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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
SCOPRENDO
Identikit di Van Gogh
VINCENT di Pier Mario Fasanotti
a quanto piace pensare, e anche dire e ribadire, che i sommi artiera lettore accanito, s’interessava di filosofia e di storia dell’arte. Solitario sti erano pazzi. Pagine a non finire sono state scritte, del recome artista, non era del tutto isolato come essere sociale. Non era Mentre sto, sulla correlazione tra follia e arte. E il peso, così sugnemmeno povero: poteva contare su una rendita dignitosa, più o Roma lo gestionante, di questi studi ci ha sempre indotto a meno una somma che era superiore alla paga del postino Roucelebra con una mostra risolvere l’equazione arte-pazzia intravedendo nella selin, che lui ritrasse con i fiori sullo sfondo. Certamente conda parola quasi la genesi della prima. Tutti belli non è da dimenticare che Vincent anni prima dell’ulal Vittoriano, due libri - di cui e dannati, alla fine. Non che sia falso, ma attentimo soggiorno a Auvers-sur-Oise, dove trovò uno della sorella Elisabeth - rovesciano zione a non scivolare nello stereotipo. Queuna luce «solennemente bella», si tagliò un i luoghi comuni, descrivendolo come sto è il messaggio, assai ben documentato, orecchio e fu rinchiuso in un manicomio. Ma lanciato dal bellissimo libro edito dall’editore è inesatto affermare che le sue turbe, dovute forun artista motivato e riflessivo Contrasto e intitolato Vincent Van Gogh - Sotto il ciese ad attacchi epilettici e più in generale al mal di vie un uomo consapevole vere, siano state l’unico baricentro della sua intera esistenlo di Auvers, di Peter Knapp e Wouter Van Der Veen (303 padella sua za. Gli autori di questo libro ridimensionano l’immagine di Van gine, 45,00 euro). Vincent aveva sicuramente disturbi mentali, Gogh come uomo perennemente depresso (lavorava tantissimo e con ma non era un pazzo scatenato. E nemmeno una sorta di gorilla con sofferenza metodi rigorosi), alcolizzato ed esaltato. il pennello magico, tutto istinto e poco pensiero. Parlava diverse lingue,
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Parola chiave Strada di Maurizio Ciampa La neoelettronica di Brian Eno di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Baudelaire, maestro di moralità di Filippo La Porta
Goethe e i colori 200 anni dopo di Pasquale Di Palmo Maria e Gesù visti da Guido Chiesa di Anselma Dell’Olio
Gli scatti italiani del sovversivo Liu Bolin di Marco Vallora
scoprendo
pagina 12 • 20 novembre 2010
vincent
Non un folle, ma un martire col sorriso sulle labbra di Massimo Tosti uò essere definito sano di mente un uomo che torna a casa con il cavalletto sotto il braccio e annuncia di essersi sparato una revolverata? E che poi attende tranquillo la morte fumando la pipa? O che rincorre, con un rasoio in mano, un suo amico e collega al quale ha offerto ospitalità nel proprio appartamento? O che si taglia un orecchio per donarlo a una ragazza? O che veste in modo trasandato, dona tutto quel che ha ai poveri, confondendosi con loro? Per quasi cent’anni filati, la critica ha scelto come modello dell’equazione genio uguale follia Vincent Van Gogh. Ne ha riconosciuto la grandezza artistica, ma lo ha descritto come un folle, uno suonato fin dagli anni dell’adolescenza, quando i genitori si domandavano perché non finisse gli studi, perché si faticava tanto a cavargli una parola di bocca, perché non riuscisse a conservare un posto di lavoro. Questa tesi (inizialmente condivisa più o meno da tutti) da qualche tempo vacilla. Una botta consistente gliela diede una decina di anni fa un medico, FrançoisBernard Michel, autore di un saggio (Il volto di Van Gogh) nel quale, ricostruen-
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do gli ultimi mesi di vita dell’artista - a partire dall’amputazione dell’orecchio giungeva alla conclusione che Vincent era più malinconico che folle. Che aveva scelto di isolarsi perché avvertiva il disagio della propria diversità. «Se son matto, pazienza», scrisse una volta: «Preferisco la mia follia alla saggezza degli altri». Una voce, quella di Michel, che s’aggiungeva all’invettiva di Antonin Artaud, scrittore surrealista: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh». Michel andò oltre, accusando più o meno espressamente Gauguin (l’amico inseguito rasoio alla mano) di aver mentito nelle sue accuse, e il dottor Gachet di leggerezza e incompetenza, nel non aver impedito il suicidio di Van Gogh. Un matto sanissimo, dunque. E, uscendo dallo stereotipo del genio e sregolatezza, sarebbe in effetti lecito domandarsi come uno squilibrato potesse rappresentare tanto bene i sentimenti, e come soprattutto - potesse lavorare con tanto rigore. Un quadro al giorno, per mesi e mesi di seguito. La sorella minore di Vincent, Elisabeth Van Gogh, queste cose le aveva scritte nel 1910 in un libretto - Vin-
Lo fanno esaminando le lettere che l’artista spedì al fratello, alla cognata e alla sorella durante gli ultimi suoi settanta giorni di vita. Aveva 37 anni quando giunse in un borgo meraviglioso, a circa 30 chilometri da Parigi. In 70 giorni compose 70 tele. Tutte meditate. Si sparerà un colpo al petto poco lontano dall’albergo Ravoux dove aveva preso in affitto una stanza coerentemente alla sua inclinazione per il sobrio e per l’essenziale. La pallottola s’infilzò sopra il cuore, lui raggiunge da solo la locanda. Venne chiamato d’urgenza il dottor Gachet - figura importantissima nella vita dell’artista, del quale fu buon amico - mentre il fratello Theo, gallerista a Parigi, fu avvertito l’indomani. Vincent morì al settantunesimo giorno del suo soggiorno ad Auvers. Al fratello consegnò le sue ultime parole: «Vorrei poter partire così».
Demolizione del sentito dire: è ciò che vien fuori leggendo le sue ultime lettere e collezionando notizie vere, magari meno romantiche ma vere. La pittura di Van Gogh non è il parto della sregolatezza mentale, bensì continuo tentativo di innovare l’arte. Gli autori mettono bene a fuoco il genere di arte dell’olandese che in Francia, quindi al Sud, voleva ritrovare «la luce del Nord». Il rischio è sempre quello di vedere le sue tele come opere di un allucinato «stese alla bell’e meglio da un uomo che non aveva pieno dominio di sé: ma questo significa negarne il genio». Indubbiamente Vincent, malgrado la forma fisica robusta e sana, era fragile nella sfera mentale. Aveva avuto lunghe sofferenze che gli avevano impedito di dipingere, «ma non era in uno stato permanente che lo scollegava dal reale, facendolo entrare, suo malgrado, in una pittura d’alienato… ognuno può anno III - numero 41 - pagina II
cent, mio fratello - pubblicato soltanto ora, per la prima volta, in Italia (Skira editore, 94 pagine, 15,00 euro) in concomitanza con la grande mostra del Vittoriano di Roma. L’affetto - e un comprensibile pudore borghese - impedirono a Elisabeth di raccontare le circostanze della morte, e le suggerirono di sorvolare sugli altri due incidenti clamorosi (l’orecchio e il rasoio brandito contro Gauguin). Ma il ritratto che lei ci offre del suo amato fratello somiglia molto alle sue pennellate: è umile e sincero. Ricorda quel che scrisse l’unico critico, Albert Aurier, che si occupò di Vincent quando era ancora vivo (ma gli mancava pochissimo a morire): «Questo artista vero, gagliardo, di pura razza, dalle mani brutali di gigante, dai nervosismi di donna isterica, dall’anima di illuminato, così originale, così a se stante in mezzo alla miserevole arte odierna, conoscerà un giorno la felicità della riabilitazione, le lusinghe pentite della moda? Forse. Ma è troppo semplice e troppo sottile per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà forse compreso completamente dai suoi fratelli, gli artisti solo artisti, e dai felici del popolo minuto, del popolo più umile». O a quel che seppe scrivere lui stes-
trovare una chiave d’accesso a quella pittura selvatica e controllata, esaltata e riflessiva, semplice in apparenza eppure così complessa». Era scontroso, incurante delle forme sociali della cortesia, ma al contempo parlava con la gente, gustava i momenti di beatitudine come «pittore contadino» in mezzo ai campi, s’accalorava sui movimenti artistici, sul rapporto tra galleristi e opere. Molti insistono ancora nel cercare segnali di pazzia nei colori scelti da Van Gogh. Il giallo abbonda, ma collegarlo costantemente all’assenzio pare riduttivo. Anche perché quale significato si potrebbe conferire ai blu e ai verdi? Arbitrariamente pericolosa la para-psicoanalisi applicata a un genio. A Theo il 2 luglio 1890 scrive: «Cerco anch’io di fare il meglio che posso ma non ti nascondo che non oso sempre contare di avere la salute necessaria. E se il mio male tornasse mi scuserai… mi piacciono ancora molto l’arte e la vita, ma quanto ad avere una donna tutta per me non ci credo molto.Temo che, mettiamo, verso la quarantina - ma non mettiamo niente dichiarerò di ignorare, ma assolutamente assolutamente, che piega possa prendere». Un quieto avviso di morte? Vincent dice che tutto può avvenire, il meglio come il peggio. Quel «non mettiamo niente» è inquietante, indubbiamente. Il 65esimo giorno prima della morte scrive al fratello: «Per quanto mi riguarda mi applico sulle tele con tutta l’attenzione». Non mette in dubbio la propria sicurezza di pittore, anzi. Il pessimismo è rivolto alla situazione degli altri pittori. Convisse con Gauguin, in modo fallimentare: «l’unione non ha fatto la forza». Condividere l’atelier con un altro artista, secondo il suggerimento
so,Vincent, in una lettera di quel periodo nel quale il confine fra vita e morte divenne improvvisamente labile: «Le emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza sapere di lavorare, e le pennellate si susseguono con una progressione e una coerenza simili a quelle delle parole in un discorso o una lettera». A Theo, il fratello che l’aveva sempre aiutato, confidò in quei giorni: «È più facile per me morire che vivere. Morire è difficile, ma vivere lo è ancora di più». E Theo, comunicando alla sorella la scomparsa di Vincent, le scrisse con molta tenerezza: «Dicono che sia un bene che finalmente riposi. Io non riesco a dirlo. Sento piuttosto che è stata una tragedia. Deve essere annoverato fra i martiri che muoiono con il sorriso sulle labbra. Non aveva più voglia di vivere, ma era contento perché aveva lottato per le sue convinzioni, le stesse degli uomini migliori e più nobili che lo avevano preceduto. Amò profondamente il padre, il Vangelo, i poveri e i derelitti, i Maestri della letteratura e dell’arte». E aggiunse: «Il tempo gli darà il posto che gli spetta; molti saranno addolorati al pensiero della sua scomparsa prematura… Ma lui voleva morire».
di Theo? Non ne voleva sapere. Prosegue nella sua «esistenza intellettualmente solitaria». Quando dipinge Campo di papaveri, avvisa Theo: «È uno studio di vigna che è molto piaciuto al Signor Gachet».Vincent è dentro a una inesauribile febbre di lavoro. Ci si potrebbe senza dubbio chiedere se questa «febbre» comandi il pittore o se il pittore sia in grado di comandare la propria opera. Il dottor Gachet, esperto omeopata, sapeva bene che la dedizione al lavoro era uno strumento curativo primario. Ma non è un semplice buttarsi sui colori, un lasciarsi andare follemente.Vincent medita sull’arte. Dice in una lettera alla sorella: «Ci sono facce moderne che si guarderanno ancora a lungo, che si rimpiangeranno forse tra cent’anni. Se avessi dieci anni di meno, con quello che so oggi, che ambizione avrei di lavorarci. Nelle condizioni attuali non posso fare granché, non frequento né saprei frequentare abbastanza i tipi di persone che vorrei influenzare».
È stato conscio della propria solitudine fino alla fine. A sua madre: «Per me la vita potrebbe rimanere solitaria. Le donne cui sono stato legato, le ho contemplate come attraverso uno specchio oscuro. Eppure c’è un motivo per la maggiore armonia che c’è ora nel mio lavoro. La pittura è qualcosa in sé. Leggevo l’anno scorso che scrivere un libro o fare un quadro è come avere un figlio». Quanto all’ipotesi che Vincent non avesse venduto una sola tela nella sua vita, occorre obiettare che mancano documentazioni. Se all’inizio insisteva con Theo perché vendesse i suoi quadri, in seguito si mostrò più refrattario. Preferiva aspettare, intendeva proporre un insieme di quadri «coerenti» piuttosto che liquidare capolavori sparsi.
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20 novembre 2010 • pagina 13
STRADA arsi strada è l’azione umana per eccellenza: è proprio dell’uomo, come mettere in esercizio il suo essere e insieme manifestarlo, perché l’uomo è egli stesso strada». Questo pensiero di María Zambrano, una delle voci più alte della cultura del Novecento, mostra l’intima venatura di una parola sicuramente chiave come è strada.Tutto, potremmo dire, procede per strada, e tutto per strada accade. Nel Fantasma della libertà, Luis Buñuel, con quella spiccata vocazione alla rappresentazione paradossale che lo caratterizza, immagina i protagonisti del suo film costantemente in cammino, sulla strada. Parlano, discutono ininterrottamente fra di loro sempre camminando, come se la strada fosse il luogo stesso della parola dialogata e della comune interrogazione. Significativa l’immagine attorno a cui si sviluppa il film di Buñuel. È vero: la strada alimenta la parola, il racconto, la confidenza, ma anche il respiro dell’immaginazione, il sogno. Sulla strada si mette in scena il mondo, fermenta la vita. Inevitabile ricordare quel «classico» del Novecento che è Sulla strada di Jack Kerouac, uscito oltre cinquant’anni fa. Libro eminentemente giovanile che ha portato alla luce una nuova generazione di scrittori e di poeti, la beat generation. Fra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, la generazione beat innova la lingua e la letteratura americane, andando poi ben oltre i confini geografici in cui aveva mosso i primi passi. E sviluppa una critica radicale degli stili di vita, dà uno scossone a modelli probabilmente troppo rigidi e chiusi, anticipando quello che accadrà in America, a partire dalla metà degli anni Sessanta, nelle sue università (il mitico inizio è a Berkeley, in California) e poi in Europa e nell’intero Occidente.
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Torniamo al libro di Kerouac che può essere letto come un grande repertorio dei miti americani. E il primo, irriducibile mito è forse proprio quello della strada, che è lo sviluppo e probabilmente l’esito della «pista» del pioniere e dell’immagine della «frontiera», forse l’ultima sequenza del sogno americano. Il nastro d’asfalto che si sviluppa quasi all’infinito, come una viva ramificazione del corpo degli Stati Uniti, segna il percorso o i percorsi di una nuova, moderna Odissea. E come l’Odissea, anche il libro di Jack Kerouac fa da modello, o da matrice, a tanti racconti successivi, che si muovono sulle strade americane rinnovandone l’epopea. Penso ad esempio a Strade blu di William Least Heat Moon, una celebrazione della periferia americana. Non più l’autostrada come in Kerouac, ma la via secondaria, percor-
È dove l’umano nasce e si sviluppa. Perché tracciarla, come insegna María Zambrano, è azione e conoscenza insieme. Dall’Odissea a Least Heat Moon, passando per Kerouac e per Gesù...
Incontro alla vita di Maurizio Ciampa
Cristo è “l’uomo che cammina”, non sosta, non si trattiene, teso all’altro è sempre in movimento. È la “via” e colui in cui ci si può imbattere compiendo un percorso. Anche Buddha e Lao-Tse indicano modi per intraprendere un’esperienza religiosa, ma la strada rappresenta l’intimo respiro della parola cristiana sa a bassa velocità, come se la vita avesse preso un altro ritmo. La piccola strada, che non attraversa il Paese da costa a costa ma semplicemente raccorda i suoi lati, diventa il teatro di questo mutamento. Strade blu è l’emblema di un rallentamento, di una decelerazione intervenuta nella vita americana agli inizi degli anni Ottanta. Non a caso il racconto parte da una crisi esistenziale, quella personale dell’autore (il fallimento del suo matrimonio), e soprattutto termina dove inizia, nello stesso luogo. Il movimento di Strade blu è dunque circolare e di piccole proporzioni, e il suo dinamismo è come contratto, le sue strade, potremmo arrivare a dire, non portano da nessuna parte.
I tempi sono cambiati: le strade non s’inoltrano più nella «terra incognita» del vasto continente americano, che ha esaurito il suo spazio e forse anche le sue risorse. Le tentacolari megalopoli si sono mostruosamente dilatate; l’America, e non solo l’America, pare un’unica grande città che ha divorato tutto o quasi tutto quello che c’era attorno a sé. Se questa non è una realtà già dispiegata, è sicuramente l’incubo che sovrasta, oggi, la vita americana. Ancora un momento lungo le strade dell’America per ricordare un filosofo europeo - Gilles Deleuze - e un grande poeta dell’Ottocento americano - Walt Whitman. Deleuze dice che, contrariamente a quella europea, la letteratura americana esce dal proprio spazio,
esplora, si avventura, va verso l’ignoto, si mette a repentaglio, vive il rischio. Withman mette il rischio in poesia. Foglie d’erba, il suo grande libro, è un’avventura dello spirito che non solo si muove sulla strada americana, ma della strada sente il fermento, le minute vibrazioni sonore, il «brusio», il vivo pulsare. Della strada sente le voci: «Voci delle infinite generazioni di prigionieri e di schiavi,/ voci degli ammalati e dei disperati e dei ladri e dei nani,/… dei deformi, dei futili, degli insulsi, dei disprezzati, degli sciocchi…». Lasciamo l’America per guardare un po’ più lontano, non nello spazio, ma nel tempo. Perché da lontano parte l’immagine della strada. Anzi, credo si possa dire che essa è all’origine. L’umano nasce e si sviluppa dove si apre una strada. Questo ci fa capire María Zambrano proprio attraverso le parole che abbiamo ricordato. «Scoprire una strada, scoprirla, tracciarla - dice ancora la Zambrano - è l’azione più umana perché è azione e conoscenza insieme». L’umano, la sua vicenda, sono dunque scanditi dall’immagine della strada.
Ricordo che nel Vangelo di Giovanni Gesù si presenta come «via» e negli Atti degli Apostoli, in passaggi diversi, i cristiani vengono definiti «quelli che erano della via» o anche «quelli della strada di Gesù». Gesù è uomo di strada, e sulla strada parla e vive. Non ha dimora: il «Figlio dell’uomo» - sono sue parole - «non sa dove posare il capo». È «l’uomo che cammina», secondo l’espressione dello scrittore francese Christian Bobin. Non sosta, non si trattiene.Teso all’altro, costantemente si rimette sulla strada. E la strada è il suo luogo proprio: non la stabilità e la sicurezza della casa, ma il movimento della strada. Angelo Casati, un sacerdote e poeta che ha seguito una strada di ricerca e di libertà, in un libro recente, Ospitando libertà (pubblicato dal Centro Ambrosiano), stringe il fuoco della propria attenzione sull’immagine della strada, che considera l’intimo respiro della parola cristiana. Forse, a guardar bene, ogni esperienza religiosa traccia una strada e indica i modi per percorrerla. Buddha e Lao-Tse parlano appunto di «via». Ma nel cristianesimo la «via» è una vita, quella vita, il suo concreto, inconfondibile profilo. «È un viso - dice Angelo Casati - sono delle mani, dei piedi, dei sentimenti, è un modo di guardare Dio e di guardare gli altri». A chi gli chiede: «Come possiamo conoscere la via?», Gesù, nel Vangelo di Giovanni, risponde: «Io sono la via, la verità, la vita». È poi questo, anche prescindendo dalla cornice della parola cristiana, che può incontrare chi si mette sulla strada: «la vita».
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Cd
musica
CONDANNATI A VITA a vongole e noantri di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi i Brian Peter George St. John Le Baptiste De La Salle Eno, in sintesi Eno, ce ne sono due: quello dotato di sorprendenti qualità canore, che una volta fuoriuscito dai Roxy Music per incompatibilità caratteriale con Bryan Ferry s’inventò dal 1973 al ’77 Here Come The Warm Jets, Taking Tiger Mountain (By Strategy), Another Green World e Before And After Science, dischi/manifesto del glam futurista; e il «non musician» (si definì così) dell’ambient infinitesimale: liquidi tocchi di sintetizzatore che sfociarono in Music For Films (’78), Music For Airports (’79) e altre sciccherie da ascoltare in sottofondo. In più l’inglese di Woodbridge, classe 1948, è andato ogni volta là dove lo portava il cuore: cioè a produrre dischi per U2, Coldplay e Talking Heads, a suonare con David Bowie, Robert Fripp, John Cale, Robert Wyatt, David Byrne. E pensate: si è perfino riappacificato con Bryan Ferry partecipando al suo Olympia. Lo stratega elettronico, ormai, potrebbe permettersi di tutto: far suonare i muri più coriacei, gorgogliare sinfonicamente le acque, rockeggiare gli spazi siderali… Insieme al chitarrista Leo Abrahams e al pianista Jon Hopkins, si è invece concesso il lusso d’incidere Small Craft On A Milk Sea che è il risultato, spiega, «di un’occasionale collaborazione. Il loro modo d’intendere la musica, legato come il mio alle potenzialità e alla libertà espressiva dell’elettronica, non ha prodotto “composizioni” in senso classico ma improvvisazioni, paesaggi sonori, sen-
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lle vongole» è la locuzone del moralista indignato contro un qualche aspetto dell’italico (mal)costume. Se la gioca non «de noantri» per indicare una cosa fatta in piccolo, provinciale, che per le tare congenite italiane non può aspirare alla serietà. Ma qui abbiamo una notizia che cambia le carte in tavola, e niente di meno ci sconvolge la semantica. Il fatto che il flamenco sia stato ufficialmente considerato patrimonio immateriale dell’umanità dalla commissione mondiale preposta già ci riempie di gioia (e ci consiglia un riascolto dei duetto tra Camaron De La Isla e Paco de Lucia; se esistono questi signori quol dire che Dio c’è ed è benevolo verso l’uomo), ma ci sconvolge proprio sapere che la cucina mediterranea sia parimenti considerata patrimonio dell’umanità. Alle vongole, alle vongole, quindi e senza sensi di colpa. Moralisti riaggiornatevi, e includete le vongole in una sfera positiva, insieme al nero di seppia, al pescespada alla griglia, all’insalata di polpo, al pomidoro. Il tinello che puzza di sugo è uno stemma araldico. E per venire alla cucina musicale ci sarebbe da riflettere sul fatto che il flamenco è lì dov’è, ossia nel patrimonio immateriale dell’umanità, e la tarantella no, la pizzica nemmeno, la montemaranese e i lallallero di Ceriana neppure, gli stornelli umbri manco, le cantate a tenores nisba. Tutta una compagnia di musica, danze, ottave rimate o meno che, a differenza delle vongole e del flamenco, non sono un patrimonio dell’umanità. E la vicenda è tutta una parabola sul provincialismo italiano. E suona anche un po’ come una condanna, al noantri. A vita.
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Sperimentazioni ambient in un mare di latte
Jazz
zapping
sazioni di un luogo, suggestioni di qualcosa che è accaduto». In buona sostanza: ambient music. Che noia che barba che noia, mi son detto approcciando con scetticismo il nuovo repertorio. Eno è bollito. Avrebbe potuto cantare e invece non canta. Che peccato. In effetti, gli impulsi elettronici e le onde sonore di Calcium Needles, le cocciute implosioni di Lesser Heaven e l’evanescente, cosmica Late Anthropocene sono il festival del già sentito. Superfluo tornarci sopra, e per giunta in tre. Fatica sprecata. Poi, però, il guru computerizzato mi ha dimostrato che c’è spazio per altre musiche ambientali: categoricamente ripetitive ma molto orecchiabili (Emerald And Lime), celestiali (Slow Ice, Old Moon), a un passo dalla new age (Written, Forgotten), soffuse, dolci e pianistiche (Emerald And Stone). E mi ha fatto soprattutto scoprire, giusto a metà di questa traversata su un mare di latte, che nel nuovo millennio è ancora possibile sperimentare. D’improvviso, infatti, tutto cambia, si rabbuia, aggredi-
sce: Flint March, con le sue atmosfere da rave party, sfoggia ritmi elettronico/tribali; Horse, febbricitante drum & bass, fa imbizzarrire a più non posso la chitarra elettrica; 2 Forms Of Anger, funk ipergalattico, si trasforma in un rock assassino; Bone Jump, felpata come il miglior trip-hop, è un geniale fermo immagine di Kraftwerk e Art Of Noise; Dust Shuffle, che ribadisce l’idioma funk, è cinquanta per cento Talking Heads (multietnici) di Remain In Light e l’altro cinquanta King Crimson (quasi metallari) di Thrak; Paleosonic, che definisco bolero avanguardista e disturbante, punta tutto sulla distorsione. Insomma: se mi va di ascoltare il Brian Eno che preferisco punto senza indugi (consigliandoveli) su Here Come The Warm Jets e Before And After Science. Se voglio tastare il polso della neo-elettronica, credo proprio che la realtà giusta (ambient o non ambient, chissenefrega) sia Small Craft On A Milk Sea. Brian Eno with Jon Hopkins & Leo Abrahams, Small Craft On A Milk Sea, Warp Records, 17,90 euro
Parigi 1952: un trionfo italiano in venti minuti
stato recentemente rintracciato, grazie alle ricerche effettuate da alcuni colleghi della Radio francese, un documento che si pensava fosse andato irrimediabilmente perduto. Si tratta della registrazione di uno dei brani che il Sestetto di Nunzio Rotondo eseguì il 29 marzo 1952 alla Salle Pleyel di Parigi nel corso del suo concerto al Secondo Salon International du Jazz. Rotondo, allora ventottenne, considerato la tromba più inventiva e innovativa del jazz italiano, venne invitato da Charles Delaunay a quella che giustamente era considerata la più importante manifestazione jazzistica europea. Parigi, dal 29 marzo al 6 aprile, aveva ospitato sul palcoscenico della Salle Pleyel, sui Bateaux-Mouches che navigavano lungo la Senna e nei locali jazz di St. Germain-des-Prés, quanto di più importante e significativo vi era nel jazz mondiale. La presenza di Dizzy Gillespie, Lester
È
di Adriano Mazzoletti Young, Ella Fitzgerald, Sidney Bechet, Max Roach oltre ai migliori musicisti europei, aveva fatto giungere a Parigi giornalisti, critici e appassionati da ogni parte d’Europa. In rappresentanza del jazz italiano venne invitato Nunzio RotonNunzio do con il suo Sestetto Rotondo dell’Hot Club di Roma. A lui l’onore, ma anche l’onere, di aprire il concerto e il Festival la stessa sera in cui suonò Dizzy Gillespie con il sassofonista Don Byas. Ciò malgrado, il pubblico decretò a Rotondo, Franco Raffaelli, Ettore Crisostomi, Carlo Pes, Carlo Loffre-
do e Gilberto Cuppini, presentato da André Francis, nel corso della diretta radiofonica, con il nome di Gabriele (!!), un vero e proprio trionfo, come si può ascoltare dalla registrazione ritornata alla luce dopo cinquantotto anni. La critica fu concorde e le recensioni apparse sulle maggiori pubblicazioni europee non furono avare di elogi nei confronti di Rotondo, Cuppini, Crisostomi e del giovanissimo sassofonista Franco Raffaelli, che malgrado avesse dimostrato notevoli qualità, abbandonò ben presto
l’attività musicale. Negli anni successivi, pur partecipando saltuariamente a qualche concerto o jam session, visse sempre nel ricordo di quel concerto alla Salle Pleyel. La presenza di Rotondo e dei suoi musicisti sul palco della Salle Pleyel durò solo venti minuti, il tempo necessario per eseguire tre brani, due composti dallo stesso Nunzio e uno standard del jazz, il celebre Move del batterista Denzil Best che Miles Davis aveva inciso tre anni prima. È quest’ultimo che è stato ritrovato. Sarà pubblicato, assieme ad altre rarità registrate nel corso di alcuni concerti (la grande orchestra di Giampiero Boneschi, l’Ottetto di Gianni Basso e Oscar Valdambrini, il Sestetto di Giancarlo Barigozzi e uno splendido Lover for Sale del trio di Piero Piccioni) in un nuovo cd della piccola Riviera Jazz Records che da quasi vent’anni è impegnata nel recupero dei tesori del jazz italiano.
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arti Mostre
ai peccare di presunzione. E soprattutto mai presupporre. Per esempio di aver visto abbastanza del grande Doisneau, e di conoscere tutto: retrospettive, mostre tematiche, libri e libroni. No, quando uno è un genio, e Doisneau è indubbiamente un genio (della leggerezza, della gioia, dell’agguato, pur meno rigoroso di quello di Cartier-Bresson, ma più monello e ammiccante) che davvero non si finisce di scoprirlo, mai. E di domandarsi ogni volta come facesse miracolosamente a essere proprio lì, non per immortalare un evento storico o documentare un accadimento epocale, ma per inquadrare in un secondo quel magnifico teatro dell’impersistente (e impertinente: i protagonisti di questi scatti teatrali complici della sua simpatia). Divertendosi, anche nel dramma persistente della povertà, perché, ahimè, sfido chiunque a dire che il nostro mondo, «complesso e accelerato», sia più divertente e geniale di quello che vien fuori da questi scatti: la simpatia inventiva dei bambini, la felicità d’un mondo biricchinamente geometrico, l’onestà di criminali e la bellezza grafica dei clochard, un baffo al Bauhaus, in un’atmosfera-semper-Prévert). Uno non li ricorda magari più, quegli scatti, al dettaglio, che per un attimo ti paion capitali, indimenticabili, ma vieni fuori con una felicità dentro, che purtroppo le nostre mostre, pensose quanto cretine, non comunicano più. Attenzione, non il solito lamento del temporibus actis, proprio no: perché poi siamo i primi disposti a stupirci del genio sbarazzino e ad ammirare la vispa vivacità imprevista d’un Doineau sessantenne, che inviato a Palm Springs nel ‘60, per un servizio (praticamente e sempre «imparare da Las Vegas») per intanto affronta il famigerato, detestato colore (dai puristi più barbosi) e si getta poi a scoprire quel mondo di latta, paccottiglia e ricchezza cafona, da casinò, che, sì, è assai in stile Diane Arbus (ma siamo quasi in contemporanea) e ci spia-
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Moda
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Gli scatti italiani del sovversivo
Liu Bolin di Marco Vallora
ce, però, ma lo fa molto meglio, e meno sussiegosamente, dei tanti Martin Parr o Eggleston e peggiori epigoni, che i cattedratici dell’avanguardia, a gogo, c’infliggono come originalissimi. Se gli preferite Vanessa Beecroft, fate pure voi: a ognuno la sua omicida nutella. (Leggiamo: «Il mitico Eggleston, pioniere della “scandalosa” fotografia a colori che ha scioccato il mondo dell’arte, con una memorabile mostra al Moma nel 1976». Pioniere?! Questi sciocchini sentenziosi, che si choccano sempre e vedono tutto «memorabi-
le» e mitico. Magari sfoglino un poco). Ecco, noi il nostro atto di contrizione l’abbiamo fatto: pensavamo di vedere a Forma un fotografo cinese che c’intriga molto, e abbiamo scoperto il nuovo del vecchio Doisneau, mentre il cinese se n’era già partito, per un’altra galleria di Verona, in cui l’abbiamo recuperato. E val davvero la pena. Ci si domanda soltanto perché alcune cose, in Italia, arrivino così in ritardo e di straforo, l’avevamo già incontrato chissà se a Salisburgo o a Bruxelles, in una stimolante rassegna di artisti cinesi,
che invece nelle kermesse italiane, curate da curatori «mirati» e poco mirabili, mai ci permettono di scoprire. Per esempio a quel mostruoso convegno di mostruose cose, che ci ha passato il Palazzo Reale di Milano, secondo i gusti e i diktat della milanese Galleria Marella: un incubo di ammiccamenti pedofili e di truculenze grafiche, che uscivi da Palazzo, domandandoti: ma che ho fatto di male, per meritarmi questo? Poi ovviamente vai all’estero o a Pechino, e scopri che ci sono ben altri artisti interessanti. Anche la mostra torinese China Power Station, il nome è già tutto un programma, non è altro che lo specchio dei vezzi d’un preparato ma pedissequo Olbrist, che per le sue maratone cosmogoniche ha convocato nella Little Turin degli artisti analfabeti, che non superano una righetta di risposta, in ping pong (Mao adieu!) con le sue elucubrate, tetragone domande. Parlando di Robbe Grillet e Derrida a dei primordiali, che domandano a dei traduttori improvvisati: «che cosa è il capitalisme? non ho mai sentito questa parola» e fanno dei video, che dire sotto-dilettanti è dire poco, ed è ovvio che il pubblico allibilito se la sfili, poco a poco, come nella sinfonia degli Addii di Haydn, facendo infuriare Hans Urlich. E dire che Liu Bolin, che presenta qui alcuni scatti «girati» in Italia, all’Arena di Verona o in platea alla Scala (un fantasma evanescente, che gli artisti potrebbero usare contro i tagli-Bondi) è quanto mai interessante e sovversivo, per il suo Paese. Perché avendo assistito e documentato lo scempio degli ateliers degli artisti, nel Suojia Village, giudicato troppo pericoloso e smantellato dal potere, convinto che l’artista nella società d’oggi sia un’ombra impalpabile, si «cancella» in luoghi simbolici, talvolta cartolineschi, secondo un’arte del camouflage animale, del mimetismo cromatico, camaleontico, che un maestro del trucco gli permette di realizzare. E ogni volta diventa una maschera-fantasma della nostalgia maoista: ex-timoniere del nulla.
Liu Bolin, Verona, Galleria Boxart, fino al 4 dicembre
Chic, come applicare il low cost a uno stile di vita e donne che sanno come stanno le cose riescono ad avere l’aspetto di milionarie, anche se non sono ricche. Certo, la faccenda richiede un po’ di impegno (raramente si ottiene qualcosa in cambio di niente in questa valle di lacrime) ma ne vale la pena». Marjorie Hillis ha scritto Chic! nel 1937, quando l’America cominciava a riprendersi dal disastroso crollo del ’29, ma molte fortune erano ormai perdute, e bisognava adattarsi a vivere low cost, a cominciare dal guardaroba. Questo spiega il successo del libro (venduto, all’epoca quanto il mitico Via col vento) e la sua sorprendente attualità (lo ripubblica B.C. Dalai, 143 pagine, 16,50 euro). Redattrice di Vogue per vent’anni, spiritosa, elegante e piena di ironia, Marjorie Hillis sarà utilissima alle Nuove Recessioniste, a tutte le vedove dell’I love shopping, che però non vogliono rinunciare a vestirsi. Prima regola. Restare fedeli a un unico colore, nero, blu o marrone, così tutto si abbinerà con tutto. Seconda regola: stare alla larga dai capi troppo estrosi. Possono essere seducenti i primi due mesi, ma non dopo due anni. «E non pensiate che vi stiamo incoraggiando a creare un guardaroba sciatto. I migliori abiti acchiappa-fidanzato non sono necessa-
«L
di Roselina Salemi riamente quelli che fanno girare la testa ai passanti». Terza regola: procuratevi un tubino nero. Non si sporca facilmente e può essere accostato a ogni tipo di giacche, gioielli, sciarpe e scarpe finché non tira le cuoia. Raccomandazione: un vestito poco costoso, abbinato a splendidi accessori, fa più scena di un abito costoso accompagnato da accessori dozzinali. Perle di saggezza: 1) Se avete un reddito basso, non cercate a tutti i costi di essere un tipo all’ultima moda. Lo stile Chanel è dispendioso «e se quest’anno la frangetta e la cloche possono essere chic, dieci a uno che l’anno prossimo saranno considerate vintage»; 2) Fate attenzione agli abiti stretti in vita, specialmente dopo i quaranta; 3) Un cappotto caro può rappresentare un saggio investimento se vi sta bene ed è elegante; 4) Tre vestiti neri non vi annoieranno mai quanto tre abiti di qualsiasi altro colore; 5) Colloquio di lavoro. Non si può convincere un capo del personale di avere un cervello sopraffino se non si è abbastanza intelligenti da mettere assieme un abbigliamento che non gli faccia pensare: questa si è vestita al buio; 6) Se siete costrette a comprare con i saldi, andate in un bel negozio a fine stagio-
ne, non in uno a buon mercato all’inizio. Ma tutto questo non basta. Chic! è uno stile di vita che include tra gli accessori costosi, anche l’argenteria, i ricevimenti e un marito «perché tralasciando la questione sopravvalutata dell’amore, è perfettamente comprensibile che una donna voglia avere accanto un marito quando ha ospiti a cena, ha bisogno del quarto a bridge, o di qualcuno che l’accompagni a teatro, apra il vino e le porti il ghiaccio», e i gli uomini più affascinanti sono un disastro in fatto di soldi. Vale lo stesso principio del cappotto: la scelta più saggia può essere quella di prenderne uno carissimo per il semplice piacere di comprarlo. L’importante è che vi renda felice.
MobyDICK
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il paginone
Due secoli fa, quando fu pubblicata poco dopo le “Affinità elettive”, la “Teoria dei colori” non poteva ancora essere recepita. E se rappresenta un enigma nella produzione dello scrittore tedesco, c’è chi la considera l’opera di un genio anticipatore, e chi solo un hobby di un uomo geniale. Quello che è certo è che lui ne andava orgoglioso… di Pasquale Di Palmo o non mi inorgoglisco per tutto ciò che ho prodotto come poeta. Insieme a me hanno vissuto eccellenti poeti, altri ancora migliori hanno vissuto prima e altri ve ne saranno dopo di me. Sono invece orgoglioso del fatto che, nel mio secolo, sono il solo che conosce il giusto nella difficile scienza del colore, e nutro perciò una certa coscienza della mia superiorità rispetto a molti». Queste parole di Goethe, che figurano nelle conversazioni che il poeta ebbe con Eckermann, documentano la presa di coscienza manifestata nei confronti della sua Farbenlehre, da noi conosciuta come Teoria dei colori, origina-
«I
variegata di Goethe: se da un lato vi è chi la considera un lavoro altamente significativo, teso ad anticipare ricerche che si svilupperanno in epoca moderna, soprattutto sul versante artistico e filosofico, influenzando pensatori come Wittgenstein e pittori come Klee o Kandinskij, dall’altro c’è chi imputa a Goethe la mancanza di un metodo scientifico adeguato, relegando i suoi esperimenti nel contesto di una dimensione dilettantistica e velleitaria. Risulta emblematico, d’altronde, che l’estensore di una recensione rimasta anonima, già all’epoca della pubblicazione dell’opera, avanzasse le seguenti riserve: «Il nome dell’au-
una scuola che appunto non brilla per la perspicuità e la determinazione delle sue proporzioni; infine l’autore stesso ci aveva dato nella sua Ottilia (personaggio del romanzo Le affinità elettive, ndr) un saggio dello stile con cui egli tratta oggetti fisici. In conformità a ciò era quasi prestabilito che la nuova teoria dei colori sarebbe stata romantica, poetica e per nulla prosaica, e che noi non avremmo potuto aspettarci altro che una spiegazione, travestita nell’artificioso linguaggio del trascendentalismo, delle note manifestazioni di natura». In tale critica non si può non ravvisare come lo spirito del tempo fosse in grado di recepi-
I suoi interessi spaziavano dalla botanica alla geologia, dalla mineralogia all’anatomia. E mentre sopportava le critiche su romanzi e poesie non tollerava appunti sul suo sapere scientifico riamente uscita nel 1810 a Tübingen, presso l’editore Cotta, in due volumi, con allegato un sottile quaderno contenente sedici tavole.
A due secoli dalla sua pubblicazione (una parte didattica era apparsa nel 1808 e un precedente studio intitolato Contributi sull’ottica aveva visto la luce nel 1791), la Teoria dei colori continua a rappresentare una sorta di enigma nell’opera
tore Goethe attira, come è facile immaginare, l’attenzione del pubblico tedesco. Goethe è famoso come poeta, e ora si annuncia come fisico, come scienziato della natura... Nondimeno molti [...] già all’uscita di questo libro erano dell’opinione che la scienza non ne avrebbe ricavato alcun vantaggio. Era noto che egli non si intendeva per nulla di matematica, e anche che non era un fisico pratico. Era nota la sua appartenenza a
re solo in parte quelli che, secondo Goethe, erano i presupposti fondamentali che hanno contraddistinto la sua esperienza. In primis è quanto mai discutibile, anche se con il senno del poi, considerare gli approdi della scienza moderna (Einstein docet) su un piano antitetico rispetto a quello poetico e filosofico; secondariamente è difficile riscontrare, se non raramente e quasi di sfuggita, dei passaggi in cui si indulga alla
Goethe come appare nel suo ritratto più celebre, di Tischbein, che lo immortala nella campagna romana. Sopra il titolo, lo scrittore tedesco nel 1828 in un dipinto di Joseph Carl Stieler; accanto, di spalle a Roma in un disegno di Tischbein; sotto un suo disegno e la copertina della “Teoria dei colori” nell’edizione del Saggiatore anno III - numero 41 - pagina VIII
L’occhio d rêverie romantica in un contesto dove l’autore si limita a elencare, in maniera rigorosa e metodica, una serie di esperimenti ottici. La teoria dei colori è un’opera a tratti ostica rispetto alla godibilità insita nei testi dall’esplicito orientamento narrativo o poetico. Le stesse entusiasmanti digressioni presenti nel Viaggio in Italia o in Poesia e verità lasciano il posto a una sequela di argomentazioni tese a sottolineare l’aspetto empirico di un determinato esperimento, senza nulla concedere sul piano prettamente stilistico.
Nondimeno si deve considerare quanto l’attività parascientifica di Goethe abbia arricchito, influenzandolo profondamente dall’interno, tutto il suo itinerario creativo. I suoi interessi spaziavano dalla botanica alla geologia, dalla mineralogia all’anatomia umana e animale, dalla meteorologia all’ottica. Una sete di conoscenza davve-
ro inesauribile, nell’utopico tentativo di abbracciare ogni forma di dottrina in direzione di un umanesimo che, sulla falsariga di quella compostezza di derivazione classica prospettata all’epoca del sodalizio con Schiller, fosse in grado di conciliare gli stilemi raziocinanti dell’epoca dei lumi con la vertiginosa temperie dello Sturm und Drang. Già nel 1784 il poeta si era esaltato per aver scoperto nell’essere umano un osso intermascellare che si riteneva fosse presente solo negli animali (ma alle stesse conclusioni era arrivato, con una manciata d’anni di anticipo, un ricercatore francese, Félix Vicq-d’Azyr, che rese pubblica la sua scoperta nello stesso 1784). Visitando i giardini botanici di Palermo a Goethe balenò l’idea della Urpflanze, sorta di pianta originaria che avrebbe dato origine a tutti gli altri tipi di piante. Nel 1790 pubblicò la Metamorfosi delle
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Torben Bergmann De attractionibus electivis (1782) in cui si descrive quel particolare processo di attrazione e repulsione tipico di certi elementi naturali. Goethe rimase fino alla fine dei suoi giorni impassibile riguardo alle critiche che venivano mosse ai suoi romanzi o alle sue poesie mentre diventava intrattabile quando qualcuno si permetteva di avversare le sue concezioni in campo naturalistico. Nella Teoria dei colori solo qua e là trapela la generica descrizione ambientale dalla quale scaturisce un particolare che colpisce Goethe per il legame con le ricerche sostenute sul versante ottico, come nel seguente passaggio: «Dopo che, verso sera, fui entrato in un’osteria e un’avvenente fanciulla, dal volto bianchissimo, ca-
quella che era l’assurdità della concezione newtoniana della luce nella pretesa che la luce bianca fosse composta di luci più scure, e in generale che quell’elemento indiviso che è la luce potesse essere pensato composto di qualcosa d’altro come raggi, fasci, ecc.». Goethe si convinse dell’inattendibilità delle teorie newtoniane, osservando una parete bianca attraverso il prisma. Nonostante il poeta tedesco si attendesse di vedere lo spettro dei colori, la parete apparve in tutto il suo lindore, senza la benché minima traccia di colore, con l’eccezione di un punto in cui una zona chiara confinava con una zona più scura. «La conclusione di Goethe fu che, affinché il colore sorgesse, era necessario un confine, un margine dove luce e oscurità pote-
revoli sono, al riguardo, gli esperimenti descritti da Goethe nella Teoria dei colori e non è un caso che Giulio Carlo Argan parlasse di una stretta relazione con l’attività pittorica intrapresa soprattutto durante l’Italienische Reise, sostenendo che «Goethe era persuaso che alla verità non si arrivasse per illuminazioni improvvise, ma con la pazienza e l’onestà della ricerca e della sperimentazione». I primi studi in tal senso risalivano al 1790, subito dopo quel viaggio in Italia che, oltre a rivelargli il mondo classico, lo mise in contatto con alcuni dei più importanti artisti tedeschi dell’epoca: da Angelica Kaufmann a Wilhelm Tischbein, autore del celeberrimo ritratto Goethe nella campagna romana, da Philipp Hackert a Heinrich Kniep che lo accompagnò
La sua “Farbenlehre” contrasta con la teoria di Newton secondo la quale i colori vengono percepiti attraverso la scomposizione della luce per effetto del prisma. Per lui invece era necessario un confine
di Goethe piante, che fa pendant con la poesia didascalica intitolata Metamorfosi degli animali, edita nel 1820. Nel 1817 licenziò una raccolta di saggi sulla morfologia e la cromatica.
I t a l o A l i g h i e r o C hi u s a n o , nella sua ormai classica Vita di Goethe, sostiene che gli studi scientifici e naturalistici del poeta tedesco «meritano e hanno in effetti avuto trattazioni tutte particolari, e valutazioni che vanno dall’indulgenza per l’hobby di un uomo geniale che avrebbe fatto meglio a pensare solo alla letteratura fino all’esaltazione di chi vede in Goethe un genio anticipatore, il primo che uscì dalle strettoie di una scienza troppo ristretta nella pura classificazione e registrazione dei fatti, senza mai uno sguardo a leggi e principi universali». Il germanista aggiunge: «Il minimo che possa dire un biografo e critico letterario come il sottoscritto è che
quegli studi diedero un’impronta decisiva a tutta la personalità di Goethe, indirizzandola a una grande precisione nell’osservare, a un sereno realismo privo di ogni patetismo nel contatto col mondo; inoltre, anche come scritti giudicati dal solo punto di vista poetico-letterario, fanno spicco sulla letteratura scientifica del tempo (e non solo del suo) per l’eleganza e la pregnanza della formulazione, la vividezza non mai aridamente tecnica del linguaggio, la continua urgenza - pur nelle questioni più squisitamente tecniche - di un afflato più vasto, che si vorrebbe definire tra lirico e religioso». Quanto il sapere scientifico abbia influenzato la stessa Weltanschauung goethiana è evidente fin dal titolo di uno dei suoi romanzi più noti, Le affinità elettive, pubblicato nel 1809, qualche mese prima della Teoria dei colori e ispirato all’opera del chimico svedese
pelli neri e un corsetto rosso scarlatto entrò nella mia camera, la fissai mentre stava a una certa distanza da me, in una debole luce. Quando infine ella si mosse, sul fondo della parete bianca a me dirimpetto scorsi un volto nero circondato da un bagliore chiaro, e le vesti della nitida figura di un bel verde mare». Ma, per il resto, il periodare goethiano procede sulla base di riflessioni dirette, spesso procurate dall’accostamento di carte e figure di varia foggia e colore posizionate entro un particolare effetto luminoso.
Goethe si pone palesemente in contrasto con la teoria di Newton secondo la quale i colori vengono percepiti attraverso la scomposizione della luce per effetto del prisma. Renato Troncon, curatore dell’eccellente traduzione italiana edita da Il Saggiatore, precisa al riguardo come Goethe indichi «molto esplicitamente
vano incontrarsi e dar luogo al colore» osserva ancora Troncon. Lo stesso Goethe, nella prefazione all’opera, asserisce: «La teoria dei colori di Newton è paragonabile a un’antica rocca che, edificata dal costruttore con giovanile precipitazione, venne da lui in seguito a mano a mano ampliata e munita secondo le necessità dei tempi e delle circostanze, e sempre più fortificata e consolidata in occasione di ostilità e di inimicizie».
Goethe suddivide i colori in tre categorie: fisiologici, fisici e chimici. «Innanzitutto consideriamo i colori in quanto appartengono all’occhio e dipendono da un suo meccanismo d’azione e reazione; quindi ci rivolgiamo a quelli che possiamo osservare su mezzi incolori e con il loro ausilio, per infine indirizzarci a quelli che potevamo pensare come appartenenti agli oggetti. Abbiamo dato il nome di colori fisiologici ai primi, di fisici ai secondi, di chimici ai terzi. Mentre i primi sono senz’altro fugaci e i secondi sono transitori e tuttavia possono essere trattenuti, gli ultimi resistono per la massima durata» precisa lo stesso Goethe. È fondamentale, per la nascita di un colore, che esistano le condizioni legate al binomio luce e oscurità, chiaro e scuro, «oppure, con un’altra formula più generale, luce e non-luce». Innume-
in Sicilia per dipingere i paesaggi che maggiormente catturarono l’attenzione del poeta. In tale contesto non bisogna dimenticare il contrasto nato con Arthur Schopenhauer, accusato dal poeta di aver saccheggiato nel saggio La vista e i colori, pubblicato nel 1816, le sue teorie. Fu Goethe, che frequentava il salotto letterario della madre di Schopenhauer, a invitare il futuro autore del Mondo come volontà e rappresentazione a studiare i fenomeni ottici nell’inverno 1813’14 finché, trasferitosi a Dresda, quest’ultimo continuò le ricerche per proprio conto, arrivando a conclusioni analoghe a quelle del maestro. «Il dottor Schopenhauer si mise dalla mia parte da benevolo amico. Su parecchie cose ci trovammo d’accordo, ma infine non si poté evitare una certa separazione; come quando due amici, che fino a un certo punto hanno camminato insieme, si danno la mano e l’uno si dirige verso nord, mentre l’altro vuole andare a sud, sicché ben presto si perdono di vista» osservò Goethe. L’interesse manifestato da Goethe per la vista e i colori si concretizzerà anche in ambito poetico: del 1817 è Colori entoptici, la lirica accolta nella silloge Gott und Welt (Dio e mondo). La chiusa di questa poesia recita emblematicamente: «Lascia pure che il macrocosmo/ sviluppi le sue forme spettrali!/ Giacché i dolci microcosmi/ posseggono invero le più belle immagini». E come non pensare a «Mehr Licht!» («Più luce!»), le parole che Goethe pronunciò, secondo alcuni biografi, in punto di morte?
Narrativa
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libri
Sándor Márai IL SANGUE DI SAN GENNARO Adelphi, 346 pagine, 19,00 euro
uno dei romanzi più intensi di Sándor Márai, l’ungherese che nel 1948 abbandonò la patria e, dopo un breve periodo in Svizzera, si stabilì a Napoli dove rimase fino al 1952 per poi trasferirsi in America. Parla dell’Italia, ma principalmente di Napoli - città più mediterranea che italica - in tono affettuoso considerando saggi, commiserevoli e divertenti noi dello stivale. Márai non descrive direttamente il protagonista, ne registra i tratti disegnati da testimoni. Sullo sfondo c’è la stranezza partenopea che, sia pur ripetitiva, teatrale e lagnosa, sfodera spiccate dignità. È tempo di migrazioni, e l’Italia è un ponte affollato. C’è uno straniero che incuriosisce e tutti offrono di lui versioni diverse. È un esule che si mette in testa l’idea di come poter redimere il mondo. La domanda è l’effetto di una spaventosa disillusione. L’esule soffre come tutti gli esuli e teme di continuo la deprivazione della propria identità, a cominciare da quei piccoli particolari attinenti alla grafia, e soprattutto agli accenti, dei nomi. Le scritture amministrative omettono o sbagliano e allora uno si trova a essere infilato in una cartellina di polizia che proprio per certe inesattezze conferma la sciagura di un’identità persa, o slabbrata. Lo straniero, sospettato d’essere un po’ una spia e un po’ un ex comunista, aspetta il giorno dell’imbarco per l’Australia, mentre la sua compagna si prepara a salire su una nave diretta verso gli Stati Uniti. Ma un giorno cattivo e di mare capriccioso, il corpo dell’uomo viene trovato sulla spiaggia, senza vita. Si è buttato dal parapetto l’uomo che, pellegrino e straniero come San Francesco, rifletteva dolorosamente su una redenzione che non passasse attraverso i vicoli sporchi, astuti e pretenziosi della politica? Nessuno sa. In un certo senso accarezzava l’idea del miracolo. Sì, proprio come quello del sangue di San Gennaro. E a questo guardano i napoletani, sia signori che lazzaroni, tutti nella promiscuità, incomprensibile a tutto il mondo, di una città che mette insieme principi, guappi, poveri, malavitosi, imbroglioni e anche intellettuali di rango come Benedetto Croce. Márai, attraverso le testimonianze attorno all’enigmatico straniero, dà prova di acume umano e politico quando descrive il comportamento della gente sotto i regimi autoritari, nazisti e bolschevichi. È frate Carmi-
È
Márai
a Napoli in cerca di redenzione Uno dei romanzi più intensi dello scrittore ungherese che visse nella città partenopea fino al 1952: un atto d’accusa contro le dittature
Riletture
di Pier Mario Fasanotti
ne incaricato di riportare affilate verità, sentite dall’esule con fama di scienziato. Lo straniero che sosta nella Napoli teatralizzata. Le dittature sanno bene che il consenso degli intellettuali è importante. Meglio se restano in patria, «anche se in silenzio». Ma lui se n’è andato: «non tollerava l’idea di divenire, proprio in quanto oppositore inoffensivo, una sorta di opera d’arte che i comunisti avrebbero mostrato con ironica devozione alle loro masse e al mondo intero». Quanto alla redenzione politica, così ingannatoria, alla fine l’uomo si stacca «dall’obbligo di credere a ogni genere di assurdità ufficiale, di menzogna statale… le sfilate, le assemblee, gli entusiasmi meccanicamente suscitati, le continue vessazioni, le tasse, i ricatti di ogni tipo». Il polacco misterioso che ammira il golfo, sempre secondo il teste francescano, riferisce di milioni di persone che nelle dittature violente conducono una vita «straordinariamente monotona». «È incredibile quanto sia primitiva l’immaginazione degli entusiasti, degli ingannati e degli speranzosi…». Certe popolazioni dell’Europa centro-orientale si sono lasciate afferrare dalla speranza che il comunismo della «lontana e barbara Russia» fosse o potesse essere diverso, più umano, più moderato. Inoltre sono sempre i mediocri e gli insignificanti ad aderire al fascismo. Infine l’atto di accusa di Màrai, pesante come un masso: «Molte delle menti migliori della cultura occidentale non sono disposte a condannare il bolscevismo con la stessa incondizionata fermezza con cui respinsero il nazismo». Una cosa a ben vedere strana, visto che nazismo e comunismo, decretando la filosofia come accessorio superfluo, favoriscono «gli sciancati dello spirito che godono nell’evirarsi». L’esule quindi non crede più ad alcuna «soluzione sociale», ma solo a una diversa redenzione. È un’aspirazione da malati di mente? Ecco la risposta di chi convive con il miracolo di San Gennaro: «Forse individualmente c’è qualcosa di patologico in un uomo che si assume il ruolo di redentore, ma la sua impresa non lo è affatto». Gesù non era pazzo. E i comunisti non intendono redimere, ma solo dominare, mentre gli uomini d’affari vogliono solo vendere.
Vita avventurosa e libera di Pico della Mirandola entre Carlo VIII entrava a Firenze e conquistava l’Italia «con il gesso», Giovanni Pico della Mirandola moriva nella città di Lorenzo il Magnifico all’età di trentun’anni, otto mesi e ventiquattro giorni. L’ingresso del re di Francia fu lento e in pompa magna. Da giorni e giorni era atteso e i fiorentini seppero accoglierlo con onori e non furono neanche sfiorati dal pensiero di fargli resistenza: «Sulla porta a San Friano, l’aspettava la signoria, con bellissima compagnia di cittadini di grave età e giovani fiorentini riccamente vestiti alla franzese. Mancavano un paio d’ore al tramonto, il cielo era corrucciato e alla fine piovve. Solo un rovescio breve, abbastanza però per scompigliare il corteo». Firenze era in festa, ma la casa del conte della Mirandola era in lutto. Aveva soltanto trentun’anni e morì avvelenato. Forse. Giulio Busi, professore ordinario alla Freie Universitat di Berlino, dove dirige l’Istituto di giudaistica, filologo, studioso del misticismo ebraico e tante cose ancora, ha scritto il curioso libro dal titolo Vera Relazione sulla Vita e le Opere di Giovanni Pico Conte della Mirandola edito da Aragno. Libro doppiamente curioso per la materia di cui tratta e per il modo
M
di Giancristiano Desiderio in cui la tratta: è un saggio, uno studio di filologia, una ricostruzione storica, un racconto. Tutto è unito, dall’inizio alla fine, dalla vita di Pico della Mirandola: «Elegante, rubacuori e prodigiosamente ricco, Giovanni Pico della Mirandola può essere considerato il simbolo dell’inquietudine intellettuale del Rinascimento italiano». Lo studio e il racconto di Giulio Busi possono essere letti come la «rilettura» della vita e dell’avventura intellettuale e religiosa dell’autore del De hominis dignitate. Una rilettura quanto mai utile non per come usa dire in casi del genere - conoscere il passato, bensì per comprendere il presente e dargli una dignità che a tratti dubitiamo di conservare. La vita di Pico della Mirandola - confesso che il nome stesso del Conte è una meraviglia che invoglia alla conoscenza della sua figura e del suo pensiero - è entusiasmante: sotto la diversità delle culture e delle religioni c’è un senso comune dell’umanità e tutte le cose del mondo e
Giulio Busi ripercorre la vicenda dell’autore del “De hominis dignitate”
della natura sono segni della parola di Dio. Il Conte della Mirandola, amico di Lorenzo il Magnifico e di Girolamo Savonarola, era aristotelico e platonico, scolastico e rinascimentale, greco e cristiano, egizio ed ebreo e tutta la sua grande sapienza riunì in novecento tesi da discutere in una riunione di dotti e teologi e giuristi e insomma grandi testoni fatti arrivare a Roma a sue spese. Aveva ventitré anni. Il risultato, dopo breve lettura interrotta alla settima tesi, fu l’accusa prima e la condanna poi per eresia. Pico scappa, lascia Roma, viaggia verso Parigi, ma è arrestato alle porte di Lione. Ma la cattura suscitò grandi proteste e il Conte della Mirandola fu liberato con l’obbligo di lasciare la Francia.Tornò a Firenze accettando l’invito del Magnifico che però non riuscì nel suo intento: fargli ottenere il «perdono» di Innocenzo VIII. Oggi perdoniamo Innocenzo VIII: la dignità dell’uomo di Pico è la nostra stessa cultura della libertà.
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poesia
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Baudelaire, maestro di moralità di Filippo La Porta iamo proprio sicuri che Charles Baudelaire fosse il padre di Mallarmé e del simbolismo, il teorico della poesia pura? O anche che nella sua produzione poetica «tutto è incanto, musica e sensualità astratta», come sostenne Paul Valery? In realtà Baudelaire, che pure nel 1858 tradusse la Filosofia della composizione di Edgar Allan Poe, prima formulazione teorica della poesia pura, sta stretto in ogni formula. Se va indubitabilmente considerato l’iniziatore della modernità in poesia, ci aiuta a capire come questa modernità comprenda molte più cose del dogma estetico che poi nel Novecento diventerà egemone, e cioè l’idea di Poe (e prima di Novalis) che la specificità poetica consista unicamente nel linguaggio, in una «forma» che non comunica niente, in pura sonorità e magia verbale, indifferente al significato. I Fiori del male, usciti nel 1857, non sono affatto «oscuri», come invece molta poesia simbolista, né possono ricondursi a un ideale di poesia pura e in fuga dal significato. Anzi la loro novità consiste nel nominare qualsiasi oggetto della vita quotidiana, nel dare rappresentazione alla metropoli («città formicolante, città piena di sogni! Anche in pieno giorno lo spettro adesca i passanti», Quadri parigini), e poi agli aspetti più torbidi e in un certo senso più «brutti» dell’esperienza (la sua idea della bellezza come qualcosa che può implicare la bruttezza, al fine di provocare il gusto corrente, muove dal barocco ed è probabilmente all’origine dell’arte contemporanea).
S
Baudelaire insomma, assai più «moderno» dei suoi eredi, è un impietoso diagnosta della nostra civiltà, uno smascheratore delle ipocrisie della borghesia (come i coevi Nietzsche e Kierkegaard). La contraddizione è il suo elemento, portata fino alle estreme conseguenze: degrada l’amore per fargli esprimere il «nuovo» (che pure è qualcosa di vuoto), elogia l’artificiale contro il naturale in difesa dell’arte e della libertà dello spirito, abbraccia agnosticamente il satanismo come forma paradossale di fede cristiana, si sente dannato ma ne gode voluttuosamente, affonda compiaciuto nel vizio ma per richiederne un riscatto nella forma, è misogino ma anche attratto dalla misteriosa alterità della donna, celebra il ripugnante in odio al «vizio della banalità». Debitore nei confronti del romanticismo se ne distacca radicalmente perché separa in modo netto la poesia dall’«intossicazione del cuore», dalla sentimentalità personale e teorizza la fantasia come «un operare guidato dall’intelletto» (Hugo Friedrich, che pure nella sua Struttura della lirica moderna privilegia un mainstream poetico novecentesco a senso unico, tutto dominato dal simbolismo). La poesia di Baudelaire nulla concede all’irrazio-
il club di calliope
nale e al mistero, ama la logica e disprezza «chi si abbandona all’inconsciente, alla notte, a coloro che sarebbero divenuti i surrealisti» (Giovanni Macchia). E anzi pretende di coincidere con una precisione matematica, con una «scienza» esatta delle corrispondenze e analogie dell’esperienza. Leggendo per la prima volta Baudelaire restai affascinato dalla morbosità, dall’esaltazione delle droghe e dell’alcol, dell’estremismo sado-maso, dall’identificazione con Satana (in quanto sconfitto e con una propria orgogliosa sofferenza). Poi leggendo Stendhal, anche lui «dilettante» scarsamente compreso dai contemporanei, ho sentito la profonda affinità che li lega: ad agire è quella stessa devozione alla verità, all’«aspra verità» che troviamo in epigrafe al Rosso e il nero. Il primo lungo componimento dei Fiori del male si conclude con l’appello all’«ipocrita lettore, mio simile, mio fratello», insidiato dal mostro più immondo, la Noia, che «in uno sbadiglio ingoierebbe il mondo». La sua opera, sia in versi che in prosa (è stato un critico sommo), lungi dall’essere «spersonalizzata» (in senso antiromantico) nasce da violente idiosincrasie, da una immedicabile avversione alla società, da una passione autolesionista per la verità, che origina dal giansenismo.
In uno dei suoi poemetti in prosa (Lo
DON JUAN AGLI INFERI Allorché Don Giovanni scese all’onda d’abisso, dato a Caronte l’obolo, un mendicante scuro che aveva, come Antistene, lo sguardo fiero e fisso, prese i remi con braccio vendicativo e duro. Mostrando i seni penduli, e con le vesti aperte sotto la volta buia, donne si contorcevano, e come un vasto branco di vittime lì offerte, dietro di lui lunghissimi ululati emettevano. Sganarello ridendo gli chiedeva la paga, don Luigi, col dito tremolante ed ossuto, mostrava a tutti i morti, turba labile e vaga, l’empio figlio, oltraggioso del suo capo canuto. La casta Elvira, in lutto, tremante e smunta in viso, presso il suo sposo perfido, il suo amante violento, sembrava lo implorasse d’un estremo sorriso che avesse la dolcezza del primo giuramento. Un grande uomo di pietra, chiuso nell’armi, stava immobile al timone, fendendo il nero flutto, ma, curvo sulla spada, calmo, l’eroe guardava il solco della barca, disdegnoso di tutto.
spleen di Parigi) - «Scanniamo i poveri» - racconta di aver preso a calci e pugni un povero mendicante anziano, ma solo per provocarlo ed esserne poi ripagato («mi pestò gli occhi, mi ruppe quattro denti… mi picchiò di santa ragione»), e per concludere così: «gli avevo dunque reso l’orgoglio e la vita». Altro che immoralista o esteta delle sensazioni squisite! Qui, in questo «dandy che riesce a sentire il valore della carità» (Macchia), ritrovavo - ben al di là della famigerata «stroncatura» di Sartre - un intrepido maestro di moralità, un interprete lucido del pensiero critico. Torniamo ai Fiori del male. Il mito di don Giovanni ha avuto innumerevoli versioni dalla commedia seicentesca, e vagamente controriformistica, di Tirso da Molina: si passa dal personaggio di Moliére, quasi un Tartufo, arido e calcolatore, all’eroe mozartiano, edonistico e tragico, che per Kierkegaard incarnava l’immediatezza sensuale proprio in quanto ope-
Charles Baudelaire
ra musicale. Eppure nessuno ha saputo descrivere in modo paradigmatico, come Baudelaire, la natura intimamente borghese e «autistica» di questo libertino impenitente. Nei versi su riportati ci appare come una figura calma e immobile (le calme héros), che guarda fisso la scia della barca, indifferente a tutto (ne daignait rien voir). Come sempre la pena è già, al presente, nell’atto del peccato, cioè nel come vive chi pecca. All’inferno il don Giovanni di Baudelaire è esattamente com’era sulla terra: solo, catatonico, con la sua tetra serietà. Seduce continuamente le donne per non essere sedotto: ricurvo gravemente sulla spada (che tiene per difendersi dall’«altro»), sigillato per sempre nel culto della sua identità granitica, illusoriamente compatta.
L’IO DI COLE IMPRIGIONATO IN UNA SFERA in libreria
Avere paura in una casa vuota con la notte che preme oltre il vetro. Spavento del lato sterminato del mondo dietro il mondo dietro tutte le cose. E resto qui. Nella casa gelata. Resto, non torno.
Mariangela Gualtieri Da Bestia di gioia, Einaudi
di Giovanni Piccioni
utoritratto con gatti di Henri Cole, a cura di Massimo Bacigalupo (Guanda editore, 20,00 euro), è un’antologia di tre raccolte: L’uomo visibile (1998), Terra di mezzo (2003) e Il merlo e il lupo (2007). Come scrive Bacigalupo, con tali opere il poeta americano compie una svolta dal formalismo accademico e dall’impersonalità del lavoro precedente a una poesia «insieme scoperta (visibile), dalla dizione lineare e ricca di sfumature, colloquiale e formale». Cole si mette in gioco e dà forma d’arte a una realtà indistricabile. Quest’ultima appare perlopiù come un riflesso dell’io; un io sentito nella sua precarietà: il poeta è un uomo del Sud,
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omosessuale, single, cattolico per formazione, con forti tensioni problematiche nei confronti delle figure dei genitori. È una poesia della «vita reale», al cui centro sta l’esplorazione autobiografica («un senso dell’io imprigionato in una sfera,/ che non si sarebbe mai rivelato a nessuno»). La sincerità concisa, l’uso di immagini come simboli di sentimenti e la frequente forma del sonetto non rimato sono le caratteristiche formali più evidenti. Quanto alla complessa componente religiosa, essa ispira versi conflittuali e invocazioni, come nella chiusa di Autoritratto con calabroni: «… Signore, insegnami a vivere. Insegnami ad amare. Stenditi su di me».
Classica
MobyDICK
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spettacoli DVD
QUATTRO PASSI TRA LE STELLE DEL JAZZ
di Jacopo Pellegrini
ltro che invecchiamento; il destino cui è andata incontro la Nuova musica del secondo dopoguerra non è stato - in barba al pronostico del critico e pensatore tedesco Heinz-Klaus Metzger - di precoce senescenza, dovuta all’incessante ricerca del nuovo a ogni costo, ma di oblio, e completo per giunta. È così potuto accadere che la riproposta, nell’ambito dell’estrosa rassegna parmigiana Traiettorie (un panorama della produzione recente e contemporanea senza prevenzioni o paraocchi), d’una tra le prime «azioni teatrali» (non opere, dio liberi!) concepite in seno alla consorteria dei compositori postseriali, Die Schachtel (La scatola) di Franco Evangelisti (1926-’80), questa riproposta, dicevo, abbia assunto i tratti d’un revenant, d’un messaggio dall’aldilà. Romano, autodidatta o quasi in fatto di musica, dopo La scatola, che risale al 1962, Evangelisti smise in pratica di comporre. L’afasia, la negazione assoluta (adornianamente parlando) era una delle eventualità connesse a questa ricognizione dell’inaudito, e colpì proprio lui. Che, d’altra parte, era ben cosciente del pericolo (infatti, passò l’ultima parte della vita a scrivere un libro intitolato Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro) e volle dargli consistenza auditiva e visuale nella nostra «azione mimoscenica» per voce, mimi, proiezioni, nastro magnetico, orchestra da camera, ideata di concerto col pittore Franco Nonnis (1926-89). Pittore, non scrittore, giacché non d’una storia lineare, con un inizio uno svolgimento e una fine, si tratta, bensì d’un concentrato di suggestioni visive e sonore, unico modo possibile - stando a Evangelisti - di «far sopravvivere l’azione teatrale in musica»; e voce recitante, non canto, dal mo-
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Quell’apologo amaro sui destini della civiltà
Televisione
retha Franklin, George Gershwin, Sarah Vaughan e Glenn Miller. Sono quattro i jazz hero prescelti da Dolmen Video per un prezioso cofanetto rieditato in questi giorni, «I maestri del jazz». La Regina del Soul, primo della serie, contiene rare performance dal vivo (Respect, Chain of Fools). Seconda puntata è George Gershwin Remembered, dove spiccano i brani classici del maestro eseguiti dalla Royal Philharmonic Orchestra. Sarah Vaughan & Friends vede l’artista impegnata a duettare con Dizzy Gillespie, Maynard Ferguson, Herbie Hancock e Billy Higginson. Infine, Glenn Miller L’eroe della musica americana, con testimonianze d’autore.
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mento che col pubblico non si vuole stabilire un’empatia sentimentale, ma se del caso intellettuale, aiutarlo cioè a prendere coscienza dell’alienazione imperante nella società odierna (ancora Adorno, Marcuse, ecc.). Non più ripresa da oltre trent’anni, a Parma Die Schachtel ha potuto contare su un’esecuzione musicale inappuntabile, con Marco Angius intento a coordinare bravamente un pugno di solisti eccellenti (ricordo il flauto, il fagotto, il contrabbasso e i due percussionisti, come coloro che vantavano le più sbalorditive modalità strumentali, ma erano peritissimi tutti) e con Salvatore Sciarrino, nientemeno, supervisore-revisore della partitura. Della parte visiva, affidata a Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, funzionava l’impianto scenico, cogli artisti e gli spettatori (entusiasti) sistemati all’interno d’una «scatola» formata da quattro schermi per le proiezioni; né mancavano soluzioni eleganti e suggestive (gli effetti luce/ombra). Discutibile, invece, la decisione di trasformare i mimi in attori: le diverse
componenti è prescritto che restino separate, pertanto i frammenti testuali devono provenire da un altoparlante, al pari dei rumori stradali fissati sul nastro; e farneticante l’inclusione di affreschi correggeschi (la cupola del duomo parmigiano) tra le immagini proiettate, quasi a suggerire una soluzione positiva per questo «apologo amaro sui destini della civiltà» (Mario Bortolotto). In riferimento al quale Giordano Ferrari, in un bel saggio uscito su Musica/Realtà del marzo 1996, ha parlato di primo spettacolo multimediale. Si può essere o meno d’accordo, fatto sta che dal vivo l’elemento sonoro (di musica vera e propria è difficile parlare: altezze e ritmi di rado sono indicati), imperniato sull’effetto fisico di procedimenti dinamico-agogici elementari (addensamento/rarefazione, crescendo/diminuendo, esplosioni/silenzi, ecc.), attira irresistibilmente l’attenzione su di sé e mantiene sempre vigile l’ascolto grazie a un lavorio incessante intorno alle proprietà timbriche e ai modi d’attacco degli strumenti.
LIVE
A ROMA LA FESTA DEI TALENTI D’EUROPA arco Maccarini e Orsetta Borghero presentano La notte della musica emergente, la grande festa live della musica emergente, gratis e per tutti. In concerto il 27 novembre all’Atlantico, discografici, addetti ai lavori e appassionati pronti a lanciare il meglio delle band italiane ed europee, da La Fame di Camilla a House of Noises, dagli inglesi The Lottery agli spagnoli Festour. Tra gli ospiti Mogol, Marcello Balestra (Warner Music Italy), Dario Giovannini (Carosello Records), Massimo Bonelli (Cni Music), Giampaolo Rosselli e molti altri addetti ai lavori.
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di Francesco Lo Dico
Il sociale a Geo&Geo: la resurrezione parte dai ragazzini l programma Geo & Geo, così bene condotto da Sveva Sagramola (Rai 3, pomeriggio) è un’alternativa intelligente alla cascata di serial disneyani - pur costruiti bene - improntati sulla comicità, sulle gags, sulle soap-opera per giovani adulti con personaggi fissi. Da un po’ di tempo Geo & Geo ha una sorta di introduzione documentaristica a carattere sociale. Domanda: chi la segue veramente? Padri e madri lavorano, i ragazzi o fanno i compiti, sport o sono attratti dalle sirene dei filmati umoristici. Forse i nonni? È un peccato quindi che la scuola non saccheggi questi reportage per usarli come materiale didattico. Ma, si sa, la scuola ha uno scheletro ancora rigido, salvo eccezioni dovute alle sensibilità dei singoli insegnanti. In ogni caso le varianti al programma scolastico si limitano in gran parte alle cosiddette gite culturali. O al Colosseo (Roma) o al castello Sforzesco (Milano). Oppure incursioni in qualche cascina o laboratori dell’hinterland. In una delle
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puntate di Geo & Geo la macchina da presa s’è fermata sull’Italia che certa propaganda politica non tanto oscura relega nel silenzio in quanto deprimente, o addirittura offensiva per il vessillo dell’ottimismo nazionale. Capita in piccolo quel che è capitato al film Gomorra tratto dal romanzo-saggio di Roberto Saviano. Un atteggiamento che ricorda certe massaie inglesi che buttano la polvere sotto i tappeti. I panni sporchi sono considerati una vergogna, ancora di più se il film si esporta. Salvo poi porre domande sull’origine di certi atti criminali, individuali o collettivi. C’è sempre un preciso humus dove nasce la malapianta del disagio sociale o psichico. Periferia (orrenda) di Napoli, ancora una volta. Casermoni-case che indurrebbero chiunque a intentare
un processo contro l’assessore all’urbanistica. Sporcizia ovunque, polizia assente, controllo sociale zero. Siamo in un quartiere di Ponticelli. Ma il reportage vira sull’ottimismo del fare: non quello statale, che manca proprio, semmai quello dei volontari, delle comunità sociali le cui iniziative saranno anche, come è stato detto, «una goccia nel mare», ma hanno il pregio di tracciare il percorso verso il salvataggio dei diseredati, la resurrezione urbana. Partendo dai ragazzini.Tutti vorrebbero fare i calciatori o i «meccanici di motorino».Van-
no a scuola in modo irregolare, allora c’è chi li recupera e affianca all’attività didattica quella ludica. Con intelligenza e senza retorica. Un esempio: in un grande spazio viene organizzata una gara con i trampoli. Sembra una sciocchezza, invece dietro c’è una spiegazione: «Sono in genere ragazzi che usano la violenza, che si muovono con grande sicurezza fisica. Il fatto di essere instabili, allegramente instabili, sui trampoli dà loro una nuova sensazione, quella dell’instabilità, e un nuovo bisogno, quello di chiedere il sostegno di qualcuno. L’intenzione di questi eroici volontari è anche quello di insegnare i rudimenti di un mestiere. Sì, perché la camorra è in agguato. E la polizia non si vede mai: tutti vanno in motorino senza casco. Ma queste cose la signora Jervolino, sindaco di Napoli, le sa oppure fa finta che non esistano? (p.m.f.)
Cinema
MobyDICK
n Io sono con te di Guido Chiesa, l’Annunciazione avviene senza apparizioni, arcangeli, pronunciamenti. Maria, una pastorella mediorientale dalla carnagione ambrata e i capelli ricci, sta mungendo le pecore del suo gregge. D’un tratto lei si blocca. L’espressione del viso è un misto di allarme e sorpresa, mentre in colonna sonora udiamo il rumore di un’orda invisibile di cavalli al galoppo, il massimo di sovrannaturale che il film si permette: è sottile ed efficace. La macchina da presa si sposta verso il basso: l’unico segno tangibile dello sconvolgente concepimento avvenuto è la macchia di bianco che s’allarga per terra e il secchio della mungitura rovesciato. Il regista, che ha sceneggiato il film con Nicoletta Micheli, che è anche sua moglie, ha risposto con lucida passione all’esortazione perenne agli artisti: «Rendi nuovo il già noto». È il caso della vergine madre e suo figlio. Il progetto narrativo, che segue i primi dodici anni di Gesù, è stato ispirato da una donna, Maeve Corbo, che ha incantato Micheli e Chiesa con un’intuizione folgorante, che come le migliori idee ha il dono della semplicità. La mente, la personalità, il carattere rivoluzionari di Gesù di Nazareth, così liberi da condizionamenti tribali (lapidazioni di adultere, sottomissione delle donne) era il frutto dell’educazione e dell’esempio in primo luogo della madre. Il senso del film risiede nella certezza che la madre di un bambino che era divino ma anche pienamente umano, non era un vessillo passivo, ricolmo solo di bontà e dolore. Era la prima e fondamentale educatrice di chi era stato mandato a svegliarci dal torpore morale.
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nica una straordinaria serenità». I film vincenti al Festival di Roma, non affascinanti, sembrano scelti dalla giuria per i temi politicamente corretti più che per le qualità cinematografiche, a eccezione della nerissima commedia grottesca vincente Kill Me Please (a favore della correttisima eutanasia, però). Io sono con te meritava il Marc’Aurelio d’oro o un riconoscimento importante; basta vedere gli altri per fugare ogni dubbio - e non è stato premiato proprio a causa del tema assai impolitico e pochissimo di moda nel mondo del cinema insofferente di temi religiosi. Da non perdere.
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Pura sin dal concepimento e dalla nascita, Maria doveva essere per ciò stesso illuminata, dolcemente ribelle a precetti e consuetudini crudeli; e anche lungimirante rispetto ai tempi. Come poteva essere altrimenti? Nulla nasce dal nulla, e l’onnipotente si serve delle persone per compiere il suo disegno, non di burattini ma di esseri consapevoli, autonomi. Una donna con lo sguardo largo sul mondo (figlia di un’altra donna di straordinaria apertura) ha tirato su un uomo libero. Questa lettura dà più spessore alla figura defilata e pallida di Giuseppe, qui un vedovo con due figli, unico elemento tratto dai Vangeli apocrifi. «È una lettura eterodossa ma non eretica» afferma il regista, per il quale l’avventura del film è diventata un percorso di conversione per lui e Micheli, che s’accingevano a diventare genitori. Il carattere docile e mansueto di Giuseppe s’arricchisce vicino a una moglie di carattere forte e sicura di sé, e s’illumina di significati. Accetta la paternità di un figlio non suo, e di anticipare i tempi del matrimonio con qualche perplessità ma un’istintiva fiducia nella giovane sposa trasparente e raggiante. Il falegname legge nello sguardo della ragazza che i suoi occhi non hanno mai tradito nessuno. È attratto più dalla ferma dolcezza della moglie che dal paternalismo prepotente e dogmatico del fratello maggiore Mordocheo. Giuseppe l’asseconda, media, evita gli scontri; riconosce la superiorità del baricentro morale di Maria. Chiesa è un ottimo regista con pedigree di rispetto. Ha
Ave Maria piena di grazia di Anselma Dell’Olio
fatto il tirocinio con Jim Jarmusch e Michael Cimino negli Stati Uniti, è tra gli autori rispettati del nostro cinema. Il film è girato in Tunisia con gli attori in gran parte presi dalla strada. Esce in versione doppiata, ma al festival di Roma era in originale: un misto di dialetto arabo (quello dei suoi attori non professionisti) per gli ebrei della Palestina e latino per i Saggi (professionisti come Giorgio Colangeli, Fabrizio Gifuni, Jerzy Stuhr) e per un roboante Erode (Carlo Cecchi). Scene e costumi sono semplici ed essenziali, i colori accattivanti, etnografici, la direzione degli attori ottima. Il tono, importantissimo per la riuscita di un film, è chiaro e sicuro dalla prima inquadratura, il ritmo buono e senza cali. Come scrive un critico non sospettabile di fideismo cattolico, Lietta Tornabuoni: «Il film… singolare e ben fatto, comu-
Avrebbe meritato di vincere il Festival di Roma il film di Guido Chiesa “Io sono con te” incentrato sulla figura della Vergine madre di Dio. “Illègal” di Olivier Masset-Depasse, dedicato alla condizione dei sans papier, ben fatto e ritmato, ha il pregio di non essere demagogico. Da vedere anche “I fiori di Kirkuk”
Illégal è il film belga che ha vinto al Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Realisateurs. Opera seconda di Olivier Masset-Depasse, racconta la storia di Tania, un’immigrata clandestina russa (Anne Coesens, ottima), madre sola con un adorato figlio adolescente, Ivan. Con il ritmo e il taglio di un thriller psicologico, l’autore racconta le spaventose disavventure di una donna che si vede rifiutare la residenza permanente in Belgio, dove vive da otto anni; ma tornare nel suo Paese è impensabile. Arrestata senza documenti e rinchiusa in un centro di detenzione amministrativa, decide di fare scena muta. Sa che se non riescono a identificarla dovrà essere liberata dopo qualche mese. Angosciata per la separazione dal figlio, dalla noia della detenzione, e confusa dal complicato dedalo burocratico in cui è arrovellata, è disposta a tutto per ricongiungersi con Ivan e non essere deportata. Incontri e scontri con la burocrazia e con altre detenute, in particolare un’africana pestata brutalmente perché si convinca a farsi espatriare, elaborano un quadro degli orrori spesso kafkiani che incontrano i sans papiers, abbarbicati alla speranza di una vita che promette un futuro decente a se stessi e alla propria famiglia. È trattato con intelligenza e un’ideologia di sinistra non troppo demagogica. Masset-Depasse assicura che tutto quello che succede a Tania è capitato nella realtà «almeno una volta» (N.B. anche se, magari, non tutto alla stessa persona). È un film abile, ritmato e senza un attimo di noia. Da vedere. Golakani Kirkuk, i fiori di Kirkuk, di Fariborz Kamkari, è un’opera prima di produzione italiana, in concorso al Festival di Roma. È il primo film girato interamente in Iraq con soldi italiani, basato su eventi realmente accaduti durante il regime di Saddam Hussein. Attraverso la storia d’amore tra l’irachena araba Najla e il suo collega medico Sherko, un curdo conosciuto in Italia, si racconta la brutale persecuzione e genocidio della popolazione curda da parte del dittatore, che molti pacifisti e «realisti» vorrebbero ancora padrone di quel tormentato Paese. Per amore del suo uomo, Najla abbandona i privilegi e la protezione della sua famiglia, rifiutando la corte di un ufficiale per assistere Sherko, un partigiano curdo in clandestinità. La regia, un po’ acerba, è rinforzata dalla passione dell’autore curdo nel raccontare il calvario del suo popolo, così poco ricordato nella rissa perenne tra sostenitori pro e contro la guerra al terrorismo. La storia prende alle viscere e si ha paura per la coppia e per i loro amici e sodali perseguitati. Il cast è ben scelto, e Kamkari mette a buon frutto la sua affinità per il neo-realismo italiano. Da vedere.
Imisteri dell’universo
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ossediamo una piccolissima parte di quanto i nostri avi hanno prodotto a livello culturale e trasmesso o in forma orale o scritta. La distruzione di popolazioni nel corso di guerre o catastrofi ha certamente portato alla scomparsa del loro patrimonio culturale, spesso affidato a una o a poche famiglie. Si pensi che il libro degli annali del Kashmir, detto Rajatarangini, apparteneva a una singola famiglia di scribi che lo conservava negandone l’accesso agli estranei; gli inglesi per averne una copia fecero forti pressioni sulla famiglia reale, finché il testo in sanscrito fu dato al grande studioso Aurel Stein. Costui aveva molto viaggiato in Asia Centrale e a nord del Tibet, acquisendo gran parte dei preziosissimi manoscritti dal Sesto e al Dodicesimo secolo scoperti in una nicchia murata nel monastero buddista di Dung Huang. Stein, che passò i suoi ultimi anni fra le montagne di Afghanistan e India, tradusse il Rajatarangini, aggiungendo un’incredibile quantità di commenti, miranti soprattutto a individuare i luoghi citati negli annali, i quali partono da tempi assai remoti.
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Similmente esiste il rischio di perdita dei documenti epici ancora trasmessi solo in forma orale, causato dalla modernizzazione che tende a rendere i popoli dimentichi delle loro tradizioni (nell’Ottocento vivevano in Africa circa diecimila tribù, i cui membri si distinguevano per le tipiche scarnificazioni facciali; i giovani africani ora tendono a rifiutare questi segni tradizionali). Si pensi alla colossale epica di Manas dei pastori kirghisi, ancora memorizzati e recitati durante feste tenute periodicamente. Solo una piccola parte di questi versi è in forma scritta ed è stata tradotta in russo o inglese. E il nome dell’eroe Manas potrebbe riferirsi a Manu, ovvero «Uomo dotato di mente», con cui è in Asia spesso citato un sopravvissuto al diluvio, forse il Noè biblico, se la misteriosa terra di Urartu, dove l’ arca approdò secondo il Genesi, sia da localizzare non in Armenia (Urartu non è parola semitica o sumera) ma nella zona a nord dell’Himalaya, vicino al monte Kailash, dove sta il sacro lago di Manasorovar. E non possiamo dimenticare come l’India, dove antichi testi storici nel nostro senso occidentale praticamente non esistono, salvo il Rajatatarini, ha tuttavia un immenso e ancora poco esplorato patrimonio di informazioni storiche nei Purañas, composizioni in strofe, lette o cantate
MobyDICK
ai confini della realtà
Nel database di Plinio il Vecchio
di Emilio Spedicato da cantori speciali, in particolare nell’India meridionale. La maggior parte dei Purañas, composti in sanscrito o sue variazioni, esiste solo a livello orale, per un totale di circa due milioni di strofe; quelle scritte sono circa un quinto del totale, il che costituisce comunque un formidabile impegno di lettura, e si tenga conto che solo una piccola parte è tradotta in inglese. Passando ora al mondo classico grecoromano, anche qui esistevano poderosi lavori ora perduti, come in generale si è perduto oltre il 99% dei libri di allora. Ovvero dei settecentomila rotoli che pare esistessero nella Biblioteca di Alessandria, ne possediamo ora meno di settemila. Si sono perdute le opere di
guerre germaniche in venti volumi, dove certamente entravano anche ricordi dei suoi giorni di guerra in Germania. Plinio ebbe importanti funzioni nell’amministrazione dell’impero, ma nessuno poteva accedere a cariche civili se non avesse fatto anche il servizio militare, della durata una volta di dieci anni, poi ridotta a tre. Le Storie naturali, acquistabili ora in varie edizioni a un prezzo sostenuto, trattano di vari temi, come geografia, zoologia, mineralogia, economia, medicina. Sono basate su materiale che Plinio raccolse nel corso di numerosi anni, sia leggendo personalmente, sia facendosi leggere libri da uno schiavo quando ad esempio era a cavallo. Era
Le sue “Storie naturali” sono basate su materiale raccolto nel corso di molti anni e presentato senza essere inserito in una teoria generale. Alla maniera di Newton e del suo “hypotheses non fingo”. Ma immenso è il patrimonio culturale degli antichi andato perduto scrittori estremamente prolifici, come i 4000 libri del grammatico Didimo citati da Seneca nelle Lettere a Lucilio, e la Storia Universale in 144 volumi di Nicola Damasceno, più volte citata da Ateneo nel suo meraviglioso libro Deipnosofista, sopravvissuto in un singolo manoscritto. Ma fortunatamente siamo in possesso di una delle opere più belle dell’antichità, ovvero le Storie naturali di Plinio il Vecchio, in 37 volumi. Ricordiamo che Plinio aveva scritto altri lavori importanti ma ora perduti, fra cui una storia delle
uomo di memoria straordinaria. Lasciò al nipote, noto per le epistole dove sono citati i cristiani, centosessanta volumi di appunti, basati sulla lettura di circa 2000 libri di 500 autori (e mi vien da pensare che questo è circa il numero di libri che io ho letto negli ultimi trent’anni, da quando ho deciso di affrontare ricerche interdisciplinari...). Plinio presenta il materiale come un data basis, senza volerlo inserire in una teoria generale, come fece Aristotele con risultati generalmente errati. Possiamo quindi assimilarlo a Newton il quale, in merito a fenomeni come la gravitazione che gli erano in-
spiegabili nella loro natura profonda, rifiutò persino di spiegarli in via ipotetica, hypotheses non fingo (ma qui dovremmo anche ricordare che la maggior parte dell’opera di questo gigante del pensiero non è mai stata pubblicata).
Plinio nacque verso il 23 a.C. a Como, città fondata da Giulio Cesare nel 59 a.C. quale punto di partenza per raggiungere i territori oltre le Alpi. Cesare vi passò alcuni giorni di vacanza con Cleopatra, che da lì ripartì incinta per Alessandria, mentre lui andava a Roma per preparare la spedizione contro la Persia; e per essere ucciso, avendo imprudentemente sciolta la sua scorta di guardie ispaniche... Raggiunse Como da Milano, passando per la strada comasina o dei Giovi, costruita dai romani per collegare Genova al lago di Como. Strada che passa vicino a casa mia e quando la percorro il pensiero corre spesso a lui e Cleopatra, che forse viaggiavano in carrozza. Plinio come è noto morì durante l’eruzione del Vesuvio del 79 AD, forse per soffocazione facilitata dall’asma di cui soffriva. Da Miseno, dove comandava la flotta imperiale, si era recato a Stabia vicino al Vesuvio per cercare di salvare delle persone. Un uomo, Plinio, fra i migliori rappresentanti della cultura e della humanitas romane.