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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
I RIPESCATI
Editori a caccia di riscoperte
di Pier Mario Fasanotti alvolta è meglio una metafora. Immaginiamo un pescatore te rimpiangere la rincorsa dietro traballanti autori contemporanei. Si pensi a IrèDa che si sia stancato dei soliti pesciolini che guizzano nel solito fiume. ne Némirovsky, ucraina nata nel 1903, figlia di un russo di origini ebraiche, Armato di buone informazioni e di un grande intuito, raggiunge trasferitasi poi a Parigi e diventata francese a tutti gli effetti. Malgrado André un laghetto di montagna e lancia l’amo.Torna al paese col la conversione al cristianesimo, la furia nazista non risparmierà lei Héléna, autore di noir, cestello pieno di pesci, la gente glieli guarda e ammira, lui ne e il marito, che saranno deportati ad Auschwitz, e lì moriranmaestro riconosciuto solo dopo vende tanti e fa fortuna. Alcuni pesci non sono poi così no nel 1942. A partire da La suite francese (pubblicato strani: lui stesso se li ricorda, altri fanno smuovere sessant’anni dopo), i suoi romanzi hanno stupito la morte, a Matheson, a Ruth Rendell, la memoria di suo padre. Fuor di metafora: se italiani ed europei. Per qualità letteraria, per a Mario Soldati. Passando per Marai, Némirovsky, un editore si comporta come questo pescatore è leggibilità, per l’attualità intrinseca dei temi tratSimenon, Fusco e Ortese. I best seller quasi matematico il successo. A patto ovviamente che tati. Prima del Duemila gli scout dell’Adelphi rovistai libri-pesci siano buoni, che siano un’avvincente riscoperrono nei cimiteri letterari dell’Europa centrale e dell’Est. Si si recuperano negli archivi ta, che siano già stati apprezzati (e venduti in gran quantità) nei pensi solo a un autore come l’ungherese Sandor Marai: ogni suo decenni passati. Occorre «naso» e anche buona preparazione cultu- del Novecento. Ed è subito romanzo oggi va in testa alle classifiche. boom... rale. Con queste due doti un editore come l’Adelphi ha «ripescato» nel continua a pagina 2 gran lago del Novecento una serie di opere che non hanno fatto assolutamen-
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9 771827 881301
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ISSN 1827-8817
Parola chiave Profezia di Sergio Valzania Torna “Cold Fact” manifesto della speranza di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Gozzano, le parole prima di tutto di Francesco Napoli
La contraddizione Bombacci di Aldo G. Ricci Dickens a Gerusalemme di Anselma Dell’Olio
I contrappunti (pittorici) di Aldo Clementi di Marco Vallora
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ripescati
Rivisitando Testori e i suoi contrasti di Francesco Napoli è forse un anno, dopo la scomparsa del 1993, che assume un particolare significato non solo culturale ma anche editoriale nella vicenda di Giovanni Testori: il 1995. In quell’anno, infatti, Longanesi pubblica Nebbia al Giambellino sulla base di un dattiloscritto ritrovato tra le sue carte all’indomani della morte ma composto all’inizio degli anni Sessanta. Il romanzo costituisce l’ideale chiusura di quella commedia umana lombarda che è il ciclo di racconti, romanzi e opere teatrali dei Segreti di Milano, l’opera alla quale Testori lavorò tutta la vita, un progetto complessivo nato con la raccolta di racconti Il
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ponte della Ghisolfa, proseguito con La Gilda del MacMahon e che a un certo punto, nella ritenuta impossibilità di portarlo a compimento, provocò nel poliedrico autore lombardo una sorta di impotenza con un salto di ben quattro anni (1961-1965) durante i quali la sua penna creativa tacque. Sempre nel 1995, e sempre con lo stesso editore, escono poi tutti i saggi che uno straordinario critico del Novecento, Carlo Bo, aveva composto sul gran lombardo: Giovanni Testori. L’urlo, la bestemmia, il canto dell’amore umile. L’uno e l’altro sono praticamente introvabili. Un vero peccato. Resta però una possibilità, la migliore, per andare a risco-
segue dalla prima Sempre alla casa editrice diretta da Roberto Calasso va ascritto il merito di aver «soffiato» i diritti dei testi di Georges Simenon alla Mondadori. E così continuiamo ad apprezzare, anno dopo anno, quei suoi romanzi «che non sono quelli con il commissario Maigret». Gioielli del Novecento, punto di riferimento - a volte diventato un po’ stucchevole vista l’enfasi ripetitiva per chi voglia individuare un esempio di ottima scrittura: limpida, profonda, abbordabile dal lettore medio, capace di artigliare la psicologia umana senza mascherare miserie e vizi, sempre pronta ad aprire uno squarcio di compassione per i «vinti».
In libreria in questi giorni una gradevolissima sorpresa. Un autore francese che a noi italiani, fino a oggi, diceva nulla o pochissimo: André Héléna. È anche lui un «ripescato» e ci piace sapere che abbia scritto qualcosa come duecento romanzi. È uno dei tanti narratori rivalutati dopo la morte. Basta leggere il suo libro pubblicato dalla Fanucci (Un uomo qualunque, 172 pagine, 16,00 euro) e si è subito d’accordo con quanto scrive Le Parisien: «Coniuga esistenzialismo, realismo poetico e pessimismo, portando la scrittura fino all’estremo parossismo. Un maestro che solo ora è stato riconosciuto tale». La sua è la Parigi degli anni Cinquanta, dove piove molto, affollata di esseri malinconici e perdenti. Il noir di Hèléna è all’altezza di Simenon. L’autore così spiega l’essere «uomo qualunque»: «Non era colpa sua. La colpa ce l’avevano gli altri: la società, i padroni, tutte entità confuse. Il più stupido degli stupidi non cer-
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni
prire pressoché nella sua interezza la controversa figura letteraria di Giovanni Testori con i due volumi delle Opere ora riediti nei Classici Bompiani. Lì il lettore più attento e desideroso di incontrare questo intellettuale a tutto tondo troverà piena soddisfazione e potrà scorrere la sua opera narrativa, teatrale e poetica. Affidato alle cure di Fulvio Panzeri, frequentatore assiduo dell’opera testoriana, e con il prezioso apporto introduttivo di Giovanni Raboni, il lavoro vide la luce già tra il 1996 e l’anno seguente, suddiviso in due archi cronologici, 19431961 e 1965-1977, mentre si attendeva, e si attende, un terzo volume per rappresentare gli ultimi anni di
ca mai una scusa, ma una giustificazione della sua stupidità… in questo Bathazar era un uomo qualunque: anche lui cercava spiegazioni incolpando gli altri». Una lettura mozzafiato, ricca di atmosfere, dove il minimo gesto o di una donna o di un arabo con il coltello in un bar malfamato riporta a mondi desolanti, a disperatissime rassegnazioni, alla voglia di fuggire al Sud, al sole, lontano dalla pioggia, dall’alcol che ci stordisce e ci spintona verso snervanti speranze, lontano anche dalla «brutale felicità fisica» che si afferra sul letto di una polverosa pensioncina di Pigalle. Il genere noir di solito descrive i vagabondi, i duri, le vittime predestinate, il malessere profondo di quartieri, le scorciatoie al posto delle scelte di vita. Nell’introduzione al romanzo di Héléna, un altro maestro del giallo francese, Leo Malet (i suoi romanzi sono stati riproposti in Italia dall’editore Fazi) accenna alla vita sfortunata dell’autore di Un uomo qualunque, ci informa che addirittura vendeva i suoi libri porta a porta. A proposito del romanzo in questione, Malet scrive: «Si ha l’impressione che sia stato scritto sotto la feroce minaccia di una spada puntata alle reni. Una pagina… un’altra ancora… e nella successiva, cosa dire? Ma sì, gli faccio uccidere qualcuno! Io lo chiamo il “metodo Chandler”, il quale a quanto pare diceva che, quando era a corto di idee, introduceva nel romanzo due tizi armati di pistola… e tutto ripartiva in quarta». Héléna, dicevamo, è stato sfortunato. Ma anche poco furbo: in qualche suo testo si è accanito contro gli intrighi del mondo editoriale. Non gliel’hanno mai perdonato, nessuno ha preso le sue difese. Sergio Fanucci ha il «naso» giusto. Riproponendo autori di culto ma sci-
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)
Testori. Sperimentalismo, rottura dei consueti equilibri linguistici, rivisitazione dei temi religiosi, osservati mediante il dualismo tra spirito e corpo, amore e dolore, luce vitale e oscurità della morte, questo il contrasto mai risolto da Testori e portatore nella sua vita e nella sua arte di una dubbiosità forse mai del tutto dissolta. Un’arte espressa a tutto tondo, dalla narrativa alla poesia, dal teatro alle arti figurative e plastiche, vista con una certa attenzione soprattutto da quella generazione intellettuale che negli anni Settanta cercava vie alternative alla dualità culturale Pasolini-Sanguineti. Mario Luzi lo conosceva e lo apprezzava, inducendo poeti più giovani (Carifi e Rondoni, ad esempio) ad andargli incontro, a raccogliere il temerario guanto di sfida lanciato da questo «instancabile sperimentatore della letteratura italiana», come scrive Raboni nell’introduzione al primo volume delle Opere, un autore «tanto fecondo nel reinventarsi e feroce nel ripudiarsi» che attende ancora una suo riconoscimento e una piena ricollocazione nel panorama italiano della letteratura contemporanea.
volati nel dimenticatoio, ha fatto un gran favore ai lettori. I quali hanno scoperto, per esempio, Richard Matheson, scrittore e sceneggiatore per Hollywood (lavorò con Hitchcock nel film Gli uccelli), autore dell’ormai famosissimo Io sono leggenda, diventato poi film. È la storia di un uomo che scopre di essere rimasto l’ultimo essere vivente sulla Terra. Persino il serial dei Simpson si è ispirato, in un episodio su Halloween, al conturbante personaggio di Matheson. E poi altri autori eccellenti come John Landsdale (edito anche da Einaudi), Richard Goodis (trascurato dalla Mondadori), Ruth Rendell, la vera erede (e per stile assai migliore, a mio parere) di Agata Christie. Senza dimenticare ovviamente Philip K. Dick, prolifico cantore della fantascienza.
Gli Oscar Mondadori ripropongono Mario Soldati e quella sua «assoluta leggerezza di scrittura» come annotò Pier Paolo Pasolini. Chissà perché un autore come Soldati non abbia meritato fino a ora la collocazione nella collana «I Meridiani». Rimanendo tra gli scrittori nostrani, alla Sellerio il merito di aver «ripescato» Gian Carlo Fusco e lo stesso Soldati. Alla Garzanti quello di farci apprezzare la prosa svelta di Giorgio Scerbanenco. Alla Adelphi la riproposizione di una narratrice finissima come Anna Maria Ortese, donna schiva e geniale, scoperta da Valentino Bompiani che la definì «fanciulla prodigio» e chiamata da Elio Vittorini, curatore dei «Gettoni» della Einaudi, «zingara assorta in un sogno». Gli archivi più o meno segreti del Novecento letterario sono a disposizione di chi ha voglia di fare davvero l’editore e non lo stampatore di novità (si fa per dire) piccanti o alla moda.
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PROFEZIA l momento della trasfigurazione, l’unica occasione nella quale il Cristo si mostra nel suo splendore divino ad alcuni discepoli, stanno al suo fianco Mosè ed Elia. Sono il grande patriarca e il grande profeta della tradizione antico testamentaria, posto che sia possibile una distinzione tra le due figure. Abramo, Giacobbe, lo stesso Mosè sono le personalità che fondano l’immagine patriarcale all’origine di Israele, costruita sulla base di una paternità allargata fino a comprendere la guida di una tribù che diviene popolo, ma nello stesso tempo sono proprio gli uomini che meglio hanno interpretato e vissuto il ruolo di mediazione fra Dio e il mondo. Quella appunto che l’attività profetica individua. Ma la profezia non appartiene solo alla tradizione ebraica. Tutta l’antichità, classica e non, è permeata da una sensibilità attenta a ogni occasione di contatto e di comunicazione fra il visibile e l’invisibile, fra il mondo degli uomini e le forze che gli danno forma e lo dominano. Non si tratta mai di un processo limpido, la divinità si ritrae, quando non decide direttamente di farsi beffa degli uomini. Cassandra figlia di Priamo è la sacerdotessa condannata a conoscere il futuro senza che le sia concesso divulgarlo, la Pizia parla a Delfi con voce oracolare in nome di Apollo, ma anche nel suo caso le risposte fornite agli interroganti rimangono avvolte in un alone enigmatico. I sapienti babilonesi cercano di strappare agli astri e alle costellazioni conoscenza certe riguardo al futuro, ma i loro sforzi si rivelano molto spesso vani. Persino a un poeta cieco, Omero, si attribuisce una capacità profetica, nel senso che si immagina le sue arti gli consentano di attingere a una verità profonda, collocata a metà strada fra la storia fattuale e le vicende che agitano gli animi umani.
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Un senso particolare, non lontano da questo, viene attribuito all’attività esercitata ad Atene dal cretese Epimenide, l’inventore del paradosso, del quale si dice anche che fu il primo «a profetizzare sul passato invece che sul futuro», con una intuizione abbagliante sul senso vero dell’attività storica, tesa di sua natura a sondare ambiti dai quali la certezza è esclusa. Il passato si richiude su se stesso, come il futuro si rifiuta di aprirsi anzitempo. In ogni sua manifestazione la profezia rimane però saldamente legata a una comunicazione divina, non alla comprensione razionale dei fenomeni. Anzi, la profezia si situa spesso in opposizione dichiarata al senso comune diffuso. Molto spesso i profeti sono perseguitati perché minacciano punizioni per il popolo che ha dimenticato la fedeltà pro-
Il calo di fiducia nell’esistenza di Dio o nella sua disponibilità a occuparsi delle vicende umane ha espulso il gesto profetico dalla nostra esperienza di moderni. Eppure la capacità di profetizzare rimane una delle grandi richieste che i popoli fanno ai loro governanti…
Da Mosè a Obama di Sergio Valzania
Il senso della vittoria del nuovo presidente americano sta anche nella sua capacità visionaria, nell’essere riuscito a presentarsi agli elettori come possessore di un’idea d’insieme, proiettata nel futuro, alla quale ha chiamato il popolo degli Stati Uniti a partecipare messa. Dio invia i suoi messaggeri affinché lo ammoniscano e gli richiedano un cambiamento di costumi, pena un suo intervento sanzionatorio. Il calo di fiducia nell’esistenza di Dio o nella sua disponibilità a occuparsi delle vicende umane ha di fatto espulso il gesto profetico dalla nostra esperienza di moderni. Eppure la capacità di profetizzare rimane una delle grandi richieste che i popoli fanno ai loro governanti. Non basta essere patriarchi, occorre anche disporre di capacità profetiche per guidare la propria gente verso la Terra Promessa. E questo rimane ancora il compito di ogni uomo politico, per vecchia, stanziale e appagata che sia la comunità di cui si trova a reggere i destini. Il senso della vittoria di Ba-
rack Obama sta anche nella sua capacità visionaria, nell’essere riuscito a presentarsi agli elettori americani come possessore di una visione d’insieme, proiettata nel futuro, alla quale ha chiamato il popolo degli Stati Uniti a partecipare. Né si può dire che questo significato del termine profezia sia lontano da quello più tradizionale, religioso. Quella di Obama è una profezia laica, ma si compone degli elementi di speranza, emozione, fiducia e aspettativa che formarono quella proposta da Mosè agli ebrei d’Egitto. Infatti la profezia, in ogni sua forma, nasconde uno scambio fra presente e futuro. Parla dell’uno sempre riferendosi all’altro. Ma non dimentica mai il primo termine. Anche se rivolta verso l’avvenire la
profezia si radica in profondità nell’oggi. È qui e adesso che la divinità parla al suo eletto. La missione di quest’ultimo deve compiersi nel momento della chiamata, e non è eludibile.
Quando Dio convoca Giona, nel breve libro biblico che porta il suo nome, per affidargli la predicazione a Ninive, questi resiste, è preso dal panico e fugge. Per scappare lontano si imbarca, ma scoppia una tempesta e Giona si trova costretto a confessare ai marinai di esserne la causa. Gettato in mare è ingoiato dalla balena, dall’interno della quale rivolge le sue suppliche al Signore, assicurandogli la propria disponibilità ad adempiere il compito che gli era stato affidato.Tornato sulla terra ferma e convocato di nuovo da Dio si reca finalmente a Ninive, lì profetizza in modo tanto convincente da salvare la città addirittura contro la propria volontà e contro il senso della profezia annunciata. Dio sarà costretto a ricorrere a un piccolo miracolo per convincere Giona a divenire partecipare delle Sue scelte di misericordia. Credo in questo piccolo libro della Bibbia si trovi una sintesi illuminante del senso della profezia. Della sua immediatezza e ineludibilità. La chiamata è per l’adesso, nell’istante, e a essa non si può sfuggire. Perciò il carisma del profeta non consiste propriamente nel conoscere il futuro. Anzi, spesso non lo capisce, come Giona che su impulso divino avverte gli abitanti di Ninive che la loro città sarà distrutta entro quaranta giorni. Il re di Ninive riconosce l’autenticità della profezia, si pente delle proprie colpe insieme ai suoi sudditi e riesce a ottenere il perdono dalla misericordia del Signore. Ninive è salva, ma la profezia risulta perciò falsificata, Giona si trasforma in un bugiardo e arriva a lamentarsi di questo con Dio. Paradossalmente rivendica una capacità profetica ulteriore quando afferma: «Perciò mi affrettai a fuggire a Tarsis: perché so che sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato». Giona sostiene in buona sostanza di aver sempre saputo che la distruzione di Ninive non ci sarebbe stata e che la sua profezia si sarebbe dimostrata falsa. Si lamenta con Dio di averlo umiliato costringendolo a predicare fatti che non si sarebbero realizzati. Eppure alla fine nel disegno divino il cerchio si è chiuso alla perfezione. Ciascuno ha fatto ciò che doveva: Ninive e il suo re hanno smesso di peccare e sono salvi, Giona ha capito che non si sfugge alla Sua ubbidienza e ha confessato l’essenza misericordiosa di Dio. La profezia dunque è ben di più che una previsione del futuro, è un rapporto con Dio, dagli esiti misteriosi.
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cd
musica
Torna Cold Fact manifesto della speranza di Stefano Bianchi odriguez. Cognome da torero? Ballerino di flamenco? Stella che fu della discomusic, tipo Santa Esmeralda (quelli di Don’t Let Me Be Misunderstood)? Un mio caro amico pubblicitario, con licenza di rock, mi domanda se conosco Rodriguez. Nebbia totale. Più che lusingato d’avermi colto in contropiede precisa nome, cognome eccetera: Sixto Diaz Rodriguez, nato nel 1942 a Detroit da genitori messicani. Dopodiché, mi snocciola mirabilie sul cantante/chitarrista e in particolare su Cold Fact, el-
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lepì che fu lo snodo nevralgico della sua carriera, inciso nel ’69 e pubblicato l’anno successivo. Disco innovativo e trasversale, finito in un batter d’occhio in soffitta per colpa del carattere tutt’altro che gioviale di Rodriguez. Per dirne una: odiava a tal punto esibirsi dal vivo, che in uno showcase mostrò dall’inizio alla fine le spalle al pubblico. L’album, co-prodotto dal chitarrista Dennis Coffey (mito della black music riscoperto e «campionato» da Beastie Boys e Mos Def) fa flop in America ma stravince in Australia e Sudafrica dove in piena apartheid, narrando storie di riscatto sociale, diviene una sorta di manifesto/passaparola gonfio di speranza. E ora, ristampato da una piccola etichetta di Seattle, esce dall’oblìo. Ma cos’ha, Cold Fact, di così speciale? Tutto. Dai rivoluzionari fermenti dell’epoca, sottolineati da una dozzina di canzoni che raccontano amori ed emancipazione per poi filare in cortocircuito nella cultura delle droghe, alla musica. Talmente bella e godibile, che vien da paragonare Rodriguez a Bob Dylan (per l’attitudine folk) e a Jimi Hendrix (la psichedelìa); al Ja-
in libreria
mondo
I DOORS PAROLA PER PAROLA
ARRIVA IL NATALE DI ARETHA
mes Taylor degli esordi (per la melodicità) e a José Feliciano (l’energia vocale). L’inizio del disco è di quelli che ti lasciano lì, a bocca aperta. Sugar Man, s’intitola, ci ha pensato nel 2002 il produttore e deejay irlandese David Holmes a «sdoganarla» includendola nella raccolta Come Get It I Got It ed è una ballata acustica che ti prende il cuore per poi diluirsi nell’atonalità e nel riverbero psichedelico. Che ritroviamo, elettrificato dalle chitarre, nella «hendrixiana», lisergica Only Good For Conversation. Poi, Rodriguez cambia totalmente registro passando da Crucify Your Mind, che caracolla fra la Everybody’s Talkin’ di Harry Nilsson e Burt Bacharach, al sapido easy listening per archi e ottoni di Forget It. Il folk, meditato e anticonformista, scandisce invece la personalità di Hate Street Dialogue e Jane S. Piddy, mentre Inner City Blues svela sfumature rhythm & blues, Gommorah (A Nursery Rhyme) è una travolgente raucedine ritmica e I Wonder sfoggia una briosa tessitura sonora anni Sessanta. Sorprende, infine, Rich Folks Hoax. Nel senso che assapori il timbro vocale di Rodriguez e non puoi fare a meno di pensare a Michael Stipe. Chissà, forse anche il leader dei R.E.M. si è lasciato conquistare da questa gemma oscura e preziosa. Anche a nome suo, ringrazio il caro amico pubblicitario. Rodriguez, Cold Fact, Light In The Attic/Goodfellas, 18,45 euro
riviste
LA MIGLIOR VOCE SECONDO VAN
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ono passati, per fortuna, i tempi in cui per capire i testi delle canzoni dei Beatles bisognava affidarsi al compagno di classe bravo in inglese. In questi anni sono spuntate centinaia di pubblicazioni, cartacee e online, che offrono traduzioni di canzoni per qualunque genere di artista anglofono capace di farsi conoscere in Italia. A queste iniziative editoriali, però, erano sempre mancate
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n 52 anni di carriera mai Aretha Franklin aveva dedicato un intero album alla festa più famosa del mondo. Invece, proprio in tempi in cui il Natale sembra passarsela tanto male che molti propongono di sostituire il termine con il più religiosamente neutro «Festività invernale», la Soul woman per eccellenza esce con un sontuoso This Christmas (Dmi Records); 52 minuti di classici e
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uando nell’Irlanda del Nord degli anni Cinquanta i ragazzi ascoltavano ancora lo skiffle, il giovane Van Morrison risparmiava i suoi pochi soldi per comprare dischi di musica blues e soul, a quei tempi delle vere rarità da questa parte dell’Atlantico. Ora che «il più nero dei cantanti bianchi» è diventato a sua volta una leggenda, ha potuto lasciare un tributo a uno dei suoi eroi giovanili sulle
Una collana di volumi monografici con i testi tradotti e commentati delle canzoni dei grandi
Classici e traditional nell’album che la “Soul woman” dedica alla festa più famosa del mondo
Morrison, il più nero dei cantanti bianchi, rivela a “Rolling Stone” che il suo preferito è Sam Cooke
correttezza e accuratezza. A fare pulizia sta provvedendo da qualche mese Arcana, che ha avviato una bella collana di volumi monografici. Ultima raccolta pubblicata è Doors, testi commentati, (18.50 euro) a cura del critico musicale Aurelio Pasini. Il gruppo californiano era un cliente difficile, perché Jim Morrison scriveva le sue canzoni ricalcando le composizioni dei simbolisti francesi e renderlo in italiano richiede parecchio lavoro nella scelta delle parole. Pasini è riuscito nel classico trucco del bravo traduttore, «tradendo» un po’ la lettera dell’originale per mantenerne vivo lo spirito. Facendoci quasi immaginare un Re Lucertola che scrive nella lingua di Dante.
traditional arrangiati in parte dalla stessa Aretha, che superata da parecchio la sessantina sembra avere ancora voglia di sperimentare con la musica. Tra le undici tracce spuntano anche l’Ave Maria di Bach e Silent Night di Franz Gruber. Anche se trattenute dai toni della festa, le sonorità sono genuinamente r’n’b, e la Franklin sembra divertirsi a cantare senza temere il confronto con il principe degli album natalizi, il Christmas Album arrangiato e prodotto da Phil Spector nel lontano 1963. Quello servì agli americani per consolarsi della triste morte di Kennedy, questo potrebbe essere la colonna sonora ideale per il primo Natale di Obama alla Casa Bianca.
pagine dell’edizione americana di Rolling Stone. Invitato a scrivere un articolo per uno speciale dedicato alle «più grandi voci del rock», Morrison ha scelto Sam Cooke, cantante e musicista estremamente raffinato, morto nel 1964 a soli 33 anni, e autore di alcuni classici della musica soul-pop come A change is gonna come e Bring it home to me. «Aveva una voce incomparabile: poteva cantare qualunque cosa e farla funzionare. Ma la sua vera forza come cantante era la sua capacità di raggiungere le profondità dell’anima. Non molte persone possono suonare quella musica, non nella maniera in cui Cooke era stato in grado di fare. Sam Cooke era nato per cantare».
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zapping
Scherza coi santi ma... LASCIA STARE CAPOSSELA di Bruno Giurato cherza coi santi e lascia stare i cantanti. Lo scrittore anarcosiculo Fulvio Abbate ha lanciato un appello di solidarietà dopo che la sua rubrica è stata cassata dalla nuova Unità di Concita De Gregorio. Abbate attribuisce la defenestrazione alle critiche da lui espresse al Pd, dall’affaire Consorte in poi. Ma noi sappiamo che non è così. Sappiamo (non abbiamo le prove ma sappiamo) qual è il vero motivo della cacciata di Abbate. E col consueto spirito di servizio lo diciamo anche. Si tratta delle stroncature a Vinicio Capossela, che lo scrittore ha affidato al suo videoblog Teledurruti. Con tutta la simpatia per Abbate (anche in nome della (A) cerchiata e del sognifero Sud), i veri santi dell’immaginazione piddina sono qui. Capossela, ovvero la poetica scritta col lapis e accompagnata da «strumenti inconsistenti». Max Pezzali, vera star della Woodstock al Circo Massimo, e poi Jovanotti, naturalmente. Voci né troppo acute, né troppo forti. Ritmi né troppo veloci, né troppo profondi. Tutto un mood tra la nostalgia e i sogni ridimensionati. Un infinito campo medio delle emozioni, simboliche e politiche. Una sensazione di ideali a dieta. La pubblicità della signora in minigonna con in tasca la nuova Unità è già da sola esemplare della linea; notato la magrezza della modella nel punto rivelatore? Nella tasca di così secca mannequin non c’è spazio per un po’ di humour. Anche qui sono ideali a dieta. E per tornare a bomba, cioè a Capossela. Abbate si ravveda. Impari una o due canzoni di Vinicio e le canti a Teledurruti. Suggeriamo Parla piano. Si fidi di noialtri che sappiamo, non abbiamo le prove ma sappiamo.
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jazz
L’ultima fiaba dell’Impero asburgico di Pietro Gallina ltimamente si assiste a un inarrestabile aumento di errori nelle note o nella copertina di un cd e anche alla tendenza di non definire con precisione l’oggetto in esso contenuto. Attitudine del resto riscontrata anche in giornali e note di rivenditori che spesso non ne azzeccano una giusta su quello che c’è dentro il disco. Ciò, s’intende, senza considerare la qualità della musica registrata che non c’entra niente con gli errori di copertina. È il caso di questa deliziosa incisione di famose arie e duetti di operetta intitolata My heart alone. In vari articoli, specialmente note di rivenditori, leggiamo che in questo cd l’orchestra è la Vienna Tonskünstler, in un altro che è la Austria Tonskünstler, quando invece si tratta della Tonskünstler Orchester Nieder \u0150sterreich (ovvero dell’Orchestra della Bassa Austria)! Un’altra improprietà forse voluta per abbracciare tutti i possibili amatori di operetta e vendere più possibile, è scrivere nella copertina: «arie e duetti di operette famose» senza aver aggiunto la necessaria specificazione di operetta viennese. Infatti gli autori, anche se non tutti viennesi, sono finiti a lavorare nei teatri di Vienna e sono celeberrimi per aver dato vita a quel genere di composizioni in lingua tedesca. Essi sono proprio tutti quelli che compaiono nella lista dei brani cantati nel cd che si propone, vale a dire: J. Strauss jr., F. Lehár, E. Kálmán, F. von Suppé, R. Stolz e K. Millöcker (mancano però all’appello altri famosissimi come Fall, Zeller, O. Straus, con una esse sola, e Zhier!). Non si vuole fare troppo i difficili, ma vi è una netta differenza tra operetta francese o inglese o tedesca o italiana, fino alla zarzuela spagnola e quella in questione che è la viennese. Si noti anche nella definizione che quella viennese non considera lo nazione o la lingua, ma la città! Il fatto che poi l’operetta viennese inserisce il valzer come elemento fondante fino a chiamarsi operetta-valzer e infine ad assumere una funzione di profetizzare la fine di un mondo, quello di un impero continentale europeo, non è cosa da poco e tuttavia non pertinente alle altre. A differenza delle altre operette nazionali, essa racconta l’ultima fiaba felice all’umanità danubiana, regredita per difesa in una specie di infantilismo prima di venire ingoiata dal «nuovo mondo». Così l’operetta viennese è voluta sfuggire al ruolo di ergersi a unificatrice di tanti popoli diversi che sognavano impossibili integrazioni. Dai sogni di Freud, a quelli di Schnitzler al Sogno di Valzer di Oskar Straus, non sono che i sogni a riempire le strade, i caffé e le case di Vienna davanti all’ineluttabile prossimo crollo del sogno mitteleuropeo per una società sovrannazionale. Non ci sono più lacrime per tanti popoli diversi, che pure per oltre un secolo quell’utopia avevano in parte realizzato con successo. E chi muore non è solo l’impero asburgico con tutti i suoi difetti, ma è la stessa Europa, dopo l’esito del conflitto del 1914-18, il suo ultimo atto di autenti-
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cità: è quanto sembra narrare oggi il mondo dell’operetta viennese. Per quanto riguarda la qualità delle registrazioni e della scelta dei brani di questo cd, che è chiaramente un’antologia, bisogna dire che sono eseguiti e scelti con intelligenza in quanto da un lato si presentano pezzi arcinoti, dal Pipistrello alla Vedova Allegra, dalla Principessa della Ciarda al Paese del Sorriso, ma anche pezzi che interesseranno gli amatori perché raramente si trovano incisi. Nello specifico si tratta per esem-
pio di un’aria dalla Ballerina Fanny Elssler di Strauss, o del Gasparone di Millöcker, Giuditta di Lehár e La Favorita di Stolz. I due cantanti - i quotati soprano Angelika Kirschschlager e il baritono Simon Keenlyside - sembrano fatti apposta per il tema che dà il titolo a questa raccolta, My heart alone, con le loro voci chiare e carezzevoli, cullati da un’orchestra condotta da un purosangue viennese come Alfred Eschwé che ha il Valzer, appunto, nelle vene. Simon Keenlyside-Angelika Kirchschlager, My Heart Alone, Sony Classica
Una new entry nell’Olimpo dei grandi
di Adriano Mazzoletti l festival di Roma, che sta affrontando l’ultima settimana di concerti - terminerà domenica 30 con Enrico Pieranunzi - ha avuto il merito di aver fatto conoscere la straordinaria Chihiro Yamanaka, giovane pianista giapponese che la sera di martedì 11 al Teatro Studio del Parco della Musica ha stupito ed entusiasmato. Nessuno avrebbe sospettato, nel vederla apparire sul palco, che quella esile giovane ragazza potesse esprimersi con la forza espressiva degna dei massimi interpreti. Nel corso del suo concerto, un’ora e venti di grande musica senza interruzione alcuna e senza accompagnamento di una sezione ritmica, ha dimostrato di essere uno dei maggiori talenti del jazz di oggi. Dotata di una tecnica strumentale eccellente, sono stati però la lucidità, il senso dello swing e il linguaggio sicuro che fanno
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classica
di lei una grande pianista che La pianista giapponese pur esprimendosi in uno stile Chihiro Yamanaka personale e attuale, non disdegna di ricordare nella sua lunghe sequenze improvvisate, temi celebri. Le prime battute di In a Mellotone sono state utilizzate per creare nuove linee perfettamente in accordo con l’immortale musica di Ellington. Fatto questo che raramente accade nel jazz odierno, dove temi e arrangiamenti troppo spesso risultano estranei alle parti lasciate alla libera improvvisazione dei vari solisti. Come è accaduto al Quintetto tro violini, viola e due violoncelli) e del contrabbassista Furio Di Castri l’altra di fiati (flauto, clarinetto, clariche pur contando su almeno tre musi- netto basso, due sassofoni, tromba, cisti di valore, il clarinettista e sassofo- due tromboni), annunciata come «Ornista Mauro Negri, il chitarrista Bebo chestra Sinfonica (!) del Conservatorio Ferra e la pianista Rita Marcotulli, non di Torino». Questa sera alla Sala Sinoè riuscito a creare una sintesi fra i so- poli avrà luogo un altro atteso concerlisti e le due sezioni, una d’archi (quat- to, quello della Sun Ra Arkestra diret-
ta da uno dei più fedeli collaboratori del vecchio leader scomparso nel 1993, il sassofonista Marshall Allen. Dei tredici musicisti almeno altri due, i sassofonisti Charles Davis e Danny Thompson, hanno fatto parte dell’orchestra originale, fatto questo che depone indubbiamente a favore di questa orchestra fondata dal pianista Herman «Sonny» Blount che negli anni Cinquanta, condizionato dall’astrologia, modificò il suo nome in Sun Ra. Domani sarà la volta di una Orchestra Napoletana del Jazz diretta da Mario Raja, musicista di indubbia professionalità e al cui interno figurano solisti fra i migliori del jazz italiano, il trombonista Roberto Schiano, il chitarrista Pietro Condorelli e il contrabbassista Aldo Vigorito. Fra i concerti della prossima settimana da segnalare, il sestetto di Herbie Hancock con la tromba Terence Blanchard, mercoledì alla Sala Santa Cecilia.
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narrativa
libri
Storia di Madina che non voleva morire per la sua Cecenia di Maria Pia Ammirati
l secondo romanzo Emmanuelle de Villepin affronta un argomento non usuale per uno scrittore franco italiano, il caso Cecenia e il terrorismo che ha insanguinato l’ex Unione Sovietica fino al clamoroso attentato di Beslan, probabilmente una delle più crudeli derive del terrorismo separatista, da annoverare tra le grandi tragedie storiche. Beslan, con l’assurda bestialità di mettere al centro del conflitto bambini inermi rapiti e uccisi nella loro scuola, ha talmente alzato il tiro e scosso quella che si definisce «opinione pubblica», da fermare e rallentare gli atti di terrorismo da parte dei ceceni, senza però che la questione Cecenia si sia ancora risolta. Cova sotto la cenere una situazione degenerata e la storia di un paese che affonda le radici dell’odio verso la Russia, sin dalle prime guerre di occupazione e parliamo già della fine del ‘500. La ragazza che non voleva morire di Villepin è una storia che parte proprio dall’odio e dal rapporto che l’Occidente ha avuto (e ha) con la Cecenia, a partire da quanto l’Europa (e il mondo) sa di questo con-
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flitto e di quanta voglia veramente ha di sapere. Scrivere un romanzo sulla storia contemporanea, storia complessa fatta di geografie e confini difficili da stabilire persino per politologi, è un atto coraggioso anche perché si rischia di pattinare su terreni scivolosi e poco aderenti. Intanto perché si parla di terrorismo che dall’altra parte viene definito Resistenza al nemico per la difesa della propria patria, della propria terra: ma fino a che punto è giusto difendere e combattere per la propria identità quando quel combattere coincide con la morte di innocenti, che nulla hanno a che fare con quelle ragioni? È uno degli interrogativi che la scrittrice fa emergere dal suo romanzo quando il confronto tra mondi lontani diventa diretto, come nel caso della vita di un giornalista parigino e di quella di un vecchio contadino ceceno a cui la famiglia viene lentamente sterminata. I due personaggi, Louise e Sultan, sono i due termini estremi di mondi che fanno fatica a comunicare, ma che vivono per molte ragioni più punti di contatto. In mezzo a questi due personaggi, così diversi tra
loro, c’è un mondo articolato: una Parigi placida e borghese vissuta tra ansie familiari e piccoli incidenti, una Grozny apparentemente pacificata, con i carrarmati russi agli angoli delle strade, le donne con fazzoletti vistosi annodati sotto il mento e le colline infestate di terroristi pronti all’azione. Il romanzo alterna la voce dell’io narrante, il giornalista economico Louise, e la storia in terza persona di Sultan. Tra loro il punto di contatto è la giovane nipote di Sultan, Madina, che una mattina, dopo lungo addestramento terroristico, viene mandata a morire con una cintura di esplosivo legata alla vita. Madina è costretta e plagiata dal gruppo terroristico capeggiato dallo zio, il quale cerca di convincerla che l’onore offeso va vendicato. Di quale onore si parla? Madina è il tipico frut-
to dell’odio tra etnie e popoli, orfana dopo l’annientamento di Grozny del ‘99, violentata da soldati russi ubriachi all’uscita da scuola, la sua vita diviene presto inautentica. Quando il gruppo vuole costringerla a farsi saltare in aria per uccidere i russi, lei si ribella perché non vuole uccidere e nonostante tutto non vuole morire. In fondo, come lei ripete spesso, si sente già morta, perché la morte è essere lontani dalla vita, quella normale, quella che ogni ragazza vorrebbe poter vivere. Emmanuelle de Villepin, La ragazza che non voleva morire, Longanesi, 233 pagine, 16,60 euro
riletture
Jung e la vita spirituale della psiche di Renato Cristin el 1913 si consuma la rottura tra Freud e Jung, separati da un’incolmabile differenza che in un testo junghiano del 1928 troviamo delineata nelle sue coordinate strategiche: alla «lacuna» della concezione freudiana che «consiste nell’unilateralità a cui sempre inclina la concezione meccanicistico-causale, cioè nella reductio ad causam semplificatrice» viene opposta l’idea di un’«evoluzione finalistica» che mostri l’energia vitale (chiamata con il termine «libido», che a differenza dell’uso freudiano non implica «nessuna definizione sessuale») nella sua processualità individuale e storica. Di questa diversità e delle peculiarità del pensiero di Jung, che supera la psicoanalisi in direzione filosofica, rendono conto i saggi del volume ottavo delle Opere (La dinamica dell’inconscio, Bol-
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lati Boringhieri, 611 pagine, 67,00 euro), appena ristampato, che presenta gli scritti della maturità più rilevanti per la determinazione della psicologia analitica e che, insieme con il saggio su L’io e l’inconscio, pure da poco ristampato (Bollati Boringhieri, 168 pagine, 13,00 euro), fornisce un quadro d’insieme di grande utilità. L’obiettivo di Jung è di esplorare «la vita spirituale della psiche», a partire dalla consapevolezza che essa «ci è nota solo per i minimi frammenti». In base a ciò, egli da un lato rende progettuale la psicologia analitica, conferendole quel movimento teleologico che avvia un processo che, pur guardando all’indietro alla genesi e alla formazione dei fenomeni psichici, proietta l’analisi verso il futuro, guardando agli sviluppi di quelle premesse e di quei fenomeni; e dall’altro lato la esistenzializza e la storicizza, conce-
pendo la sostanza non come materia ma come «relazione», spirituale e culturale fra individui, elementi ed epoche, di cui lo studio dei rapporti fra civiltà occidentale e orientale è un adeguato esempio. Il «compito futuro» della psicologia, scrive nel 1931, «sarà l’indagine delle determinanti spirituali del processo psichico». Nella dimensione spirituale la dimensione simbolica assume rilievo centrale: ciò che per la concezione meccanicistico-causale è un «fatto», per quella energetico-finalistica è un «simbolo». L’interpretazione dei simboli avviene come sviluppo della personalità, che si catalizza in quella dimensione chiamata Anima (nel maschio) e Animus (nella femmina) che determina i caratteri e le scelte individuali. Nella pratica analitica queste due sfere personificate sono inversamente proporzionali alla partecipazio-
ne attiva del paziente, diventando «funzione della relazione fra coscienza e inconscio». Nell’individuazione, che fa confluire «l’energetica psichica» nel soggetto, si ritrovano gli elementi che conferiscono identità ed equilibrio e che delimitano l’io rispetto agli altri e all’inconscio collettivo. L’individuazione, in quanto differenziazione, è indispensabile, perché nell’indistinzione l’io è «in disaccordo con se stesso», e in tale «inconscia mescolanza e mancanza di separazione» si subisce «una coazione a essere e ad agire così come non si è». Così si produce la nevrosi, che è «disaccordo con se stesso». L’individuazione e l’accettazione di sé, difficili ma possibili se l’io riesce a distinguersi dai contenuti inconsci, sono anche un processo di portata universale: «non v’è salvezza né miglioramento del mondo che non cominci dall’individuo».
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società
Sutton e la filosofia del “vu ja de”
di Livia Belardelli ssumete persone che vi mettono a disagio. Pensate qualcosa di ridicolo e impraticabile e fatelo.Trovate persone positive e fatele litigare. Non sono modi per farvi odiare dai vostri collaboratori ma alcune tra le undici idee e mezza per promuovere creatività e innovazione, proposte da Robert I. Sutton nel suo nuovo libro, Idee strampalate che funzionano. «Lo ammetto. Ho definito “strampalate” le idee proposte in questo libro per at-
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narrativa/2
tirare la vostra attenzione» svela immediatamente l’autore. In realtà per lui sono tutto il contrario, efficaci pratiche di management, forse insolite e curiose, ma che permettono di fare la scelta giusta in ogni circostanza. L’autore del «metodo antistronzi» torna ad aggirarsi nell’ambiente di lavoro, questa volta non per neuil tralizzare mobbing e le spiacevoli compagnie che affollano gli uffici ma per insegnare quelli che ritiene i principi cardine dell’innovazione. Le normali prati-
che di management funzionano per l’ordinaria amministrazione ma non quando si cerca qualcosa di diverso. La routine soffoca l’innovazione e per essere creativi bisogna vedere le cose sotto una nuova prospettiva.Varianza, rottura con il passato e vu ja de. L’oscurità del terzo principio è presto eliminata se si capovolge l’eccentrica combinazione di sillabe. Il vu ja de è il contrario del de ja vu, «comportarsi come se un’esperienza fosse nuova pur avendola vissuta centinaia di volte» spiega l’autore. E la creatività in un certo senso è anche questo, «l’utilizzo di idee vecchie in nuovi contesti, in nuove combinazioni e secondo nuovi metodi». Bisogna avere il coraggio di rivoluzionare le regole del gioco se si vuole incoraggiare il progresso di un’azienda.
Sfruttare le idee strampalate e i principi raccolti in questo libro dovrebbe aiutare a rendere più innovativa la vostra azienda. «Ci vuole un po’ di cinismo per sfruttarle al meglio. Trattatele come quei giocattoli che comprate per incasinarli un po’: provate a romperle, a smontarle per vedere come funzionano, provate a migliorarle e mischiatele con gli altri giocattoli che avete» consiglia l’autore. «Sono idee che funzionano» assicura. Ma non dimentichiamo che il «gioco» dell’innovazione non si conduce a tavolino e spesso sensazioni e tenacia sono ciò che veramente trasforma in realtà idee e intenzioni. Robert I. Sutton, Idee strampalate che funzionano, Elliot , 336 pagine, 16,50 euro
Il Brigante disarmato che amava servire di Mario Bernardi Guardi nquieto e trasognato vagabondo, Robert Walser era, al pari di Kafka, «un artista della casa per sempre negata» (Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi). Solo che questo sentimento di assenza o di perdita diventava in Kafka «orrore senza nome», generando incubi e mostri, mentre in Walser si colorava di nostalgica inquietudine. Walser si sentiva inadeguato alla vita, incapace di affrontarla con tutte le riserve di ambizione, energia, spregiudicatezza che sono necessarie a vincere. Diciamo meglio: non voleva vincere, ma perdere e «perdersi», abbandonarsi alla contemplazione, lasciarsi avvolgere in una sorta di vaporoso oblìo, affidarsi magari a qualcuno che, nato per affermarsi, accogliesse nella sua luce lui, lo sconfitto, il cane perduto senza collare, l’innamorato
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costume
non corrisposto, bisognoso di calore e di conforto. «Servire», in tutte le accezioni, è parola-chiave del lessico walseriano. Patologie, e non solo letterarie? Di fatto la dolce follìa di Walser era anche una eredità familiare: delicatezza nervosa e morbosi incanti che lo avrebbero portato in manicomio. Dove sarebbe restato per ventitré anni, dal 1933 al 1956. La morte fu perfettamente «walseriana». Robert era uscito dalla clinica (nel cantone svizzero dell’Appenzell, dove era nato) per fare una passeggiata: non lo videro più tornare, lo cercarono, alla fine trovarono il corpo senza vita. Robert era disteso sui campi innevati, come se dormisse, e sognasse. Magari la sua casa di fanciullo amante delle fantasticherie. ll nostro Walser «vive» nei suoi personaggi, entra nelle storie, conversa con loro, continuamente identificandosi, continuamente prendendone le distanze, in un giuoco ironico e pate-
tico. E questa è più che mai la cifra del Brigante, un’opera scritta nel 1926 e restata inedita fino al 1972. Il protagonista è un «disutile», uno «scimunito», un «fallito», un «idiota», un «bambino» (questi i non gratificanti epiteti che gli vengono rivolti), decisamente indifeso, forse indifendibile, persino agli occhi «fraterni» di Walser. Insomma, un sognatore che girovaga per la vita, che cerca ma non sa conservare quel che trova, sempre ansioso e timoroso di approdi. Un Brigante disarmato che amabilmente confessa il proprio «scandalo»: «Ho riscontrato di non sentire affatto in me la vampa, il guizzo, lo sgorgo di brame d’aggressione o di possesso (…) Io entro in uno stato di euforia amorosa laddove fantastico di servire chicchessia». Robert Walser, Il Brigante, Adelphi, 179 pagine, 17,00 euro
Siamo tutti tipi da Shakespeare?
di Enrica Rosso he Shakespeare ci abbia regalato le più belle pagine della storia del teatro mondiale lo sappiamo tutti. I più meticolosi sanno che il canone completo consta di 37 testi; agli appassionati non sfugge che dieci sono ambientati,in tutto o in parte, in Italia e che italianissimi sono alcuni memorabili personaggi. Cito a caso: Iago, Porzia, Petruccio, Giulietta e Romeo, Caterina…. il solo nominarli evoca mondi e geniali battute. Indubbiamente Shakespeare ci ha consegnato superbi ritratti senza lesinare dettagli caratteriali che vanno ben oltre la mera descrizione. Proprio questi esseri così vividi, da sem-
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brarci di carne, insieme agli arguti intrecci e al lirismo, rendono insuperata la sua scrittura. Da qui la domanda sorge spontanea: come eravamo e quali erano le fonti ispiratrici del bardo? Ed ecco che Nicola Fano si diverte (lo si capisce perché ci strappa più di un sorriso) a introdurci agli infiniti misteri che circondano l’esistenza di Shakespeare, a cominciare dal pedigree. Con un abile intarsio di notizie storiche e succosi aneddoti Fano, da consumato uomo di teatro qual è, rintraccia i passaggi e le motivazioni per cui il grande commediografo scegliesse l’Italia per inscenare gran parte delle sue opere. Per non guastare il gusto delle lettura, non rivelerò da dove traesse informazioni sulla nostra
natura, né riferirò in modo dettagliato di come alcuni caratteri trovino odierno riscontro. In ogni caso non sarà difficile, nonostante il trascorrere dei secoli, cogliere quanto ancora ci appartengano. Certo è che questo libro ci offre succosi spunti di riflessione facendoci rimbalzare da un’epoca all’altra sulle ali di sublimi battute. Una per tutte: da La Tempesta, un frammento del monologo del disilluso Prospero: «…Noi siamo della stoffa di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno….». Nicola Fano, Gli italiani di Shakespeare. Da Iago a Berlusconi, Alberto Gaffi Editore, 181 pagine, 11,00 euro
altre letture Inquinamento
ambientale, riscaldamento climatico, possibile ecatombe nucleare: in un mondo sull’orlo della catastrofe la scienza è una malattia che deve fare i conti con gli incidenti di cui è responsabile. Il nostro pianeta è esposto alla minaccia, oggi appena percepibile, di un accidente delle conoscenze, che sembra portare a compimento la crisi della ragione denunciata a suo tempo da Husserl. Paul Virilio nel suo L’università del disastro (Raffaello Cortina editore, 155 pagine,16,00 euro) suggerisce che la catastrofe incombente sia causata dalla stessa spettacolare riuscita delle tecnoscienze e non dal loro fallimento. Per questo diventa urgente promuovere la creazione dice Virilio - di un’università del disastro, che possa non solo misurare ma anche prevenire l’accidente prodotto dal successo scientifico.
Nel 1948 veniva adottata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per la prima volta nella storia moderna veniva proclamata l’universalità di questi diritti, non più limitata ai paesi occidentali, ma spettanti ai popoli del mondo intero, perché la dignità umana appartiene per nascita a ogni individuo ed è inalienabile. Antonio Cassese in Voci contro la barbarie (Feltrinelli, 380 pagine, 25,00 euro) ha raccolto le voci più significative di quanti si sono battuti per una nuova etica internazionale, le voci di quanti hanno sofferto sulla propria carne e nel proprio animo atrocità e violazioni, le voci di chi si è ribellato e di chi ha cercato di capire perché c’è tanta violenza. Dopo essere stato per decenni una palla al piede dell’economia nazionale il Mezzogiorno è oggi chiamato a riconoscere spazio al mercato e alle logiche imprenditoriali, divenendo la frontiera di un’Italia inedita e ricca di potenzialità. È questa la tesi sostenuta da Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri in Come il federalismo fiscale può salvare il mezzogiorno (Rubbettino, 212 pagine, 14,00 euro) persuasi che tale obiettivo possa essere raggiunto sposando l’idea di un federalismo fiscale per il Sud. Anziché invocare una maggiore redistribuzione a loro favore la classe politica e l’opinione pubblica meridionale devono accettare la sfida della competizione tra territori.
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ritratti
CHI ERA “IL BIONDO CRISTO RIBELLE DI ROMAGNA”, SOCIALISTA APPASSIONATO E POI MEMBRO DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA, CHE NON ESITÒ A SCHIERARSI CON LA REPUBBLICA SOCIALE, DIVENTANDONE L’ANIMA TRIBUNIZIA. UN LIBRO NE RIPERCORRE CON PRECISIONE LA VICENDA POLITICA E UMANA
La contraddizione Bombacci di Aldo G. Ricci ultimo documento conservato nel voluminoso fascicolo di polizia intestato a uno dei fondatori del Partito comunista italiano, Nicola Bombacci, un nome che oggi dice poco al grande pubblico, è datato 1° aprile 1944. Il testo è molto breve: «Il noto ex deputato comunista Bombacci Nicola fu Antonio si è allontanato dalla Capitale, vuolsi diretto al Lago di Garda. È stata diramata la circolare di ricerche alle Questure della Repubblica per il rintraccio e la vigilanza». Ma cosa era andato a fare il vecchio rivoluzionario ormai in pensione e «ravveduto» da molti anni sul lago di Garda? La polizia della Rsi non lo sapeva, ma «il biondo Cristo ribelle di Romagna», come lo definiva un suo vecchio amico compagno di lontane battaglie proletarie, era andato a raggiungere il suo vecchio amico di gioventù Benito Mussolini, nella convinzione di poterlo aiutare a dare una svolta in senso sociale all’impresa disperata della Repubblica nata sulle ceneri del fascismo. Le vie della storia politica italiana sono infinite e spesso imprevedibili, e Bombacci, la cui vita è tutta un paradosso, ne rappresenta una delle incarnazioni più significative, come conferma il bel libro uscito in questi giorni a cura di Guglielmo Salotti (Nicola Bombacci: un comunista a Salò, Mursia, 270 pagine, 19,00 euro), il cui titolo, accostando due termini antitetici, sottolinea efficacemente il paradosso del personaggio. Bombacci era prima di tutto un figlio esemplare della Romagna, terra di passioni politiche e di viscerale estremismo, e non è un caso che la sua vita, soprattutto all’inizio e alla fine, abbia tanti punti di contatto con quella di un altro romagnolo doc come Mussolini. Quest’ultimo era nato a Predappio nel 1883, mentre Bombacci era più grande di quattro anni ed era nato a Civitella di Romagna, che dista in linea d’aria dal paese del duce non più di una decina di chilometri. Entrambi di origini modeste, avevano intrapreso gli studi magistrali per insegnare come maestri elementari, e proprio in questa veste professionale si erano incontrati per la prima volta nel 1906 nel corso di un convegno magistrale. Il maestro in quegli anni non era solo una professione: era anche, e per molti soprattutto, un missionario, che aveva come scopo quello di contribuire con l’istruzione all’emancipazione delle classi proletarie.
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Chi ha visto il bellissimo film I compagni e si ricorda la figura del maestro interpretato da Marcello Mastroianni, sa di che cosa parlo. Come sa, se ricorda il suo rapporto con l’altro maestro compagno di idee, quanto fosse forte il rapporto di amicizia-fratellanza che legava questi «apostoli» del secolo scorso. È quello che emerge dalle parole di Mussolini parlando di Bombacci, che aveva combattuto il fascismo per diversi anni, con Yvon de Begnac. Ricordava che la loro personale amicizia non era venuta meno «anche quando condusse la battaglia estremista contro il fascismo… Non si divide il pane della scienza per poi
diventare l’uno all’altro Caino». Ma poi tutti e due avevano sentito l’attrazione irresistibile e fatale per la politica diretta, in prima fila, in trincea, e tutti e due avevano aderito al Partito socialista, iniziando la carriera dal basso, da bravi militanti, prima alle camere del lavoro e poi al partito, alternando la penna sui giornali locali e nazionali ai comizi e alle manifestazioni. Anche il rifiuto del riformismo prevalente allora nella maggioranza del partito e del sindacato vide i due romagnoli affiancati nella battaglia per la linea intransigente e soprattutto contro la guerra di Libia. Tra la fine di maggio e la metà di settembre del 1914, Bombacci scontò alcuni mesi di detenzione per precedenti episodi che lo avevano visto alla testa di azioni violente contro le forze di polizia. In quei mesi ricevette una lettera di Mussolini, che approvava la sua scelta di non accettare la grazia e gli consigliava di utilizzare il periodo di forzato riposo per approfondire lo studio dei classici del marxismo. La rottura tra i due rivoluzionari avvenne in concomitanza con lo scoppio della prima guerra mondiale, che Mussolini giudicava una «guerra rivoluzionaria», mentre Bombacci la riteneva espressione dell’imperialismo militarista. Quindi, mentre il primo si schierava nettamente per l’intervento, il secondo lo contrastava, sposando, dopo la rivoluzione bolscevica dell’Ottobre
così i suoi numerosi viaggi, personali e come membro di delegazioni ufficiali, nella Russia comunista, i legami che strinse con i maggiori leader bolscevichi, da Lenin a Trotzky, da Zinovev a Kamenev. Si spiega così il suo ruolo centrale nella nascita del Partito comunista a Livorno nel 1921 (anche se negli anni successivi il suo nome venne cancellato dai burocrati del partito, insieme a quello di Amedeo Bordiga, perché politicamente imbarazzante), ma anche la difesa che i russi ne fecero dopo il suo discorso alla Camera del 30 novembre 1923 a sostegno dell’accordo commerciale italo-russo. In quell’occasione Bombacci era an-
Amico in gioventù di Mussolini, il loro sodalizio si ruppe, allo scoppio della prima guerra mondiale, su una diversa idea di rivoluzione. Che dopo l’8 settembre credette di tornare a condividere sulle rive del Lago di Garda 1917, le parole d’ordine dei comunisti russi, che invitavano il proletariato internazionale a trasformare la guerra tra le nazioni in una guerra di classe e in una rivoluzione mondiale. Dalla rivoluzione d’ottobre prende l’avvio un legame speciale tra Bombacci e la Russia che non verrà mai meno nel corso di tutta la sua vita: prima come sostenitore delle posizioni dei bolscevichi all’interno del Psi, poi come membro dell’internazionale comunista, infine come mediatore nella relazioni commerciali tra l’Italia fascista e il Paese dei Soviet, il nostro personaggio non cessò mai di tenere vivo il rapporto con la patria del socialismo, che restò per lui un mito a prescindere dall’evoluzione delle sue idee. Si spiegano
dato molto al di là della linea ufficiale del partito, affermando l’opportunità non solo di un accordo economico, ma addirittura di un’alleanza tra la Russia rivoluzionaria e l’Italia della rivoluzione fascista. Se i due paesi sono entrambi rivoluzionari e sono osteggiati dalle potenze capitaliste, questo il ragionamento, non possono che fare fronte comune: un ragionamento che era inaccettabile per la dirigenza comunista, orientata per l’espulsione del deputato romagnolo, ma che risultava imbarazzante anche per i sovietici, che consigliarono di limitarsi a un richiamo, soprassedendo per il momento a misure estreme, che sarebbero venute comunque nei mesi successivi. E dire che Bombacci non era certo ben
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Da sinistra a destra (dall’alto in basso): tre immagini di Nicola Bombacci; un ritratto giovanile di Benito Mussolini; la lettera di Nicola Bombacci a Mussolini (11 ottobre 1943); il fascicolo personale di Nicola Bombacci nel Casellario politico centrale (Archivio Centrale dello Stato); l’ultimo discorso di Mussolini (Milano, Teatro Lirico, 16 dicembre 1944); i fucilati di Dongo; l’occupazione delle fabbriche (Torino, 1920); Lenin e Voroscilov al 10° Congresso del Pcus (1921); alcuni esponenti socialisti in caricature d’epoca: Filippo Turati, Nicola Bombacci e Costantino Lazzari. In basso a sinistra, la copertina del libro di Guglielmo Salotti
visto dai fascisti, che nei mesi precedenti avevano in ogni occasione di scontro cercato di metterlo fuori gioco. Significativa a questo proposito una relazione dei polizia del 10 settembre 1921, nella quale si resocontano i diversi tentativi compiuti dagli squadristi di assalire il treno sul quale viaggiava Bombacci diretto al confine. «Alla stazione di Carpi, scrive l’ispettore, un gruppo di individui armati di randello si è arrampicato sul treno, ma il pronto intervento degli agenti di scorta impedì al gruppo di avvicinarsi. Lo stesso a Mantova, dove un gruppo di arditi d’Italia e di fascisti tentarono di assalire il treno» . E così via. Non è un caso che in quei mesi di scontri sanguinosi uno dei ritornelli più in voga tra le squadre fasciste suonasse così: «Con la barba di Bombacci/ ci farem gli spazzolini/per lucidare le scarpe/ di Benito Mussolini». Ma i mesi successivi avrebbero riservato una sorte ben diversa al rivoluzionario con la barba del profeta biblico. L’espulsione dal partito comunista coincise con un suo ripensamento più generale della situazione politica e una rivalutazione del tentativo mussoliniano di cambiare l’Italia. Numerose lettere in questo senso testimoniano questa evoluzione. Una delle conseguenze fu il riavvicinamento di Bombacci a Mussolini e i diversi incarichi per il primo che ne seguirono in vari enti controllati dal regime. Rimasero a lungo vitali i rapporti con i russi, nella prospettiva però di un canale preferenziale per facilitare le relazioni economiche tra i due Paesi. Segno evidente di questa mutata situazione la possibilità che venne concessa a Bombacci di dare veste pubblica alla sua «conversione». Dopo molte insistenze infatti, nel 1936, fu autorizzato a pubblicare una sua rivista, dal titolo La verità (facile naturalmente pensare alla Pravda sovietica), che uscì con alterne fortune, sempre guardato con sospetto dai fascisti ortodossi, fino al 1943, portando avanti i tre temi cari al vecchio rivoluzionario: la rinascita dell’Italia, nazione proletaria per eccellenza, il legame con la Russia e la questione sociale avviata a parziale soluzione dalla politica mussoliniana. Nonostante questo allineamento al regime, Bombacci era sempre sottoposto a stretta sorveglianza, tanto è vero che quando la figlia stava per sposare un ufficiale (per cui era necessario un
nulla osta del sottosegretario alla guerra), la pratica arrivò fino al capo della polizia che però annotò di sua pugno questa dichiarazione: «Rispondere che Bombacci è da tempo addomesticato. Quindi non vi è più nessuna pregiudiziale politica!».
In realtà il focoso romagnolo non aveva dimenticato i suoi ideali giovanili di emancipazione sociale e riteneva che prima o poi si sarebbero create le condizioni perché il fascismo recuperasse quella vocazione rivoluzionaria che aveva segnato i suoi esordi. Allo stesso modo Bombacci non aveva perso il fiuto
zato con grande precisione, anche alla luce di documenti nuovi forniti dalla famiglia, nel libro di Guglielmo Salotti. Il Cristo ribelle degli anni Venti, ormai più grigio che biondo, riprese a diffondere, con parole non molto dissimili, il verbo dell’emancipazione sociale, affiancato da altri ex socialisti, il più famoso è Carlo Silvestri, che ritenevano che Mussolini avrebbe dovuto dare voce alle forze popolari per assicurare una base di massa a una repubblica che sembrava reggersi soprattutto sul sostegno tedesco. Bombacci fu l’anima tribunizia di questo aspetto non marginale della Rsi. A lui pare che si debba il termi-
Decise di restare accanto al Duce fino all’ultimo atto e il 25 aprile era con lui alla prefettura di Milano. Si separarono a Menaggio. Fu arrestato dai partigiani del suo vecchio partito e fucilato sul lungolago di Dongo politico, e quando nel 1939 la Germania aveva sferrato l’attacco alla Polonia, nelle lettere al figlio previde con estrema precisione quali sarebbero stati gli sviluppi successivi: intervento dell’Inghilterra e della Francia, e successivamente impossibilità per l’Italia di rimanere fuori dal conflitto. Fedele ai suoi antichi amori, salutò con gioia il patto di non belligeranza tra la Russia e la Germania, mentre, quando la Germania diede l’avvio all’operazione Barbarossa, ne trasse cattivi auspici per l’esito del conflitto. Il 25 luglio lo colse di sorpresa, ma in qualche modo fu per lui una conferma che si stavano creando le condizioni per una resa dei conti tra l’anima moderata e istituzionale del fascismo e quella rivoluzionaria. Quando, dopo l’8 settembre, l’Italia si trovò divisa in due e Mussolini diede vita alla Repubblica sociale, dopo alcune settimane di riflessione, la sua scelta fu netta, pur nella consapevolezza dei pericoli cui andava incontro: prese quindi la strada del Lago di Garda, come informava quella nota di polizia che abbiamo visto all’inizio. Il ruolo di Bombacci nei mesi della Rsi viene analiz-
ne «socializzazione», destinato a diventare una delle bandiere di quella avventura, così come è confermato il suo ruolo nella stesura della «Carta di Verona», vero manifesto nel fascismo repubblicano. Si sa che la socializzazione non piaceva ai tedeschi e i provvedimenti degli ultimi mesi per la sua realizzazione restarono per lo più sulla carta, anche se alcuni istituti previdenziali e alcune forme di partecipazione operaia sopravvissero alla caduta della Rsi. Bombacci fu instancabile fino all’ultimo, tenendo comizi in fabbriche e piazze, nella speranza di diffondere un verbo destinato a sopravvivere. Il 25 aprile è con Mussolini alla prefettura di Milano, deciso a restargli accanto fino all’ultimo atto, fedele fino all’ultimo all’antica amicizia. Si separarono a Menaggio e Bombacci fu arrestato dai partigiani del suo vecchio partito con il gruppo dei gerarchi e fucilato il pomeriggio del 28 aprile sul lungolago di Dongo. Prima di morire gridò «viva il socialismo». Era l’ultima contraddizione di un personaggio che aveva vissuto sulla sua pelle proprio tutte le contraddizioni dell’Italia in quella prima drammatica metà del secolo.
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tv
di Pier Mario Fasanotti
Verissimo N Rossella fa l’oracolo della moderna Delfi
on riesce a star lontano dalla televisione. È più forte di lui. Da qualche giorno, Carlo Rossella s’è inventato una parte nuova, camaleontico e abile com’è nel proporre un’immagine di sé che diverte prima lui stesso, con tutte le sfumature pirandelliane del caso, e questo è anche il leit-motiv della sua carriera giornalistica. Nel programma Verissimo (Canale 5, dalle 15,30) Rossella ha la rubrica della posta. Per la verità si è già «allenato» su un settimanale. E si vede subito che gli piace far la parte dello zio che dà consigli, che fa dribbling tra il buon senso e l’ironia. Basta scrivere una mail in redazione e lui, dopo la scelta del tema o del personaggio, risponde. Con occhiali tondi, lo sguardo tra il bonario e «il chi se ne frega di sta gente», attento a non offendere ma felinamente pronto a non lasciarsi sfuggire una battuta. Le battute sono sempre state il suo forte, a volte sfioranti il sarcasmo, a volte gustose perché argutissime. Non le risparmia nemmeno a se stesso, raggiungendo così l’obiettivo primario: parlate di me. Rossella è giornalista navigato. Ha iniziato a La Stampa, poi è passato negli anni Settanta a Panorama dove fece inchie-
web
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ste documentatissime su temi scottanti, come per esempio l’eversione di sinistra e di destra. Ha diretto Stampa Sera (aveva l’«incarico» di chiuderla), La Stampa, il TG-1 e Panorama. Uomo professionalmente inquieto, tanto è vero che in ogni testata da lui diretta ci si interrogava sul suo prossimo incarico a poche settimane dall’insediamento. Qualcosa, o molto, di vero era nell’aria, e lui non ha mai fatto mistero di avere molti amici e svariati contatti nel mondo dei potenti, privilegiando quello dello charme, della mondanità, del lusso. Ora è presidente della Medusa (cinema), quindi sempre nella cerchia blindatissima dell’impero di Berlusconi, del quale si dice amico. Anzi: amico molto fidato. Verissimo è condotto, con buona disinvoltura, da Silvia Toffanin. In studio c’è sempre un maestro del gossip come Alfonso Signorini, direttore del mondadoriano Chi. Signorini è di ottima cultura, ma invece di parlare di Platone o di Shopehnauer o di Picasso, s’appassiona ai personaggi del cinema e della televisione, alle veline, alle fidanzate dei calciatori. Pare sappia tutto. Curioso, pettegolo, ironico, espone i segreti delle dive e delle quasi dive con toni da suspence. Come dire: io so e tra qualche istante lo saprete anche voi. La verità che vien fuori è curiosa, è un tassello in più che delinea meglio il personaggio spiato. Lui sa, per esempio, che Al Bano riunirà la sua numerosissima famiglia nella sua villa pugliese stile (sic!) Dinasty. Alla faccia delle sue ex e all’insegna dello «smettiamola col rancore». Carlo Rossella s’infila in questa giostra coloratissima fatta di episodi modesti e di realtà sostanzialmente insignificanti per fornire carburante al chiacchiericcio da bar, ed esamina un caso alla volta. La lettera cui risponde è occasione per sfoderare un eloquio improntato alla saggezza: sa bene che esibirsi come un eterno ragazzo sarebbe ridicolo. Rossella ammninistra sapientemente la propria vanità. Fa l’uomo che della vita sa tante cose. Lo zio che vive in città e colloquia con coloro che abitano nella periferia della mondanità. Occasione, anche, per esibire un abito di ottimo taglio, la cravatta giusta (peccato che non si vedano le scarpe: anche per queste è meticolosamente selettivo). Lo zio che pare abbia dato l’addio a un dandysmo marcatamente (si vede, si vede) anglosassone discetta sulla vita degli altri. Peccato che il tentativo di essere l’oracolo della odierna e mondanissima Delfi strangoli sul nascere la sua vocazione umoristica.
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NOTIZIE SU MISURA
A SPASSO CON SPIDERMAN
AMERICAN GANGSTER, L’ALTRO FINALE
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ualcuno ci vedrà la temibile realizzazione del Daily me, quel quotidiano telematico ritagliato su misura del cittadino e annunciato da anni come il definitivo assalto di internet alla diligenza del giornalismo. Più semplicemente, Idiomag è una newsletter quotidiana realizzata in base ai gusti dell’utente (ricavati dalla musica ascoltata su social-network musicali quali Pandora e
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lla fine l’unico rischio è che il fascino della Grande Mela distolga il giocatore dalle sue missioni. Con Spiderman: il Regno delle ombre, la Treyarch ha finalmente realizzato un gioco che non è una ripresa pedissequa e noiosetta dei film dedicati all’Uomo Ragno visti in questi anni sullo schermo. Privo di una trama stringente, il gioco permette di dedicarsi a una serie di missio-
egista abilissimo nel mischiare «alto e basso», cinema colto e produzioni commerciali, Ridley Scott ha realizzato con American Gangster un altro capitolo della sua personalissima saga. Niente di nuovo per gli appassionati del regista; questa volta viene messa in scena una contrapposizione complessa tra mondo malavitoso e polizia, intrecciata con l’allora esplosiva questione razziale (sia-
Nasce “Idiomag”, una newsletter quotidiana realizzata in base ai gusti musicali degli utenti
Con l’Uomo Ragno nel Regno delle ombre, difendendosi dagli assalti di Wolverine o Black Cat
Interessanti extra nella versione speciale del film di Riddley Scott con Washington e Crowe
Last.fm, oppure semplicemente grazie all’inserimento di un breve elenco dei propri gruppi preferiti), e permette di ricevere ogni giorno sulla propria casella mail le ultime notizie sugli artisti che più interessano il navigatore. Punto di forza è ovviamente la possibilità di accompagnare la lettura delle notizie con video musicali e notizie utili. Gli appassionati delle riviste cartacee non si disperino: è possibile scorrere le pagine digitali come se si stesse sfogliando un vero giornale patinato. L’iscrizione è immediata e semplice, resa più simpatica da un messaggio preregistrato di una ragazza che finge di parlarvi da una webcam per presentare le funzioni del sito.
ni debolmente connesse tra loro, a volte un po’ ripetitive ma rese interessanti dalle numerose capacità di movimento di Spiderman. Il giocatore può sperimentare combattimenti tra terra e cielo, lungo le strade o sopra i grattacieli di New York, magari facendosi aiutare dalla versione «cattiva» in costume nero, vista in Spiderman III. A distogliere il giocatore dalla tentazione di passare il tempo gironzolando per New York provvedono i numerosi antagonisti in circolazione per le strade: tra Luke Cage, Wolverine, Moon Knight, Kingpin,Venom, Black Cat, Black Widow e Vulture gli amanti dell’eroe dei fumetti ci metteranno parecchio ad annoiarsi.
mo negli anni Settanta). Uscito ora in versione speciale, il dvd propone interessanti extra, compreso un finale alternativo, un buon numero di interviste e dietro le quinte e alcune scene eliminate (ma non doppiate in italiano). È indubbio però che la novità più gradita sia la possibilità di godersi un Denzel Washigton perfettamente a suo agio nelle vesti di malavitoso e re del mercato della droga, alle prese con un poliziotto tanto onesto (Russel Crowe) da finire con l’essere odiato dai colleghi. La resa video è eccellente, il passaggio in digitale se possibile arricchisce ancora le sfumature della fotografia, che esplora tutte le tonalità del grigio e del blu di un’America mai così invernale.
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cinema Dickens a Gerusalemme MobyDICK
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(e obamiani nel Connecticut) di Anselma Dell’Olio l nuovo film di Jonathan Demme è Rachel Getting Married, in italiano Rachel sta per sposarsi. Sarebbe meno letterale e più preciso tradurlo Rachel si sposa, ma i titoli italiani sono un eterno mistero. Il film non è affatto misterioso, ma un affresco famigliare che spazia alla Robert Altman (ringraziato nei titoli di coda) intorno agli eventi banali ed emozionanti di un matrimonio hippy e altoborghese al cubo. La casa di famiglia della sposa (eleganza casual al punto giusto) è in Connecticut, «quartiere» dormitorio per ricchi o benestanti intellettuali e artisti newyorchesi, divoratori e produttori di Cultura: progressisti, pacifisti e aperti al dialogo con chiunque, tranne che con chi non la pensa come loro. Questo è il sottotesto del film che di fatto inaugura l’era obamaniana. (L’incomparabile Anthony Lane ha scritto sull’ultra liberal New Yorker: «Non so se ci fossero elettori repubblicani coinvolti in questo film, ma se c’erano, devono essersi sentiti molto soli». Se la troupe avesse scoperto uno di destra, motteggia Lane, lo avrebbe bloccato, suonando e cantandogli in faccia finché non cambiava idea.)
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Il film ci assilla con la musica dall’inizio alla fine, e con un orgoglioso multiculturalismo ostentato: lo sposo è musicista e nero (Tunde Adembimpe, cantante del rockband «Tv on the Radio»), la sposa e famiglia sono bianche, e la matrigna della sposa è afroamericana (Anna Deavere Smith).Va da sé che gli invitati sono di tutti i colori e cantano e suonano in continuazione musica di ogni genere che fa da colonna sonora al film: jazz, classica, hip-hop, latina, fusion; le damigelle, di solito vestite come caramelle tutte orribilmente uguali secondo l’uso yankee, qui indossano chichissimi, correttissimi sari. Se si riescono a sopportare le onnipresenti suonatine (tutta musica originale e poco orecchiabile) e l’autocompiacimento dell’esibita e mai commentata mescolanza arcobaleno d’amici e parenti, il film concede momenti non proprio originali ma godibili. Per coloro che s’identificano con le patologie famigliari del film, è addirittura fin troppo emozionante. È irrituale che la protagonista non stia «sul titolo», come si dice in gergo, ma il fulcro del film non è Rachel (Rosemarie DeWitt) ma Kym (Anne Hathaway) tossicodipendente cronica, in libera uscita provvisoria dalla clinica in cui è ricoverata per l’ennesima volta. È la classica, irritante, irredenta figliol prodiga, cocca di papà (il bravo Bill Irwin) incapace di gestire la sua vita, ma maestra nel calamitare l’attenzione a sé anche nell’unico giorno che dovrebbe appartenere per intero e in esclu-
Orgoglioso multiculturalismo esibito in “Rachel sta per sposarsi”, che segna il debutto nella sceneggiatura della figlia di Sidney Lumet, Jenny. Mentre da Israele arriva un’altra opera meritevole: “Qualcuno con cui correre”, tratto dal romanzo di David Grossman siva alla serena, equilibrata, brava sorella Rachel. È un ruolo di sfondamento per la Hathaway, il passaggio dalle principessine boccoli e fossette degli esordi, a parti di gustosa e contorta Bad Girl, alle quali si è involontariamente candidata con la débâcle tabloid del suo rapporto bruscamente interrotto con Raffaello Follieri, faccendiere ora agli arresti in America per frode. Taglio a caschetto brutale, occhi cerchiati di kajal, Kym (irritante persino quella «y» al posto della consueta «i») riesce a egemonizzare anche la cena pre-nunziale, luogo deputato di discorsi che, per tradizione, tessono lodi che includono spiritosi sfottò degli sposi, con uno sproloquio sulla propria sciaguratezza tossica e sul programma di riabilitazione detto dei Dodici Passi. Prima ancora aveva scippato il ruolo di testimone della sposa alla migliore amica di Rachel, sfasciato l’auto di famiglia, e si era portata a letto il testimone dello sposo, ex tossico pure lui. Solo dopo lo scontro al calor bianco con la madre fredda e sfuggente (ben tornata tra noi Debra Winger) si comincia a capire l’abisso nevrotico di Kym. I suoi guai non nascono solo dalla madre distaccata e poco incline a premure materne, ma da un terribile incidente di cui Kym adolescente è stata esecutrice, e la mamma scriteriata mandante, per così dire. Il film è troppo lungo e la musica ossessiva, ma se gli incubi personali dello spettatore comprendono madri anaffettive o fratelli e sorelle trattati meglio e
preferiti dai genitori, può provocare coinvolgimento e persino uno stress straziante. A fine proiezione alla Mostra di Venezia si sono viste persone adulte stravolte, bisognose di coccole e pezze calde. Non si sa se il film è autobiografico: l’ambiente certamente lo è, e la gara di caricamento della lavastoviglie pure. La sceneggiatrice debuttante è Jenny Lumet: sua nonna è Lena Horne, la celebre cantante di colore; suo padre è Sidney Lumet, regista di rango d’origini ebraiche e fanatico di lavapiatti.
Completamente diverso il bel film israeliano Qualcuno con cui correre, di Oded Davidoff, meritevolmente distribuito dalla Medusa. Un’accattivante commistione di generi, la sceneggiatura è un adattamento dell’omonimo romanzo di David Grossman, una storia alla Gus Van Sant. Un po’thriller, un po’ Torna a casa Lassie, con porzioni giganti di Charles Dickens e di romanzo di formazione, e come filo conduttore la ricerca affannosa di un misterioso tesoro, anzi di due tesori. Sono le storie parallele (con tempi sfalsati) di due adolescenti che non si conoscono, ognuno dei quali è all’inseguimento di una persona. Assaf è un sedicenne borghese che lavora durante le vacanze alla Protezione animali di Gerusalemme. Un giorno arriva al canile municipale una splendida Labrador bionda di nome Dinka, alla quale subito s’affeziona. Determinato come solo un teenager sa essere, Assaf parte alla ricerca del pro-
prietario. Facendo domande in giro, scopre che Dinka appartiene a una ragazzina ribelle di nome Tamar, che suona e canta per strada. Di indizio in indizio, giriamo con Assaf le strade di una Gerusalemme per niente turistica: bassifondi, ragazzini che dormono per strada con la pistola e le siringhe nello zaino, punk aggressivi che proteggono con pestaggi il loro territorio, poliziotti che cercano spacciatori d’eroina avariata, sfruttatori di minori. All’inizio si vedono particolari e pezzi di racconto che non si sanno collocare: Tamar che si fa rasare la testa, raccoglie spiccioli cantando, e dorme all’addiaccio, sempre in compagnia di Dinka. (Il racconto di Tamar è in flashback, quello di Assaf nel presente.) Con il progredire della storia, si compone il puzzle di una discesa agli inferi non involontaria. Dalla suora badessa di un convento cattolico dove Tamar dava una mano, sappiamo che la ragazzina è sparita all’improvviso. Da un amico proprietario di un fast food veniamo a conoscenza del retroterra di Assaf: i genitori sono andati da sua sorella in New Mexico e lui è senza supervisione. Tamar è fuggiasca con tutta l’aria di un’adolescente ribelle, ma lascia messaggi rassicuranti alla famiglia. Finisce in un vecchio ospedale occupato da un sinistro personaggio (ispirato a Fagin, lo sfruttatore di Oliver Twist) di nome Pesach, un musicista che raccoglie ragazzini alla deriva, disadattati ma con talento musicale. Si fa firmare contratti che gli danno tutti i diritti alla musica che scrivono e ai soldi che racimolano suonando nelle piazze. In cambio di letto, tetto e pappa schifosi, loro gli fanno da copertura per affari ancora più loschi. Alla fine di percorsi simmetrici molto accidentati, le storie di Assaf e Tamar si fondono per la soluzione del mistero e il resoconto finale. Da Israele stanno arrivando film e serie meravigliosi. L’anno scorso c’era l’incantevole La banda (dove recitava Rinat Matatov, l’incantevole, triste e corteggiata sosia di Frida Kahlo, che ritroviamo nel film di Davidoff come Shelley, piccola punk sfortunata). Solo quest’anno c’è stato In Treatment, la splendida serie d’origine israeliana, appena terminata su Cult TV, e arriverà Waltz with Bashir di Ari Folman (sceneggiatore per la versione originale della serie citata) in concorso a Cannes, originale e insolito documentario d’animazione che gli americani avranno come regalo di Natale, beati loro.
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Gozzano, le parole prima di tutto Q
uanti autoritratti Guido Gustavo Gozzano (1883-1916) ha lasciato nei suoi versi. Ha amato in qualche modo farsi personaggio di se stesso, ha amato pose e travestimenti di cui è stato gran maestro: «sofista», «buono sentimentale giovine romantico», «borghese onesto», «avvocato», insomma anche - come ha scritto - tutto «quello che fingo d’essere e non sono», fino alla riuscita e più nota formula poetica «questa cosa vivente/detta guidogozzano». Era un borghese Guido Gozzano, senza dubbio, nato da padre ingegnere, vedovo, che si innamora di una giovane di ottima famiglia, figlia di un onorevole del primo Parlamento italiano, grande amico di Massimo D’Azeglio. Poi studia con non molta voglia e quando si iscrive nel 1904 alla facoltà di Legge alle pandette e ai codici preferisce di gran lunga le lezioni di Arturo Graf e in particolare quelle tenute alla «Società della Cultura» il sabato pomeriggio, le «sabatine», incontri molto ben frequentati. Lì conosce i letterati suoi coetanei, da Massimo Bontempelli a Carlo Vallini, da Enrico Thovez ad Attilio Momigliano a Carlo Calcaterra che ne curerà le prime seppur imperfette edizioni postume delle poesie. Da Graf apprende l’amore per i versi e, seppure continui a farsi chiamare avvocato, tra una gonnellina e un camerino d’attrice, distinguendosi anche per una vita dissipata e un atteggiamento dandy, trova il tempo di leggere Petrarca e Dante, come D’Annunzio e Pascoli, Jammes e i tardosimbolisti francesi. Vagheggia l’idea di mettere insieme le sue composizioni che nel frattempo cominciano a farsi notare sulle testate letterarie dell’epoca.
Nel 1905 inizia a lavorare, su modello pascoliano, a quel «Libro» unico che doveva raccogliere i suoi versi. Sforzo che si concretizzò nel 1907 con La via del rifugio, un’opera che fu accolta con un giudizio quasi unanimemente positivo, di critica e di pubblico, ma tra i tanti che ne parlano a tacere è solo il giornale della sua città, La Stampa. Un fatto per il quale ci resta decisamente male e che lo spinge a una protesta nei confronti di questa indifferenza e agli amici chiede «A Torino che fate?». Al successo segue il momento di più intensa relazione con Amalia Guglielminetti, anche lei frequentatrice delle «sabatine», che coincide con anni di eccezionale vena creativa fino al 1911 quando pubblica I colloqui. Ma il 1907 è anche l’anno in cui gli viene diagnosticata per la prima volta quella malattia, la tisi, che lo accomuna a Sergio Corazzini e che con lento decorso lo condurrà alla morte. Questa condivisione tra i due ha dato adito a qualche sterile polemica critica su correnti e caposcuola del crepuscolarismo, come e se l’uno o l’altro vi appartengano. Certo, la Torino di Gozzano e la Roma di Coraz-
di Francesco Napoli
zini sono attraversate nelle loro menti poetiche migliori da un comune e avvertito disagio tra l’inadeguatezza del positivismo ormai agli sgoccioli e le possibili risposte neospiritualiste, espresso anche dalla negazione del ruolo di poeta che, anche questo, accomuna i due: «Perché tu mi dici: poeta?/ Io non sono un poeta./ Io non sono che un piccolo fanciullo che piange», Corazzini; «Io mi vergogno,/ sì, mi vergogno d’essere un poeta!», Gozzano. Al poeta piemontese malato di tisi a nulla valgono i temperati soggiorni liguri o un lungo viaggio in India per dargli sollievo. Scrive anche tanto per i giornali, poiché le mutate condizioni economiche della famiglia, morto il padre, lo costringono a procacciarsi denaro, e cerca di allontanare da sé l’idea della morte. Si impegna, come D’Annunzio, nella scrittura di una sceneggiatura cinematografica, una vita di San Francesco, e siamo nel 1916. La malattia ormai lo tiene e il 9 agosto di quell’anno muore. Solo i famigliari e i pochissimi amici non trattenuti dal servizio di leva riescono a dargli l’estremo saluto, due giorni dopo, nel cimitero dell’amata e mai dimenticata Agliè.
L’AMICA DI NONNA SPERANZA Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, i dagherrottípi: figure sognanti in perplessità, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, il cúcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta! Guido Gozzano da I colloqui
S e G a b r i e l e D ’ A n n u n z i o rappresenta senza alcun dubbio il punto di riferimento principale della sua educazione poetica giovanile, dello stesso trascurò del tutto l’ideologia del vivere inimitabile, il vitalismo superomistico, il misticismo estetizzante. Per Gozzano la necessità era però di riuscire a superare D’Annunzio, «attraversandolo» così come fece, per poter ironicamente dichiarare di non esser più un «gabrieldannunziano». «Fondò la sua poesia sull’urto, o “choc”, di una materia psicologicamente povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, con una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé», scrisse Montale che tanto apprese da questo poeta, e fu «il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico», sempre Montale. E a lui il Novecento poetico italiano guarda, per primo proprio il poeta non laureato per eccellenza, per la possibilità che la sua azione offrì di dar vita a una sorta di controcanto prosaico in versi con la banalizzazione del linguaggio aulico e con l’ingresso di un lessico fortemente «borghese». Insomma, tutto il repertorio delle «buone cose di pessimo gusto» con le quali parodicamente Gozzano si sente rinascere. Oggi alcuni suoi testi, Signorina Felicita o L’amica di Nonna Speranza, sono da antologia ormai; ieri ebbe il consenso e l’attenzione inattese di Benedetto Croce. Ma è Renato Serra a cogliere nell’immediato una incontrovertibile sostanza del fare poetico di Gozzano: «si diverte a fare il piemontese, - scrisse l’avvocato, il provinciale. Invece è un artista, uno di quelli per cui le parole esistono prima d’ogni cosa».
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il club di calliope
Tu, pace, parola venuta sulle labbra con l’incedere lieve di una grazia scalza su gridi di battaglia e schianti di vetrate dentro gli occhi morenti dei profeti, tu parola gettata in fondo a cave di silenzio, voce che sbianchi, lascia una traccia della tua sconfitta su cui stare col volto tra le mani, in ginocchio.
Sergio Zavoli
UN POPOLO DI POETI Vedo i tuoi occhi di giada Vedo le tue labbra di seta Vorrei stringerti a me Sentire le speciali Tue emozioni, dirti Di quanto ti penso, Dirti di quanto mi fai soffrire E di quanto lontano È il cielo e la speranza. Lorenzo Fantanulli
Torno sovente sui passi di mia madre e mi par di rivederla. Al mercato con la borsa gonfia di terra profumata. Poggiata al muretto della scuola ad aspettar insieme a me la campanella. Con l’amica, al tramonto, a sciogliersi l’angoscia del giorno. Sull’erta del SS. Crocifisso con la preghiera sulle labbra. A casa, sul balcone, a ingannar la noia col cardellino festante. Emilio Tarditi
CON DE SIGNORIBUS, IN VIAGGIO IN UNA TERRA STRANIERA in libreria
di Loretto Rafanelli opera antologica completa di Eugenio De Signoribus (Poesie, 1976-2007, Garzanti, 664 pagine, 21,00 euro), permette di seguire la storia poetica di un autore (1947), già oggetto di grande attenzione da parte della critica e del pubblico della poesia, premiato questa estate con il «Viareggio». Yves Bonnefoy, il grande poeta francese, è uno di questi ammiratori (a cui si possono
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quella di incamminarsi in un accidentato tratto, dove le parole sono acuminati sassi, pesanti segnali, tesi a indicare un «viaggio» straniero, nel senso proprio di qualcosa che esce dai meccanismi conosciuti. «Viaggio» che risulta essere qualcosa di indispensabile e che mette in rilievo il disperato senso delle cose, e dove il poeta si fa carico della desolazione del mondo. Ma egli fa ciò non con un procedimento narra-
“Poesie 1976-2007“: la storia poetica dell’autore, ammirato da Bonnefoy, Giudici, Agamben, Bandini, Cortellessa, premiato quest’anno con il “Viareggio” aggiungere Giudici, Bandini, Agamben, Cortellessa, ecc.), e nella sua nota inserita nel libro (c’è nell’antologia una parte critica con importanti contributi), parla, di un uomo «poco incline a comparire in luogo dei suoi scritti…». Di De Signoribus si è infatti spesso detto del suo comportamento appartato quasi «autarchico», che anche noi vogliamo segnalare. Ma non sta certo qui la particolarità del poeta, piuttosto in quella capacità linguistica, in quello scavare nei meandri della parola, come pochi altri sanno fare. La sensazione che si prova leggendo la sua poesia è
tivo, discorsivo o persuasivo, ma attraverso un processo di «straniamento». E conforta che questa sensazione sia sostenuta anche dal critico Zublena. Egli a sostegno di tale idea cita Sklovskij, il quale su Tolstoj disse che il grande russo «non chiama l’oggetto col suo nome, ma lo descrive come se lo vedesse per la prima volta, e l’avvenimento come se accadesse per la prima volta». Spiegazione che si può usare anche con De Signoribus, il quale arriva a questo forzando in vari modi il dettato linguistico, compresi l’uso frequente di neologismi o di termini desueti.
Linee metamorfiche s’infrangono all’infinito delle acque. Veloci natanti serpeggiano tra l’armonioso schiumare delle onde. Canne al vento è l’andirivieni di corpi dalla cute bagnata di fresco, mentre ai raggi roventi si prestano già nericci dal sole. Irrompe, nella tranquillità del tempo, una sinfonia di voci, sconvolgendo i passi della brezza silente. Tutto evolve e si centrifuga all’imperioso scorrere, in quest’afosa mattina d’agosto, dal volto impaziente. La spiaggia (Lido Marrakech) Antonio Migliorino
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
dea proficua, quella del SinopoliFestival di Taormina, di violare ogni anno l’atelier segreto dei compositori, alla ricerca dei loro ’violons d’Ingres figurativi. Dopo la relativa «scoperta» di Francesco Pennisi, altro siciliano (scoperta relativa, perché c’era già stata una bella mostra al Massimo di Palermo), questa volta è in gioco l’agnizione davvero soprendente di Aldo Clementi quale pittore: il musicista catanese che come è noto ha avuto con l’arte figurativa (così come il suo maestro Petrassi) un rapporto intenso e duraturo, all’inizio quasi in competizione, come è accaduto pure con Schoenberg, che fu a lungo indeciso addirittura se dedicarsi alla pittura o alla composizione (come confidava a un perplesso Kandinskij, in una serie bellissima di lettere, pubblicate anche da Einaudi). Clementi, che anche nei suoi titoli musicali evoca spesso la pittura informale (Collages o Informel s’intitolano molti dei suoi brani, spesso congegnati insieme al pittore Achille Perilli, tanto più non si può dimenticare il suo rapporto col gruppo di Forma 1: Dorazio, Perilli, Sanfilippo), ammette che la pittura, per quanto riguarda il gioco degli intrecci cromatici e delle textures, è avanzata «forse più della stessa musica. Mi interessava quello che facevano Jackson Pollock, Mark Tobey e in Italia Dorazio, pittori che lavoravano sulla texture, provocando nebulose senza inizio e senza fine. Mi interessava il materismo, l’informale, l’Action Painting, la pittura di gesto di Hans Hartung. Di quelli stimoli pittorici è rimasto nella mia musica il fatto potremmo dire disegnativo. Non tanto i colori ma il gioco delle linee, che s’indentifica con il gusto per l’inteccio, il contrappunto». Giochi grafici liberi, modulari ma anche lirici, talvolta persino più fantasiosi e ricchi di scarti, rispetto a quelli, ben presto ripetitivi, di Dorazio, con qualcosa di Sam Francis. E che dialogano con un’altra passione bruciante di questo strutturalista della musica (dopo Petrassi: Maderna e Darmastad). Gli scacchi. Che rappre-
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I contrappunti (pittorici) di Aldo Clementi di Marco Vallora
arti
sentano per lui il doppio binario, ben strutturato insieme, di «geometria e intuizione, riflessione e decisione. Anche sulla scacchiera si disegnano contrappunti». A un tratto, quando la sua ispirazione parve entrare in crisi, il musicista si narra volesse abbandonare la musica e diventare soltanto scacchista (un po’ quel che capitò a Duchamp, che abbandonò l’arte per vivere dadaisticamente il suo ruolo, agonistico, di puro giocatore ludico). Su una pedana-scacchiera, ove Clementi (assente giustificato per motivi di salute) avrebbe, durante il Festival, voluto sfidare il suo uditorio, l’amico Ennio Morricone, allievo come lui di Petrassi, ha scritto auguralmente (il tavolo, orfano, è rimasto): «Vinceva sempre lui». Ovvero la passione del gioco contrappuntistico e del numero, che a un tratto sostituisce, per il compositore, la stessa notazione tradizionale: non più il pentagramma ma solo nude tabelline numeriche, ove combinare le sue «partite» musicali: «ne faccio in continuazione, sono per me degli esercizi di allenamento come fanno gli strumentisti. E lì è dove puoi vedere meglio i tuoi errori e crescere pure la melanconia». Dando i «numeri» musicali. Curiosamente però Clementi non asseconda soltanto quest’aspetto astratto-geometrico, ma ha anche il suo côté caustico, quasi caricaturale. Quando esce Epoca, «un settimanale che intendeva dare grande evidenza agli scatti d’attualità, sull’esempio dell’americano Life», lui è lì pronto a contraffare, caricaturizzare, deformare. Malagodi che ha un boccone da travestito negro di Warhol, una specie di Mario Soldati, che si pavoneggia come Liz Taylor, insomma la miseria mediocre del nostro jet set: «Il quotidiano, a ben guardare, ha sempre un aspetto grottesco. Innocentemente, magari». Il carillon incantanto dei rallentandi di Clementi, quasi feroci zoomate sulla bêtise del mondo.
Aldo Clementi. Opere grafiche, Taormina, Palazzo dei Congressi, fino a novembre
autostorie
Protagonista sul grande schermo, da Charlot a Tucker di Paolo Malagodi ome spettacolo pubblico, il cinema nacque il 28 dicembre 1895, quando i fratelli Louis e Auguste Lumière organizzarono la proiezione dei loro primi filmati presso il Grand Café, sul Boulevard des Capucines a Parigi. A poca distanza di tempo da quando, dopo i prototipi a motore realizzati in Germania da Karl Benz e Gottlieb Daimler, venne avviata nel 1893 la produzione in piccola serie di una vettura a quattro ruote, con il modello Victoria costruito dalle officine Benz di Mannheim. Le due invenzioni, auto e cinema, sono quindi grossomodo coetanee e con una loro evoluzione avvenuta in maniera singolarmente sincrona. Infatti «gli esperimenti definitivi, sia per l’auto che per il cinema, avvengono sul finire
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del secolo XIX. Data convenzionale di nascita per ambedue sono gli anni Novanta, quando furono trovate soluzioni alle ultime difficoltà tecniche e potè iniziare la loro diffusione. Entrambe inizialmente sono delle curiosità, considerate prive di un futuro, infine giunge la grande popolarità in parallelo». Come annota Andrea Denini, in premessa di una dettagliata trattazione (Automobili e film nella storia del cinema americano, Le Mani editore, 272 pagine, 16,00 euro) sull’automobile quale soggetto privilegiato del cinema statunitense. Libero, rispetto a quello europeo, da retaggi letterari e con la scelta di trame eminentemente di azione, in immagini che ricercavano la velocità. «Tuttavia le primitive automobili, poco affidabili, tendevano volentieri a concludere disastrosamente le loro corse e questa loro inclinazio-
ne è la molla dell’utilizzo che di esse viene fatto al cinema dai primi grandi comici. Charlie Chaplin, Harold Lloyd, Laurel e Hardy, Harry Langdon e Vernon Dent: tutti fecero di quella macchinetta, che regolarmente andava in pezzi, un ingrediente tra i più usati nelle loro scene». Ma già a partire dagli anni Trenta, il cinema hollywoodiano sostituisce le essenziali Ford T con lussuose limousine, nei cui eleganti abitacoli si muovono flessuose vamp alla Jean Harlow. Tuttavia, è dal secondo dopoguerra che si consolida l’uso di girare storie ambientate lungo le strade, nel susseguirsi di immagini che usano la corsa dell’automobile come filo conduttore delle trame raccontate sullo schermo. Sono questi gli elementi del road movie, che ha avuto negli Stati Uniti una grande varietà di epressioni. Oggetto
di un’analisi poi focalizzata da Andrea Denini su quattro film: Duel; American Graffiti; Christine, la macchina infernale; Tucker. Pellicole esemplari di un rapporto tra cinematografia americana e automobile, del quale Jeames Dean è l’icona più rappresentativa. «Come nelle foto - osserva Denini che lo ritraggono appoggiato all’argentea Porsche su cui perse la vita. Ma è icona anche mentre osserva la sua Mercury, in Gioventù bruciata; infine con Il gigante, dapprima bracciante su una polverosa Ford pick-up e poi, magnate del petrolio, perso in un’enorme e lugubre Cadillac. E fece involontariamente un favore al mito positivo dell’auto americana, morendo su una piccola sportiva europea: peccato non si ricordi mai che morì perché una paciosa e tranquilla berlina Ford gli tagliò la strada».
MobyDICK
22 novembre 2008 • pagina 15
architettura
La qualità della cantina? Non dipende solo dal vino di Marzia Marandola a recente riscoperta del vino quale prodotto di pregio, ha portato alla valorizzazione delle produzioni vinicole italiane e al proliferare in tutta la penisola, di nuove e sempre più sofisticate coltivazioni a vigneto. Le cantine non rispondono più solo alla necessità produttive e di magazzino, ma sono veri e propri laboratori della vinificazione, con spiccato ruolo autopubblicitario. Sulla scia delle grandi case vinicole toscane, anche alcuni illuminati proprietari di piccole ma agguerrite aziende agricole hanno mirato alla qualità architettonica della cantina come veicolo di propaganda. Tra esse si segnala la nuova cantina dell’azienda veronese «Valentina Cubi», progettata dall’architetto Giovanni Castiglioni con AcMe studio. La cantina, all’interno della proprietà agricola, si inserisce in un’area artigianale del veronese, lungo la strada per la Valpolicella, immersa in un’area di boschi e frutteti, punteggiata dalla presenza di capannoni industriali e piccole serre. L’edificio allungato, distribuito su tre livelli - lo spazio della cantina vera e propria -, asseconda l’orografia del terreno ed è impostato su una pianta rettangolare; lungo un lato maggiore si aggrega un volume curvilineo, destinato ai servizi e ai collegamenti verticali. Alla semplicità planimetrica dell’edificio, Castiglioni fa corrispondere un articolato sviluppo in alzato, dove sequenze di pareti diversa-
L
mente allestite evidenziano la varietà cromatica e materica dispiegata sotto dell’ondulata copertura di brillanti lamiere in zinco-titanio, distesa su travi di legno lamellare. All’esterno l’accesso alla cantina, segnato da una pavimentazione in cemento e porfido, si snoda, oltre la casa del custode, tra la parete di contenimento del terreno, realizzata con gabbie me-
La cantina dell’azienda vinicola “Valentina Cubi” progettata da Giovanni Castiglioni con AcMe Studio
moda
talliche riempite con pezzame di pietra di Vicenza, e la parete curva in pietra chiara, messa in opera secondo cinque diversi spessori. All’interno, una passerella aerea immette negli ambienti di vendita, di produzione e negli uffici amministrativi, dove le pareti cementizie e le travature metalliche, entrambe lasciate a vista, dichiarano la loro funzione strutturalmente portante. Al piano superiore la sala per la degustazione si apre sul vigneto e sulle colline circostanti. Attraverso un montacarichi, finemente rivestito in listelli di legno, e una rampa metallica dall’andamento irregolare, dalle maestranze di cantieri subito denominata «la scala ubriaca», si può raggiungere il piano interrato dove si trova: l’ingresso carrabile per il carico e scarico dei prodotti, la cantina con le grandi botti metalliche, che occupano uno spazio a doppia altezza, un’area visitatori, la «barricaia» e la zona per la conservazione delle bottiglie storiche, una sorta di archivio vinicolo. I prospetti esterni della cantina, in pareti cementizie, sono rivestite di lamine di zinco-titanio con inserti di multistrato okumè, un legno africano e in sommità un’asola anulare vetrata stacca la volumetria scatolare dell’edificio dalla sinuosa copertura curva. Castiglioni allestisce nella cantina «Valentina Cubi» un’allegra commistione di materiali e colori che, grazie a una perfetta cura dei dettagli costruttivi, ben si amalgamano tra di essi e si inseriscono armoniosamente nel paesaggio verde circostante.
Bracciali, pietre, brillanti… Dove osano gli uomini di Roselina Salemi
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uando abbiamo visto Bruce Willis, quello di Die Hard, quello che guai a incontrarlo se sei un cattivo, con girocollo e ciondolo di Cesare Paciotti (pendente con pugnale) anche in versione turchese, abbiamo capito che un’epoca è finita. Da quando David Beckham (che adesso viene a stare in Italia) ne porta alle orecchie due di taglio ottagonale, purissimi, i diamanti non sono più i migliori amici di una ragazza. Ma di qualsiasi ragazzo, purché finanziariamente ben fornito e abbastanza vanitoso da infrangere il fragile tabù dei gioiello «solo femminile». I jewel designer hanno un grosso problema: devono trovare la via di mezzo tra una sobrietà non proprio noiosa e lo sfarzo del grossista di coca colombiana o del rapper anni Ottanta. Stefano Gabbana porta ai lobi strepitosi rubini, che gli stanno benissimo. Valentino Rossi è divertente con il piccolo orecchino e la catena d’oro al collo. Accettabile il braccialetto di Marcello Lippi, come i due di Diego della Valle, deludente l’ultimo slancio post- adolescenziale di Harrison Ford. Colin Farrell è un tantino esagerato: la catena al polso, il grosso anello d’oro e
platino, più la doppia collana etni- trati tutti. Gli stilisti. Tiffany, con ca di perline, cuoio e conchiglie ciondoli e virili anelli, Bliss,con la fanno molto Miami Vice, mentre collezione in acciaio, diamanti e leJohnny Depp si sta affezionando gno, Bulgari, Cartier (molto inviallo stile Jack Sparrow anche fuori dal set: bracciaRaul Bova letti di pietre colorate, giroindossa collo di cuoio e amuleti vaun bracciale ri. I testimonial hollywoodi Carbone diani più o meno incoraggiati, come Brad Pitt che ha firmato per Casa Damiani «D-Side», una linea di grande successo (fedi, anelli, ciondoli) ci sono già. Raoul Bova posa per la linea Salvini e Stefano Bettarini, con triple catene d’argento per Rosato. Casa Damiani ha cominciato con gli orologi, i gemelli, i copribottoni da portare la sera. E siamo arrivati alle piastrine di oro rosa con piccoli diamanti (ne ha una minimal anche George Clooney), ai bracciali, ai gioielli da giorno. E siamo a Zeus, una linea di gioielli per lui, firmata Morellato. O ai rosari trasgressivi visti addosso a Jason Muirbrook. Nel nuovo mercato, ormai, sono en-
diato dalle ragazze il braccialetto rigido di oro giallo) o Van Cleef. Persino Harry Winston, il gioielliere delle regine, ha pensato una collezione dove all’abito impeccabile si accompagna il gioiello, considerato «la più importante tendenza del XXI secolo nel lusso maschile». In Francia, dove la vendita di gioielli da uomo è raddoppiata negli ultimi due anni, Marie-Hélène Marin (Liberation) scrive che «gli omosessuali sono stati i pionieri, ma gli etero osano molto di più». E non è il caso di farsi troppe domande: il gioiello maschile (di caucciù e oro, di plastica e argento) è stato nel frattempo sdoganato dal popolo televisivo dei tronisti. Il confine tra lui e lei si assottiglia. Alle signore sono rimaste le perle, per il momento. A meno che qualcuno non ricordi i giri di collane preziose che portavano i maharajà e ci faccia un pensierino su. Chi potrebbe provarci? Lapo?
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i misteri dell’universo
MobyDICK
ai confini della realtà
l mondo odierno, basato sulle auto, sugli spostamenti veloci e sulla climatizzazione, ha bisogno crescente di energia, dato che la crescita dipende dall’aumento degli utenti desiderosi di avere livelli di «benessere» simili a quelli di europei e americani (cinesi e indiani in primis) e della richiesta procapite di energia, dovuta, in Occidente, ai crescenti spostamenti in particolare in aereo e alla diffusione dei condizionatori. L’ottimizzazione dei consumi nelle macchine che usano energia può contenere ma certo non annullare la crescita. Non parleremo qui degli effetti negativi associabili all’aumentato uso dell’energia, ma consideriamo la questione della sua produzione su scala temporale di oltre una generazione. Ora sono utilizzate le seguenti fonti:
I
- q u e l l a f o s s i l e (carbone, petrolio, metano), che sta raggiungendo il picco della produzione per il petrolio e lo raggiungerà anche per le altre fonti, di cui la Cina ha le massime riserve per il carbone e l’Iran per il metano (motivo certo presente in un’eventuale guerra contro questo paese). Terminata pare la scoperta di grandi giacimenti di petrolio e metano del tipo standard, con gli attuali prezzi al barile diventa possibile, ma con costi ambientali assai elevati, estrarre il petrolio dalle sabbie bituminose esistenti in grandi quantità in Nord America, specie nell’Athabaska; e questo certamente avverrà; - quella nucleare da fissione, dove la disponibilità in rocce con concentrazione abbastanza elevata e.g. la pechblenda uranite (di cui alcune tonnellate provenienti dalla Boemia furono donate ai coniugi Curie che ne estrassero il radium) si esaurirà più o meno in contemporanea al petrolio, di cui ha seguito l’aumento dei prezzi; ma l’uranio è disponibile in immense quantità nel granito e potrebbe trovarsi un modo non costoso per estrarlo; - quelle cosiddette rinnovabili, ovvero l’alcol da fermentazione vegetale (che tuttavia richiederebbe un’estensione dei terreni coltivati a scapito delle foreste), quella eolica (con problemi di immagazzinamento e alti costi di installazione), quella solare (che richiederebbe di ricoprire una quantità immensa di territorio con pannelli; ma la soluzione potrebbe venire dall’installazione di immensi pannelli, estesi anche milioni di km quadri, nello spazio, con trasmissione dell’energia verso la terra via radiofrequenze); - quella nucleare da fusione. Sulla cosiddetta fusione calda si lavora da oltre mezzo secolo e chi scrive ricorda che quando era studente di fisica si assicurava l’ottenimento dell’«energia solare in miniatura» nel giro di trent’anni. Ne sono passati una quarantina e si è ancora fermi a eventi energetici da fusione della durata di una piccola frazione di secondo, di alta potenza ma di trascurabile energia. Il problema è un mix di modellistica dei processi in corso, di complicatissima matematica dei problemi altamente nonlineari da risolvere, di speciale
L’energia che viene dal vuoto di Emilio Spedicato tecnologia per contenere magneticamente i plasmi caldissimi prodotti dalla fusione. Se questo approccio, di cui sono state studiate molte varianti, avrà mai successo, non lo sappiamo: come nella matematica esistono problemi per cui non si può trovare una soluzione (esempio il decimo problema di Hilbert), così potrebbero esistere problemi nella tecnologia al di là delle nostre capacità. Sulla fusione fredda abbiamo scritto in un precedente articolo, osservando come sia stata liqui-
data come impossibile sulla base di un modello incompleto, come dimostrò il grande fisico italiano Preparata, lavorando al problema con un modello dove l’equazione di Schroedinger era formulata non solo localmente ma per tutto il reticolo del cristallo entro cui viaggiava il deuterio. Dato che la fusione fredda risolverebbe il problema energetico con costi bassissimi, con disponibilità del deuterio per milioni di anni, con sicurezza assoluta e assenza di scorie, sarebbe un
Si potrebbe ottenere modificando con un campo magnetico quelle particelle virtuali fatte di coppie di elettroni e positroni che attraverso un particolare processo diverebbero reali. Una macchina già costruita e brevettata ci dice che funziona...
risultato che toglierebbe motivo di esistere a vari enti fra cui le società petrolifere, i quali quindi lo affrontano come facevano gli imperatori romani o cinesi nei confronti degli inventori che rischiavano di rendere disoccupati gli schiavi.
Assai recentemente mi è stata presentata un’idea che potrebbe essere anche più semplice di quella della fusione fredda. L’autore è un ingegnere e fisico italiano, di cui qui taciamo il nome, proveniente da un’esperienza sia industriale che editoriale. Questi è partito dal noto fatto nella fisica quantistica dell’esistenza di coppie di elettroni e positroni, che appaiono e scompaiono in continuazione dal vuoto, e sono definite particelle virtuali associate all’energia del vuoto. Ebbene se si modifica con un campo magnetico l’orientamento relativo dello spin di tali particelle, esse perderebbero la virtualità per divenire reali. In questo modo si può fare assorbire l’elettrone dalla materia ambiente e inviare il positrone, ovvero un fascio di questi, contro un obiettivo materiale, dove questi, interagendo con gli elettroni, loro antiparticelle, si annichilerebbero con produzione di energia, secondo la legge di Olinto De Pretto, di cui Einstein si impossessò. È stata costruita e brevettata una macchina e si ha indicazione che il processo funziona. L’idea è al vaglio di esperti di fisica quantistica e di elettronica. Un’idea che se trovata priva di flaw, meriterebbe per il suo autore almeno un Nobel.