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mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Il nuovo film di Clint Eastwood
ANGELINA FORMATO OSCAR di Anselma Dell’Olio l nuovo film di Clint Eastwood (Changeling) sembra studiato a tavolometrica centralina su pattini a rotelle. Per non parlare dei deliziosi caplino per candidare la protagonista all’Oscar. Era già successo pellini ad hoc per ogni mise. Abita in un modesto bungalow in un Sembra con Million Dollar Baby. Christine Collins (Angelina Jolie) quartiere popolare senza aiuto domestico: quando è chiamata alstudiato è a capo di un esercito di centraliniste nella Los Angel’improvviso per sostituire una collega, è costretta a lasciales del 1928, ed è una mamma sola con un bambino di re solo Walter. Quando torna a casa, il bambino non c’è a tavolino “Changeling”. nove anni. Christine racconta al figlio Walter, più, la polizia risponde che la regola impone di cerPer garantire il premio più ambito quando le chiede di suo padre. «Ci sono percare un bambino scomparso solo dopo 24 ore, alla protagonista Jolie. Che, pur elegantissima, sone che non se la sentono di assumersi la perché entro quel tempo di solito ricomresponsabilità di essere genitore». Jolie, alpaiono. La polizia di Los Angeles all’epoca non riesce a dare spessore al suo personaggio. l’inizio della sua ultima gravidanza mentre girapassava uno dei suoi ricorrenti periodi neri, atUna bella confezione va il film, porta una serie di abiti anni Venti che le nataccata dalla stampa e dai cittadini per la brutalità, che non approfondisce scondono la pancetta, ma la fanno sembrare magrissima la corruzione e l’arbitrio. Cinque mesi dopo, nell’Illinois, ed estenuata ancor prima che sparisca nel nulla il bambino. viene ritrovato un ragazzino che dice di essere Walter Collins. i temi sollevati La serie di vestiti che sfoggia nel film sono di una tale chiccheria continua a pagina 2 che ci si domanda come poteva permetterseli una che controlla la chi-
I
9 771827 881301
81115
ISSN 1827-8817
Parola chiave Medio Oriente di Gennaro Malgieri Grace Jones, il ritorno della Pantera nera di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Belli, la commedia di un illuminista romano di Filippo La Porta
Morde e colpisce l’esordio di Marcus Sakey di Pier Mario Fasanotti L’Etrusco e il Cavaliere di Angelo Capasso
L’Apocalisse secondo Aaron Young di Marco Vallora
angelina formato
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segue dalla prima
di e non stropicciati come nei comuni mortali appena svegli. Queste sono antiche convenzioni da «cinema di papà», fuori uso da decenni. Non serve un realismo documentaristico, ma quel poco di verosimiglianza che impedisca allo spettatore di «uscire» dal film. Con queste premesse, la svolta repentina e mai dichiarata (da incubo burocratico in horror, con il mistero centrale della storia irrisolto) finisce per confondere chi non s’accontenta della laccata offerta da Oscar congegnata da Eastwood.
La polizia di Los Angeles ne dà l’annuncio trionfale, e una folla di giornalisti e fotografi si presenta all’arrivo del treno per immortalare il commovente ricongiungimento famigliare, sul quale il capo della polizia e il sindaco investono le loro speranze per rifarsi l’immagine. Ma Christine protesta subito che il bambino non è suo figlio, e il capo della polizia la convince che cinque mesi in compagnia di un senzatetto possono trasformare un ragazzino in crescita. Frastornata, lei accetta di tenerlo «in prova», ma appena a casa ogni dubbio è fugato quando vede che il changeling (bambino sostituto) è di sette centimetri più basso di Walter (secondo i segni sulla parete che marcavano la crescita del figlio) ed è circonciso mentre il figlio era intatto. La polizia non ha intenzione di farsi strappare la gloria acquisita e mette in campo medici e psichiatri per dimostrare che la Collins è una madre snaturata, gelosa della ritrovata libertà, o una squilibrata incapace di riconoscere il proprio bambino. Rinchiusa in manicomio, subisce un trattamento di tale violenza e ingiustizia che la nostra indignazione è scontata. C’è persino una prostituta detenuta con lei che spiega l’inutilità di ribellarsi: qualunque cosa si dica o si faccia, ci sarà un’interpretazione che dimostra la demenza conclamata della paziente. Se reagisci, ti mettono la camicia di forza e ti fanno l’elettrochoc. Christine sarà salvata grazie a un pastore protestante con un popolare programma radiofonico, il reverendo Gustav Briegleb (John Malkovich, in parrucca bionda), che conduce una crociata contro i soprusi della polizia, e la Collins è un caso esemplare che non si lascia scappare. Riesce a farla liberare e in tribunale le testimonianze della maestra, dei compagni di scuola e del dentista di Walter dimostrano che Christine non è pazza e il changeling non è suo figlio. La donna torna alla carica perché si cerchi suo figlio e nel frattempo un detective alla ricerca di un ragazzino canadese da rimpatriare perché senza visto, scopre un ranch e i suoi mostruosi segreti.
A questo punto, il film smarrisce il tema della nobile e addolorata mamma perseguitata dalle istituzioni e l’eroe diventa un poliziotto del Lapd, il detective Lester Ybarra (Michale Kelly), che scova e interrompe un’orribile catena di delitti. Kelly è anche l’unico attore del cast che crea un personaggio credibile. Per il resto, i buoni sono angeli e i cattivi sono orribili. Solo Malkovich propone un Briegleb potenzialmente pluridimensionale, ma non ha lo spazio per svilupparlo. Jolie propone un’infinita gamma di espressioni smarrite, preoccupate e sofferenti che la camera accarezza in insistenti primi piani che possono essere scambiati per una grande prova d’attore. In realtà il personaggio è monocorde, senza pieghe e complessità. Non aiuta il perfettismo oleografico dell’ambientazione: le auto d’epoca da museo, le strade semivuote, senza quell’aria provvisoria e incompiuta di paesone di frontiera ancora non addomesticato, autentico. Quando Christine si sveglia il mattino dopo la scomparsa del figlio, il viso è levigato e luminoso, le onde dell’acconciatura sempre senza un capello fuori posto, gli occhi sgranati e limpi-
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni
oscar
TITOLO CHANGELING GENERE THRILLER DURATA 140 MINUTI PRODUZIONE USA 2008 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL PICTURES REGIA CLINT EASTWOOD INTERPRETI ANGELINA JOLIE, JOHN MALKOVICH, JEFFREY DONOVAN, COLM FEORE, JASON BUTLER HARNER, AMY RYAN, MICHAEL KELLY, DEVON GEARHART, KELLY LYNN WARREN
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)
In alto, il regista Clint Eastwood con Angelina Jolie e alcune immagini del film
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti Gaia Marcorelli 06.69924088 • fax 06.69921938
Senza rivelare troppo, il fatto è che il film tradisce se stesso, perdendo per strada il dramma iniziale, senza che sia sostituito in maniera soddisfacente, anche se quel che segue è più orribile del tema originale del cittadino inghiottito nel perverso ingranaggio d’istituzioni che dovrebbero proteggerlo. Dopo aver visto quest’opera osannata da tanti critici e che sicuramente troveremo candidata a qualche Oscar, resta l’impressione che forse avrebbe avuto più autenticità scegliendo come tema i due aspetti legati alle forze di polizia: la pericolosità da una parte e l’indispensabilità dall’altra. Oppure con un taglio da film dell’orrore vero e proprio. Gli elementi ci sono tutti, e in un prodotto di qualità si poteva indagare l’orrore di un incubo universale, con gore e splatter giustificati, senza accuse di violenza pretestuosa. Alla fine abbiamo un film di quasi due ore e mezzo, senza l’ombra di una riflessione sull’inconoscibilità e l’inevitabilità del male, la commistione di buono e cattivo nelle istituzioni e negli esseri umani, la fallibilità di ogni impresa umana. È come sfogliare un bel libro d’epoca, in cui s’ammirano le figure, la loro eleganza, ma con uno sviluppo della storia che non porta da nessuna parte. A molti piacerà e forse avrà un gran successo. Bisogna rassegnarsi: Eastwood è ormai un regista canonizzato, sin da Gli spietati, film inspiegabilmente benedetto con due Oscar, passando per il ricattatorio e artefatto Million dollar Baby (Oscar per l’attrice protagonista Hillary Swank), Flags of our Fathers e Iwo Jima (nominato); il penultimo inutile, mentre l’ultimo aveva soprattutto il merito di dar voce ai soldati giapponesi in una sanguinosa battaglia della seconda guerra mondiale. Solo il cupo Mystic River, con un cast tutto da Oscar, meritava lodi esagerate. Quanto a Jolie, dopo l’Oscar come attrice non protagonista in Ragazza, interrotta si è accontentata di film giocattolo come Lara Croft e Mr and Mrs Smith, o del nobile e sofferente Un cuore grande, passando per il turgido Il buon pastore, dove è fuori ruolo in una comparsata. (Ma il fantastico kitsch della sua interpretazione come l’erpetofila mamma Olympias in Alexander di Oliver Stone è imperdibile, specie per il suo indecifrabile accento nella versione originale.) Si è dedicata con più passione alla maternità, alle adozioni arcobaleno e al lavoro umanitario. Aspettiamo che esaurisca il ruolo di Mamma Universale e scelga ruoli impegnativi, con tutte le sfaccettature che danno il soffio della vita a un film, ed eviti parti premasticate come questa, che ha la sfrontatezza di fare l’occhiolino agli Academy Award: alla fine del film la Collins scommette su Accadde una notte come vincitore dell’Oscar, un messaggio per i duri di comprendonio.
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it
MobyDICK
parola chiave
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MEDIO ORIENTE a terra dove ha avuto luogo il nuovo inizio, oltre duemila anni fa, rischia di essere la tomba dell’umanità. Per quanto paradossale possa sembrare, è proprio così. E a nulla servono le quietanti speranze contornate di attese: nel Medio Oriente si gioca la partita decisiva. Una partita sul tavolo della convivenza religiosa che dà origine a quella più propriamente politica. La questione israelo-palestinese è il detonatore di un conflitto più vasto: l’impossibilità per le tre religioni monoteiste di trovare un accordo che garantisca la pace nella regione. Qui sta l’orrore: combattersi nel nome del Dio unico. Il sangue versato da decenni ha inondato perfino il Mediterraneo e noi, ormai avvezzi a tutte le perversioni praticate nel nome del potere, ci siamo adattati a ritenere «normale» la carneficina mediorientale. Quale affronto davanti alla Casa del Padre, al Tempio dell’umanità redenta, alla sofferenza del Crocifisso.
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Chi considerasse la guerra in corso con i parametri normali che solitamente si usano per qualificare le contrapposizioni più cruente, si sbaglierebbe. Non è in discussione il riconoscimento di due Stati e due popoli: anche questo, naturalmente per i più ottusi; o la sopravvivenza di questa o quella etnia. La prevalenza nel conflitto è di natura spirituale e culturale: nessuno immolerebbe se stesso, i propri familiari, la gente che gli è più vicina se, consapevolmente o inconsapevolmente, al fondo dell’odio non vi fosse un’insanabile contrasto teologico. E il contrasto, lo ricordo a chi se ne meraviglia, avviene proprio tra le famiglie che nascono dallo stesso ceppo. I credenti del Dio unico sono più versati a distruggersi di altri che abitano mondi religiosi lontani, incomunicabili, inaccessibili. È come se in Medio Oriente si combattesse una guerra civile fondata non tanto, o non soltanto, sul controllo del territorio, ma sulla ragione pre-politica dell’affermazione di una fede. A noi tutti appare incomprensibile come al debutto del XXI secolo si possa ancora vivere e morire, per i più senza sapere perché, nel nome di una idiosincrasia maturata nel corso del tempo e radicatasi in maniera tale da non essere estirpata. È una delle contraddizioni del nostro tempo. Infatti, mentre tentiamo di instaurare processi se non di pace perpetua quantomeno di tregua accettabile e duratura, vicino a noi occidentali ci si scanna invocando il nome di Dio, vale a dire bestemmiandolo. Eppure guardando al Medio Oriente dalla spianata delle moschee o dal Monte Nebo o dalle due sponde del Mar Morto vengono in mente deserti quietanti e un cultura fiorita tra le aride piste battute da avventurosi guerrieri e ricercatori, da profeti e da santi, da solitari e da carovanieri, da mercanti e da poeti in cerca di gloria. Può essere che il tormento abbia scacciato la serena preghiera che siriani e palestinesi, ebrei e cristiani, giordani e libanesi volgevano al cielo stellato, incuranti delle sabbie che battevano i loro volti, ma non scalfivano le loro anime? Aggirandomi tra le rovine di Jerash,
Il conflitto che si consuma nelle terre dove oltre duemila anni fa ha avuto luogo il nuovo inizio è spirituale. Non si combatte per il controllo del territorio ma sulla ragione pre-politica dell’affermazione di una fede. E così un mondo carico di suggestioni rischia di diventare la tomba dell’umanità…
Perdersi nel nome del Dio unico di Gennaro Malgieri
Aggirandosi per le vie di Amman e di Damasco si nota nelle giovani generazioni non toccate dal fondamentalismo una sorta di rassegnazione: sognano un Occidente che non c’è, desiderando che i luoghi pieni di odio assegnati loro dal destino, vadano finalmente in malora città amata da Marc’Aurelio, ho a lungo riflettuto, ai margini del deserto giordano che in epoca romana non aveva nome e faceva parte della grande provincia a est del ricco Egitto, come sia stato possibile, nel volgere di due millenni che le pietre non siano state scomposte, ma soltanto consumate dal tempo, mentre i popoli del luogo siano rimasti impigliati nella rete del rancore, incapaci di rinno-
vare una grande civiltà, insensibili ai richiami del solo Dio a cui hanno deciso di appartenere. E non ho saputo dare una risposta, spostando più in là lo sguardo alla ricerca di segni che mi facessero sperare. In verità ho continuato a udire, ai margini di una conferenza internazionale (l’ennesima!) le stesse vuote parole di sempre, insieme con l’invocazione di una speranza che tale, a mio modo di ve-
dere, è destinata a rimanere. Il Medio Oriente si spegne perché sotto il suo cielo è morta la pietà. Pochi giorni fa, religiosi armeni e greco-ortodossi se le sono date di santa ragione - non si sa per quale motivo - davanti al Santo Sepolcro. Il fumo di Satana è penetrato anche in quei luoghi? Ormai non ci si deve meravigliare più di nulla. Neppure di un Occidente che non comprende ciò che avviene da quelle parti e si impanca ad arbitro della contesa incurante che i giocatori non lo ascoltino. Deve continuare a recitare la parte che si è assegnato fin da quando, al tramonto dell’età dell’imperialismo, nessuno gli chiedeva di ingerirsi in questioni che non lo riguardavano da vicino. Invece i suoi strateghi presero riga e compasso e disegnarono il «loro» Medio Oriente, incuranti che i popoli soggiogati da possibili volontà di potenza da esprimere gli uni a scapito degli altri, sarebbero stati costretti, così, a gettare a mare la loro spiritualità per farsi aggressivi, invadenti ed esercitare i loro «legittimi» egoismi perdipiù in nome e per conto di altri ai cui interessi si sentivano inestricabilmente legati. Oggi chi si aggira per le vie di Amman e di Damasco non può fare a meno di riscontrare una sorta di rassegnazione da parte delle giovani generazioni non toccate dal fondamentalismo. Sognano un Occidente che non c’è, immaginano una vita oltre i confini che il destino gli ha assegnato, desiderano che il Medio Oriente, con il suo odio e le sue tribali ragioni che si contendono l’avvenire di un mondo in rovina, vada finalmente in malora. E intanto scrutano i segni di un avvenire che non è nelle loro mani parlando di ciò che hanno visto alla Cnn o dell’ultimo concerto di un altro gruppo rock che si è ricomposto per la gioia dei discografici.
Eppure c’è tanta pace sulle acque apparentemente ferme del Mar Morto da tuffarcisi dentro e gridare la propria disperazione di occidentale che vorrebbe tenere ancora dentro di sé quel mondo che sta sprofondando. Dopotutto un drink al tramonto, sorseggiato davanti a quelle acque, se non fa dimenticare la realtà, quantomeno stempera il dolore. Potenza del Medio Oriente. Contaminato, ma ancora suggestivo. Capace di ispirare poesie, musiche, danze. Ed evocare ombre amate di occidentali che l’hanno percorso senza immaginare che dal loro confondersi con il deserto sarebbe maturata la tragedia che andiamo da decenni raccontando. L’ombra di Lawrence d’Arabia mi tiene compagnia, mentre gli occhi si strizzano cercando di intuire oltre le luci di Gerico i patimenti nascosti che nessuna televisione riuscirà mai a raccontare. Il Medio Oriente è una storia triste che non finirà mai. Coltiviamo pure le nostre umanissime illusioni, ma fino a quando non sarà chiaro il motivo profondo del conflitto, quella splendida terra, così romana, così greca, così europea, così araba, così religiosa è destinata a sparire, poco alla volta. A perdersi nel gorgo della sua stessa storia, come si sono perduti tutti coloro che hanno cercato di domarla.
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cd
musica
Grace Jones
il ritorno della Pantera nera di Stefano Bianchi ccome se si è rifatta viva. Con gli interessi. Raggrumando parole acuminate. Sentitela, mentre ringhia «Questa è la mia voce, l’arma che ho scelto» facendosi soggiogare da percussioni tribali, unghiate di funky e ragamuffin, asfalto metropolitano e laser da discoteca. This Is, s’intitola il pezzo che apre ma-
E
gnificamente Hurricane dopo vent’anni di silenzio. Grace Jones è tornata, cavalcando sprezzante le sue 60 primavere. Correva il rischio, la pantera giamaicana, d’esporsi al ridicolo. Proprio lei, l’icona color ebano che negli anni Ottanta si fece dipingere (letteralmente, sulla pelle) da Keith Haring, ritrarre da Andy Warhol e fotografare
in libreria
da Jean-Paul Goude per ostentare la sua bellezza inquietante, ambigua, sovrannaturale. Che si trasformò in cyber-femmina per poter inghiottire una Citroën CX in uno spot pubblicitario. Che aveva il vizio d’infilarsi, nelle notti a tripla x di New York, in tute di lattex nero. E come lo schioccava, il frustino sadomaso, al ritmo di La Vie en Rose, Libertango e Pull Up To The Bumper. Al suono di Warm Leatherette, Nightclubbing, Slave To The Rhythm e altri album che col tempo sono diventati imprescindibili. Già, il tempo. Vent’anni dopo. Ma Grace Jones, tutt’altro che patetica, lo indossa con nonchalance in questo cd audace, sfrontato, prezioso. Non soffia, l’uragano Grace, sulle mode d’oggidì; ma traccia qua e là nuove ipotesi sonore. Perché lei, l’eterna virago, negli ultimi anni ha preferito gettare al vento un paio di dischi insipidi per potersi meglio concentrare su questi nove pezzi che vedono, fra gli altri, la partecipazione di Brian Eno, Tricky e della coppia Sly & Robbie che le svelò i segreti del reggae. Quella caracollante musica, cioè, che in Well Well Well diviene ispida (ricordando i bei tempi d’alta classifica di My Jamaican
mondo
Guy) per poi addolcirsi in Love You To Life. «Piacere di conoscerti, piacere di averti nel mio piatto, la tua carne è dolce per me», canta la tenebrosa Grace in Corporate Cannibal. E il ritmo si fa plumbeo, rallenta nel trip-hop e rumoreggia fra scansioni vocali nello stile di Laurie Anderson. Sperimenta eccome, Mrs. Jones. Come prima e più di prima. Scandendo l’insolente ballabilità di William’s Blood, incastonata fra gospel e precipizi metal, con tanto di finale pilotato dall’ultraclassica Amazing Grace. Delineando il fascino perverso e i contorni dark di Devil In My Life. Liberando le camaleontiche sonorità di Hurricane. E anche quando l’uragano si placa (nella soffice, liquida I’m Crying Mother’s Tears e nell’esotismo che si abbandona al calypso di Sunset Sunrise, scritta da suo figlio Paulo), c’è il disturbo geniale, l’aritmìa calcolata, la voglia pazza di dare un senso vero alla musica. Citando, inevitabilmente, gli Eighties newyorkesi in bilico fra no wave e discomusic. Senza celebrarli, però. Né autocelebrarsi. Perché è lei la pantera nera. E solo a lei è permesso d’intonare «Sono la scintilla che farà esplodere il mondo». Grace Jones, Hurricane, Wall Of Sound/Spin-Go!, 18,90 euro
riviste
SLASH SI RACCONTA
IL RITORNO IMPREVISTO DEI BLUR
LE NOTE DI UN ACQUAZZONE IN CITTÀ
D
icono che abbia ormai gravi problemi a mantenere alta la soglia d’attenzione, che sia in grado di raccontare alla perfezione quello che gli è capitato negli anni Ottanta ma non ricorda cosa stesse facendo due ore fa. In ogni caso Slash, talentuoso e bizzarro chitarrista dei Guns’n’Roses, è riuscito a mantenersi lucido abbastanza per raccontare la sua storia al giornalista Antony Scaduto,
N
on l’aveva mai ufficialmente sciolto, ma con un solo album all’attivo negli ultimi dieci anni erano in pochi ormai ad aspettarsi un ritorno sulle scene dei Blur. Invece la prima creatura di Damon Albarn, che ha trascorso l’ultima decade a sperimentare con le sonorità africane e con il progetto Gorillaz, sembra destinata a tornare in studio. Lo ha annunciato lo stesso leader in un’intervista a
C
Una biografia del talentuoso e bizzarro chitarrista dei Guns’n’Roses firmata da Antony Scaduto
Damon Albarn rincontra Graham Coxon e lascia intendere che un nuovo disco è più che possibile
“New Musical Express” presenta l’elenco delle cinque migliori canzoni sulla pioggia
che l’ha trascritta in Slash (EB edizioni, 496 pagine, 22,00 euro). Il volume è una ponderosa biografia che porta forse il contributo definitivo alla storia del gruppo capace di rimettere le chitarre al centro della scena musicale dopo anni di tastiere e sintetizzatori. Non c’è particolare originalità nella storia di Slash; tutti i cliché del rock sono riproposti nel solito affastellarsi di droghe, donne e furiosi litigi, ma dalle pagine emerge prima di tutto la violenta voglia di emergere di un gruppo di ragazzi losangelini che con la loro musica dura e ruvida, ma tutt’altro che rozza, hanno aperto la strada a decine di gruppi che esploderanno con il grunge della più intellettuale Seattle.
Bbc Newsbeat: il cantante ha di recente incontrato il chitarrista Graham Coxon, uscito dal gruppo durante le registrazioni dell’ultimo album Think Tank (2003), e avrebbe lasciato intendere che un nuovo disco a nome Blur sia solo questione di tempo. «È fantastico ritrovare un vecchio amico - ha spiegato - ma per ora preferisco non aggiungere nulla». Quanto occorrerà attendere non è dato sapere, visto che in questi mesi Albarn sta lavorando al terzo lavoro con i Gorillaz e all’opera Monkey; a journey to the west, prossimamente in scena a Londra. Sempre che per allora Coxon, a sua volta impegnato in una proficua carriera solistica, non sia di nuovo occupato con qualche tour in solitaria.
rivista si è ovviamente divisa tra classici inglesi e americani: It’s raining today di Scott Walker, Pictures of you dei Cure, This is a low dei Blur, Walking in the rain delle Ronettes e Who’ll stop the rain dei Creedence Clearwater Revival. Così, tra personaggi che «restano quieti sotto la pioggia» oppure «cercano riparo dalla tempesta» lungo «strade frustate dall’acqua», ci si trova davanti a una vera e propria celebrazione del clima anglosassone. Del resto, come disse una volta Noel Gallagher, «se siamo così bravi nella musica pop è perché i ragazzi inglesi nei pomeriggi piovosi non hanno altro da fare che suonare la chitarra».
erto non è proprio un’idea originale, per una rivista inglese, presentare un elenco con le migliori cinque canzoni sulla pioggia. Ma il settimanale inglese New Musical Express, alle prese con un autunno particolarmente plumbeo, ha deciso di proporre ai lettori cinque pezzi che «incapsulano la particolare, cupa essenza di un acquazzone pomeridiano in città». La scelta della
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zapping
TIZIANO, GIUSY E AMY il tormentone infinito di Bruno Giurato n principio era il tormentone e si intitolava Non ti scordar mai di me. Interpretato da Giusy Ferreri, scritto da Tiziano Ferro, era un tormentone copiato, identico a Back to Black di Amy Winehouse. E ci aveva tormentato senza posa per tutta l’estate. Ma già a settembre il buon Ferro dichiarava che della Giusy «usciranno altri lati, che non hanno niente a che vedere con la Winehouse». Detto fatto. A fine ottobre è uscito Novembre, nuovo (?) tormentone della ditta Ferro/Ferreri, scritto insieme a Roberto Casalino, che imita la stessa precisa canzone della stessa interprete (infatti è identico alla versione remix strumentale di Back to Black) e che imperversa tipo fuoco di sbarramento da qualsiasi altoparlante. Non potevano imitare un’altra canzone della Winehouse? Certo che no. Il tormentone è qualcosa che si aggrappa alle tendenze psicopatologiche, maniacali, fiorisce nella ripetizione, odia la varietà. E si aggiunge un altro elemento horror. Il fatto che la canzone abbia il nome di un mese, fa immaginare che il disco della Ferreri in uscita fra pochi giorni sarà composto da dodici brani intitolati Dicembre, Gennaio, Febbraio eccetera, tutti copiati dalla medesima canzone della Winehouse, tutti che gorgheggiano e singhiozzano di amori finiti. Insomma l’ossessione, la ripetizione e in ultimo l’istinto di morte di babbo Freud che zompettano felici sulle nostre orecchie anche a dicembre, gennaio, febbraio, eccetera. Ma via, non può essere davvero così. Sul fatto che Ferro, Ferreri e Casalino smettano di imitare la Winehouse abbiamo perso le speranze. Speriamo almeno che novembre finisca portandosi via il tormentone Novembre.
I
classica
Quel Mare nostrum senza nostalgia di Jacopo Pellegrini o scorso 18 settembre è scomparso, non ancora settantasettenne, il compositore Mauricio Kagel, argentino di natali, tedesco di residenza e d’elezione. Pressoché tutti i nostri mezzi d’informazione hanno ignorato la notizia, sebbene in Italia Kagel potesse quantomeno contare sui riconoscimenti riservati alla sua produzione (a quella giovanile, almeno) da Mario Bortolotto in quella «Bibbia» della Nuova Musica, che ha nome Fase seconda (1969, da poco riproposta talis qualis, come s’addice a un classico, per i tipi di Adelphi), nonché sulla passione di un programmatore estroso e originale, Mario Messinis, che non ha mai mancato di fargli spazio sui cartelloni della Biennale prima, della Fenice poi, infine, oggi, del Bologna Festival. Dove i cinque appuntamenti del Progetto Kagel si sono inopinatamente trasformati nella prima occasione postuma di ripensare un lascito musicale assai nutrito e variegato. Sandro Gorli ha guidato con piena consapevolezza i sei eccellenti strumentisti del Divertimento Ensemble in Mare nostrum (1973-75), esempio forse non preclaro ma chiarissimo nei suoi intenti di quel «teatro radicale» nato con Sur scène (1958-60) e proseguito, con svariati lavori, fino agli anni Novanta. La decostruzione dei sistemi estetici e comunicativi che reggono la drammaturgia operistica tradizionale punta innanzitutto a rifondare il rapporto scena/pubblico, escludendo ogni forma di ascolto passivo e consolatorio mediante situazioni teatrali e musicali fuori del comune e dense di significati ideologici. Mare nostrum, per dire, vorrebbe demistificare i valori culturali dell’imperialismo occidentale. Il ricorso all’ironia tagliente, esplicito già nel sottotitolo della pièce - «scoperta, pacificazione e conversione del Mediterraneo da parte di una tribù amazzonica» -, conferisce il tono caratteristico al testo (tradotto in italiano da Nanni Balestrini), rovesciamento tra il comico e il sinistro (frequenti le immagini di violenza) delle spedizioni americane compiute dai vari Conquistadores, e alla musica, intessuta di parodie. Quali esplicite (il Finale della Sonata per pianoforte KV 331 di Mozart, la celeberrima e abusatissima Marcia turca, trasferito a oboe e flauto e mescolato a scale orientali, nonché i passi, solo recitati, dal Ratto dal serraglio sempre di Mozart nell’episodio ambientato in Turchia, il Dies irae e Salome di
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Strauss nella tappa in Terra Santa, dove il viaggio si conclude con un insensato omicidio rituale: Kagel, non si dimentichi, era ebreo), quali meno evidenti (organum polifonico, ispanismi e tratti folklorici meridionali, scale modali antiche), tutte però impiegate in funzione critica, dissacratoria, sfregiante, senza che in esse mai si avvertano «rottami della nostalgia» (Bortolotto). L’oggetto sonoro, in Kagel, viene posposto e allontanato grazie a una serie pressoché ininterrotta di cornici metamusicali, nelle quali citazioni e allusioni possono essere moltiplicate all’infinito perché tutte ugualmente prive di senso: «Il mondo di ieri è perduto per
sempre, il tempo non si replica, i testi sacri sono defunti» (ancora Bortolotto). In ciò consiste l’unicità e irripetibilità di Kagel, che pure coi colleghi della Nuova Musica condivide innumerevoli tratti, in qualche caso forse fungendo addirittura da apripista. Si pensi all’esplicita valenza politica degli argomenti trattati (una fissa di certo Nono e di certo Henze), allo spiccato interesse per le musiche altrui, presenti e passate, alla frantumazione delle parole in suoni vocalici o consonantici isolati, all’inesausta indagine sui modi dell’espressione vocale (tre aspetti centrali anche nella poetica di Berio, ignaro tuttavia di foghe iconoclaste). In effetti, la partitura di Mare nostrum avanza richieste spaventose all’ugola (e al corpo) dei due cantanti-attori, eppure al Comunale di Bologna il controtenore Charles Maxwell e il baritono Maurizio Leoni sembrava non avessero mai fatto altro, tanto apparivano spontanei e a loro agio.
jazz
Un irripetibile sound risuona nella Città eterna di Adriano Mazzoletti utto esaurito alle Sale Sinopoli e Petrassi dell’Auditorium per i primi concerti del Roma Jazz Festival dove hanno suonato la Basie Orchestra diretta da Bill Hughes, la cantante canadese Terez Montcalm e la Pmjo diretta da Maurizio Giammarco. Questi primi concerti spingono ad alcune considerazioni sia sulla qualità della musica ascoltata, sia su quanto sta accadendo a Roma nell’ambito del jazz. Il jazz si sa è una musica irripetibile e anche se a eseguirla è l’orchestra Basie privata ormai di tutti i suoi componenti originali - solo il sassofonista baritono John Willians e Bill Hughes hanno conosciuto personalmente Bill Basie - il sound non è più quello che caratterizzava quell’inimitabile orchestra. I classici sono gli stessi tramandati da celebri incisioni, gli arrangiamenti quelli scritti da Jimmy
T
Mundy o da Neal Hefit, ma che abisso fra l’originale e la copia! Certo l’orchestra ascoltata è formata da eccellenti professionisti in grado di eseguire abilmente le note scritte da quei famosi arrangiatori, ma erano scomparsi il profumo di una musica caratterizzata dallo stile fluido, perfetto, interamente sentito dei vari solisti e da quella sezione ritmica che ha insegnato come suonare con semplicità e con un accumulo di energia incomparabili. Quella diretta da Bill Hughes è forse oggi più adatta a manifestazioni meno impegnative dei Festival del Jazz. La Pmjo invece si è avventurata nella rilettura di alcune opere di Ellington. Compito arduo, quasi im-
Chick Corea e John McLaughlin
possibile. Difficile riproporre capolavori come, Rockin’ in Rhythm staccato con un tempo troppo veloce, Black and Tan Fantasy o Cotton Tail, negli stessi arrangiamenti di Ellington. Meglio le nuove partiture scritte da Maurizio Giammarco e Mario Corvini di Caravan e It Don’t Mean a Thing oppure i temi che Ellington scrisse per il film Anatomia di un omicidio. Il festival
che terminerà domenica 30 novembre con Enrico Pieranunzi, questa sera presenterà alla Sala Sinopoli il Quintetto di Furio Di Castri, mentre domani sarà la volta di Chick Corea e John McLaughlin alla Sala Santa Cecilia. Mentre si svolge il festival, Roma si sta popolando di locali impegnati in una cospicua programmazione di notevole interesse. Al «Charity Cafè» di Via Panisperna, un piccolo gradevole locale dall’acustica eccellente, ogni sera sono presenti musicisti italiani di notevoli capacità, che raramente trovano spazio nei cartelloni dei vari festival. Ma Roma può contare un’altra mezza dozzina di spazi dedicati al jazz, oltre all’«Alexander Platz», sono da ricordare il «Be Bop Jazz Club» al Testaccio, il «Dimmidisi» nel quartiere di San Lorenzo, il «Gregory» in via Gregoriana e il «Jazz Magazine» di via Tolemaide al Trionfale. Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
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narrativa
Marcus Sakey di Pier Mario Fasanotti
n esordio eccellente. La stampa americana ha applaudito. Geroges Pelecanos, bestellerista, ha detto: «Questo romanzo è un missile. Teso, coinvolgente e memorabile, finalmente una voce originale nella crime fiction». Sull’ultima parte della dichiarazione ho qualche dubbio: il complimento è ascrivibile alla signorilità del narratore chiamato a giudicare un neocollega. Un critico letterario ha parlato di «velocità alla Quentin Tarantino». Indubbiamente ha ragione. Il libro di Marcus Sakey, uomo giovane che ha lavorato per dieci anni nel marketing e nella pubblicità, ha notevole ritmo. E coinvolge. Come molti novelist americani, ha un impianto narrativo che pare pronto per una sceneggiatura. E non a caso dal suo romanzo sarà prodotto un film (dalla Miramax: uscita a fine 2009), con Ben Affleck nel ruolo del protagonista. Il titolo del libro, Trascina gli uomini il ferro, ri-
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libri
colpisce, morde e non molla la presa
prende un verso di Omero, e la scelta ha una sua ragione precisa. La storia, ambientata a Chicago, s’incentra sul peso del passato, che diventa destino crudele anche perché la personalità dell’uomo continua a essere divisa tra il bene e il male. Il protagonista è Danny Carter, da giovane un malvivente, poi incarcerato, infine sulla retta vita e ben piazzato nel mondo del lavoro. Al suo fianco la convivente Karen, a conoscenza dei trascorsi di Danny, ragazzo ribelle dei quartieri malfamati della città. La donna pone questa condizione: se torni per qualsiasi ragione sui tuoi vecchi passi, io ti lascio. Ma il passato torna con l’uscita dal carcere di un ex sodale di Danny, Evan McGann, individuo scorretto, in più indurito dagli anni in prigione dalla quale si esce «con più muscoli, ma con ridotta capacità di relazionarsi con gli altri». Danny ha partecipato a una rapina assieme a Evan ma, dinanzi alla stupida crudeltà dell’amico, è riuscito a tirarsi fuori in tempo. Dinanzi alla giustizia ha pagato solo Evan. Danny avrebbe dovuto rispondere di concorso in azione criminale, ma l’amico non ha fatto il suo nome. Da allora la sua vita normalizzata di buon cittadino. Quando Evan si rifà vivo chiede il conto all’amico che è riuscito a nascondersi nell’ombra prima di dirigere la sua esistenza su
binari di onestà e agiatezza. Le pressioni di Evan diventano ossessioni. È un crescendo emotivo. È alta tensione, per dirla con gergo americano. Il risultato è un romanzo mozzafiato. I fatti si susseguono, con un sapiente dosaggio di colpi di scena. Il lettore prova il desiderio che Danny la sfanghi, tifa per lui, quindi si identifica in un uomo che fatica a sbarazzarsi del passato ingombrante. Ha ragione il New York Times a scrivere che il libro di Sakey «Colpisce, morde e non molla la presa». L’autore non ha certamente la finezza stilistica di Paul Auster o Philip Roth. Questo proprio no. Il suo è buon artigianato, come quello di John Grisham. Immaginiamo però che il dattiloscritto di Sakey fosse finito sulla scrivania di un editore italiano. Questi, op-
pure un lettore della casa editrice, avrebbe esitato a continuare la lettura a causa delle molte banalità espressive. Per esempio: «…si avvicinò a Karen, lasciandosi avvolgere dal profumo dolce della sua pelle morbida» (pagina 24). Oppure: «…tornò a voltarsi verso il cielo sconfinato della notte» (pagina 81). Ma l’editoria americana verifica soprattutto la «tenuta» della storia, poco importano le scivolate stilistiche. Pensa a un film. Come i romanzieri di intrattenimento. Il vantaggio: milioni di copie vendute. Questa è la macchina editoriale d’oltreoceano, bellezza. Marcus Sakey, Trascina gli uomini il ferro, Baldini Castoldi Dalai editore, 347 pagine, 17,50 euro
riletture
Pea e il “Magoometto” che non piacque a De Robertis di Leone Piccioni i Enrico Pea (1881-1958) ho scritto più volte (e l’eventuale lettore ne sarà anche un po’ annoiato) ma questa volta la richiesta tante volte avanzata di ristampare Moscardino, apparso per la prima volta nel ’22, è stata non solo accolta ma ha superato le aspettative. Lo spiego: io ho letto Moscardino fin dai tempi dell’università in una trilogia: Moscardino, Il volto santo del ’24 e Il servitore del diavolo del ’31. Ora in questa bella edizione dell’editore Elliot, non solo esce Moscardino ma anche gli altri due romanzi e in più Magoometto del ’42, e non si parla più di trilogia ma di quadrilogia. L’unica cosa di questo volume che mi pare discutibile è proprio l’inserimento di Magoometto, che, oltre tutto, non piacque a De Robertis, che in-
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sieme a Ungaretti fu il maggiore sostenitore della narrativa di Pea. Si è detto che Il volto santo sarebbe la seconda parte del breve Moscardino (una settantina di pagine). Nei romanzi variano paesaggi e personaggi, ma il filone più importante degli scritti è, a mio parere, quello della vita in Egitto di Pea. Nel 1896 Pea emigrò in Egitto e tornò in Italia nel 1914. Nato assai povero, vi andò per lavorare e fece anche il servitore in un’officina meccanica fino a metter su un commercio. Faceva venire i prodotti dalla sua Versilia e naturalmente il marmo (che accatastava in un magazzino) e il vino. Analfabeta, imparò da solo a leggere e a scrivere avendo accanto la Bibbia del Deodati. Già nel ’17 Ungaretti scriveva all’editore Marone per sostenere con vigore la pubblicazione del Moscardino: «Aspetto - diceva - di ridivorarmi
quelle pagine violente e dolci, sature della nostra terra montana, dei nostri paesi inargentati d’ulivi dagli spaventosi baratri delle marmifere insanguinate di ruggine». Ma ancor più significativa nel carteggio tra Ungaretti e Pea fra il ’12 e il ’14 (Ungaretti era a Parigi) è questa parte: «Hai descritto la nostra dipendenza, la nostra schiavitù (la fatalità) di noi e del filo d’erba e della goccia di acqua, e del granello di sabbia, e della montagna, e del fiume e del mare e del sole e d’ogni cosa esistente e tutto avvinto in perfezione d’ordinamenti, e tutto attestazione, laude per Iddio… Hai rappresentato di più l’anima che non rimanga deserta, che serbi il buio, il mistero, la religione ed abbia di più l’incombere terribile di Dio». Ma Pea in Egitto non solo fu il «servitore» ma una specie di «capopopolo» che collaborava e guidava gli
anarchici e gli evasi dal domicilio coatto, molti dei quali per sfuggire alla giustizia si erano stabiliti in Egitto. Di qui la «Baracca rossa»: quel magazzino dei marmi diventò la sede di questi anarchici - ne fece parte un po’ svogliatamente anche Ungaretti - e vi furono moti e rivolte. Celebre quella che voleva impedire il passaggio di un treno di prigionieri diretti al porto: i dimostranti si sdraiarono sulle rotaie. Di un libro di questa importanza mi rendo conto di aver scritto molto superficialmente, ma ci voleva uno spazio ben più ampio per dire di Moscardino e degli altri romanzi. E, si badi bene, per Pea non si può parlare solo dell’Egitto ma di romanzi successivi assai belli come Rosalia, La figlioccia, Stella Bissi fino a Solaio, forse il capolavoro del secondo periodo della narrativa di Pea.
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storia
Liberali, progressisti... a volte utili idioti di Maurizio Schoepflin mpietoso a partire dal titolo, in cui l’epiteto di «utili idioti» attribuito ai cattolici può risultare persino eccessivo; eppure salutare, come lo sono le diagnosi che non nascondendo la gravità della malattia permettono maggiori opportunità di cura e di guarigione. Questo, in estrema sintesi, è il giudizio che si può dare del libro di Maurizio Moscone che, come si legge nell’Introduzione, «analizza il ruolo storico che i cattolici liberali e i cattolici progressisti hanno assunto, rispettivamente, per favorire la presa del potere dei liberal-massoni e dei comunisti e dei post-comunisti nell’Italia contemporanea». In effetti, Moscone dà una valutazione assai severa
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Pio IX denunciò gli errori di una modernità che induceva in errore non pochi cattolici
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delle scelte operate da molti cattolici sia in epoca risorgimentale, quando essi non si accorsero (o non vollero accorgersi) che stavano facendo il gioco di un’élite liberal-massonica nemica giurata della Chiesa, sia nella seconda metà del Novecento, quando, assecondando il progetto gramsciano, hanno aiutato comunisti e post-comunisti a stabilire la loro egemonia culturale e a prendere le redini del governo del Paese. Prima i cattolici liberali, poi i cattolici progressisti; ma, a giudizio di Moscone, il medesimo disastroso risultato: la perdita dell’identità a favore di connubi poco casti con forze culturali e politiche lontane dalla fede cristiana e spesso addirittura ostili alla tradizione della Chiesa.
Certo - e Moscone lo sottolinea non sono mancati i gridi di allarme: come non ricordare il Beato Pio IX e la sua drammatica denuncia degli errori della modernità? Come tacere, in tempi più recenti, dell’accorata e intelligente lezione di Augusto Del Noce, tesa a scongiurare il cedimento dei cattolici dinanzi alla sinistra? Purtroppo - afferma Moscone - si tratta di voci rimaste in buona parte inascoltate: di qui la necessità di una coraggiosa rilettura critica delle posizioni culturali e politiche assunte dal cattolicesimo italiano otto-novecentesco, affinché certi errori non debbano più ripetersi. Maurizio Moscone, I cattolici “utili idioti”, Aracne, 150 pagine, 10,00 euro
Elkann e l’amore al tempo dei vecchi di Angelo Crespi
equivoco, ovvero l’amore al tempo dei vecchi». Così avrebbe potuto essere il titolo completo del nuovo romanzo di Alain Elkann, L’equivoco. Perché in un’epoca di stucchevole giovanilismo, come se la giovinezza di per sé fosse una virtù, Elkann racconta i vecchi. E si badi bene i «vecchi», non gli «anziani» che dei «vecchi» sono solo sottoprodotto sociologico. I due protagonisti sono dunque dei vecchi. Vanni è un vecchio straordinario di quelli che animerebbero anche il più tetro dei ricoveri. Ex tombeur des femmes, ex locupletato giovinastro, ex intellettuale engagé ma capace solo di battagliare nei salotti, sebbene malato è ancora un uomo pieno di vita. La sua esistenza alquanto teatrale, si arguisce, è mossa da un rimorso che via via nel proseguimento della narrazione
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filosofia
si erge a vero motore della storia. Mario, al contrario, è un vecchio vedovo di quelli che si sono rannicchiati su se stessi, ma non per questo meno interessante.Vive a Torino, solitario in un’austera dimora ottocentesca dove il tempo passa scandito dai riti abitudinari: la colazione, il pranzo, la visita del massaggiatore, la cena. Carlo e Vanni erano compagni d’arme nella seconda guerra mondiale, ma è dalla fine di quella tragica esperienza che non si vedono. Eppure quando Vanni si presenta d’improvviso dopo sessant’anni a Villa Lattes come se non fosse passato neppure un giorno, Mario subito comprende che sotto le sembianze dell’amico si nasconde la potenza del destino. E infatti qualcosa di misterioso, oltre l’antica conoscenza, lega da sempre a loro insaputa i due uomini. Vanni ha amato Ada la moglie morta di Mario, l’ha amata prima di Mario e poi quando Mario già l’aveva sposata. Anche Ada amava Vanni, pur
avendo sposato Mario. O forse amava soprattutto Mario, pur non potendo dimenticare Vanni. Al fondo di questa incomprensione amorosa c’è appunto «l’equivoco» che qui non è possibile raccontare per non svelare la trama e che alla fine si risolve nel modo più semplice come spesso succede nella realtà; basti sapere che il fatto risale ai tempi della guerra quando nell’Italia delle Leggi razziali e poi della Repubblica Sociale molti furono eroi, alcuni solo uomini, altri ancora codardi. Ed Elkann sembra dirci, con scrittura misurata e dialoghi perfetti, che non importa, perché dentro ogni vita si nasconde il bene e il male, e spesso solo un disguido, uno scherzo, quella che credevamo un’inezia regola tutto il corso dell’esistenza, determina il nostro cammino. Alain Elkann, L’equivoco, Bompiani, 168 pagine, 16,50 euro
Quando Kierkegaard era allievo di Schelling di Renato Cristin li appunti delle lezioni dei grandi filosofi presi dagli allievi hanno sempre costituito un’interessante documentazione, talvolta utile agli autori stessi per ricostruirle in vista della pubblicazione e spesso utile agli studiosi per chiarire meglio certi punti. Quando poi si tratta di appunti di allievi che sarebbero diventati a loro volta grandi filosofi, l’interesse si trasforma in esigenza scientifica. Qui sono in scena due giganti del pensiero del XIX secolo: Kierkegaard e Schelling. Le trascrizioni sono state decisive per ricostruire la struttura di pensiero delle ultime opere schellinghiane (la Filosofia della mitologia e la Filosofia della Rive-
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lazione). Ma le lezioni di Schelling a Berlino, che Kierkegaard seguì dal 15 novembre 1841 al 6 marzo 1842, furono per lui sia fonte di critica sia di ispirazione. Infatti, che negli stessi mesi egli iniziasse la stesura di quella che molti considerano la sua opera maggiore Aut Aut (Enten Eller, in danese) -, non è un caso, ma uno dei molteplici esiti del suo confronto con Schelling e, più in generale, con l’idealismo tedesco. L’elemento teoretico comune fra i due consiste nella tesi schellinghiana secondo cui la rivelazione travalica la ragione, perché altrimenti, chiosa Kierkegaard, «la rivelazione non avrebbe alcun interesse qualora non contenesse più della ragione». La differenza fra loro nasce quando Schelling pen-
sa la religione come verità rivelata storicamente, a cui Kierkegaard contrappone una concezione in cui essa si rivela interiormente, nella coscienza, al di là della sua determinazione storica. Il pensiero di Schelling gli pare troppo astratto, privo di spazio per la ri-
flessione sull’esistenza fattuale, sull’interiorità individuale. E pure il processo dialettico gli sembra insufficiente, così da spingerlo a cercare altrove la dinamicità concreta di cui ha bisogno: il concetto di esistenza, concepita come movimento, gli fornisce il terreno. Scrive dunque in una delle ultime lettere berlinesi: «Schelling sproloquia [...] Lascio Berlino […] Ho bisogno della mia libertà». Nell’ottobre del 1841 aveva rotto il fidanzamento con Regine Olsen; ora dopo la parentesi berlinese torna a Copenhagen, libero di dedicarsi al pensiero. Søren Kierkegaard, Appunti delle lezioni berlinesi di Schelling sulla “Filosofia della Rivelazione”, Bompiani, 551 pagine, 18,50 euro
altre letture Riemersi da un millenario oblio nel Rinascimento, gli etruschi sono al centro da secoli di un’attenzione particolare. Questioni ancora in parte insolute come le origini di questo popolo e la sua lingua si affiancano alla tangibile bellezza dei dipinti e delle sculture provenienti soprattutto dalle necropoli. Nel suo Gli etruschi (Edizioni Dedalo, 168 pagine, 20,00 euro) Jean-Marc Irollo ci guida nell’esplorazione di un mondo che già i contemporanei avevano giudicato con un misto di meraviglia e di riprovazione per la vitalità e passione degli etruschi verso la natura e al tempo stesso per la fatale attrazione verso la morte. La politica implica la lotta e il conflitto, che in casi estremi possono degenerare nello scontro armato. Da questo assunto, drammaticamente realistico, parte Julien Freund nel suo La guerra nelle società moderne, (Marco editore, 126 pagine, 16,00 euro). Un saggio che indaga il nesso storico, culturale, filosofico esistenziale tra politica e guerra. Scopo della guerra, dice Freund, è in fondo la pace, che per essere duratura ed efficace deve però stabilirsi tra nemici politici che si riconoscono come tali. La guerra è una delle modalità storiche del conflitto che è sotteso alla storia umana: la più estrema e radicale. Di fronte alle scuole occupate e ai cortei studenteschi delle ultime settimane ci si è interrogati sulla natura di queste manifestazioni, un fenomeno di contestazione insorgente e nuovo oppure il ciclico riproporsi del rito contestatario? Il pamphlet di Karl Mannheim Le generazioni (Il Mulino, 128 pagine, 9,00 euro) non è recente - la prima edizione è uscita negli anni Venti ma è, come si dice, un classico sull’argomento, un testo chiave da cui attingere categorie per una valutazione più analitica di quanto sembra riproporsi ogni dieci anni sulla scena politica delle nostre società. La tesi di Mannheim in sostanza è questa: perché si stabilisca un legame generazionale di natura politica non basta vivere insieme un dato momento storico, occorre che la dinamica storicosociale subisca un’accelerazione inedita che mina la consueta trasmissione ereditaria. È così che si forma un nuovo soggetto collettivo. Finora però, dal ’68 in poi intendiamo dire, si son viste solo repliche.
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ritratti
MARINO MARINI
NASCEVA VENT’ANNI FA A FIRENZE , NELL’EDIFICIO MEDIOEVALE DELLA CHIESA DI SAN PANCRAZIO, IL MUSEO CHE RACCOGLIE IL CORPUS TOTALE DELL’OPERA DELL’ARTISTA PISTOIESE. UNA SCULTURA ARCHITETTONICA DOVE SI FONDONO ARCAICO E MODERNO. PROPRIO COME LE SCULTURE DI QUESTO MAESTRO DEL NOVECENTO…
L’Etrusco e il Cavaliere di Angelo Capasso enti anni fa a Firenze nasceva il Museo Marino Marini. Una scultura architettonica organizzata per contenere il corpus totale dell’opera dell’artista di Pistoia, tra sculture, dipinti, disegni e incisioni. È una casa dell’arte, luogo che propone una possibilità di lettura tematica dell’opera di Marini, a partire da un punto di vista privilegiato nel grande gruppo equestre dell’Aja (1957-58), che si pone come un faro dal quale avere la prima lettura dell’Opera, per poi declinare in altre possibilità favorite dall’allestimento aperto alle influenze dello sguardo individuale. Il lavoro di Marino Marini si colloca al centro dell’arte del Novecento. In una delle sue considerazioni sull’arte più lucide e scarne, Samuel Beckett ha dichiarato: «il fallimento è il mondo dell’artista». Fallire, per il poeta del teatro esistenziale, è una benedizione, se fallire significa non raggiungere un obiettivo finale unico predefinito. L’obiettivo dell’artista, a differenza dell’uomo di scienza, è il cercare stesso. L’arte del Novecento si è consumata proprio in questo lavorio sulla sua stessa carne. La velocità, la sintesi, l’istantaneità, l’immediatezza sono stati i valori chiave che hanno annullato ogni retorica sul bello, sulla forma e sullo stile, prevalenti nelle epoche precedenti.
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Marino Marini ha interpretato questi valori in un ambito antico quale quello del lavoro fisico sulla materia. Il lavoro sui volumi. ll volume, secondo le leggi della fisica, è la misura dello spazio occupato da un corpo. Quel corpo nell’arte si chiama scultura e nasce secondo un procedimento che si ottiene per sottrazione, come insegna Michelangelo, ovvero nel liberare dalla pietra le figure che vi sono già imprigio-
nate. E la trasparenza dei volumi è uno dei valori più chiari del lavoro di Marino Marini, già dai suoi primi anni di scultore, quando frequentava le aule dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, a partire dal 1917. Sono gli anni in cui matura la passione per l’arte arcaica greca, per l’arte etrusca, per il Michelangelo della Cappella Sistina e della Pietà, per Giovanni Pisano, Giotto, Masaccio, Cimabue, Carpaccio. È molto critico nei confronti del contesto culturale italiano del suo tempo, dove riscontra ancora questioni accademiche annose e sterili che ancora tirano in ballo principi che l’arte del Novecento ormai stava sorpassando in rapidità.Trova invece in Francia i suoi alleati più forti, nell’opera di Aristide Maillol soprattutto. Dell’Italia corrente apprezza due nomi: Medardo Rosso e Arturo Martini. A Parigi incontra invece Massimo Campigli, Giorgio De Chirico e Gino Severini, i maestri dell’antico nel moderno. Nel 1931, in una nuova tappa parigina, incontra invece Yves Tanguy, Vassilij Kandinskij e Julio Gonzàles. Sono gli anni più importanti per la sua formazione. Gli anni in cui la materia della scultura, nella mente di Marini, diviene un pensiero liquido che deve mantenere l’abilità primaria dell’arte di modellarsi nell’alveo
Velocità, sintesi, immediatezza. Sono stati i valori che hanno annullato ogni retorica sul bello e sullo stile. Marini li ha interpretati attraverso il lavoro sulla materia, liberando le figure che vi erano imprigionate dello sguardo e mantenere viva questa metamorfosi all’interno di chi la guarda dal di fuori, lo spettatore. Una volta libera dalla materia, la scultura si trasforma in una «sostanza» per la visione.
Scorrendo l’iconografia dei suoi numerosi gruppi scultorei si ritrovano alcune figure che tornano con maggior frequenza: sono i Cavalieri, le Pomone, i ritratti. La figura del Cavaliere è quella che lo ha seguito più a lungo. La statuaria equestre è una forma scultorea che risale all’antica Roma: era la forma di celebrazione dei leader militari e degli uomini di Stato. Nella scultura di Marino Marini il monumento equestre si dilata, si divincola dai limiti convenzionali e diviene un centro di forze che rimette in gioco le questioni geometriche euclidee. Il passaggio tra la materia fonde la luce nella sostanza e la trasmuta in sostanza organica, qualsiasi essa sia: terracotta, bronzo, gesso, ogni materia è carne del volume che compone la scultura come precaria. I cavalieri di Marino Marini simbolicamente riassumono la mobilità della scultura e il «tentativo impossibile» di intendere la forma come un elemento mobile. La relazione tra cavaliere e cavallo si trasforma in una relazione dialettica che rimette in gioco le due figure trasfigurandole fino a renderle pressoché irriconoscibili, incagliate entro volumi e superfici taglienti, tra linee acute che incidono lo spazio e prospettive estese che slanciano le figure in uno spazio incontenibile. Si deformano assumendo un volto espres-
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A sinistra, uno dei celebri cavalieri di Marino Marini, ritratto nella foto a destra di fronte a una sua opera. In basso, lo scultore pistoiese con il “collega” Henry Moore
sionista, rispecchiando la lacerazione, la tragicità di un mondo che si macera nel dramma dell’esistenza. Gli anni della guerra saranno anni di riflessione per Marini e le sue opere espressioniste non rappresentano un suo tributo al passato della storia dell’arte, ovvero all’espressionismo storico di Ensor, Kokoschka, Kirchner, ma la dimostrazione, come dice l’artista stesso, che «è il mondo a essere diventato espressionista».
La forma quindi si consuma all’interno di questa ansia esistenziale che riguarda la condition humain e che Marini spiega bene: «A un certo momento l’idea parte fino a distruggersi. Questa idea infuocata, la poesia di questo cavaliere che a un certo punto si rompe, vuol andare in cielo, non sta più bene né sulla terra né in cielo, vuol bucare la crosta terrena o vuole addirittura andare nella stratosfera, ma non vuole stare tranquillo sulla terra in mezzo agli uomini che non sono più tranquilli, che sono diventati dei matti. Tenta di scappare: o buca la crosta terrestre o esce fuori nello spazio e finisce per distruggersi per essere addirittura distrutto da questa idea… questo è il periodo della tragedia ancora un po’ umana; poi, da ultimo la tragedia c’è ma non è quasi più umana: il cavaliere è diventato un fossile». Questa consistenza storica della scultura di Marino Marini ha un profondo allaccio con le avanguardie. Nella scultura, ovviamente, non si può non ricordare Picasso. Fu proprio la scultura negra (che egli conobbe grazie a Matisse, che nel 1906 gli mostrò una statuetta appena comprata in un negozio di curiosità esotiche), ma anche la scultura iberica, di cui vi furono dei ritrovamenti a Parigi risalenti al V e IV secolo a.C. provenienti dagli scavi di Osuna e Cerro de Los Santos in Andalusia che portarono alla grande rivoluzione del cubismo. Una scultura di Picasso dal titolo Figura, in quercia scolpita con tocchi di pittura rossa, è certamente una delle più monumentali e impressionanti della serie compiuta nel 1907 (contemporanea delle Mademoiselles d’Avignon):
si tratta di un blocco in cui Picasso ha sbalzato rozzamente i seni e il ventre affinché abbia l’aspetto di una dea-madre, una dea della fecondità, simile a quelle modellate dagli artisti africani. Marino Marini ha trovato le radici antiche del suo lavoro nel territorio stesso in cui ha operato. Afferma infatti: «Io non sono ispirato dall’arte etrusca, io sono etrusco!». E infatti deve molto a quella zona che definiamo Etruria ed è compresa tra l’Arno a Nord, il Tevere a Sud e il Mar Tirreno a Ovest. L’arte etrusca è un rituale oscuro che rispecchia la visione cupa della morte, vicina alle figure espressioniste. La Pomona è la figura femminile principale della sua scultura (a volte alternata alle Ballerine). È la dea etrusca della fertilità, simbolo di un mondo agreste che vive in armonia. All’interno dell’immaginario di Marino Marini, la Pomona rappresenta la parte femminile della scultura, essendo il Cavaliere la sua metà maschile. Di questi è la madre antica e la figlia propria nel rituale quotidiano della rigenerazione. Ne ha realizzate un numero di dieci circa (tra le quali è un assoluto capolavoro quella del ’41 nella Galleria degli Uffizi, acefala e priva di braccia). «Le mie Pomone vivono di un mondo solare, di una poesia solare, di un’umanità piena, di un’abbondanza, di una grande sensualità. Rappresentano una stagione felice che si rompe col tempo tragico della guerra. In tutte queste immagini la femminilità si arricchisce di tutti i suoi significati più remoti e misteriosi». Pomona è la dea romana dei frutti (chiamata perciò Patrona pomorum, «signora dei frutti»), non solo di quelli che crescono sugli alberi, ma anche dell’olivo e della vite. Il nome della dea deriva chiaramente da pomum, «frutto». Ovidio la descrive con una falce nella mano destra (anziché con un giavellotto come nel caso di altre divinità). A lei era dedicato un bosco sacro denominato Pomonal, situato a sud del XII miglio della via Ostiense, nei pressi di quella località che oggi si chiama Castel Porziano. Il Marini etrusco quindi trova nella Pomona il suo riferimento personale alla mitologia ancestrale. In questa sua scelta, si pone vicino a quei versi di Ezra Pound che evocano nei Cantos la Dea etrusca come Madre natura: «O Lince, fa la guardia a quest’orto,/ evita il solco di Demetra/ questo frut-
vivono invece in un turbine che le trasforma continuamente, come dimostrano i titoli che si ripetono pur associati a forme diverse. La pittura, il disegno, la china sono tutti mezzi che nel corso del suo lavoro hanno segnato questo progetto in continua trasformazione tellurica dagli esiti diversi.
Le trasformazioni della sua iconografia dimostrano come la scultura sia un’incarnazione istantanea d’idee che esistono solo temporaneamente e che la materia della scultura rende eterne. Il Cavaliere, a partire dalla fine degli anni Quaranta assume posizioni, dimensioni, sembianze diverse: non più teso nello slancio della corsa, ma un Cavaliere che spalanca le braccia in un gesto di apertura o di equilibrio; in un grande bronzo del ’52-’53 (Collezione Nelly Bar, Zurigo) il cavallo dalle zampe sottili sembra puntarsi al suolo mentre il cavaliere arretra quasi precipitando; nel legno policromo del ’55 (Basilea, Kunstmuseum) il cavallo cede nella corsa con le zampe anteriori piegate sulle ginocchia, s’inchioda a terra col muso lasciando scivolare il cavaliere sul suo dorso. Alcune sculture di Cavalieri assumono anche una nuova forma di titolazione. Sono denominate Miracoli. È l’artista stesso a chiarire questa novità nel ’75 a Pistoia: «I Cavalieri che cadono rappresentano i Miracoli. Quando si parla di miracoli è per me definire una forma o una linea: tutto rimane
Per lui certi monumenti equestri erano Miracoli, perché miracolosa e imprevista è la definizione di una forma. E in certe cadute leggeva un istinto distruttivo, di chi vuole fuggire dalla terra per andare nello spazio to chiude in sé un fuoco,/ Pomona, Pomona,/ non c’è vetro più chiaro dei globi di questa fiamma/ quale mare è più chiaro del corpo del melograna/ che racchiude la fiamma?/». «Ecco le Linci. Ecco le Linci,/ c’è un suono nella foresta di pardo o di bassaride/ o di crotalo o di foglie che s’agitano?/ Cythera, ecco le linci/ il guerciolo eromperà in fiore?». Ezra Pound, come «miglior fabbro» (secondo l’appellativo attribuitogli dal suo amico T.S. Eliot), forgia le parole così come Marini fonde le immagini nella scultura. Come Pound, Marini sente il ruolo dell’arte come un modo per coniugare l’antico col moderno, anzi di trasformare l’antico in una linfa vitale capace di rigenerare il mondo moderno e mantenerlo nella condizione di eterna gioventù. In questa evoluzione le forme non s’arrestano mai e
in un’immaginazione più lirica, più poetica, tutto deve restare nel senso infinito delle cose. L’idea dei Miracoli è la loro distruzione: ... la poesia di questo Cavaliere che a un certo momento si distrugge. Egli vuole andare in cielo, non sta più bene né sulla terra né in cielo; vuole bucare la crosta terrestre, o vuole addirittura andare nello spazio, non riesce a stare tranquillo in mezzo agli uomini che sono falsamente tranquilli; tenta di scappare e... finisce per essere distrutto». L’edificio medievale della Chiesa di S. Pancrazio, che da vent’anni ospita il Museo Marino Marini ha mantenuto attraverso le opere dell’artista etrusco di Pistoia una sua funzione antica: è il luogo in cui si consuma un rituale di consacrazione, quello che celebra lo sguardo come fonte del pensiero e della creazione.
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classici
se la più caustica delle provocazioni sull’istruzione dei giorni nostri provenisse da un filosofo vissuto due secoli fa? E se attorno alla melassa del politicamente corretto che vuole istruzioni obbligatorie infinite e lettori di libri di ogni tipo, la più persuasiva indicazione fosse fornita da un classico della cultura tedesca? A rileggere un agile estratto dei Parerga e paralipomena di Arthur Schopenhauer, di recente riproposto per le edizioni della Vita Felice (Sulla lettura e sui libri, testo tedesco a fronte, traduzione di Valerio Consonni) il dubbio viene. Lasciamo dunque stare il contributo critico dell’opera e i motivi che spinsero il pensatore di Danzica a vergare queste pagine, motivi del resto ben spiegati da Andrea Felis nella nota introduttiva, e concentriamoci sul contenuto del libro senza alcuna mediazione critica. Cosa scrive Schopenhauer in questa pericope? Nulla che possa apparire più provocatorio: in soldoni, sminuisce la lettura. «Quando leggiamo - scrive - qualcun altro pensa per noi: noi ripetiamo soltanto il suo processo mentale. È come quando lo scolaro impara a scrivere ripassando con la penna i tratti a matita del maestro. Dunque quando si legge ci è sottratta la maggior parte dell’attività del pensare». Parole crude, in aperto contrasto con l’assordante coro didattico che negli ultimi trent’anni non ha fatto altro che ripetere l’utilità della lettura attraverso l’imposizione di libri di narrativa nelle scuole medie e in quelle liceali, riducendo invece drasticamente la loro presenza nelle facoltà letterarie degli atenei. E contribuendo così a svalutare un’at-
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calcio
Leggere non fa pensare… parola di Schopenhauer di Filippo Maria Battaglia
tività che invece va valorizzata e non costretta all’interno del diktat delle scuole dell’obbligo. Perché proprio a causa di questo cortocircuito, il libro è diventato monumento, ha perso una connotazione di oggetto controverso per assumere un’accezione divina, quasi metafisica. Non è stato più discusso, contestato, stroncato. In breve, ha creato supponenza e distanza, ha intimorito e alla fine è fine diventato un feticcio elitario. Se non fosse così, non si spiegherebbero i rigidi divieti ai minori di certi film e per converso la totale assenza di reprimende e veti quando escono libri assai più diseducativi e devianti. È vero: il libro è a portata di mano. Eppure, è come se si fosse auto-escluso, e
dunque è come se fosse ormai del tutto innocuo. Ma questo fenomeno, che in Italia è ancora in forte ascesa, ha procurato anche altre conseguenze bizzarre: prima tra tutte la proliferazione della fiction narrativa. Non dei feuilleton, quelli alla Dumas per intenderci, ma dei romanzi che tentano di imitare i registri cinematografici, o se va peggio l’immediatezza di una soap opera. Una tradizione vecchia, questa, le cui radici risalgono proprio all’Europa dei primi dell’Ottocento, e dunque assai prima della nascita del cinema: «questa erbaccia letteraria - scrive Schopenhauer che cresce rigogliosamente e che sottrae al grano il nutrimento e lo soffoca: essi si impadroniscono del tempo, dei soldi e dell’attenzione e dei lettori, tutte cose che per legge si addicono ai buoni libri e ai loro nobili scopi, mentre i cattivi libri sono stati scritti solamente con l’intenzione di incassare denaro o procurarsi un impiego. Essi non sono dunque inutili, ma effettivamente dannosi. Nove decimi della nostra totale letteratura non ha altro scopo che spillare qualche tallero dalle tasche: autore, editore e recensore hanno per questo fermamente complottato». La trasformazione del libro in totem si è poi accompagnata ad altri effetti perversi. Per primo, il mito di una società onnisciente, secondo cui tutti (ma proprio tutti) devono avere un’istruzione lunga e articolata. A questo si è poi accompagnata la totale svaluta-
zione del lettore e dello studioso, che ha persino contagiato le facoltà umanistiche, quelle che dovrebbero ancora essere prodromiche all’insegnamento letterario. E in questo strano ping pong formativo, le analisi del testo hanno così sostituito i testi (quasi mai letti integralmente, del resto) con l’evidente conseguenza che una valanga di nozioni si è sostituita alla cultura, in aperto contrasto con ciò che scriveva proprio Schopenhauer: «Sarebbe una bella cosa comprare i libri, se si potesse comperare il tempo per leggere, ma si cambia per lo più acquisto dei libri con l’acquisto del loro contenuto. Pretendere che uno possa conservare tutto ciò che ogni volta ha letto, è come pretendere che egli porti ancora dentro di sé tutto ciò che ogni volta ha mangiato». Nella pancia del lettore, è rimasta così solo una manciata di nozioni. Dei libri, ormai, si è persa definitivamente traccia. Arthur Schopenhauer, Sulla lettura e sui libri, edizioni della Vita Felice, 63 pagine, 6,50 euro
Da Meazza a Totti, la leggenda dei numeri 10 di Mario Accongiagioco ieci. È il numero scritto sulle maglie dei giocatori che hanno fatto il calcio. Bandiere e capitani dello sport più amato. Calciatori capaci di segnare e far sognare, di trascinare la propria squadra, di cambiare una partita. Dieci è il volume curato da Luca Mauri e Francesco Napoli dove soprannomi, curiosità e citazioni ci fanno rivivere gioie e dolori dei più grandi di sempre. Ecco alcuni aneddoti, in ordine strettamente cronologico, perché è impossibile fare classifiche. Giuseppe Meazza («Balilla») Mussolini diceva: «La verità è che tra i miei generali non ho mai avuto un Meazza», ma lui non aveva neanche imparato l’inno del Piave, imposto dal ct Pozzo. Valentino Mazzola («Tulen»). I ricordi del figlio Sandro, grande mezz’ala dell’Inter, si sovrappongono al suo grido di battaglia («Alè»), spento solo il 4 maggio 1949 sulla collina di Superga. Juan A. Schiaffino («Pepe»). Protagonista del «maracanazo» (sconfiggendo il Brasile in casa nella finale dei Mondiali del ’50), entrò di diritto nei versi di Paolo Conte: «L’uomo che è venuto da lontano ha la genialità di uno Schiaffino». Alfredo Di Stefano («Saeta Rubia»). Il suo arrivo al Real Madrid fu deciso dal generale Franco. Con il Real vinse le prime 5
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Coppe Campioni segnando sempre in finale. In Nazionale non arrivò mai alla fase finale nonostante le tre diverse casacche (Argentina, Colombia e Spagna). Ferenc Puskas («El canoncito»). Nel 1956 i sovietici invasero l’Ungheria e lui approdò a Madrid. In allenamento era capace di colpire il palo 18 volte su 20. Con l’Ungheria conquistò 43 vittorie, 6 pareggi e una sola sconfitta, proprio nella finale dei Mondiali contro la Germania Ovest. Omar Sivori («El Cabezon»). Maglia fuori dai pantaloncini e calzini abbassati erano il suo stile. In campo rispettava solo Charles da cui accettò anche uno schiaffo. Ma non mantenne la calma al San Paolo contro la sua Juve: 7 turni di squalifica e scarpette al chiodo. Pelé («O Rei»). L’origine del soprannome Pelè risale a quando aveva 3 anni e faceva il portiere. Si dice che ha segnato quasi 1300 reti, anche se non è un record assoluto… Eusebio («Pantera Nera»). Nato in Mozambico è stato il primo grande giocatore africano. Naturalizzato portoghese ha portato Benfica e Portogallo a livelli massimi.
Gianni Rivera («Golden Boy»). Il soprannome è arrivato dalla stampa inglese dopo aver vinto la Coppa dei Campioni a Wembley. Curioso il 43 alla Germania a Messico ’70. Johan Cruijff («Profeta del gol»). Esonerato dal servizio militare per i piedi piatti e le caviglie sformate è stato il migliore interprete del calcio totale. Zico («Pelè Bianco»). Ha segnato 508 gol con il Flamengo ma il più bello l’ha realizzato a Tokyo con la maglia del Kashima. Goloso di patatine fritte. Michel Platini («Le Roi»). Scartato al primo provino per «insufficienza cardiaca e respiratoria» è l’unico ad aver vinto tre palloni d’oro consecutivi dal 1983 al 1985. Il suo gol più bello fu annullato a Tokyo nella Intercontinentale del 1985. Diego Maradona («El pibe de oro»). Il più grande giocatore della storia.Autore di gol memorabili, come quelli all’Inghilterra nel Mondiale ’86: la «mano de Dios» aveva punito l’Inghilterra colpevole della guerra nelle Falkland. Roberto Baggio («Divin Codino»). Il legame con la Nazionale e la maledizione dei rigori. Il buddismo e il rapporto con gli al-
lenatori. Il contestato passaggio dalla Fiorentina alla Juve e il mancato rigore battuto al Franchi. Zidane («Zizou»). Scartato dalla Nazionale algerina ha vinto tutto tra Juve, Real Madrid e Francia. La storica testata a Materazzi è stata un triste epilogo della sua carriera, riscattata da una condotta (quasi) sempre esemplare. Alex Del Piero («Pinturicchio»). Dagli allenamenti con la pallina da tennis al mistero sul passaggio al Padova. Dai «gol alla Del Piero» al grave infortunio del 1998. Dai contrasti con Capello alla rinascita. Francesco Totti («Er Pupone»). L’esultanza col dito in bocca, la passione per la playstation e i libri di barzellette, «er cucchiaio» contro l’Olanda, lo scudetto con la Roma, lo sputo a Poulsen, gli infortuni a ripetizione e l’addio alla Nazionale. Ronaldinho. «Ronaldinha», «espaldinha», «elastico»: sono solo alcuni dei colpi inventati. E i ricordi vanno agli allenamenti da bambino dribblando sedie inseguito dal cane Bombom. E poi Antognoni, Gullit, Haller, Law, Mancini, Matthaus, Savicevic, Suarez, Zola. È il calcio del passato e del presente, ma nei ricordi anche del futuro. E forse manca qualcuno… Voi chi mettereste? Luca Mauri e Francesco Napoli, 10, Oscar Mondadori, 530 pagine, 20,00 euro
video Amiche mie MobyDICK
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di Pier Mario Fasanotti e piace una fiction come Amiche mie (Canale 5) vuol dire che siamo alla catastrofe narrativa. Il serial, per il fatto che ha come protagoniste quattro donne, è stato presentato come il Sex and the City italiano. Sì, vero, ma il soggetto è stato scritto con una penna intrisa nel luogo comune, nel sentito dire e nella ridicolaggine ambientale. Cominciamo da quest’ultima, Milano. Pare bella e vivace come New York o Parigi, e le vedute dall’alto, molto sapienti, ingannano. Viene da ricordare quel che ha detto recentemente Armani di questa città: lugubre, senza punti di incontri, smorta o morta la sera. La parlata dominante, poi, ha un timbro romanesco, quasi ci fosse stato un fenomeno migratorio a senso unico. L’epicentro delle storielle a incastro è Corso Como, la via della moda e delle modelle, dell’happy hours e degli outlet di lusso. Una delle strade più finte d’Italia. Per fortuna è corta. Le quattro sono sulla soglia dei quarant’anni: nel soggetto televisivo, scritto da una donna di 45 anni, il rendez-vous anagrafico è visto come una iattura: che brutto autogol, ma che brutto davvero, oggi che si rivaluta e a volte si esalta l’età di mezzo, che non è fatta solo di sederi sodi, lifting e creme per le incipienti rughe. Di qui una frenesia di vivere di marca adolescenziale: nulla di più banale. La bellissima Elena Sofia Ricci interpreta una manager (organizzatrice di eventi) che usa il telefonino per fotografare le sue cosce (sotto la scrivania) fasciate da calze nere e reggicalze del tipo «an’vedi quanto so’ ancora bbona!»). Ovviamente le spedisce all’amante, una decina d’anni più giovane di lei, e qui sta il senso del ricominciare una vita, qui la svolta, qui il frisson psico-fisico che non può più essere ravvivato da un marito algido, scialbo e infedele. Il poverello non compete certo con i pettorali bene in vista di chi lo rende cornuto. Ecco, il
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alla fiera delle banalità
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marito: la gran giostra dei luoghi comuni. È ricco, ha posizione di comando, va a letto con una collega, è distratto con la moglie, emotivamente pare un’ameba, le decisioni le prende solo sul lavoro, la figlioletta ovviamente è negli States, a studiare e a flirtare. Poi c’è Margherita Buy, che ha letto tutti i libri del «dottor G», un ginecologo che aggiusta anche la dinamica psico-sessuale delle coppie. Lo vuole incontrare, lei provincialissima che la mattina si alza e si vorrebbe impiccare a uno dei tanti alberi che vede dalla finestra. Arriva a Milano con aria da immigrata degli anni Cinquanta. La Buy, che interpreta sempre se stessa, ormai statua dello spaesamento e della goffaggine, ha dichiarato a un giornale: «Il mio personaggio rincorre i propri sogni. Ho cercato di non farne una macchietta: risulta già buffa nel suo stupore verso la vita metropolitana». Eh no, signora Buy, la sua creatura è macchietta da capo a piedi, proprio non esiste nella realtà. La provinciale che arriva nella metropoli è stata rapita da uno slogan del «dottor G»: «Le vacanze separate fanno bene alla coppia». Questo colpo di genio esistenziale lo riferisce all’esterrefatto marito, al telefono. E poi arriva il meglio del peggio: proprio il dottor G., un quarantenne col camice lindo, lo studio zeppo di gente, un finto quanto narcisistico fastidio quando la segretaria gli ricorda un’intervista a Canale 5. Il medico, che sa di essere un bell’uomo e questa consapevolezza sprizza da tutti i pori, pronuncia poi una frase al confronto della quale le verità di Platone, Oscar Wilde ed Ennio Flaiano si sgretolano miseramente: «Le donne hanno bisogno di uomini veri». Ah, ma che sollievo, ci siamo finalmente chiariti le idee sulla vita. Grazie a una sentenza che non si trova più nemmeno nella collezione Harmony.
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UN ARCHIVIO PIENO DI STAR
MISSIONE SOPRAVVIVENZA
SE LE CANZONI SCRIVONO FILM
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o conoscevamo come critico e giornalista musicale tra i più prolifici in Italia: autore di libri dedicati a Janis Joplin, Fabrizio De Andrè, Vasco Rossi, Ligabue, Renato Zero, Nomadi e Ivano Fossati (tanto per fare qualche nome a caso), Massimo Cotto si è anche inventato direttore di un bel progetto multimediale sul web, all’indirizzo www.macy.it. A metà tra social network, sito di
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efinirlo uno «sparatutto» (quei videogames dove la strategia è assente e conta solo una buona mira per uccidere quanti più nemici possibile) è riduttivo, ma certo Left 4 dead, titolo in uscita il 21 novembre per la Valve, è uno di quei giochi adatti a chi ama «il tiro a segno». Tra fucili a pompa, mitragliette, pistole, granate e molotov c’è solo l‘imbaraz-
on capita spesso di vedere una pellicola in parte scritta prendendo spunto dalla colonna sonora. Once, bel film delicato e tenue diretto da John Carney, non è un musical nel senso tradizionale del termine. Segue con discrezione la storia di un musicista, delle sue speranze e della sua solitudine intrecciata con quella di una giovane immigrata ceca in una Dublino per una vol-
Il critico Massimo Cotto inventa “Macy” e mette a disposizione un ricco repertorio di interviste
Una grafica realistica che gioca su luci e ombre in una città infestata da zombie: esce “Left 4 dead”
Un’amicizia speciale a Dublino che diventa sodalizio artistico in “Once” di John Carney
condivisione e rivista musicale, Macy propone una serie di clip da commentare, video interviste e articoli che attraversano i mille rivoli delle musica pop, senza intenti classificatori. Si possono anche caricare e condividere i video girati col proprio gruppo, nella speranza che qualcuno li noti accanto a quelli degli artisti più famosi. Ma alla fine del giro si resta impressionati soprattutto dalle interviste in archivio, realizzate da Cotto con delle vere e proprie leggende. Da Mick Jagger a Nick Cave, passando per Pearl Jam, Coldplay e Radiohead, sembra proprio che Cotto abbia incontrato tutti. Scorri la lista e scopri che mancherebbe John Lennon, ma tanto ci sono sir Paul McCartney e Yoko Ono…
zo della scelta: i quattro protagonisti dovranno sopravvivere in una città popolata da zombie infetti (non molto diversi da quelli già visti nel film Io sono leggenda). Il grado di divertimento è alto, anche perché il giocatore non deve pensare solo a se stesso, ma anche ai suoi tre compagni senza i quali non può portare a termine la missione. Vero punto di forza del titolo è però la grafica, che gioca in maniera estremamente realistica sull’alternanza tra luce e ombra. La suspance favorita dagli ambiente bui, improvvisamente squarciati da inquietanti lame di luce, è degna dei migliori film horror di Romero.
ta ignara della sua fulminante ascesa economica. La loro amicizia diventerà prima una promessa di amore puro perché non realizzato, poi uno strano sodalizio artistico. Chi si accinge a vederlo in dvd, non si aspetti una gran cura del comparto video. Girato quasi interamente con una camera a mano, il film presenta immagini sgranate e mosse e riprese quasi casuali, come se il regista avesse voluto lasciare ai suoi personaggi un po’ di privacy, proteggendoli dagli occhi degli spettatori. Si raccomanda una grande attenzione alle canzoni che scandiscono la storia; quello che i protagonisti non hanno il coraggio di dirsi riescono se non altro a cantarlo.
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on è vero che Giuseppe Gioachino Belli è cinico! Per una volta sono costretto a prendere le difese dei miei concittadini, i quali, pur avendo svariati difetti, non sono prevalentemente cinici. Piuttosto la loro visione del mondo è caratterizzata da fatalismo e nichilismo. Abitano a Roma, palcoscenico di una commedia umana antica e sempre uguale. Centro di un impero e poi crollo dell’impero, centro della cristianità e poi decadenza della cristianità. Architetture sontuose e malinconiche rovine, piazze accoglienti e ripetuti sacchi a opera dei barbari. La Storia si ripete ciclicamente, solo con lievi correzioni. Rispetto ai napoletani, che nella modernità possono vantare una tradizione culturale superiore, i romani sono assai più pigri (non si ingegnano, neanche nel crimine), del tutto antisentimentali, meno arguti e forse più saggi. Belli non è cinico, e anzi in molte poesie mostra una pietà straziata verso i derelitti: tutta la serie della «bbona famijja», delle «fijje ammalate», delle vecchierelle, delle «povere madri» cui è morto il figlio, dei vagabondi cenciosi cacciati via pure dai cani. Piuttosto stigmatizza il cinismo feroce di quel «signore» che di notte vedendo dalla carrozza un tale disteso per terra dopo aver battuto la testa, si rivolge al nocchiero: «Avanti alò; cchi mmore more». Non tanto indifferenza alle sventure altrui, quanto un crudo, disincantato realismo. Di chi ritiene che i vivi «so qualche cosa mejo de li morti:/ Non foss’antro pe questo che ssò vivi», di chi ripete amaramente, con sant’Agostino, che nasciamo «impastati de mmerda e dde monnezza», di chi sa bene che ogni essere umano «ha una testa de morto in de la testa».
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Quanto al realismo letterario, osservò una volta Pasolini che nelle poesie di Belli i popolani appaiono come in un sogno. Ed effettivamente i monsignori e i ruffiani si mescolano a streghe e lupi mannari, e poi agli apostoli e alla Madonna, quasi in un dormiveglia incantato. Alla rappresentazione realistica occorre sempre una dose di visionarietà! Una parte dei sonetti nasce direttamente dalle chiacchiere estemporanee da osteria: barzellette oscene, motti di spirito blasfemi (e intimoriti dal sacro), storielle amene e turpi (Li manfroditi, i molti confessori infoiati), resoconti di approcci amorosi frustrati su sfondo misogino (La scrupolosa). Altre sono dedicate al racconto biblico (nel Ziconno peccato si trova un ragionamento teologico-morale apparentemente grezzo ma in realtà finissimo: se prima di Caino nessuno era morto ammazzato che colpa poteva avere l’ignaro Caino?) e altre ancora enumerano i mestieri artigianali. Il senso della precarietà getta un’ombra sull’intero affaccendarsi umano: «Se curre a le commedie, a li festini,/ Se va ppe l’ostarie, se fa l’amore,/ Se trafica, s’impozzeno quadrini,/ Se fa dd’ogn’erba un fascio… eppoi se more!». E la morte è la gran protagonista di questo canzoniere barocco, fune-
Belli, la Commedia di un illuminista romano di Filippo La Porta
RIFLESSIONE IMMORALE SUR CULISEO St’arcate rotte c’oggi li pittori Viengheno a ddiseggnà cco li pennelli, Tra ll’arberetti, le crosce, li fiori, Le farfalle e li canti de l’uscelli, A ttempo de l’antichi imperatori Ereno un fiteatro, indove quelli Curreveno a vvedè li gradiatori Sfracassasse le coste e li scervelli. Cqua llòro se pijjaveno piascere De sentì ll’urli de tanti cristiani Calpestati e sbranati da le fiere. Allora tante stragge e tanto lutto, E adesso tanta pasce! Oh avventi umani! Cos’è sto monno! Come cammia tutto” Giuseppe Gioachino Belli
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reo e controriformistico: «La morte sa tirà certe sassate/ capasce de sfasscià ll’invetriate». E dopo è ancora peggio, poiché «Viè la morte, e ffinisce co l’inferno». Ma soprattutto quella del Belli è una visione «di classe», con un potente fondo egualitario: l’umanità comune infatti è vista come «ppessce da frittura» che la mattina si butta nel mucchio, o come tanti «vvaghi de caffè ner mascinino:/ C’uno prima, uno doppo, e un antro appresso,/ Tutti cuanti però vanno a un distino». Belli scrisse di aver lasciato un «monumento» alla plebe, alla sua lingua e indole, ai suoi costumi e pregiudizi, e vorrei sottolinearlo - ai suoi «lumi». Il poeta, formatosi su Marziale, Boccaccio, sui romantici, etc., ma anche su Voltaire, rilegge quel genio romanesco del motteggio e dell’immaginazione verbale come un illuminista partecipe, che sulla via del folklore ha ritrovato la propria verità. Molteplici gli stilemi e le figure retoriche che sono rimasti intatti nel romanenesco odierno: dall’uso dell’epanalessi («Lui je prese una buggera, je prese») a espressioni come «è successo un po’ de tutto». E poi Belli indulge volentieri a immagini catastrofiche («Smorzato er sole e sfracassato er monno…»). Ricordo come Carlo Levi fissasse lo spirito romano nel commento dell’idraulico chiamato a riparargli un tubo del bagno: «Qui bisogna sfascià tutto…».
Innumerevoli le stoccate contro la cultura: «E a cche tte serve poi sto scrive e llegge?». Ma il vero nemico del Belli è l’ipocrisia, il culto dell’apparenza, le dame corrotte (a cui preferisce di gran lunga le puttane da trivio), la «razzaccia de preti bbuggiarona» e le gerarchie ecclesiastiche, una religione ridotta a «scampanate, sbaciucchi, picchiapetti» mentre il Vangelo è «un libbro da dà a ppeso ar zalumaro». E più in generale il delirio del Potere: «Accusì er monno: è tanto granne e grosso,/ E a nove o disci Re mmanco j’abbasta»). Davvero la carica eversiva di questi versi è così devastante che il poeta stesso - perlatro da sempre antipatizzante di giacobini e rivoluzionari -, in vecchiaia se ne spaventò diventando uno zelante censore per lo Stato pontificio! La poesia che ho scelto - del 1835, al centro del decennio per lui più creativo - esprime con grazia e perfezione la visione belliana della Storia, refrattaria a ogni magnifica sorte. Dove c’era l’anfiteatro con i gladiatori che si rompevano le ossa e i cristiani che urlavano sbranati dalle fiere, oggi ci sono i pittori che dipingono in silenzio tra le farfalle. Eppure questo sconsolato, tragico pessimismo non impedisce una adesione immediata alla superficie sensuale dell’esistenza - il godimento del sesso, i piaceri del vino…- , un vitalismo irriflesso, come nella poesia Er tempo bono: «Una giornata come stammatina,/ Senti, è un gran pezzo che nnun z’è ppiù ddata./ Ah bbene mio! te senti rifiatata:/ Te s’opre er core e nnun sta ppiù in cantina». Dove l’amore per il cielo turchino, il sole che spacca le pietre, l’aria odorosa e cristallina, risalta purissimo dallo sfondo cimiteriale e sordido del canzoniere.
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il club di calliope
Ora che i pascoli sono dietro le sbarre di plastica nella campagna industriale resta muto il camino della Posta dirupi negli androni qualche ciuffo di peli al vento sui portoni sfondati delle stalle doveva arrivare l’eclissi di luna per vedere l’abruzzese con un passo più vecchio del west sbattere la porta nera dietro la fatica nel rimestare caglio tutto il pomeriggio voltarsi verso il chiavistello girare le mandate sulle volpi e sul futuro.
Enrico Fraccacreta
UN POPOLO DI POETI Al calare del vento Non sento più rumori Solo le lancette del mio vecchio Orologio che batte senza Sosta e le stelle Non appaiono questa notte. Virginia Calmieri
La vita è un arcobaleno spezzato non c’è nulla che brilla nel girovagare delle stagioni, c’è solo questa povera lacrima e la terra è fredda come questa rosa che non sente primavere e neppure il pruno sente le stagioni tutto oggi si oscura, io sento l’inverno che arriva.
QUEL RITORNO POSSIBILE SOLO IN POESIA in libreria
Eleonora Valtieri
di Loretto Rafanelli attenzione è tutta rivolta a un luogo ormai lontano, perduto, e che la memoria cerca di custodire, gelosamente. Da serbare nel cuore. È la storia infinita dei tanti che si sono allontanati dalla loro terra, specie da quel Sud martoriato che conosciamo. Storia che diviene lamento, disperato canto, nel libro di Salvatore Ritrovato (Come chi non torna, Raffaelli Editore, 64
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possono solo rammentare in poesia, come diceva Mario Luzi. Sentite questi bei versi: «Poi, un pomeriggio presto, fra la brina che l’umore/ della mattina solleva nella dolce pace della foschia/ bagnando ogni fiume deserto, ogni greto di un nuovo colore/ nessuno s’accorgerà che da un pezzo ce ne siamo andati». Sono versi indicativi sull’idea del «ritorno». Ed esemplari di un percorso poetico che ci pare
Salvatore Ritrovato canta la sua terra: un Sud martoriato, dalla natura delicata e impervia, da cui tanti sono partiti. Con un amore raro e struggente… pagine, 10,00 euro). Il poeta tenta di recuperare questo tempo, ma «al contrario, il tempo urge e non ha requie», come dice il raffinato e noto critico Massimo Raffaeli, nella bella introduzione. E si snoda il tempo «consumato» con una lapidaria sofferenza, che è una vera e propria pena che sembra di toccare con mano. Certo, già nel titolo, la trama ci pare di esemplare chiarezza, cosa sta a significare quel «come chi non torna», se non una sentenza definitiva e inappellabile sulla impossibilità di rimettersi sulle proprie tracce perdute? Tracce che si
ispirato. E contraddistinto da una composta grazia. Semmai se dobbiamo muovere un piccolo appunto all’autore (che come valente saggista ha parlato della necessità per i poeti meridionali, di dire della loro terra), è quello di non nominare convenientemente questi luoghi. Seppure delle sue terre lontane Ritrovato ci riporti, tra l’altro, le numerose serie di piante e fiori. Una sequela di nomi, non ossessiva o gratuita, che fanno emergere una natura a volte delicata a volte impervia, che egli guarda con un amore raro e struggente.
C’è l’aria di ottobre che galleggia come una luna e io provo una nostalgia grande come il mondo, sono disteso nel tessuto di seta impaziente di imprigionare la pace di incatenare l’amore, chissà se vedrò lambire il fiume sulla faccia della mia donna, e profumarla di grazia, di speranza. Gianluca Anelli
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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performance
on stupisce che a pochi passi di qui vaticinasse un tempo la Sibilla Cumana, e che non lontano di questa «terra desolata» i viaggiatori più sofisticati del Grand Tour, da Goethe a Thomas Jones a Lady Hamilton, si dividessero tra le rovinistiche terme di Baia, l’Acropoli di Cuma, l’Anfiteatro Flavio e il sincretistico Tempio di Serapide, caro ai Romantici. Di romantico Aaron Young ha ben poco, ma sa scegliersi eccome i suoi luoghi strategici: e la performance, che ha voluto orchestrare tra le pieghe segrete di Napoli, aveva tutte le carte in regola per rivelarsi spettacolare e avvolgente, come in un tenebroso tabarro di colori d’arcobaleno sommerso. Dopo una gentile passeggiata collettiva tra aranceti e palmeti, tipici d’una villa Vesuviana, riservata agli invitati più esclusivi (e qualche mugugno dei galleristi cittadini dimenticati) ecco lo spettacolo bruto, lunare, della straordinaria Solfatara Vulcano: questo spazio che pare curvo e infinito, come una promenade planetaria, torva arena naturale, completamente brulla e sfibrata di vegetazione, attraversata dai fiati mefitici e solforosi delle fumarole, disseminate ovunque. E dalle striature ocra e ferrose dei metalli, che resistono al caldo d’altiforno (guai avvicinarsi!) tra il rimbombo sordo e ctonio, che rammenta i vicini sommovimenti bradisismici, che sollevano la vicina Pozzuoli come il petto ansimante d’un asmatico. E rotola giù, eco rumoroso, fra questi danteschi soffioni, che all’improvviso addentano l’aria serena del crepuscolo e proiettano espressionistiche ombre paurose, tra le rovine industriali d’un vecchio osservatorio vulcanico: un istante ed ecco che arrivano i motorizzati cavalieri dell’Apocalisse. Il californiano Aaron Young non è nuovo a quest’astuzia del réperage artistico: la performance campana fa parte d’un trittico, dal nome di Greeting card, ispirato a un quadro di Pollock del ’44. E segue a una performance newyorkese, in un luogo nevralgico come quello legato all’Armory, e a un altro scenario moscovita, quello d’un vecchio edificio dismesso, che era una cioccolateria: addirittura la cioccolateria Ottobre rosso. Ma qui, convogliato da un attento collezionista partenopeo, come Massimo Lauro e sup-
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Aaron Young la texture dell’Apocalisse di Marco Vallora
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portato dalla sua galleria newyorkese Bortolami (chili e chili, se non tonnellate, di pigmenti specialissimi, fatti arrivare appositamente da Los Angeles) ha ovviamente superato se stesso in virtuosismo. Il «set», stavamo per dire patibolo, evoca una situazione sinistra, da Petrolio di Pasolini (e un indimenticabile spettacolo di Barberio Corsetti e Edoardo Albinati, nella campagna romana, su fondale sironiano di gasometro, sfregiato dal sopraggiungere sinistro d’una banda di motociclisti rombanti in scena). Anche nella Solfatara,Young compare in un ruolo appartato di regista, un’ po’ alla Yves Klein, che coordina lo spettacolare arrivo di cinque aggressivi motociclisti su preziose (e poi spanate per sempre) Ducati d’epoca. Che mordono la glabra pedana color sera d’alluminio, così che sotto le ruote fumanti e l’acuto odor sulfureo di gomma combusta essi scoprano, cerchio concentrico dopo cerchio concentrico, strati segreti di colori occultati, accesi e minerali a formare una magnifica texture: d’ocra, d’ossidiana e monossido di carbonio. Ricreando effettivamente e artificialmente l’atmosfera, orfica e fumigante, di questo barbaro «al di qua» vulcanico. Performance che si brucia in una manciata di secondi, ma che lascia le sue tracce: che poi l’artista taglia minuziosamente a fette e che venderà in galleria. Young è già tra le stelle del firmamento glamour-artistico, nelle grazie del potente e strategico Gagosian, che oggi può tutto, vezzeggiato dalla critica più à la page (per dire: almeno Hans Ulrich Obrist e Daniel Birnbaum, futuro curatore della Biennale, che lo hanno fatto conoscere anni fa nell’ormai referenziale mostra Uncertain States of America) ben inserito in musei importanti e rappresentato da un’importante galleria newyorkese, come la Bortolami, che in questi giorni gli dedica un’attesa retrospettiva, con le sue sculture e i suoi video. Napoli lo attende fra breve, per una personale, che certo non rimarrà inosservata. Aaron Young, Punchline, New York, Bortolami Gallery, sino al 20 dicembre; la performance Smoke flow in all direction verrà documentata in una prossima mostra al Pan di Napoli
diario culinario
Al porto di Anzio, la semplicità che è difficile a farsi di Francesco Capozza omplicare è facile, semplificare è impresa assai ardua. I più grandi progressi nella filosofia, nella scienza, nella cultura, si esprimono in termini semplici e chiari. Anche nella pratica del lavoro, o nelle piccole esperienze di ogni giorno, le soluzioni più efficaci sono quasi sempre le più semplici. Stesso discorso vale, vieppiù, per la cucina di un cuoco, chef rinomato o semplice oste che sia. In questo caso, siamo a parlare di un giovane cuoco laziale, di Anzio, che ha fatto della ricerca e della semplicità il Karma della sua cucina tutto-pesce. L’esperienza illuminante, e spesso affascinante, della sintesi creativa è sovente lasciata in secondo piano rispetto alla stra-
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da della tendenza modaiola che la cucina del XXI secolo ha intrapreso. Troppo facile omologarsi al post-modernismo di un piatto realizzato col sifone o con gli instrumenta del piccolo chimico. Capita spesso, negli ultimi anni, di trovare nelle italiche tavole le stesse creazioni basche o catalane, o loro maldestre citazioni, che rendono l’esperienza culinaria - quindi di puro piacere un mero esercizio di comprensione (o incomprensione), sia lessicale che palatale. Perché rincorrere le mode, ci chiediamo? E perché inseguire la scorciatoia post-moderna del riproporre nel piatto le essenze di un profumo di una nota marca italiana (ci è capitato davvero, non scherziamo, in un ristorante super stellato)? Perché, se si è a pochi passi dal ma-
re per esempio, non dar prova di «memoria» e cultura proponendo in sagge rivisitazioni, o in ortodosse realizzazioni, il meglio della cucina italiana? C’è chi, per fortuna, non ha perso quella memoria e si può permettere di guardare dal basso verso l’altro quelle anemiche rappresentazioni del mangiare. Valter Regolanti, nel ristorante di famiglia «Romolo al Porto», per nostra fortuna è uno di quei giovani quarantenni che al sifone e alle provette preferisce la pentola di coccio e un ottimo extravergine d’oliva. Con la prima realizza, sotto l’occhio vigile del papà Romolo, il più sensazionale, etereo, gustoso brodo di pesce (con qualche spaghetto spezzato a dare quel contrasto croccante che ricorda l’infanzia), che la vostra memoria possa ricordare, con il se-
condo, o meglio, coi secondi - perché Valter utilizza diversi tipi di olio extravergine d’oliva - sublima il gusto di un tonno con cous cous e pomodoro secco, o di un carpaccio sottilissimo di tracina con pistacchi di Bronte e mela annurca. E se volete la Controriforma vera, provate a chiedere un semplice spaghetto con le vongole: vi si aprirà un mondo e cancellerete il brutto ricordo di tanti piatti simili quasi sempre maldestramente eseguiti. Non aspettatevi cristalli e fiandre, né di avere un cameriere sempre col fiato sul collo. Questa è la migliore trattoria di pesce che possiamo consigliarvi, ci sarà da attendere forse, ma sarà l’attesa per il Paradiso.
Romolo al Porto, via del porto Innocenziano 19, Anzio (Rm), tel: 069844079
MobyDICK
15 novembre 2008 • pagina 15
teatro
Il superfluo che ci domina messo alla berlina di Enrica Rosso he cosa c’entra lo chef del «Baby» Alfonso Iaccarino con il teatro? C’entra, c’entra, eccome se c’entra. Una stagione tutta da gustare e non solo a teatro, quella che vede protagonisti il Valle e il Quirino e i loro illustri ospiti. Assaggi di Teatro - è il titolo dell’iniziativa che coinvolge cinque star dell’alta cucina romana impegnate a offrire, nei loro ristoranti, prelibate delicatessen ispirate agli spettacoli in scena. (www.roma-gourmet.com per saperne di più). Magic People Show con la drammaturgia dello stesso Giuseppe Montesano, che ne aveva già firmato il romanzo, approda al Teatro Valle con la messa in scena a opera di Enrico Ianniello, Toni Laudadio, Andrea Renzi, Luciano Saltarelli; come dire i quattro giustizieri in smoking. Un quartetto di solisti che ha messo a punto, nei quasi dieci anni di collaborazione, un comune senso del teatro che permette loro di cimentarsi in operazioni ardite, forgiate con un personalissimo punto di vista. Questa messa in scena (che ha come sottotitolo Avanspettacolo letterario postmoderno) conferma l’attenzione per il repertorio
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contemporaneo già espressa nelle precedenti realizzazioni. Travolgente per ritmi e accavallamenti di pensieri, mondi che si intersecano e da cui scaturiscono mostri, questo testo intessuto dei più slavati luoghi comuni e peggiori vizi della nostra bella Italia è già un cult in Francia. Uno spettacolo fatto di niente: quattro sedie, alcuni travestimenti appena accennati e soprattutto un mini spazio di un metro quadrato in cui si affollano gli abitanti di un immaginario condominio rovesciato, proteso
verso il magmatico cuore della terra. Un luogo malato, in cui manca l’ossigeno e le menti si intorpidiscono, dove l’energia elettrica, al pari di quella vitale, va e viene e in cui per necessità convivono realtà diverse. Un micro mondo esilarante e caustico in cui nulla sfugge e il superfluo, abbacinante miraggio dell’altrove, diventa l’unica motivazione trainante di un’esistenza senza qualità. Si parla di tutto: vacanze, politica, calcio, disoccupazione. Vengono a galla le oscenità del malcostume. I quattro attori, fu-
Enrico Ianniello, Toni Laudadio, Andrea Renzi, Luciano Saltarelli: i quattro giustizieri in smoking di “Magic People Show”
namboli irresistibili e trascinanti, asserragliati nel sottosuolo come topi in una discarica delle umane bruttezze, sono inarrestabili nella loro scalata a un testo irriverente, determinati a mettere alla berlina tutto ciò che fa moderno: le mode, i vezzi, i vizi, le mille desiderata irrinunciabili e totalmente inutili. Un anticipo d’inferno nel girone degli insaziabili. Molte le verità che vengono snocciolate con noncuranza: l’assoluta dipendenza che abbiamo da tutto ciò che è legato al mondo dei media, la devastante cialtroneria della nostra classe politica, l’arroganza dell’ignoranza. Il tutto alleggerito da stacchetti musicali. Uno spettacolo che ci fa ridere di cuore costruito con acutezza e forte senso di autocritica sorretta da una grande capacità di osservazione. Grande onore quindi a questi quattro cavalieri dell’apocalisse nostrana che si immergono con infinita leggerezza nel sudiciume etico di un Paese fortemente provato. «Voglio raccontare la realtà. Bisogna scendere dentro le cose e procedere in un certo senso a caso. Nella speranza di afferrare per strada un pezzo vivo di quella che chiamiamo verità». Ecco, lo spettacolo è tutto qui.
Magic People Show, Teatro Valle, Roma, fino al 23 novembre info: 06-6869049 - info@teatrovalle.it
archeologia
Swat, l’Italia custodisce il patrimonio di Rossella Fabiani
a lunga e appassionante campagna di scavi di Giuseppe Tucci nello Swat, una tranquilla regione tra il Pakistan e il Kashmir, fu negli anni Sessanta una vera e propria resurrezione archeologica. Qui, nel cuore dell’Asia, gli scavi rivelarono che ben tre civiltà avevano convissuto, sovrapponendosi poi, quella ellenistica, penetrata al seguito di Alessandro Magno, quella buddista, giunta con i pellegrini dalla Cina e dall’India e quella islamica, che si radicò nel paese con l’espansione araba. A distanza di anni ora, la «via» ideale dello Swat, aperta dalle tre antiche civiltà, rivivrà grazie a un accordo per cui il governo italiano metterà a di-
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sposizione due milioni e mezzo di euro per la tutela e la promozione di importanti aree archeologiche che si trovano appunto nella valle dello Swat. Si tratta delle aree di Barikot e Udegram: la prima è la nota città indo-greca di Bazira, la seconda comprende tra le sue rovine la terza più antica moschea del Pakistan. L’Isiao, l’istituto italiano che si farà carico della parte scientifico-operativa del progetto, ha anche intenzione di stabilire un centro di eccellenza per la promozione, lo studio e la difesa del patrimonio storico dedicato a Giuseppe Tucci, padre di quella direttrice nuova e feconda della scienza italiana che è l’esplorazione dell’Oriente e fondatore dell’I-
smeo (Istituto per il Medio e l’Estremo Oriente), l’ente da cui ha avuto origine l’Isiao. Responsabili del progetto sono, in pari misura, l’Isiao e il Doam, il dipartimento per l’Archeologia e i musei del governo pakistano. L’Istituto italiano garantirà la qualità del lavoro, la conduzione degli scavi, la catalogazione e la tutela dei reperti. Le competenze del Doam saranno utili per la definizione della parte burocratica, l’acquisizione dei terreni da privati e il mantenimento dei corretti rapporti con le autorità federali. Un altro importante capitolo del progetto riguarda l’investimento italiano sul capitale umano pakistano. L’Isiao, infatti, metterà a disposizione le sue competenze e le sue risorse per istituire nel centro una sezione didattica che possa permettere al personale locale (operai, custodi, assistenti di scavo) una formazione completa e riconosciuta nei settori dello scavo archeologico, della documentazione e del restauro, nel management dei siti archeologici, ma anche nella gestione della loro vocazione turistica. Sono previsti infatti corsi per istituire una nuova figura professionale, quella di guida archeologica, che sarà molto importante nella gestione di una delle tradizionali risorse economiche dello Swat, il turismo archeologico. Fondamentale sarà anche l’insegnamento da parte degli esperti italiani degli strumenti basilari per la conservazione di un patrimonio culturale tanto ricco come quello della Repubblica Islamica del Pakistan. Il lavoro di restauro e conservazione di reperti archeologici da parte di artigiani e professionisti italiani è noto in tutto il mondo. Gli esperti dell’Isiao hanno già collaborato alla conservazione e al restauro di altri reperti come l’esercito di terracotta della dinastia degli Han.
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fantascienza
l fatto che i temi dell’Immaginario nelle sue diverse forme non siano più da tempo rinchiusi nel solo ambito delle collane specialistiche identificate - appunto - come «di fantascienza», «di fantasy» o «Horror», ma siano presenti nelle opere di autori noti e meno noti ospitati in collane rilegate e generaliste di editori importanti e meno, è una tendenza diffusa che ha portato con sé paradossalmente due conseguenze, una positiva e una negativa: la positiva, come si sarà capito, è stata quella di far diventare l’Immaginario non come qualcosa di eccezionale per la nostra cultura, ma qualcosa di normale, una scelta come tante altre sia a livello popolare che più alto, e di consentire quindi a chi scrive in questa vena, purché scriva bene e di cose interessanti e originali, di trovare la possibilità di essere letto e quindi pubblicato senza alcuna pregiudiziale. Anni fa si poteva legittimamente temere che se un esordiente avesse inviato a un editore una sua opera di science fiction, fantasy, horror, la si sarebbe vista come minimo con sospetto pensando a una rimasticatura di testi americani e la si sarebbe letta con un occhio proprio a questi, da un lato cercando il pelo nell’uovo e dall’altro aspettandosi una... «americanata». Nel senso che - contradditoriamente - si doveva scrivere e avere idee alla pari di quelle dei best sellers d’oltre Atlantico, come se questi fossero gli unici che il pubblico italiano avrebbe letto con piacere. Ora, come si è detto, per fortuna non è più così, o non sempre è così. In tal modo sta pian piano crescendo una nuova generazione di scrittori italiani «di genere». Finalmente. Il lato negativo è che, essendo questa tendenza anch’essa succube delle mode (ancorché spesso imposte dai direttori editoriali, di collana e dai famosi/famigerati editors) sta tralasciando ormai da tempo i grandi e veri classici della fantascienza e del fantastico, che ormai le nuove generazio-
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MobyDICK
ai confini della realtà
Sense of Wonder di Gianfranco de Turris ni di lettori ignorano, per correre dietro alle «novità» americane, inglesi, francesi, tedesche e spagnole che spesso sembrano una copia una dell’altra. Le scelte, infatti, sono spesso motivate soltanto dal particolare che nella patria d’origine quei romanzi sono nelle classifiche dei primi dieci più venduti, e come tali sono pubblicizzati in Italia. Che poi la loro qualità sia scarsa, o solo fumo negli occhi, o che si ispirino a loro volta a romanzi che sono stati sulla cresta dell’onda, questo è un problema che i curatori italiani delle varie collane non si pongono.
Sicché la grande stagione della fantascienza e del fantastico attualmente è fuori catalogo, scomparsa e - di conseguenza - ignota alle genererazioni dei lettori nati negli anni Ottanta e No-
classici di Clarke, Simak, Heinlein, Williamson, Wyndham, van Vogt: risponderanno di no. Anche di Asimov, un nome notissimo e di cui state tradotte anche le liste della spesa sino a poco dopo la sua morte quindici anni fa, da tempo non si ristampano le opere migliori. Sicché, occorrerebbe ritradurre (spesso si usano versioni superate e tagliate) e presentare con adeguati apparati le loro opere più grandi (non le minori!) per far ritrovare quel famoso «senso del meraviglioso» che è il marchio di qualità della fantascienza migliore, spesso carente nei romanzi odierni. È questo, forse, il motivo per cui la fantascienza «pura» ha subito qui da noi un certo calo di interesse (e di vendite) negli ultimi anni: certo, bisogna seguire anche la produzione corrente, ma
Il senso del meraviglioso è il marchio di qualità della “science fiction”. Ma si va perdendo, non solo perché la produzione attuale ne è piuttosto priva, ma anche perché i classici della grande stagione di questo genere letterario sono fuori catalogo. Ma un’eccezione si intravede all’orizzonte... vanta. Naturalmente vi è qualche eccezione. Ad esempio Philip Dick pubblicato in esclusiva da Fanucci (compresi però inediti rozzi, mediocri o pessimi); Robert Silverberg di cui sono stati recuperati e ritradotti da Fazi alcuni romanzi degli anni Settanta; Stanislaw Lem e i fratelli Strugatzky ritradotti da Marcos Y Marcos e poche altre eccezioni. Ma andate a chiedere ai ragazzi dai 18 anni in su se hanno mai letto i grandi
senza dimenticare i «magnanimi lombi»; certo, l’«impegno» è bello, ma forse l’«evasione» assai di più; certo, lo sperimentalismo sarà una chicca per palati sofisticati, ma forse il piccante di una space opera all’altezza dei tempi è qualcosa di più saporito e gratificante... Anche per i lettori giovani e non solo per i maturi nostalgici dell’Età d’Oro della fantascienza. Che le cose stiano proprio così è stato il colpo di genio di Sergio Altieri (che
scrive tecnothriller con il nome di Alan D. Altieri), divenuto direttore editoriale delle pubblicazioni da edicola della Mondadori un anno e mezzo fa. Altieri, coadiuvato dal curatore di Urania Giuseppe Lippi, ha radicalmente trasformato nei contenuti la più antica collana italiana di fantascienza. Giunta al 55° anno di vita ha ricominciato a guardarsi alle spalle oltre che davanti a sé, in tal modo riempiendo un vuoto che altre case editrici di più modeste dimensioni, anche se con le migliori intenzioni, (come la Elara, ex Perseo, di Bologna) non potevano occupare del tutto. Ecco quindi il recupero di piccoli/grandi capolavori dimenticati non soltanto nella science fiction, ma anche, con numeri speciali appositamente ideati, anche di fantasy e horror. Una nuova tendenza che ha ottenuto un notevole successo risollevando le sorti della testata di cui si era addirittura paventata la chiusura.
Non solo. Altieri ha aperto alla grande anche ad autori italiani facendo apparire nuovi romanzi di fantascienza, giallo e spionaggio con i loro riveriti nomi. E ripubblicando, specie per la fantascienza, opere degli anni Settanta e Ottanta passate sotto silenzio o dimenticate (ad esempio quelle di Roberta Rambelli, Piero Prosperi, Sandro Sandrelli). Ancor oggi validissime e ignote alle nuove generazioni di appassionati. E ancora: ha finalmente deciso di aprire le pagine post-romanzo di Urania a racconti di autori «indigeni». Cosa che, mi sia consentito ricordarlo, caldeggio forse da trent’anni se non più. Insomma, la collana mondadoriana (ormai da tempo in formato pocket-Oscar) non si limita solo a pubblicare un unico romanzo italiano all’anno, quello vincitore del suo premio che esordì nel 1990, ma affianca con una certa regolarità i romanzi dei «nostri» con quelli stranieri. E così l’ultima spallata al muro dell’incomprensione è stata finalmente data, anche a livello di collane specialistiche.