”, alla quale aderiremo senza alcuna remora con l’obiettivo di tutelare l’integrità dei cittadini libici e assicurarsi di muoversi tranquillamente senza l’assillo di subire azioni violente».
la crisi libica
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Cacciare Gheddafi (nemico di molti membri), rimpiazzare gli Usa e cambiare leadership: ecco gli obiettivi dell’unione dei Paesi arabi
Divisi alla meta
La Lega araba sta cercando disperatamente di dimostrarsi un interlocutore affidabile per le varie crisi popolari in giro per il Medioriente. Ma le divisioni interne e la voglia saudita di affermarsi stanno distruggendo la sua già fragile unità a partecipazione alla No fly zone (Nfz), da parte della Lega araba, come a qualsiasi altra iniziativa Onu, rappresenta per i Paesi del golfo l’ultima spiaggia per non essere esclusi dalla crisi libica. Tre settimane fa, il quotidiano saudita Arab news ventilava la possibilità che la stabilità nel Paese nordafricano potesse essere riportata attraverso un intervento militare, via terra, per mano esclusivamente araba. È scontato pensare che, caduto Hosni Mubarak, la possibile sconfitta di Muhammar Gheddafi apra la strada per l’Arabia Saudita verso la leadership dell’organizzazione. Uno show di forza in Libia, quindi, sarebbe un’opportunità per tutta la Lega di fermare la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” e, al tempo stesso, di consolidarsi come soggetto influente e di identità prettamente saudita sullo scacchiere internazionale. Arab news sottolineava anche come sarebbe molto più facile per un contingente egiziano e tunisino – questo era il progetto – di inserirsi nel contesto di tensione fra Tri-
L
di Antonio Picasso poli e Bengasi. Un Gi americano in Nord Africa sarebbe un invasore. Un soldato arabo, al contrario, verrebbe accolto come un fratello di una nazione amica che porta la pace.
A dispetto di queste motivazioni, la comunità internazionale non ha mai tenuto conto della proposta di una testata giornalistica molto vicina a re Abdullah. Di conseguenza, l’adesione alla Nfz rappresenta un placebo affinché i governi arabi possano partecipare come soggetti agenti alla risoluzione della crisi in Libia. In tal senso, la Lega si è prefissata tre obiettivi: cacciare Gheddafi, nemico dichiarato di molti membri dell’organizzazione, dimostrare la propria capacità di risolvere problemi relativi alla sua regione di competenza, concludere il proprio processo evolutivo nel passaggio di consegne della sua leadership, dall’Egitto ai Paesi del Golfo persico. Si tratta di una linea politica dettata dalla monarchia saudita, la quale lette-
ralmente scalpita da anni per sostituirsi al Cairo. Ora che il vecchio faraone è stato mandato a riposo, re Abdullah dispone di tutti gli spazi di manovra per realizzare questo ambizioso progetto. Non è un caso che l’offerta di partecipazione concreta della Nfz sia giunta dal Qatar e dagli Emirati arabi, entrambi gregari di Riyadh. Il primo, peraltro, ha già dimostrato negli anni passati una spregiudicatezza diplomatica di successo. È stato a Doha che l’emiro qatariota ha convocato tutti i
Re Abdullah teme il peso dell’egiziano Moussa, e vuole eliminarlo subito
rappresentanti del mosaico politico e religioso libanese, nel 2008, per risolvere l’allora crisi istituzionale. Ed è sempre lì che si è cercato, senza alcun risultato positivo, di ricucire lo strappo interno al mondo palestinese. Da notare come, nel caso della Libia, l’Arabia saudita abbia rinnovato la propria posizione di appoggio esclusivamente politico all’iniziativa. Non saranno i suoi aerei a sorvolare i cieli del Nord Africa. Così come le sue Forze armate non sono mai intervenute in
conflitti lontani dall’area di diretto interesse di Riyadh – eccezion fatta per la prima guerra del Golfo, nel 1991 – anche nel caso libico, re Abdullah si è limitato a dare il suo placet. Ma si è fermato a questo.
La scelta di restare ai margini dell’impegno militare, stavolta, è motivata dalla crisi del Bahrein. Lì sì che i sauditi, sentendo il pericolo alle porte di casa – sia in termini di rivoluzione, sia come potenziale rivalsa della propria minoranza sciita – hanno inviato un migliaio di uomini a sostegno del governo di Manama. L’operazione “Scudo penisola” è prioritaria per Riyadh. I calcoli politici di re Abdullah, tuttavia, mostrano un punto debole. Le sue ambizioni egemoniche nella Lega Araba avrebbero ragion d’essere se l’Egitto fosse finito del tutto. Ma questa non è una certezza. In primis, perché con l’organizzazione ancora in mano all’egiziano Amr Moussa il passaggio identitario non può dirsi completato. Se poi quest’ultimo vincesse le elezioni presidenziali al Cairo, i proget-
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Il direttore del “Weekly Standard” difende il Presidente Usa
Mr Obama, meglio tardi che mai
i protagonisti
«Non è detto che ormai si riesca a rovesciare il regime, ma è giusto provarci. Subito» di William Kristol d Morrisey, il grande editorialista e one man show da giorni è (comprensibilmente) esasperato. Lo ha scritto anche su Hot Air: «La mancanza di leadership e i tentennamenti dell’Amministrazione Obama riguardo alla Libia» per non parlare della loro «debolezza e incomptenza, mi stremano», un modo carino per dire che lo stanno letteralmente mandando al manicomio. Non potrei essere più d’accordo con la sua esasperazione e rabbia - e leggendo le puerili scuse del team di Obama e le vuote razionalizzazioni (leggi scuse) per non essere intervenuti fino ad ora (basta leggersi l’articolo sul New York Times di ieri) io non solo ho provato molta rabbia, ma addirittura nausea. Detto questo, devo rispettosamente essere in disaccordo con l’affermazione di Morrisey secondo cui l’assioma “meglio tardi che mai” non si applica in guerra. A volta si applica. È stato meglio intertardi venire piuttosto che mai in Bosnia nel 1995, lo stesso vale per l’Iraq (dove avremmo dovuto intervenire già nel 1991). Sicura-
E
mente sarebbe stato meglio intervenire prima in Libia – come molti di noi sollecitano da molto tempo – ma in questo caso la situazione sembra ancora fluida, e non dovremmo smettere di sottolineare che è giusto intervenire, specialmente dal momento in cui l’Amministrazione, dopo il passaggio al Consiglio di Sicurezza, finalmente sembra considerare la necessità di agire seriamente. Il punto è che non possiamo sapere se è ormai troppo tardi per rovesciare la situazione in Libia. Tuttavia, una combinazione di spazi chiusi agli aerei e al trasporto di superficie, e la disponibilità ad usare la forza almeno per evitare che Gheddafi conquisti l’enclave di Bengasi, potrebbero comunque fare la differenza. Come ha brillantemente spiegato Max Boot, portare Gheddafi sulla strada di una resistenza militare potrebbe comunque porre le basi per la sua sconfitta. Consapevoli di questo, non dovremmo scusare Obama per i suoi tentennamenti dei giorni scorsi. Perché sì, oggi è pronto ad intervenire ma avrebbe dovuto prendere questa decisione già una o due settimane fa.
L’esito della vicenda libica rimane troppo importante per gli interessi degli Stati Uniti (Gheddafi al potere dopo tutto questo, con tutte le risorse che ha, rappresenta un incubo in termini di terrorismo e anche di armi di distruzione di massa), per i principi degli Stati Uniti e per il futuro del Medioriente. Non possiamo rinunciare alla speranza adesso. Credere che l’amministrazione Obama possa ancora fare la cosa giusta, e la faccia in maniera moderatamente efficace, potrebbe implicare il coraggio della speranza – ma sarebbe comunque meglio che arrendersi alla disperazione. Perché il fallimento dell’amministrazione Obama rappresenterebbe il fallimento dell’America e per questo potremmo pagare un prezzo altissimo. Per molto tempo.
I «litiganti» arabi sul fronte libico. Dall’alto: il presidente siriano Bashar al-Assad; il re d’Arabia Saudita Abdullah bin Abdul-Aziz; il presidente iraniano Ahmadinejad; l’emiro del Qatar Hamed al-Thani; il segretario della Lega Araba Amr Moussa
ti del sovrano saudita rischierebbero di essere sensibilmente ridimensionati. Gli Usa, inoltre, così come non sono in grado di rinunciare al petrolio del Golfo, altrettanto non possono rompere l’alleanza con l’Egitto. Pertanto, il loro sostegno al regime post-Mubarak, di qualunque colore esso sia, costituirà comunque un ostacolo invalicabile alle aspirazioni di Riyadh. Infine l’Egitto è sul Mediterraneo. Quindi ha molte più chance pratiche per intervenire in Libia. E non solo per via aerea. Proprio ieri, il Wall Street Journal parlava di un piano del Cairo di armare i ribelli libici. Operazione che avrebbe il placet del Pentagono.
È vero anche, però, che Robert Fisk sull’Independent citava la stessa operazione aggiungendovi la partnership saudita. L’affare non è chiaro. Tuttavia, al di là della fondatezza di queste due notizie, è evidente che alla Lega araba l’idea di una Nfz risulti incompleta; se davvero si vuole cacciare Gheddafi. Presso i governi locali, si nutre la convinzione che chiudere i cieli libici non sia sufficiente. I combattimenti via terra proseguirebbero comunque. I nemici dei rivoltosi non si limitano a essere le Forze aeree fedeli ancora al colonnello, bensì i mercenari africani al soldo di quest’ultimo. D’altra parte, la presenza della Lega araba è necessaria agli Usa. Soprattutto alla luce della scarsa affidabilità dell’Unione europea. A un mese dall’inizio della crisi libica, Bruxelles non ha ancora trovato la quadra del cerchio fra le posizioni più radicali e chi, invece, insiste sul dialogo. Peraltro la stessa Ue non dispone di una liquidità monetaria immediata da poter investire a tempi di record in nuove manovre belliche. I Paesi del Golfo, invece, sono tutt’altro che vincolati da questi problemi. L’impennata dei prezzi del petrolio, dovuta per fortuita coincidenza proprio alla crisi nordafricana, ha ulteriormente colmato i forzieri dei singoli emiri. Re Abdullah può ben finanziare operazioni militari di vario tipo e, in contemporanea, su differenti scacchieri. In Libia attraverso Emirati e Qatar, in Bahrein e nel frattempo armare i ribelli anti-Gheddafi. In ultima analisi la Lega Araba e Israele. Si sa che, nei delicati equilibri mediorientali, le due parti non si parlano ufficialmente. Bensì hanno solo contatti sottobanco. Difficile credere che forze militari del Golfo possano sorvolare liberamente i cieli del Nord Africa senza suscitare il disappunto dello Stato maggiore israeliano. Ecco spiegata la presenza, forse, della Giordania: interlocutore fidato del governo Netanyahu. Con Amman in prima linea, Tzahal non può opporsi.
diario
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Vendeva i biglietti per la messa
È morto Ghidella, il padre della Uno
Frana sull’A1 per il maltempo
CITTÀ DEL VATICANO. Vendeva
LUGANO. È morto Vittorio Ghi-
ROMA. Un costone di collina è
online a 166 euro più Iva biglietti per la messa di beatificazione di Papa Wojtyla, in programma il 1 maggio a Roma. Per questo un cittadino americano residente a Campagnano (Roma), già conosciuto dall’Ispettorato Vaticano come intermediatore di affari e guida turistica priva di autorizzazione, è stato denunciato dalla polizia postale, a seguito di una denuncia trasmessa dalla Prefettura pontificia. L’offerta dei biglietti era apparsa sul sito www.vaticancitytours, registrato negli Stati Uniti. La sala stampa vaticana subito è intervenuta per ribadire che «non c’è nessun biglietto per accedere alla cerimonia di beatificazione di Giovanni Paolo II, tutti possono venire».
della ex amministratore delegato Fiat dal 1979 al 1988. Era ammalato da diverso tempo. Ghidella è stato un uomo chiave del rilancio Fiat negli anni ’80. Chiamato da Gianni Agnelli nel ’79, sotto la sua direzione è nata la «Uno», modello di grande successo, ma è celebre anche lo scontro avvenuto con Cesare Romiti che si concluse con la sua uscita dal gruppo. Da allora ha sempre vissuto in Svizzera. Nato a Vercelli nel 1931 dopo la laurea in ingegneria meccanica al politecnico di Torino andò a lavorare per la Sfk, produttore svedese di cuscinetti. A fine anni Settanta la chiamata dell’Avvocato che lo prese dalla Ellis Holland prima di lanciarlo al vertice della Fiat.
franato sulla corsia nord della A1 Roma-Napoli nel tratto compreso tra i caselli di Ceprano e Frosinone. Fango e alberi hanno travolto un tir e un furgone. Una persona è morta e altre due sono rimaste gravemente ferite. In base a una prima ricostruzione degli agenti della sottosezione A1 di Frosinone, è stata la pioggia che ha battuto la Ciociaria per 48 ore a causare il cedimento del terreno. L’autostrada è rimasta chiusa per alcune ore in direzione Roma sin dal casello di Cassino. Una coda di oltre 6 chilometri si è formata nel tratto compreso tra Ceprano e Frosinone. Sono intervenuti i vigili del fuoco, ma c’è vuoluto molto lavoro per rimuovere l’immensa mole di fango e detriti.
L’associazione denuncia che negli anni della crisi il potere d’acquisto degli italiani è calato di 570 euro procapite. Male anche nel 2011
L’ultimatum di Confcommercio Sangalli: i consumi continuano a crollare, serve un piano per la crescita di Francesco Pacifico
ROMA. Quasi seicento euro in meno all’anno per fare la spesa, scegliere le vacanze o rinnovare il guardaroba. Secondo Confcommercio è questo il conto che la crisi ha presentano ai consumatori. Dal Forum annuale di Cernobbio organizzato con lo studio Ambrosetti, il presidente dell’associazione, Carlo Sangalli, ha spiegato che «ciascun cittadino dispone oggi per i consumi, a parità di potere di acquisto, mediamente di 570 euro all’anno in meno rispetto al primo trimestre del 2007». Di conseguenza se il governo vuole basare la ripresa anche sulla domanda interna, «serve un grande impegno sul terreno della crescita». Ma le cose potrebbero anche peggiorare. Il centrostudi di piazza Belli ha stimato che a fine anno i consumi delle famiglie cresceranno dello 0,9 per cento contro il +1 registrato del 2010. Nel 2012, invece, si andrà verso un +1,5 per cento, rivisto al ribasso rispetto alla precedente previsione del +1,6. Il tutto in un contesto molto debole: il Pil del 2011 viaggia verso il +1 per cento, per poi salire al +1,2 nel biennio 2012-2013. Il bilancio è a dir poco amaro. Nelle conclusioni del rapporto La centralità dei consumi per il rilancio dell’economia italiana si legge che alla fine del 2014 i livelli di spesa non saranno ancora tornati ai quelli precedenti alla crisi. Senza contare che non porterà benefici il prossimo aumento del costo del danaro. Giorgio Napolitano ha chiesto di non abbandonare il settore. Anche perché «lo sviluppo economico e sociale dell’Italia deve molto alla capacità imprenditoriale, allo spirito innovativo, alla capacità di adattamento di tante piccole e medie imprese, che hanno rappresentato il tratto caratteristico del nostro tessuto produttivo». Per il presidente della Repubblica «non può mancare il supporto dei pubblici poteri per uscire dalle dimensioni individuali o locali e fare sistema». Oggi si attende la risposta dell’esecutivo a questo allarme, oltre che all’appello
Il leader di Confcommercio, Carlo Sangalli, ha lanciato un appello al governo per un settore che anche nei prossimi anni sentirà in maniera dirompente il peso della recessione. Soltanto dopo il 2014 l’Italia tornerà ai volumi di consumi precedenti alla crisi, recuperando il terreno perduto
del Capo dello Stato. A Cernobbio è attesa una folta delegazione governativa, guidata da Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi. E difficilmente il centrodestra può pensare di non affrontare i problemi di un mondo elettoralmente molto vicino a esso. Ma è una tegola in più tra gli obblighi internazionali imposti dalla situazione libica, l’assalto agli ultimi gioielli del capitalismo italiano da parte francese e un rimpasto di governo che ora dopo ora diventa sempre più complesso. Al riguardo, sembrano voler alzare il prezzo i Responsabili di Silvano Moffa e Domenico Scilipoti. Silvio Berlusconi ha fatto sapere che ha rinviato la chiusura del dossier alla settimana prossi-
ma, ma stanchi di questo tiro e molla e in attesa di avere il via libera alla nomina di Saverio Romano all’Agricoltura, ieri hanno annunciato che non entreranno nel governo, «ma decideranno di volta in volta come comportarsi al momento del voto». Proprio l’ex Idv Scilipoti ha annunciato che «lunedì ci riuniremo e martedì definiremo il programma che sottoporremo al Pdl e alla Lega. Se dovessimo trovare un accordo su questo si andrà avanti col discorso sull’organigramma di governo». Altrimenti «non ci sarebbe nessuna necessità di partecipare». In questo clima presenterà la proposta di organizzare gli Stati generali dell’economia e una piattaforma in dodici
punti. Perché «è tempo di riforme e di più crescita: questa è la governabilità di cui il Paese ha necessità. Non possiamo rassegnare a previsioni di crescita intorno all’1 per cento. Per questo opportuno un incontro tra governo e parti sociali sul Piano per la crescita e sul Programma nazionale per le riforme». In cima alla lista c’è la riforma del sistema fiscale e la riduzione della pressione fiscale. «Che non è certo un processo semplice, anzitutto per gli oggettivi vincoli di finanza pubblica, ma si vada avanti, chiarendone tempi e modi, tappe e stadi di avanzamento». L’obiettivo, va da sé, è sempre la crescita. In nome della quale le partite Iva chiedono attenzione «a quel terziario
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Duro scontro tra Cascini (Anm) e il Pdl sulla riforma della giustizia
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
ROMA. «Tenuto conto che appena una settimana prima della presentazione della riforma costituzionale sulla giustizia il Pdl ha definito gli uffici giudiziari di Milano avanguardia rivoluzionaria, a mio avviso questa maggioranza non ha la legittimazione storica, politica, culturale e anche morale per affrontare questo tema». È con queste dure parole che il segretario dell’Associazione nazionale magistrati ha attaccato il governo e la proposta di riforma della giustizia firmata dal Guardasigilli Alfano. «L’ipotesi di riforma costituzionale è una sorta di distrazione di massa» nei confronti di quanto sta avvenendo in Parlamento, ovvero la battaglia sul processo breve e «l’idea diffusa anche a sinistra secondo cui Berlusconi un po’ di ragione in fondo ce l’abbia, denota una subalternità culturale e politica a un tema declinato dalla destra. Dalla sinistra - ha aggiunto Cascini - vorrei una risposta realmente di sinistra». Per il
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
futuro, poi, l’invito del segretario dell’Anm è a «non farsi intrappolare dall’idea che dire no significhi essere conservatori». Immediata la reazione del Pdl: secondo Maurizio Paniz, le parole pronunciate dal magistrato sono incredibili. «L’indegnità morale - ribatte il membro della Consulta Giustizia del Pdl e capogruppo Pdl della giunta per le autorizzazioni a procedere - è di chi non sa rispettare i limiti del proprio compito».
Da sinistra, il segretario della Cgil Susanna Camusso, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e Carlo Rienzi del Codacons
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
che contribuisce al 58 per cento del Pil e al 23 per cento dell’occupazione». Come già nelle scorse settimane, non è mancata poi la richiesta di correzioni al federalismo fiscale. Perché «il buon federalismo, madre di tutte le riforme», ha affermato Sangalli, «dà responsabilità e migliora la qualità della spesa e per questo siamo favorevoli. Ma non ci convincono alcune scelte del federalismo municipale come la tassa di soggiorno e l’Imu sugli immobili commerciali che rischiano di appesantire il prelievo fiscale per le attività produttive».
Il settore chiede di non alzare l’Iva e un federalismo senza nuove tasse. Oggi la risposta del governo, che rinvia il rimpasto
In questa logica bocciato anche lo “scambio” tra più Iva e meno Irpef. «Dobbiamo, piuttosto, recuperare evasione sui consumi e l’inasprimento delle aliquote Iva non gioverebbe». Sul versante del turismo, invece, si suggerisce «un riallineamento delle aliquote. Il settore è una risorsa straordinaria dell’Italia che deve essere valorizzata. Questo è il Paese più bello del mondo, ma bisogna rafforzare la nostra competitività con gli altri correnti». Non lontano dalle ragioni dei commercianti Raffaele Bonanni. Il segretario generale della Cisl non si sorprende dell’allarme lanciato da Sangalli sui consumi. «La crescita non c’è e questo comprime il reddito da distribuire. In più la spesa pubblica sta crescendo a ruota libera, con sprechi, ruberie e inefficienze, senza che nessuno decida di frenarla».
Il numero uno di via Po ricorda che «abbiamo il secondo debito del mondo: l’unica soluzione è che l’intera classe dirigente collabori, mentre vedo che continua a prolungarsi lo scontro per lo scontro senza nessuna idea precisa». Diversa invece la ricetta del leader della Cgil. Secondo la quale le risorse per rimettere in moto i consumi possono essere recuperate «introducendo la patrimoniale sul modello francese ai patrimoni oltre gli 800mila euro. Una patrimoniale sui grandi patrimoni, non sui 12 Bot di un pensionato o sulla casa presa col mutuo». Ma su questo punto è ampia la spaccatura tra i sindacati. E i leader delle due principali organizzazioni, anche ieri a Cernobbio, hanno voluto sottolineare le tante differenze.
Bonanni, in contro tendenza rispetto ai padroni di casa, ha spiegato che «la riforma fiscale deve prevedere uno spostamento della tassazione dalle persone alle cose, altrimenti i consumi dei ricchi continueranno a crescere e i nostri rimarranno stagnanti o in flessione». Parole che hanno spinto la Camusso a definire «un errore spostare la tassazione dalle persone alle cose. Non avrebbe efficacia sul fronte della lotta all’evasione e soprattutto inciderebbe su prodotti e servizi a larga distribuzione e quindi pesando ancora su lavoro e pensioni». Le associazioni dei consumatori, intanto, considerano prudenti le stime di piazza Belli a dir poco prudenti. «La realtà è anche peggiore e la dimostrazione arriva dal calo dei consumi anche in settori di primaria importanza come gli alimentari», segnala Carlo Rienzi.
Il numero uno del Codacons attacca il terzo settore e sottolinea che «per far riprendere i consumi Confcommercio deve seriamente riflettere sulla necessità di una riduzione generalizzata dei listini da ottenere anche attraverso la liberalizzazione dei saldi». Altri numeri anche da Federconsumatori e Adusbef: «La contrazione del potere di acquisto delle famiglie dal 2007 a oggi è stata del 9,6 per cento», si legge in una nota. Adesso la parola passa al governo, che – Tremonti in primis – ci ha sempre tenuto a fare bella figura a Cernobbio.
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società È arrivata la sentenza definitiva della Corte di Strasburgo
unque la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo ha dato ragione al nostro Paese nella causa “Lautsi e altri contro Italia” sulla presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche. La sentenza della Grand Chambre, decisa con 15 voti a favore e due contrari, ribalta quella del 3 novembre del 2009 che aveva condannato l’Italia per violazione della libertà religiosa accogliendo il ricorso di una cittadina italiana di origine finlandese.
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L’Italia vince la sfida del crocifisso Dall’Europa sì all’esposizione a scuola: «Nelle aule non viola i diritti umani» di Riccardo Paradisi
La motivazione dei giudici alla sentenza è che non vi sono elementi che provino la supposta influenza sugli alunni dell’esposizione del crocifisso nelle aule. Eppure la vera notizia non è quella di una sentenza abbastanza scontata malgrado qualche malcelata ostilità verso il cattolicesimo che serpeggia nell’Unione europea. La notizia è che al crocifisso – simbolo di autosacrificio e non violenza per antonomasia – sia stato imputato e processato per lesione dei diritti umani. Una vicenda che approda a Strasburgo il 27 luglio del 2006 quando l’avvocato Nicolò Paoletti presenta il ricorso della sua assistita, Sonia Lautsi, cittadina italiana nata finlandese, disturbata dalla presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica frequentata dai figli. Lautsi ritiene infatti che la presenza della croce rappresenti un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e il diritto ad un’educazione e ad un insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori.La prima sentenza della Corte europea, quella del 9 novembre 2009, dà addirittura ragione alla signora Lautsi, con la motivazione che esisterebbe da parte
la storia del mondo... Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini».
In base ad argomentazioni
Radio Vaticana parla di «vittoria contro chi riteneva assurda la rimozione coatta del simbolo dalle aule scolastiche»
dell’Italia una violazione di norme fondamentali sulla libertà di pensiero, convinzione e religione. Una sentenza che il governo italiano impugna immediatamente domandando il rinvio del giudizio alla Grande Chambre della Corte, ritenendo a sua volta la sentenza 2009 lesiva della libertà religiosa individuale e collettiva come riconosciuta dallo Stato italiano. La Grande Camera, accetta la domanda di rinvio e dopo avere ascoltato le parti in causa stabilisce la sua decisione per il 18 marzo. A occuparsi della questione è stato in questi mesi il ministro degli esteri Franco Frattini che aveva inviato ai suoi colleghi dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa una lettera dove si spiegava e argomentava la posizione italiana in merito alla questione del crocifisso con l’obiettivo di poter ricevere un sostegno sul piano processuale da stati terzi a favore dell’Italia. Hanno risposto positivamente, intervenendo a favore nostro nel giudizio davanti alla
Corte, San Marino, Malta, Lituania, Romania, Bulgaria, Principato di Monaco, Federazione Russa, Cipro, Grecia e Armenia.
Che sia stato questo attivismo o il semplice buon senso a far pendere la decisione della corte suprema europea verso l’assoluzione dell’Italia dalla lesione dei diritti umani attraverso l’esposizione del crocifisso non è dato sapere. Ma certo ci vuole una certa fantasia a vedere nel crocifisso un simbolo di oppressione, considerando che appeso a quella croce c’è Colui che proprio in nome della libertà dal potere e per non piegarsi ad esso è salito sul patibolo. «Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule della scuola – scriNatalia Ginzburg veva sull’Unità nel lontano 1988 – ma il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte del-
simili Monsignor Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, prima di conoscere la sentenza di Strasburgo ha dichiarato: «Il crocifisso è un segno di civiltà anche se non lo si riconosce teologicamente, è uno dei grandi simboli dell’Occidente. In generale non sono favorevole al principio della cancellazione e della sottrazione dei simboli, se in futuro ci saranno altre tradizioni religiose in Occidente altrettanto significative di quella cristiana, penso che valga il principio dell’addizione». Alla notizia della sentenza Radio vaticana ha parlato esplicitamente di “vittoria dell’Italia”e dei Paesi che l’hanno appoggiata oltre che di tutti coloro che «ritenevano assurdo imporre la rimozione del Crocifisso dalle aule scolastiche». Soddisfatta naturalmente anche l’intera maggioranza di governo – «Mi auguro che dopo questo verdetto – dichiara il ministro degli Esteri Frattini – l`Europa torni ad affrontare con lo stesso coraggio il tema della tolleranza e della libertà religiosa». Ma anche ampi settori dell’opposizione festeggiano la decisione dell’alta corte: dall’Udc a una parte dello stesso Pd; persino l’Idv saluta con soddisfazione l’esito del processo europeo. «Una vittoria dell’Europa, il trionfo di una idea di laicità ricca, che non mortifica i simboli e le identità religiose, ma sa accoglierne il valore positivo» è invece il commento del presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero. «Finalmente un segnale positivo dall’Europa, che accogliendo l’idea di una laicità positiva, si muove in direzione del sentire popolare». Il pronunciamento di Strasburgo delude invece Massimo Albertin, il medico di Abano Terme che otto anni fa aveva iniziato con la moglie finlandese, Solile Lautsi, la battaglia legale contro il crocifisso nella scuola frequentata dai figli. Delusi con lui anche gli evangelici. Perplesso il rabbino capo di Roma Di Segni.
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
LA VITA IN BURLESQUE “Tournée” di Mathieu Amalric
di Anselma Dell’Olio ournée è un film di Mathieu Amalric, autore e protagonista te», ma non è così. Più volte vediamo un avventuriero dal carattere complicato Premio del film che ha vinto il premio per la regia a Cannes nel 2010. È stain cerca di riscatto, prendere l’occasione e smantellarla con le sue mani in ta una bomba al botteghino francese, ma potrebbe avere più diftempo reale. È opportunista e spavaldo, bugiardo impenitente, uno alla regia ficoltà all’estero, dove il regista è meno noto e il film senza scrocca soldi e spinte che non dice mai grazie, né tanto meno si a Cannes nel 2010, star. Joachim Zand (Amalric), ex produttore tv, torna in patria scusa per il panorama di rovine che lascia sul campo. Al il film su un impresario dopo una lunga assenza come impresario di una troupe contrario, si ripresenta sul luogo del delitto e chiede di spogliarelliste della New Burlesque - cinque donaltri favori, dopo aver puntigliosamente distrutto di una troupe di insolite spogliarelliste ne (e un uomo) autodidatte, orgogliose della lol’amor proprio dell’interlocutore che dovrebha una carica esplosiva di tutto rispetto. ro autonomia, con corpi generosi e affascinanbe aiutarlo. Amalric nei titoli si è cavallereti nella loro stravagante, sfacciata, sensuale imperscamente messo dopo le sue star, ma non vi è Dietro cui si può leggere eroismo fezione. Sono persone mature, con fallimenti alle spalle dubbio che il suo vero obiettivo è la figura del produtanarchico anticonformista con e, come Zand, in cerca di una seconda chance. Il retroterra tore, strafottente e spocchioso anche quando chiede aiuto elementi del miglior a gente che ha bistrattato e fregato in passato. Le sue «ragazdelle girls è appena accennato (ma impresso su corpi e visi) ma è ze», però, illuminano l’avvitamento coatto di un uomo esuberante, chiaro che Zand se l’era svignata lasciando dietro di sé terra bruciata e femminismo... scorticante, originale e dannato. macerie fumanti. Si è scritto che la sua caduta era «per ragioni mai chiari-
T
Parola chiave Timore di Sergio Valzania Blake, il nuovo uomo-macchina di Stefano Bianchi
SAGGI
A come amore (da Pompei a Jeff Koons) di Pier Mario Fasanotti
Attilio Piccioni, la scelta occidentale di Gabriella Fanello Marcucci Torna Pennacchi di “Mammut” di Maria Pia Ammirati
Al Luna Park con Caravaggio di Marco Vallora
la vita in
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Ricorda lo straziante e bellissimo Il padre dei miei figli di Mia Hansen-Love, basato sulla biografia di Humbert Balsan, produttore di canaglie d’essai come Lars von Trier; dopo il fallimento della sua Moon Film nel 2005 si è tolto la vita. Amalric dice di essersi ispirato a questo e altre fonti, tra cui il libro di Colette sulle sue esperienze di cabarettista che si esibiva nuda, L’envers du Music-Hall, e Assassino di un allibratore cinese. Nel film di John Cassavetes (1977), Cosimo Vitelli (Ben Gazzarra) è padrone di un locale di striptease. Zand, come Vitelli, porta la camicia sbottonata sul petto e quando ha qualcosa di intimo da dire alle ballerine, usa il microfono. Dall’autrice di Chéri, il regista ha preso l’affetto per donne fuori misura e fuori dei binari borghesi, che apprezza per l’attaccamento al lavoro, l’ordine e la pulizia che riescono a mantenere in vite zingaresche, e per l’indipendenza, la normalità e il buon senso di anticonformiste doc. C’è il femminismo migliore in queste spacciatrici di sensualità, come negli affettuosi e mai sentimentali ricordi di Colette, che celebra la liberazione da «mariti contrariati per la cotoletta troppo cotta». Se l’impresario s’azzarda a criticare le loro performance, le ballerine lo azzittiscono; ha solo pagato i biglietti aerei.Tutto il resto: copricapezzoli a elica, l’enorme pallone copritesta con scoppio orgasmico e tutto il resto, è roba loro e solo loro. Le ha scritturate così e il pubblico le adora; i suoi apprezzamenti può ficcarli dove non batte il sole (sono severi ma mai triviali). Da adulte, non rispondono nel merito (riconoscono l’insulto come un pretesto per dominarle) ma lo rintuzzano sul metodo, offensivo e maschilista.
La troupe è capeggiata (perché ha più spazio nella storia) da Mimi Le Meaux (la big blonde Miranda Colclasure), dalle burrose curve tatuate e gli enormi ventagli di piume; poi c’è Kitten on the Keys ossia Micio sulla tastiera (la bruna/rossa Suzanne Ramsey), stripper e pianista comica, Dirty Martini (Linda Maraccini, biondona), con il nome d’arte più spiritoso e le nappe rotanti sulle zizze, Julie Atlas Muz (Julie Ann Muz), discola impertinente, Evie Lovelle (Angela de Lorenzo) bruna e sinuosa, e Roky Roulette (Alexander Craven), unico artista maschio che si spoglia vestito da Louis Quatorze. Li incontriamo appena sbarcati in Francia per una serie d’ingaggi lungo la costa occidentale: Le Havre,Toulon, La Rochelle, Bordeaux, Nantes e Charente Maritime. Vediamo i fantastici (e autentici) numeri nei diversi teatri, un comico, carnale, variopinto rivisitato burlesque, che poi discende dal music hall gallico. (Amalric dice d’aver scelto le americane poiché «le francesi non hanno sense of humour», e la dialettica America-Francia, ottimismo naif contro cinismo perverso, è un sottotesto del film). anno IV - numero 11 - pagina II
Amalric ha organizzato un’autentica tournée per riprendere dal vivo lo spettacolo «fatto più per piacere alle donne che agli uomini» come dicono le pupe. Il pubblico femminile che accorre si sente legittimato (empowered si dice oggi) dall’allegro, spudorato carnevale di grazie femminili. Le loro forme materne e morbide sono lontane dalle immagini di donne levigate, toste, efebiche e ritoccate col photoshop, abitualmente propinate come modello unico universale. Il loro sexy show è più casto del sudato sesso simulato intorno al palo della lap dance; ottengono lo stesso risultato, ma con spirito e gioia di vivere. Le tifose gorgheggiano: «Ho rifatto il tuo numero per mio marito; è quasi svenuto dal piacere. Grazie!». Il ritorno in patria è tutt’altro che una marcia trionfale per l’impresario che sogna la risalita. La delusione più dolorosa per Joachim è il ritiro del teatro in cui lo spettacolo doveva debuttare nella capitale. Era l’esca che aveva convinto le sue dive a seguirlo in Francia, e per lui un rientro alla grande. Non ci riesce, perché prima di chiedere aiuto a suo fratello François, produttore tv anche lui, lo insulta («I tuoi programmi fanno schifo») e poi insolentisce Chapuis (Pierre Grimblat), il padrone del teatro che gli serve per lo show e al quale in passato ha dato dei bidoni. Con François (Damein Odoul) finisce a cazzotti e Joachim le prende, com’è giusto che sia. Non s’ammazza come Balsan, ma è causa del proprio mal come lo era l’elegante ex ragazzo di buona famiglia (a differenza di Zand sempre gentile e garbato, ma come lui fissato e frenetico) andato in rovina perché non esercitava sufficiente polso con i capricciosi autori che ammirava e subiva e che lo dissanguavano. Non sembra questo il difetto di Zand, anche se la sua soluzione per tutti i problemi, specie se si tratta d’insubordinazione della truppa, è comprare più champagne («Mettilo in conto alla mia camera» dice al suo assistente Ulysse - Ulysse Klotz - quando è a Parigi e le riottose ragazze vogliono fare le ore piccole invece di andare a dormire; «oppure in conto alla tua, tanto è uguale»). Come il suicida, però, è sempre attaccato al telefono, sempre in mezzo a guai finanziari, debitori incavolati e persone utili che ha mortalmente offeso. È proprio quello che succede con la funzionaria tv (ed ex fidanzata) che passa a trovare in clinica e dalla quale vorrebbe una mano. È appena stata operata per un cancro al seno («Me li hanno tagliati, zak. Il culo ce l’ho ancora intatto però», dice. Non proprio il momento per chiedere un favore). Lei gli domanda (si domanda) perché Joachim l’ha strapazzata. Lo amava, credeva in lui e per ringraziamento si era comportato come uno stronzo. La visita per chiedere aiuto a una ex appena uscita da un intervento devastante (e mai più rivista dopo averla strapazzata) è la ciliegina sulla torta dei suoi rapporti umani
burlesque bislacchi. È un padre disattento, distratto e spesso assente di due maschi di otto e dieci anni: Balthazar e Baptiste (Joseph e Simon Roth). Li va a prendere al bar sotto casa, dove la madre, che non lo vuole vedere, li ha lasciati. Il barman offre ai ragazzi dei panini e Zand li respinge offeso: «Offro ai miei figli una colazione vera», ma poi li porta in un fast food a papparsi Kentucky Fried Chicken (a Parigi!). Non hanno nessuna voglia di andare col padre, che non vedono da chissà quanto. Li porta in provincia dove la troupe non ha apprezzato l’improvviso abbandono, ma quando Baptiste si fa beccare dalla polizia in giro da solo di notte, decide di rispedirli a casa prima del previsto. A quel punto i pischelli sballottati non hanno voglia di tornare dalla mamma («Ci venga a prendere lei se le manchiamo tanto») ma il paparino niente; li mette sul treno da soli con imbarazzanti cartelli intorno al collo con nome e recapiti in caso d’emergenza o smarrimento. La sua vera famiglia, se ne ha una, è il lavoro, la sua ossessione.
TOURNÉE GENERE COMMEDIA, DRAMMATICO
DISTRIBUZIONE NOMAD FILM DISTRIBUTION
DURATA 111 MINUTI
REGIA MATHIEU AMALRIC
PRODUZIONE FRANCIA 2010
INTERPRETI MATHIEU AMALRIC, JULIE FERRIER, ANNE BENOIT, DAMIEN ODOUL
Amalric è un bravissimo attore (tre Cesar, gli Oscar francesi) che abbiamo amato in Il re e la regina e Racconto di Natale di Arnaud Desplechin (di cui è musa e alter-ego), Munich di Steven Spielberg e molto altro, ma è come protagonista di Lo scafandro e la farfalla che traccia un altro magnetico, brillante, egocentrico di talento, abbattuto dalla famigerata tegola in testa. In quel caso non era un fallimento, ma una sincope che lascia Jean-Dò Bauby, direttore rampante e donnaiolo, vigile e prigioniero dentro se stesso. Quello di Julian Schnabel era un film «di regia» come Tournée, e ha avuto lo stesso premio a Cannes. Il film di Amalric è episodico, un susseguirsi di piccoli eventi con effetto cumululativo, e un tormentone che ci affratella: Zand non sopporta l’inquinamento musicale onnipresente in bar, ristoranti, alberghi, ma farlo togliere è un’impresa. Con la crisi, i dipendenti sono paurosi. Ci sono siparietti sublimi: uno coinvolge una commessa che impreca e scaraventa confezioni di yogurt contro l’impresario che rifiuta di lasciarla spogliarsi per lui alla cassa del supermercato; poi un duetto con la cassiera di una stazione di servizio. Un rimorchio mancato malizioso e divertente è una scena che smaschera il roué, disarmato e spaventato da una donna disinvolta quanto e più di lui. Tournée è un film insolito, debordante fascino, fantasia, melanconia e un’energia esplosiva. I critici francesi hanno visto in Joachim un eroe anarchico in ribellione contro il conformismo, fissato con l’éternel feminin. Ma Zand delude le artiste promettendo la gloria a Parigi, dove non arrivano mai; Amalric ha offerto loro solo un giro nelle retrovie e alla fine le ha portate in trionfo sulla Montée des Marches a Cannes. Da non perdere.
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TIMORE erché dobbiamo temere Dio, se è infinitamente buono? In cosa consiste il timore di Dio che da tante parti e così di frequente siamo invitati ad avere? Il cristianesimo è una religione positiva, della liberazione dalle paure, basata sulla promessa di una vittoria già ottenuta sulla morte attraverso la resurrezione del Cristo, evento che il vangelo di Giovanni ci avverte avere una dimensione che trascende la nostra esperienza fisica, dato che è «per mezzo di lui che tutte le cose sono state create». Papa Giovanni Paolo II scelse come motto del suo pontificato il celebre «Non abbiate paura» e prima di lui Cristo aveva rassicurato i suoi discepoli con le bellissime parole «Non temere piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto darvi il suo regno» (Lc 12,32). Eppure pochi capoversi prima di questa frase tanto rassicurante troviamo un’ammonizione più complessa, relativa al timore e alla direzione verso la quale è opportuno indirizzarlo: «Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono più far nulla, temete invece “Colui che dopo aver ucciso ha il potere di gettare nella Geenna”» (Lc 12,5). Sembra che in questo caso Gesù si riferisca proprio a Dio Padre per segnalarlo come motivo di un timore giustificato. Il senso del versetto pare confermato dalla frase successiva «Sì, ve lo dico, temete Costui» (Lc 12,5).
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L’invito non potrebbe essere più chiaro e si rifà a una tradizione sapienziale antica e consolidata, che ha prodotto decine di ammonizioni a temere il Signore. Nel Libro dei Proverbi il concetto è ripetuto di frequente, in forme diverse ma fra loro collegate in maniera stretta. «Il timore del Signore prolunga i giorni» (10,27); «nel timore del Signore è la fiducia del forte» (Pr 14,26); «con il timore del Signore si evita il male» (Pr 16,6). Il libro del Siracide è forse persino più ricco di raccomandazioni in questo senso. «Il timore del Signore è gloria e vanto» (Sir 1,9); «il timore del Signore allieta il cuore» (Sir 1,10); «nulla è meglio del timore del Signore» (Sir 23,27). Riferendosi a Sion, Isaia avverte che «il timore di Dio è il suo tesoro» (Is 33,6). La tradizione si trasmette dal Vecchio al Nuovo Testamento nel Magnificat, quando Maria dice «di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono» (Lc 1,50), che la Bibbia di Gerusalemme collega al versetto 17 del Salmo 103 «la grazia del Signore è da sempre, dura in eterno per quanti lo temono». Quindi il timore di Dio è una inclinazione positiva, da coltivare dentro di sé, che non va confusa con la pura e semplice paura. Fra i due sentimenti esiste uno scarto, una distanza. Il timore di Dio non deve essere accostato alla preoccupazione di ricevere una punizione, come scolari impreparati e timorosi di essere scoperti dal maestro e messi in castigo dietro la lavagna. Non penso neppure che il senso dell’emo-
Nelle Scritture è un concetto a cui si accosta sempre un’inclinazione positiva: fiducia, gloria, grazia, misericordia. Non a caso il motto del pontificato di Karol Wojtyla è stato «Non abbiate paura»
In confidenza con Dio di Sergio Valzania
Credere nel Signore è un’operazione razionale alla quale non si associano immediatamente delle emozioni. Temerlo è piuttosto un fatto fisico, quasi animalesco, è il rendersi conto della presenza di un essere superiore e sentirsi mancare il respiro per questo. La sensazione è la stessa dell’amante che vede giungere l’amato zione positiva individuata con tanta insistenza dalle scritture vada ricercato in un’area semantica prossima al rispetto. Non c’è niente di formale nelle ammonizioni bibliche a riguardo. Preferisco allargare la ricerca ai territori che collegano la filologia alle religioni arcaiche. Nel panteismo greco-romano Pan è la divinità agreste, ancora primitiva, suona una siringa di canna, ricordo di un’avventura erotica mancata. Nella calura del mezzogiorno estivo la presenza del dio, secondo gli antichi, si avvertiva in modo molto for-
te e produceva il timor panico, la paura di Pan, sentimento irrazionale suscitato dal confronto immediato con la natura e la sua misteriosa immensità. L’aggettivo panico si è trasformato in sostantivo per significare proprio la paura immotivata e incontrollabile. In un grande romanzo di fantascienza, Guida galattica per autostoppisti, Douglas Adams dà al timore panico una dimensione universale. Con la visione profetica del grande letterato, con quaranta anni di anticipo prevede l’esistenza degli e-book e immagina
che lo schermo dell’apparecchio che contiene l’Enciclopedia Galattica, sintesi caotica di ogni possibile sapere, si accenda facendo comparire la scritta Don’t Panic, il wojtyliano «Non abbiate paura». Il timore del mistero esiste ed è dovunque, è parte dell’esperienza umana e gli antichi collegavano alla presenza del dio la manifestazione di questo sentimento. Credo che il senso che la locuzione timore di Dio intende esprimere non sia lontano da qui. Ossia dall’essere consapevoli che «a prolungare i giorni» e ad «allietare il cuore» è la consapevolezza dell’esistenza di Dio e della sua presenza immanente. Anche se per alcuni aspetti i due concetti appaiono sovrapponibili, temere Dio è qualche cosa di più caldo e coinvolgente che credere in Lui. La sfumatura sta nella sensibilità di ogni persona e anche nel contesto culturale nel quale essa è inserita. Credere in Dio è un’operazione razionale, che vediamo collocata nella testa dell’uomo, attività mentale e astratta, alla quale non si associano immediatamente delle emozioni. Temere Dio è piuttosto un fatto fisico, quasi animalesco, cardiaco, è il rendersi conto della presenza di un essere superiore e sentirsi mancare il respiro per questo. La sensazione fisica è la stessa dell’amante che vede giungere l’amato. Una consapevolezza di questa natura, la cui intensità può raggiungere la violenza estatica narrata da santa Teresa d’Avila, è la base migliore per la costruzione di un atteggiamento religioso, quando non ne è addirittura il fine, poiché quello che Dio invita l’uomo a fare è proprio amarlo come lui per primo ci ama. Se il timore di Dio è la capacità di percepire con tutto il proprio essere la presenza divina esso è il punto di arrivo di ogni approccio spirituale o mistico. Per i buddisti l’illuminato è colui che è entrato in contatto diretto con l’essenza della realtà, dopo aver superato la barriera dell’apparenza. Ha raggiunto il timore di Dio e quindi, come ammonisce il Cristo, non teme nulla. A questa interpretazione segue la consapevolezza che al timore di Dio ci si possa, e quindi ci si debba educare, dato che non si tratta di una qualità fisica, come l’altezza o il colore degli occhi. Al contrario, la capacità di percepire la presenza di Dio, di riconoscere, di confessare la propria piccolezza di fronte al Creatore, o anche solo alla creazione, passa attraverso una presa di coscienza faticosa. Il passo ulteriore, l’ultimo, quello più difficile, consiste nell’accettare con abbandono l’amore di Dio. Alla fine dell’episodio della trasfigurazione Dio si manifesta in una nuvola luminosa e parla a Pietro, Giacomo e Giovanni, che «caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore». Gesù «si avvicinò e, toccatili, disse “Alzatevi e non temete”» (Mt 17,6-7). Il Cristo è le Via attraverso la quale Dio entra in confidenza con l’uomo.
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Pop
musica
LE COSE BELLE di Yorke & soci di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi giudicarlo dalla foto, pensavo d’essermi imbattuto nell’ennesimo, melenso cantautore di belle speranze: vocina, chitarrina e via andare, verso dove non si sa. Poi l’ho osservato sulla copertina del suo primo album: ritratto fuori fuoco, e la testa che vibra su se stessa. Mi sono detto: meglio dargli un ascolto, non si sa mai. E non solo ho scoperto che il ragazzo ha una gran bella voce, ma padroneggia l’elettronica ai massimi livelli. James Blake, incidendo James Blake, ha dato vita al nuovo capitolo del romanzo uomo-macchina. Dopo i Kraftwerk e Laurie Anderson mi pare logico nominare proprio lui, che si porta appresso quella faccia timida e pettinata da giovane Rupert Everett. Ventidue anni, londinese, James Blake è produttore, musicista e disc jockey. Se cercate ulteriori informazioni via web, scoprirete che a sei anni ha iniziato a studiare pianoforte e che ha frequentato il corso di Popular Music alla Goldsmiths University di Londra. Influenzato dalla musica nera di Stevie Wonder, Sly & The Family Stone e D’Angelo, si è dato all’elettronica dopo aver scoperto il duo Digital Mystikz specializzato in dubstep (estremizzazione underground della dance music) e apprezzato le scarne atmosfere dei concittadini XX. Air And Lack Thereof, il primo extended play, lo pubblica nel 2009; seguono, nel 2010, The Bells Sketch, CMYK, Klavierwerke e il singolo Limit To Your Love, rivisitazione dell’omonimo brano della cantautrice canadese Leslie Feist che James riempie di calde intonazioni, bassi profondi e un battito elettronico figlio del trip-hop. Il pezzo, che ovviamente fa la parte del leone in questo disco, dà già l’idea di come si muove il buon Blake: fra il ritmo sincopato del 2step indurito nel grime, certe atmosfere dark dei Massive Attack, il minimalismo dei Portishead, il camaleontismo di Björk, le inquietudini di Thom Yorke
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A
Jazz
zapping
Blake, il nuovo uomo-macchina
(Radiohead) ai tempi di Amnesiac. Al primo impatto, robotico e disturbante, James Blake non è un disco di facile assimilazione. Ma poi, ascolto dopo ascolto, arriva persino a farsi romantico, «da camera», svelando un cuore di purissima soul music e angeliche inflessioni gospel. Il tutto, giostrato da una voce talmente duttile e malleabile da farsi saturare dal vocoder (succede in Unluck, il pezzo d’apertura per pianoforte e ritmo elettronico fuori sincrono) o da esordire nuda, per poi stratificarsi in I Never Learnt To Share. O ancora, da somigliare come una goccia d’acqua al canto efebico di Antony Hegarty: negli anfratti jazz di Give Me My Month, nella crudezza espressiva di Why Don’t You Call Me. Che il ragazzo abbia coniato il gospel del Ventunesimo secolo, lo testimonia la delicatissima e accorata Measurements. E che nutra
una sincera passione per il soul (purché sia minimalista), lo dimostra The Wilhelm Scream avvitandosi attorno a un’unica strofa. Lindisfarne I e Lindisfarne II, invece, si attorcigliano sulla voce campionata (alla maniera di Laurie Anderson, all’epoca di O Superman) e sviluppano un folk di ghiaccio che ricorda Simon & Garfunkel, ma opportunamente ibernati. E se To Care (Like You), accigliato triphop, se la gioca alla pari col repertorio noir di Tricky, le sperimentazioni vocali di I Mind si fondono con un battito elettronico che imita le tablas indiane. Tenetevi liberi, il 21 aprile, per l’unica data italiana di questo incredibile talento: a Milano, Lambretto Art Project, ingresso libero fino ad esaurimento posti. James Blake, James Blake, A&M/Universal, 16,99 euro
a cosa bella dell’ultimo King of limbs dei Radiohead è che finalmente, in tempi di Arcade Fire che impazzano (e che il 7 maggio vedremo a Milano), abbiamo la possibilità di sentire un po’ di musica originale, non postqualcosa, ma invece frutto di una sentita ricerca. La cosa bella di Kol dei Radiohead è che ritorna Thom Yorke, con il suo occhio rappezzato dagli interventi chirurgici da bambino, con la sua solitudine di paranoide non androide, con le sue vacanze con famiglia in treno in Italia, con la sua voce alta, e con il suo odio per le risoluzioni armoniche. I brani del gruppo sono un lento sprofondo in cui ogni riposo sulla tonica viene eluso. La cosa bella di Kol dei Radiohead è anche la questione distribuzione. Già il disco precedente (In Raimbows) era disponibile solo sul sito del gruppo, a donazione libera. Visti i risultati l’ultimo è sempre disponibile solo sul sito (niente iTunes, Amazon ecc. ecc.), ma questa volta a pagamento. La cosa bella di Kol dei Radiohead è leggere le recensioni al disco. Quasi tutte parlano di minimalismo, della necessità di diversi ascolti per apprezzare l’ultima fatica di Yorke e soci. Molto viene risolto in chiave di mistero, quindi non viene risolto. E infatti cominciano a girare voci sul contenuto del cd, che sarà disponibile solo dal 9 maggio 2011. Ci saranno nuovi brani? I Radiohead stanno registrando ancora? Cosa succederà? Ma da parte nostra, apprezzata la ricerca e il genio per il marketing di Yorke, apprezzato tutto l’apprezzabile, il bello di The king of limbs è che per disperazione uno finisce per riprendere Ok Computer, il grande classico del gruppo del 1997. Potenza dei classici e della santissima riproducibilità tecnica.
Italiani al “Forma e Poesia”: il talento di Andrea Pozza opo mesi di assenza, il jazz sembra aver fatto una timida ricomparsa nella Capitale. Questa sera infatti Mickey Rocker, batterista nato a Miami settantanove anni fa, suonerà all’Alexander Platz. Rocker che nel corso della sua lunga carriera è stato a fianco di molti grandi del jazz da Mary Lou Williams a Milton Jackson, Sonny Rollins e soprattutto Dizzy Gillespie, è uno di quei batteristi cresciuti nel mito di Kenny Clarke, Art Blakey e Max Roach senza però raggiungere il loro livello. Quella di questa sera è però un’occasione per ascoltare uno degli ultimi esponenti del jazz classico, ancora in attività. Assai diversa invece la situazione a Milano, dove nel corso di questo mese si è potuto assistere a vari concerti di Uri Caine, Joe Lovano, Tuck and Patti, questa sera al Blue Note, mentre da martedì 22, per tre giorni, sarà ospite, sempre al Blue Note, l’ormai celebre jazz club mi-
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di Adriano Mazzoletti lanese, la cantante Dee Dee Bridgewater. Ma non solo, negli ultimi giorni di marzo il club ospiterà concerti di Larry Coryell e Stanley Jordan. A Cagliari invece è stata inaugurata giovedì scorso la XIV edizione di Forma e Poesia nel Jazz dedicata quest’anno al jazz italiano. Fino al 7 maggio al Teatro Massimo saranno presenti alcuni fra i giovani musicisti che hanno dimostrato qualità straordinarie, il sassofonista Francesco Cafiso, il pianista Dino Rubino, il sassofonista Francesco Berzatti, il trombonista Gianluca Petrella, il
sassofonista Sandro Satta che suonerà con Famoudou Don Moye - batterista ex Art Ensemble of Chicago - e ancora Fabrizio Bosso, Rosario Bonaccorso, Andrea Pozza e molti altri. Quest’ultimo ha pubblicato per l’etichetta Dejavu due dischi particolarmente riusciti. Nel primo, con Aldo Zunino al contrabbasso, Sagoma Everett alla batteria e il cantante Alan Farrington, sono compresi cinque brani di sua composizione (Drop that Thing, Like in Nigeria, How Do You Can Call It, Sir Pent, Push the Pedal) da cui risulta la sua ca-
pacità di costruire temi di grande musicalità.Nel secondo disco, recentissimo, Pozza conferma la sua intelligenza e sensibilità nella difficile arte della composizione, ma anche nella capacità di dare una veste nuova e personale a temi che appartengono al grande repertorio, come Blue Daniel di Frank Rosolino, Children Games di Antonio Carlos Jobim e il celebre The Duke di Dave Brubeck. Infine una notizia che riguarda Roma. Giovedì 14 aprile sarà inaugurato uno nuovo spazio per il jazz. È la Domus Talenti, un ex convento che si trova al 113 di via Quattro Fontane, dove ogni giovedì avranno luogo concerti, proiezioni di cortometraggi sul jazz e conferenze a tema. Un modo nuovo per ascoltare e parlare di jazz e tutto ciò che a esso è collegato. Andrea Pozza, Drop this thing, Dejavu; Blue Daniel, Dejavu
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arti Mostre
aravaggio, sempre e solo Caravaggio, basta Caravaggio, non se ne può più (anche se poi finiamo di parlarne pure noi, speriamo con costrutto polemico). E anche se è pur sempre il grande e temerario Caravaggio. Ma bisogna vedere quale «prodotto-Caravaggio» ci viene poi propinato, raschiando il barile (con ogni assessore regionale che vuole la sua particina di torta-Caravaggio). Sarà pure l’anno-anniversario (e ci permettiamo anche di non ricordare quale, nel bailamme delle date che mutano, vorticando e scambiando talvolta dati biografici, anche decisivi) ma non è sensato dover subire questi continui «attacchi» espositivi, che deprimono l’artista, lo insultano, come minimo lo svalutano, sfruttandone il cosiddetto (parola orrenda) brand. Il marchio pubblicitario, come d’un boxer malizioso o d’una scarpa da ginnastica, pittorica. E traviano, soprattutto, a quanto pare, il pubblico, che però ogni volta cade nella trappola del nome acchiappa-allodole. Anche se poi, divenuto ragionevole giocoforza, finisce per non prestarsi più alle truffe. Magari penalizzando mostre più serie, non appariscenti e spettacolari o gonfie di finte-tele, ma importanti soprattutto filologicamente, documentariamente, come quella in corso all’Archivio di Roma, che permette di spostare in modo decisivo le date d’arrivo di Caravaggio a Roma, dopo il fondamentale apprendistato «naturalistico» in Lombardia. E soprattutto non subito nella bottega del Cavalier d’Arpino, come si pensava sino a poco tempo fa, a macinar dettagli di nature morte, magari anche nelle tele d’altri colleghi, ma bensì nell’oscura bottega d’un pittore minore, d’origine siciliana (curioso incrocio di sughi stilistici). Peccato solo che in mostra a Sant’Ivo non ci sia nemmeno un esempio di pittura di questo poco noto Lorenzo Cardi (che avrebbe
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Architettura
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Al Luna Park con Caravaggio di Marco Vallora permesso di capire molte più cose) mentre c’è un ritratto di papa Borghese del Caravaggio, ancora sub judicio. E per fortuna ch’era uno scapestrato sul serio, e non simulava delitti mediatici tipo soap opera televisiva, ma gli assalti li faceva davvero, e rubava pure i mantelli dei feriti sui luoghi del crimine, così veniva arrestato, e per fortuna le deposizioni dei suoi sodali di meren-
de rissose, o dei suoi rivali, invogliati a deporre, ci permettono di conoscere molte più cose sul suo modo di vivere e di rapportarsi alla pittura e agli artisti, grazie ai verbali di polizia, che non alle elucubrazioni tendenziose degli storici dell’arte coevi.Vasari dunque sostituito dagli inquisitori dell’epoca: tenendo poi conto che il suo biografo Baglioni o il Bellori avevano rancori in sospe-
so con lui, dunque meglio dar fiducia a un garzone-testimone di vita, più fresco, sincero e ciarliero, che non a un tecnico partigiano. Già, è proprio sulle incredibili mostre «virtuali», sparse per l’Italia (volere e non potere?) che vorremmo fermarci, perché ci pare un discorso estetologicamente (che parola sontuosa) interessante. Incredibile, infatti, che l’artista più realistico e concreto, plastico e tattile che ci sia, sino a darti l’illusione tangibile di poter toccare con gli occhi e le dita le foglie, i pampini, i pani, gli elmi e i monili, che vivono e respirano nella sua pittura quasi a trompe l’oeil, debba subire poi questo contrappasso grottesco, quest’inganno, davvero da truff’occhio, che però pare disneyanamente incontrare la gioia del pubblico. E infatti queste stesse mostre negative, ahimè, vengono prorogate e prorogate. Ahimé, perché non sono poi così educative. Si prenda per esempio quella di Milano, a Palazzo della Regione, ove si mostrano, simulando, tutti i suoi più o meno autorizzati capolavori, epperò soltanto ingranditi a fotografia, quasi immaginando una fruttuosa pinacoteca esclusiva e integrale della sua arte contraffatta. O quella di Roma, ove si fa ancora di peggio, ricostruendo in stile Museo delle Cere, ma in modo molto molto rudimentale e paesano (cinecittà de’ noantri) il suo immaginario atelier. Da non credere, ma meglio vedere, per credere. Ma un conto è leggere certi documenti, interpretare certe letture d’epoca, incontrare delle descrizioni affascinanti, un conto esser buttati dentro queste contraffazioni da luna park, che sono imperdonabili, in un luogo serio come Palazzo Venezia. E un titolo così ambizioso come: La bottega del genio. Ci spiace, ma il discorso è troppo serio per non doverlo affrontare in un’altra puntata. E così Caravaggio vince ancora un volta!
Tecnica, scienza e bellezza al museo dei Fiori di vetro Harvard Museum of Natural History a Boston è il museo più visitato della prestigiosa città universitaria nordamericana. Esso raccoglie ed espone le raccolte di zoologia comparata, di mineralogia e di botanica, formatesi in special modo nell’Ottocento, per uso scientifico e soprattutto didattico, in funzione dei corsi di studio universitari rivolti alle scienze applicate. Alla fine del secolo scorso le antiche collezioni scientifiche furono raggruppate e riallestite secondo i criteri moderni della museografia, per mostrare a un pubblico più vasto e non necessariamente specializzato, gli innumerevoli reperti e manufatti delle collezioni universitarie, fino ad allora riservate a studenti e professori. Lo spazio espositivo è stato sistemato nel medesimo edificio che ospita anche il Peabody Museum of Archaeology and Ethnology. Si tratta di un imponente palazzo costruito nel 1859 dagli architetti Henry Greenough e George Snell, con i tipici mattoni rossi della tradizione locale, che conserva i modi e il gusto coloristico dell’edilizia olandese sei e settecentesca. All’interno dell’edificio ottocentesco, improntato a
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di Marzia Marandola un sobrio eclettismo rinascimentale, è conservata ed esposta per parti, in periodica rotazione, una delle più sorprendenti raccolte erbarie esistenti. Si tratta di un campionario di 4.400 modelli tridimensionali di specie botaniche con inflorescenze plasmati in vetro fuso e soffiato, talvolta rinforzato da invisibili fili metallici. Il naturalismo davvero iperrealistico dei colori di fiori, foglie, pistilli e radici, riprodotti a grandezza naturale, è tale da indurre in inganno anche l’occhio più allenato. In un suggestivo ambiente in penombra, che deve salvaguardare la qualità dei fiori di vetro, sono disposte stilizzate vetrine orizzontali e verticali, che mostrano le meraviglie cromatiche e morfologiche delle piante, letteralmente cristallizzate in una fioritura perenne. Questa stupefacente collezione, nota come «i fiori di vetro di Harvard», nacque nella seconda metà dell’Ot-
tocento dall’esigenza didattica del direttore dell’Orto Botanico di Harvard, George Goodale che, insoddisfatto dei tradizionali erbari, dove i fiori disseccati, erano ridotti a due dimensioni, volle modelli pienamente tridimensionali, analoghi a quelli in uso per studiare il mondo animale. Proprio dall’osservazione di alcuni modelli di invertebrati modellati in vetro da due abilissimi artigiani di Dresda, Leopold Blaschka e suo figlio Rudolf, gli venne l’idea di trasferire all’universo botanico quella stessa tecnica di rappresentazione a tutto tondo. Nel penultimo decennio del XIX secolo iniziò così un intenso scambio, destinato a durare circa cinquant’anni, tra Harvard e Dresda, dove i due Blaschka ricostruirono con meticolosa e fedelissima passione un fittizio mondo botanico, più vero del vero e destinato, nonostante la fragilità della materia, a una secolare freschezza di vita. Un’impresa di questa natura e di così lunga durata ha richiesto naturalmente capitali ingenti che, come è nella più nobile tradizione americana, furono messi a disposizione da privati cittadini. Nel caso specifico da due private cittadine bostoniane Elizabeth C. and Mary Lee Ware, madre e figlia che, in ricordo del rispettivo marito e padre, dispensarono una ragguardevole fortuna per arricchire il patrimonio scientifico di Harvard, ma anche per offrire al mondo una portentosa fusione di tecnica, scienza e bellezza.
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il paginone
Segretario della Democrazia cristiana nel ’48, la sua opera fu decisiva per l’esito elettorale del 18 aprile che segnò per sempre il destino del nostro Paese. Una biografia, appena edita da liberal, ripercorre la vicenda umana e politica di un padre dimenticato della nostra Repubblica: dal suo primo impegno nel dopoguerra a Torino, come assessore al Lavoro, agli ultimi incarichi come riconosciuto garante della scelta occidentale di Gabriella Fanello Marcucci Pubblichiamo un brano tratto dal IV capitolo del libro “Attilio Piccioni - La scelta occidentale” (liberal edizioni , 528 pp., 22 euro).
alla definitiva chiusura della Costituente al temine della campagna elettorale intercorrono poco più di settanta giorni. La campagna elettorale si preannuncia quindi serrata e con forze combattive in ogni settore politico. La scena internazionale è ormai molto mutata dalla fine della guerra e l’accordo tra i «tre grandi», come è noto, si è trasformato nella «guerra fredda» che sempre più divide il mondo in due blocchi, l’Ovest sotto l’influenza degli Stati Uniti, l’Est sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. E mentre in Occidente i diversi Paesi - anche l’Italia che è un Paese vinto - stanno ricostituendo gli istituti democratici, in Oriente nei Paesi dell’Est dell’Europa, anche laddove il Partito comunista ha ottenuto nelle elezioni solo posizioni di minoranza, l’Unione Sovietica guida l’assunzione autoritaria del potere.
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In Italia, sebbene l’informazione dai Paesi dell’Est non giunga che filtrata, si comincia ad avere la netta sensazione della dipendenza dei socialcomunisti dagli ordini di Mosca. Il ricordo della dittatura fascista e del dominio nazista è ancora vivo nella memoria degli italiani e la libertà riconquistata è vista come un bene inalienabile. Subentra il timore che una eventuale vittoria delle sinistre possa far ripiombare l’Italia in un’altra dittatura, addirittura più dura e più cupa di quanto non lo sia stato il fascismo. D’altra parte Togliatti e Nenni non fanno niente per fugare questa sensazione. Stringono un patto elettorale che dà vita al «Fronte Democratico Popolare per la Libertà, la Pace, il Lavoro» che assume come simbolo elettorale la testa di Garibaldi; stilano perfino una sorta di statuto di quel Patto, nel tentativo di far credere anno IV - numero 11 - pagina VIII
agli elettori di aver dato vita a una formazione politica autonoma. Ma il loro linguaggio rimane duro, il loro atteggiamento - specialmente in alcune zone d’Italia - appare quello della prevaricazione e della violenza. I socialcomunisti pongono l’accento sulla giustizia sociale che, a loro dire, regna nell’Unione Sovietica. Dimenticano però che in Italia, pur permanendo vivi e numerosi i problemi sociali, si cominciano a vedere - anche grazie agli aiuti americani - degli spiragli di ripresa e si comincia a nutrire la speranza di poter presto uscire dall’emergenza. Di fronte a tutto questo la Democrazia cristiana, con la segreteria politica di Piccioni, offre un atteggiamento pacato che non nasconde il timore condiviso da parte della maggioranza degli italiani di un pericolo che viene dall’Est, ma si offre di affrontarlo, attraverso il concorso determinante degli elettori, con la forza della democrazia. (…) Negli italiani si diffonde dunque la sensazione di trovarsi di fronte a un bivio. Da una parte c’è una realtà che, pur tra molte difficoltà, appare in cammino verso tempi migliori: è quella interpretata dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati che si estrinseca nel governo in carica. Dall’altra ci sono le promesse
Attilio Piccioni pagna elettorale della Democrazia cristiana. Ma al di là delle impressioni, c’è invece in quel periodo, un’azione sapiente e psicologicamente raffinata, da parte delle Democrazia cristiana guidata da Piccioni. Quest’azione si costruisce sulla conoscenza ambientale che il segretario politico ha raggiunto negli anni di presenza al vertice del partito. Nel momento della campagna elettorale del ’48 sono infatti quasi tre anni che egli si occupa a tempo pieno del partito, dapprima come vice segretario politico, con un ruolo che può essere definito «vicario» e poi in prima persona come segretario
Nel libro (di cui anticipiamo un brano) l’autrice cede spesso la parola all’uomo politico, riproducendo testualmente i suoi interventi per mettere in contatto i lettori col suo pensiero acuto, spesso premonitore che, alla fine dei conti, indicano come meta il paradiso sovietico, la cui positività è tutta da verificare e desta anzi molti interrogativi. Alla Dc si affiancano, nella campagna elettorale, i Comitati Civici organismi nati nell’ambito dell’Azione cattolica (promotore e presidente ne è Luigi Gedda, vice presidente centrale della stessa Azione cattolica, che si dice abbia
avuto una sollecitazione in tal senso dal pontefice) con lo scopo di sostenere il partito in quella che viene definita una «battaglia di civiltà». La loro presenza si avverte soprattutto in un’intensa campagna murale condotta attraverso manifesti di particolare efficacia (…) che nella memoria collettiva rimarrà maggiormente impressa, a proposito della cam-
politico dal settembre 1946. In questo lungo periodo Piccioni pur svolgendo come si è visto intensamente il suo compito di deputato costituente - ha costruito un proprio «modello» di partito, non accentrato, ma anzi fortemente decentrato, nel quale tutti i dirigenti periferici sono corresponsabili. Si potrebbe definire un partito coordinato e condiviso,
nel quale il maggior peso, forse, non l’hanno tanto le strutture centrali (consiglio nazionale e direzione), ma piuttosto i contributi di conoscenza che vengono da coloro che, vivendo a contatto quotidiano e attento con le diverse realtà sociali del Paese, possono meglio di ogni altro descriverne i problemi e le esigenze e valutarne gli orientamenti. Un partito così costruito, la fiducia reciproca che lega i segretari provinciali e regionali al segretario politico, hanno come risultato una potenzialità operativa particolarmente efficace. In sintesi, quella che affronta il difficile confronto elettorale del 1948 da parte democristiana, può essere definita una macchina complessa ma sapientemente coordinata. (…)
Nei giorni della campagna elettorale Piccioni si divide tra piazza del Gesù e le diverse località d’Italia dove si reca a tenere comizi e discorsi. Dosa attentamente i suoi interventi, resistendo alla richieste di coloro che chiedono insistentemente di ascoltare la sua parola. Egli sa, infatti, quanto sia importante la sua presenza a Piazza del Gesù, al suo posto di «comando», nel suo ruolo di «regista». Il 1° marzo egli parla a Genova, al Palazzo Ducale. Esordisce ricordando il punto di forza della nuova Italia: «Le lotte dei venti anni trascorsi e la
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L’ultimo appello agli elettori di Attilio Piccioni oi sapete bene che il Fronte vuol dire comunismo, vuol dire bolscevismo sovietico, vuol dire dittatura, cioè negazione di ogni libertà e di ogni democrazia. Volete le prove di questa affermazione? Ebbene, sono lì, chiare, evidenti, lacrimanti in tutti i Paesi di Europa dove il comunismo, attraverso l’espediente del fronte democratico si è insediato al potere. Le prove? Ma le offrono, insieme a noi democristiani, il socialismo libero e democratico, gli spiriti indipendenti di tutto il mondo. Cittadini, elettori ed elettrici che amate la libertà e la democrazia, non votate, dunque, per il Fronte. Io sono sicuro che voi volete la ricostruzione economica del nostro Paese, il riassetto del nostro apparato produttivo, una più vasta opera di impiego, di lavoro. Di lotta contro la disoccupazione; un più alto livello di vita per tutti, specialmente per le classi lavoratrici. Ma per ottenere tutto questo non bastano le nostre risorse, né quelle delle altre Nazioni libere di Europa a noi collegate: sono necessari gli aiuti americani razionalizzati attraverso il Piano Marshall. […]. Ma il Fronte cosiddetto democratico popolare non gradisce gli aiuti americani, non vuole il Piano Marshall perché la Russia non li vuole, reputandoli contrari alla sua volontà di espansione e di conquista dell’Europa. Ma non basta: degli aiuti americani del Piano Marshall non possono, per evidenti ragioni di libertà e di difesa
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democratica, beneficiare i Paesi dominati dai comunisti. Sarebbe troppo pretendere di spianare l’avanzata russa in Europa con gli stessi aiuti americani. Elettori ed elettrici che volete la ricostruzione economica del Paese, che aspirate a un migliore tenore di vita e paventate la fame, non votate, dunque, per il Fronte. Io sono sicuro che voi, come noi democristiani, volete la pace, odiate la guerra, deprecate la guerra. Ma domandiamoci: da quale parte viene un pericolo di guerra? Dall’Occidente no. Dagli Stati Uniti no, essi tendono alla ricostruzione economica dell’Europa, la sola base vera della pace e dell’indipendenza. Non viene forse dall’Oriente e dalla Russia, dove - contraddicendo ogni mèta di elevazione, di liberazione umana e sociale - si è scatenata la più sfrenata volontà di espansione e di conquista; dove la teoria dello spazio vitale trova la più fredda e implacabile applicazione? Sono dodici le Nazioni, già libere e indipendenti costrette con la violenza e con la frode a subire il dominio imperialista russo. [ … ]. Elettori ed elettrici, voi che come me volete la pace e odiate la guerra, non votate, dunque, per il Fronte. Vi sono forze veramente democratiche e libere e italiane nel nostro Paese, e tra di esse, in primissimo piano, compatta, forte e libera e indipendente, la Democrazia cristiana.
o della Libertà guerra di liberazione ebbero come base ideale l’aspirazione alla libertà». E forse per la prima volta ricorda esplicitamente in un discorso pubblico il valore che ha avuto, nel cammino verso la libertà, la scelta istituzionale: «Noi volemmo la repubblica soprattutto perché in essa vedevamo incanalato questo profondo concetto di libertà sociale e politica». Rivendica dunque il concorso determinante che a tale scelta ha dato la Democrazia cristiana, anche se, egli aggiunge, in molti l’hanno dimenticato o volutamente ignorato. (…) Gli italiani il 2 giugno 1946 hanno dato un mandato di fiducia alla Dc, per concorrere in modo determinante alla approvazione di una Carta Costituzionale affinché «i rapporti economici e sociali della nostra società, non ancora sufficientemente progredita, fossero riveduti, trasformati, indirizzati verso forme di rapporti economici e sociali che realizzino una più severa, più ampia e profonda giustizia sociale [ … ]». Ora il nuovo Parlamento dovrà provvedere all’attuazione delle riforme industriali, agrarie, bancarie che sono state approvate anche con il consenso dei socialcomunisti. È un compito gravoso che i democristiani sono pronti ad assumere. Sarà una società e saranno riforme profondamente diverse da quelle realizzate in Ce-
coslovacchia o in altri Paesi di influenza sovietica. Non, sottolinea Piccioni, perché nel nostro Paese saranno conservati i privilegi esistenti, ma nell’interesse delle classi lavoratrici, che sarebbero danneggiate da «uno Stato mostruosamente accentratore e iperbolicamente capitalistico». La prova che la Dc non ha fatto gli interessi dei capitalisti, è nel fatto che vengono proprio da quella parte «i lamenti maggiori e gli alti lai» per la politica finanziaria ed economica condotta, con la guida di Einaudi, dal governo De Gasperi. Piccioni infine tocca l’argomento degli aiuti americani, che costituiscono motivo di polemica con i socialcomunisti i quali accusano De Gasperi di avere asservito l’Italia agli Stati Uniti. Con pacatezza egli ricorda: «per la ripresa economica del nostro Paese, per le necessità alimentari, noi abbiamo accolto con dignità di Stato libero e indipendente ma con il riconoscimento di cristiani, l’esempio altissimo di solidarietà umana, che l’America ha fornito al mondo». (…) E con ironia Piccioni prosegue: «Dicono i nostri avversari: ma voi accogliete tali aiuti con troppa umiltà. Loro li vorrebbero accogliere con la faccia feroce, ma li accoglierebbero anche loro indiscriminatamente, tanto è vero che l’on.Terracini ha detto a Napoli:“Anche se cambia
il governo, si spera che l’America gli aiuti continui a darli”». L’America in cambio di questi aiuti chiede solo che gli altri popoli siano rispettosi del sistema democratico e della libertà. Di fronte all’imperialismo ideologico e militare dell’Unione Sovietica l’obiettivo dei popoli liberi è quello di salvaguardare l’umanità da nuovi conflitti mondiali. Il presunto imperialismo americano, prosegue Piccioni, si basa invece sul piano Marshall, che è un programma organico di aiuti per ricostruire, nella pace, i Paesi devastati dalla guerra.
Due giorni dopo, il 3 e 4 marzo si tiene il Consiglio nazionale della Dc. (…) Particolare attenzione viene data alla definitiva approvazione del testo di un «Appello della Democrazia cristiana al Paese», che ha come titolo «salvare la libertà». Contrariamente a quanto di solito avviene (...), nel 1948 l’appello della Dc agli italiani viene pubblicato un mese e mezzo prima delle elezioni, il 3 marzo. (...) I democristiani sono convinti che se la decisione del voto sarà attenta e meditata, la Dc sarà favorita. Gli argomenti introdotti dall’appello sono quelli sui quali già da un po’il partito richiama l’attenzione degli elettori. In primo luogo si fissa (come già nel titolo) l’attenzione sulla «libertà» come il bene fondamenta-
le che è in gioco, così si sostiene, il 18 aprile. E si sottolinea che non si tratta solo della libertà istituzionale, ma anche e soprattutto di «tutte le libertà elementari dell’uomo»: «la libertà di scegliere il proprio campo di lavoro, la libertà di educare i figli secondo le proprie convinzioni, la libertà di professare la fede dei padri». Dalla pubblicazione dell’appello fino a tutta la prima metà di marzo, Piccioni non si spende più in uscite pubbliche e in discorsi per così dire ufficiali. La sua giornata, per oltre dieci giorni, la trascorre tutta a piazza del Gesù, nel suo ufficio, dove legge rapporti e risponde a quesiti, dà direttive e corregge alcune iniziative che non condivide, ha numerosi colloqui, per telefono o personali con dirigenti periferici che si rivolgono a lui per risolvere anche i problemi locali. Egli segue tutto nei minimi particolari, ma la direttiva principale che a tutti impartisce è quella di conservare la calma, di non raccogliere provocazioni, di non farsi portare su un terreno di sterili polemiche e di offrire ai cittadini, insomma, la testimonianza di una forza politica che opera, che è impegnata a co-
struire, che è tollerante ma ferma con gli avversari, che si sente sicura di un maturato programma politico che si appresta a rendere operante, che guarda al futuro con serena speranza. (…) Nella seconda quindicina di marzo, la prima uscita pubblica del segretario politico, il 16, è a Pistoia, dove i suoi elettori e i suoi amici ne reclamano da tempo la presenza; il 18 parla a Roma, il 21 a Firenze. Poi trascorre ancora una settimana interamente a piazza del Gesù, per mettere a punto gi ultimi quindici giorni di campagna elettorale, mentre il clima si infuoca sempre di più, il Fronte popolare riempie le piazze con i comizi dei suoi maggiori leader, a cominciare da Togliatti e Nenni. Ma le piazze sono gremite anche quando parla De Gasperi il quale dalla fine di marzo fino al 16 aprile percorre instancabilmente l’Italia. (…) Dal 7 al 15 aprile Piccioni è ancora al suo posto di lavoro a Piazza del Gesù, dove segue minuto per minuto a contatto con la periferia lo svolgersi degli avvenimenti. Non si stanca di raccomandare a tutti la calma, la pacatezza, la serenità, che sono le forze fondamentali della democrazia. Gli italiani devono toccare con mano la differenza anche comportamentale con i socialcomunisti del Fronte. Infine il 15 aprile rivolge agli italiani, alla radio, un appello finale. In esso la sua prima preoccupazione sembra essere non tanto il voto per la Democrazia cristiana, ma un voto per la «democrazia»: occorre dunque non votare per il blocco socialcomunista. Le motivazioni che egli adduce sono esplicite.
Narrativa
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libri
Antonio Pennacchi MAMMUT Mondadori, 188 pagine, 17,00 euro
arà rimasta nelle orecchie, e nella memoria, di Antonio Pennacchi quella letteratura industriale di PaoloVolponi per indurlo a dare un taglio netto alla letteratura industriale, con una scrittura «dal vero» della fabbrica e della fabbrica degli anni Settanta. Sarà rimasta anche come primo punto di riferimento di una scrittura che vorrebbe cambiare il mondo partendo da un mondo preciso come quello degli operai della fabbrica. Ma tanto tempo è passato da allora e tanto tempo è passato dalla prima scrittura di Mammut, oggi ristampato da Mondadori dopo che, come premette l’autore nella sua giocosa e ironica Introduzione, dall’87 fino alla prima edizione di Donzelli, riceve in otto anni 55 rifiuti da tutte le case editrici: «55 rifiuti da 33 case editrici diverse… tutti gli editori italiani dai più grossi ai più piccoli». Mammut, scritto a penna all’età di trentasei anni, è il primo libro di Pennacchi, il vero esordio narrativo testo scritto e riscritto, dopo che lo scrittore di Canale Mussolini lascia la fabbrica, la Supercavi-Fulgorcavi di Latina-Borgo Piave, per poter studiare Lettere e scrivere. Il testo uguale a quello di quasi trent’anni fa, a cui Pennacchi non cambia per ostinata volontà una virgola, nacque quando «c’era ancora l’unità sindacale… l’Unione Sovietica e i Paesi del blocco socialisti… il sindacato era ancora unitario in Italia. Cgil, Cisl e Uil non si sarebbero mai sognati di andare a firmare un contratto o un accordo ognuno per conto suo». Cioè un altro mondo, un mondo dove un accordo raggiunto a Mirafiori tra fabbrica e Azienda, dopo un referendum come accaduto pochi mesi fa con la Fiat di Marchionne, sarebbe stato impossibile da immaginare. In realtà questa rivoluzione di fabbrica, questo processo di cambiamento era stato già percepito e stigmatizzato dal protagonista del romanzo di Pennacchi, una sorta di alter-ego, un rude e intelligente rappresentante sindacale dei lavoratori della Supercavi di Latina, Benassa. L’uomo che incarna la passione della Fabbrica come luogo fisico e come simbolo, l’uomo pronto a tutto, a occupare e a trattare con dirigenti e padroni, terrore dei direttori del personale, temuto per la verve paroliera ma soprattutto per i comunicati che compone come fosse poesia, ma che hanno la forza e l’energia di vere e proprie «mazzate a rotta di collo sull’Azienda».
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La classe operaia non va in
Paradiso Una settimana in fabbrica ai tempi dell’unità sindacale con il compagno Benassi: torna l’opera prima di Pennacchi
Riletture
di Maria Pia Ammirati
Benassa incarna la parabola della classe operaia, segue le contorte anime delle fabbriche legate alla produttività italiana, le ambigue vie della politica, l’anima post-contestataria degli anni Sessanta che incrociano gli anni Ottanta dell’edonismo. Il romanzo segue la traccia di una settimana di fabbrica di Benassa e compagni, tra tinelli familiari, tresche amorose, turni notturni ma soprattutto occupazioni e manifestazioni contro i Padroni o la Politica. Benassa è l’anima di tutto, lo stratega e il trascinatore fino al giorno in cui sente che il mondo sta cambiando e non solo perché come succede a quasi tutte le industrie intorno, la crisi arriva di soppiatto e trancia di netto il tran tran della vita degli operai. Certo c’è anche lo strano effetto che il padrone non è più così padrone (è il primo che tenta di salvare la fabbrica rimettendoci di suo), ma è la classe operaia che è cambiata, c’è una nuova generazione che preme che non può più appartenere a quella classe. Benassa decide di raggiungere un accordo con il personale e di uscire dalla fabbrica per dedicarsi allo studio, non prima di aver però arringato i compagni prevedendo una nuova era, la vecchia si lascia dietro grandi carcasse come quelle dei mammut: «L’egemonia operaia? Siamo una classe estinta. Ci siamo estinti già da un pezzo. Come il bisonte dell’Europa. Come i mammut… Ci siamo estinti. Culturalmente. Politicamente. Numericamente. Come i mammut». Forse per questo Pennacchi ha voluto ristampare un testo stilisticamente così diverso dai suoi testi più maturi, perché la testimonianza non è meno importante dell’arte.
Le lacrime dei filosofi da Talete a Hegel
uel gran libro di Miguel de Unamuno che è Del sentimento tragico della vita è costruito su una contraddizione: l’eternità dell’essere e la mortalità umana. Fin dal primo rigo Unamuno dichiara di volere la salvezza della vita. Dunque, non l’essenza ma l’esistenza. Ma l’esistenza non si lascia salvare e il suo sentimento tragico è proprio la consapevolezza della contraddizione tra il pensiero dell’essere che non muore e l’esistenza finita dell’uomo. La vita umana è per sua condizione tragica e la filosofia ha cercato di metterci una pezza con il logos. La rilettura che vi voglio proporre non riguarda il libro di Unamuno - che rileggere non fa male - bensì un altro testo che guarda alla storia della filosofia come alla storia dell’idea di salvezza in Occidente. Il libro ha un bel titolo: Le lacrime dei filosofi (Marietti). Ne è autore Giuseppe Cantarano. La rilettura che Cantarano propone della storia del pensiero da Talete a Hegel - e la periodizzazione non è casuale - prende spunto a sua volta dall’interpretazione che Emanuele Severino dà dell’inizio e del senso della nascita della filosofia nell’epoca tragica dei Greci. La filosofia nasce in-
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di Giancristiano Desiderio fatti dal thauma, ossia dal sentimento di meraviglia e stupore per le cose che appaiono, si manifestano e «sono». Ma in questo stesso sentimento di meraviglia si insinua da subito un pericolo: il nulla. Le cose, infatti, per apparire devono anche scomparire, per mostrarsi devono anche ritrarsi, per essere devono anche non essere. E allora quella che è la ricchezza e la varietà delle cose che sono - l’Abbondanza dirà Feyerabend - è anche per quell’essere che ha coscienza dell’essere, l’uomo, una situazione di rischio, pericolo la cui massima espressione è la morte. L’origine più vera del pensiero filosofico è dunque non la meraviglia, ma il terrore, l’angoscia, il dolore e ciò che può salvare i mortali dalla fine a cui appaiono sottoposti i fenomeni è la verità che si mostra proprio come ciò che è sempre stabile e luminosa. Fin da subito la filosofia ha questo programma di salvezza: salvare i fenomeni. Platone lo dirà chiaramente, sia pure in contrapposizione all’Essere di Parmenide che li salva perché li divora: ma al di là delle differenze tra pensatori, il programma di salvezza è il mede-
L’idea di salvezza in Occidente in una storia del pensiero compilata da Cantarano
simo. La verità salva perché in essa le cose che appaiono essere e non essere sono da sempre già salve. La filosofia ha dunque una sua dimensione archeologica perché ha a che fare con l’arché: il principio che è l’origine e il fine delle cose. La conoscenza del principio archeologico permette all’uomo - i filosofi - di avere uno sguardo di dominio sulle cose in cui il senso non è l’imprevisto ma il pre-visto perché pre-vedibile. La storia del pensiero occidentale da Talete a Hegel è tutta attraversata da questa visione che si riassume nella formula hegeliana: il reale è razionale, il razionale è reale. Formula affascinante che si può rendere anche in altro modo: l’essere è l’ideale, l’ideale è l’essere. Il che significa che le cose sono sensate e il senso è nelle cose stesse. La fede filosofica è la fede nel senso della verità. Dopo Hegel la filosofia rinuncerà, almeno apparentemente, all’arché o proverà a ripensarlo. Nietzsche dirà che la verità è una favola, Schopenhauer che è una rappresentazione, Heidegger che è un’immagine. Qualcun altro che è storia e nient’altro che storia. Ma i filosofi, con gli occhi velati di lacrime, altro non potranno fare che continuare a pensare il sentimento tragico della vita e la contraddizione tra l’essere e il divenire.
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Storia
pesso ci dimentichiamo che nel periodo risorgimentale esistevano i giornali. Ridotti per numero e per diffusione, certamente, ma c’erano. Il libro che qui proponiamo, edito dalla Mondadori, è utilissimo per dare uno sguardo alle cronache di allora. Cronache un po’ monche, anzi molto rispetto a quelle cui siamo abituati oggi. Gli inviati dell’Ottocento non si muovevano, o non si potevano muovere, come quelli odierni. Per esempio, alla battaglia di Solferino, tra le più sanguinose del periodo con quasi cinquemila morti e oltre ventimila feriti, si seppe di molti uomini lasciati morire sul campo. Il resoconto del filantropo svizzero Jean-Henry Dunant contribuì alla nascita della Croce Rossa (1865). In ogni caso le corrispondenze dal fronte non erano così frequenti e così dettagliate. I giornali accoglievano nelle loro pagine bollettini, proclami ufficiali, ordini del giorno, ma erano carenti nel racconto della guerra. Inevitabile una secchezza stilistica. A proposito di Solferino un cronista scrisse: «Dalla parte degli austriaci sono stati impegnati sette corpi d’armata, ossia 140 mila uomini. La battaglia è durata dalle sei del mattino sino alle sette di sera. Gli austriaci si sono ritirati oltre la linea del Mincio». Più avanti la confessione dell’impotenza giornalistica: «La mia narrazione si basa su ciò che ho visto e su ciò che ho raccolto dalle autorità competenti e, sebbene non sia possibile delineare un quadro così completo come avrei desiderato, credo comunque che nelle sue linee generali la mia relazione sarà tollerabilmente corretta». Capitava spesso che la «copertura» delle notizie avvenisse in modo rapsodico: cronache parziali su certe gazzette di provincia (come Il Corriere del Lario, settimanale stampato a Como), altre nei maggiori quotidiani di Torino e Genova, magari a giorni di distanza dai fatti. Scrisse un inviato: «Nemmeno stamane notizie della guerra: è una desolazione mancar di particolari». Il quadro completo di una battaglia veniva poi fuori, magari sull’Opinione, ma di giornalistico, in senso vero, aveva ben poco perché era una collazione di documenti ufficiali dello stato maggiore dell’esercito sardo.
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Esordi
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ALTRE LETTURE
INTERNET CI RENDE STUPIDI? di Riccardo Paradisi
se la rete invece di renderci più facile la vita, accrescendo la nostra capacità di assumere informazioni, ci rendesse semplicemente più stupidi? Se lo chiede il giornalista scientifico Nicholas Carr nel suo Internet ci rende stupidi? (Cortina, 317 pagine, 24,00 euro), un saggio che lancia l’allarme sulle implicazioni psicologiche, sociali e cognitive del web. Abituati infatti a scorrere freneticamente dati tratti dalle fonti più disparate, siamo diventati tutti più superficiali. La rete inoltre ci sta riprogrammando a sua immagine e somiglianza, arrivando a plasmare la nostra stessa attività cerebrale anche perché l’uso distratto di innumerevoli frammenti di informazione finisce per farci perdere la capacità di concentrazione e di ragionamento.
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Notizie dalla battaglia
di Solferino di Mario Donati
Ragionamenti a margine, registrazione di umori e pettegolezzi non mancavano. Per esempio allo scrittore e critico musicale Giuseppe Rovani, padre della giovane scapigliata milanese, toccò il compito di vagliare le ragioni che avevano indotto Napoleone III ad accogliere la proposta di tregua avanzata da Francesco Giuseppe, la qualcosa mise il freno a mano alla liberazione del Lombardo-Veneto. Tra i più attivi con la penna c’era il pugliese Giuseppe Massari, esponente illustre dell’immigrazione politica risorgimentale, che divenne poi addetto stampa e portavoce del primo ministro sabaudo. Era assai informato in quanto frequentatore assiduo delle «stanze dei bottoni» piemontesi. Il Massari, dopo la richiesta di Vienna, annotò che a Milano, «città tutta un fermento», molti stracciavano le bandiere francesi, staccavano dai muri i ritratti del sovrano di Parigi, e «ai bastioni i soldati gridano Vive la République». La conquista del Meridione dava lo
spunto a studi e reportage su odiose pratiche ben attive in Campania. L’Opinione spiegò ai lettori come era fatta la camorra. Si legge nella prima puntata: «Il regno del camorrista è limitato, egli non può uscirne. Fuori il luogo ove vive, non è più riconosciuto, i suoi lucri cessano d’un colpo, e finisce il prestigio di cui godeva; e basta spesso rimuoverlo da un rione all’altro della stessa città». Questo quadro napoletano ovviamente è cambiato, e molto. A proposito del Sud, all’iniziale entusiasmo subentrò un velenoso scetticismo. Uno dei giornali più devoti ai Savoia come la Patria scrisse: «Non giova dissimulare che l’unità italiana è mal fatta, che è piena di lotte interne, di turbamenti, d’incertezze per l’avvenire: in questi sforzi d’un popolo che cerca le condizioni definitive della sua indipendenza, l’unità è una prova, ma non è una riuscita».
Cronache dell’Unità d’Italia (articoli e corrispondenze, 1859-1861), Oscar Mondadori, 440 pagine, 10,00 euro
FRATELLI D’ITALIA SOPRATTUTTO IN CUCINA *****
identità italiana prima di coincidere con le sue forme politiche si realizza nei modi di vita, nei gusti artistici, soprattutto gastronomici. Se pensiamo la cucina italiana come rete di saperi - dice Massimo Montanari nel suo gustoso saggio L’identità italiana in cucina(Laterza, 97 pagine, 9,00 euro) - come reciproca conoscenza diffusa di prodotti e ricette provenienti da città e regioni diverse, è evidente che uno stile culinario italiano esiste fin dal Medioevo. Soprattutto negli ambienti cittadini che rielaborano la cultura alimentare delle campagne e la mettono in circolazione. Si forma così un’identità concreta e quotidiana, fatta di sapori, di prodotti, di gusti. L’unità politica del Paese accelera questo processo.
«L’
Brentani: nel nome di Berto con la lente del grottesco ella morte - spesso - vale la pena ridere: il dialogo con la morte di Brancaleone alle Crociate, per dire, è un capolavoro di scrittura e recitazione, proprio perché non si capisce se ci sia più da ridere o da piangere. Allo stesso modo si resta interdetti (positivamente, inquietantemente interdetti) di fronte a un piccolo romanzo che segna il buon esordio di Alfronso Brentani, trentenne sardo che ha pubblicato Per oggi non mi tolgo la vita con la piccola ed elegante casa editrice romana Exòrma. L’autore dice chiaramente di voler rendere omaggio con questo suo breve romanzo - al capolavoro di Giuseppe Berto, Il male oscuro. Ma forse si tratta di un omaggio sghembo: ho trovato nel romanzo di Brentani molta più autoironia - al limite del grottesco - che non nelle pagine dolenti del grande scrittore veneto. Per il semplice motivo che il quasi mezzo secolo che ci divide dal Male oscuro (è del 1964) ha travolto la percesione stessa del male interiore. Nonché della funzione della psicoanalisi nella società. E nella lette-
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di Nicola Fano ratura, naturalmente. Si deve essere più lievi, oggi: la parola depressione, che in realtà corrisponde a una malattia assai grave, ormai è un lemma mondano, quasi una chiave d’oro per entrare in società. Ovvio e saggio che Brentani usi la lente del grottesco per raccontare le ossessioni del suo personaggio: un giovane che lavora nel mondo dell’editoria e che tenta compulsivamente di suicidarsi, come se il togliersi la vita fosse la missione della sua vita (il paradosso è voluto). Il flusso dei pensieri su cui si fonda stilisticamente la narrazione è pieno di alti e bassi, di scatti ironici (un suicidio mal riuscito è sempre, in sé, amaramente comico) e di deliri dolorosi. L’omaggio a Berto si sostanzia proprio nella ricerca di un linguaggio che il più possibile possa rendere il senso del dolore interiore del personaggio. Certo, non bastano i farmaci, non basta la psichiatria (e probabilmente non basterebbe neanche la psicoanalisi) per risolve-
re l’ossessione del protagonista. E in questa impossibilità di salvarsi (o meglio nell’obbligo di imparare a conviere con l’orrore di sé) sta il tratto più interessante di questo debutto narrativo. Anzi, in questa chiave la depressione (quella vera) e il suicidio («continuamente interrotto», avrebbe detto Flaiano) sono solo espedienti letterari per raccontare lo stato d’animo di molti di noi. Non necessariamente depressi né aspiranti suicidi. Anni fa, uscì uno splendido film sulla violenza e l’alienazione nelle banlieue parigine: L’odio di Mathieu Kassovitz. Cominciava con l’immagine di un ragazzo che, precipitando da un grattacielo, ripeteva ossessivamente: «Fin qui tutto bene». Il dramma finale (il drammatico atterraggio del ragazzo) non arrivava mai. Ebbene, questa è la nostra condizione: fin qui tutto bene. O, come dice Brentani: «Per oggi non mi tolgo la vita». Alfonso Brentani, Per oggi non mi tolgo la vita, Exòrma, 123 pagine, 12,00 euro
Saggi
MobyDICK
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ossiamo parlare di miracolo ma anche di condanna. Se uno scrittore o un regista ha a sua disposizione il tempo per narrare l’amore, sentimento che si nutre di tempo, il pittore deve essere fulmineo.Vale l’istantanea, e questa in un certo modo deve racchiudere lo svolgersi del tempo. È su questo che ragiona Flavio Caroli nel saggio dedicato a questo tema (Il volto dell’amore, Mondadori, 90 pagine, 18,00 euro). Dice infatti l’autore, tra i massimi studiosi d’arte oggi in Europa: «Per la pittura tutto deve risolversi in una singola inquadratura, concentrata e potente proprio perché irripetibile». E attraverso l’esame delle tematiche amorose poste su tela o su muro, Caroli ha anche modo di raccontarci le varie stagioni storiche, le crisi, le esaltazioni, le speranze e i tormenti. «L’amore - egli dice - è un primario della vita», cui ovviamente si devono annettere le determinazioni «secondarie», o storiche, che appaiono sull’epidermide, e nelle viscere, delle civiltà nel loro evolversi. Straordinaria è l’avventura dell’uomo che vuole ritrarre l’atto d’amore. Anche quando la figura ritratta è unica, fissata nella sua solitudine, mai appare staccata dall’altro, cui continuamente rimanda. Questa riflessione non compare nelle pagine di Caroli, ma è implicita nella sua definizione di amore: «La possibilità di sanare, con un partner, le falle della propria anima». Le arti figurative hanno registrato una scossa profonda con la fisiognomica di Leonardo da Vinci, ossia la rappresentazione dei «moti dell’animo» attraverso i tratti del volto. Dunque il pensiero in figura. Dunque il cancello d’entrata della psicologia. Prima ancora di Freud, almeno a tratti.
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A come amore
Il tema dell’amore è esplicito ed esplosivo nei dipinti di Pompei, sede privilegiata della grammatica amorosa che ritrae uomini e donne senza l’impaccio del pudore o della vergogna. Sui muri c’è il carpe diem, c’è l’inno a Venere e a Dioniso. Perché così tante rappresentazioni disinvolte dell’eros? Caroli risponde che le opere lascive furono prodotte per diversi usi: «In alcuni casi hanno una funzione comica legata all’eros e, soprattutto, intendono essere propedeutiche all’eccitazione sessuale, nell’ambito sia degli spazi privati che dei lupanari». Con l’avvento del cristianesimo tutto ovviamente cambia. Le regole «sui traumi e i limiti dell’amore» sono dettate da Sant’Agostino prima e da Dante e Petrarca poi. Il primo dipinto di compiuta felicità cristiana ritrae due coniugi con il Ritratto di Van Eyck con la moglie (1434). I due sono comunemente noti come «i coniugi Arnolfini». Lei è incinta, lui la guarda teneramente. A lato un cagnolino, simbolo della fedeltà coniugale. In seguito avviene appunto il miracolo della psicologia attraverso la fisiognomica, il tentativo di
(da Pompei a Jeff Koons)
Flavio Caroli risfoglia la storia dell’arte alla ricerca dei mille volti di Eros, così come nelle varie stagioni, tra crisi, esaltazioni, speranze e tormenti, gli artisti le hanno in modo fulmineo fissati nelle loro opere. «In una singola inquadratura, concentrata e potente proprio perché irripetibile»
ta la dimensione del “non-finito” o dell’”informalità”: l’”informalità” dello strazio». Il Settecento ha due tesori come Canova e Goya. Lo spagnolo rappresenta ciò che è eccezionale. «Siamo a un passo dall’inferno», ci avverte Caroli descrivendo la Maja desnuda, la donna sdraiata e svestita che pare dirci che potrebbe essere la nostra ultima possibilità di amare.
di Pier Mario Fasanotti
Attraversato il romantico Ottocento (ricordiamo il celeberrimo Bacio di Hayez), si torna all’interrogativo su cosa siano l’amore e la bellezza, e allora Renoir risponde con un groviglio di anime e di corpi. Il pennello s’intinge nella sensualità delle Grandi Bagnanti. L’oggetto del desiderio si fa crudele e faticoso per Edgar Degas, il pittore che ha inseguito la verità al femminile, l’artista che, minacciato dalla cecità, è approdato in un universo «splendente e desolato» ove s’impedisce agli occhi di distinguere i profili del visibile. Ecco dunque Bagnanti, con la donna il cui volto è coperto dai capelli. Toulouse-Lautrec, Modigliani, van Gogh, infine il nordico Edvard Munch, autore del Bacio ma anche dell’Urlo: incomunicabilità e lontananza, il contatto tra uomo e donna che è forse per desiderio e forse è per dirsi addio. L’inconscio non ha più alcun argine con Gustav Klimt: la sua Giuditta è eros e thanatos, è «un istante congelato di lussuria», è protervia della donna divisa tra furore, appagamento e voluttà. E nemmeno per Picasso, il cui cubismo «è strumento per scatenare le forme». Per lui l’amore e lavoro è tutt’uno. Quell’amore che l’americano Jeff Koons omaggerà con un cuore appeso (Hanging Heart), rosso prodotto di consumo. Flavio Caroli concede a Koons l’intenzione di parlare di amore. A noi sia concessa una più greve esclamazione: che banalità.
raffigurare quel nucleo problematico che è appunto il «profondo», per sua natura invisibile. O comunque sfuggente. Con Leonardo avanza l’uomo «complesso». A cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, in piena crisi culturale, «le energie utilizzate fino a questo momento per padroneggiare il mondo esterno e visibile - scrive Caroli - si rivolgono all’interno e all’invisibile, diventano una sonda, una telecamera puntata verso l’inconscio». E questa esplorazione pervaderà tutto il Cinquecento, il secolo dell’amore. Emblematico è il Doppio ritratto del Giorgione. Vediamo un ragazzo delicato, malinconico, concentrato sui propri sentimenti (come nella Melancolia di Dürer), e dietro un altro giovane dai tratti più grossolani e volitivi. Passi in avanti, e significativi, li fa poi Raffaello, l’urbinate che venne definito come «l’agrimensore della totalità», colui che si chiede se sia possibile vivere sempre nell’Olimpo delle idee, dandosi poi una sola risposta: no. Raffaello cercherà l’ossigeno della vita nei
vicoli di Roma. La sua Fornarina (1520 circa) è il riassunto pittorico dell’invito all’amore, un «vieni qui perché qui c’è tutta la felicità che puoi desiderare». Ci sarà poi Giulio Romano, ma anche quel «partecipe del neopaganesimo diffuso» che fu Tiziano: un effluvio di capelli, di cieli, di ori, di ombelichi, di luci. La vita fatta esplodere dall’amore. «Tiziano - ci avverte Caroli - porta sulle spalle Pienezza, Felicità, Classicità, sostantivi che appartengono più agli dei, o al mito, che al destino degli uomini». Nell’Amor sacro e Amor profano compaiono due donne simili nel viso, la prima vestita ma attraente, la seconda nuda quasi per intero. Il dipinto rimanda alle discussioni che si facevano nel Rinascimento su Venere: essere di amore o sentina di tutti i vizi? Un conflitto di coscienza. Risolto nella divisione di Venere in Venere Celeste (Urania) e Venere Terrena (Pandemos).
Impensabile accennare all’amore materno senza star davanti alla Pietà Rondanini di Michelangelo: «Cronaca di amore puro e disperato», scrive Caroli. «In meno di un secolo di vita, la fisiognomica delle passioni (nella fattispecie il lutto per la morte di un figlio) conquista territori addirittura oltremondani perché Michelangelo agguan-
Danza
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spettacoli
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di Diana Del Monte
uando si parla di danza contemporanea italiana, Virgilio Sieni è sicuramente una delle nostre firme migliori. La quantità e il valore dei progetti portati avanti con la sua compagnia e con l’Accademia del gesto, ma soprattutto la qualità e la verità della sua ricerca coreografica lo hanno reso negli anni un portabandiera d’eccellenza della nostra danza. Un ruolo che Sieni riveste molto bene e che è diventato particolarmente importante in un momento come quello attuale. A investirlo del «gravoso incarico», stavolta, è stato l’Istituto italiano di cultura di Toronto per la rassegna Spotlight Italy, un festival di due settimane (15-29 marzo) dedicato all’arte contemporanea del Bel Paese. Citando la presentazione ufficiale dell’evento: «In onore del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia vi presentiamo Spotlight Italy, due settimane caratterizzate dalle produzioni delle compagnie italiane più innovative, da una serie di eventi, classi ed esperienze che fanno onore alla cultura e all’arte italiana contemporanea». Un rapido panorama della creatività nostrana che va dalla musica al teatro, dalla moda alla cucina. Nella sezione teatrale, accanto a La natura delle cose di Sieni (1519/03), il palcoscenico del Canadian Stage ospita Basso ostinato di Caterina Sagna (22-26/03), Nunzio con la regia di Carlo Cecchi (15-19/03) e La festa di Gianfelice Imparato (22-26/03). L’Ontario è la regione canadese con la più alta percentuale di italiani residenti e con una comunità particolarmente
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Televisione
attiva nell’area urbana di Toronto. La scelta del Canadian Stage di collaborare con il nostro Istituto di cultura, aprendo per il primo anno la sua rassegna a una tematica incentrata su artisti stranieri, dunque, non sembra affatto un azzardo, soprattutto considerando l’importante ricorrenza. Particolarmente interessante e apprezzabile,
Eccellenze contemporanee, a Toronto il made in Italy
comunque, la scelta della programmazione sia di danza che teatrale. Sieni, infatti, mescolando coreografia e filosofia, danza e arte figurativa, movimento e architettura, non può certo considerarsi un autore facile. Nella
performance ispirata al De rerum natura di Lucrezio, il coreografo fiorentino porta avanti quella raffinata scoperta di temi inesplorati che da sempre contraddistingue il suo lavoro, attraverso una danza intesa come poesia fi-
sica. La natura delle cose (2008), primo atto della trilogia dedicata a Lucrezio seguita da Oro (2009) e da L’ultimo giorno per noi (2010) - mette in scena il principio epicureo del «nulla nasce dal nulla» in un ambiente ovattato, guidato dagli esametri lucreziani avvolti dalla voce di Nada. Questa sera, poi, l’ultimo appuntamento canadese di Sieni cede il palco a Basso ostinato di Caterina Sagna, coreografa italiana emigrata nel 2005 in Francia. In questo lavoro del 2006, molto poco rappresentato in Italia, la coreografa porta in scena un pezzo di vita ordinaria, soffocata da un lento processo di disfacimento: «È inutile fare resistenza, (i danzatori, ndr) possono solo accompagnare il processo di disfacimento che cresce nutrendosi degli scarti che esso stesso produce», spiega la Sagna. «Viene quasi la nausea. Meglio prendere qualcosa e inghiottire, illudersi di eliminare il disturbo, anestetizzarsi. Ecco il loro Basso ostinato». Un lavoro che appare quantomai attuale.
Antonella, Flaminia, Debora... Storie di vita, non di veline hi scrive questa nota settimanale è stavolta particolarmente contento di segnalare un programma serio e utile.Va in onda su Rai 3 ogni domenica alle 12,55 e s’intitola Storie di vita. Improntato sulla sobrietà, è sobriamente condotto (negli studi di Napoli) da Giovanni Anversa, lontano dal dovere di «fare spettacolo» e poco incline a commozioni posticce o di rito. Una delle puntate è stata dedicata a coloro che sono affetti da Sclerosi Multipla. In Italia sono in 58 mila. Che non è poco. Nulla o quasi nulla si sa sull’origine della malattia invalidante, che colpisce, con un rapporto due a uno, soprattutto le donne. In studio è stata intervistata la «madrina» dell’Aism (Associazione italiana sclerosi multipla), l’attrice Antonella Ferrari, la quale ha raccontato d’essersi accorta che qualcosa nel suo corpo non andava quando, in periodo adolescenziale, faceva danza classica. Improvvise rigidità muscolari, inspiegabili cadute a terra. Allora i medici se la cavavano dicendo «è stress». La diagnosi precoce è arrivata molto
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dopo. «È stata una specie di sollievo - ha raccontato la Ferrari - quando mi hanno rivelato ciò contro cui io dovevo lottare». Smessa la danza, ha studiato recitazione ed è diventata attrice di successo. La ricordiamo nella Squadra, in Centrovetrine, Butta la luna e anche in numerosi lavori teatrali. Le ricadute ci sono state, certo. E Antonella l’anno scorso è dovuta rimanere sulla sedia a rotelle, «schiava in casa» visto che le dimensioni dell’ascensore (poi cambiato) non le permettevano di uscire. «Non mi sono mai considerata una
malata a tempo pieno…», ha aggiunto. «Semmai il tasto più dolente è l’idea della maternità: i medici sono scettici, ma non è detta l’ultima parola». Chi invece mamma è diventata è la signora Flaminia di Roma. Malgrado gli attacchi di Sm fossero cominciati quando aveva 18 anni, ha continuato a studiare fino a diventare avvocato. Ma la vita in tribunale le risultò tropo faticosa. E anche perché voleva un figlio, s’è messa a riposo. C’è riuscita, grazie anche alla disponibilità affettuosa del marito. Oggi ha un bambino che, tra l’altro, conosce abbastanza bene il problema della madre e avvisa il papà o la nonna quando è necessario: «Mamma bua alle gambe, bua alla testa, non può alzarsi…». Il conduttore del programma ci
ha informati dei vari centri di riabilitazione. Il più avanzato in Italia è quello di Genova. Medici e fisioterapisti aiutano, spiegano. Sono disponibili e sorridenti, mai compassionevoli. Un’altra testimonianza, quella di Debora. Senese, laureata in Biologia evoluzionistica ma, per ragioni facilmente comprensibili, costretta ad accettare un lavoro in banca. Debora aveva 22 anni ed era fidanzata, ma «la diagnosi dei medici fece finire il rapporto sentimentale: lui aveva paura di assumersi delle responsabilità, di prendersi cura di me, anche se io agli altri chiedo soltanto un aiuto, una spalla, e non la soluzione di tutte le mie difficoltà». È quasi pleonastico, a questo punto, osservare che la televisione talvolta si deve occupare non tanto del dolore in sé, quanto della vita vera (che è anche dolore e tenacia). Che non è solo veline, pettegolezzi, tette e cosce in bella mostra, litigiosità, carrierismo vanesio o Il Grande Fratello che fa zoomate su uno sconfinato sciocchezzaio barattandolo per esistenza di (p.m.f.) tutti noi.
Essere&Tempo
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MobyDICK
ai confini della realtà nella cerchia dei famigliari, pari, amici o colleghi (ovviamente non sempre) e molto meno con chi è diverso per la pelle scura o gli occhi a mandorla, dando origine a reazioni di razzismo. Nella diversità includiamo chi appartiene a un’altra squadra di calcio (i tifosi parlano delle partite con il «noi» come se in campo ci fossero stati loro), religione, partito politico oppure orientamento sessuale. In quest’ultimo caso, la diversità è avvertita come minaccia alla propria sessualità ed è sentita non a caso quasi esclusivamente da maschi contro maschi. Invece, soltanto una forte attrazione (anche questa determinata geneticamente) per l’altro sesso permette di superare le difficoltà di identificazione che, però, si svelano appena possibile con atteggiamenti indiretti e spesso denigratori.
di Leonardo Tondo
i questi tempi si fa troppo presto a dire identità, un termine abusato in riferimento a presunte radici culturali che diventa l’alibi per giustificare chiusure intolleranti nei confronti degli altri, specialmente se immigranti. A questo tema già scottante di per sé, si è aggiunta la polemica tutta nostrana sulle celebrazioni dell’unità d’Italia richiamandosi, anche in questo caso, all’identità. Domanda immediata: se fosse stata una festa tanto importante perché ricordarsene dopo un secolo e mezzo? Poi, certo, commuove Benigni che fa l’esegesi dell’inno italiano e lo canta di fronte all’inutile pubblico dell’inutile festival di Sanremo come se fosse uno di quei soldatini ventenni nelle trincee delle guerre risorgimentali, ma questa è un’altra storia. D’altro canto, è indifendibile l’opposizione leghista verso la celebrazione unitaria che risponde a uno stitico desiderio di rinchiudersi nella Padania e adorare dei celtici, sposalizi con il Grande Fiume e altre banalità decorativo-mitologiche (ovviamente le motivazioni economiche sono le più importanti).
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Ci troviamo a parlare di orticelli locali quando dovremmo preoccuparci dell’Europa che non decolla e che non riesce a prendere una decisione, una e univoca nei confronti degli sconvolgimenti epocali alle porte islamiche di casa. Anche quella europea è un’identità, ma almeno è allargata e ne include altre minori spesso di incerto significato. Eppure tutti pronti nel parlare di unità europea, di salvaguardia delle identità nazionali, regionali, linguistiche, fino ad arrivare ai formaggi e alle barbabietole. Il cammino dell’identità parte dal molto piccolo, le nostre cellule, per arrivare alla globalizzazione. Geneticamente abbiamo gli strumenti per riconoscere quello che appartiene al nostro corpo ed eliminare senza tanti problemi tutto quello che è estraneo. Ci sono delle cellule di vario tipo specializzate che proteggono la nostra identità (scritta nel Dna), capiscono quando un batterio o un virus sono nocivi, pertanto ospiti indesiderati, e li eliminano in vari modi. Quando non ce la fanno per le diminuite resistenze dell’organismo o per quantità e virulenza dell’attacco, l’infezione prende il sopravvento e si ricorre alla medicina oppure si muore. Ma le minacce possono venire dalle nostre stesse cellule che si sbagliano nella riproduzione e danno origine ad altre che non ci appartengono. Anche queste usualmente vengono riconosciute ed eliminate, ma ogni tanto il meccanismo si inceppa, vengono ospitate e lasciate crescere dando origine a tumori più o meno maligni (anche qui, o la terapia o la morte). Allargandoci all’individuo nella sua complessità, l’identità in senso psicologico è quella
Identità
istruzioni per l’uso Il termine è abusato e spesso diventa un alibi per giustificare l’intolleranza. Il suo cammino parte dalle nostre cellule e approda alla globalizzazione. Ma per diventare cittadini del mondo, solidi nelle proprie radici e capaci di entrare negli universi altrui, occorre molto esercizio... che ci aiuta a riconoscerci al mattino quando ci guardiamo allo specchio prima o dopo la doccia, con le occhiaie, assonnati ma con la certezza che l’immagine che ci viene restituita corrisponde a quella che abbiamo in una nostra carta d’identità cerebrale. Questo può non accadere in malattie gravi della psiche dove si perde quel senso di unitarietà che ci contraddistingue tanto da portare a pensare al non essere più che all’essere. L’autoriconoscimento è un’esperienza molto precoce che si sviluppa in modo complesso più tardi, a cui fa subito
seguito il riconoscere l’altro. È talmente forte questa esperienza e matura in momenti così poco razionali che rimangono in testa sapori, odori, emozioni verso cui si manterrà una forte nostalgia per tutta la vita e saranno la base della nostra cultura. Con il tempo si mette in atto il processo di ritrovarsi nell’altro a cui partecipano attivamente i neuroni specchio che aiutano a capire i tratti simili ai nostri in chi ci circonda avviando un meccanismo che è appunto di identificazione. Questo è più semplice con chi entrerà
La vita in comune non è semplice, ma sentiamo il bisogno degli altri come una necessità psicologica interna che non riusciamo sempre a spiegare; potrebbe trattarsi di un retaggio evoluzionistico che ci ha permesso di sopravvivere agli attacchi di altri gruppi ostili. Si fa anche in fretta a far parte di un gruppo, può essere quello di perfetti sconosciuti che si trovano su un autobus e reagiscono tutti insieme contro un taccheggiatore oppure quello di altri sconosciuti che sostengono una causa su facebook. Come è anche facile che gli stessi gruppi si sciolgano per riformarsi secondo convenienze economiche o di potere, come per i partiti politici. Ritorna sempre lo spirito tribale della competizione o della più matura cooperazione (più raramente). Fa parte della storia dei popoli e ha dato luogo a infiniti lutti e guerre. Neanche quelli che si sono aperti facilmente agli altri ne sono usciti bene. Se i pre-colombiani fossero stati più accorti e non avessero accolto gli spagnoli come degli dei in corazze d’argento, sarebbero probabilmente ancora presenti su questo mondo con un bel vantaggio per tutti (non è l’unico esempio). Mantenere un equilibrio fra accettazione per gli onesti e ostilità per i delinquenti sarebbe il compromesso più favorevole, ma bisogna scendere a patti con la spontanea diffidenza verso l’altro. Delle solide basi culturali contribuiscono a quella solidità di pensiero che dà la forza per consentire l’apertura verso l’altro, portano a uscire dai nostri confini mentali modesti e diventare sufficientemente sofisticati per entrare nei mondi altrui, forniscono gli strumenti necessari per mitigare delle nostre naturali tendenze di difesa, allargano il nostro panorama alle diverse esperienze facendoci diventare cittadini del mondo. Così come le mamme di una volta sapevano che i bambini devono essere esposti a batteri e virus (con cautela) per dar loro modo di organizzare delle resistenze naturali e non aggressive.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Giorno di san Giuseppe, festa del papà: mai dimenticata dagli italiani
IL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO, UNA PIAGA SOCIALE Riconoscimento di una malattia, stop alla pubblicità ingannevole e amministratore di sostegno, sono le proposte dell’associazione costituita dal nostro studio legale, con la collaborazione di avvocati, commercialisti, psicologi, sociologi, per regolare il gioco d’azzardo, una vera piaga sociale che colpisce molti cittadini che si indebitano dilapidando il proprio patrimonio, con drammatiche conseguenze quali l’annientamento dei propri rapporti familiari, di amicizia e con pesanti ricadute anche sull’economia locale. Il primo passo consiste nel chiedere al ministero della Salute il riconoscimento del Gioco d’azzardo patologico (Gap) come una vera e propria malattia, così come accade in molti Paesi europei. Bisogna poi prevedere la figura dell’amministratore di sostegno, un soggetto che in collaborazione con i Sert si prenda cura della persona che non riesce ad uscire dal tunnel del gioco d’azzardo, assistendola da un punto di vista psicologico e psichiatrico, e amministrandone i beni per aiutarlo ad appianare i propri debiti, anche mediante fidejussioni di istituti di credito convenzionati e fondi stanziati, seguendo un iter riabilitativo che tende a responsabilizzare l’ormai ex giocatore impedendogli una ricaduta nel vortice del gioco. Il terzo punto riguarda la lotta alla pubblicità ingannevole. Gratta & vinci, lotterie, videopoker, troppo spesso i cittadini vengono invogliati a giocare senza però essere avvertiti dei rischi cui vanno incontro. E l’unico che realmente ci guadagna è lo Stato, cui vanno i proventi delle giocate. Il lavoro del nostro studio legale e della nostra associazione ha già portato in regione Basilicata alla presentazione di una proposta di legge per contrastare il gioco d’azzardo e allo stanziamento di un primo fondo di 40.000 euro finalizzato al recupero dei giocatori afflitti da Gap. E questo rappresenta solo un primo passo del cammino che abbiamo intrapreso. Avv. Riccardo Vizzino Avv. Valerio Del Basso REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
La festa del papà (abolita da anni come festa nazionale) conosce in questi ultimi anni sempre un maggiore successo. Un ruolo difficile quello del papà oggi, in una società dove l’uomo e il cosiddetto capofamiglia sono da tempo in crisi, ma con il nuovo secolo qualcosa sta mutando. La centralità della famiglia e quindi il padre tornano ad essere protagonisti anche se con forme diverse assegnando anche al papà funzioni che storicamente erano attestate alle mamme, cioè la cura dei bambini, portare i figli a scuola, seguirli molto più direttamente, fino a svolgere le attività domestiche. Papà però troppo spesso ingiustamente puniti nei tribunali italiani nelle separazioni e divorzi, e per questo sorgono sempre maggiori associazioni ed iniziative per una migliore legislazione che vada oltre la semplice condivisione della attuale norma. Gli italiani continuano ad amare la festa ed il nome: soprattutto nella popolazione del Sud Italia, Giuseppe è uno dei nomi più comuni e frequenti. Forse anche il più frequente in assoluto sempre ricordato dalla Chiesa cattolica e cristiana. In tutte le grandi famiglie del Sud, c’è sempre uno o più Giuseppe, Peppino, Pino, Beppe, o Pinuzzo da festeggiare, come pure è frequente il suo corrispettivo femminile, Giuseppina, o Giusy.
Stefano Valentini
GIOCO DA LEONI SULLE NOSTRE TESTE La Francia e l’Inghilterra fanno il loro gioco da leoni nella questione libica, senza contare che ancora una volta, al centro del campo, al centro del Mediterraneo fondamentale per interessi molteplici, ci siamo noi, italiani rinnovati da un fervido concetto di nazione unita che ha riverberato ovunque, dai media ai muri, dai balconi alle radio, il significato profondo del tricolore. Adesso, facciamo in modo che altri non debbano fare la guerra sulle nostre teste.
Bruno Russo
IL MINISTRO E LE BOLLETTE ELETTRICHE Il nostro ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, non smette di stupirci. Nei giorni scorsi ha invitato gli emozionati dal disastro nucleare in Giappone a non emozionarsi e ragionare sui benefici del nucleare. Poi, a Borgo Sabotino (Latina), all’inaugurazione del cavo sottomarino Lazio-Sardegna di Terna, ha detto: «La bolletta elettrica è imperscrutabile: io ho cercato di leggerla e non l’ho capita». Non è la sconsolata e ripetuta lamentela del signor “Mario Rossi”, classe 1920 da Latina, di fronte all’ennesima enigmatica bolletta della luce e del gas. No! È il ministro dello Sviluppo Economico che ha anche ag-
giunto: «... quindi chiedo trasparenza». Paolo Romani si è dimenticato che lui è uno dei più potenti poteri esecutivi in materia di energia e che, resosi conto di qualcosa che non funziona come invece dovrebbe, non deve chiedere ma imporre. Certamente non entrando con uno spadone nella più vicina sede dell’Enel, ma con tutta quella dolcezza che la sua autorità esecutiva gli impone, nel rispetto della dignità di gestori di servizi e utenti.
Vincenzo Donvito
SATURAZIONE DEMOGRAFICA ITALIANA La popolazione italiana - continuamente crescente, per l’apporto migratorio - supera 60 milioni d’abitanti, con densità di oltre 200 ab./kmq: contro la densità 50 della popolazione terrestre, 116 nella Ue, 141 in Cina, 33 negli Stati Uniti, 8 in Russia e 3 in Australia (Calendario Atlante De Agostini 2011). Anche in Italia sono ristrette le aree convenientemente abitabili, nelle quali si superano di molto i 200 ab./kmq. Sono eloquenti i dati di alcuni capoluoghi, riferiti al 2009: Napoli 2630 ab./kmq, Monza 2 076, Milano 1978, Trieste 1116, Roma 772, Varese 731, Prato 680, Genova 480, Como 458, Padova 433. L’Italia primeggia fra i grandi Stati per
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
Countdown bloccato 499 giorni prima LONDRA. Doveva essere una grande trovata pubblicitaria, e invece si è trasformato in una figuraccia l’orologio installato a Trafalgar Square per il conto alla rovescia per le Olimpiadi di Londra del 2012. Il timer, alto 6 metri e mezzo, era stato inaugurato nei giorni scorsi, alla presenza delle autorità e dello sponsor che ha finanziato anche la realizzazione dell’orologio, Omega. La dirigenza di Omega aveva sicuramente pensato che l’installazione avrebbe portato molta luce all’immagine del marchio, affiancando il loro brand a quello delle Olimpiadi a tutti coloro che passano nella trafficatissima Trafalgar Square. Quello che però non si aspettavano e che solo poche ore dopo che l’orologio era stato inaugurato, si bloccasse. Non certo il massimo di pubblicità per una casa di orologi. Va però dato atto del fatto che Omega ha messo subito al lavoro i suoi tecnici, che dopo una giornata di lavoro sono riusciti a fare ripartire il countdown. Non è stata la prima difficoltà per l’organizzazione: sempre questa settimana sono stati messi in vendita i biglietti, ma l’acquisto era impossibile per chi voleva pagare con una carta Visa (altro sponsor) che scadesse prima di agosto 2012.
parco vetture, con 601 auto per 1000 abitanti. È stata rilevata una concentrazione media annua di 26,7 microgrammi di polveri sottili per mc, nei centri urbani italiani con popolazione superiore a 100.000 abitanti (21,3 in Usa). In Italia sono stati denunciati 2.752.514 delitti e 550.990 persone (di cui 19.289 minorenni), nel 2005. 60-61 milioni d’abitanti nel Belpaese non costituiscono un limite invalicabile. Tuttavia, un ulteriore aumento demografico peggiora la qualità della vita: mediante la crescita di crimini, conflitti, litigiosità, sinistri (non solo stradali), nonché inquinamento acustico, alimentare e ambientale. Dell’invasione di migranti, vanno accolti i rifugiati politici, compatibilmente con i limitati mezzi dell’indebitato Belpaese. Vanno contrastati gli invasori che considerano l’Italia come eden, eldorado, bengodi, mecca, paese di cuccagna e balocchi. Se accogliesse tutti coloro che si presentano ai confini per motivi economici, l’Italia dovrebbe ospitare metà della popolazione mondiale.
Gianfranco Nìbale
NUCLEARE, PRESTIGIACOMO, ROMANI
Battibecchi a catena Quella che vedete è una zuffa dettata da ragioni sentimentali... ma non solo. L’oggetto del desiderio è il nido che l’ultimo dei tre uccellini, un maschio di tessitore di Bahia dalle piume gialle, ha costruito. Le due tessitrici femmine hanno messo gli occhi sullo stesso nido, e al maschio non resta che provare a dividerle
Ponti d’oro al nemico che fugge, narra un vecchio proverbio e di ponti d’oro ne dobbiamo fare due: uno per la ministra dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, che aveva definito «avvoltoi» coloro che chiedevano un ripensamento delle scelte energetiche nucleari, e uno per il ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, che aveva dato dell’«emozionati» ai cittadini che chiedevano garanzie per la propria sicurezza. Ora, la ministra Prestigiacomo dichiara: «È finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare», e il ministro Romani afferma: «Quello che è successo in Giappone, un momento di riflessione lo deve dare».
Lettera firmata
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la crisi nucleare
La radioattività intorno alla centrale continua a salire. E, dopo le accuse americane, infuria la polemica sulle informazioni
Sarcofago giapponese
Ormai si corre contro il tempo per stabilizzare i reattori di Fukushima: la soluzione finale potrebbe essere la stessa utilizzata per tappare la falla di Chernobyl. Ma intanto si spera che il vento continui a spirare verso l’Oceano... ROMA. A Fukushima il problema nucleare andrà seppellito sotto una spessa coltre di cemento armato. Un sarcofago – senza piramidi... – come altare e monumento per una scienza che ha fallito di nuovo. Mentre continua il lento e inesorabile conteggio delle migliaia di vittime dello tsunami. Gli Stati Uniti non si fidano del governo giapponese: starebbe coprendo la vera gravità dell’incidente alla centrale nucleare a nord di Tokyo. È arrivato un loro team d’esperti per verificare. E neanche i cittadini del Sol levante si fidano dei proprio governanti: Yukia Amano, loro concittadino, ora alla guida dell’Aiea, arrivato a Tokyo, ha cominciato il monitoraggio sulle radiazioni anche nella capitale. Di lui i giapponesi si fidano di più. Man mano che passano le ore la situazione appare come ciò che si intuiva già da giorni: un disastro di proporzioni imprevedibili. Sancito da un ulteriore passaggio dello stato di allerta nucleare dal livello 4 a 5 (come nel caso di Three Mile island negli Usa). Si guarda agli
di Pierre Chiartano esperti dei venti, i meteorologi, per sperare che la brezza soffi sempre verso le acque – a volte assassine – dell’Oceano. Anche se gli abitanti della California non ne sono proprio felicissimi.
Ma il premier nipponico Naoto Kan afferma di non aver omesso nulla: «tutta la verità sull’incidente nucleare è stata detta». Sarà, ma il caso Chernobyl, per giorni non andava neanche menzionato e ieri è venuta fuori la proposta di creare un sarcofago di cemento sui reattori: proprio come nella centrale ucraina. I tecnici hanno ammesso esplicitamente che, per evitare una catastrofe atomica, l’unica soluzione potrebbe essere quella di «seppellire» l’impianto con una colata di cemento. È lo stesso metodo utilizzato a Chernobyl nel 1986. La società che gestisce la struttura, la Tepco, ha riconosciuto che
seppellire sotto una colata di cemento l’enorme complesso possa essere un’opzione, e la notizia è un segnale che le frammentarie azioni per raffreddare i reattori stanno avendo poco successo. «Non è impossibile racchiudere i reattori sotto il cemento. Ma la nostra priorità adesso è quella di raffreddarli prima», ha spiegato
un funzionario della Tepco, la Tokyo Electric Power, ieri nel corso di una conferenza stampa. E l’Aiea, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ora a guida di uno stimato tecnico nipponico ha iniziato ieri la misurazione dei livelli di radioattività a Tokyo, allo scopo di rassicurare la popolazione della capitale nipponica. Lo ha annunciato con una certa enfasi il direttore generale dell’agenzia Onu, Yukiya Amano, in visita nel proprio Paese. «Auspichiamo che questa iniziativa contribuirà a rassicurare l’opinione pubblica giapponese», ha dichiarato Amano, citato dall’agenzia di stampa Jiji, «trattandosi di un’autorità internazionale che
effettuerà i propri rilevamenti parallelamente a quelli condotti dal governo del Giappone». E che l’assai disciplinato e stoico popolo del Sol Levante abbia bisogno di una forte iniezione di fiducia è certo. Da giorni ormai vive uno stress dietro l’altro, in un’apnea psicologica di certezze che stroncherebbe la mente dei più forti. Amano, ha anche riconosciuto che la battaglia per stabilizzare i reattori dell’impianto di Fukushima 1 è «una corsa contro il tempo». Non andrà a Fukushima, ma si affiderà a una valutazione di un team di esperti sul sito.
ll Giappone sta affrontando «la crisi più grave dalla Seconda guerra mondiale», ma ce la farà «a superare questa tragedia e a riprendersi». Il premier giapponese, Naoto Kan, sotto pressione per come sta gestendo la gravissima crisi, si è rivolto alla nazione piegata dal disastro sismico e su cui incombe la minaccia di una catastrofe nucleare. «Dopo il Secondo conflitto abbiamo avuto una miracolosa crescita economica gra-
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La lezione che viene dal Giappone
Non possiamo guardare solo al mercato
Subito una politica energetica per l’Italia (che non faccia i conti solo con la paura)
Qualche consiglio per costruire un nucleare sicuro (ma anche economico)
di Francesco D’Onofrio
di Luigi Paganetto
ra di tutta evidenza che il dramma nucleare giapponese avrebbe finito con l’incidere in modo significativo anche in Italia. È evidente infatti che sebbene si sia trattato di una vicenda drammatica ma anche irripetibile almeno in termini geologici, le conseguenze del possibile crollo di una delle centrali nucleari giapponesi avrebbero suscitato sia un più generale timore sul nucleare in quanto tale, sia un più circoscritto impegno concernente la sicurezza stessa delle centrali medesime. Nel primo caso la conseguenza del dramma giapponese potrebbe persino far revocare in dubbio la decisione stessa di procedere nel senso del mantenimento delle centrali esistenti (ed ovviamente nel senso di escludere centrali nucleari nuove), mentre nel secondo caso le conseguenze avrebbero riguardato la questione della sicurezza delle centrali medesime, con particolare riferimento al dibattito sulle caratteristiche tecnologiche delle centrali medesime a seconda della loro cosiddetta “generazione”.
è bisogno di un approccio al nucleare che non risenta di ideologie o sentimenti del momento. In quest’ottica occorre che siano realizzate analisi che rendano disponibili tutti i dati utili per una decisione informata. Occorre in particolare un esame accurato dei costi e dei benefici di investire sul nucleare con una valutazione delle opzioni in campo.
E
Per quel che concerne l’Italia, l’impatto della tragedia giapponese era destinato ad essere significativo in riferimento sia al primo sia al secondo caso. Non è stato sino ad ora facile distinguere il primo caso dal secondo per quel che concerne l’Italia perché siamo nell’imminenza sia di significative elezioni locali sia di un referendum che concerne anche la questione del nucleare in quanto tale. È stato dunque difficile distinguere tra la del tutto comprensibile reazione emotiva che tende a un no strategico all’energia nucleare in quanto tale e la politica nazionale dell’energia che rappresenta un punto essenziale della più generale politica economica, scientifica e tecnologica del nostro Paese. L’Udc aveva sostenuto da tempo l’opportunità di comprendere l’uso pacifico dell’energia nucleare nel quadro di una più generale politica nazionale dell’energia, necessaria essa sia per quel che concerne il grado di indipendenza nazionale in riferimento alle diverse fonti di energia, sia per quel che concerne l’aspetto scientifico e tecnologico che il nucleare di nuova e nuovissima generazione pone in evidenza. Si tratta pertanto di una vicenda nella quale occorre a un tempo essere consapevoli di una naturale reazione emotiva che tende a nascondere o persino a cancellare il problema per una sorta di paura che non tiene conto della straordinarietà delle circostanze del dramma giapponese, e allo stesso tempo di una vicenda in riferimento alla quale occorre la consapevolezza della essenzialità anche per l’Italia di una politica nazionale dell’energia che dimostri anche scientificamente la necessità di una alternativa che non può e non deve essere prevalentemente emotiva. La questione di fondo che l’Udc aveva posto in riferimento all’energia nucleare era e rimane pertanto una questione di politica nazionale dell’energia. Anche i Paesi europei che stanno riflettendo sui tempi di invecchiamento delle centrali nucleari di più antica generazione avevano operato una scelta strategica a favore dell’energia nucleare medesima, resistendo alle tentazioni che l’emozione da effetto Chernobyl avevano posto in evidenza anche in essi. Si può dunque comprendere una più accentuata attenzione sui temi della sicurezza – scorie comprese –; non si può invece subordinare la politica nazionale dell’energia all’emozione, se essa era stata basata proprio su una attenta e compiuta valutazione interna ed internazionale dell’interesse nazionale.
C’
La scelta del nucleare non va legata soltanto all’esigenza di avere un mix più completo delle diverse fonti di energia o di aumentare la certezza degli approvvigionamenti. Nel fare questa scelta bisogna valutare con attenzione oltre agli aspetti strettamente legati alla produzione di energia anche quelli della misura della nostra partecipazione all’innovazione tecnologica del settore. Le difficoltà d’investimento sul nucleare non sono legate soltanto all’incertezza del ritorno economico a causa della dimensione della spesa per gli impianti e la loro durata (50-60 anni), ma anche all’incertezza dell’evoluzione tecnologica: il rischio è quello d’investire oggi sulla tecnologia esistente, quella di generazione 3 o 3+, ma di trovarsi domani (diciamo 20 anni) con una tecnologia costosa e superata. Sono queste le ragioni per le quali, prima del disastro giapponese, le centrali in costruzione in Europa sono 6, negli Usa e Giappone soltanto una. La teoria delle opzioni reali insegna che l’irreversibilità delle decisioni d’investimento rappresenta un costo-opportunità tanto più grande quanto maggiore è la durata della vita dell’impianto e l’incertezza del ritorno economico. Questo aspetto è particolarmente importante nel caso dell’Italia. Risalire sul treno del nucleare dopo esserne scesi implica una scelta su modi e tempi. 1) In condizioni di libero mercato concorrenziale, l’investimento sul nucleare non parte a meno che si assicurino agli investitori tariffe di lungo periodo e assicurazioni contro i rischi di ritardo nella costruzione delle centrali o altre forme di incentivazione. 2) Occorre, di conseguenza, una politica energetica in cui siano definiti costi e benefici, compresi quelli relativi agli oneri di sistema (sicurezza, scorie, ecc.) e la convenienza delle diverse tecnologie. Non basta fare affidamento sul mercato. 3) importare tecnologia nucleare oggi significa avere ricadute sul nostro sistema economico pari al solo 40% circa del valore complessivo dell’investimento. Al di là di quest’aspetto, occorre valutare il rapporto tra costi e benefici per la nostra economia delle diverse tecnologie importabili. 4) avere centrali di generazione 3 significa avere scorie di uranio pari al 75% dell’uranio impiegato per produrre energia. Il beneficio dell’attesa potrebbe essere una forte riduzione di questo costo. 5) Ciò non significa rinunciare nel frattempo ad investire sul nucleare quanto, piuttosto, lavorare su attività sperimentali capaci di riportarci per competenze e capacità di innovazione nel club del nucleare. Ciò anche perché i dati disponibili suggeriscono che senza intervento pubblico non ci sono condizioni di economicità per il nucleare e che il costo dell’energia per Kw è superiore o, al meglio, di analogo livello di quello da fonti fossili.
6) La sicurezza degli approvvigionamenti può essere assicurata dall’investimento in impianti di rigassificazione. 7) La ragione di rientro sul nucleare può ritrovarsi nell’esigenza di contenere la produzione di Co2 e nella partecipazione all’evoluzione tecnologica che, a sua volta, pone la questione del quando rientrare e su quali tecnologie, nonché quella dell’investimento sul rinnovo delle nostre competenze nel settore che è comunque da fare.
zie agli sforzi del popolo giapponese e questo è stato il modo in cui il Giappone è stato costruito», ha affermato il premier. Kan ha sottolineato la reazione e il comportamento della sua gente alla tragedia, ha osservato che il Paese sta ricevendo «appoggio globale» e ha aggiunto che non c’è «tempo per essere pessimisti»: la situazione all’impianto nucleare di Fukushima Daiichi è «molto grave», ha riconosciuto, lodando gli sforzi di quanti, polizia e vigili del fuoco, stanno mettendo a rischio la propria vita per risolvere la situazione. Nel corso della conferenza stampa il premier ha affrontato anche la questione dell’attendibilità della versione dei fatti data dal governo.
Il premier ha spiegato che «al pubblico è stato divulgato tutto. Abbiamo condiviso – ha aggiunto – quel che sappiamo con la comunità internazionale». Intanto l’Unione europea «è pronta a fornire assistenza tecnica al Giappone, se ci verrà richiesto», per aiutare le operazioni di «raffreddamento delle centrali nucleari e di controllo del livello di radioattività». Lo ha fatto sapere ieri la portavoce del commissario europeo all’Energia Guenther Oettinger, precisando che «finora non sono stati forniti né mezzi né consigli tecnici dato l’alto livello di competenza» dei giapponesi. Intanto nell’area intorno alla centrale le rilevazioni delle radiazioni sono soggette a sbalzi improvvisi. Mentre sono stati registrati dei bassi livelli di isotopi sui bagagli provenienti dal Giappone all’aeroporto internazionale di Chigago O’Hare, così come nei filtri dell’aria degli aeromobili. L’indice Nikkei ieri ha preso finalmente fiato, dopo il crollo dei giorni scorsi. Grazie all’intervento della banche centrali dei Paesi G-7 che hanno mitigato gli effetti speculativi sullo yen. Conclusa anche l’Odissea dei 115 componenti del Maggio musicale fiorentino. È atterrato ieri nella notte a Pisa, alle 2.10, il charter Alitalia che dal Giappone ha riportato in Italia: coro, tecnici e parte dello staff. A bordo anche altri italiani che hanno usufruito di alcuni posti sul volo speciale. Una cinquantina dei componenti della tournee atterrati a Pisa si sono recati poi al Teatro comunale di Firenze per sottoporsi ai test per verificare se c’è stata contaminazione da radiazioni. La nostra sede diplomatica a Tokyo rimarrà aperta. Mentre nessun timore per gli alimenti provenienti dal Giappone. Il ministro dell’Agricoltura, Giancarlo Galan, ha escluso il rischio che nel nostro Paese possano entrare cibi contaminati dalle radiazioni nucleari. Se lo dice il ministro.
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la crisi nucleare
La catastrofe dell’atomo Fukushima e la paura nucleare di questi giorni non sono una novità, per il Giappone. Unico Paese a essere mai stato colpito da un ordigno nucleare - nel 1945 il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki ha di fatto spianato le ultime resistenze dell’Impero - il Sol Levante teme l’energia atomica. Ma, in un certo senso, ha sempre sentito il bisogno di domarla.
vantaggi dell’energia nucleare sono enormi», si legge sul sito sul sito dell’Agenzia nucleare giapponese, Japan nuclear power program. Ovviamente si tratta di una valutazione fatta in tempi non sospetti. D’altra parte, dalla nebulosa del disastro nipponico, si può possono evincere una certezza. È troppo presto per ipotizzare una totale riconversione della politica energetica del governo di Tokyo. Per questo le decisioni di molti governi europei di cambiare repentinamente rotta appaiono affrettate. Come altrettanto catastrofiche vanno viste le visioni di un olocausto nucleare, in se-
«I
una riflessione che si può adattare anche ad altre situazioni. Lo scorso anno, per esempio, le economie britannica statunitense hanno vacillato dopo il disastro petrolifero nel Golfo del Messico.
In quella circostanza, tutti hanno parlato della necessità di ricorrere a fonti energetiche alternative. Nessuno però si è azzardato a ipotizzare un’irrealizzabile rinuncia globale ai combustibili fossili. Da sempre, Tokyo vive sotto pressione per il pericolo terremoto. Se quest’ultimo ha messo fuori uso solo un reattore, si può parlare di scampato olocausto nucleare. Ma soprattutto si può auspica-
l’unico problema che il Paese sta cercando di gestire. L’intero Giappone è stato colpito da un terremoto senza precedenti. Le forze di soccorso sono state impegnate nello stesso momento e in più campi. Impossibile quindi concentrarsi solo sulla centrale. Per quanto a quest’ultima sia stata data la priorità. Inoltre, le scosse più violente risalgon solo a venerdì. I sistemi di sicurezza per Fukushima sono stati messi in stato di allerta lo stesso giorno. Neanche 48 ore dopo, Kan ha dichiarato l’emergenza nucleare e ha lanciato un appello alla comunità internazionale. In questo modo Kan ha smitizzato un ulteriore pregiudizio, in meri-
to all’idiosincrasia nipponica nell’ammettere i propri errori, o rendere note le difficoltà nazionali.
Facendo un confronto, tutto sommato improprio con Chernobyl, ricordiamo che in questo caso l’esplosione del reattore ucraino era avvenuta il 26 aprile 1986. Ancora all’inizio del mese successivo, l’Europa occidentale – pur avendo registrato radiazioni sul proprio territorio – pagava il prezzo della reticenza, o meglio dell’omertà delle istituzioni sovietiche. L’allarme venne lanciato dalla Svezia e non dal Cremlino. La linea di Kan, invece, è stata mossa dalla tempe-
Quello strano amore guito al terremoto, che si sono venute a creare in seno all’opinione pubblica. Anche in Italia e fomentate da gruppi di interesse, da sempre contrari al nucleare e che oggi strumentalizzano l’accaduto. Bisogna tener conto che, al momento in Giappone, l’emergenza è circoscritta alla centrale di Fukushima.
L’arcipelago è costellato da ben 55 reattori, oltre a uno in costruzione e tre dismessi. L’intera filiera garantisce una produzione di 49,467 megawatt. Vale a dire oltre un quarto dell’energia complessiva consumata dal Paese. Da un punto di vista statistico, se il disastro si limitasse alla centrale in questione, il Paese potrebbe vantarsi di aver contenuto i danni. Forse questo è un discorso cinico, che manca di considerazioni umane a sostegno delle vittime già colpite dalle radiazioni. Tuttavia, quando un Paese imposta la propria politica energetica sul nucleare, inteso come fonte al 29% delle proprie risorse, è naturale che aumentino in proporzione anche le variabili di rischio. Ma questa è
Il rapporto fra energia nucleare e Sol Levante è nato molti anni fa, quando i nipponici volevano vincere la corsa verso la Bomba. Ma Hiroshima ha cambiato tutto di Antonio Picasso re che il caso, per quanto catastrofico possa essere, sappia fare da precedente sul quale sviluppare nuove ricerche nell’ambito della sicurezza e dell’adeguamento al contesto ambientale.
Merita una segnalazione anche il comportamento delle autorità centrali. Finora molte sono state le critiche indirizzate al governo di Naoto Kan per un’eventuale scarsa trasparenza nel fornire notizie sulla situazione di Fukushima. A discolpa delle istituzioni di Tokyo, va ricordato che il disastro nella centrale non è
Quando tutto ebbe inizio Hideki Yukawa (a destra) è il padre del programma nucleare giapponese. Il fisico di Tokyo avviò le proprie ricerche sui mesoni, particelle subatomiche, già nel 1935. Questi studi gli valsero il Premio Nobel per la Fisica nel 1949. Grazie ai suoi studi sono nate le centrali
stività nei soccorsi, dalla trasparenza di fronte ai media e ai partner internazionali – è di ieri la mobilitazione dell’Aiea – e dall’esperienza. Il disastro nella fabbrica di combustibile nucleare a Tokaimura nel 1999, terzo incidente per odine di gravità nel settore, è un ricordo ancora vivo per i giapponesi.
Storicamente i primi passi che il Paese ha compiuto nel settore nucleare si sono limitati al campo militare. Pochi sanno infatti che, durante la seconda guerra mondiale, l’Impero giapponese sviluppò un suo programma di ricerca atomica, in competizione con quelli statunitense e tedesco. Alla guida del team nipponico c’era Hideki Yukawa. Il fisico di Tokyo avviò le proprie ricerche sui mesoni, particelle subatomiche, già nel 1935. Questi studi gli valsero il Nobel nel 1949.Yukawa fu il primo giapponese in assoluto a ricevere la prestigiosa onorificenza. Già dalla semplice osservazione di queste due date, si può giungere alla conclusione che il programma di ricerca giapponese era tutt’altro che arretrato, rispetto a quelli occidentali.
la crisi nucleare
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Soccorsi rapidi al popolo Di natura molto individualisti, i giapponesi sanno essere eroici nei soccorsi ai più deboli. Lo shintoismo, filosofia alla base della cultura nazionalista e tradizionale, insegna infatti l’amore e il rispetto per le classi più deboli della società. Nel post-tsunami, le province meridionali hanno fatto a gara per l’invio di uomini e materiali all’area settentrionale colpita.
Nella mentalità locale, essere riusciti a “dominare” l’arma che ha distrutto milioni di vite nel 1945 rappresentava una sorta di catarsi necessaria alla popolazione e alle vittime
Gli studi in Urss, a loro volta, erano ancora allo stato embrionale. Yukawa avviò i suoi lavori quando le armate del Sol levante non erano ancora dilagate in la Manciuria e nelle pianure della Cina. La sconfitta devastante nella seconda guerra mondiale interruppe tutte le sue attività sul piano militare, ma non su quello civile. Lo dimostra l’attribuzione del prestigioso riconoscimento svedese concessogli dalla Accademia Nobel solo quattro anni dopo dal termine del conflitto. Questo induce anche a supporre che gli Usa, entrati in Giappone come vincitori, lasciarono aperti alcuni laboratori e centri di ricerca. La corsa sulla stessa pista, condotta da Cina e Unione sovietica, non poteva permettere a Washington che Tokyo diventasse una terra di nessuno, completamente demilitarizzata e con le risorse scientifiche nazionali cauterizzate. Al di là di questo, il nucleare è il pro-
dotto più fulgido dell’orgoglio giapponese. Sia come nazione sconfitta dalla guerra, sia come Paese industrializzato quasi completamente privo di risorse energetiche sul proprio territorio. Ancora oggi, il colosso asiatico importa dall’estero l’80% del suo fabbisogno per mandare avanti i motori della propria macchina industriale. Nell’ambito del G8, il Giappone è secondo solo all’Italia. Fin dai suoi primi tentativi di industrializzazione, all’inizio del Novecento, il Paese ha cercato di ovviare a questo problema. Fu la mancanza di petrolio e carbone a spingere Tokyo nelle guerre contro la Russia (1905) e poi contro la Cina, scoppiata nel 1937 e poi confluita nel secondo conflitto mondiale. Lasciando da parte il connesso imperialismo che provocò l’invasione di buona parte del Sud-est asiatico, quando si offrì l’opportunità di recuperare una risorsa energetica che permettesse di essere svincolati da altri Paesi – e quindi sollevasse le casse dello Stato dall’onere di altre guerre – il Giappone intuì che il nucleare avrebbe potuto fare al caso proprio. Si tenga conto, inoltre, che il Paese è circondato dal mare. La Gran Bretagna insegna che un popolo isolano nutre una forma di complesso di inferiorità rispetto ai vicini continentali. Quando il Giappone uscì all’improvviso dal suo Medioevo, nella seconda metà del XIX secolo, si rese conto di dover risolvere un problema immediato: ridurre il tratto di mare che separava le sue coste dalla terraferma. A questo punto, galeotta fu la sconfitta.
Prevenire (finché si può) L’idea di prevenzione è molto sviluppata nella cultura del Sol Levante, che predica da decenni un rapporto corretto (ma sospettoso) con l’energia atomica. Al di là della preparazione nelle scuole, dove si insegna cosa fare in caso di disastro, si dà molta importanza al lavoro
Nel rispetto della caparbietà asiatica, l’impero giapponese annientato militarmente e piegato nella sua economia investì uomini, idee e mezzi nella ricostruzione industriale. Nel 1945, il Giappone era una tabula rasa. Nel senso letterale del termine. Le sue città e i relativi impianti industriali si presentavano spettrali come quelli di “Germania anno zero”. Gli Usa avevano decretato un annichilimento politico e militare del Paese. La vicina Unione sovietica chiuse ogni fonte di approvvigionamento.
Le stesse che, nella prima metà del secolo, erano apparse come una nuova frontiera nipponica. Quale migliore occasione per Tokyo di avviare un sistema produttivo completamente nuovo? Il primo boom industriale il Paese lo visse dopo la guerra di Corea, negli anni Cinquanta. A soli dieci anni di distanza dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il Giappone era tornato a dominare i mercati dell’Estremo oriente e, con spregiudicatezza, avanzava verso l’Europa. Nel 1966 finalmente, venne inaugurato il primo reattore di Tsuruga. L’anno dopo, fu la volta di Fukushima; lo stesso che oggi è a rischio surriscaldamento del nocciolo. Lecito chiedersi cosa sarebbe oggi il Giappone se non si fosse gettato con tutte le sue forze e la convinzione più profonda nella ricerca atomica. In vent’anni il Paese accumulò una riserva sufficiente di risorse economiche da investire nel settore e con la prospettiva, sul lungo periodo, di assumerne la leadership mondiale. In cinquant’anni, il Giappone ha saputo ritagliarsi un ruolo esemplare in un settore completamente innovativo dell’industria energetica. Oggi, i 55 reattori attivi nell’arcipelago pongono il Paese in terza posizione per la produzione di energia atomica su scala mondiale, dopo Stati Uniti e Francia. Se il nucleare civile fosse considerato alla pari del “cugino” militare, Tokyo non avrebbe alcun problema a fregiarsi del titolo di superpotenza atomica. Alla stre-
gua dei suoi vincitori, che oggi vantano un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.
Il nucleare è la dimostrazione di un orgoglio nazionale invitto. Costituisce un esempio di prodotto made in Japan secondo i canoni più classici. Molte delle conoscenze di base sono state copiate dalle ricerche straniere, per poi essere adattate alla realtà economica e sociale del Paese. Da qui, il Nobel a Yukawa. A confermare che i suoi studi nascevano da un’intelligenza asiatica, in sintesi con la cultura occidentale. Il nucleare è per il Giappone il ticket di ingresso del Paese nel Terzo millennio. Ma soprattutto rappresenta il carico da undici che Tokyo potrebbe gettare sul tavolo della diplomazia internazionale nel caso di una riforma dell’Onu. Certo, di fronte alle immagini agghiaccianti del sisma e con l’angoscia per i rischi di Fukushima, forse queste riflessioni potrebbero apparire azzardate. In un certo senso, non è possibile immaginare questo colosso asiatico eventualmente rinunciatario della sua risorsa energetica prevalente. Bisogna pensare che se un sistema-Paese decide di intraprendere una strada tanto impegnativa, costosa e di lungo periodo, significa che ha valutato anche gli incidenti più drammatici. Terremoto compreso. Il Giappone è un notoriamente a rischio sisma. Ne erano coscienti i geologi negli anni Sessanta. È per questo che erano stati interpellati. Oggi, purtroppo ma ovviamente, la consapevolezza è ancora più concreta. Fukushima rischia la fusione per l’arretratezza delle proprie strutture. Questo suggerisce che il terremoto abbia drammaticamente accelerato un processo di collasso. A dispetto di qualsiasi allarmismo populistico, nessuno a Tokyo immagina di coprire di cemento armato un arsenale di reattori com’è quello operativo sull’arcipelago. Sarebbe come seppellire mezzo secolo di storia nazionale.
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150 anni d’Italia La storia e la verità negli interventi per le celebrazioni del Centocinquantenario
Perché Napolitano ha riunito l’Italia di Giancristiano Desiderio lTeatro Regio di Torino il presidente della Repubblica, parlando nel segno dell’Italia unita e libera per i centocinquanta anni dello Stato italiano, ha rivolto il suo pensiero alle «decisioni difficili» che attendono tutti noi. Quel che accade in Libia, soprattutto se libertà e diritti sono negati con violenza, paura e sangue non può vedere l’Italia girata dall’altra parte. Perché la storia risorgimentale, nelle parole di Giorgio Napolitano, non è una storia del passato ma del presente, non è ciò che non c’è più ma ciò che c’è ancora: il senso della libertà. Ecco perché il Risorgimento italiano - il capolavoro del liberalismo europeo secondo Benedetto Croce - è un valore che può ritornare utile anche per comprendere la difficile ora del popolo libico.
A
e una grande conquista, ma anche il modo in cui l’Italia si ritrovò in un solo Stato fu il modo in cui il Risorgimento si compì nell’unica strada percorribile. «L’Unità non poté compiersi che scontando i limiti di fondo che l’assenza delle masse contadine, cioè della grande maggioranza, allora, della popolazione, dalla vita pubblica, e dunque scontando il peso di una questione sociale potenzialmente esplosiva».
In queste parole lo spirito dell’età risorgimentale è rivendicato senza trionfalismi ma con meditazione e consapevolezza. C’è sempre stato sul suolo italiano una discrasia tra Stato e nazione o tra istituzioni e società: alla “geografia dello Stato” non ha
Una lezione L’assenza di retorica, infatti è di onestà storica, la caratteristica del discorso che anche alla luce il capo dello Stato ha tenuto giovedì a Montecitorio. Il Corriere delle prospettive della Sera lo ha voluto definire il discorso di un «patriottismo mifuture, (soprattutto te». La mitezza in questo caso dovrebbe intendersi come equipolitiche) librio, ragionevolezza, buon sendel nostro Paese so. Giorgio Napolitano ha usato davvero parole ragionevoli pere dei suoi leader ché non retoriche e ricercanti il senso delle cose e delle vite passate e presenti degli italiani uniti. Più che un“patriottismo mite”, allora, il discorso del presidente Napolitano ci sembra essere stato ispirato da un “patriottismo vero”, perché il primo cittadino d’Italia si è fatto guidare dallo spirito di verità. Del Risorgimento ha citato il valore e i limiti, i pregi e i difetti e pure ha tenuto fermo quella che è una conquista senza la quale non saremmo noi stessi: se gli italiani non si fossero uniti in una «Italia una» sarebbero stati spazzati via dalla Storia. In questo senso anche le parole di Giuseppe Mazzini, che il più delle volte stanno ingiustamente a impersonare la retorica, sono state usate da Napolitano nel modo più calzante possibile: «Noi non abbiamo bandiera nostra, non nome politico, non voce tra le nazioni d’Europa - diceva nel 1845 il grande genovese non abbiamo centro comune, né patto comune, né comune mercato». I valori dell’unità e dell’unificazione sono stati sottolineati senza esitazioni: non solo essere uniti in uno Stato nazionale è stato per gli italiani un progresso
corrisposto la “geografia della società”e dal modo in cui si realizzò l’Unità ha dipeso poi tanta parte dei problemi della nostra vita nazionale, a cominciare dalla “questione meridionale”.Tuttavia - e qui è la grandezza del discorso di Napolitano - altra strada non c’era: «L’Unità non poté compiersi che sotto l’egida dello Stato più avanzato (…) e cioè sotto l’egida della dinastia sabauda e della classe politica moderata del Piemonte, impersonata da Cavour». Anche a Pontelandolfo, il paese raso al suolo
per rappresaglia dall’esercito italiano nel Ferragosto del 1861, anche lì tra le montagne dell’Alto Sannio il discorso del presidente Napolitano è risuonato secondo lo spirito della verità. Perché apprezzare il Risorgimento e il valore della storia unitaria che da lì discende non significa ignorare le pagine buie e tristi in cui la guerra fu fatta tra italiani e italiani: piuttosto, significa capire che la Storia va compresa nelle sue pagine di luce e nelle sue zone d’ombra e che il compito della storiografia è salvaguardato dalla libertà nella quale si muovono le nostre vite e i nostri pensieri.
Con questa filosofia ogni revisionismo storico è ben venuto e ben accetto perché revisione storica significa verità e non partigianeria o fazione o denigrazione o negazione. Giorgio Napolitano è riuscito a unire gli italiani - e i partiti politici - intorno a un’idea comune di patria perché ha presentato la storia del centocinquantenario come una conquista che è costata sforzi, sacrifici, dolori, morti ma è appunto una conquista da cui non si può, non si deve tornare indietro. L’incontro tra laici e cattolici è una conquista da cui non si può tornare indietro perché altrimenti la nostra storia nazionale e i nostri pensieri quotidiani si scoprirebbero a un tratto più poveri. Lo spirito nazionale ha semplicemente bisogno di questa unione. Come il corpo della nazione, il territorio, non può essere diviso e anche il federalismo deve essere concepito, persino al di là delle leggi di riforma, come qualcosa che viene a meglio unire: «E oggi dell’unificazione celebriamo l’anniversario vedendo l’attenzione pubblica rivolta a verificare le condizioni alle quali un’evoluzione in senso federalistico - e non solo nel campo finanziario - potrà garantire maggiore autonomia e responsabilità alle istituzioni regionali e locali rinnovando e rafforzando le basi dell’unità nazionale». Anche Umberto Bossi ha applaudito e non poteva essere diversamente. Bisognerà capirlo e sforzarsi di farlo capire anche a chi con spirito partigiano crede possibile realizzare un federalismo che non riposi sull’unità di fondo dell’Italia. Bossi ha capito e ha applaudito perché l’unica nazione esistente tra gli italiani è l’Italia.
17 marzo 2011 • pagina 29
150 anni d’Italia
cioè referendum compreso, e con
Solo il Colle ha reso credibile la festa vissuta con fastidio dalla Lega e dal premier tempi predefiniti (per esempio sei
La lezione del presidente a una maggioranza fallita di Enrico Cisnetto i fa presto a parlare di unità. Unità nazionale, convergenza politica di fondo pur nella concorrenza elettorale, correttezza istituzionale, coesione sociale, comune sentire. Neppure in occasione delle celebrazioni della ricorrenza dei 150 anni di storia patria – peraltro riuscite, e ne va dato merito esclusivamente al Capo dello Stato – si è vista piena e convinta unità. E non solo per il comportamento della Lega – autolesionista e infantile prima ancora che intollerabilmente eversivo – ma anche per la totale mancanza di protagonismo del governo nella preparazione dei festeggiamenti come nel loro svolgimento. E lo sfaldamento della Commissione che Ciampi era stato chiamato a presiedere, con la relativa coda di polemiche, lo certifica.
S
Il governo ha anche fatto finta di niente riguardo al comportamento leghista, mentre sarebbe stato opportuno che Berlusconi richiamasse alla correttezza istituzionale – perché di questo si tratta, e la trasgressione è ancora più grave se si pensa che è stata fatta da chi si è professato secessionista e che poi ha “venduto” il federalismo come superamento della scelta separatista – non solo i ministri (l’unico che si è comportato come doveva è stato Maroni) ma gli stessi parlamentari che compongono la sua maggioranza, senza i quali non sarebbe premier.
Il governo ha fatto finta di niente di fronte al comportamento eversivo del Carroccio che ancora «gioca» al separatismo Figuriamoci, poi, se dal piano delle celebrazioni si passa a quello del grado di unità e concordia riscontrabile nella vita politica. Zero. Solo che in questo caso nessuno si può chiamare fuori dalle responsabilità. Prendiamo il caso del nucleare. In questi anni l’atteggiamento pregiudizialmente ostile di una parte della sinistra, quella massimalista e vetero-ecologista, e il silenzio acquiescente della componente riformista, che ha subito con un misto di codardia e di cinismo la scelta del referendum, hanno creato una situazione di incomunicabilità con governo e maggioranza. I quali, peraltro, hanno fatto la scelta a favore del ritorno all’energia atomica con scarsa convinzione e ancor meno consapevolezza della complessità di quell’opzione, in parte pensando “tanto non si farà” o “passeranno anni, la patata bollente finirà nelle mani di qualcun altro”, in parte praticando la con-
traddizione di essere favorevoli sul piano teorico e politico e sfavorevoli quando poi si trattava di rendersi operativi (come i tanti sindaci e governatori regionali di centro-destra hanno fatto). Tutti hanno recitato la loro (cattiva) parte: gli uni lisciando il pelo all’opinione pubblica, gli altri facendo finta di fare ma in realtà sprecando tempo. Risultato: non appena la tragedia giapponese ha reso necessario un clima di dialogo e di concordia per decidere con saggezza su un tema tanto delicato quanto strategico come l’inserimento del nucleare nel programma energetico nazionale, convergenza tanto più importante visto che le scelte si stanno opportunamente spostando in sede europea e per loro natura richiedono intese bipartisan,ecco cascare l’asino. Non c’è un minimo di tela tessuta, nessuno parla con nessuno e nessuno si fida di nessuno. E ci sono circostanze, come questa, in cui la buona volontà e l’arte della diplomazia di Gianni Letta non sono sufficienti.
Così ora Fukushima è l’ennesimo terreno di battaglia, l’ennesima occasione di speculazione elettoralistica. Con i riformisti che appaiono ancora una volta mediocremente a ruota dei massimalisti, e i moderati che pagano il fio al populismo e sono costretti a clamorosi quanto penosi arretramenti. Sia chiaro, io stesso ho indicato la necessità di una moratoria, ma che ha da essere generale,
mesi). Moratoria che abbia il compito di evitare che si passi dallo sterile dibattito tra i pro e i contro al battiamo tutti in ritirata perché i sondaggi lo consigliano, cosa che si può fare solo se il confronto avviene tra i non pregiudizialmente contrari, ed avviene sul se (è opportuno dopo Fukushima) e sul come (quale tecnologia per quale sicurezza) e dove eventualmente realizzare le centrali. Ma qui non siamo di fronte ad una saggia e condivisa pausa di riflessione. No, qui siamo all’abdicazione della responsabilità: dopo averla vellicata per bieche ragioni elettorali in tante circostanze, a cominciare dalla sicurezza nelle città, ora la “paura” dell’opinione pubblica ha preso il sopravvento, e una classe dirigente imbelle e un sistema politico tutto costruito solo sulla ossessiva ricerca del consenso, non possono che prendere atto della paura della gente e piegarsi ad essa. E’ passato quasi un quarto di secolo dal referendum che bloccò il nucleare, buttò a mare straordinarie competenze tecnologiche e industriali e determinò una costosissima dipendenza energetica, ma le condizioni non sono cambiate, prevale la “paura della paura”, cioè il timore che i politici hanno di non scontentare gli elettori, specie quando hanno paura di qualcosa.
Caro Presidente Napolitano, possiamo pure celebrare i 150 anni della nostra unità nazionale – ed io sono orgoglioso di essere stato tra coloro che hanno festeggiato con Lei ascoltando il Nabucco magistralmente diretto da Muti al Teatro dell’Opera di Roma – ma sappia che con questa classe politica, espressione di questo fallimentare sistema politico, di unità vera ce ne sarà troppo poca e sempre meno. Cosa che per l’Italia è e sarà il primo dei problemi, da cui discendono tutti gli altri. (www.enricocisnetto.it)
pagina 30 • 19 marzo 2011
150 anni d’Italia
Vita, passioni e politiche dell’uomo che litigava con Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II
I conti con Cavour
L’unificatore d’Italia è da sempre odiato o amato: merito della tensione perenne fra cesarismo e liberalismo (e della somiglianza con Bismarck). Ovvero, le qualità che lo hanno reso immortale di Maurizio Stefanini
he sarebbe successo se Cavour non fosse morto a soli 51 anni, appena 81 giorni dopo la proclamazione di quel Regno d’Italia di cui fu il primo Presidente del Consiglio? «Se avessi fatto in proprio ciò che ho fatto per il Regno, sarei finito al bagno penale». Come per molte delle frasi attribuite ai grandi uomini, anche per questa supposta confessione di Camillo Benso Conte di Cavour non esiste in realtà una documentazione inoppugnabile, e potrebbe dunque essere apocrifa. Ma esprime perfettamente quel che è l’opinione pressoché unanime degli italiani, e non solo di loro, per questo Padre della Patria che nei 150 anni dell’Unità è stato salutato dall’ex-comunista presidente della Repubblicana Napolitano «il più grande statista del nostro Paese».
C
Camillo Benso, conte di Cavour. La sua è una delle figure più controverse del Risorgimento: considerato un manipolatore, cinico e dedito soltanto alla ricerca del potere, era invece un genuino patriota e uno statista molto simile a Bismarck. Nella tensione fra liberalismo e cesarismo si individua uno dei tratti dell’epoca
Solo, che questo apprezzamento si rovescia poi in due giudizi opposti. Da una parte, infatti, c’è l’ammirazione proprio per questa abilità di sommo manovriero: che poi corrisponde peraltro a quell’esaltazione del cinismo che ha legato l’immagine del nostro popolo alla fama di Machiavelli. In questa chiave, la famosa biografia di Cavour di Rosario Romeo finisce così per trasfigurare in virtù e successi anche quegli aspetti del suo modo di essere che in un personaggio non del suo spessore storico sarebbero difficilmente perdonati. Ad esempio, la tendenza non solo a giocare in Borsa, ma soprattutto a perderci: tanto che a trent’anni ci volle il benevolo intervento del padre con 45.000 scudi, per salvarlo dal“farsi saltare le cervella”, sue parole, dopo aver giocato al ribasso su una guerra tra Francia e Egitto che non ci fu. Diventa intraprendenza. Oppure, i pessimi risultati di gran parte delle innovazioni introdotte nell’azienda agricola di famiglia. Segno che sarebbe stato in anticipo sui tempi. «Voi avete inaugurato in Piemonte un fatale dualismo, avete corrotto la nostra gioventù, sostituendo una politica di menzogne e di artifici alla serena politica di colui che desidera risorgere», fu il famoso rimprovero di Mazzini. «Tra voi e noi, signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l’Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto
l’unità nazionale, voi l’ingrandimento territoriale». Altrettanto duro lo scontro con Garibaldi, che gli rimproverava in particolare la cessione alla Francia della sua natia Nizza.
Ma, sebbene meno noto, anche le sue relazioni con il quarto Padre della Patria, Vittorio Emanuele II, furono spesso tese. «Siete una Merda!», fu quel che disse al suo Sovrano, dopo la norizia dell’Armistizio di Villafranca. Ma Adolfo Omodeo, altro famoso storico difensore di Cavor, anche questi contrasti li esaltò come spunti che permisero a Cavour di manifestare il suo talento di grande tessitore. Utilizzando la minaccia di una rivoluzione mazziniana e garibaldina come spauracchio, per ottenere dalle Potenze europee l’assenso a una preventiva unità nazionale nel senso moderato; ma d’altra parte anche contrapponendosi al rischio di una possibile involuzione autoritaria della Prerogativa Regia grazie a un uso sapiente dell’appoggio parlamentare. «Il vero re sono io!», fu un’altra delle cose che gridò al re dopo Villafranca. Insomma: il mito è che Cavour morì troppo presto. Che se solo fosse arrivato alla settantina d’anni regolamentare, avrebbe risolto sul nascere la gran parte dei problemi in cui il neonato Stato iniziò subito a inciampare, molti dei quali sarebbero stati risolti anni dopo, e alcuni dei quali non sono stati in realtà risolti mai. Il Sud, le autonomie, il conflitto con la Chiesa per Roma capitale, il senso di frustrazione militare nato dalla barbina figura della guerra del 1866 e foriero di funeste megalomanie di rivalsa, il ruolo del nostro Paese nel Mediterraneo e nel concerto delle Potenze, l’avvio dell’industrializzazione. Dall’altro, però, proprio la candida esaltazione che nella scuola dell’obbligo si è sempre fatta del machiavellismo cavouriano tra gli stessi ragazzini ha sempre generato un certo sconcerto. Una avversione pre-ideologica, che in tempi recenti è poi tornata a caricarsi di valenze ideologiche, anche se in qualche modo il filo-cavourismo e l’anti-cavourismo, finiscono per essere ampiamente e stranamente trasversali. Le accuse di manipolazione elettorale in particolare in occasione dei plebisciti sull’Unità; l’uso
spregiudicato della Contessa di Castiglione come esca sessuale per Napoleone III; le accuse di saccheggio delle riserve auree del Regno delle Due Sicilie; il doppio gioco con Garibaldi: è tutto un repertorio che di recente ha ripreso a saccheggiare la risorta polemica antri-risorgimentale di stampo leghista, neo-borbonica e cattolico-tradizionalista; e che d’altra parte sembrano accreditare lo stereotipo di “Italia del Malaffare”che per colpa di Cavour avrebbe deviato dal rigorismo morale mazziniano.
Insomma, l’antesignano di quel profilo di politici amorali che passando per Giolitti e Andreotti finisce per arrivare a Berlusconi. Denis Mack Smith, storico inglese che appunto alla storiografia radicale italiana si è abbeverato, ha contribuito potentemente a volgarizzare l’immagine di un Cavour come modello di una dittatura di fatto con paravento parlamentare: poi trasformatasi con la caduta del paravento nella dittatura tout court di Mussolini. Insomma, il grande corruttore della politica italiana: che per quanto morto giovane, sarebbe comunque vissuto troppo a lungo. In modo meno schematico, il politologo grande teorico del bipartitismo imperfetto Giorgio Galli ha comunque indicato nel Connubio di Cavour l’inizio di quella prassi che attraverso il trasformismo di Depretis, le pratiche giolittiane e il “pluralismo polarizzato”Dc, per dirla alla Sartori, ha finito per impedire all’Italia fino a tempi recentissimi l’avvento di una compiuta democrazia dell’alternanza. Eppure, anche il grande guru del giustizialismo Marco Travaglio si proclama un fan del Conte di Cavour. E Arrigo Petacco ha di recente perfino sdoganato Cavour come un antesignano della Padania, in un modo che ha entusiasmato Bossi. E che dimostra quanto davvero non ci sia nulla di più inedito del già scritto: e non si era sempre studiato in quinta elementare e terza media, che gli originali accordi con Napoleone III non avevano previsto un’Italia unita, ma una federazione tra quattro Stati sotto la presidenza del Papa e l’influenza francese? E non si spiegava appunto ai bambini che Cavour, anche se a dir la verità la sua verdura preferita erano piuttosto gli asparagi nel risotto, ave-
19 marzo 2011 • pagina 29
150 anni d’Italia
va architettato questo compromesso per incassare intanto qualcosa nell’attesa di trovare il modo per abbindolare l’imperatore francese, secondo la strategia suggerita dal consumo di un altro vegetale? Il carciofo, una foglia dopo l’altra per arrivare al cuore…
In realtà, poi, a rileggersi i semplici dati biografici e gli scritti di Cavour, sarebbero tanti gli stereotipi consolidati che sarebbero destinati a saltare. Ad esempio: tutti sanno della sfuriata con Vittorio Emanuele II dopo Villafranca, anche se nei libri di scuola non veniva evidentemente riportato il vocabolario che aveva usato. Ma proprio l’ostinazione con cui
La storiografia lo dipinge cinico, calcolatore e un po’ grassoccio. In realtà aveva sentimenti, una forma fisica invidiabile e molto amore per il Paese voleva che l’esercito piemontese andasse avanti da solo anche senza i francesi, dovrebbe forse indurre a qualche ripensamento, sull’immagine che lui era quello che riteneva gli italiani incapaci di farcela senza un aiuto esterno. Non solo Villafranca, ma anche il modo con cui da ragazzino si ribellò alla“livrea di gambero” che il padre gli aveva procurato co-
me paggio dell’allora principe Carlo Alberto, e il grido di “viva la repubblica!” con cui da cadetto salutò in pieno Circolo Militare la rivoluzione di luglio francese del 1830: ecco alcuni importanti correttivi che bisognerebbe sempre ricordarsi di apporre, alla un po’sbrigativa etichetta di“servitore della Dinastia”. Poi c’è la testimonianza dell’amico Castelli, che dopo la battaglia di Goito gli andò a dare la notizia della morte in combattimento dell’amatissimo nipote Augusto, il figlio del fratello maggiore Gustavo. Una tremenda crisi di disperazione, con l’appena eletto deputato che si ro-
tolava letteralmente a terra strappandosi i capelli; e l’uniforme del caduto sporca di sangue che sarebbe da allora rimasta appesa in una teca di casa sua.
Da confrontare con l’altra idea di un Cavour guerrafondaio, incurante dei terribili costi umani che ogni guerra comporta. E c’è pure il Cavour imprenditore agricolo che mangiava con i suoi dipendenti, giocava a carte con loro e fondava opere assistenziali a essi rivolte: anche qui, da verificare con l’immagine del Cavour elitario, e indifferenti alle sorti degli umili. Peraltro, perfino il Cavour fisico per la maggior parte della sua vita non coincise affatto con il tracagnotto miope dei suoi ritratti più famosi. Per lo meno, da giovane era un giovanotto esile, biondo, con grandi occhi cerulei dall’espressione infantile. Ma forse il modo migliore per inquadrarlo, Cavour, è di vederlo con gli occhi dei suoi coetanei. In un’epoca in cui lo Statuto Albertino non dava il voto a più del 2% degli italiani, ma nella stessa Inghilterra madre del parlamentarismo non si oltrepassava il 6% di elettori, e nella gran parte dell’Europa non si votava proprio. Un recentissimo testo che si è occupato di ciò è quello appena uscito per il Mulino a opera di Gian Enrico Rusconi, e che paragona il forgiatore dell’Unità d’Italia Cavour con quello dell’unità germanica Otto di Bismarck. Importante, perché oggi con l’attrazione per il modello federale e per il successo della Brd sono diventati legione coloro che rimpiangono che l’Italia non abbia avuto un Bismarck a sua volta, invece di un Cavour. Ebbene: secondo Rusconi i documenti dell’epoca ci mostrano come fossero allora piuttosto i tedeschi a rimpiangere di aver a disposizione un Bismarck e non un Cavour. Innanzitutto, perché comunque l’unità d’Italia arriva prima. E poi perché in entrambi i leader c’è una evidente tensione tra il modello liberale e quel modello di sintesi tra democrazia e auto-
ritarismo che allora iniziava a essere definito“cesarismo”, anche se in effetti derivava da Napoleone. Ma in Cavour questa leadership forte veniva comunque esercitata secondo la logica parlamentare liberale. Mentre Bismarck col Parlamento si trovava in costante tensione, tenendolo a bada grazie a una spregiudicata combinazione tra l’autorità monarchica e strumenti democratici, e basando la propria ricerca dell’unità tedesca molto più sul formidabile strumento militare dell’esercito prussiano, che non sulla politica o sulla diplomazia.
A differenza di Cavour, morto prematuramente, Bismarck sopravvisse al potere fino al 1890, quando fu rimosso d’autorità del kaiser Guglielmo II. Quello stesso che avrebbe poi condotto alla catastrofe della Prima Guerra Mondiale: anche se oggi la gran parte degli storici tendono a ridimensionare le sue responsabilità rispetto a quelle della casta militare. Per cui come la storiografia alla Mack Smith collega Cavour a Mussolini, non è mancato chi specie dopo il 1945 ha tracciato un filo rosso da Bismarck a Hitler. Sebbene anche un grande pensatore liberale come Max Weber abbia potuto indicare Bismarck come fonte della propria teoria sul potere carismatico: «In effetti ogni democrazia tende a questo. Il mezzo specificamente cesaristico è il plebiscito». In realtà, secondo Rusconi, Cavour e Bismarck rappresentano «due significati diversi di occidentalizzazione: quella italiana è avvicinamento, imitazione delle nazioni occidentali; quella tedesca è competizione oscillante tra il sentirsi l’anti-Occidente e l’altro Occidente». Esempio compiuto di una visione strategica globale volta a creare un sistema Paese in cui un’economia moderna e sana era altrettanto importante che non il potenziamento delle Forze Armate, la tessitura di una rete di alleanze, la crescita del prestigio internazionale e la precisa assunzione di iniziative politiche, Cavour è al contempo l’esempio di “un coerente liberalismo costituzionale che sa tradursi anche in un agire politico risoluto”. Insomma, era comunque un uomo di 150 anni fa. Ma ce ne fossero oggi, di uomini dell’800 come lui!
ULTIMAPAGINA La storia paradigmatica di un colosso (ritrovato) del made in Italy
Parmalat addio? Il «gioiellino» adesso fa gola ai di Gianfranco Polillo assalto all’arma bianca del capitale finanziario francese a quel che resta delle grandi aziende italiane si è, ormai, trasformato in un vero e proprio assedio. Dopo la conquista di Bulgari da parte del gruppo Louis Vuitton, che ormai controlla gran parte dei rami alti del made in Italy, è la volta del comparto assicurativo e della filiera agro-alimentare. Le prede predestinate sono da un lato il gruppo Ligresti, che con la sua holding di famiglia controlla Fondiaria Sai e Milano Assicurazioni; dall’altro Parmalat. Sì, proprio Parmalat: quella immortalata dal film Il gioiellino che tanti dolori aveva dato a coloro che avevano creduto in Callisto Tanzi, il cui crac è passato alla storia sia per l’intensità del tonfo (svariati miliardi di euro) sia per l’ingenuità mostrata dalle grandi piazze finanziarie (Wall Street in testa) nel concedere credito su documenti grossolanamente falsificati. Passata a nuova vita, sotto la dura gestione di Enrico Bondi, che ha avuto la forza di non guardare in faccia a nessuno, è divenuta un’azienda appetibile: sia per la qualità della sua produzione, sia per un marchio dotato, non solo in Italia, di un grande appeal. Sia, infine, per la liquidità finanziaria che caratterizza i suoi bilanci.
L’
Il cavaliere nero, che vorrebbe conquistarla, risponde al nome di Lactalis: un grande gruppo multinazionale, solidamente impiantato in Francia, costituitosi nel 1999, come erede della vecchia società Besnier. Poco più di una bottega, nata nel 1933, quando con un solo impiegato produceva 35 litri di latte e 17 forme di camembert: il formaggio icona ed emblema della Francia. Attualmente Lactalis, controllato dal nucleo famigliare originario, è il terzo gruppo mondiale lattiero, primo in Europa. È, anche, il primo produttore europeo di formaggio e il secondo gruppo agro-alimentare francese. All’Italia già deve tanto. Nel 1997 aveva acquistato dalla Nestlè il gruppo Locatelli. Nel 2003 dalla Kraft, l’Invenizzi arricchendo il suo carnet di prodotti come il gorgonzola, la crescenza e la mozzarella. Nel 2005 acquista la Cademartori, attiva in Italia dalla metà dell’800. Nel 2006, infine, il colpo grosso: il controllo dalla Galbani, azienda leader nella produzione dei formaggi tipici italiani e il salto nella classifica mondiale – secondo posto - nella relativa produzione. Insomma, per dirla con Bertolt Brecht: una resistibile ascesa. L’eventuale conquista di Parmalat sarebbe il compimento di una lunga storia. Eventuale, visto che i giochi non sono ancora fatti e le carte non sono state ancora distribuite. Nei casi preceden-
temente citati, tutto era stato più facile: lo scambio era avvenuto in sordina, senza il clamore della borsa che, sebbene continui ad essere uno strumento tutt’altro che perfetto, almeno un merito gli va riconosciuto. Certe operazioni non passano inosservate. Negli ultimi giorni, infatti, il titolo Parmalat aveva subito una serie di strappi al rialzo, in un panorama reso plumbeo dalle notizie inerenti il Giappone e le sponde del Mediterraneo. Rialzi consistenti: dell’ordine del 7/8 per cento. Ancora ieri il titolo aveva fatto registrare nuovi incrementi: segno che mani forti compravano con insistenza. In poco più di una settimana, era passato di proprietà circa il 20 per cento del capitale sociale. Ed è allora che le luci si sono accese, costringendo il gruppo francese a
sera ed Enrico Salsa. Il terzo incomodo, infine, è lo stesso Enrico Bondi, cui va il merito di aver risanato una situazione che sembrava disperata, e ha l’appoggio di Banca Intesa, grazie al suo particolare rapporto con Corrado Passera. Come finirà? È troppo presto per dirlo. Le prime schermaglie non fanno prevedere nulla di buono. Dal lato dei francesi sta la forza di un grande gruppo industriale che ha le caratteristiche che abbiamo descritto e una potenza di fuoco straordinaria. C’è, tuttavia, qualche titubanza: tattica o effettiva che sia. Le prime dichiarazioni sono tranquillizzanti. Hanno assicurato di non voler salire oltre il 30 per cento del capitale, per evitare di dover lanciare un’opa, secondo quanto prescrive la legge italiana.Voci, altrettanto incerte, parlano di un
FRANCESI È guerra aperta tra Lactalis e Banca Intesa per il controllo dell’azienda che, dopo il crac dell’èra Tanzi, è tornata a brillare grazie alla gestione di Enrico Bondi venire allo scoperto. Era in scadenza, infatti, il termine per la presentazione delle liste per il nuovo consiglio d’amministrazione, in vista dell’assemblea del prossimo aprile che deciderà la governance stessa della società.
Lactalis possiede, al momento, l’11,42 per cento del capitale sociale. Quota destinata ad aumentare al 14,28, grazie al possesso di un equity swap per la differenza. Ma non è il solo a essere interessato all’operazione. Tre fondi di investimento (Zenit, Skagen e Mackenzie), tra loro legati da un patto parasociale, ne posseggono il 15,3 per cento. La lista è capitanata Massimo Rossi, ex amministratore delegato di Swedish Match (partecipò alla privatizzazione dei tabacchi italiani), dove ha trascorso ben 25 anni di attività, e comprende tra l’altro i nomi di Rainer Ma-
abboccamento con lo stesso Bondi, per candidarlo alla testa della propria lista. Un ramoscello d’ulivo che ha lasciato scettici molti osservatori. Altre voci ipotizzano un’alleanza, in funzione antifrancese, tra i tre fondi d’investimento e lo stesso Corrado Passera. Pure queste smentite da Massimo Rossi. Insomma: si gioca a carte coperte, in attesa del momento più propizio. Ed allora che dire? L’unico dato certo è quello che avevamo indicato nei giorni passati. L’Italia rischia sempre più di divenire terra di conquista francese: nel lusso, nelle assicurazioni, ora nel consolidamento di quegli interessi nella filiera agro-alimentare, che rappresenta forse una delle ultime spiagge delle antiche produzioni del Bel Paese. Tutto ciò denota un’assenza di prospettive che dura da troppo tempo. Siamo ancora una discreta potenza manifatturiera, grazie a quella risorsa straordinaria che è rappresentata dalle migliaia di piccole e medie industrie. Ma l’orizzonte italiano è sempre più simile a quello di una savana: tanti arbusti e vegetazione di sottobosco, ma nessun albero in grado di fare ombra e trattenere, con le sue radici, gli smottamenti del terreno. Dovremmo tutti riflettere sulle conseguenze di questo stato di cose. Dovrebbe riflettere, in primo luogo, la politica, ma non solo. Occorre, forse, una consapevolezza più diffusa. Stiamo rischiando molto, come mostra quest’ultima vicenda. Ed è bene che tutti (maggioranza, opposizione e forze sociali) ne siano avvertiti.