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Oggi il supplemento

MOBY DICK

DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA

di e h c a n cro

il Creato

di Ferdinando Adornato

OTTO PAGINE SPECIALI

Aborto «No al muro contro muro» Bonzi, Dalla Torre, Di Pietro, Galeotti, Mecucci, Morresi, Principe, Roccella, Sistina, Tavella a pagina 9

declino ECONOMIA GLOBALE: L’ITALIA AFFONDA pagina 7

di Carlo Secchi

nomine DOPO PRODI: IL CENCELLI DEI DS di Gianfranco Polillo

pagina 8

stati uniti I REPUBBLICANI HANNO NOSTALGIA DI REAGAN Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

di William Kristol

libano

Crisi di governo. Ma anche di una storia, di una cultura, di una visione del mondo. Vengono al pettine nodi da sempre irrisolti. Nella guerra intorno a Veltroni è in gioco il futuro di un’intera area politica.

DI NUOVO SULL’ORLO DELLA GUERRA CIVILE di Kassem Ja’afar

GIORNO DELLA MEMORIA: RUTKA NEL GHETTO di Pier Mario Fasanotti pagina 24 ISSN

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

1827-8817

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ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 29

IN REDAZIONE ALLE ORE

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crack

Consigli non richiesti al Pd: godersi la libertà da Prodi, non macerarsi e pensare al futuro

IL VELTRONISMO ANDRÀ OLTRE LA SINISTRA? di Renzo Foa iaffiora l’eterno vizio della sinistra italiana, quello di macerarsi davanti alle sconfitte, di indicare “i pugnalatori”, di chiedere autocritiche, di consumarsi negli autodafè. Speriamo che duri poco. Perché se è vero che il voto del Senato ha chiuso un’epoca,Veltroni e coloro che si sono impegnati nella costruzione del Pd sbaglierebbero a non sentirsi finalmente liberi. Innanzitutto liberi da Romano Prodi. Ad essere precisi dall’impronta che egli ha dato in questi dodici anni allo schieramento di cui è stato il leader. Sbaglierebbero ad attardarsi a cercare le cause di un crack così rapido.

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Ormai le ragioni del fallimento di questa storia sono state già individuate e discusse. Tutte. Dall’anomalia costituita dall’alleanza tra chi pensa all’innovazione e chi vuole conservare l’esistente, dai complessi di superiorità e dall’incapacità di trovare una mission al governo fino – risalendo nella storia – all’esaurimento dei filoni del comunismo italiano e del “cattolicesimo democratico”. Su questi argomenti è ormai

davvero difficile aggiungere altro a mano qual’era è stato considerato un inquanto è stato detto e scritto, negli ulti- terlocutore credibile. mi dieci o vent’anni. Miliardi di parole. Ma sono singoli episodi. È stato invece Perché perdere altro tempo? Perché non l’intero corso della gestione veltroniana liberarsi finalmente dell’abitudine di ri- del Pd a creare una divaricazione e a conoscere gli errori a tempo scaduto? Si prefigurare, per il futuro, due passi dipagherebbe forse qualche prezzo, ma versi della sinistra. Li ha prefigurati soltanto i conti prima o poi si devono sal- tanto, perché il sindaco di Roma è stato dare. Sarebbe utile, piuttosto, comincia- come al solito prudente. Ma nelle élites re da subito a pensare al futuro. E non a del centrosinistra e, più in generale nel fare di tanto in tanto un passo in avanti, suo sistema allargato di potere, questo dualismo è diventato chiaro. Ha pesato. per poi farne subito due all’indietro. Un esempio? Quando nel giugno scorso Ha creato una condizione di schizofreWalter Veltroni assunse la guida del Pd, nia. con il famoso discorso del Lingotto, c’e- Veltroni avrebbe dovuto essere più ra nelle sue parole una forte carica in- esplicito fin da subito e meno preoccunovativa. Certo, aveva sul piano tattico pato degli equilibri interni alla sua coail compito di far dimenticare il fallimen- lizione e al suo partito. Avrebbe dovuto to prodiano e di dare forma ad un’im- anche essere conseguente, su una parola-chiave pronunmagine diversa. Ma Inutile attardarsi ciata al Lingotto: sul piano strategico chiesto di riquell’uscita aveva a pensare alle ragioni aveva durre, fin dalla Fiun altro significato: nanziaria del 2008, avrebbe dovuto riadella sconfitta: di due punti la presprire una prospettiera annunciata dal 2006 sione fiscale e va ad una sinistra avrebbe dovuto che stentava ad ed è già stata spiegata quindi battere i puuscire dalle sue culgni sul tavolo quanture del Novecento con fiumi di parole. do si è accorto che il e che vedeva, giorOra, se vuole sopravvivere, lavoro di Padoa no dopo giorno, erodere il rapporto il nuovo partito può soltanto Schioppa era andato in altra direziocon un elettorato correre davvero da solo, ne. che vive nei probleMa soprattutto mi del Duemila. liberandosi del passato avrebbe dovuto esAvrebbe dovuto risere consapevole cominciare a parlae scommettendo che, tanto, alla fine re ai ceti produttivi, sull’innovazione la responsabilità di a coloro che contriuna sconfitta del buiscono al Pil nanon solo istituzionale governo sarebbe zionale, dai lavorastata scaricata su di tori autonomi agli ma anche politica. lui. Sì, certo l’implooperai dell’industria, agli imprenditori e, in generale, a sione è avvenuta grazie all’azione di chi resta ottimista sulla possibilità di ri- una procura, come quella di Santa Maria Capua Vetere, o grazie alla solitudine mettere in moto il Paese. in cui si è trovato Lamberto Dini. Ma la Se questo era il compito di cui si era colpa è stata attribuita a lui, che pure caricato Veltroni – e in fondo lo si era aveva passato mesi a rassicurare Prodi detto e ripetuto – solo degli sprovvedu- e aveva perfino detto che il professore ti avrebbero potuto pensare che nel sarebbe rimasto a Palazzo Chigi fino al giro di qualche mese non si sarebbe 2011. Nelle ultime 24 ore sono stati i aperta una crisi. Ci sarebbe voluta prodiani per primi a dare al vertice del un’abilità diabolica per evitarla, per- Pd la responsabilità del crack. E a laché “il veltronismo” al potere sarebbe sciar intendere di poter anche romin ogni modo entrato in conflitto con pere e scegliere una via autonoma, tutto quel che ha rappresentato Prodi. come accadde dopo il ribaltone del Oggi, l’attenzione è concentrata su sin- 1998. goli passaggi e su qualche frase: ad Veltroni, in altri termini, non ha saesempio la rivendicazione della “voca- puto scegliere tra la costruzione futura zione maggioritaria” del Pd o l’annun- e il salvataggio di un governo che tutti cio, dato nel pieno del caso Mastella, di sapevano, Prodi per primo, che sarebbe voler “correre da soli” alle prossime ele- caduto. E ora rischia di restare prigiozioni o, più concretamente, l’apertura niero di una resa dei conti e di una madel dialogo diretto con Silvio Berlusco- cerazione, fisiologiche nella politica, ma ni, che nel giro di un pomeriggio da Cai- pericolose: il loro esito potrebbe essere

quello di pregiudicare l’intera operazione Pd. C’è il rischio di un pantano.

Mentre, al contrario, il voto di sfiducia dell’altra sera – che certo sancisce una sconfitta collettiva di tutte le sinistre – può suonare per il Pd come il momento della libertà dai vincoli del passato. È l’occasione per evitare che l’impresa resti incompiuta (come del resto è nella storia del dopo 1989). Ma soprattutto, senza il peso negativo del prodismo, è il momento di dare un senso all’impresa avviata al Lingotto. Di dimostrare che è segnata da una cultura per il Duemila e che è impegnata non solo nell’innovazione istituzionale, ma anche in quella politica. Di andare davvero “da sola”. Oltre la sinistra che c’è stata finora e di cui Prodi è stato l’ultimo simbolo. O, più semplicemente, oltre la sinistra.


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Parla Antonio Polito, che si schiera per un governo istituzionale

“Le sinistre sono due. È ora di dividersi” colloquio con Antonio Polito di Errico Novi ROMA – Improvvisamente arriva il momento di rimettersi in discussione. E di ammettere che il percorso compiuto finora non basta. Capita alla sinistra, incalzata dalla prospettiva di una nuova complicata campagna elettorale. A descriverci il peso della questione è Antonio Polito. Reduce da una polemica a distanza con il ministro, uscente e ultraprodiano, Giulio Santagata. Dopo l’intervento del senatore democratico sul Foglio di ieri, è arrivata subito la reprimenda di Santagata, che ha inviato l’ex direttore del Riformista a seguire le orme di Capezzone. Troppo dura l’analisi sul prodismo. Tanto da meritare un processo alle intenzioni? «Be’, a parte il fatto che ”fare come Capezzone” non è una frase utilizzabile come se fosse un’offesa. Ma il punto», dice Polito, «è che il Pd deve aprire una fase di profonda autocritica. Soprattutto evitare di spiegare tutto con la logica del tradimento, ieri Bertinotti oggi Mastella. E riconoscere che la crisi nasce dalla perdita di contatto con il Paese». È tutt’altro che facile riuscire a fare autoanalisi mentre si preparano i manifesti per la campagna elettorale. «Non c’è dubbio. Bisognava arrivarci prima. Magari nel precedente quinquennio in cui siamo stati all’opposizione, e avremmo avuto il tempo di elaborare la piattaforma di una sinistra moderna. Non lo si è fatto e ci si è abbandonati nel pasticcio dell’Unione». Per lei l’Unione è un pasticcio. Giudizio raro dalle sue parti. «L’Unione è il frutto del prodismo. Quello che sostengo, e che non piace a Santagata, è semplice: questa formula politica ha finora prevalso su tutte le altre elaborate

Un decennio sciupato che certo il Pd non può recuperare di Gianfranco Pasquino Per ragioni di stima e di amicizia, abbiamo chiesto a Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica nell’Università di Bologna, un commento sulla crisi della sinistra a caduta di Romano Prodi è una sconfitta dell’intero centro-sinistra, della sua politica e della sua cultura politica, ma è anche uno sconfitta della concezione di governo di Romano Prodi. Non si governa un paese di media importanza da professore, da manager, da, come dichiarò lui stesso, assistente sociale. Lo si governa da uomo politico e da capo di partito. Prodi ha più volte rinunciato ad assumersi le responsabilità di capo di partito: quando nacque l’Ulivo, dopo la sua defenestrazione nell’ottobre del 1998 e, più grave, dopo la sua vittoria nelle primarie dell’ottobre 2005. Ancora più seria e, alla fine, decisiva è stata la sua rinuncia a dettare i tempi della nascita del Partito democratico e ad assumerne la leadership confinando Veltroni dove doveva stare: in posizione esecutiva e in lista d’attesa per la successione. In tutte le democrazie occidentali il capo del governo è il capo del partito più grande della coalizione e, viceversa, diventa capo del governo il capo del partito che vince le elezioni. Altrimenti, entrambi si destabilizzano reciprocamente. Naturalmente, una leadership politica robusta sarebbe stata più facilmente praticabile se la coalizione di centro-sinistra fosse stata costruita su un programma fatto non di 281 pagine, ma di cinque cartelle che contenessero alcune poche priorità. Se il centro-sinistra non avesse per l’ennesima volta mostrato il peggio di se stesso in materia di istituzioni e di opportunismo elettorale, formulando proposte pasticciate e particolaristiche. Se ciascuno dei partiti di centro-sinistra avesse operato in chiave solidale e non personalistica. Tuttavia, il massimo di personalismo è stato esibito da Veltroni e dalla sua esibizione lideristica del e nel Partito democratico. Affermazioni sbagliate: “vocazione maggioritaria”, dichiarazioni minacciose: “andremo da soli alle elezioni”; silenzi imbarazzati sulla laicità e sulla sinistra hanno precostituito uno scivolamento verso il centro che ha, inevitabilmente e giustamente, incontrato resistenze e opposizioni, purtroppo sorde. Deve ancora aprirsi un dibattito sul fatto, sul non-fatto, sul malfatto e sulle responsabilità politiche di tutti e di ciascuno. Non c’è un tappeto abbastanza grande sotto il quale nascondere gli errori. Il centro-sinistra poteva risolvere alcuni problemi del paese, ma soltanto temporaneamente. Riesce a rappresentare il suo elettorato, ma per frammentazione e non sapendo formulare una visione politica di respiro e non onirica. Soprattutto, il centro-sinistra, prigioniero delle sue contraddizioni, ha fin da subito rinunciato ad educare il suo elettorato continuando a evocare le culture politiche del passato senza trascenderle. Un partito di sinistra ha come compito costitutivo non soltanto quello di rappresentare il suo elettorato, e oltre, e di governare il sistema politico, ma anche di educare e trasformare. Ciascuno e tutti i partiti di centro-sinistra hanno blandito le loro fettine di elettorato. Nessuno ha tentato l’operazione di cambiarne la cultura politica, disegnando un futuro possibile, con costi e doveri, prima ancora che con vantaggi e diritti, i quali, a loro volta, si sono spesso tradotti in rivendicazioni sbrigative e ultimative. Un decennio sciupato non può essere in nessun modo recuperato dalla frettolosa e improvvisata creazione del Partito democratico, il quale, anzi, piuttosto che essere parte della soluzione, è in special modo parte del problema. Senza infingimenti, senza blandizie, senza vittimismi (contro i cosiddetti“poteri forti”: in democrazia, l’elettorato è il potere forte), la sinistra deve ripensare se stessa.

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a sinistra, ma è completamente inadeguata alla modernità». Resta il nodo: come si fa a inventare una proposta completamente nuova con le elezioni probabilmente vicine? «Innanzitutto va riconosciuto che Walter Veltroni ha indicato a tutti un’ipotesi di sinistra liberale e riformista, molto moderna, attorno a cui si svolge un lavoro intenso. Penso a chi si adopera in questo, da Michele Salvati a Enrico Morando e Giuseppe Caldarola. Riconosco che finora però le tesi non hanno nemmeno accennato a tradursi in una iniziativa politica». Mettiamo in fila tre punti chiave. «Il concetto di crescita è alla base del nuovo corso francese mentre per la sinistra italiana è un’idea ancora problematica. Si mette al primo posto l’equità, ma non c’è giustizia sociale ed equità senza sviluppo. Poi bisogna rassegnarsi all’idea che lo Stato elefantiaco è nemico dei più deboli, perché impedisce di ridurre le tasse. E che aprirsi al mercato senza remore è l’unica molla per sostenere sia il lavoro che i salari». Insomma, Polito: è l’alleanza con la sinistra massimalista che va messa

in archivio, non solo il prodismo in particolare. «Nel Regno Unito, in Germania, in Svezia è così. Credo che anche in Italia non sia più praticabile un’alleanza di centrosinistra come l’abbiamo concepita finora». Significa rassegnarsi alla sconfitta. Lei quasi invoca un nuovo periodo di opposizione, per il Pd. «Nei Paesi normali stare all’opposizione non è un evento infausto. Anche perché altrove l’azione dei governi non procede per accumulo su quelli precedenti. Blair riprende il filo della Thatcher e va avanti, magari con una maggiore attenzione all’equità». L’unica alternativa d’altra parte è il governo istituzionale. ««Solo così evitiamo di sprecare la legislatura. Dopodiché dubito che al Paese convenga un lungo esecutivo di larghe intese. Ma averne almeno un assaggio è l’unico modo perché a sinistra maturi il tempo della modernità».

De Giovanni:“Sì, corriamo da soli” ROMA – «Devo ammetterlo: non ci speravo. Non mi sarei aspettato un Walter Veltroni capace di muoversi in chiave antiprodiana». Non se lo aspettava, Biagio De Giovanni tanto che, dopo una vita da intellettuale organico al Pci e al Pds poi, ha preferito la Rosa nel

La sconfitta è di tutta la sinistra

pugno al Pd. E oggi? «Oggi mi pare che aver definitivamente seppellito il prodismo sia una cosa importante. Può nascerne un’evoluzione inaspettata, e soprattutto una sinistra riformista mai più condannata ad allearsi con le componenti massimaliste». Perché, ag-

giunge il filosofo napoletano, «è questo l’evento che si è verificato: non la sconfitta della sinistra ma la fine dell’ulivismo classico, che ho sempre considerato insostenibile.Veltroni ha compiuto mosse che aiutano a seguire un percorso finora improponibile. Dopodiché non

possiamo aspettarci che il Pd assuma le sembianze della sinistra europea tradizionale, socialdemocratica. Quel treno è perso per sempre. Starà a mezza strada tra la prospettiva liberale, quella socialista e la socialdemocrazia. Ma va bene così».


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È finalmente tramontata l’utopia del connubio tra cattolici e comunisti in un solo partito

Il fallimento del dossettismo di Rocco Buttiglione

Rosy Bindi, Romano Prodi, Walter Veltroni. In basso: a sinistra Giuseppe Dossetti, a destra Augusto Del Noce

l governo Prodi è caduto in Parlamento. Non è caduto perché travolto da una forza maggiore dell’opposizione. È caduto per decomposizione della maggioranza. In un certo senso il governo inizia a morire nel momento in cui Veltroni e Berlusconi si parlano e cercano di delineare un sistema di regole, scritte e non scritte, che consentano un funzionamento “normale” della democrazia italiana. Nel momento, però, in cui viene meno la pregiudiziale antiberlusconiana, cioè l’identificazione surrettizia di berlusconismo e fascismo, viene meno anche il collante della coalizione di governo ed emergono tutte le sue esplosive contraddizioni interne. In altre parole, la coalizione di governo, per resistere, ha bisogno di una sorta di coazione esterna, di un clima di emergenza. Veltroni pensava, giustamente, che il paese avesse bisogno di uscire da questo clima di bipolarismo barbaro, che usa un linguaggio da guerra civile ed in cui la competizione politica sui programmi e sui valori è sostituita dal dileggio dell’avversario e dalla sua demonizzazione. La coalizione di centrosinistra si rivela però incapace di realizzare questa transizione. È davanti alla esplosione della coalizione che Veltroni si vede costretto a correre da solo e, di conseguenza, a costruire un sistema elettorale che gli consenta di correre da solo, capovolgendo la posizione tradizionale dei Ds.

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Esplode la coalizione di centrosinistra, finisce l’Ulivo. Non ci si faccia ingannare dalle apparenze. Se non fossero stati i centristi a far cadere il governo lo avrebbe fatto di qui a poco la sinistra. La ragione è semplice: questo centro e questa sinistra non possono governare insieme, sono reciprocamente incompatibili. Non è solo il fallimento di un governo e di una coalizio-

ne. È il fallimento di una cultura politica, la cultura politica azionista e dossettiana di cui Prodi è stato la espressione politica.

Non è riuscito l’incontro dei cattolici e dei comunisti. Gli azionisti ed i dossettiani erano convinti che nella Resistenza italiana si fosse realizzato un incontro storico dei cattolici, dei comunisti e dei liberali che generava una forma culturale e politica superiore sia al comunismo che alle democrazie occidentali. Questa sintesi superiore imponeva una revisione radicale ed anche una abiura parziale del comunismo tradizionale, del liberalismo tradizionale e

quista negli anni post-conciliari quella che Del Noce chiamava la Repubblica della Cultura. Dopo la caduta del muro di Berlino azionismo e dossettismo (il dossettismo è la variante cattolica dell’azionismo) giungono anche alla conquista del potere politico con l’Ulivo e con l’Unione. Il Partito democratico avrebbe dovuto essere il frutto maturo di questa lunga gestazione politica. Era necessario che il dossettismo godesse il suo momento di successo politico perché solo in questo modo era possibile arrivare alla dimostrazione evidente del suo fallimento. Così è stato.

Il Pd dovrebbe realizzare la profezia di Giuseppe Dossetti che Augusto Del Noce aveva combattuto. Ma la storia sta bocciando ”la lunga marcia” dei cattocomunisti del cattolicesimo tradizionale. Avrebbero potuto incontrarsi fra loro solo un nuovo comunismo, un nuovo liberalismo ed un nuovo cattolicesimo. Da questo presupposto discende, fra l’altro, la interpretazione dossettiana del Concilio ecumenico Vaticano II come rottura assoluta con il passato cattolicesimo, bollato in blocco come integrista. La novità politica avrebbe avuto bisogno, per realizzarsi compiutamente, di una riforma religiosa e teologica. È in questa luce che si comprendono anche alcune sorprendenti affermazioni degli onorevoli Bindi e Castagnetti secondo i quali i vescovi italiani sarebbero teologicamente in ritardo rispetto alla novità non solo politica ma anche religiosa dell’Ulivo. Questa idea azionista e dossettiana con-

Diceva Del Noce che comunismo e cattolicesimo sono essenze irriducibili, non mediabili. E così infatti è stato.

I comunisti sono rimasti fuori dal Partito democratico, hanno rifiutato di lasciarsi riassorbire nella sintesi prodiana. Anche la maggioranza dei cattolici è rimasta fuori e, comunque, la Chiesa italiana si è rifiutata di attribuire ai cattolici dossettiani nel Partito democratico quel ruolo di sua rappresentanza laica che essi si erano attribuiti. La grande sintesi che avrebbe dovuto abbracciare tutti gli italiani ricostruendo l’unità morale della nazione finisce con l’avere il consenso, nel migliore dei casi, di un po’ meno di un terzo dell’elettorato. In effetti dopo il crollo del comunismo diven-

ta difficile proporre una sintesi di comunismo ed economia di mercato. Si pone, se mai, il problema di come coniugare libertà e solidarietà, ma questa è altra cosa, che appartiene, se mai, all’ambito della dottrina sociale cristiana e del pensiero liberale. Il comunismo, a livello mondiale, si è dissolto davanti ad una opposizione intellettuale, religiosa e morale, non è stato riassorbito in una sintesi di ordine superiore che ne conservi alcuni elementi. Dossettismo ed azionismo sono disarmati davanti all’emergere di una globalizzazione che ridimensiona il ruolo dello stato ed il potere della politica ed impone di ripensare in modo del tutto nuovo il rapporto fra stato e società e fra libertà e solidarietà. Egualmente disarmato è il dossettismo davanti all’emergere delle questioni della bioetica, in una fase storica in cui l’uomo acquisisce capacità inaudite di manipolare se stesso. Qui si delinea per i cattolici un nucleo di valori non negoziabili che resiste al primato assoluto della mediazione politica che è invece proprio della ideologia dossettiana. Per giungere all’incontro cattolici e comunisti devono rinunciare, ciascuno per suo conto, al proprio orizzonte di riferimenti ideali. Si incontrano dunque sul terreno di un pragmatismo assoluto e di un primato della politica che si stacca da ogni riferimento vincolante di valori che la preceda. Cessano, in tal modo, di essere popolari. Rinunciamo a mostrare (ma il lettore vi arriva facilmente da solo) in che modo le singole tappe del fallimento del governo Prodi si lasciano ricondurre alla insufficienza di questi suoi presupposti ideali. Dalla presa d’atto di questo fallimento ideale bisogna comunque partire per ripensare fuori da schemi consumati il ruolo dei cattolici, dei liberali ed anche della sinistra riformista nel futuro della democrazia italiana.


diario

del giorno

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Fini a Matrix Per il leader di An, “il Pdl non è più nell’agenda politica del centrodestra. Berlusconi è il nostro candidato premier”.

L’appello di Casini Il leader Udc lancia un appello “alle forze politiche del centrodestra e del centrosinistra per arrivare ad un governo di responsabilità nazionale che affronti il tema della legge elettorale ma anche questioni drammatiche come il caso rifiuti. In caso contrario l’unica soluzione sono le elezioni subito”.

Campagna elettorale Il Cavaliere interviene sulla crisi: “occorre andare subito al voto e con questa legge elettorale. Se vinceremo e qualunque sia il risultato chiameremo tutti a un atto di responsabilità”.

Sondaggio SWG Che cosa succederebbe se si votasse nelle prossime settimane con l’attuale legge elettorale? Vittoria del Centrodestra (se si presentasse unito) e maggioranza sia alla Camera sia al Senato per Silvio Berlusconi, anche se il Partito Democratico e la sinistra radicale corressero insieme.

Prodi: «Farò il nonno»

La sinistra non vuole andare al voto e preme su Napolitano

Al Quirinale comincia il ballo dell’esploratore

Tramonta l’ipotesi di un reincarico al professore che dichiara: “Non sono disponibile, non posso essere io a guidare un esecutivo per le riforme. Se si perde in parlamento anche solo per un voto, vuol dire che questo schema ha perso. Farò il nonno”.

Marini smentisce Il presidente del Senato, Franco Marini, ha smentito le voci che lo indicavano in pole position per la guida di un esecutivo di transizione: “È da un anno che dico che la responsabilità che ho è già grande e quindi non aspiro proprio ad avere alcun altro incarico”.

Pentimenti e tradimenti Tommaso Barbato, capogruppo dell’Udeur al Senato: “sono profondamente dispiaciuto per il mio gesto di ieri, ma nel voto di Cusumano di ieri ho visto il tradimento di tanta gente della mia Campania che gli ha affidato il proprio voto.

di Susanna Turco uova legge elettorale versus nuovo governo, esecutivo di transizione versus elezioni subito. Con il presidente degli industriali che si pronuncia decisamente per la prima ipotesi, insieme coi vertici del Pd, ma anche - almeno in prima ipotesi - con l’udc di Pier Ferdinando Casini, mentre nel centrodestra Berlusconi batte con forza per la seconda soluzione.

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Nelle ore in cui al Quirinale il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano comincia con Franco Marini e Fausto Bertinotti il giro delle consultazioni che si chiuderanno martedì con il colloquio coi rappresentanti dei partiti maggiori, tra Palazzi e sedi politiche si concretizzano le linee di condotta per uscire dalla crisi apertasi giovedì con la caduta del governo Prodi. L’alternativa è tra una soluzione che porti a una modifica della legge elettorale prima di andare alle urne, da un lato, e il voto in primavera con il Porcellum. E se per questa seconda soluzione è tornato ieri a pronunciarsi con forza Silvio Berlusconi, escludendo ogni ipotesi di governo istituzionale («non ci saranno manovre di palazzo, si deve votare con questa legge nel piu’ breve tempo possibile»), in piena sintonia con il presidente di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, nel corso delle ore i fautori della soluzione ”di transizione” hanno tentato ogni possibile triangolazione per allargare le basi della proposta e fare sponda il Quirinale. A pronunciarsi ufficialmente in favore di un esecutivo che sia in grado di affrontare le elezioni è stato anzitutto il Partito democratico. Riuniti con Romano Prodi nel loft romano di piazza Sant’Anastasia, per una volta i vertici del Pd hanno espresso una posizione unitaria: no a elezioni anticipate e ricerca di un’intesa tra le forze politiche sulla riforma della legge elettorale. In particolare, Prodi ha negato di vo-

Montezemolo: «Governo per le riforme»

ler guidare un nuovo esecutivo e sottolineato che non ci si può ripresentare al giudizio degli elettori con questa legge elettorale e senza varare una riforma che semplifichi il quadro politico.

Poco dopo ha sciolto la riservatezza anche l’Udc, con una sibillina dichiarazione dettata da Pier Ferdinando Casini ai giornalisti: «Facciamo appello alle forze politiche del centrodestra e del centrosinistra per un governo di responsabilità nazionale», è la proposta avanzata dal leader centrista «ma se non si trova l’accordo su questo, l’unica alternativa è il voto subito». Parole, queste, che subito il centrosinistra ha voluto intendere come un’apertura: «Apprezziamo le parole di Montezemolo, cui si aggiungono quelle di Casini», ha detto il vicesegretario del Pd, Dario Franceschini. E subito il capogruppo del Pd alla Camera Antonello Soro ha spiegato: «È interessante che ci sia la disponibilità di qualcuno. La nostra c’è. Poi Napolitano saprà fare la regia. Ma noi siamo disponibili».

Favorevole a una soluzione di transizione, soprattutto per ottenere una nuova legge elettorale alla tedesca, Rifondazione comunista, ma anche (a certe condizioni) Verdi e Sinistra democratica, mentre solo i Comunisti italiani, nella sinistra, si sono detti fermamente contrari. In serata, ha circolato nei Palazzi l’ipotesi di un mandato esplorativo, chiesto da Bertinotti per Marini, in modo da verificare le possibilità di un governo con mandato limitato, per approvare una legge elettorale alla tedesca. Ma il presidente della Camera ha precisato: «Non aspiro a nessun incarico. È circa da un anno che vado dicendo che la responsabilità che ho è già grande. Ci sarà la saggezza e la capacità del presidente della Repubblica a guidare questa nostra crisi».

Il leader di Confindustria vorrebbe un esecutivo istituzionale per “una breve ed efficace stagione di riforme condivise, nell’interesse generale”.

Missioni militari, la sinistra si defila I ministri della Sinistra radicale non hanno partecipato ieri al voto in Consiglio dei Ministri sul decretro legge che rifinanzia le missioni italiane all’estero. Russo Spena (Prc): “in aula voteremo contro”.

Attentato in Afghanistan Quattro soldati afgani sono rimasti uccisi per l’esplosione di una bomba nell’Afghanistan sudorientale, che ha distrutto il veicolo su cui viaggiavano. L’ordigno è esploso al passaggio del mezzo su una strada di Khost, non lontano dal confine con il Pakistan.

Primarie USA South Carolina, Obama in testa, Edwards avanza. Un sondaggio della vigilia del voto democratico in South Carolina vede il senatore dell’ Illinois Barack Obama in testa con il 38 per cento del voto seguito da Hillary Clinton e da John Edwards.

Gas russo in Serbia Putin intasca via serba per il gas russo e tuona su Kosovo. Vladimir Putin incassa il via libera di Belgrado per il passaggio dei tubi di South Stream attraverso il territorio serbo. E da mosca tuona: “la Russia si oppone categoricamente all’indipendenza unilaterale del Kosovo, una decisione del genere danneggerà l’intero sistema di diritto internazionale”.

Declino Italia Eurispes: fanno fatica due famiglie italiane su tre. Solo una famiglia su tre arriva al 27 del mese ed è allarme prestiti. in un anno è raddoppiata la percentuale di nuclei familiari costretti a ricorrere al credito al consumo.

Borsa Chiusura contrastata a Piazza Affari. Il Mibtel ha fatto segnare un +0,39%, mentre l’indice delle blue chips, l’S&P/Mib ha terminato in ribasso dello 0,12%. In netta ascesa, invece, l’All Stars (+1,93%).

Musica Ali Campbell ha lasciato gli UB40 dopo 30 anni di collaborazione. Il leader della band vuole lavorare da solista. La notizia è stata data dagli stessi UB40 in un comunicato.


pensieri L’ectoplasma è rifiorito

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L’INTERVENTO

e Silvio Berlusconi dice che la Casa delle libertà ”non è più un ectoplasma”vuole dire che lo spirito del tempo, di questo tempo così compresso su un ritmo presentificato, è mutato davvero di segno, di intensità e di direzione. Se la Casa delle libertà non è più un ectoplasma ma un’alleanza ritrovata, compattata tra i seggi del Senato, unita nella festa per la caduta del governo Prodi e forte di un elettorato omogeneo a prescindere, che stenta a capire quando i suoi leader sembrano inforcare sentieri divergenti, allora l’orologio della storia del centrodestra si riposiziona sui suoi tempi migliori. Insomma, i tempi del “partito del predellino”, e del suo velenoso contorno di polemiche con gli alleati, ripicche, insinuazioni non proprio esaltanti, intemerate contro i “parrucconi”, voglia di azzerare Forza Italia per trasferire l’entusiasmo delle origini in un nuovo contenitore dal nome sottoposto a sondaggi, Partito o Popolo della Libertà, insomma, questi tempi paiono consegnati alla memoria dell’anno che fu. L’aria di vittoria annunciata, la voglia matta di andare alle elezioni e vincere, meglio stravincere, contro un centro-sinistra pieno di trattini e dilaniato in una resa dei conti dove tutti sono colpevoli, ha magicamente suturato le ferite e le incomprensioni che hanno, per così dire, lasciato al palo la Casa

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di Angelo Mellone delle Libertà (chiamiamola così, in attesa di una nuova possibile definizione), priva di bussola e orfana di una seria riflessione sulle sue future prospettive di governo. L’entusiasmo, e la certezza di rappresentare una cospicua maggioranza elettorale, è certamente la migliore delle medicine. Lo si è visto l’altroieri attorno al

La caduta di Prodi ha rimesso insieme il centrodestra. Ma per tornare a governare questa volta non ci si può affidare ad un riedizione del ”contratto con gli italiani” né tantomeno a semplici strategie di marketing elettorale Senato, i caroselli di automobili, l’assembramento spontaneo di cittadini non organizzati, e questa tensione positiva è certamente un fattore incoraggiante nel momento di peggiore tensione tra cittadini disincantati e istituzioni indebolite dalla ruggine antipolitica. Epperò l’entusiasmo può essere solo un punto da cui ripartire, non il punto di arrivo, è la condizione necessaria ma non sufficiente per ripensare e ricostruire il centrodestra. Fino a oggi, in parte a causa della debolezza del governo prodiano, sempre lì lì per cadere, sempre in attesa del suo schianto, in parte a causa dei conflitti intestini che

immagine è quella di un malato che rifiuta la cura. In ospedale si direbbe dissenso informato; quello dell’Italia e della classe politica nel suo complesso di fronte a mali e diagnosi ormai note e universalmente accolte. Non c’è consesso internazionale, quotidiano estero dotato di un minimo di autorevolezza riconosciuta, ma neppure organismo indipendente interno – si pensi alla Banca d’Italia, almeno a partire dalla gestione Draghi – che negli ultimi anni non abbia fotografato con esattezza cause e rimedi di una crisi che da economica si sta endemicamente trasformando anche in sociale e morale. Stringendo all’essenziale, l’unico risultato tangibile acquisito dalla Seconda Repubblica è l’alternanza di governo. Ma a ben vedere, poiché dal 1994 ad oggi nessuna maggioranza uscente s’è vista riconfermare la fiducia dai cittadini, basterebbe questo dato per comprendere le ragioni del fallimento del sistema. Ci si arma al voto da una parte e dall’altra, si scrivono libri dei sogni più o meno enciclopedici, il più immaginifico tra questi conquista la maggioranza e poi tutto torna nel cassetto fino al successivo appuntamento elettorale. Libri dei sogni contro provvedimenti concreti. Più o meno lo spazio siderale che separa, tanto per fare un esempio, le 381 pagine di programma della coalizione che ha vinto le ultime elezioni in Italia, scritte col miele per conquistare l’universo mondo, dalle 314 crude proposte elaborate in quattro mesi e mezzo dalla commissione Attali con un manipolo di esperti di

L’

hanno logorato lo schieramento la CdL dopo le elezioni del 2006, il centrodestra ha vissuto in un vuoto di riflessione programmatica, di analisi seria e pacata di ciò che non ha funzionato nel suo quinquennio di governo, e soprattutto di ridefinizione del modello di Italia che vuole presentare ai suoi elettori. Dopo il vertice estivo tra Fini,

Berlusconi e Bossi si era deciso di convocare in tempi brevi la cosiddetta Officina, ovvero il laboratorio politico della CdL, ma il conflitto scoppiato in seno ai suoi leader ha di fatto impedito che questa iniziativa, tanto necessaria quanto urgente, potesse prende vita. Avrebbero potuto lavorarci, in rete, le istituzioni culturali, le riviste, le fondazioni che gravitano attorno all’orbita del centrodestra. Non è stato fatto, purtroppo. Ha detto bene Marco Taradash: «L’elettorato non vuole solo la vittoria del centrodestra, vuole anche un governo del centrodestra», ovvero un progetto serio, meditato, di largo respiro, di governo del Paese, che fac-

Se l’Italia è un malato che rifiuta la cura

Le larghe intese? Servono a sfidare l’impopolarità di Carlo Romano provenienza bipartisan in Francia, in grado di allarmare fin dal primo giorno corporazioni e titolari di rendite. I prossimi mesi diranno se Oltralpe la concretezza sia ancora un valore. Dalle nostre parti purtroppo ormai è assodato che non lo è più. Nessun governo, nessuna coalizione arlecchino nella Seconda Repubblica ha dimostrato di poter reggere l’urto di scelte impopolari ma necessarie. E quanto più si procrastina il momento di assumerle, tanto più cresce il livello dei sacrifici che servirebbero per invertire la rotta, aumentando l’impraticabilità delle decisioni da assumere per questo o quello schieramento. Ecco perché, per sfidare l’impopolarità, il Paese ha bisogno dell’apertura di una stagione di coesione e larghe intese. La modifica della legge elettorale può rappresentare un passo in avanti importante ma di certo non basterebbe. Urgono riforme e misure strutturali e l’euro, con il suo

cia tesoro degli errori del passato e imposti su una linea di radicale rottura col prodismo il suo piano di modernizzazione del sistema-Paese. Nel campo istituzionale, per definire un nuovo assetto della forma di governo e della forma di Stato, nel campo delle riforme economiche, per avviare quel processo di “liberazione della società” che non può arrestarsi alle finte liberalizzazioni di Bersani, nel campo della cultura civica e dell’idem sentire degli italiani, che offre da tempo i segnali di un pericolosissimo sfilacciamento e a cui solo uno schieramento imperniato attorno a un concetto forte di identità nazionale può porre rimedio. Evidentemente, l’ipotesi di ritrovarci alle urne nel brevissimo periodo non è la migliore premessa per recuperare il tempo e il terreno perduti. Al tempo stesso, è impossibile anche solo pensare di presentarsi davanti agli elettori con una mera riedizione di programma e promesse delle scorse “edizioni”della CdL. Sono mutati gli scenari, è mutata anche la consapevolezza dell’elettorato, oggi molto più esigente e disilluso che in passato. Tra la strategia di marketing del “Contratto con gli italiani” e l’inutile verbosità delle 281 pagine di programma della defunta Unione esiste una via di mezzo, da costruire non ad uso e consumo della comunicazione politica ma della prassi futura di un governo possibile. Bisogna trovarla, e in fretta.

costante apprezzamento, dopo aver costituito uno scudo salvifico negli ultimi anni a fronte di scandali finanziari e caro petrolio, rischia di trasformarsi in un nodo scorsoio per l’economia italiana se non saranno approvate. Occorre ridurre e razionalizzare la spesa pubblica e contestualmente avviare una forte riduzione della pressione fiscale introducendo però una serie di misure di contrasto dell’evasione fiscale che ha raggiunto livelli insostenibili. Servono misure di sostegno per i redditi al fine di avviare quel circolo virtuoso che rilanci la crescita economica: ma per realizzarle occorre intervenire prima sulla produttività, da tempo inadeguata rispetto ai ritmi di sviluppo dei principali competitors occidentali. Bisogna completare l’opera di liberalizzazione dei servizi appena accennata finora in molti campi; e occorre intervenire sul mercato del lavoro, da un lato rendendo più equa la flessibilità introdotta negli ultimi anni e dall’altro adeguando l’età pensionabile all’effettiva attesa di vita. Serve una riforma dell’istruzione che torni a puntare sulle eccellenze e sul riconoscimento del merito per restituire slancio alle aspettative dei giovani. L’incertezza politica di queste settimane potrebbe rappresentare una finestra utile per un’assunzione di responsabilità ampia da parte delle forze politiche. Ma se anche si perdesse questa occasione il tema andrebbe riproposto con forza nella prossima legislatura. L’importante è avere la consapevolezza che nel frattempo il prezzo dell’impopolarità da pagare sarà salito ancora un po’.


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parole

l problema di fondo dell’economia italiana è lo scarso grado di competitività sulla scena internazionale. Ciò dipende da vari fattori, che rappresentano una ideale “agenda for action” al fine di migliorare le prospettive di crescita economica, a sua volta premessa indispensabile per migliorare la qualità della vita dei cittadini e per dare soluzione a nuovi e vecchi problemi che impediscono un miglior equilibrio sociale.

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Il tema della competitività è fondamentale in quanto l’Italia è un Paese che non può che essere inserito in modo attivo e soddisfacente nell’economia globale proprio a causa delle sue caratteristiche di fondo; infatti un tempo essa veniva definita come un “Paese trasformatore” che esporta manufatti per poter importare le materie prime e le risorse energetiche di cui è carente. Oggi è cambiata la struttura del sistema produttivo, oltre che quella dei mercati internazionali, ma il problema resta lo stesso. Come emerge dai ranking internazionali (come quelli prodotti dal World Economic Forum che nei giorni scorsi ha tenuto la sua Convention annuale a Davos) l’Italia è ampiamente superata non solo dai tradizionali concorrenti e dai nuovi protagonisti dell’economia mondiale, ma anche da Paesi che considereremmo ben più arretrati del nostro. Pur trattandosi di “classifiche” che si prestano a molte critiche, senza dubbio esse mettono in luce una situazione preoccupante, che poi puntualmente si ripropone nei dati relativi al commercio estero e nella deludente performance complessiva del sistema. L’Italia è penalizzata sia da fattori “fisici” (come la carenza di infrastrutture) che “di contesto” (ruolo della pubblica amministrazione, carenze nel settore dei servizi, scarso grado di concorrenza in molti mercati, riforme incompiute del mercato del lavoro, scarsa ricerca e sistema formativo ai vari livelli sempre meno adeguato, come puntualmente mostrano i raffronti internazionali in materia, eccessiva pressione fiscale e altri ancora) che si ripercuotono negativamente sulla perfomance delle imprese. Se il “capitale fisico” è inadeguato, non certo migliore è la situazione per quanto riguarda il “capitale umano”, nonostante la retorica in materia e i buoni propositi della “Strategia di Lisbona” adottata nel 2000 dall’Unione Europea. Sino all’avvio della moneta unica europea, il nostro Paese cercava di cavarsela modificando i prezzi relativi (dei beni domestici rispetto a quelli internazionali) attraverso svalutazioni del tasso di cambio (appunto definitive “competitive) con il risultato di guadagnare un effimero sollievo, salvo poi vederlo vanificare dall’inflazione e dover ricominciare tutto da capo. L’euro ha posto fine a questo comportamento furbesco e quindi il tema della competitività basata su fattori diversi dai prezzi si è imposto in modo drammatico. E’ vero che molte medie imprese hanno saputo reagire con profonde ristrutturazioni e l’introduzione di innovazioni per recuperare efficienza, dimostrandosi in grado di reggere la concorrenza

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L’Italia affonda nell’oceano dell’ECONOMIA GLOBALE Ecco tutte le zavorre che frenano lo sviluppo di Carlo Secchi

In tutti i ranking internazionali il nostro Paese viene superato, non solo dai tradizionali concorrenti, ma anche dai Paesi più arretrati internazionale, ma ciò riguarda solo una parte del sistema produttivo, quella appunto esposta alla concorrenza internazionale. Le imprese operanti principalmente sul mercato domestico e quelle del settore dei servizi hanno invece visto crescere inefficienze varie, appesantendo così l’intero sistema Italia.

La scarsa competitività dipende anche dal basso grado di “libertà economica” che caratterizza il Paese. Nei giorni scorsi Heritage Foundation ha pubblicato il suo rapporto annuale in materia, dove di nuovo l’Italia figura tra i fanalini di coda, a conferma di simili indicatori in materia di “business climate” prodotti dalla Banca mondiale. Ciò dipende dagli eccessi di burocrazia e di regolamentazioni inutili (mentre spesso sono carenti quelle di cui un moderno sistema economico dovrebbe essere dotato), da un sistema fiscale tuttora farraginoso e in continua complicata evoluzione, da un ruolo pervasivo dello Stato e dei livelli inferiori di governo che soffocano l’attività dei soggetti eco-

nomici. Ogni volta che si parla di liberalizzare, il risultato è quello di nuovi “lacci e lacciuoli” che imbrigliano le risorse, anzichè liberarle per promuovere sviluppo.

Un altro (speculare) nodo di fondo riguarda l’attrattività del sistema, cioè la capacità di mantenere le risorse a disposizione e di attirarne di nuove (sia capitale fisico che capitale umano). Senza indulgere sul dibattito relativo alla “fuga dei cervelli”, è indubbia la scarsa capacità del sistema Italia di attirare talenti, mentre altrettanto emblematica è la composizione degli investimenti esteri che vi affluiscono. Questi sempre più riguardano attività che si rivolgono a un utilizzo finale, cioè che cercano di sfruttare un mercato con un relativamente alto potere d’acquisto e senza eccessiva concorrenza, piuttosto che imbarcarsi in settori produttivi, che inevitabilmente devono fare i conti con la concorrenza internazionale, e quindi con i bassi livelli di competitività. Quindi l’Italia è un Paese dove investire per ritorni immediati (sino a che la scarsa performance economica si farà sentire sul potere d’acquisto), piuttosto che guardando al futuro in una prospettiva di crescita. Che fare per risollevare le sorti del sistema Italia? All’inizio si è parlato di una sorta di “agenda for action” che emerge chiaramente dalle considerazioni svolte. Occorre veramente liberalizzare l’e-

conomia e migliorare l’efficienza e la concorrenza sui vari mercati, occorre ridurre il ruolo dello Stato ovunque possibile e affidare ai soggetti economici ed alla sussidiarietà il compito di un uso più efficiente delle risorse, occorre ridurre la pressione fiscale (tagliando la spesa pubblica che è per definizione inefficiente e improduttiva) affinchè le risorse siano canalizzate a fini di sviluppo e di migliore equilibrio sociale, occorre investire sul futuro (ricerca, capitale umano, valorizzazione dei giovani e dei talenti) piuttosto che dedicarsi alla tutela delle posizioni acquisite, delle rendite, delle corporazioni.

Un attento esame di quanto attuato o programmato dai Paesi con cui ci confrontiamo suggerisce molte linee di azione utili anche per l’Italia; una classe politica degna di etichettarsi anche come classe dirigente per il Paese ha bisogno solo di un po’di intelligenza e di un po’di coraggio per capire queste cose e per riuscire a spiegare ai cittadini italiani che si sta lavorando per il loro futuro (non solo lontano, ma anche prossimo) in un contesto economico internazionale che per noi è “un dato”(ci piaccia o no) e nel quale (come ad esempio si è riusciti a fare negli anni cinquanta, sino al varo dello storico progetto europeo, che ha richiesto coraggio e lungimiranza che oggi non si vedono in Italia) il nostro Paese può certamente trovare una collocazione e un ruolo ben più soddisfacente del’attuale.


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poteri

Estromessi dagli affari economDopo l’era della merchant bank di D’Alema e della scalata Bnl

Via Prodi i Ds rientrano nel Cencelli delle nomine di Gianfranco Polillo n un clima di mestizia, qual è quello che ha fatto seguito alla crisi di governo, non tutta la sinistra italiana ha lo stesso rimpianto. Elaborato il lutto, si vedrà che non tutto è stato così negativo. Perché almeno un processo è stato interrotto. Quello che avrebbe portato Romano Prodi a controllare una fetta ancor più rilevante del potere economico italiano. Sarebbero oltre 600 le nomine che la presidenza del Consiglio dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – varare ad aprile. Dagli enti più prestigiosi, quali Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e le Poste, agli incarichi più minuti. Tutte condotti all’insegna della più completa autonomia, con la sola eccezione della componente del Pd di rito margheritino. Basta pensare ai nomi che circolano. Da Fulvio Conti che lascerebbe Enel, ma solo per la poltrona più prestigiosa dell’Eni. Da Capra, ex Dc, e utilizzato come jolly in diverse possibili ipotesi. Per non parlare di Umberto Quadrini, ad Edison, o di Giovanni Ialongo, che dall’Ipost dovrebbe trasferirsi alle Poste. Nomi che, almeno per il momento, contano poco visto che ogni decisione potrebbe essere rinviata.

L’ascesa in Russia del suo amico, e numero uno di Gazprom, Dmitry Medvedev rafforza l’attuale amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. Ai Ds, Bersani in testa, non dispiacerebbe trasferire su quella poltrona Fulvio Conti. Ma siccome il Cane a sei zampe non ama vedersi paracadutare manager dall’esterno, gli ex della Quercia potrebbero anche spingere per il direttore generale Stefano Cao.

Fulvio Conti ha la fiducia dei Ds, ma se da Enel si trasferisse all’Eni, potrebbero essere sostituito da Umberto Quadrino o Andrea Peruzy, un passato alla Montedison è il tesoriere della dalemiana Fondazione ItalianiEuropei. Da non sottovalutare uno sbarco di Renzo Capra, che potrebbe lasciare la presidenza del consiglio di sorveglianza di A2A al sindaco uscente di Brescia Paolo Corsini.

Un problema in meno, quindi, per la componente diessina di più stretta osservanza. Quella che fa capo soprattutto a Massimo D’Alema e Piero Fassino che, almeno, in passato qualcosa – poco per la verità – avevano ottenuto. Comunque, strano destino quello dei post comunisti. Nella Prima Repubblica erano, salvo qualche mosca bianca, del tutto esclusi dalla gestione del potere economico. Almeno quello che contava. Nella Seconda sono rimasti figli di un dio minore. Da utilizzare nelle feste dell’Unità per allietare le feste dei convenuti, ma messi alla porta quando si doveva decidere delle cose più importanti. E quando Massimo D’Alema ha cercato di rompere questo assedio, la rivolta degli antichi boiardi di Stato, o dei loro rappresentanti politici, è stata durissima. Se l’operazione Consorte, che puntava al cielo della Bnl, è finita come è finita,

L’amministratore delegato e presidente di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini deve fronteggiare soprattutto le bordate che arrivano dalla Margherita, ala Rutelli. Può vantare, oltre ai risultati, un buon rapporto con i massimi esponenti della Quercia. I quali, se questa poltrona si liberasse, non sarebbero contrari alla promozione del suo vice, Giorgio Zappa

L’amministratore delegato di Poste, Massimo Sarmi ha tra gli sponsor Franco Marini. Ma anche buoni rapporti con i Ds, nonostante le frizioni con Alfonso Iozzo che alla Cdp ha voluto Fassino. Ma il maggiore ostacolo a una sua riconferma è il ministro Paolo Gentiloni. Se sarà cambio, i centristi del Pd vorranno Giovanni Ialongo, un passato in Cisl, mentre gli ex Ds potrebbero rilanciare Fabiano Fabiani.

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600

le poltrone di controllate del Tesoro che il governo dovrebbe rinnovare entro aprile. E si tratta di presidenze, ruoli da capoazienda e posti nei consigli d’amministrazione. Le nomine riguardano soprattutto gioielli come Eni, Enel, Finmeccanica e Poste

gran parte si deve anche all’opposizione interna alla sua coalizione di riferimento. Chi può dimenticare l’azione condotta in parallelo da Luigi Abete, presidente della Banca e personaggio di spicco del cosiddetto ”patto” o da imprenditori come Diego della Valle, supportati, sul piano politico, da uomini come Giuliano Amato e Franco Bassanini? Nelle condizioni storiche di isolamento in cui i dirigenti del partito erano costretti a vivere lo stesso tentativo di D’Alema di appoggiare i cosiddetti Capitani coraggiosi nella scalata alla Telecom era destinato a durare lo spazio di un mattino. L’operazione è stata condotta a termine dal duo Colaninno e Gnutti, che però ha dovuto poi cedere a Tronchetti Provera. Ognuno ci ha guadagnato. A D’Alema è invece rimasto il marchio di aver guidato, da Palazzo Chigi, una merchant bank che non parlava inglese. Come disse Guido Rossi, non un alieno nei grandi giochi del potere.

B r i c i o l e . E c c o quello che hanno raccolto. Bersani ha fatto del suo meglio per favorire il mondo della cooperazione. Leggendo in controluce le sue lenzuolate sulle liberalizzazioni, quel marchio risulta ancora evidente. Poca cosa di fronte al fallimento delle grandi operazioni finanziarie e al vuoto di strategia che ne è derivato. In alcuni settori, come quello dei giochi, questa presenza è rimasta. Ma il Bingo, importato dopo una sperimentazione al Festival dell’Unità, è poco più di un ramo rinsecchito. Come è potuto accadere? Le ragioni sono tutte politiche. La teoria della ”diversità” era inconciliabile con l’onesta ammissione di doversi misurare con il mercato, accettandone regole e vincoli. Costretti quindi a negare sul piano etico, la normalità di un comportamento, per così dire, ”capitalista” sono stati costretti a ricorrere all’antico vizio della ”doppiezza”. Fare come facevano tutti, ma condannarne le relative pratiche. Con il bel risultato di isolarsi da ogni processo reale.


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BIOETICA E AMBIENTE

il Creato ABORTO «NON VOGLIAMO IL MURO CONTRO MURO» di Gabriella Mecucci a questione aborto è deflagrata. Il Foglio pubblica ogni giorno lettere e interventi: una discussione così non accadeva da anni. Moratoria internazionale, giudizio sulla 194, Ru486, fecondazione assistita: è possibile un nuovo rapporto, un dialogo pacificato fra laici e cattolici su argomenti tanto incadescenti? Liberal ha deciso di dare la parola alle donne. Alla tavola rotonda che pubblichiamo di seguito hannno partecipato: Paola Bonzi, cattolica, fondatrice del Cav (cento di aiuto alla vita) della Mangiagalli, Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, femministe, vicine alla sinistra e autrici del bel libro Madri selvagge, Eugenia Roccella, anche lei femminista e portavoce del family day, Assuntina Morresi, cattolica,

L

meno possibili, non fosse altro perché li facciamo noi. Il problema che più m’inquieta è quello degli aborti terapeutici che porta con sé l’eugenetica. Le amiche ginecologhe ci raccontano che ormai si interrompono le gravidanze per eliminare feti con sindromi molto leggere che un tempo, prima di questa terribile temperie, ogni madre avrebbe accolto. Su tutto questo vanno stabilite linee guida, norme di applicazione. La legge 194 non va cambiata, ma deve essere applicata in tutte le sue parti: anche in quelle che riguardano la prevenzione degli aborti. EUGENIA ROCCELLA. È vero che la moratoria lanciata da Ferrara ha provocato un dibattito in cui le donne si sono sentite a disagio, infatti i nostri interventi sono stati tutti sulla difensiva. E’ il segnale che c’è qualcosa di sbagliato. Era possibile dire di più,

La parola alle donne laiche e cattoliche: «Sulla 194 nessuno steccato fra noi» membro del comitato nazionale di bioetica. PAOLA TAVELLA. Questo dibattito – lo voglio dire con chiarezza – mi annoia mortalmente. È una discussione fra uomini fatta in perfetto stile maschile.A me interessa parlare dell’esperienza del corpo, del cuore: ho vissuto la maternità, ho fatto l’aborto. Le donne vogliono la concretezza. In questa discussione invece solo Giuliano Ferrara, all’inizio, ha messo in gioco se stesso. Poi ha prevalso l’astrattezza. Quanto al merito, è ovvio che tutte noi siamo sempre state, me compresa, perché di aborti ce ne fossero

entrare in modo più forte in questa discussione, superare alcune divisioni, e invece tutte noi ci siamo tenute ai margini. Ma perchè ci siamo sentite estranee? Già, perchè? EUGENIA ROCCELLA. Perchè, volenti o nolenti – e so bene che Ferrara non lo vuole – questa discussione ha finito col colpevolizzare le donne. Se infatti l’aborto viene definito un omicidio, se si mette in primo piano solo questo aspetto, allora non si sfugge a un interrogativo: chi è l’assassino? La risposta implicita, quella che storicamente è stata data dai tribunali e dalle leggi è: la donna.

La Madonna del Parto, lo splendido affresco di Piero della Francesca conservato nella cappella di Monterchi Quando qualcuno, per esempio Livia Turco, afferma che questa è una discussione maschile, non vuole certo dire che i maschi non devono affrontare l’argomento, anzi. Il problema è che è stata condotta con modalità maschili, preferendo la via delle generalizzazioni e delle astrazioni a quella dell’esperienza. E si è finito col lasciare spazio a chi vuole accusare e colpevolizzare le donne.

Ma tu sei d’accordo con il fatto che l’aborto sia omicidio? EUGENIA ROCCELLA. L’embrione, per me, è persona. L’ho sempre pensato, anche tanti anni fa, quando facevo la battaglia sull’aborto. Ma è una persona dentro un’altra persona, qualcosa che il diritto non sa come affrontare. Voglio però riconoscere a Giuliano Ferrara il merito di aver riportato all’attenzione la questione dell’aborto. Penso sia indispensabile un intervento sull’applicazione della legge. Non chiediamo nessuna modifica della 194, ma vogliamo mettere in evidenza che questa vive in viola-

zione di se medesima, creando grandi disparità di trattamento sul territorio. Per esempio, in un ospedale di Roma si fa firmare il consenso informato per non rianimare i bambini nati vivi – non sono feti ma bambini -, il che è come minimo omissione di soccorso, o peggio: eutanasia. Invece, in molti ospedali milanesi non si pratica l’aborto oltre la 21° o 22° settimana. Nel secondo caso c’è una interpretazione attenta della 194, nel primo la si calpesta. E potrei andare avanti

continua a pagina 10

Tavola rotonda con Bonzi, Di Pietro, Morresi, Roccella, Tavella


pagina 10 • 26 gennaio 2008

il Creato

Il dibattito promosso dal Foglio finisce - volenti o nolenti col colpevolizzare le donne. Ma la moratoria internazionale può essere utile

Eugenia Roccella Portavoce del Family Day

segue da pagina 10 con gli esempi, citando le diagnosi prenatali: così come sono fatte, diventano un incentivo all’aborto. Per non dire della Ru 486… Alessandra Di Pietro. Se Ferrara, dal palco del Teatro Dal Verme, dopo aver detto che“l’aborto è un omicidio”, avesse aggiunto: “e io sono un assassino”, il dibattito avrebbe avuto un registro soggettivo assai interessante, pur non essendo io d’accordo né sul termine “omicidio” né sul conseguente “assassino”. Per scrivere una legge sull’interruzione di gravidanza, senza limitarsi alla depenalizzazione, è stato necessario definire, circoscrivere, configurare che cosa è l’aborto, ma anche la maternità. Il testo è denso e articolato, e tra le sue maglie , in molti e in molte sono caduti nel tranello di rivendicare con la 194 il diritto di aborto. Ma l’aborto non è un diritto. Così come con la gravidanza si mette alla prova il potere creativo femminile, con l’aborto si sperimenta l’altra faccia, quella scura, dello stesso potere. Accogliere una vita, non accoglierla. Le parole sono importanti e ancor di più talvolta lo è il silenzio. Paola Bonzi, per esempio, senza fare chiasso, ha aiutato migliaia di donne a permettersi la maternità che poi coincide anche con il far diminuire gli aborti. Applicare in pieno la 194 allora è vitale. Penso però che per far funzionare le politiche di prevenzione bisogna pure rafforzare le strutture e il personale sanitario che pratica le interruzioni. I medici non obiettori sono sempre di meno, lavorano con turni massacranti, si sentono abbandonati. Non sarà facile, lavorare anche in questa direzione. Chissà, se fosse stata data seria considerazione alle parole di Ruini, all’indomani del referendum sulla legge 40, forse… Già perchè non è stata colta

Nella mia attività tesa ad aiutare le donne a tenere il figlio non ho mai usato, parlando di aborto, la parola omicidio. Ho offerto accoglienza

Paola Bonzi Fondatrice del Centro di Aiuto alla Vita della Mangiagalli

Mi preoccupano molto gli aborti terapeutici che portano con sé l’eugenetica, su questo vanno stabilite linee guida precise

Paola Tavella Femminista coautrice del libro Madri Selvagge

Foto Giuseppe Arnone quell’apertura della Chiesa? ALESSANDRA DI PIETRO. Ruini disse: Non vogliamo modificare la normativa e apriva verso una possibile pacificazione sulla 194. Non era facile fidarsi, ma per la sinistra istituzionale, non aver colto e gestito la posizione di Ruini è stata una perdita, anche perché quelle parole davano ragione ai sostenitori della legge ed erano scomode per alcune parti del centrodestra. Se ci fosse stato un confronto politico, oggi, forse avremmo potuto avere seria discussione su limiti e aggiornamenti della 194, e invece ci tocca un dibattito ideologico, sterile e imbarazzante. Paola Bonzi. Non parlerò dei massimi sistemi, ma della mia esperienza ultra ventennale perchè questa mi sembra abbastanza incontrovertibile. Non mi piace sentir dire che ho salvato la vita di tanti bambini, io mi sono limitata ad aiutare le madri ad avere i loro bambini. E non ho mai usato la parola omicidio. È un modo di esprimersi che m’in-

quieta. Non si può parlare così di persone, di donne che si trovano in una situazione particolarmente difficile e che sono accomunate dal fatto di non essere ascoltate. Che cosa ho offerto loro? Uno spazio, un tempo, una relazione con me. E da loro ho ricevuto tantissimo: ho toccato con mano la loro estrema solitudine. L’arte di ascoltarle le ha fatte sentire accolte. L’accoglienza non è una parola e basta, alle parole occorre dare carne, corpo e io ho provato a fare uno spazio dentro di me perchè loro trovassero il loro spazio. La donna in gravidanza ha bisogno di essere sostenuta e quando l’uomo le dice il problema è tuo, risolvilo, si sente in balia degli eventi. E a volte non ce la fa. Per la gente che fa il mio lavoro, la 194 offre parecchi margini di azione. Si tratta di usarla per aiutare la donna ad acquisire sicurezza. Ad essere se stessa. Io non dico mai a nessuna che cosa deve fare. So per esperienza che, se si riesce a farle sentire a casa, le donne fanno emergere la loro

parte più luminosa, che è la capacità di dare la vita. Assuntina Morresi. Quando è partito questo nuovo grande dibattito, ho provato un brivido di terrore. Mi è tornata in mente la mia esperienza di quasi trent’anni fa, quando feci la campagna contro l’aborto. C’era un clima di grande violenza: quando parlavo venivo fischiata, aggredita. Mi ricordo la tensione, l’ostilità che c’era in chi partecipava a quei dibattiti. Una volta dissi in assemblea che l’aborto era un omicidio – la penso così anche oggi– e allora mi chiesero se le donne erano assassine. Rimasi muta: non me la sentivo di dirlo. Fui sommersa di sberleffi. D’altra parte, se qualcuno pensa che le donne sono assassine, dev’essere coerente e avere il coraggio di chiedere trent’anni di galera. Stai raccontando questa storia con un approccio molto critico. Hai cambiato idea rispetto ad allora? ASSUNTINA MORRESI. Ero e sono cattolica: no, non ho cambiato

idea. Ma ho capito che allora consideravo l’aborto solo dal punto di vista del nascituro e non da quello della madre. Pensavo che la donna potesse avere dei problemi che andavano risolti: tutto qui. Ma non mi ero mai chiesta perchè potesse finire su un tavolaccio a rischiare la pelle, anzi non credevo che le donne lo facessero davvero. Credevo che fossero pochissimi gli aborti Marco Allora clandestini. Pannella sparava cifre tali (un milione, tre milioni di aborti clandestini) che noi pensavamo fossero tutte sciocchezze. Pensavamo che la legge fa cultura, e che rendere l’aborto legale voleva dire produrre aborti. Oggi, riprendendo in mano studi pubblicati da Università cattoliche, mi rendo conto che parlavano di 100 o 200.000 aborti clandestini, e di alcune decine di morti ogni anno. Cifre impressionanti, che però allora non mi impressionavano, mi sembravano irrilevanti: l’ideologia mi impediva di vedere persino il dolore. E in


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il Creato molte delle lettere apparse sul “Foglio” in questi giorni sento riapparire le stesse valutazioni cieche di trent’anni fa. La cecità ideologica però non riguardava solo noi: anche gli altri erano affetti dalla stessa malattia. Ecco: l’ultima cosa che vorrei è che che si tornasse a quel clima di intolleranza e di scontro. Quanto alla 194, se la raffrontiamo alle leggi di altri paesi, sfido chiunque a trovarne una che dia tante possibilità di prevenire l’aborto come quella italiana, soprattutto con buone norme applicative. Quindi non capisco perchè si debba fare l’occhiolino a chi la vuol cambiare. Attenti, c’è il rischio concreto di peggiorarla. Siete tutte d’accordo insomma, cattoliche e non, nel considerare la 194 una buona legge. Che fare dunque per applicarla integralmente? PAOLA BONZI. Mi ripeto, bisogna offrire vicinanza alla donna. La 194 dà ampi margini per fare questo. Io a un certo punto mi sono dimessa perchè non c’era più la possibilità concreta di aiuto e diventava per me una sofferenza inutile accorgermi che le donne mi chiedevano una mano e io non potevo far nulla per loro, perché non avevamo più una lira a disposizione. La prima parte della legge esiste solo sulla carta, o grazie al volontariato. PAOLA TAVELLA. In tema di applicazione della 194 voglio raccontare una cosa che mi è successa. Una figlia di una mia amica l’estate scorsa mi ha detto che era incinta. Mi ha spiegato che voleva abortire e mi ha chiesto aiuto. Mi sono subito mossa perchè potesse farlo nel modo più sicuro: ho parlato con una ginecologa di cui mi fido, ho cercato di evitarle le file la mattina di buon’ora e altro. Quando tutto era pronto e il tempo era venuto,

lei si è ricoverata e mentre stava già sul lettino, è scesa, è scappata e mi ha detto che non voleva più abortire. PAOLA BONZI. Non è un comportamento strano, succede spesso che le donne cambino idea anche all’ultimo momento. PAOLA TAVELLA. Ero contenta. “Guarda che non è obbligatorio abortire”, le ho detto scherzando. Dopo una settimana, però, lei voleva di nuovo interrompere la gravidanza. Era dilaniata da un’incertezza terribile. Un giorno ha sbottato: ho letto la legge e ho visto che ho diritto ad un colloquio con un’assistente sociale che dovrebbe cercare di dissuadermi, perché questo colloquio non ce l’ho avuto? Ero stata io ad evitarglielo credendo di far bene. Non vi dirò come è finita, ma questo episodio mi ha sconvolto. Mi sono ricordata quello che passato: anche abbiamo trent’anni fa pensavamo, pensavo, che c’era di mezzo una vita. Una vita che, se avessi detto di sì, sarebbe diventata vera. Tante donne che hanno abortito se le sognano ancora di notte quelle creature mancate. E anche io me le sogno. PAOLA BONZI. Questa ambivalenza di cui parla Paola Tavella c’è sempre nella donna. Aveva ragione la tua giovane amica quando ti chiedeva di avere il colloquio, perchè l’incontro serve proprio a fare da specchio, a mettere la donna in condizione di guardarsi dentro. EUGENIA ROCCELLA. Del resto in tutti gli scritti prodotti delle femministe degli anni 70 si parla di aborto solo partendo dalla maternità e dalla sessualità. ASSUNTINA MORRESI. A noi questo messaggio non arrivava, ci sembravate solo delle scatenate abortiste. PAOLA BONZI. L’ideologia e il fa-

“ Alessandra Di Pietro Femminista coautrice del libro Madri Selvagge

Dovevamo confrontarci con le aperture fatte da Ruini dopo il referendum sulla legge 40. La 194 va applicata in tutte le sue parti

natismo distruggono la comprensione e la libertà. Mi arrabbio retrospettivamente per questo. PAOLA TAVELLA. E io sono arrabbiata per i miei aborti. ALESSANDRA DI PIETRO. Perché mi domando - ad aiutare le donne che vogliono un figlio, ci sono solo i cattolici? Perchè un lavoro di relazione come quello di Paola Bonzi lo fa il Movimento della vita e non la sinistra? È vero, abbiamo avuto la necessità di difendere la 194, ma in questo campo c’è un’assenza - fatta eccezione per alcune, sparute realtà - che non può essere colmata dalle politiche sociali o da buoni servizi alla maternità, come accade, peraltro, solo in alcune Regioni. EUGENIA ROCCELLA. Nel recente dibattito si è discusso di 194 sulla base di vecchi totem: chi dice “la legge non si tocca”, e chi “sì, la legge si tocca”. Questo non è un modo per confrontarsi. Quando, durante le polemiche sulla legge 40, c’è stato un attacco ai Centri di aiuto alla vita, accusati di terrorizzare le donne mostrandogli le foto dei feti morti, ricordo che Assuntina mi disse: noi non facciamo queste cose, siamo semplicemente donne che aprono le loro case, la loro vita, ad altre donne. Gli risposi: scrivilo, racconta quello che fate, perchè è questo che permette di superare i conflitti astratti. La realtà, dopo tanti anni, è cambiata, ma qualcuno non se n’è accorto. Non c’è più la contrapposizione assoluta fra chi è favorevole all’aborto e chi è contrario, fra chi vuole la 194 e chi vuole le donne in galera. Almeno in parte tutte siamo contrarie all’aborto, e in parte tutti riconoscono l’utilità della legge, in primo luogo Giuliano Ferrara, ma anche buona parte del mondo cattolico. ASSUNTINA MORRESI. Eppure nel discorso pubblico all’interno del mondo cattolico è difficile poter dire che ci sono parti importanti della 194 che sono positive. Rischi di essere guardata come una traditrice e sei costretta subito a ricordare che non hai cambiato idea, che l’aborto è un omicidio. Non sopporto di dover dare tutte queste assicurazioni. Proprio io che in genere mi lamento del fatto che il mondo cattolico ha uno scarso orgoglio di sè: noi la moratoria la facciamo da sempre, la facciamo nel quotidiano. EUGENIA ROCCELLA. Paola Bonzi è riuscita nel suo lavoro a superare la contrapposizione fra abortisti e antiabortisti. Perchè non ci racconti la tua esperienza con Giorgio Pardi? PAOLA BONZI. Pardi ha aperto il primo ambulatorio per abortire, ma aveva capito che le donne avevano diritto di essere informate, e non a senso unico. Era favorevole alla presenza e all’attività dei Cav. Grazie a questa

“ Assuntina Morresi Cattolica, membro del Comitato Nazionale di Bioetica

intuizione in breve tempo gli incontri con le donne entro il terzo mese di gravidanza sono cresciuti dell’83 per cento. Ascoltarle, impegnarmi in questo rapporto, offrire delle possibilità diverse dall’aborto, è stato per me uno straordinario regalo. Poi, naturalmente, ciascuna di loro ha deciso in libertà. Di recente abbiamo aperto anche un servizio per le donne che

Lo scandalo di 160 milioni di donne sterilizzate e le morti da Ru486 vogliono elaborare certi lutti: quelle che hanno rinunciato al figlio e che ne soffrono ancora molto. ALESSANDRA DI PIETRO. Lavoro straordinario. Invece, chiedere la moratoria a che cosa serve? Non supera antichi steccati ma ne crea di nuovi, non pacificare ma alimenta conflitto. E che aiuto dà a Paola Bonzi, per esempio? Sprechiamo tempo prezioso. Davanti a noi si dispiegano i problemi posti della tecnoscienza: la sperimentazione delle tecniche di riproduzione assistita sui corpi, la ricerca scientifica basata sul commercio degli ovociti necessari per produrre la materia prima, gli embrioni appunto. Per me, sono questi i temi del presente e del futuro, su cui confrontarsi. Il dibattito sulla moratoria li ha oscurati, facendoci fare un passo indietro.

Occorre evitare il clima di scontro di 30 anni fa. L’ideologia accecò sia i cattolici che i laici. Ora il confronto deve essere sulle cose concrete

EUGENIA ROCCELLA. Credo che Alessandra abbia ragione, e che non c’è consapevolezza su quello che c’è all’orizzonte. Oggi gli aborti cominciano a diminuire, così come la natalità. Anche nei paesi con la crescita demografica più alta si registra un calo. La sterilità, soprattutto maschile, galoppa. C’è poi la tecnoscienza che sposta il problema della maternità fuori dal corpo femminile, c’è la distruzione seriale degli embrioni nei laboratori. PAOLA TAVELLA. Insomma, mi sembra chiaro che il problema non è l’aborto. Ci sono una serie d’interrogativi inquietanti sulla vita e sulla morte che nulla c’entrano con l’interruzione della gravidanza. Su questa le donne hanno prodotto un’etica rigorosa. Su tutto il resto dovremmo invece cercare di fornire qualche risposta. No, da qualsiasi punto di vista la guardi, l’iniziativa di Ferrara non mi convince. L’idea di una moratoria internazionale, però, mi sembra importante: basti pensare a quello che succede in Cina. EUGENIA ROCCELLA. Non posso non segnalare che in questi anni ilVaticano, in totale solitudine, ha posto un limite roccioso a certe scelte aberranti fatte dall’Onu. Quando penso che si sono sterilizzate 160 milioni di donne utilizzando metodi irraccontabili e con campagne di denatalità finanziate da organismi internazionali, non posso non scandalizzarmi. Per non dire di sperimentazioni terribili sulle donne che in alcuni paesi sono meno protette delle cavie. E poi c’è la Ru486, con risvolti oscuri, con morti che sono state occultate. E noi femministe che cosa abbiamo fatto? Su tutto questo la moratoria può avere obiettivi concreti. Le partecipanti alla tavola rotonda sono tutte d’accordo.


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ABORTO LIBERO ED EUGENETICA COSÌ LE LEGGI DI MEZZO MONDO di Assuntina Morresi

opo lunghi anni di quieto vivere, la l’idea di una moratoria sull’aborto lanciata da Giuliano Ferrara ha improvvisamente riaperto il dibattito pubblico sulla legge 194, approvata trent’anni fa. Sebbene il direttore del “Foglio”abbia più volte precisato che la sua è una battaglia culturale, e che non punta affatto a modificare la normativa, le polemiche fioccano. C’è chi considera la 194 intoccabile, chi la difende perché ha fatto diminuire gli aborti, chi invece la giudica, come disse La Pira, una legge integralmente iniqua. Per valutarla però, la legge italiana andrebbe inquadrata nel contesto internazionale, confrontandola con le analoghe leggi che regolano l’interruzione di gravidanza negli altri paesi. Esaminandole una ad una, si ritrovano alcune costanti, che consentono di raggruppare le normative in due grandi tipologie: quella dell’aborto“on demand”, fornito cioè liberamente a chi lo chiede, e quella che invece prevede una casistica, più o meno restrittiva. Il primo gruppo si basa sull’idea di autodeterminazione della donna. È sufficiente una semplice richiesta, con alcuni limiti rispetto all’avanzamento della gravidanza. In altre parole, in questo tipo di normativa è implicito il diritto all’a-

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borto: basta chiederlo, senza nemmeno fornire motivazioni. Il secondo gruppo (in cui rientra la 194) riunisce le leggi in cui invece si sottolinea – più o meno fortemente - che l’aborto non è lecito, tranne che in alcuni casi, entrando quindi nel dettaglio dei motivi per i quali si può abortire senza incorrere in sanzioni penali. Possiamo trovare sia normati-

In India l’interruzione di gravidanza è un metodo anticoncezionale ve che contengono motivazioni tanto ampie da rendere praticamente impossibile negare l’aborto e altre più restrittive. Scorrendo i testi delle leggi sull’aborto di tutto il mondo, emerge immediatamente un dato: quando esiste una casistica, c’è sempre la motivazione eugenetica, che consente l’eliminazione del feto “imperfetto”. Anzi, le leggi più restrittive sono spesso quelle più esplicitamente eugenetiche.

Se l’aborto selettivo delle femmine, quello che fa mancare all’appello milioni di donne nel mondo, avviene sempre nell’illegalità, almeno dal punto di vista formale, quello di chi soffre di malformazioni e patologie varie è, nella stragrande maggioranza dei casi, previsto dalle normative. Una discriminazione sistematica e pressoché omogenea nel pianeta, che sembra non preoccupare più nessuno: la mancanza delle donne finisce, prima o poi, per creare un allarme sociale, ma chi mai chiederà conto dei disabili non nati? Al primo gruppo, quello dell’aborto “on demand” appartiene la legge che regola l’aborto in Mongolia, un territorio grande cinque volte l’Italia, con due milioni e settecentomila abitanti. “Diventare madre è una questione che riguarda le donne e dipende dalle loro decisioni personali. Entro i primi tre mesi di gravidanza su richiesta della madre, o quando necessario in presenza di malattie senza alcuna considerazione dell’avanzamento della gravidanza, l’aborto è eseguito dal personale medico in condizioni di ricovero ospedaliero”. Con questo emendamento di tre righe alla legge sulla salute la questione è liquidata. Aborto su richiesta, in un paese dove certo non c’è il problema della sovrap-

popolazione. Invece nel popolatissimo continente indiano, luogo in cui il controllo delle nascite (anche con metodi violenti) è stato una priorità per tutti i governi fin dagli anni Cinquanta, la legge prevede espressamente che si possa abortire a seguito del fallimento dei metodi contraccettivi. In India cioè si dice chiaramente che fino a 20 settimane di gravidanza si può utilizzare l’aborto come metodo anticoncezionale. Non a caso l’India è la seconda nazione al mondo per numero di aborti (sei milioni stimati), dopo la Cina (dieci milioni, denunciati quest’anno). In Svezia la normativa è molto semplice: l’aborto si può effettuare su richiesta fino a diciotto settimane, e oltre questo limite in presenza di grave pericolo di vita e di salute della donna. Su richiesta della donna pure in Olanda, almeno fino a che il feto non è “viable”, espressione che possiamo tradurre con “ha possibilità di vita autonoma”, limite che la legge individua nelle ventiquattro settimane, ma nella prassi è entro la ventiduesima. Anche a Singapore è sufficiente una richiesta scritta della donna fino a ventiquattro settimane, mentre in Portogallo dallo scorso anno si può abortire su richiesta nelle prime dieci settimane di gravidanza, fino alla ventiquattresima

settimana in previsione di malformazioni del nascituro, e senza limiti per feti con patologie di estrema gravità. In Norvegia è su richiesta fino a dodici settimane, poi è legale se la gravidanza, il parto o la cura del bimbo possono danneggiare la salute fisica e mentale della donna o crearle “circostanze difficili”; se c’è rischio elevato che il figlio soffra una seria malattia, se la gravidanza è dovuta a stupro o se la donna ha malattie o ritardi mentali. Su richiesta - fino a dodici settimane - anche in Danimarca. Si può abortire oltre questo limite con l’autorizzazione di un comitato medico, se si accertano seri disordini fisici e mentali del nascituro, o per particolari circostanze sociali ed economiche, oppure se gravidanza, parto e cura del figlio possono costituire un danno, o ancora se la donna non è giudicata in grado di prendersi cura del figlio, perchè incapace o immatura. In Finlandia si può abortire su richiesta fino a dodici settimane di gravidanza se la donna ha meno di diciassette anni o più di quaranta, oppure se ha già quattro figli; se la prosecuzione della gravidanza o la nascita del figlio mettono in pericolo la salute della donna nel caso in cui questa abbia qualche malattia, difetto fisico o “debolezza”; se la nascita


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l’intervista

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«ECCO PERCHÉ LA 194 È FRA LE MIGLIORI» iuseppe Dalla Torre è rettore della Lumsa, libera università della Santissima Assunta, fine giurista ed editorialista del quotidiano dei vescovi, l’Avvenire. Di recente ha scritto proprio su quel giornale che la 194 è “poco conosciuta” e ha spiegato il perché. Professore, che cosa non si sa o si sottovaluta di questa legge? Tre sono i punti caratterizzanti. Il primo riguarda l’articolo 1, secondo il quale lo stato difende la vita umana dal suo inizio. Dunque è impegnato a fare tutto il possibile per salvare vite umane innocenti e, contestualmente, a venire incontro alla donna rimuovendo le ragioni che la inducono ad abortire. La seconda caratteristica è che l’interruzione di gravidanza continua ad essere reato. Tanto è vero che se si fa aldifuori delle fattispecie previste, chi la procura rischia una condanna da 1 a 4 anni. E persino la donna può incorrere in una reclusione fino a sei mesi. Mi scusi, quello che lei dice è esplicitamente scritto nella legge? Certamente, del resto ciò è conseguente e coerente con le affermazioni dell’articolo 1 della 194. E la terza caratteristica, qual è? L’aborto è consentito solo nei casi tassativamente previsti dalla legge, solo seguendo le procedure stabilite e solo nelle strutture pubbliche o autorizzate. L’ordinamento non prevede alcuna libera scelta, né codifica il diritto all’aborto. Quindi la 194 è una buona legge? Sono cattolico e sono contrario all’aborto, anche nel modo in cui lo consente questo provvedimento. Non c’è dubbio però che la 194 è migliore rispetto a tante altre leggi di altri paesi. Occorre dunque cambiarla? Sarebbe l’ideale, ma nelle condizioni attuali mi sembra molto difficile. Penso che sia molto importante, oltreché doveroso, che la 194 venga applicata in tutte le sue parti. Al contrario molto poco si fa, ad esempio, per evitare l’aborto. E l’attività dei consultori cattolici è stata fortemente osteggiata.

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e la cura del figlio può procurare uno stress notevole alla donna, considerando le sue condizioni di vita, quelle della sua famiglia, e altre circostanze; se il bambino sarà mentalmente ritardato o avrà, o successivamente svilupperà, una malattia o un grave difetto fisico. La capacità della donna di prendersi cura del figlio, la sua disabilità – prese in esame in Norvegia e Danimarca – ma anche le considerazioni fatte in Finlandia sulla sua presunta “debolezza” sono l’eco evidente di passate legislazioni eugenetiche di tipo statalista, notoriamente diffuse nei paesi del Nord Europa, anche nel secondo dopoguerra. In Gran Bretagna l’aborto non è formalmente su richiesta, ma le condizioni per interrompere la gravidanza sono tali da renderlo praticamente libero nelle prime ventiquattro settimane: lo si può effettuare a salvaguardia della salute fisica e mentale della donna o persino di altri bambini già nati e componenti della sua famiglia, come se un eventuale fratello, per esempio, potesse costituire un danno per un bimbo già nato. Naturalmente si può abortire se c’è il rischio che il nascituro abbia anomalie fisiche o mentali. Va però detto che il tasso di abortività in un paese non dipende

Il caso inglese e quello dei Paesi del Nord Europa. In Polonia, il luogo dove ne avvengono meno, c’è molta attenzione verso della prevenzione solo dalle enunciazioni di principio, ma da una serie di circostanze che riguardano l’applicazione della legge. Sono quindi fondamentali le politiche di prevenzione, il sostegno alla maternità, l’assistenza ai disabili. Inoltre è importante il rapporto con le strutture private, sia che si tratti di organizzazioni per aiutare la maternità, sia che si tratti, al contrario, di cliniche private che eseguono aborti traendone profitto. Valga per tutti il paragone fra Spagna e Polonia. Le condizioni richieste per abortire sono simili: in Spagna la legge sarebbe abbastanza restrittiva. Si può abortire senza limite in caso di pericolo per la salute fisica e psichica per la donna; fino a 12 settimane di gravidanza in caso di stupro, e fino a ventidue per diagnosi di patologie fisiche o mentali del nascituro. Pressoché identica la situazione in Polonia. Il numero degli aborti, però, è abissalmente

differente: in Polonia nel 2005 ne sono stati conteggiati 225 (pari a 0.62 su 1000 nati vivi), a fronte dei 91664 spagnoli (pari a 197 su1000 nati vivi). In Spagna, inoltre, gli aborti sono recentemente ancora aumentati. È il contesto culturale ad essere differente, e l’esistenza, nella legge, di una parte dedicata alla prevenzione degli aborti. Nel testo polacco si legge che “le agenzie dell’amministrazione statale e territoriale mantengono relazioni di cooperazione e assistenza con la Chiesa Cattolica e altre chiese, associazioni religiose o civiche che assicurano la protezione delle donne in gravidanza, organizzano sistemazioni in “famiglie surrogate” o contribuiscono all’adozione dei bambini”. In Spagna tutto questo non c’è. In compenso, il 98% delle Ivg si esegue in cliniche private, che non hanno interesse a far calare il numero degli aborti.

Giuseppe Dalla Torre, rettore Lumsa: «In Italia si può fare solo nelle fattispecie previste e in strutture pubbliche. Altrimenti è reato»


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1985 I CATTOLICI SCONFITTI DAI LORO ERRORI di Annabella Principe

otevano andare diversamente le cose, sulla vicenda dell’aborto in Italia? Si poteva evitare la violenta lacerazione tra laici e cattolici, lo scontro frontale di cui ancora oggi subiamo le conseguenze? Alla base della rigidità con cui la battaglia fu condotta da parte cattolica c’era una sostanziale incomprensione della mutata realtà culturale e sociale del nostro paese. I cattolici non capirono come per l’opinione pubblica non fosse più tollerabile la mancanza di una legge. Sui contenuti, sulla maggiore o minore restrittività, sicuramente c’erano margini di manovra, ma di una legge che regolasse in qualche modo gli aborti c’era assoluta necessità. Non aver compreso questo ha portato il mondo cattolico a una cocente sconfitta e l’ha costretto a subire una normativa che, se formulata anche solo qualche anno prima (quando la pressione culturale, sociale e politica era minore), avrebbe potuto essere diversa, con minori margini di ambiguità, e più rivolta alla tutela della maternità. Prima della 194, nella legislazione italiana l’aborto era considerato un “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe”, e non un omicidio, un delitto contro la persona. Non era dunque tutelata la vita, né lo statuto personale dell’embrione, bensì la stirpe, concetto inaccettabile per qualunque democratico, credente o no. Le donne denunciate per aborto venivano processate, e se condannate potevano subire da due a cinque anni di carcere. Nel

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paese gli aborti si praticavano in tutti i modi possibili: sui tavoli da cucina con le mammane, negli studi di medici senza scrupoli, nelle cliniche private. Le donne che volevano abortire (basta leggere i numerosi libri che riuniscono testimonianze e storie vissute in prima persona) ricorrevano a qualunque metodo, dagli intrugli velenosi al ferro da calza, fino al viaggio a Londra per chi aveva più soldi e cultura. Oggi qualcuno sostiene che l’atteggiamento cattolico di fronte alle norme sulla procreazione assistita è stato più disponibile perché quelle norme arginavano e regolavano una situazione da farwest; ma prima della legge anche l’aborto era fuori control-

sulla mortalità materna da aborto non sia affatto lontana dalla realtà e che le 20-25- mila unità (della propaganda abortista, ndr) debbano in effetti e per fortuna essere corrette di alcune decine di casi all’anno”. E sugli aborti clandestini: “Riconosco il mio scetticismo di fronte a stime che vadano al di là dei 200.000 aborti (clandestini, ndr) provocati all’interno del nostro paese. Aggiungo che una cifra intorno ai 100.000 mi riuscirebbe più persuasiva (…)”. Quindi fra centomila e duecentomila, da confrontare con il numero registrato nello scorso anno: 130.000 interruzioni di gravidanza, di cui un terzo dovute a straniere. “Alcune decine” di donne morte all’anno significa

Referendum contro la 194 Allora non capirono che l’opinione pubblica voleva una legge sull’aborto lo, e prosperava in un’identica situazione da far-west, solo molto più diffusa. Sugli aborti clandestini, la guerra delle cifre è stata aspra, ma nessuno poteva negare il problema. In uno studio pubblicato nel 1976 su “Medicina e Morale”, rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, per esempio, si poteva leggere: “Nell’insieme si ha l’impressione che la statistica ufficiale italiana

due-tre al mese. L’allarme sociale era dunque ben evidente, eppure si scelse di sottovalutarlo, o ignorarlo. Le donne morivano, spesso, perché in caso di complicazioni tardavano a rivolgersi a un ospedale: un ricovero poteva significare la denuncia – se non si incontravano medici disposti a chiudere un occhio – e quindi si andava sotto processo, un processo pubblico per aborto.

Come quello di Gigliola Pierobon, operaia diciassettenne che abortì sul tavolaccio di cucina con un ferro da calza infilato nell’utero; chi l’aveva messa incinta era scappato, e a quei tempi la paternità non era accertabile. Quando fu processata, anni dopo, i giudici la “perdonarono”perché al tempo dell’aborto era minorenne, ma intanto lei, finita sotto i riflettori dei media nazionali, aveva perso il lavoro. Il processo alla Pierobon, a cui la mobilitazione del movimento delle donne diede grande risalto, permise di capire che processare una donna che aveva abortito era ormai diventato intollerabile per la maggioranza degli italiani. Ma quando il mondo cattolico prese l’iniziativa politica, presentando un progetto di legge di iniziativa popolare che aveva raccolto più di un milione di firme, era troppo tardi. I radicali (anche qui sotto la spinta di un intervento della magistratura, che aveva arrestato Adele Faccio) avevano raccolto le firme per un referendum abrogativo, e il Parlamento doveva agire velocemente. La 194 fu elaborata senza la partecipazione attiva della Dc, ma cattolici democratici come Gozzini e La Valle vi contribuirono in modo significativo, come anche esperti e medici di area cattolica, e l’influenza dei cattolici sull’impianto della legge è ben visibile. Anche la decisione successiva di indire un referendum abrogativo della nuova legge fu molto dibattuta. I radicali avevano presentato diverse proposte di referendum per abrogare parti della 194, allo scopo di renderla più

Un’immagine della campagna elettorale che porterà al voto sull’abrogazione della 194 La vittoria dello schieramento abortista fu schiacciante

permissiva, esattamente come è accaduto poi con i referendum sulla legge 40. Il mondo cattolico si divise. Una parte ritenne che se ci fossero stati solo i quesiti dei radicali, gli italiani che pure avessero votato contro, si sarebbero automaticamente schierati per il mantenimento della 194. Questo rischio fu ritenuto inaccettabile. Sappiamo adesso che anche allora qualcuno pensava all’astensione precorrendo la linea tenuta sulla legge 40 e dimostratasi vincente: era il Card. Siri, un parere evidentemente rimasto inascoltato. Su “Gli anni di Erode”, di Emilio Bonicelli, pubblicazione molto utilizzata dal fronte pro-life, possiamo leggere le motivazioni di chi si opponeva: “Da una parte si fa osservare che una eventuale sconfitta renderebbe la 194 “intoccabile”, modificabile, se mai, solo in senso peggiorativo. L’uso del referendum favorirebbe anche la ricomposizione dello schieramento unitario laicistamarxista provocando un’ulteriore emarginazione dei cattolici. A livello politico potrebbe infine determinare fortissime tensioni sociali in una situazione già gravemente dilacerata”. Tutti fatti puntualmente verificati. E forse proprio per questo il referendum sulla legge 40, è stato tutta un’altra storia.


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2005 LA VITTORIA DI RUINI IN NOME DELLA RAGIONE l referendum sulla legge 40 del giugno 2005 è stato vinto perché la Chiesa aveva la piena consapevolezza della natura delle nuove sfide a cui si era chiamati: basta riprendere in mano ad esempio la prolusione del Card. Camillo Ruini all’assemblea generale della CEI del 20-24 maggio 2002. I media, come al solito, incentrarono l’attenzione sui commenti alla politica italiana, mentre il cuore del discorso era il paragrafo dedicato alla “questione antropologica”, in cui fra l’altro si diceva: “Sta imponendosi infatti, ed appare destinata a diventare sempre più acuta e pervasiva nel tempo che sta davanti a noi, una "questione antropologica" che, a differenza da un passato anche non lontano, tende non soltanto a interpretare l'uomo, ma soprattutto a trasformarlo: e questo non limitatamente ai rapporti economici e sociali - come avveniva nella prospettiva del marxismo -, ma assai più direttamente, e radicalmente, nella nostra stessa realtà biologica e psichica. Tutto ciò si realizza principalmente attraverso l'applicazione al soggetto umano degli sviluppi delle scienze

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di Mara Sistina

e delle tecnologie, secondo una progressione molto rapida che finisce per apparire quasi indipendente dalla nostra volontà. In concreto, le tecnologie stanno appropriandosi dell'insieme del nostro corpo, compreso il cervello, e della genesi del nostro essere, ossia della generazione umana. (…) Si fa strada così una concezione puramente naturalistica o materialistica dell'essere umano, che sopprime ogni vera differenza qualitativa tra noi e il resto della natura (…)È evidente come simili posizioni mettano radicalmente in questione la sostanza stessa della nostra fede (…) alla base di tali posizioni vi è spesso un naturalismo o scientismo integrale, che elimina non soltanto la dimensione trascendente dell'uomo ma la possibilità stessa di un Dio personale, realmente distinto dal mondo della natura”. Affrontare la nuova questione antropologica nel nostro paese è significato innanzitutto dotarsi di una regolamentazione delle

libreria

La storia infinita siste da sempre, difficilmente si metterà la parola fine: questo è l’aborto. Questione solo di donne, fin dall’antichità, che diventa pubblica poi con gli stati nazionali nati dalla Rivoluzione Francese. E se in un primo tempo è il nascituro ad essere maggiormente tutelato, perché uno stato per essere forte deve poter contare su un’elevata natalità, sarà poi la scelta della donna, negli anni sessanta e settanta del XX secolo, ad avere la prevalenza nel mondo occidentale. Un breve libro che racconta una storia grande e drammatica. Giulia Galeotti - Storia dell’aborto Il Mulino, 131 pagine - 16,80 euro

E

nuove tecniche di procreazione medicalmente assistita, e della ricerca scientifica ad esse collegate: tutto ciò si è concretizzato nella battaglia sulla legge 40, condotta prima in parlamento e successivamente nella campagna referendaria. Una battaglia condotta in nome della ragione, laicamente, tanto che è stato il fronte laico a dividersi, mentre il mondo cattolico è rimasto unito. E’bene precisare che la 40 è integralmente una legge non cattolica: regola modalità procreative che non sono ammesse dalla morale cattolica, ed è intrinsecamente abortiva, poiché con l’uso delle tecniche di fecondazione in vitro per ogni bambino che nasce bisogna considerare un certo numero di embrioni di cui si programma la morte (mediamente nove, per ora). Non si possono considerare aborti naturali, come verrebbe da pensare, ma embrioni necessariamente sacrificati, la cui morte è messa in conto, e non è un incidente imponderabile come nel caso degli aborti sponta-

nei. Ma la battaglia parlamentare prima, e quella referendaria poi, non è stata condotta su questi temi, e, al tempo stesso, non si è mai rinunciato a dire la verità. In parlamento si è andati alla ricerca del miglior compromesso possibile. La battaglia referendaria è iniziata in modo del tutto analogo a quanto accaduto per la 194: i radicali hanno proposto dei referendum che chiedevano l’abrogazione di alcune sue parti, per renderla più liberale. La strategia dell’astensione si è dimostrata vincente, anche perché si è accompagnata ad una intensa e capillare attività informativa di base, molto più spontanea di quanto gli osservatori esterni possano pensare: i cattolici si sono in un certo modo sentiti costretti ad entrare nel dibattito pubblico, a prendere posizione e a darne pubblicamente ragione. La Chiesa ha fatto muro. Senza la Chiesa i laici che le hanno combattuto accanto, esponendosi in prima persona, con coraggio e convinzione, avrebbero affrontato eroiche battaglie solitarie. Senza un popolo. Con gli intellettuali, ma senza un popolo.

Il mito falso della Ru486 aborto farmacologico con la Ru486 è spacciato come una procedura meno invasiva per la donna, rispetto a quella chirurgica. Ma la realtà è altro: si tratta di un aborto lungo, incerto, doloroso e pericoloso, con una mortalità dieci volte maggiore rispetto alla tecnica chirurgica, in cui le donne devono gestire in prima persona tutto l’evento. Il vero motivo di tanta pubblicità, in Italia, è che diffondendo la Ru486 si svuota l’attuale legge 194, introducendo l’aborto-fai-da-te: la pillola

L’

abortiva, nel mondo, è infatti sempre sinonimo di aborto a domicilio. Assuntina Morresi, Eugenia Roccella La favola dell’aborto facile. Miti e realtà della pillola abortiva Ru486 Franco Angeli, 131 pagine


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il Creato di Giulia Galeotti

a secoli, il problema dell’aborto è un dramma che accompagna la vita delle donne, combattute tra la presenza che sentono in loro e le conseguenze che quella nascita potrebbe comportare. Per tanti versi sempre uguale a se stessa, questa lunga vicenda ha però vissuto profondi mutamenti: nel tempo, infatti, sono cambiati gli interessi sottesi, le conoscenze scientifiche e le tecniche mediche, il giudizio etico, le regolamentazioni giuridiche, i tanti protagonisti e, soprattutto, sono cambiate le donne. Le tappe di questa complessa vicenda non sono solo legate ad eventi lontani (le voci dell’ebraismo e del Cristianesimo; le scoperte scientifiche del Seicento che hanno permesso di pensare al feto come entità autonoma; la Rivoluzione francese e la successiva ossessione per il numero dei cittadini come forza dello Stato; la bomba atomica e le macchine industriali che hanno rovesciato le guerre e l’economia nella seconda metà del Novecento): snodi cruciali si sono prodotti anche in anni a noi piuttosto vicini. Per ripercorre i radicali cambiamenti che le donne e l’aborto hanno vissuto negli ultimi cinquant’anni, possiamo servirci di un film americano di qualche anno fa, If These Walls Could Talk del 1996 (Tre vite allo specchio, nella traduzione italiana). La pellicola, infatti, è divisa in tre episodi, ambientati rispettivamente nel 1952, 1974 e 1996, date decisamente importanti per i mutamenti sociali e giuridici che la pratica ha vissuto – e continua a vivere. Le vicende ruotano intorno ad una semplice e anonima casa di Chicago, rivelando gli intimi segreti di tre donne costrette ad affrontare gravidanze non programmate. Pur nella enorme diversità dei contesti in cui le protagoniste si muovono, oltre alla casa (che altro poteva incarnare un tema femminile per eccellenza?), v’è un altro denominatore comune, quello della indifferenza e della fretta del mondo maschile che le circonda: l’alternativa è tra uomini muti – imbelli dinnanzi alla drammatica scelta o in fuga dalla loro responsabilità –, e uomini che parlano solo per biasimare e condannare. Emerge innanzitutto quello che per secoli è stato il dramma dell’aborto clandestino, che ha segnato le donne nella psiche e nel corpo (molte rimanevano sterili), quando non le uccideva. Ambientato nel 1952, il primo episodio ha per protagonista Claire (Demi Moore), una giovane infermiera, vedova e incinta del cognato. Nel raccontarne gli ultimi mesi di vita, la regista

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SE I MURI POTESSERO PARLARE Nancy Savoca è molto attenta a cogliere gli intrecciati aspetti che la obbligano a questa scelta, in un contesto che non sa ancora destreggiarsi tra spinte moderne e antichi tabù. La donna ricorre a quello che si rivelerà il suo aguzzino perché disperata: il suo capo, un medico, si rifiuta di aiutarla perché abortire è illegale;

Il racconto di una storia di sangue di ideologie di scontri prova a procurarsi l’aborto da sola con un ferro da calza, ma non riesce ad infliggersi questa

violenza; l’aiuta, dopo averle inizialmente detto di no, un’infermiera di colore, ma il posto all’estrema periferia della città a cui la donna la indirizza, terrorizza Claire che non riesce a scendere dalla macchina. Troppi sono, d’altra parte, i soldi che le vengono chiesti per andare a Puerto Rico. Rimane come unica soluzione quel mortifero numero di telefono – freddo, economico e sbrigativo. L’episodio termina così con Claire che muore in un lago di sangue, mentre l’uomo che l’ha frettolosamente liberata sul tavolo della cucina, se ne va brusco e silenzioso chiudendo la porta. È l’ennesima conferma della mercificazione del corpo femminile (il mammano pretende i soldi prima ancora di mettere piede in casa). Un corpo femminile che vale a seconda del denaro: se formalmente il contesto giuridico-sociale condanna l’aborto, le donne ricche possono comunque salvarsi. Solo vent’anni dividono la vicenda di Claire da quella di Barbara, protagonista del secon-

do episodio. Ma in quattro lustri è praticamente cambiato tutto: il nuovo modo di combattere e di produrre ha avuto come conseguenza che il numero dei cittadini non costituisce più la potenza dello Stato; la celeberrima sentenza Roe v. Wade del 1973 ha riconosciuto alla donna americana il diritto di abortire; soprattutto, però, v’è stato Sessantotto, e le donne hanno acquisito (nel bene e nel male) nuova consapevolezza di loro stesse. Il femminismo, al di là dei suoi lati più esaltati, ha portato alla ribalta la voce delle donne, infondendo loro un coraggio e una forza che fino ad allora non erano riuscite ad esprimere e a tradurre in pratica. Non è dunque un caso che Barbara, alle prese con una gravidanza assolutamente inattesa, giunta in un momento della sua vita in cui vorrebbe tutt’altro (ha quattro figli ormai grandicelli ed ha appena ripreso gli studi universitari), decida di tenersi il bambino. La scelta è tutt’altro che facile: Sissy Spacek si trova circondata da un turbinio di voci

contrastanti (e tutte, però, ugualmente incapaci di ascoltarla): il marito non considera nemmeno la possibilità di abortire; Julia, l’amica di sempre (che in passato ha abortito senza pentirsene) l’invita a fare ciò che si sente; la figlia maggiore - zoccoli, gonna fiorata e la bibbia di Our bodies, our selfs sottobraccio (prontamente offerta alla madre) - la spinge ad abortire invitandola a riprendersi finalmente la sua vita, ricordandole che l’aborto è un suo legal right. Certo, Barbara può permettersi il lusso di parlare del suo stato a differenza di Claire, ma il fatto che l’aborto sia ormai diventata una pratica socialmente accettata non toglie nulla al dramma che la scelta implica, né alla solitudine femminile che racchiude. Oggi diversi segnali indicano che stiamo vivendo una nuova fase nella storia dell’aborto. Se è un bene che il dibattito non sia sopito, accettandolo come una prassi scontata, i toni stanno, però, assumendo un’acredine preoccupante (Dworkin ha definito lo scontro la versione americana delle guerre di religione del XVII secolo). Certo, in Italia siamo ancora lontani dai preoccupanti eccessi americani dove la difesa della vita viene esasperata fino all’omicidio (le cliniche che praticano gli aborti hanno i vetri blindati e i medici girano con il giubbotto anti proiettile). L’ultima scena del film vede la dottoressa Cher ferita a morte in un lago di sangue che per tanti verso ricorda quello di Claire. Ricordiamolo ogni tanto anche noi: rispondere alla violenza con la violenza, che è il contrario di qualsiasi conquista, rinfocola l’odio e genera spirali che può essere difficile controllare.


economia

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I riflessi industriali di un discusso matrimonio, che ha ricollocato Siena al centro del mercato

Mps-Antonveneta, un’operazione sottovalutata da Piazza Affari l 2007 è stato un anno che ha molto cambiato la geografia bancaria italiana. L’ultima importante novità è stata l’acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi. Ma non sono univoche le valutazioni su questa operazione, che ha portato Siena a divenire la terza realtà del Paese. Soprattutto si dovrebbe riflettere in maniera più pacata sulle reazioni della Borsa, le valutazioni degli analisti e la realtà di Rocca Salimbeni. Se il paragone con i due colossi italiani IntesaSanpaolo e Unicredit-Capitalia vede Mps ancora penalizzato in termini di presenza sul territorio e di utile consolidato di gruppo, l’integrazione con Antonveneta determina un gruppo bancario fortemente accresciuto in alcune aree geografiche come il Nordest, dove Siena non aveva una penetrazione capillare. Per esempio crescono i presidi in Veneto (+390 per cento), Friuli VeneziaGiulia (+1.100 per cento), Emilia Romagna (+84 per cento), Lombardia (+37 per cento) e Lazio (+58 per cento).

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Se si guarda agli effetti post fusione, il confronto in termini di presenza sul territorio con IntesaSanpaolo e con Unicredit mette in evidenza come il rapporto tra numero di filiali per tali gruppi sia passato da circa 3 volte, nel caso in cui l’acquisto non ci fosse stato, a circa il doppio rispetto all’attuale Mps. Infatti a fronte delle 6.100 filiali di Ca’ de Sass e delle 5mila di Unicredit, Siena passa a operazione conclusa da 1.900 a 2.900. Esito favorevole ai due colossi italiani anche se il confronto si fa in termini di utile consolidato di gruppo. Pur non colmando il gap con Intesa e Unicredit, l’operazione Antonveneta permette a Rocca Salimbeni un non trascurabile avvicinamento. Stando ai dati del terzo trimestre 2007, l’utile per Siena passa da 700 milioni di euro a 1,1 miliardi, mentre il gruppo guidato da Passera ha superato i 6,8 miliardi e quello guidato da Profumo i 5,3 miliardi. Sotto l’aspetto patrimoniale l’esborso di 9 miliardi di euro potrebbe essere considerato, da un lato, eccessivamente oneroso (soprattutto se si guarda al profilo del rapporto prezzi/utili e prezzo/valore contabile). Dall’altro si allinea con le paritetiche operazioni bancarie (prezzo per sportello). Per quanto riguarda l’aspetto reddituale sono state stimate sinergie per 360 milioni di euro (220 dalla razionalizzazione dei costi e 140 dall’incremento degli utili) a fronte di un costo per l’integrazione di 200 milioni. E tali stime potrebbero sembrare ottimistiche sia sotto un aspetto previsionale dell’andamento del mercato sia del trend dei costi supportati dagli altri soggetti per

di Alberto Brandani

Il costo dell’acquisizione, 9 miliardi, è stato alto, ma la nuova struttura permette a Rocca Salimbeni di crescere in termini di capitalizzazione e di presenza territoriale. Non solo nel Nordest carovita Con un accordo bypartisan che ha sorpreso un’America spaccata, George Bush ha portato a 145 miliardi di dollari il suo piano per aggredire la recessione. Alla Fed, intanto, sanno già che dovranno mostrarsi più generosi: il taglio ai tassi di 75 punti base è stato bollato dai mercati come un palliativo. A Francoforte, casa della Bce, anche i banchieri centrali provano a resistere al mercato: eppure toccherà anche a loro tagliare i tassi. Si dice che nel breve termine non si può fare altrimenti, ma nel lungo non si rischia per acuire il problema di liquidità, alla base della crisi di questi giorni? Intanto l’inflazione sale. Giuseppe Mussari, presidente di Mps operazioni analoghe (circa il 100 per cento delle sinergie a regime). Dal punto di vista della copertura finanziaria dell’operazione, i 9 miliardi che il Monte deve sborsare possono essere reperiti sulla base di diversi asset del gruppo. È tuttavia opportuno sottolineare che le operazioni che il gruppo può implementare per finanziare l’acquisto di Antonveneta hanno diversi gradi di liquidità. Alla sostanziale immediatezza (3-6 mesi) di operazioni quali l’aumento di capitale (4,5 miliardi) e vendita di partecipate del gruppo (Mps Vita, Finsoe, Sgr per complessivi 2,7 miliardi) fanno eco altre operazioni di vendita (filiali in ec-

cesso, partecipazioni agricole ed estere, patrimonio immobiliare, nonché il realizzo degli utili di esercizio, per complessivi 2,6 miliardi) i cui tempi di attuazione non sono immediati (6-12 mesi). La situazione complessiva, quindi, prevede realizzi di breve termine per circa 7,2 miliardi e realizzi di medio termine per circa 2,6 miliardi.

Tali realizzi di lungo termine non sono strettamente necessari, in quanto potrebbero costituire mera garanzia di un eventuale debito contratto per colmare i fabbisogni derivanti dal totale prezzo di acquisto (9 miliardi) meno il totale dei realizzi di breve termine (7,2).

In tal caso il fabbisogno da finanziare con debito ammonterebbe a 1,8 miliardi, che potrebbero essere garantiti da asset la cui vendita richiede tempi superiori al breve termine (e per 2,6 miliardi) Utili prospettici del gruppo (considerando che gli utili di Siena e Padova restino immutati nel prossimo triennio, il totale sarebbe pari a 3,3 miliardi), che determinerebbero un grado di copertura del nuovo debito pari al 183 per cento. Tali informazioni appaiono recepite nella struttura finanziaria che Mps sta approntando per l’operazione. Il finanziamento necessario, infatti, si fonda, oltre che sull’aumento di capitale (garantito, oltre che dalla Fondazione, dai cinque advisor Citigroup, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Credit Suisse e Mediobanca) e su una emissione obbligazionaria convertibile (da un miliardo) anche su un prestiti subordinati per circa 2 miliardi e, soprattutto, su un finanziamento ponte per quasi altri 2. Quest’ultimo finanziamento, definito a tassi inferiori all’interbancario, verrà garantito dalle stesse banche che appoggeranno l’aumento di capitale. Il ripagamento del finanziamento stesso verrà assicurato tramite l’alienazione delle partecipazioni, di parte del patrimonio immobiliare, e sportelli in eccesso, ovvero gli asset per i quali, come indicato in precedenza riguardo ai tempi per la copertura finanziaria dell’operazione, potevano prefigurarsi tempi di attuazione non immediati. Ciò a ulteriore testimonianza del grado di appetibilità degli asset di Mps.

È poi opportuno sottolineare quale sia il significato che il mercato dà all’operazione. Dal punto di vista strategico, infatti, appare che il mondo finanziario giudichi molto positiva l’acquisizione di Antonveneta da parte di MPS. Ciò sulla base del grado di esposizione verso la stessa che cinque tra le maggiori banche del mondo stanno conseguendo con la garanzia della ricapitalizzazione e del finanziamento ponte. In estrema sintesi, la sottoscrizione dell’operazione traduce il grado di rischio implicito dell’acquisizione, che, quindi, il mondo bancario direttamente interessato dallo stesso ritiene essere contenuto. Da ultimo si sottolinea che il finanziamento ponte, che come detto è regolato a un tasso inferiore all’interbancario, testimonia l’intenzione ferma degli advisor di entrare nel capitale del nuovo gruppo, ciò a ulteriore testimonianza dell’attrattiva dell’operazione. Vale a dire che l’andamento borsistico non rende giustizia all’operazione! Ma il vero valore dell’operazione è tutto strategico: apre a Siena il ricco Nordest e la rilancia nel mercato europeo.


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mondo

I candidati in lizza per le primarie del Gop non riescono ad entusiasmare la base del partito

Perché i repubblicani hanno nostalgia di Ronnie di William Kristol ditorialisti conservatori, commentatori radiofonici e blogger non sono felici. Non gli piace il team repubblicano in corsa alle presidenziali e molti di loro non nascondo un certo disprezzo per i vari candidati del Gop (il Grand Old Party è il partito repubblicano, ndr). Un esempio: John McCain - con un rating di gradimento dell’American Conservative Union, in tutta la sua carriera, dell’ 82.3 - non può definirsi un conservatore. E sebbene oggi sia il candidato in pole position della squadra, ben visto sia dai repubblicani che da tutto il corpo elettorale, se nominato causerebbe, probabilmente, la fine del partito. Che dire di Mike Huckabee? Governatore dell’Arkansas di successo, due volte eletto e la seconda conquistando anche il 40 per cento del voto nero. Nei sondaggi del Gop è saltato dal fondo classifica al secondo posto senza disporre di né di fondi né dell’appoggio dell’establishment. Eppure è ”avvertito”come un buffone e un politico naif. Schierato da tempo a favore della vita e della portabilità delle armi, benché nelle primarie sia sostenuto dagli elettori più conservatori, non è nemmeno lui un conservatore.

E

Oppure Mitt Romney, l’uomo dei grandi risultati, almeno secondo il giudizio di chi ha lavorato con e per lui. Da governatore del Massachussets ha preso posizioni conservatrici su questioni sociali e, da capolista dei repubblicani, non ha puntato alla rielezione in uno Stato che solitamente vota democratico (Blue State). Ma anche lui non merita rispetto. E sebbene abbia abbracciato le politiche conservatrici e sembra essere fedele nel perseguirle non può dirsi un conservatore. Potrei continuare. I candidati repubblicani sono problematici, ma tutto sommato finora si stanno comportando meglio di molti opinionisti conservatori. La verità è che al di là della normale fragilità umana, che colpisce tutti, anche gli editorialisti del mio giornale, persiste un ”errore” di fondo che inquina i nostri giudizi: la nostalgia per Reagan. È da pazzi aspettarsi un’altro Ronald Reagan. Ma non perché la sua eredità politica sia rara. La sua ”eccezzionalità” sta nel fatto che è stato l’unico presidente nell’ultimo secolo a salire alla Casa Bianca come leader di un movimento ideologico. Reagan ereditò con il «discorso» dell’ottobre del 1964 la leadership del movimento conservatore

dopo la sconfitta di Goldwater, due anni più tardi sconfisse l’establishment repubblicano moderato, per vincere la nomination del Gop a governatore della California e poi sbaragliare la minaccia democratica. Durante i suoi due incarichi come governatore rimase il leader nazionale dei conservatori, corse senza successo nel 1976 contro Gerald Ford e vinse la presidenza nel

John Kennedy a George W. Bush ne sono dei tipici esempi. Possono essere dei buoni candidati e dei presidenti in gamba. Possono promuovere le cause del loro movimento. Ma non sono Reagan. Sotto questo profilo il campo del Gop è ordinario. I conservatori troveranno, in ogni candidato, cose che piacciono e dispiacciono, che danno o tolgono fiducia. Va bene. Si potrebbe anche

Per il polemico direttore del Weekly Standard,

Romney, McCain e Huckabee sono solo una pallida copia dell’originale. La soluzione ci sarebbe, ma è una provocazione: rispolverare il vicepresidente Dick Cheney

1980. Fu prima un conservatore e poi un politico, prima un lettore della National Review e di Human Events e poi un politico eletto. Un fatto straordinario. Il presidente americano è un politico, con una visione ideologica abbastanza coerente capace di diventare il tramite di un movimento ideologico. Franklin Roosevelt,

argomentare che la fase delle primarie, caratterizzata dal dibattito e dalla competizione, sia positiva, più salutare di un’incoronazione e che i candidati del partito da questo processo escano rafforzati. Così gli opinionisti conservatori dovrebbero fare un bel respiro, dare meno giudizi su questo o quel candidato e rendersi conto

che non è nelle cose che “arrivi” un secondo Reagan. Potrebbero anche imparare dalla storia del liberalismo, il movimento politico americano di maggior successo nei primi due terzi del Ventesimo secolo. Le sue tre icone sono state Theodore Roosevelt, Franklin Roosevelt e John Kennedy. Tutti promotori del liberalismo nel loro incarico alla Casa Bianca. Ma nessuno ne è stato un portatore-sano prima di diventare presidente. Questo significa solo una cosa: un movimento politico maturo, serio e di successo deve imbarcare uomini di questo genere per promuovere i propri principi e la propria causa. I conservatori possono pensare che John McCain sia il nostro potenziale Teddy Roosevelt, Mike Hackabee il nostro FDR e Mitt Romney il nostro JFK e sostenere il preferito. Ma non dovrebbero farsi prendere dalla frenesia dello scontro con gli altri candidati. Dovrebbero lasciare emergere il migliore dalla sfida delle primarie. E se non ci fosse la vittoria netta di un candidato, allora i delegati della convention del Gop potrebbero optare per il quinto e più evidente candidato di ripiego e compromesso, uno che andrebbe bene solo per i conservatori: Dick Cheney!


mondo

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Beirut: autobomba contro la polizia nel cuore del quartiere cristiano.

Il Libano rischia la guerra civile di Kassem Ja’afar al 23 novembre, dopo l’uscita di scena di Emile Lahoud, il Libano è senza presidente.Tanto da scivolare lentamente verso il baratro. Ieri un’automba è esplosa uccidendo almeno 4 persone fra cui il capitano delle Forze di sicurezza Wisam Eid, figura chiave che stava indagando sull’omicidio dell’ex premier Rafic Hariri. La scia di sangue è destinata ad aumentare se la maggioranza antisiriana e l’opposizione guidata da Hezbollah non riusciranno a trovare un’intesa per eleggere il nuovo capo dello Stato. Si tratta su Michel Suleyman, attuale comandante delle Forze Armate, sulla carta gradito a maggioranza ed opposizione. Ma è evidente che la sua non sarebbe una permanenza transitoria. Prevale dunque lo scetticismo sulla possibilità che, dopo ben 13 rinvii, il prossimo 11 febbraio il Parlamento possa eleggere un nuovo presidente La svolta potrebbe arrivare dalla formazione di un governo di unità nazionale ma la distanza tra le parti è al momento incolmabile. Hezbollah e i suoi alleati non vogliono la riconferma del premier attuale Siniora e chiedono un numero di ministeri e, soprattutto, un diritto di veto sulle decisioni del futuro ese-

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cutivo.Veto che la maggioranza non è disposta a concedere per non trovarsi un governo paralizzato dalle forze alleate della Siria. Forze che contano sul supporto di due figure chiave fortemente legate al leader iraniano Ahmadinejad e che lavorano nell’ombra per affossare ogni soluzio-

mento 14 marzo composto da cristiani, drusi, antisiriani e favorevoli alla risoluzione Onu 1559. Il tempo non è dalla loro parte, e questo fa si che la situazione precipiti sempre di più. La loro richiesta sulla percentuale di voti necessari all’elezione del nuovo presidente, sintetizzabile in 50 + 1, si scontra con le forze

Si allontana l’ipotesi di un governo di unità nazionale. A lavorare nell’ombra i deputati filo Hezbollah Berri e Aoun ne: Nabih Berri e Michel Aoun, i due deputati che nelle scorse settimane hanno bloccato la lista proposta - grazie alla mediazione francese - dal patriarca maronita di Beirut, il cardinale Nassrallah Sfeir. I due, membri del cosiddetto blocco 8 Marzo, sono sul piede di guerra contro Saad Hariri, leader del movi-

di Berri e Aoun che chiedono i due terzi dei voti. Il braccio di ferro può portare il Paese dei Cedri sull’orlo di una guerra civile ed è certo che i due deputati utilizzeranno ogni mezzo per compromettere le elzioni. Usa ed Europa non devono cedere su questo punto: ci sono due gruppi di poetere in Libano: il

primo, foraggiato da Siria ed Iran, conosce la lingua della violenza, il secondo è un alleato occidentale. Bisogna sostenerlo in ogni modo. Nei giorni scorsi il Segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, ha tentato di mediare un compromesso tra le parti ma è chiaro che oggi si deve arrendere. Il piano, approvato dalla Siria e da Siniora, è fallito e al momento non si intravede alcuna nuova iniziativa internazionale in grado di portare maggioranza ed opposizione ad un accordo. Le polemiche intanto divampano: con il leader druso Walid Jumblatt, uno dei principali esponenti della maggioranza, che accusa Hezbollah di prepararsi ad una nuova guerra contro Israele che finirebbe per pagare tutto il Libano. E quelle dell’ex presidente Amin Gemayel, che hanno puntato l’indice contro il segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che lo scorso 19 gennaio, nel giorno dell’Ashura sciita, aveva proposto a Israele uno scambio tra prigionieri libanesi e resti di soldati dello Stato ebraico caduti in combattimento nel Libano del sud. La guerra delle parole alla quale stiamo assistendo potrebbe preludere a qualcosa di più grave. La guerra civile.

Dalle piazze di Porto Alegre a un rinvio al 2009. I No global perdono la loro vetrina internazionale

Chi si ricorda il World Social Forum? o sapete che fine ha fatto il World Social Forum? La grande kermesse alternativa al Forum economico di Davos non è sparita, ma si è data una pausa di riflessione ”decentratandosi” al massimo. Dopo l’edizione di Nairobi del 2007, infatti, la prossima si terrà in Amazzonia nel 2009. Per quest’anno e proprio oggi, si tiene invece una “Giornata Globale d’Azione”, articolata in una rete di centinaia di eventi minori sparsi per tutto il Pianeta. “Agire localmente per cambiare globalmente”, è lo slogan che spiega la nuova filosofia. Qualche maligno potrebbe allora evocare la storia antica della volpe e dell’uva: se non altro, pensando all’attenzione dei mass-media internazionali che è via via andata scemando a ogni nuova edizione. Ma il problema è più complesso. Venuto clamorosamente allo scoperto con la contestazione al vertice Wto di Seattle del 1999, il movimento no global trovò un importante sponsor nel Partito dei Lavoratori (Pt) di Lula: che stava preparando l’attacco al potere nazionale e che intendeva mostrare la vetrina della propria “buona amministrazione”al municipio di Porto Alegre e allo Stato del Rio Grande do Sul, proponendola come esempio mondiale di “altra

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di Maurizio Stefanini politica possibile”. Ha funzionato, fin troppo. Nel senso che Lula dopo le prime due edizioni di Porto Alegre nel 2003 poteva salutare la terza edizione come presidente eletto. Un presidente, però, che si sceglieva come vicepresidente un industriale liberale, andava a parlare a Davos, faceva accordi con George W. Bush, si manteneva sul piano dell’ortodossia economica più stretta e costringeva la sinistra radicale ad andarsene dal Pt sbattendo la porta. Insomma, si risolveva in un tranquillo socialdemocratico tradizionale: appena un po’ più terzomondista di Blair, giusto perché dopo tutto è capo dello Stato di un Paese del Terzo Mondo. Nel contempo, lo stesso elettorato che mandava il Pt al governo nazionale gli toglieva prima nel 2003 lo Stato del Rio Grande do Sul, poi nel 2004 pure Porto Alegre. Insomma, modello finito. Nel frattempo il Wsf aveva imparato a camminare con le sue gambe, in particolare con l’edizione indiana di Mumbai del 2004: la prima fuori dell’ormai “profanata” Porto Alegre, dove comunque è tornato nel 2005. Ma a quel punto è risultata manifesta

l’ormai totale estraneità del pragmatismo di Lula presidente rispetto al sentire alternativo della manifestazione. Un sentire su cui ha cercato di mettere il cappello Hugo Chávez, proponendovisi come l’erede dell’Unione Sovietica, alla testa del «nuovo socialismo del XXI secolo». Va detto che neanche il Movimento dei Movimenti si è fidato troppo, tant’è che l’appuntamento del 2006 è stato diviso in tre, affiancando alla sede di Caracas quelle di Bamako e di Karachi. Per poi tornare a una sede unica a Nairobi, ma con critiche pesantissime dei gruppi di base contro il “verticismo” delle sempre più invadenti ong. Adesso, dunque, si cerca di ripartire proprio dalla base. Dalla grande conferenza della società civile afghana curata a Kabul dalla ong italiana Peacewaves al convegno di Algeri, alla marcia di Dacca per il diritto alla casa dopo i recenti uragani, alla manifestazione contro il debito di Cotonou, al corteo di Carnevale di Belem, alle azioni degli sfollati di Katrina a New Orleans, alla protesta contro il muro anti-immigrati tra Stati Uniti e Messico, fino agli incontri tra pacifisti israeliani e palestinesi al confine di Gaza e all’iniziativa in Iraq per sostituire le pistole giocattolo con palloncini.

Gli Usa pronti ad andare in Pakistan

Berretti verdi in aiuto di Musharraf di Stranamore li Stati uniti sono pronti a inviare truppe in Pakistan per aiutare l’alleato a combattere la minaccia rappresentata dalla guerriglia talebana e di Al Qaeda nella turbolenta area tribale al confine con l’Afghanistan. Discussioni sono in atto per definire il contenuto di una cooperazione che a lungo Islamabad ha rifiutato. Ma ora il clima è cambiato. A dispetto della situazione interna, il presidente Pervez Musharraf continua le operazioni in Waziristan e in tutta l’area tribale e il nuovo capo dell’Esercito, Ashkaq Kiyani, ex capo dei servizi, è favorevole a rafforzare la cooperazione con gli Usa. Già da qualche tempo Stati Uniti e Pakistan hanno intensificato i rapporti militari, con l’invio di team dei Berretti verdi ad assistere i reparti pakistani, l’arrivo di equipaggiamenti, materiali, istruttori per formare reparti commandos e una condivisione di informazioni intelligence. Ora però si vuol fare di più: è in costruzione il primo di otto centri di comando e controllo lungo il confine afgano e questi centri avranno uno staff formato da ufficiali pakistani, afgani e statunitensi. Ci si avvia quindi a condurre operazioni anti-talebane trasfrontaliere congiunte su base regolare, mentre oggi al più i Pakistani fingono di non vedere le incursioni (limitate in profondità) delle forze speciali Usa e dei paramilitari della Cia oltre confine. Ma c’è di più, anche il coinvolgimento in combattimento di soldati americani a fianco dei colleghi pakistani potrebbe non essere più un tabù. Per gli Stati Uniti si tratta di uno sviluppo cruciale in vista della minacciata (e però improbabile) ripresa primaverile delle offensive su vasta scala da parte dei Talebani attraverso il confine orientale. Musharraf dal canto suo si vede confermare l’aiuto americano, politico, finanziario e militare, che sembrava a rischio dopo il quasi colpo di stato e l’assassinio di Benazir Bhutto. Che Musharraf si senta più tranquillo è confermato dal test effettuato con un missile balistico a breve raggio HATF IV/Shaheen 1, un potenziale vettore di testate nucleari.Testate che Musharraf sostiene siano in buone mani. Indubbiamente le misure di sicurezza sono state rafforzate. Ma anche su questo versante la collaborazione con gli Usa sta aumentando. Fidarsi è bene, ma…

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local

Torino, una città che continua a perdere colpi lettera da Torino di Bruno Babando orino è in via d’estinzione. Ancora crita e di conformismo cortigiano, e la comun paio d’anni e quella città, severa e plessità di un mondo globalizzato. Eppure, ferrigna, l’ex capitale politica e la pa- dai tempi in cui corso Marconi, quartier getria della cultura fordista (e del suo nerale della Fiat, e via Chiesa della Salute, corollario, l’operaismo comunista), proprio sede della federazione comunista, rapprealla vigilia delle celebrazioni del centocin- sentavano i due centri della toponomastica quantenario dell’Unità dItalia, sarà definiti- del potere locale (e, in larga misura, pure di vamente scomparsa. Come la si voglia defi- quello nazionale), poco o nulla è mutato. nire, e ogni definizione sottolinea una delle Stessi nomi, indirizzi appena modificati, mille valenze del procesmedesimi riti di cooptaIl tracollo so in corso – declino, mezione, identici meccanitamorfosi, transizione – smi di reclutamento. Andel sistema la mutazione è palpabile: zi, a dirla tutta, le reti si sul piano urbanistico, sono fatte più strette e si che faceva capo con la ristrutturazione di è assistito a una disperaampie zone centrali e la ta corsa a serrare i ranalla famiglia Agnelli rilocalizzazione di siti e ghi, a fare quadrato atservizi; a livello induha ristretto ancora di più torno ai privilegi di casta, rafforzando quei lestriale ed economico, gli ambiti gami familistici e corpocon la riconversione di rativi che da sempre imprese manifatturiere, connotano l’establishil crepuscolo di alcune di partecipazione ment torinese. La fedeltà storiche famiglie imcontinua a essere il criteprenditoriali, il proliferare di attività terziarie e del loisir, la febbrile rio principale di selezione, meriti e capacità, mobilità del capitale finanziario e la sua quando va bene, sono un semplice orpello, e riorganizzazione; nel tessuto sociale, con l’autoreferenzialità rimane l’unico parameradicali cambiamenti della sua struttura e tro di confronto e di valutazione del proprio operato. Il sistema Torino è chiuso in se stescomposizione. so, avviluppato in un mercato della politica Fenomeni che dovrebbero agitare il son- e della rappresentanza sociale che non è più no della classe dirigente subalpina, costrin- in grado di coordinare il libero gioco degli gendo quel ceto che, dopo il tracollo del si- interessi. Si è sclerotizzata un’oligarchia stema di potere fiatcentrico, si è trovato a clientelare, un regime del privilegio retto governare le sorti della città a fare i conti la sulla confusione tra interesse privato e serstridente contraddizione tra le vecchie litur- vizio pubblico. Lo scontro che si sta consugie sabaude, impregnate di doverismo ipo- mando per il controllo delle due fondazioni

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Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata

Alessandro Manzoni

bancarie (la Crt, ma soprattutto la Compagnia di San Paolo) è, in tal senso, emblematico. Torino sta tutta in una rubrica telefonica, una di quelle tascabili, formato mignon, con pochi fogli per ogni lettera. In un pugno di numeri telefonici c’è la cifra che governa la città: trenta-quaranta utenze al massimo che si chiamano tra loro, concordano le linee politiche e amministrative, stabiliscono le priorità degli interventi pubblici, decidono le nomine nei principali enti di sottogoverno. Una cerchia di amici, parenti e conoscenti, il cui unico collante è il potere e che risponde esclusivamente a se stessa. Mai come in questo scorcio d’inizio secolo il capoluogo piemontese ha sofferto un così marcato deficit di classi dirigenti.

T u tto s omm at o, nel lungo regno della Sacra Ruota c’era maggiore vitalità, gli interessi organizzati esprimevano una certa pluralità di élite, la dinamica sociale produceva rappresentanze non effimere, ma assai concrete e i meccanismi di selezione del personale politico e dirigente erano, pur nella loro inviolabilità, se non proprio trasparenti almeno pubblicamente noti. Oggi è peggio. Il tracollo del sistema feudale agnellesco invece di moltiplicare lobby e centri di potere ha ristretto ancor più gli ambiti della partecipazione e reso imperscrutabile l’affermazione degli interessi. Un’opacità elevata a regime, racchiudibile nell’immagine musiliana di una città anchilosata in inutili rituali di corte mentre il mondo sta crollando. Hanno fatto quadrato attorno ai ruderi di quel sistema, elevando al rango di padri

nobili un paio di vecchi famigli che si sono distinti esclusivamente per lo zelo col quale hanno curato gli affari del loro padrone (e, abbondantemente, pure i loro). Se è vero che le élite sono lo specchio della società e che ogni paese ha la classe dirigente che si merita, allora non è peregrino affermare che il basso profilo dell’establishment subalpino è speculare alla mediocrità della società torinese. A dispetto di quanto la propaganda olimpica ha spacciato come una sorta di rinascimento, di new deal del bicerin, sotto la Mole è depressa la classe imprenditoriale, capitanata ai massimi livelli dal leader dell’Unione Industriale che ha ceduto l’impresa di famiglia e dal presidente di un’importante categoria metalmeccanica che ha subito l’onta del fallimento della sua fabbrica. E se la vicenda della carrozzeria Bertone, con la sua dynasty giandujesca, ha assunto toni da soap opera, anche le sorti della Pininfarina, travolta da una seria crisi finanziaria e industriale, sembrano appese a un filo.

C h e t u t t o non sia rose e fiori, e che, nonostante la sbornia di notti bianche e di Eventi, la società torinese sia sofferente lo testimoniano le diffusione di ansiolitici e antidepressivi che hanno raggiunto vendite record proprio tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, cioè in pieno boom olimpico. Insomma, l’illusione di indorare la pillola ai concittadini è forte tra le classi dirigenti torinesi. Ma dall’assuefazione al rigetto il passo è breve. Lo testimonia la diffusione di ansiolitici e antidepressivi..

LA FORZA

DELLE IDEE

C A M P A G N A

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❏ semestrale

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musica

26 gennaio 2008 • pagina 21

Le memorie di Pannonica di Koenigswarter, amica dei più grandi da Parker a Mingus

La baronessa del jazz di Adriano Mazzoletti a bibliografia jazzistica ormai ricca di oltre trentamila volumi, fra enciclopedie, biografie, autobiografie, storie del jazz, studi sociologici - ricordiamo quello di Eric Hobsbawn nonché romanzi ispirati alla vita delle grandi figure del passato, «specialità» questa, se vogliamo così definirla, di Alain Gerber, vincitore di un Prix Gouncourt, si è arricchita recentemente di un’altra importante opera, la cui lettura è di grande interesse anche per coloro che non sono addentro ai «segreti» del jazz. È stato realizzato attingendo ai manoscritti lasciati dalla baronessa Pannonica di Koenigswarter, nobildonna figlia di Charles e Rozsika von Wertheimstein. Appassionata di jazz già all’inizio degli anni Trenta, divenne negli anni Cinquanta, non solo la musa ispiratrice di molti musicisti, ma soprattutto - in un periodo spesso poco felice per quegli stessi grandi solisti - la loro mecenate. La vita avventurosa di questa signora del jazz è un racconto affascinante. Ancora adolescente viene premiata con una medaglia d’argento dalla Royal Drawing Society per i suoi dipinti.

35,00 euro)? Sua figlia Nadine ha rintracciato fra i numerosi manoscritti della madre, le risposte autografe di trecento musicisti ai quali Nica aveva chiesto, quasi per gioco, di rispondere a un semplice quesito. «Se ti dessero la possibilità di vedere realizzati tre desideri, quali vorresti che si avverassero?». Domanda quasi infantile, ma interessante visto a chi era rivolta. Ecco alcune delle risposte.

L

Quadri astratti, di piccolo formato, dai vivaci colori dipinti a olio, in cui la piccola Pannonica mischia latte, whisky, profumi. Nel 1931 è all’Accademia d’Arte di Monaco. Il nazismo è alle porte. Torna a Londra. Nel 1935 prende il brevetto di pilota. Sul campo di aviazione di Touquet nel Nord della Francia incontra il futuro marito Jules De Koenigswarter. Allo scoppio della guerra entra a far parte con lui delle Forze armate francesi di Liberazione del generale De Gaulle. Entra nel controspionaggio e nel corso del conflitto agisce, con il marito, in molte regioni africane. È commentatrice a Radio Brazzaville, autista militare nel Centro e Nord Africa. Al termine del conflitto, segue il marito ambasciatore in diverse nazioni. Stanca della vita monotona delle ambasciate, divorzia e si stabilisce a New York. Dopo aver vissuto nei migliori alberghi, trovandosi frequentemente dichiarata ospite non

Nella foto in alto: Hank Mobley (seduto) Charlie Rouse due sassofonisti a casa di Pannonica. In basso: Charlie Mingus, la copertina del libro di Pannonica di Koenigswarter e Charlie Parker

La nobildonna divenne negli anni Cinquanta musa ispiratrice e mecenate del gotha jazzistico. Nella sua casa del New Jersey, battezzata da Thelonious Monk ”Catsville”, ospitava centinaia di musicisti per lunghissimi periodi gradita a causa delle interminabili jam session che ogni notte avevano luogo nelle suites dove si riuniva il gotha del jazz nero di New York, acquista a Weekhawken nel New Jersey, la vecchia casa del regista Joseph von Sternberg. Fu Thelonious Monk, uno dei geni assoluti del jazz che più di ogni altro frequentava quella casa a battezzarla Catsville,

casa dei gatti, non solo per le centinaia di felini che avevano trovato ospitalità nel grande parco, ma anche per le centinaia di musicisti che vi abitavano per lunghi periodi (Cats nello slang americano significa musicista). Dal 1955 furono molti a frequentare quella villa, da Charlie Parker, che vi morì nel pomeriggio dael 12 marzo 1955, a

Charlie Mingus, da Monk a Horace Silver e il repertorio del jazz è ricco di brani scritti in onore di quelle donna così straordinaria. Fra i più celebri Pannonica di Thelonious Monk, Nica’s Dream di Horace Silver e decine d’altri. Ma in cosa consiste Les Musiciens de jazz et leurs trois vœux di Pannonica De Koenigwarter (Buchet Chastel,

La maggioranza esprime il bisogno di pace, amore e felicità e soprattutto il grande desiderio di veder riconosciuta la propria arte. Ma c’è anche chi, malgrado avesse avuto successo, sperava in una maggiore considerazione economica, come la tromba Roy Eldridge che si augurava di avere i soldi per terminare la sua formazione di tecnico radiotelevisivo, per «smettere di soffiare nella tromba ogni sera», lui che è stato uno dei musicasi più acclamati. Ma leggiamo altre risposte. Dizzy Gillespie: «Non essere più obbligato a suonare per soldi. La pace nel mondo per tutti. Non aver più bisogno di passaporto». Elvin Jones: «Pace sulla terra. Che la nostra musica sia riconosciuta come Arte. Che l’umanità cessi di soffrire». Johnny Griffin: «Vorrei conoscermi meglio. Più amore nel mondo. Che il jazz venga riconosciuto come vera Arte». Horace Silver: «L’immortalità. La ricchezza. Un figlio». Wayne Shorter: «Non più guerre. Che il mondo intero inizi a interessarsi alla cultura. Pace sulla Terra e ovunque… anche negli altri pianeti del settore». Charlie Mingus: «Non ho nessun desiderio, solo avere un po’ di sodi per poter pagare le fatture». Archie Shepp: «Liberarmi dalla povertà. Per il secondo non saprei. Essere libero». Ma chi sorprende è Miles Davis, una sola secca risposta: «Essere bianco!». I quasi novecento desideri, elencati nel bel volume di Pannonica de Koenigswarter svelano molto di più sul jazz e su coloro che lo suonano piuttosto che intere enciclopedie. Un libro, per il momento solo in edizione francese, ricco di splendide foto inedite provenienti dall’archivio della Baronessa del Jazz.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

Giovani: precari a vita o disoccupati? Se i giovani non lavorano e vanno di moda calciatori e veline è anche colpa nostra Non ci sarebbero giovani precari se le politiche scolastiche degli ultimi vent’anni non fossero state tutte a senso unico circa la necessità di ottenere una laurea ad ogni costo. Se avessimo insegnato ai nostri giovani a esercitare un mestiere, e spiegato loro che si può vivere bene anche senza la laurea, forse avremmo meno disoccupati. Si parla del made in Italy portato come esempio di eccellenza, ma provate a chiedere ai grandi sarti se trovano qualcuno disposto a imparare l’arte del cucito. Credo proprio di no. Eppure sarebbe un lavoro dignitoso, dalle grandi soddisfazioni. Ma oggi vanno di moda calciatori e veline, e per farlo non occorre laurea.

Gloria Pellacani - Carpi (Mo)

Bisogna costruire il sogno di una rivoluzione liberale e una nuova classe dirigente Né precari a vita né disoccupati, ma vittime innocenti di un’amministrazione governativa cieca, sorda e colpevole di aver imbrigliato per sempre il ”mercato del lavoro”, anziché liberarlo. Il difficile ora è essere ottimisti e invertire quella sensazione tangibile di ”caduta libera” del nostro Paese. Dovremmo sognare una vera rivoluzione liberale e una classe dirigente nuova.

Alberto Moioli - Lissone (Mi)

I co.co.co? Almeno non stupiamoci più della fuga all’estero dei giovani cervelli Gentile direttore, sono una ragazza di ventinove anni e decisamente appartengo alla ormai difusissima ”casta” di bamboccioni, precari, ma con tanta voglia di lavorare. Non sono laureta ma ho una discreta cultura, e soprattutto un’esperienza nel mondo del lavoro che mi permette con semplicità di al-

ternare mestieri impegnati a impieghi che richiedono meno ”capacità intellettuali”. Come me vedo in giro moltissimi altri ragazzi, magari anche dotati di laurea e voglia di lavorare, ma che purtroppo non riescono ad acciuffare neanche uno straccio di contratto, se non forse un famigerato co.co.co. a scadenza semestrale. Ora mi chiedo: ma c’è davvero così da stupirsi per la fuga di giovani e brillanti cervelli all’estero?

Il centrodestra riuscirà a ricompattarsi?

QUI LO DICO

On. Adornato, prima di tutto complimenti per il nuovo quotidiano che ha aperto. Finalmente una voce autorevole nel panorama poco confortante dell’editoria di centrodestra. Mi permetto di rivolgerle una domanda: cosa farà il centrodestra dopo la caduta del governo Prodi? Dopo la fine della CdL rischiamo di presentarci alle elezioni con un’aggregazione politica distrutta che soprattutto non si fa più capire dall’elettorato. Riusciranno a comprenderlo Berlusconi, Fini e Casini? Cordiali saluti.

Flavia Massimini - Matera

Annalisa Borgomini - Milano

”Vecchie cariatidi” fatevi da parte o noi giovani non avremo mai spazio Primo: facciamola finita col pensarci sempre e solo delle povere vittime del precariato, vivaddio non è sempre vero. Secondo: ma non andava di moda un tempo la frase ”largo ai giovani”? Ma se le ”vecchie cariatidi”non si fanno mai da parte, come facciamo noi a farci le ossa e aggredire il mondo del lavoro?

Gianluca Fortuna - Potenza

Ha ragione il ministro Padoa-Schioppa: purtroppo siamo tutti bamboccioni Sono finalmente felice di poter dire la mia su un argomento che mi tocca così da vicino. Ormai è ufficiale: ci hanno abbandonato. I politici intendo, ed è vero. Ci hanno fregato. Coi contratti di collaborazione continuativa intendo, ed è altrettanto vero. Però, però, però, quello che invece non è così ”assolutamente vero”, è che noialtri giovani abbiamo tutti quanti questa grande voglia di misurarci sul campo. Ebbene sì, Padoa-Schioppa aveva ragione: temo purtroppo di conoscere moltissimi coetanei che pur di rimanere a casa coi genitori e di non mettersi a lavorare sarebbero capaci di qualsiasi cosa e poi di costruirsi il facile alibi della precarietà. Ita est.

Alfredo Simiele - Isernia

LA DOMANDA DI DOMANI

Stati Uniti: chi vorreste presidente? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

PRODI E’ CADUTO RISOLLEVIAMO IL PAESE Come già qualche leader del centrodestra italiano ha avuto modo di affermare, ora bisogna ”risollevare l’Italia dalle macerie in cui l’hanno gettata due anni di malgoverno”. Sarà un’impresa difficile, a tratti drammatica, ma certamente non impossibile. Esaltante, se sapremo affrontarla con lo spirito giusto e soprattutto se il centrodestra non si limiterà a proporre un programma frutto di un solo e semplice cartello elettorale. Ancora una volta il presidente Adornato ha da tempo indicato la soluzione al problema, proponendo la ripresa dei lavori della Costituente, sottoscritta dai leader di An, Forza Italia ed Udc. Sinceramente non vedo altra soluzione, sia nei contenuti che nella forma. Il tempo stringe e i lavori avanzati dell’Assemblea rappresentano l’unica, concreta e reale piattaforma su cui il futuro centrodestra italiano può plasmare un programma di governo che serva a vincere, ma soprattutto a governare il Paese.

Prodi doveva dar retta a Napolitano e fare le riforme Veramente non se ne poteva più. Ora mi auguro che Prodi si ritiri a vita privata e non rompa più noi poveri italiani. Se avesse dato retta a Napolitano e non avesse subìto l’onta della sfiducia, avrebbe forse meritato di condurre il Parlamento alla nuova legge elettorale, ma ora non più. Ha sfidato tutti e ha perso.

Alessandro Coratti - Como

Se i vigili multassero le automobili in doppia fila Caro direttore, sono una cittadina romana.Vivo e lavoro in questa città, pago regolarmente le tasse, anche quelle comunali. Ma, come credo tutti, sono angosciata dal traffico. Percorro 30 km al giorno, ma non incontro mai un vigile a multare, per esempio, le macchine in seconda fila che rallentano notevolmente la viabilità. Incontro spesso inve-

dai circoli liberal

La legge elettorale a questo punto diventa un falso problema, soprattutto se i partiti, nello scegliere i loro rappresentanti, non utilizzeranno il principio dell’ubbidienza, bensì quello della capacità, della meritocrazia e della intelligenza dei singoli soggetti chiamati a rappresentare il popolo e le Istituzioni. Il popolo chiede agli addetti ai lavori di indicare con chiarezza non solo gli obiettivi, ma anche come, in che modo e con quale approccio sociale, poilitico e culturale affrontarli. Per fare ciò occorre una larga e più profonda condivisione dei principi e dei valori che stanno alla base della coalizione, e che in nessun modo possono prescindere dalla salvaguardia del bene comune. L’Assemblea costituente, la Carta dei valori e quanto i Circoli Liberal ed il suo presidente Adornato hanno giustamente proposto, e con caparbietà riproposto all’intero centrodestra italiano, vanno in questa direzione. La direzione di chi crede che prima dei voti venga il programma, che prima del programma vengano i va-

C’è chi invoca la prova televisiva, chi disseziona il filmato alla moviola e chiede la squalifica a vita, chi grida alla simulazione e chi studia il labiale. Nel tentativo di ricostruire le vicende che hanno portato Nuccio Cusumano all’infortunio patito in Transatlantico, c’è pure chi chiede tre giornate per Tommaso Barbato. L’unico a preoccuparsi per la cagionevole salute di Cusumano, è stato Mastella. Il leader dell’Udeur ha assicurato che Cusumano è già stato trasportato in tutta fretta presso la Asl di Benevento per accertamenti. Secondo quanto trapelato, i primari hanno stabilito che Nuccio sarà sottoposto a una rigorosa dieta a base di liquidi”.E’ in buone mani – ha detto Mastella – e poi è a un tiro di sputo da casa mia”.

ce i vigilanti che multano (a percentuale) le macchine regolarmente parcheggiate!! Non c’è via di uscita?

Marcella Salvati - Roma

Marrazzo dichiara guerra agli ospedali religiosi E’ sempre più importante il problema ”liste d’attesa”nella sanità laziale. Mi chiedo allora perché il presidente del Lazio, Piero Marrazzo, quando è diventato governatore della regione abbia dichiarato guerra agli ospedali religiosi classificati, riducendo notevolmente il budget e pagando anche il 50% in meno una prestazione rispetto alla ospedalità pubblica. Anche il papa ne ha parlato di fronte al sindaco Veltroni, a Marrazzo e al presidente della Provincia di Roma Gasbarra. Possibile che il laicismo di Marrazzo, a parità di qualità di prestazione, debba costituire un grave disagio per i cittadini?

Massimo Fasti - Roma

lori, che prima dei valori vengano le idee, e che prima delle idee vengano le regole libere e democratiche su cui fondare la propria azione politica ed amministrativa a tutti i livelli di governo. D’altronde lo stesso Aristotele diceva: ”Io, senza le regole, non sono nessuno”. Vincenzo Inverso

SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

APPUNTAMENTI BARI - 28 GENNAIO 2008 Aula Aldo Moro - Facoltà di Giurisprudenza piazza Cesare Battisti 1 Presentazione del libro ”Fede e Libertà”, di Ferdinando Adornato e Rino Fisichella ROMA - 31 GENNAIO-1-2 FEBBRAIO 2008 Università Lateranense, Tempio di Adriano, Palazzo dei Congressi Meeting internazionale ”Cambio di stagione: 1968-2008, quarant’anni dopo”


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

”La vita ci insegna a pensare, il coraggio a esporci a ciò che è ancora impensato” I contemporanei ricordano l’ottantesimo compleanno del maestro, dell’insegnante, alcuni anche dell’amico. Si fermano e cercano di rendersi conto di cosa abbia significato per loro, per il mondo, per l’epoca, questa vita che, raccolta nella sua pienezza, appare come una presenza attuale. La vita e l’opera ci hanno insegnato cosa significa pensare, e che gli scritti ne rimarranno esemplare testimonianza per il coraggio di osare addentrarsi nelle immensità inesplorate, di esporsi a ciò che è ancora impensato, il coraggio che deve contraddistinguere colui che non ha fondato la sua vita su nient’altro se non sul pensiero e sulla sua profondità inquietante. Possano quelli che verranno dopo di noi, quando ricordano il nostro secolo e i suoi uomini, non dimenticarsi anche delle devastanti tempeste di sabbia da cui noi tutti siamo stati travolti, e in cui tuttavia sono stati possibili qualcosa come quest’uomo e la sua opera. Hannah Arendt a Martin Heidegger in occasione del suo ottantesimo compleanno

Non lasciamo alla sinistra la battaglia del precariato Bene, è fatta! Prodi e relativa banda se ne dovranno andare. Chi scrive è un ventottenne da quattro anni precario presso un’azienda informatica. Io sono convinto che la legge Biagi abbia prodotto una svolta positiva per noi giovani, però non si puo’ vivere da precari per tutta la vita. Il centrodestra - sia che torni al potere, sia che resti all’opposizione - si faccia interprete di questa difficolta giovanile, non lasci alla sinistra questo cavallo di battaglia che, alla lunga, potrebbe diventare vincente. Grazie dell’ospitalità.

Lettera firmata

Che vergogna: rimpiango addirittura il Pentapartito Champagne e mortadella in Aula? Sputi e risse? Cortei non autorizzati? Come sta finendo male la politica italiana. Mi sto vergognano di me stesso: addirittura rimpiango il Pentapartito! Magari i politici di oggi avessero anche solo un decimo della levatura e della caratura di Andreotti, Spadolini, Craxi, Forlani. Oggi, solo arrivisti e rubagalline che fanno di professione il politico. Ma non co-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

noscono i problemi della gente e ci offrono solo spettacoli indegni. Il teatrino del centrodestra poi è quello più fastidioso. Oltre a Bossi e forse Berlusconi, chi è che vuole veramente le elezioni? Nessuno. Troppo impegnati a preoccuparsi di pensioni e benefit parlamentari.

Eraldo Postiglione - Imola

Qualcuno dovrebbe pensare ai veri problemi del Paese Crisi di governo? Referendum? Vassallum? La realtà è che qualunque cosa accada all’interno del Paese, a rimetterci sono sempre gli italiani. Non si tratta della elettorale, non è questa che ora fa la differenza.Vogliamo parlare dei candidati dei vari partiti? Nessuno riesce a comprendere come si possa-

no mettere al governo incompetenti che riescono solo a far scendere il caos nelle strade, tra le famiglie, al lavoro. Per di più, mentre la nostra povera Italia versa in una situazione disastrosa, qualcuno riesce a spostare l’attenzione pubblica su questo tipo di argomenti, importanti per la vita politica ma che in questo momento dovrebbero scendere in secondo piano.

Amelia Giuliani - Potenza

Prima di annettere alleati si pensi a un solido programma Con la crisi di governo, si sta prospettando l’idea di nuove elezioni. Potrebbe essere arrivato il momento di riorganizzare le fila del centrodestra, ma voglio augurarmi, per il bene del paese e di noi cittadini, che non prevalga il sentimento di convenienza. Non è rassicurante sentire affermazioni di completo asservimento a Berlusconi, da un alleato, e poi sentirne un altro disponibile a larghe intese. Non è del tutto giusto affermare: ”o il voto o la rivoluzione armata”, si rischia di perdere quella parte di elettorato delusa da Prodi, e che potrebbe risultare determinante per consentire al prossimo governo una maggioranza stabile con questa legge elettorale. Per cui, prima di annettere in tutta fretta nuovi potenziali alleati (Dini e Mastella), si valutino le ipotesi più ovvie per un programma solido che permetta di aquisire più credibilità politica.

Giuseppe Romito - Bari

I giovani? Ostaggi delle agenzie di lavoro interinale Se la politica fosse seria controllerebbe le agenzie di lavoro interinale: veri e propri covi di sfruttamento della manodopera.

Gianluca Laci - Brescia

Scrivere è un modo per parlare senza essere interrotti JULES RENARD

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di C’EST FINI

Palazzo Madama nega la fiducia a Romano Prodi sancendo la sua fine politica. 161 voti contrari contro 156 voti favorevoli, sono il risultato impietoso del Senato che di fatto evidenziano un dato politico incontrastabile: il centrosinistra in questi anni ha dimostrato di essere una coalizione senza continuità, bisognosa di ”cartelli” (Ulivo/Unione) e senza un partito politico di maggioranza a far da garante. Il centrodestra invece, pur con tutte le sue pecche, ha garantito la stabilità. Ed è questo il punto politico decisivo che fuoriesce da questa serata, che piaccia o meno (…). Ma il punto ora nel centrosinistra è un altro: la fine del governo, culminata con l’uscita dalla maggioranza di Mastella e di altri bastian contrari, lasciano ora a Veltroni mano libera nel Partito Democratico per dare ”l’estrema unzione” agli uomini di Romano Prodi? Il Professore, finito politicamente ad ottobre dell’anno scorso, non ha alcuna intenzione di cedere nella battaglia con il segretario Democratico, ora più che mai. Il braccio di ferro fra il Segretario ed il Presidente del Pd rischiano davvero di minare il futuro ”degli asinelli” ancor prima dello start up. Ecco perchè in molti avevano consigliato al premier di consegnarsi in fretta nelle mani di Napolitano. (…) Prodi invece non ha voluto sentir ragioni, un pò per la sua superbia e un pò perchè solo una drammatizzazione estrema avrebbe potuto portare uno scontro tale da poterlo rimettere in gioco polticamente. Ora il Professore potrebbe trovare lo spazio per scagionarsi dal suo ennesimo fallimento accusando

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Veltroni della crisi, unica chance del Prof per non finire nel dimenticatoio della politica (…). RDM20 ilrumoredeimieiventi. blogspot.com

CADE PRODI, SCOMPAIONO I RADICALI

Cade Prodi, si sfascia l’Unione. Ministri che si dimettono (in realtà: che si dimette) altri che dicono a Prodi di farsi da parte. Altri ancora che si stringono attorno a lui e lo incitano all’estrema resistenza, alla sfida impossibile in Senato. Tutti hanno avuto qualcosa da dire. Tranne Emma Bonino, tranne i radicali. (…) In realtà il partito radicale non c’era. Nel 1992, dopo aver proclamato la sua dissoluzione nell’evanescenza “transpolitica” e “transnazionale”, la sua assenza sulla scena politica nell’imperversare di “mani pulite” fu elemento non trascurabile della frana di fronte all’attacco golpista delle toghe e dei “poteri forti”, anche perché qualcuno si illuse di poter far conto su di esso per un estremo tentativo di salvare almeno l’onore. Oggi un partito radicale, risuscitato in funzione di una partecipazione alla coalizione degli eredi e dei beneficiari dei golpisti del 1992 (…) e di una conseguente poltroncina ministeriale per Emma Bonino, scompare anche dalla scena della scomparsa della coalizione per la quale ha venduto l’anima o quel che ne rimaneva. Cose tristissime da dover constatare ed ancor più tristi da dire. Ma meglio dire queste cose che alimentare credulità sui fantasmi e consentire il suo sfruttamento (…). Neolib neolib.eu

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO 27 gennaio 2008: giorno della memoria

Il diario di Rutka di Pier Mario Fasanotti

i chiamava Rutka ed era una fanciulla in fiore. Delicata, acuta, bella. E si chiedeva, in quel terribile inverno del 1943, di quale sapore fosse il bacio. Ma si chiedeva anche perché lei come tanti altri con la croce di Davide cucita sul petto, la Judenstern imposta dai nazisti occupanti, fosse privata di orizzonti, di campi con ruscelli dove la natura infonde il senso dell’infinito e della gioia. E della libertà. Viveva nella cittadina di Bedzin, di origine medioevale. Un borgo di grande vivacità culturale e commerciale prima che i Panzer tedeschi arrivassero per dettare ordini e decretare morte. Un borgo europeo con una duplice sfortuna: quella di essere in Polonia e quella di trovarsi a pochi chilometri dal luogo più infame del mondo, Auschwitz (Oswiecim in polacco).

S

Raccontiamo di Rutka Laskier perché raccontò del mondo quando stava per perderlo e la sua storia è stata scoperta solo qualche anno fa. La ragazzina tenne un diario in quell’affollatissimo ghetto e poi lo nascose assieme a un’amica ariana sotto le assi di una scala. Si è parlato di lei come di «una Anna Frank» polacca, ma è sbagliato: lei non era nascosta in una soffitta, lei non sperava nulla perché sapeva delle camere a gas di Auschwitz e della sorte cui andava incontro il suo popolo. Tragica è la sua adolescenza, ma curiose sono le circostanze del ritrovamento del manoscritto ora pubblicato dalla Bompiani (Diario, di Rutka Laskier, 172 pagine, 12,00 euro). Una donna di origini polacche e cittadina israeliana, Zahava Laskier, sa che suo padre Yaakov prima di fuggire per sempre dalla Polonia ha avuto una moglie e

due figli, Rutka e Henius. Riflette a lungo davanti alla foto che ritrae i suoi due fratellastri, finché viene a conoscenza di un quaderno scritto durante l’Olocausto. Il cognome della ragazzina di quattordici anni è uguale al suo. Sì, è proprio Rutka, quella della foto. Ma perché quelle pagine saltano fuori solo nel 2006? E perché Stanislawa, la donna che l’ha rinvenuto non ha fatto conoscere prima le memorie degli ultimi mesi di Rutka? Lavorava vicino al ghetto e di tanto in tanto andava a controllare l’appartamento dei Laskier. Sapeva che Rutka, quattro anni meno di lei, stava scrivendo un diario. Lo lesse e rilesse fino ai suoi ottant’anni, alla fine decise di consegnarlo

a uno che faceva indagini sugli ebrei di Bedzin. Il diario di Rutka è un impasto di emozioni: c’è il turbamento adolescenziale, gli alti e bassi dell’umore, la voglia di volare oltre le mura che isolano una città-cimitero. Guarda dentro di sé e fuori di sé.

Cinque febbraio 1943, Rutka scrive: «Il cerchio si stringe sempre di più. Il mese prossimo avremo già il ghetto, un vero ghetto, con mura di mattoni. D’estate sarà insopportabile, starsene chiusi in una gabbia grigia e soffocante, e non vedere i campi e i fiuori… non sarà più pos-

DAL GHETTO

di Varsavia

sibile passeggiare per via Malachowska senza venire deportati, andare al cinema la sera…». Ed ecco piombarle addosso la domanda su Dio che «permette» che tutto questo avvenga. Inevitabile perché Rutka è testimone: «…di gente gettata viva dentro i forni, di bambini piccoli ai quali si spacca la testa con il calcio dei fucili…». C’è un passo che riassume in maniera esemplare il batticuore di una ragazzina che sta per diventare adulta: «Pare che dentro di me si sia risvegliata la donna… ieri, mentre stavo nella vasca da bagno e l’acqua mi accarezzava tutto il corpo, ho desiderato fortemente che fossero delle mani ad accarezzarmi… non lo avevo mai provato prima…». Scrive della passioncella che Janek ha per lei, poi continua: «Ho visto con i miei occhi un soldato strappare un piccolo di pochi mesi dalle braccia della madre e sbattergli la testa con tutta forza contro un palo di un lampione. Il cervello è schizzato su un albero…». La normalità si impregna di inferno. Rutka vive dentro un muro di mattoni, ma un muro se l’è già costruito dentro di sé. Andrà poi a lavorare in una fabbrica. S’accorge che i militari la spogliano con gli occhi, si sente sudicia. «Vorrei lasciare tutto e fuggire via, lontano da Janek, Jumek, Mietek, lontano da casa e da questo marciume grigio». Sì, lascerà il ghetto. Ma alla volta di Auschwitz.

Aveva quattordici anni, ma a differenza di Anna Frank non nutriva speranze. Nel 1943 sapeva dei forni e di gas. E anche di dover morire ad Auschwitz. Tutto quello che voleva era andare al cinema e uscire dal “marciume grigio”


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