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DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

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di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

Una giornata da Prima Repubblica per vincere la guerra della legge elettorale

QUATTRO PAGINE SPECIALI 1968: QUARANT’ANNI DOPO

Cambio di stagione DIECI TESI PER DISINTOSSICARE L’ITALIA Ferdinando Adornato Renzo Foa Michael Novak

a pagina 4, 5, 6 e 7

intervista ALAIN FINKIELKRAUT: CHE COS’È LA NAZIONE di Francesca Pierantozzi a pagina 9

elezioni Usa GIULIANI IL “LAICO” ASPETTA IL MIRACOLO a pagina 10

di Andrea Mancia

cultura UN AMORE DI FAMIGLIA SECONDO LUC FERRY di Pier Mario Fasanotti a pagina 21

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Occidente

L’INSERTO

L’azzardo

L’enigma Pakistan Pervez Musharraf Mario Arpino Vincenzo Faccioli Pintozzi Maurizio Stefanini

a pagina 12 ISSN 1827-8817 80130

pagine 2 e 3

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QUOTIDIANO • 30

GENNAIO

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

14 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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In un clima di confusione

Una giornata da Prima Repubblica l termine di una giornata in cui dietro l’ufficialità delle consultazioni al Quirinale si sono intrecciate mosse e manovre da Prima Repubblica, che hanno lacerato l’Udc e terremotato l’intero quadro politico, sul nome di Franco Marini si sono concentrati i tentativi di evitare l’immediato ritorno alle urne. Il presidente Napolitano si è riservato una pausa di riflessione. Ma attorno allo schema per cercare un «governo di scopo» - la formula appena coniata per indicare un esecutivo destinato essenzialmente a far varare una nuova legge elettorale - si è creato il clima di un azzardo. Ieri, infatti, non c’è stato il tentativo di trovare una maggioranza tra i grandi partiti, cioè quelle che si chiamano «larghe intese», quanto di raccogliere forze sparse, se non singoli senatori. Se abbiamo già verificato le difficoltà di accordarsi su un modello – con divisioni che attraversano anche i due schieramenti – possiamo immaginare quanto precario possa essere un esecutivo messo in piedi con questo unico fine, aldilà della figura chiamata a guidarlo. Il rischio è quello di prolungare la già lunga fase di instabilità l’Italia ha attraversato. Ben diverso sarebbe se Pd, Forza Italia, An, l’Udc e le altre forze che aspirano ad avere un ruolo centrale nel confronto politico si mettessero d’accordo non per un solo scopo ma per affrontare l’agenda delle emergenze che il Paese vive. Forse potrebbero anche portare a compimento la legislatura. Molti lo hanno chiesto. E se a questo progetto si fosse cominciato a lavorare prima e se questa fosse stata l’alternativa a Prodi, oggi si sarebbe potuta aprire una strada in quella direzione. Ma ieri il tentativo è stato solo quello di assemblare una maggioranza per sostenere un progetto di legge elettorale, argomento su cui Veltroni e Berlusconi hanno un’opinione, D’Alema, Casini e Bertinotti un’altra e così via. Anche se non bisogna mai dimenticare che in politica non esiste l’aggettivo impossibile, questa missione assomiglierebbe appunto ad un azzardo. Se viviamo la fine della Seconda Repubblica, come ha detto ieri il presidente Cossiga, in realtà la viviamo in un modo che ricorda la Prima, con ulteriori frantumazioni e nell’incertezza. Il dopo-Prodi ha bisogno di chiarezza. E sarebbero chiare, soprattutto davanti all’opinione pubblica, due sole soluzioni: un governo di «larghe intese» o il ricorso alle elezioni anticipate. L’esplorazione di una via diversa, dettata formalmente dalla preoccupazione che tornare a votare con l’attuale normativa non risolva il problema della stabilità, rischierebbe di diventare un problema in più.

A

l’azzardo Il Quirinale ha preso «una pausa di riflessione». Oggi il difficile incarico

Napolitano,una notte pensando a Marini (e alla legge elettorale) di Errico Novi ROMA – Che sia una delle giornate più difficili per la Repubblica lo comprendono tutti. Difficile, dura, gravida di incertezze. Estenuante fino alla decisione di Giorgio Napolitano: «Ora farò una pausa di riflessione», annuncia il Capo dello Stato quando sono appena passate le 19 e concluso l’ultimo incontro, quello con Carlo Azeglio Ciampi. Il presidente aggiunge: il «bilancio qualitativo» delle consultazioni è «positivo». «Sappiamo quanto sia complicata e difficile la situazione per effetto della forte frammentazione politica», è l’ultima nota. Notte di pausa necessaria a considerare l’ipotesi più accreditata: un incarico esplorativo a Franco Marini. Nell’attesa, l’ansia è comune, seppure vissuta in modo diverso da ciascuno dei leader. Walter Veltroni ha preoccupazioni simili ma speculari rispetto a quelle di Silvio Berlusconi. Il segretario del Pd incontra il Capo dello Stato subito dopo l’ex premier. Lasciato il Quirinale in tarda mattinata, è davanti ai rappresentanti di Confcommercio riuniti a Roma che Veltroni parla come se fosse già iniziata la campagna elettorale: «L’Italia è ricca di potenzialità ma è legata da catene che non le permettono di esprimerla». La platea applaude. In quella frase torna il discorso che il Pd ha sposato dall’inizio della crisi: servirebbero riforme prima del voto in modo da sbloccare il Paese. Quelle stesse parole vanno bene anche per la corsa verso le urne. E contengono infatti la pesantissima ambivalenza che il leader democratico deve sopportare: da una parte l’esecutivo di transizione, dall’altra la campagna elettorale.

A rimettere sullo stesso grado di probabilità le due opzioni è più di altri Mario Baccini. Ribadisce la posizione esposta il giorno prima a liberal, vale a dire la disponibilità a sostenere un governo «guidato da una personalità di alto profilo istituzionale come il presidente del Senato». Auspica anche «che ci sia una risposta amplissima, perché non serve ricreare maggioranze risicate», certo. E ancora, sfodera l’ultimo contraddittorio auspicio: «Si vada pure verso il voto ma la Cdl è archeologia». La chiosa non basta a Lorenzo Cesa, che avverte: «Chi pensa a governicchi recuperando una o due persone è fuori dall’Udc». Il riferimento del se-

gretario centrista è a Baccini e a ad Amedeo Ciccanti. L’imprevedibile smottamento mette in allarme anche Pier Ferdinando Casini, che da Gerusalemme reagisce con durezza: «Al presidente Napolitano abbiamo chiesto un governo di pacificazione con un ingrediente indispensabile, la partecipazione delle due parti: condizione che non è maturata, e a questo punto tanto vale andare subito ad elezioni anticipate, piuttosto che abbandonarsi ai pasticci». Lo sforzo di allontanare il fantasma del governicchio svela che in realtà il fantasma si aggira liberamente. Fino a inquietare, e parecchio, l’at-

Tensione nell’Udc dopo l’ok di Baccini al nuovo esecutivo. Casini con il resto della Cdl: urne subito mosfera di Palazzo Grazioli. Un paio d’ore dopo essersi congedato da Napolitano, Berlusconi si riunisce nel suo quartier generale con Gianfranco Fini e i rappresentanti della Lega Roberto Maroni e Roberto Calderoli, con Umberto Bossi collegato via telefono. Racconta del lungo colloquio con il Capo dello Stato – l’unico ad aver superato il muro dell’ora in tutto il giro delle consultazioni. Spiega che per alleggerire la tensione ha tirato fuori persino una

delle sue irrinunciabili barzellette. Ma conviene anche che «le cose rischiano di mettersi male». E l’allusione non è semplicemente all’eventuale incarico esplorativo a Franco Marini, ma a cosa può succedere con il passare dei giorni. Consiglieri del Cavaliere descrivono lo scenario in questi termini: a Palazzo Madama si lavorerebbe già all’aggregazione di una vasta rappresentanza di centro disponibile a sostenere il nuovo esecutivo. Ne farebbero parte i pezzetti del centrosinistra smarriti nel voto di fiducia a Prodi: dai diniani ai probabili fuoriusciti dell’Udc. L’obiettivo sarebbe quello di far confluire queste componenti in un unico gruppo parlamentare, di cui entrerebbero a far parte anche i senatori dell’Italia dei valori, l’indipendente Pallaro, e possibilmente Clemente Mastella. In questo modo l’esecutivo avrebbe un puntello solido anziché diversi singoli punti di appoggio. E guadagnerebbe sia legittimità che capacità di indirizzo politico in senso moderato.

Sebbene si tratti solo delle ricostruzioni prodotte dall’entourage di Berlusconi, ci vuole poco a trasformarle in un pesantissimo campanello d’allarme per tutto il centrodestra. Si verificasse davvero un’ipotesi del genere, l’opposizione non si troverebbe semplicemente privata dell’immediato approdo alle urne. Finirebbe piuttosto in una condizione di marginalità politica, assisterebbe al cammino della legislatura con un solo diritto di partecipazione, quello sulla legge elettorale, che oltretutto potrebbe anche non essere esercitato. Trovare l’accordo sulla riforma del voto resterebbe complicato come lo è stato finora. Sarebbe assai più probabile il definitivo scivolamento verso il referendum. Che peraltro rettificherebbe il porcellum offrendo comunque valide ragioni alla maggioranza per cercare una ulteriore correzione in Parlamento. Ed a questo punto le urne svanirebbero nell’orizzonte di una legislatura destinata a conservarsi. Ieri Roberto Maroni ha suggerito agli alleati di «non partecipare nemmeno alle nuove consultazioni che dovessero seguire all’incarico esplorativo». Scelta orgogliosa. Che però basta da sola ad evocare il rischio della marginalità per l’ex Cdl.


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d i a r i o

d e l

g i o r n o

Napolitano: ”Mi prendo una pausa di riflessione” Il Presidente della Repubblica, al termine dell’ultima giornata di consultazioni al Quirinale, dichiara: ”Mi prendo una pausa di riflessione. Comunicherò quando avrò preso una decisione e darò tutte le motivazioni”.

Silvio Berlusconi: “l’unica strada è quella di ritornare al voto” Il Cavaliere spinge per le elezioni: “L’unica strada porta alle elezioni per dare al Paese un governo immediatamente operativo”. Poi torna sul sistema elettorale: “La presente legge ha consentito una piena governabilità alla Camera ad una coalizione che aveva vinto di soli 24 mila voti, mentre non l’ha consentita al Senato perché lì la sinistra aveva avuto meno voti di noi”.

Walter Veltroni la pensa diversamente “Le elezioni anticipate sono un’alternativa che non corrisponde ai bisogni del Paese - spiega invece il sindaco di Roma - Questa ipotesi appare anche contraddittoria a quanto dichiarato da tutti i partiti politici in questi mesi”.

Pier Ferdinando Casini: “Subito al voto”

Baccini day: le tentazioni del senatore Udc, i progetti centristi

Confusione bianca di Susanna Turco ROMA - «Qui giriamo tutti con la casacca vecchia, ma solo perché non abbiamo ancora indossato quella nuova». Eccolo, mirabilmente riassunto da un autorevole deputato del centrodestra, l’effetto più evidente di questi giorni concitati eppure sospesi di consultazioni al Quirinale. Già, perché se gli orologi sono fermi al momento della caduta del governo, mentre partiti sfilano alla Vetrata e si disegnano scenari più o meno inclinanti al voto, segnali di sommovimento arrivano dall’universo delle coalizioni e dei partiti stessi. E si tratta di sommovimenti d’aspirazione terzista. Sul fronte del centrodestra, a muoversi è soprattutto la galassia della Cosa bianca, o nuova che dir si voglia. Al contrario, nel centrosinistra squassato dal proclama veltroniano dell’«andremo da soli», ad avere aspirazioni terziste è la Cosa rossa, nel senso chiarito ieri dal segretario del Prc Franco Giordano: «Deve esservi in campo un terzo soggetto, la sinistra unita, per fare in modo che la competizione non si riduca ad una contesa fra un Pd neocentrista e una destra populista».Aspirazione che, in termini divesi, è la stessa dei Tabacci, dei Pezzotta, dei Baccini e di chiunque in questi tempi parli di necessità di superare «questo bipolarismo muscolare». Diceva infatti giorni fa a questo giornale l’ex portavoce del Family day: «Serve una formazione riformista in senso temperato che stia tra i due poli.

Un’area di cuscinetto, per costruire un’alternanza fatta sui progetti e non sui ricatti». È su questi due fronti che si registrano le maggiori novità di assetto degli ultimi giorni. Perché naturalmente, molto dipende da ciò che accade e accadrà tra Quirinale e Palazzo Chigi. Eppure sia la Cosa rossa che, circostanza assai meno scontata, la Cosa bianca, paiono destinate a farsi strada a prescindere dalla legge elettorale con cui si voterà, anche se è chiaro che entrambe le formazioni hanno come approdo ideale un sistema alla tedesca. Di certo, negli ultimi giorni i segnali più forti arrivano proprio dal

La Cosa nuova è pronta a partire. Anche se si votasse subito. Ma Di Pietro non ha ancora sciolto la riserva fronte neocentrista. Il segnale più recente si è avuto proprio ieri. Mentre nel centrodestra si replicava uno schema tipico della scorsa legislatura, con l’Udc casiniana che morbidamente insisteva su un governo di «responsabilità nazionale» e Berlusconi mandava messaggi attraverso la Lega, con parole di fuoco del tipo «se vuol fare giochini e giochetti si mette fuori da qualsiasi prospettiva di alleanza alle prossime elezioni» (così Maroni),

Il leader dell’Udc detta la linea del partito: “Abbiamo cercato di lavorare per un atto di pacificazione fra le due parti. Poiché le disponibilità necessarie non sono maturate, tanto vale non perdere ulteriore tempo e andare verso le elezioni anticipate perché credo a nessuno servano né governicchi né pasticci”.

Buttiglione: “Non possiamo sostenere Marini” un Mario Baccini in rapporti «azzerati» con Casini continuava ad andare dritto per la sua strada. «Sono disposto a votare un governo guidato da una personalità di alto profilo istituzionale come Marini». Non sarebbe il solo centrista, a Palazzo Madama. Ma, soprattutto, il posizionamento di Baccini è l’ennesimo segnale che la Cosa bianca è davvero ai blocchi di partenza. Anche in caso di elezioni. Il battesimo, o almeno la presentazione di un programma, potrebbe essere a fine febbraio a Parma nel convegno organizzato (pre crisi) dal Manifesto di Subiaco. Ma che si stia lavorando su simbolo e programma non è più un mistero: resta da chiarire se l’Italia dei valori sarà della partita e, meno probabile, se ci sarà anche l’Udc casiniana. Antonio Di Pietro, che ieri a pranzo ha radunato i suoi, sta giocando anche sul tavolo dell’alleanza con il Pd e, comunque, fa intendere che il suo apporto all’avventura terzopolista è subordinato a una assicurazione sulle future (ipotetiche) convergenze. Ossia: verso sinistra sì, verso destra no. La cosa, del resto, parrebbe quasi naturale con questa legge elettorale, che risucchierebbe fatalmente l’Udc verso Berlusconi. Al contrario, nel caso la crisi sfociasse in un governo chiamato a fare la legge elettorale, il comune interesse verso un sistema alla tedesca potrebbe provocare un riavvicinamento con Casini. E riaprire una mai sopita possibilità.

Questo è il momento della chiarezza - Ha dichiarato Rocco Buttiglione - la posizione del partito è chiara: noi non possiamo sostenere un governo Marini delle piccole intese. Se Baccini la pensa diversamente, lo dica negli organi di partito e poi ognuno si atterrà alle decisioni del gruppo”.

Violante: “Situazione complessa, ma bisogna tentare” Uscendo dal Senato dopo un colloquio con Marini, Luciano Violante dichiara: “E’ vero, è una situazione complessa, ma il Capo dello Stato ha il dovere di tentare. E’ un dovere costituzionale quello di cercare di dare un governo al Paese”.

Bondi e Cicchitto: “Un governicchio radicalizzerebbe lo scontro” Intervengono con una nota congiunta i due dirigenti di Forza Italia: “Le ipotesi di governicchi allo sbando, alla ricerca di raccattare qualche voto, avanzate da alcuni settori politici, sarebbero solo un’avventura e provocherebbero una inutile radicalizzazione del confronto politico”.

Baccini taglia corto: “Si voti, ma la Cdl è archeologia politica” Con una nota diramata in serata, Mario Baccini chiarisce la sua posizione: “Mancano le condizioni per una larga maggioranza, andiamo pure alle elezioni, non sarò io a votare certo un governicchio con una maggioranza minima. Ma la Cdl ormai appartiene all’archeologia politica”.

Diliberto: “Bene Marini, ma solo se sostenuto dal centrosinistra” Queste le sue dichiarazioni: ”Non abbiamo mai posto questioni nominative. Abbiamo grande stima per il presidente Marini. Il problema non è la persona, ma la maggioranza: se l’ipotesi è un governo Marini sostenuto dalla maggioranza di centrosinistra, benissimo. Se invece è sostenuto con pezzi della destra, per noi è del tutto inaccettabile.

Cossiga: ”Fine della Seconda Repubblica Dopo aver parlato con Giorgio Napolitano, il senatore a vita Francesco Cossiga ha detto: ”L’unica nota positiva, e me ne dispiace per Romano Prodi, è che la sua caduta ha significato la fine dell’indecifrabile seconda Repubblica”.


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8La scimmia del Sessantotto QUARANT ’ANNI

DOPO

Dieci tesi per disintossicare la politica e la cultura

è ancora sulle nostre spalle

CHE NOIA IL MITO DEL SESSANTOTTO! In quarant’anni siamo stati ubriacati da celebrazioni e beatificazioni postume. Ebbene, ora è davvero arrivato il momento di cambiare stagione, anche perché l’Italia continua ancora a pagare un prezzo altissimo a false convinzioni che, come una droga, si sono insinuate, oltre che nella crescita di diverse generazioni, anche in ampi settori della nostra classe dirigente, intossicando la cultura pubblica. Abbiamo qui di seguito messo “in tabella” quelle che ci sembrano le dieci droghe più diffuse, ma l’elenco potrebbe essere più lungo. Come si vedrà, si tratta di tesi già ampiamente rappresentate nel dibattito degli ultimi anni: proponiamo dunque solo un catalo-

di Ferdinando Adornato Israele, il capitalismo erano e restano i mostri simbolici di chi suppone, sempre e comunque, la Rivoluzione come il Bene (con le sue “necessarie” ghigliottine) e i suoi nemici come il Male Assoluto. In questo senso il Sessantotto fu vero figlio del terribile Novecento. Anche i pensieri totalitari che si imposero negli anni Trenta, infatti, vedevano nell’America, in Israele e nel Capitalismo i totem da ostracizzare. In aggiunta il Sessantotto impose la diffusione di un marcato “senso di colpa dell’Europa”nei confronti dei “dannati della terra” del Terzomondo, trasformando la giusta tensione a sconfiggere il sottosviluppo nella santificazione di qualsiasi lotta anche violenta, fino a teorizzare con Frantz Fanon che la “bomba

È arrivato il momento di cambiare stagione.

L’Italia continua a pagare un prezzo altissimo a false convinzioni che, come una droga si sono insinuate in ampi settori

della nostra classe dirigente, intossicando la cultura pubblica. Se non cambiamo quarant’anni dopo, quando?

go riepilogativo che rende però evidente (ed impressionante) l’opera di ricostruzione culturale che sta di fronte al nostro Paese. Perfino l’attuale fallimento della sinistra, con le lacerazioni che alla fine hanno prodotto la caduta del governo Prodi, affonda le sue radici nella terra ideologica arata in quegli anni. Insomma: la scimmia del Sessantotto è ancora sulle nostre spalle. Ma se non si cambia neanche quarant’anni dopo, quando?

1)

Lennon, non Lenin La rivoluzione di costume, della quale i Beatles scrissero la colonna sonora, fu il vero evento positivo di quel tempo. Ma essa fu ben presto tradita dal sentiero ideologico imboccato dal movimento: che trascinò la generazione dei baby boomers non avanti verso il Duemila ma indietro, verso uno dei più oscuri fanatismi ideologici del XX secolo. “Dici di volere la rivoluzione – cantava Lennon – ma è meglio che liberi la tua mente”. Queste parole di “Revolution” restano di grandissima attualità.

2)

Liberalismo occidentale, non giacobinismo terzomondista. Forte del legame tra l’eredità di Robespierre e quella di Lenin, si diffuse nell’Europa continentale un manicheismo ideologico che ancora pesa nella vita delle nostre democrazie. L’America,

lanciata dall’uomo di colore è diversa dalla bomba lanciata dall’uomo bianco”. Il fatto è che queste teorizzazioni circolano ancora. Persino movimenti che si autodefiniscono “pacifisti” si ispirano ancora a questo pregiudiziale unilateralismo. Il ‘68 dei figli dei fiori durò lo spazio di un mattino. La scena fu poi dominata da una logica di demonizzazione del Nemico, di sua permanente delegittimazione politica e morale, di continue teorie del complotto, che ancora inquinano il nostro discorso pubblico. Anche qui: l’idea che la lotta debba essere continua, fino alla distruzione totale dei propri nemici rende evidente come il cuore ideologico del Sessantotto pagasse un alto tributo ai precedenti pensieri totalitari.

3) Autorità e sapere, non ribellione

permanente e voto politico. Un rinnovamento della tradizione era necessario. Ma il Sessantotto condusse una battaglia distruttiva contro ogni logica di ordine sociale, dalla scuola alla vita pubblica, che ha pesato per decenni (e ancora pesa) sul rigore degli studi e sulla coesione democratica. In sostanza bisogna riconoscere che, purtroppo, questa battaglia ha vinto: è riuscita a sradicare ogni principio di autorità dalla scuola e ha destituito di fondamento la funzione

educativa dell’insegnante (con la paradossale complicità di moltissimi insegnanti “figli del ’68” ). Mentre è del tutto evidente come il principio di autorità sia elemento essenziale di ogni comunità umana. Considerarlo sempre e comunque “autoritarismo” significa negare ogni possibile trasmissione del sapere, dell’educazione, dei costumi di civiltà tra le generazioni. Qui un “cambio di stagione” è davvero urgente.

4)

Merito, non assistenzialismo. Del resto, una delle più gravi conseguenze della lotta contro l’“autoritarismo”è certamente quella che ha confuso la selezione sociale con la selezione di merito, finendo per colpire al cuore ogni etica della responsabilità in favore di un astratto “egualitarismo”. Ancora oggi la mancata modernizzazione dell’Italia paga prezzi altissimi all’ostracismo decretato nei confronti del “merito”.


polemiche 5 ) C i t t ad i n o, n o n “ m a s s a ” ,

Promemoria di un movimento che ha cambiato il mondo: in peggio

8 ) D on n e , n o n m a s c h i c a m u f f a t i .

de m o c r az i a n o n “ p i a z z a ” . Dai quei mutamenti del costume nacIl mito della massa e della piazza ha que il femminismo che trasformò positiscavato in profondità nella società ita- vamente le nostre società: salvo laddoliana rendendo “normale” ancora oggi, ve finì per identificare la parità della come ha recentemente ricordato Sergio donna con la negazione del valore della Romano, “interrompere un servizio, maternità. C’è comunque da ricordare bloccare un’autostrada, occupare una che il ’68 politico fu invece uno dei scuola, punire un’insegnante per avere movimenti più maschilisti e sessisti cercato d’imporre la disciplina, trattare della storia. Non solo perché considerail teppismo come un malessere sociale va le donne unicamente come “angeli anzichè come un reato, imbrattare i del ciclostile”, ma proprio perché la muri di una città struttura filoo inscenare fenosofica e pratica meni di guerridella leadership DA DOMANI A ROMA glia urbana”. Da del movimento IL MEETING INTERNAZIONALE quarant’anni, in era eminenteeffetti, in Italia mente e esclusiSi svolgerà a Roma, dal pomeriggio di opera un vamente di tipo giovedì 31 gennaio alla mattina di saba“Sessantotto conmaschile (come to 2 febbraio, il convegno “1968-2008: tinuo”che ha finiancora permane cambio di stagione” organizzato dalla to, attraverso il nel nostro potere Fondazione Liberal. Ad aprire la prima della mito che è in gran giornata dei lavori (giovedì, ore 15.00, “massa” e della parte gestito da all’Università Lateranense) sarà il saluto “piazza”, per molti dei protaintroduttivo di Monsignor Rino minare le istitugonisti di quel Fisichella. Seguiranno le relazioni di zioni e rendere tempo). André Glucksmann, Michael Novak, faticoso e improLorenzo Ornaghi e Krzysztof Zanussi. U mi l t à bo ogni percorso Nella mattinata del secondo giorno e p a z i e n z a, di modernizza(venerdì, ore 9.30, al Tempio di Adriano n o n l ’ ar r o g an z a zione. E’ difficile in Piazza della Pietra), le relazioni sul de l “ t u t t o come, negare tema “Ideologia” saranno quelle di e s u b i t o” . anche nell’assurRenzo Foa, Gennaro Malgieri e da censura conL’ i m p a z i e n z a Monsignor Luigi Negri. Concluderà i tro il Papa, inscegiovanile è stata lavori della mattina di venerdì il forum nata dai 67 prospesso uno sti“Media e Cultura” con Ferruccio de fessori della Bortoli, Mauro Mazza, Roberto Sapienza, opeNapoletano e Gianni Riotta. Nel dibattirasse il meto del pomeriggio su “La Vita” i relatori desimo spirito saranno Francesco Alberoni, Sergio fazioso e distrutBelardinelli ed Eugenia Roccella. Al tivo dell’epocaforum sui “Ragazzi del 2008” partecipenella quale quei ranno Mara Carfagna, Giorgia Meloni, professori erano Paolo Messa e Gian Luigi Paragone. studenti. Gran finale sabato mattina con gli interventi di Ferdinando Adornato, José Maria Aznar, Pier Ferdinando Casini e No n s o lo Gianfranco Fini. di r i t t i e desideri, ma anche doveri. molo positivo per la Quante volte, nell’attuale discorso pub- storia. Ma il ’68 la trasformò in dogma blico, si lamenta la latitanza del teore- creando migliaia di“dirigenti”e“militanma che da Menenio Agrippa a Giu- ti” arroganti e autoritari. Lo snobismo seppe Mazzini sta a fondamento di ogni del giovane Holden scolorò ben presto cittadinanza! Le culture svezzate in nel romanticismo guerrigliero di Che quegli anni seppellirono il senso del Guevara, coniugando in un cocktail indovere sotto le montagne di infinite fernale l’avvento del narcisismo di rivendicazioni “soggettive”. E il senso massa con l’imposizione di ideologie dello Stato sotto il primato dell’unico totalitarie. E relegando le virtù civiche dovere riconosciuto: quello della pro- del moderatismo, l’umiltà e la pazienza, pria Causa Politica. ai margini della vita associata.

9)

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La generazione relativista di Renzo Foa l Sessantotto, a pensarci adesso, fu un’immersione collettiva nel relativismo. Forse posso anche ricorrere all’intuizione di André Glucksmann e vedervi anche i primi rivoli di quelle forme di nichilismo, grazie a cui quell’immersione ha poi condizionato la storia delle sinistre occidentali. Piaceva tutto ciò che si contrapponeva all’Occidente, al suo sistema politico, alle sue scelte. Ricordate come venne accolta, dieci anni dopo, la rivoluzione khomeinista in Iran? Il primo esempio novecentesco di una teocrazia al potere, di un fondamentalismo che si faceva Stato, fu percepito come un atto di liberazione. Ricordate poi la ventata pacifista, che aveva a bersaglio l’installazione dei missili in Europa per riequilibrare la bilancia militare dopo l’installazione dei missili sovietici a medio raggio sovietici? Fu promossa e alimentata grazie a quello strabismo in virtù del quale l’Occidente era il problema del mondo. Si può parare di anti-democrazia? Il

I

6)

7)

Famiglia, non coppia aperta. La lotta contro quelle che venivano chiamate “istituzioni totali” si rivolse in primo luogo contro la famiglia. L’uomo inteso come “macchina desiderante” venne contrapposto a ogni tipo di istituzione, di per sé fonte di repressione: a partire dalla famiglia. L’ipocrisia di dover forzosamente praticare “rapporti liberi”, alla Sartre e De Beauvoir, (figuriamoci!) impedì a diverse generazioni di costruire centri di solida vita sentimentale, producendo un’algida infelicità diffusa che è all’origine della perdita della speranza in un futuro costruito attraverso i figli. Molte delle attuali polemiche sulla famiglia hanno sviluppato le proprie (antiche) radici in quel tempo storico.

10)

C ri s to v i v e n e l l a persona non nelle classi. La libertà, la dignità, l’inviolabilità della singola persona umana costituiscono il fondamento morale delle democrazie occidentali. Nessuna “teologia della liberazione”, che giustifichi il primato diqualche classe o strato sociale su altri, può pretendere di richiamarsi al messaggio cristiano. Questo equivoco ha determinato più di un’ambiguità in diversi settori del mondo cattolico, riducendo il messaggio universale del cristianesimo a une delle tante teorie della rivoluzione sociale. Ma Cristo e Marx vivono pensieri opposti. Il primo si è sacrificato in nome dell’Uomo. Il secondo, vivecersa, ha proposto il sacrificio dell’Uomo in nome della Classe.

Sessantotto di Roma, di Parigi, di Berlino, quello più ricordato, fu una rivolta esplosa contro ciò che c’era. Prese a bersaglio la gerarchizzazione della società, fu un salto nei nuovi stili di vita abbozzati dall’arrivo del benessere diffuso, contestò giustamente l’autoritarismo accademico – anche se poi ci siamo accorti che l’università italiane erano di gran lunga migliori prima.

Ma la sua ideologia si definì ben presto in un rifiuto collettivo della democrazia. Con la colpa – questa fu proprio una colpa – di non riempire le piazze per Praga e per Varsavia, nel momento in cui veniva ricostituito l’ordine totalitario. Già – perché lo abbiamo rimosso – una parte importante di quell’anno fu segnata dalla rivolta degli studenti polacchi e dal tentativo, compiuto con la “primavera cecoslovacca”, di riformare dall’interno le gabbie del totalitarismo comunista. Fu, in altre parole, il rifiuto della qualità dell’Occidente. È facile oggi, quarant’anni dopo, elencare tutti gli errori di quell’ideologia. Se il Sessantotto fu sottolineato dal Vietnam – ricordate l’offensiva del Tet? – è fin troppo facile ricordare come proprio il Vietnam, vinta la sua guerra che aveva unificato il mondo, è diventato

una nicchia arretrata di povertà e di tirrania. L’opposto dell’immagine della libertà o della liberazione. Così come l’America riuscì, grazie a Reagan, a superare la sindrome di una sconfitta disonorevole, dovuta all’impossibilità di conciliare, come giustamente aveva detto Olof Palme, una grande democrazia con una guerra sbagliata.

Ma il promemoria non può fermarsi qui: è il mondo nel suo insieme che è andato in un’altra direzione. L’utopia della liberazione dei popoli si è consumata in tante tragedie. La Cina non è diventata un gigante grazie alle guardie rosse di Mao, la gran parte del Sud del mondo di allora, a cominciare dall’India, non è uscita dal sottosviluppo grazie alle rivoluzioni o al terzomondismo. Il 1989 ha cancellato definitivamente il sogno che il comunismo fosse una buona idea realizzata male. Per non parlare della classe operaia che ha perso la sua centralità. Attenzione. Non si è trattato di una semplice disillusione. La disillusione per aver scoperto che il mercato, per quanto selvaggio, ha consentito ai cinesi di uscire dall’arretratezza. O la disillusione per essersi accorti che la caduta del Muro di Berlino era stata, quella sì, la conquista della libertà per chi viveva a Est. O ancora la disillusione di fronte all’operaio in carne ed ossa che scoprì, dopo la lunga vertenza alla Fiat, che il “movimento”non serviva più. La disillusione appartiene alla sfera dei sentimenti. In questo caso c’è da registrare di più. C’è da dirsi una verità: quella del ’68 era una visione sbagliata del mondo e del suo futuro. Perché sbagliata era l’idea dell’uomo e della sua libertà. Il problema è che questa visione – parlo soprattutto dell’Italia – tende costantemente a riaffiorare, perché è nel Dna di una generazione un po’attempata che ha difficoltà a fare i conti con una storia che è andata nella direzione opposta a quella agognata nelle piazze del ’68 o in quelle successive del ’77. È una tara che continua a pesare. È parte costitutiva dell’anomalia italiana. Dove resta forte una cultura politica, direi anche un atteggiamento mentale, legato solo alla nostalgia di una rivoluzione fallita. Come liberarsi di questa tara? Forse una risposta c’è: non stancarsi di difendere e non stancarsi di migliorare la qualità dell’Occidente.


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quarant’anni di distanza, la data del ’68 evoca ancora ricordi di grandi università, élite studentesche, ribellioni, emancipazione sessuale, delegittimazione dell’autorità costituita, rivoluzione culturale, atteggiamenti volutamente eccessivi, marce a sostegno dei diritti civili, proteste pacifiste, la cultura delle droghe, i figli dei fiori, il femminismo, la ricerca del significato della propria individualità, l’ultimo ansito giovanile dei sogni marxisti. Il ’68 è stato un goulash etico molto speziato. In Europa, gli eventi del ’68 sono apparsi sin dall’inizio veicolati attraverso canali consolidati e noti ed i ribelli sembravano sapere bene come agire e far riferimento ad una tradizione secolare. Sono subito apparsi più professionali, dotati di solide basi teoriche e più inclini alla violenza. L’Europa è più vicina alle ideologie sottese al movimento del ’68 e confluite l’una nell’altra. In Europa, le idee in quanto tali sembravano avere maggiore rilevanza, mentre negli Stati Uniti l’esperienza pratica è sempre preminente. In genere, il popolo americano mostra maggiori resistenze rispetto agli europei nei confronti delle ideologie collettiviste, ma il 1968 è forse stato uno dei periodi più “europei” degli USA. Tra gli studenti delle classi più agiate, le istanze ideologiche acquisirono, infatti, una rilevanza senza precedenti, e le marce delle folle arrabbiate che sfogavano la propria violenza in strada contro le cose ricordava (soprattutto ai profughi professori degli anni ‘30) le barricate parigine ed il rombo della folla all’unisono nelle piazze di Monaco. E sembra che, persino nella stressa Europa, il ’68 sia stato il simbolo di movimenti di grande fervore, orientati in direzioni diverse: in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia, ad esempio, esso ha segnato lo scoppio di un desiderio represso di libertà occidentale mentre, all’estremo opposto, le Brigate Rosse occidentali esprimevano un desiderio di disciplina collettivista nella vita pubblica e libertà sessuale in quella privata. Uno dei maggiori esponenti del pensiero sociale americano, tra i più affidabili e coerenti, lo storico scomparso Christopher Lasch, poco prima di morire ha raccolto alcuni dei suoi scritti più importanti in un’opera dal titolo The Revolt of the Elites (La rivolta delle élite). Lasch riteneva che la “rivoluzione giovanile” americana avesse costituito un evidente attacco alla democrazia da parte di giovani appartenenti ai ceti superiori e dei loro mentori, esponenti del mondo giornalistico ed accademico. Tali gruppi sociali agirono come la New Class che Milovan Djilas individuò in Europa Orientale ed Antonio Gramsci cercò di ispirare in Italia Italy.

Un saggio autobiografico sulla contestazione a stelle e strisce

Gli anni in cui l’Europa contagiò l’America di Michael Novak

A

Come Gramsci, la Nuova Classe americana prese le distanze dal “nefasto pensiero economico marxista del diciannovesimo secolo”, per reinterpretare il Marxismo e considerarlo essenzialmente una “rivoluzione culturale” ed una ridefinizione di valori. Lasch era un uomo di sinistra, eppure l’esperienza del ’68 lo indusse a ritenere quella nuova sedicente “rivoluzione” praticamente una rivolta contro le basi etiche delle libertà e delle istituzioni occidentali. D’altro canto, basandomi sulla mia esperienza personale del ’68, desidero illustrare alcune argomentazioni e percezioni che hanno indotto molti studenti intelligenti ed affatto radicali a fare causa comune con il “movimento giovanile”. Tale scelta si rivelò sin dall’inizio carica di ambiguità. Alcuni distrussero il proprio futuro, se non addirittura la propria vita. Eppure, per altri quella del ’68 fu un’esperienza liberatrice ed arricchente dal punto di vista umano. Desidero, quindi, operare una distinzione tra il movimento considerato nel suo insieme (che, se esaminato sul lungo periodo, si è rivelato un insuccesso) e l’esperienza personale di alcuni individui che hanno scelto di avventurarvisi.

Da destra a sinistra I più critici nei confronti del ’68 lo hanno a volte definito “il decennio dell’Io”. Alcuni ridicolizzano coloro i quali si sono mossi alla “ricerca della propria identità”e “di se stessi”. Tuttavia, se alcuni degli insulsi slogan dell’epoca fossero stati espressi in termini socratici, per cui “una vita in cui non ci si interroga non vale la pena di essere vissuta”, la ricerca di un’identità sarebbe stata oggetto non già di scherno, bensì di un certo rispetto. Perché la domanda “Chi sono?”è stata riproposta con tanta insistenza negli anni tra il ’64 ed il ’68? Si tratta di un quesito affascinante,

sul quale torneremo più avanti. Ad ogni modo, sono stato testimone diretto della inusuale ed estrema diligenza mostrata dai futuri giovani radicali nello svolgere i loro compiti di studenti, del loro buon cuore, della loro buona educazione e della loro grande ansia di porsi al servizio della società. Nel mese di agosto del ’65, mia moglie ed io, in attesa del nostro primo figlio, siamo andati in auto alla Stanford University di Palo Alto (California), dove mi era stato offerto il primo incarico professionale da assistente presso il nuovo dipartimento di religione, il primo della illustre storia di Stanford. Nei tre anni che ho insegnato in quella università, ho avuto circa 350 studenti a trimestre (solitamente divisi in un corso di lezioni generale ed in uno di specializzazione con meno allievi, per ciascun trimestre), per un totale di circa mille studenti all’anno: una buona percentuale del corpo studentesco. Incontravo i miei studenti anche in occasioni informali. Credo quindi di poterne parlare con cognizione di causa, grazie a quanto ho potuto osservare direttamente nell’interagire con loro e che ho in parte riportato in alcuni miei scritti dell’epoca. Dal punto di vista metodologico, è in un certo qual modo opportuno scrivere di questi argomenti traendo spunto dall’osservazione diretta. Infatti, all’epoca, molti studenti della Stanford University avevano la netta sensazione di dover prendere decisioni che avrebbero influito sulla loro intera esistenza. Nel periodo delle elezioni presidenziali del 1964, il 51% degli studenti di Stanford si definivano conservatori e la testata Stanford

Daily sosteneva Barry Goldwater, il Repubblicano più conservatore che si ricordasse. Nel contempo, dall’altra parte della Baia, all’Università di Berkeley, il tentativo di prendere il potere effettuato dal movimento studentesco designato con l’espressione fuorviante di “Movimento per la libertà di parola”, scaldava già notevolmente gli animi. Tali tendenze radicali raggiunsero Stanford molto più lentamente e, in un primo momento, in maniera molto più umanistica e democratica. Alle elezioni del rappresentante del corpo studentesco tenutesi nella primavera del 1966, la maggior parte degli studenti si schierò a sinistra e dette il proprio voto al presidente più radicale nella storia della scuola: David Harris, che più tardi sposò la cantante folk Joan Baez. Harris fece una campagna elettorale da radicale “umanistico”; incontrò i giovani elettori in tutte le case dello studente del campus, presso tutte le associazioni e confraternite femminili e maschili, intavolando lunghe conversazioni a tarda sera, rilassate ed informali, su argomenti quali il futuro prossimo dell’università e della nazione. Tutto ciò costituiva una eccellente autoistruzione. Per altri, come spesso accadeva in quegli anni, queste prime “esplorazioni” sfociarono sempre più in un attivismo arrabbiato. Come scrissi già all’epoca, erano tre i principali punti deboli delle conversazioni studentesche degli anni ’60, tipiche dei “figli della luce” di Reinhold Niebuh: la loro scarsa consapevolezza delle componente ironica e tragica e dell’ irreprimibile peccaminosità delle cose umane; una valutazione irrealistica del giusto ruolo del potere e dell’interesse personale in tutte le istituzioni umane; ed una forte tendenza a nutrire rosee e velate speranze nel “progresso”, tra cui alcune fantasie utopistiche su “nuove tipologie di società umane. Queste tre debolezze hanno portato, ad un certo punto, ad esiti tragici. “Se si lascia loro abbastanza tempo, tutte le cose umane finiscono male”è la lezione che ho imparato a Roma, dalle statue e dai monumenti antichi. A Stanford e Berkeley, tra il ’65 ed il ’68, si percepiva nell’aria che la rivoluzione giovanile non avrebbe avuto esiti positivi. Nondimeno, un elemento costitutivo dell’ironia e della tragedia risiede nell’autocoscienza delle buone intenzioni e in un falso senso d’innocenza personale. Sono errori tipici dei giovani, che appuntano tanto facilmente

La “rivoluzione giovanile” americana è stato un attacco alla democrazia dei giovani ricchi e dei loro mentori?


polemiche

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Nel dopoguerra, nessuno era realmente pronto a gestire l’opulenza e la libertà che caratterizzarono quegli anni. Nel 1960, l’elezione del giovane John F. Kennedy alla Presidenza degli Stati Uniti aprì nuovi orizzonti e dette vita a nuove speranze. Nel periodo 1962-65, l’istituzione più “immutabile” dell’Occidente, la Chiesa Cattolica, varò il programma di apertura ed “aggiornamento” più spinto di qualsiasi altra istituzione mondiale. Il movimento in difesa dei Diritti Civili nel Sud degli USA prese le mosse nel 1955, crebbe velocemente e, nel 1964, era riuscito ad estorcere una legge rivoluzionaria, il Civil Rights Act al Governo statunitense, con la quale il Congresso eliminava i fondamenti giuridici della segregazione razziale, che avevano impedito ai neri americani di godere pienamente dei diritti sanciti dalla Dichiarazione d’Indipendenza. In effetti, gli Stati Uniti si auto-condannarono per il reato d’ipocrisia, stabilendo di porvi rimedio prima dal punto di vista legale e, poi, nella vita pratica di ogni giorno. Un giornalista europeo anziano mi disse, all’epoca, che le riforme americane in materia di diritti civili degli anni costituivano le ’60 trasformazioni sociali più profonde e toccanti cui avesse mai assistito. Da quegli avvenimenti, gli studenti americani del ’68 trassero alcune lezioni evidenti. Innanzitutto, “the times they are achangin”. Tutto sembrava nuovo e fresco. Tutto sembrava essere promettente. Secondo, tutte le figure di spicco del tempo ammettevano pubblicamente l’ipocrisia nella quale era vissuta la nazione in riferimento ai neri, ad iniziare dalla schiavitù degli stati meridionali, fino alla più recente segregazione razziale e alle altre privazioni dei diritti civili. Terzo, i giovani studenti volontari che avevano trascorso le vacanze estive dei primi anni ’60 in Mississippi ed Alabama erano tornati all’Università molto toccati dalle condizioni di povertà, violenza e cattiveria di cui erano stati testimoni. Erano sorpresi di vedere come i stessi professori e i dirigenti delle università non fossero altrettanto allarmati, anzi, si preoccupassero maggiormente di costruire università e far fronte ai numerosi impegni cui erano chiamati, dato il crescente numero di studenti da seguire: il più alto della storia.

canadese che guidava il contingente di osservatori rilevò numerosissime violazioni da parte dei nord vietnamiti. L’ONU fu chiamata a dare una risposta e dispose il dispiegamento dei “caschi blu” a garanzia della pace, tra i quali figuravano anche dei soldati americani. Con il deteriorarsi del conflitto armato, gli Stati Uniti dispiegarono ingenti forze sotto l’egida delle Nazioni Unite. Nel 1966 erano ormai giunti in Vietnam 135.000 soldati americani. Tutte le iniziative suddette furono forse legittime, se non addirittura doverose, ai sensi dei trattati internazionali in vigore a quel tempo. Tuttavia, per i privilegiati giovani universitari statunitensi, giunti quasi alla maggiore età, rappresentarono una scelta amara. Quella classe fu chiamata alle armi ed inviata a combattere nel lontano Vietnam: un Paese ignoto, a 9.000 miglia da casa. Fino al 1968, gli studenti universitari ebbero la possibilità di chiedere il “rinvio militare” per proseguire gli studi, ma per molti di loro la laurea era purtroppo molto vicina. Quell’anno, fu negata loro anche questa opportunità. Potevano tutti ricevere la chiamata alla leva. A quel punto, l’opposizione alla guerra si fece più aspra, nonostante interessasse soltanto una minoranza degli studenti universitari. Alla generazione universitaria del 1968 era stato insegnato dai genitori di essere speciale, di essere chiamata ad eccellere e guidare il Paese in età adulta. Venivano considerati gli individui più istruiti di ogni tempo. Guardando il futuro dritto negli occhi, molti sentivano che perdere la vita nella lontana giungla vietnamita prima che i sogni dei genitori potessero avverarsi sarebbe stato un indescrivibile spreco. Alcuni non sopportavano il pensiero. Sempre più giovani iniziarono a bruciare la “cartolina”di chiamata in segno di sfida, dichiarandosi “obiettori di coscienza” (sebbene molti non potessero rivendicare l’appartenenza ad alcuna “confessione pacifista” che ne attestasse la coerenza con quei principi). Non dimenticherò mai quanto fui orgoglioso di mio fratello minore, Ben, che dopo l’addestramento nelle forze ROTC alla Penn State e dopo essersi laureato da Presidente del Corpo Studentesco, fu mandato dall’esercito alla Facoltà di Legge di Georgetown. Laureatosi in Legge, era sul punto di essere inviato a Washington, D. C. per svolgere il lavoro di legale. Però, Ben si partì volontario per il Vietnam. Suo zio aveva combattuto la II Guerra Mondiale, suo fratello maggiore, Jim, aveva prestato servizio durante la Guerra Fredda in una divisione corazzata presso il Varco di Fulda ed ora toccava a lui servire il Paese. A Ben fu assegnato un compito pericoloso quale solo consulente americano di un unità vietnamita nel Delta del Mekong. Pur portando con sé il dolorosissimo ricordo della morte del suo migliore amico vietnamita, l’ufficiale suo omologo, Ben tornò a casa sano e salvo. Sono stato orgoglioso della sua scelta, sebbene nel 1966-1967 avevo ormai abbandonato le fila dei sostenitori della guerra ed ero passato in quelle degli oppositori.

Nel dopoguerra, nessuno era realmente pronto a gestire l’opulenza e la libertà che caratterizzarono gli anni del boom

ed inflessibilmente la loro attenzione sugli errori, le mancanze ed i sin troppo ovvi peccati dei genitori, degli adulti e delle istituzioni all’interno delle quali loro stessi sono cresciuti. Per comprendere a fondo la reale situazione di molti degli studenti benintenzionati dell’America di quel periodo, è necessario intendere due cose: quello che succedeva nel cuore e nella mente di alcuni degli studenti più brillanti ed avidi di conoscenza dell’epoca e ciò che accadeva nel Paese, intorno a loro.

L’esperienza del 1965 I miei studenti di Stanford del periodo 1965-68 erano nati subito dopo la Seconda Guerra Mondiale ed avevano vissuto il periodo di maggiore prosperità che il mondo avesse mai registrato. I loro genitori, al contrario, erano nati poco prima della Grande Depressione, nei loro nonni era vivo il ricordo della Prima Guerra Mondiale e della vita difficile ed aspra nell’America agricola del primo dopoguerra. Forse nessuna generazione precedente è stata coccolata quanto lo fu quella che raggiunse la maggiore età nel 1968. E, poiché a causa della guerra molte famiglie avevano posticipato i progetti di

maternità, la generazione postbellica fece il proprio ingresso nel mondo con una grande corsa di massa, il famoso “baby boom.” Non meraviglia, quindi, che i giovani del ’68 si sentissero tanto potenti, tanto favoriti dall’intero universo, nonché singolarmente virtuosi. I loro genitori e nonni hanno cercato con ogni mezzo, dopo il 1945, di dare a questa nuova generazione tutto quanto a loro era stato chiesto di sacrificare. Le generazioni precedenti, che avevano imparato dalle dittature quali fossero i pericoli dell’autoritarismo, mettevano spesso in guardia i loro figli contro l’obbedienza passiva ed acritica. Inoltre, per timore di sembrare dei “dittatori” in casa propria, molti genitori si mostrarono permissivi e lassisti nell’applicare quella disciplina che era stata impartita loro. Negli Stati Uniti, tra il 1945 ed il 1972, veniva fondata una nuova università alla settimana, spesso finanziata dai singoli Stati e, nella maggior parte dei casi, da gruppi privati. Non c’erano mai stati in alcun luogo della Terra tanti iscritti “sulla ventina e qualcosa”nelle università”e mai c’erano stati tanti giovani professori.

Lo shock del Vietnam Poi giunse lo shock del Vietnam. Molto prima degli anni ’60, nel 1954, a seguito di una cocente ed umiliante sconfitta, l’esercito francese aveva lasciato il Paese. Esaltati dalla vittoria, i Comunisti che avevano preso il potere del Vietnam del Nord appena affrancatosi dal dominio francese (e che asserivano di rifarsi a George Washington), scatenarono una feroce repressione contro tutte le forze non comuniste e segnatamente la Chiesa Cattolica. Diverse migliaia di perseguitati iniziarono ad emigrare in Vietnam del Sud, dove si ritrovarono circa 750.000 nord vietnamiti Con l’aumentare degli sconfinamenti da parte dell’esercito del Vietnam del Nord in territorio vietnamita meridionale, entrarono in campo gli Stati Uniti per sancire una nuova tregua. L’ufficiale

1/continua


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pensieri

L’INTERVENTO

Il caso della Gènèrale e i nodi del sistema finanziario

La mia banca non è diversa di Giancarlo Galli idotta all’osso, la questione è la seguente: possiamo ancora fidarci del sistema bancario-finanziario? Ormai da mesi, le cattive notizie si rincorrono da un capo all’altro del pianeta: prima la crisi imputata ai mutui subprime (concessi a persone di mediocre affidabilità), poi i capitomboli delle Borse, infine le malversazioni dei trader, i guru dei computer: da Parigi con la Société générale alla lombarda Italease. E non è detto sia finita. Diciamolo con estrema franchezza. Da lustri il “sistema”si comporta con incredibile spavalderia, ed il motivo c’è: la pressoché totale assenza, oltre che di controlli, di regole e punizioni. Per non andare troppo lontano, guardiamo al risiko dell’Era di Antonio Fazio Governatore con una serie di crack (da Cirio a Parmalat), per i quali gli unici ad averci rimesso le penne sono state le legioni di risparmiatori, ridotti al rango di “parco buoi” anche dopo i disastri dei Bond argentini. Uno degli aspetti più sconcertanti, lo troviamo negli atteggiamenti dei governi: la spinta a sostenere, con ogni mezzo, il banking nelle sue varie articolazioni, cercando in

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pratica di eliminare la moneta cartacea. (Quasi un ricorso storico, pensando ai problemi che provocò il passaggio forzato dall’oro e dall’argento alla carta, a cominciare dall’inflazione e pur non misconoscendo i vantaggi dell’evoluzione). La banca è divenuta essenziale per il nostro quotidiano. Lì riceviamo stipendio e pensione. Paghiamo le

La verità è che il mondo della finanza è riuscito a creare una zona off-limits, dove è pressoché impossibile indagare. Altro che la democrazia finanziaria di cui si parla bollette, facciamo fruttificare (in teoria) i risparmi attraverso i Fondi di investimento cui siamo stati costretti a portare il Tfr. In caso di necessità possiamo ottenere prestiti (a condizioni capestro). Amara ciliegina, ogni qual volta ci presentiamo allo sportello, dobbiamo versare un obolo. In banca si paga anche l’aria. Tanta dipendenza, quasi una schiavitù, esigerebbe una contropartita in termini di trasparenza: conoscere i comportamenti della

l quadro politico attuale non consente di fare previsioni sull’immediato futuro, ma, a prescindere dai possibili esiti della crisi politica che si è aperta con la sfiducia del Senato al governo Prodi, è evidente che quasi tutte le forze politiche condividono la necessità di avviare una grande stagione delle riforme. L’aggiornamento della Costituzione italiana, che ha appena compiuto sessant’anni, diviene un passaggio ineludibile per tentare di superare la delicatissima fase che il Paese sta attraversando. Non si può trattare, peraltro, di interventi di revisione sporadici e di limitata portata; occorre, invece, apportare modifiche tali da incidere sul complessivo assetto ordinamentale. Non è un caso che siano miseramente falliti tutti i grandi tentativi di aggiornare la Carta costituzionale avviati negli ultimi venti anni dagli attori politici che, contemporaneamente, continuavano a fronteggiarsi in Parlamento e nel Paese, secondo la normale dialettica tra maggioranza-opposizione (Commissione Bozzi nel 1983, Commissione De Mita-Iotti nel 1992, Commissione D’Alema nel 1997). Analogamente, il disegno di legge costituzionale recante la modifica della II parte della Costituzione, approvato nella scorsa legislatura dalla coalizione del centro-destra, ha ricevuto la bocciatura della maggioranza dei cittadini chiamati al referendum costituzionale; scelta influenzata pesantemen-

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banca nell’uso del danaro che la collettività mette a disposizione. Al contrario l’oscurità è totale. Esistono controlli da parte delle Banche centrali (per noi la Banca d’Italia), si obietterà. Certo, ma giungono in puntuale ritardo. Così negli anni passati, così adesso. Emblematico, restando nel presente, il caso Italease. Quest’istituto si

quota in Borsa nel giugno 2005, subito facendo faville. Creato da una galassia di istituti della Padania, è specializzato nei prestiti alle imprese. In un battibaleno la quotazione schizza da 10 a 49 euro. Talmente miracoloso da spingere la Banca d’Italia ad un’ispezione. È il 18 gennaio 2007. Sei mesi Sei per appurare i contorni di operazioni prive di ogni logica che faranno perdere alla banca almeno 800 milioni, una parte dei quali finisce nelle tasche di clienti privilegiati

ed intermediari vari. Ingenua domanda: “Dove stavano il presidente e il consiglio d’amministrazione?”. L’amministratore delegato dell’epoca è stato arrestato la scorsa settimana, ma c’è da dubitare si venga a capo dell’enigma. Proprio come a Parigi. Société Générale è la seconda istituzione di Francia. Una perla pura e rara, dicono. Quando è esplosa la bolla dei subprime, è uscita indenne, illibata. Nonostante la specializzazione in operazioni speculative sui derivati. Quegli strani prodotti che consentono di scommettere su tutto in un mosaico di alchimie matematiche. A ciel sereno, alla vigilia dello scorso weekend, si scopre che un funzionario trentenne, Jerôme Kerviel, da un anno andava conducendo bizzarre operazioni facendo ballare 50 miliardi; provocando alla banca un danno di 4,9 miliardi. Il tentativo del presidente Daniel Bouton, vecchia volpe della politica, già intimo di Jacques Chirac, è di far intendere sia stata “tutta colpa di Jerôme”. Delle due l’una: basta l’abilità di una persona, indipendentemente dal grado, per manipolare i controlli oppure siamo in presenza di complicità indiret-

Per rinnovare il patto nazionale

C’è una strada per l’Assemblea costituente di Ida Nicotra te dalla posizione di netta contrarietà assunta dal centro-sinistra e da una parte consistente dei media e del mondo accademico, che liquidarono la proposta con prese di posizioni spesso aprioristiche e talvolta velate da pregiudizi ideologici. La proposta di una Costituente da eleggere esclusivamente al fine di riscrivere le regole costituzionali ed approvare una nuova legge elettorale risponde alla esigenza, avvertita non solo dai partiti, ma anche dall’opinione pubblica, di separare idealmente la sede istituzionale del confronto politico da quella destinata a ridiscutere il modello costituzionale. Un tavolo inedito che, di certo, potrebbe favorire un dialogo costruttivo con l’apporto di tutte le forze politiche, formando un consenso il più

te? A Parigi vi è chi sostiene che non vi fosse stato il tracollo borsistico, le malefatte non sarebbero venute al pettine. Infatti, fino a che si guadagna… Successiva e non marginale questione: se in un’operazione finanziaria vi è qualcuno che vi lascia le penne, qualcun altro guadagna. La magistratura, ovviamente a buoi scappati (anche perché i finanzieri inventano sempre nuovi strumenti), riuscirà a dipanare la matassa? Verità è che il Mondo della Finanza è riuscito a creare una zona offlimits, dove è pressoché impossibile indagare. Altro che democrazia finanziaria!, termine col quale ci si riempie la bocca in convegni. Nazionali e internazionali. E nulla, assolutamente nulla di cultura liberale, di vero mercato. La questione è grossa e grave in ogni parte del pianeta, in quanto la Finanza, travalicando, rischia di compromettere l’economia reale: con l’eccesso dei crediti al consumo, potremmo infatti bissare il crack dei subprime. Come ha scritto The Economist, se non ci diamo una regolata, c’è da paventare una recessione planetaria non molto dissimile da quella del 1929-1933. Con quel che ne seguì in termini politici.

ampio e trasversale possibile. Si potrebbe pensare ad una Costituente che combinando insieme componenti di democrazia rappresentativa e strumenti di democrazia diretta, sarebbe in grado di restituire il potere sovrano al popolo. Un organismo eletto con il metodo proporzionale favorirebbe una maggiore rappresentatività e restituirebbe ai cittadini la decisione su un’organica ed articolata riforma istituzionale, volta ad adeguare le scelte fondamentali alle mutate condizioni storiche, sociali e politiche dell’Italia di oggi. Per l’altra metà la designazione dei componenti della Costituente potrebbe essere attribuita al Parlamento riunito in seduta comune, prevedendo una maggioranza qualificata, al fine di evitare la eccessiva politicizzazione delle scelte e garantire la selezione di soggetti, sulla base del prestigio, dell’equilibrio e della comprovata preparazione tecnica. Un’occasione da non sprecare per coinvolgere nel nuovo patto costituzionale tutte le forze politiche, non solo quelle nate successivamente alla Costituzione repubblicana, ma anche quelle considerate allora fuori dall’arco costituzionale, sì da caricare di significato il monito del Presidente Napolitano, secondo cui nessuno degli attuali partiti può rivendicare l’esclusività dei valori costituzionali, ma tutti possono guardare ai principi in essi espressi per affrontare le sfide del domani.


& PARIGI - La nazione, la scuola, ma anche il razzismo, l’antirazzismo, l’identità. Alain Finkielkraut c’è sempre quando si tratta di scorticare i temi della contemporaneità. Lo fa senza nessuna concessione ai rituali del politicamente corretto. Questo gli è costato spesso critiche e a volte insulti, da “reazionario piagnucolone” a “razzista” o peggio. Lui ne soffre più di quanto dica, ma non molla: “pensare è cercare a tentoni la verità senza lasciarsi intimidire dall’opinione maggioritaria”. Le edizioni Spirali pubblicano tra qualche giorno “Che cos’è la Francia?”.Tanti temi diversi per circoscriverne uno scottante: che cos’è la nazione? Iniziamo l’intervista da qui. La nazione è tornata di moda. Grazie a Nicolas Sarkozy ma anche a Ségolène Royal, a destra come a sinistra. Contrariamente a quello che hanno potuto dire alcuni rumorosi intellettuali, il ritorno dell’idea di nazione durante le elezioni francesi non ha avuto nulla di razzista o xenofobo. Ormai abbiamo sempre più la tendenza a considerare il paese in cui abitiamo come una società, un insieme sincronico di comunità e corporazioni. Improvvisamente ci è stato ricordato che siamo anche una nazione. Uno dei nodi di queste elezioni è stato proprio questo: vogliamo assecondare la diluizione della nazione in società o vogliamo continuare ad essere una nazione, qualcosa di più di un semplice agglomerato di rimostranze? Mi è parso che votando per Nicolas Sarkozy si scegliesse la nazione, l’idea di un soggetto collettivo che vive nella storia, in un’articolazione di passato, presente e futuro. Ma Nicolas Sarkozy l´ha già delusa? Il presidente della Repubblica intende far iscrivere la “diversità” della Francia nel preambolo della Costituzione e ha dato incarico a Simone Veil di svolgere una missione esplorativa in questo senso. Mi stupisce innanzitutto che Simone Veil abbia accettato. Oggi l’antirazzismo non è più un principio di vigilanza ma un’ideologia delirante. La diversità iscritta nel marmo della Costituzione suonerà come un incoraggiamento a tutte le comunità a ripiegarsi sulle loro lamentele e giustificherà il gioco al rialzo di richieste allo Stato. Invece di combatterla, si renderà costituzionale, inevitabile e necessaria la frammentazione della Francia. La diversità non è soltanto frammentazione, può essere un valore, una ricchezza per un Paese. Falso. Non bisogna camuffare la storia: la Francia non è un paese di immigrazione, o lo è soltanto in epoca molto recente. Non sono stati gli stranieri a fare la Francia. Basta rileggere la storia, culturale e politica, dai capetingi ad oggi. Se gli stranieri sono stati bene in questo paese, salvo terribili eccezioni, è perché la Francia ha saputo accoglierli e perché loro hanno saputo armarla, l´hanno resa la loro patria adottiva. Durante la famosa rivolta delle banlieue nel novembre 2005, un membro di un’associazione spiegava chiaramente di non sentirsi un francese figlio di immigrati, ma un membro della diversità francese. Diceva: “sono francese per me stesso, sono francese per quello che do alla Francia, non per quello che la Francia mi dà. Alla Francia non chiedo nulla di simbolico, chiedo materiale, un lavoro, una ca-

parole

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Che cos’è la nazione? Italiani e francesi

A LEZIONE

dal professor Finkielkraut di Francesca Pierantozzi

A sinistra il presidente francese Nicolas Sarkozy Sopra il professor Alain Finkielkraut

Un gruppo di esperti è riunito per immaginare come liberare la Francia e la sua crescita economica sa, uno stipendio”. Questa ottica è semplicemente disastrosa. Io sono un figlio di immigrati e so bene che la Francia non è dentro di me per quello che sono, per le mie origini, ma per quello che la Francia mi ha dato. Cerco di fare mio il passato della Francia: soltanto allora posso pensare al mio possibile contributo. Affermare la diversità significa licenziare storia, iscrivere nel cuore stesso dei nostri principi fondamentali il relativismo culturale. Un’identità costruita sul passato non è condannata alla sterilità, all’incapacità di vivere il presente e costruire il futuro? Non è un inutile conservatorismo? Non è così. Prendiamo Nicolas Sarkozy. Da una parte dice di essere l’uomo della rottura - incarnata dal famoso Rapporto di Jacques Attali sulla liberazione della crescita – dall’altra dice di essere l’uomo del nuovo rinascimento. Ma il Rinascimento fu proprio un rinnovamento che prese la forma di un ritorno al passato, all’antichità. L’innovazione attraverso la tabula rasa è senza senso. Da questo punto di vista il famigerato

rapporto Attali può legittimamente fare paura. Abbiamo un bel gruppo di esperti, di tecnici riuniti in conclave per immaginare come liberare la Francia e la sua crescita economica. Ci dicono, per esempio, che in prima media i ragazzi devono conoscere l’inglese, l’informatica, avere rudimenti di economia e saper lavorare in gruppo, ci dicono che l’insegnamento deve stimolare la creatività e non inculcare nozioni accademiche. Scoraggiante. Il rapporto Attali ci dice che la nazione non ha più alcun interesse, che bisogna rivolgersi risolutamente verso il futuro. Attali vuole fabbricare del nuovo con il nuovo, aggravando la destrutturazione della Francia. I francesi snob e sciovinisti non sono più nemmeno un cliché? Ora non sopportano più la Francia e la loro storia? La Francia non ha potuto fare un film come la “Meglio gioventù”, perché la Francia non si ama e l’Italia sì. C’è una scena importante in questo film: uno dei due fratelli è in Norvegia con una bellissima ragazza e vede in televisione le immagini di Firenze allagata. E lui parte. Subito. In Francia prevale l’arroganza delle generazioni del dopoguerra nei confronti dei loro padri, considerati collaborazionisti o colonialisti. Oggi vince il banlieucentrismo, caratteristico di una Francia che non si accetta più in quanto tale. L’inondazione di Firenze era il 1966.

Oggi ci sono soprattutto i rifiuti di Napoli che nessuno vuole. È vero che esiste una tendenza generalizzata nelle nostre società, che sono allo steso tempo iperindividualiste e risolutamente universaliste. L’egoismo convive con un esplosioni mediatiche di solidarietà, quasi sempre effimere e per cause molto lontane. Legittime, senz’altro. Ma il fenomeno è preoccupante. Perché proprio la nazione è il luogo possibile di una solidarietà attiva e responsabile. Non esiste cittadinanza senza frontiere a meno che non si separi la cittadinanza dalla responsabilità. Chi parla come me viene facilmente accusato di razzismo e credo che arriverà presto il momento in cui la nazione stessa verrà percepita come un concetto razzista. Ed è in nome dell’antirazzismo che molti giustificano il rapporto Attali, visto che raccomanda l’apertura delle frontiere in caso di carenza di manodopera. Da una parte l’angelismo: nessuna frontiera deve separare gli uomini. Dall’altra il materialismo: la Francia è puro territorio e siamo tutti bestie da soma intercambiabili, viviamo una pura esistenza economica , poco importa l’identità o la memoria degli individui, siamo tutti esseri senza qualità. Ecco dove ci porta la denazionalizzazione in nome dell’antirazzismo: in un mondo dominato dalle considerazioni economiche dove non si potrà far valere la concezione più ricca e dignitosa dell’essere umano.


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mondo

La sua strategia per le primarie prevedeva il successo in Florida. Sarà riuscita la rimonta?

Rudy Giuliani il “laico” ora aspetta il miracolo di Andrea Mancia uando leggerete queste righe, per Rudy Giuliani sarà arrivato il momento della verità. La sua ultima spiaggia, infatti, sono le elezioni primarie in Florida. Ultima spiaggia, ma anche debutto ufficiale, perché fino ad oggi l’ex sindaco di New York ha praticamente snobbato tutte le elezioni di gennaio, concen-

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trando le proprie risorse proprio nel Sunshine State, confidando in una vittoria che potesse servirgli da trampolino di lancio per le grandi sfide del Super Tuesday. Una strategia rischiosa, criticata quasi all’unanimità da analisti e political junkies, ma che per lunghi tratti del 2007 è sembrata funzionare alla perfezione. Sempre in vantaggio nei sondaggi nazionali, l’America’s Mayor era parso potersi sbarazzare con facilità degli avversari che, mese dopo mese, insidiavano il suo status di front-runner. Prima John McCain, che in primavera sembrava essere affondato sotto il peso di uno scarso fundraising e degli eterni dubbi che il suo nome solleva nella base del partito. Poi Fred Thompson, il reaganiano duro e puro sceso in campo quasi controvoglia, che durante l’estate sembrava il solo candidato in grado di scalfire la superiorità di Giuliani, ma che non è mai riuscito a decollare. E ancora Mike Huckabee, il campione indiscusso della destra evangelica e dei social conservatives, brillante nei dibattiti televisivi, ma le cui posizioni in politica estera e in economia somigliano più

scelto una strategia“classica”(almeno per gli ultimi trent’anni di politica americana): puntare forte su Iowa e New Hampshire e costruirsi un momentum sufficiente in vista del Super Tuesday. Così Giuliani ha scelto la strategia esattamente opposta: ignorare gli early states, passare indenne in South Carolina sfruttando le divisioni in campo conservatore, vincere la Florida ed esplodere definitivamente nei grandi stati del Super Tuesday, soprattutto nel nordest.

Contemporaneamente, Giuliani doveva risolvere il suo “vero”problema, quello di essere considerato il più liberal dei candidati repubblicani. Una strategia di riposizionamento per niente semplice. Già abbastanza a destra in politica estera, Rudy ha presentato un piano di tagli fiscali mastodontico per avvicinarsi alla componente più liberista del partito. Insieme al sostegno di Steve “flat tax”Forbes, con lui fin dall’inizio, questa aggressiva politica anti-tasse gli è fruttata il sostegno di Grover Norquist, dei suoi Americans for Tax Reform e Club for Growth. Per far dimenticare le sue posizioni pro-choice, poi, Giuliani ha scelto – anche in questo caso – la strada opposta a quella di Romney: invece di cambiare idea da un giorno all’al-

McCain, che all’inizio di dicembre veleggiava malinconicamente alle spalle di tutti gli altri candidati, senza denaro e senza speranze. Contando su un campo conservatore frammentato, Rudy si è improvvisamente ritrovato a dover contrastare un avversario che pescava elettori nella sua stessa constituency, quella dei repubblicani (e di qualche indipendente) disposti a rinunciare all’ortodossia della rivoluzione conservatrice pur di evitare il ritorno della Dinastia Clinton alla Casa Bianca. Anche le alterne sorti di Hillary Rodham Clinton, messa in difficoltà da Barack Obama più del previsto, hanno frenato la rincorsa di Rudy, che aveva fatto di tutto per accreditarsi come l’anti-”Billary” per eccellenza. Giuliani avrebbe avuto partita facile in uno scontro a due con Huckabee, ottime speranze in uno scontro a tre con Romney e Huckabee, buone speranze in uno scontro a due con Romney, ma ha veramente poche speranze in uno scontro a tre con Romney e McCain. Ed è proprio questo il tipo di sfida che si è delineato negli ultimi giorni in Florida.

In caso di sconfitta nel Sunshine State – e a maggior ragione in caso di terzo posto (come quello che gli assegnano oggi i son-

La rischiosissima scelta di ignorare Iowa, New Hampshire e South Carolina ha costretto l’ex sindaco di New York a sperare in una improbabile vittoria per conservare qualche residua chance di conquistare la nomination repubblicana a

quelle di Jimmy Carter che a quelle di Ronald Reagan. Infine Mitt Romney, il mormone del “Taxachussets”, i cui flipflop sulle questioni etiche e in politica economica sollevano più di un dubbio tra i simpatizzanti repubblicani, malgrado il sostegno massiccio da parte dell’establishment del partito. Il calcolo di Rudy era azzardato, ma lineare. Tolto di mezzo McCain, soltanto Romney aveva il denaro e gli endorsement sufficienti per contrastare la sua vittoria. E Romney aveva

tro, ha provato a spiegare agli elettori che le sue posizioni personali non gli avrebbero impedito di nominare alla Corte Suprema giudici contrari a quelle “reinterpretazioni” della Costituzione che avevano portato alla legalizzazione dell’aborto (“scrict constructionists judges”). Tutti gli elementi necessari perché la strategia di Giuliani prendesse corpo si sono, più o meno, concretizzati. Il campo conservatore del partito repubblicano, almeno fino all’abbandono di Thompson, è rimasto abbastanza frammentato. A livello nazionale ancora non c’è ancora un chiaro front-runner. Romney non è riuscito, in Iowa e New Hampshire, a costruire un momentum significativo, anzi ha perso entrambi in gli stati. I fiscal conservatives sono schierati, in modo compatto, nel fronte dell’ex sindaco di New York. Le critiche dei social conservatives si sono attenuate, soprattutto dopo l’endorsement di Pat Robertson. Eppure, le speranze per Giuliani di conquistare la nomination repubblicana sembrano ormai quasi inesistenti. Cosa è andato storto, allora? A parte i rischi strutturali nella sua strategia, sprezzante della conventional wisdom più recente, Giuliani ha reagito con troppa lentezza all’incredibile ritorno di fiamma di

daggi) – la candidatura di Rudy Giuliani soffrirebbe un colpo molto probabilmente mortale, anche se dalle sue parti continuano a giurare di volere in ogni caso arrivare al Super Tuesday. Ma non si tratterebbe soltanto di uno schiaffo alle ambizioni dell’America’s Mayor. In caso di una sua vittoria alle primarie, infatti, i repubblicani avrebbero avuto la possibilità di cambiare la dinamica di una corsa che, a meno di clamorosi sviluppi nei prossimi mesi, sembra destinata a concludersi con il ritorno dei democratici alla Casa Bianca. Né McCain, né tantomeno Romney, sembrano infatti in grado di rimettere in gioco quel numero di blue states in cui l’ex sindaco di New York avrebbe potuto combattere, fino all’ultimo giorno, contro Barack Obama e soprattutto Hillary Clinton. Senza Rudy, il New Jersey e la Pennsylvania (con i loro 37 voti elettorali) resterebbero, per l’ennesima volta, nel libro dei sogni del GOP. E con il Nevada, il New Mexico, il Colorado, l’Arizona e la Virginia che sembrano scivolare sempre più velocemente nella colonna dei purple states, ai repubblicani (di tutto il pianeta) non resterebbe che sperare in un miracolo. Proprio come quello di cui Rudy avrebbe avuto bisogno ieri.


mondo

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d i a r i o

d e l

g i o r n o

Kenya: Kofi Annan apre i colloqui di pace Alla presenza dell’ex segretario Onu, Kofi Annan, si sono aperti a Nairobi i colloqui tra le parti contrapposte in Kenya, quella del presidente rieletto Mwai Kibaki e dell’opposizione di Raila Odinga. Non si fermano però gli scontri: due elicotteri militari hanno aperto il fuoco su una folla in tumulto che minacciava un posto di polizia nella città di Naivasha, nella Rift Valley, mentre nella capitale si contano i morti per la guerriglia.

Germania: la rivincita dei turchi Strano ma vero, ben 3 mila membri della Cdu dell’Assia festeggiano la sconfitta di Roland Koch nelle recenti elezioni regionali: sono gli iscritti appartenenti alla comunità turco-tedesca, indignati dall’equazione ”immigrato uguale criminale” propugnata da Koch come risposta alle nuove ondate di criminalità.

Tensioni corse

Tavoli diversi per i due partiti palestinesi di Abu Mazen e Zahar, Egitto mediatore

Gaza, al via i negoziati

Spagna, stop ai fondi agli amici dell’Eta

di Federica Zoja uali risultati produrranno i negoziati al via oggi al Cairo si può solo ipotizzare, ma un punto fermo c’è: per Hamas il successo politico è già assicurato. Il movimento islamista, vincitore dalle elezioni legislative nel gennaio 2006 e subito misconosciuto dalla comunità internazionale, è riuscito a forzare l’isolamento imposto dagli avversari di Fatah e da Israele, rilanciando il proprio ruolo sulla scena. Illudersi di discutere di pace in Medio Oriente, come ad Annapolis nel novembre scorso, non tenendo conto della Striscia di Gaza, con il suo milione e mezzo di persone, «è stato una follia», commenta Diaa Rashwan, politologo del Centro studi politici e strategici Al-Ahram del Cairo. In un’ottica egiziana, il successo di Hamas equivale a una parziale vittoria anche della Fratellanza musulmana, principale formazione politica di opposizione al regime di Mubarak e ge-

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nitrice dei maggiori movimenti islamisti nel mondo. Formalmente bandita in Egitto, la Fratellanza è rappresentata in Parlamento da 88 deputati su 454, eletti come indipendenti. «Mohammed Habib (vice della Guida suprema Mohammed Akef, ndr) ha ribadito che Hamas prenderà le proprie decisioni in autonomia rispetto ai Fratelli egizia-

neata sul fronte egiziano, con le autorità forzate ad aprire le frontiere per non scatenare le ire della popolazione trainata dalla Fratellanza musulmana. Il non-partito escluso dall’amministrazione del Paese. Su quello palestinese, paritetica prova di forza del movimento ‘reietto’, che ha messo all’angolo il numero uno dell’Anp Abbas, unico interlocutore della comunità internazionale. «I negoziati non dureranno certo un giorno continua Rashwan - Ora toccherà a Fatah dimostrare di saper superare l’impasse riaprendo il dialogo con Hamas», oltre a restituire alcuni favori al presidente Mubarak. Il Cairo sarebbe infatti disponibile ad attribuire all’Anp l’autorità formale sulla barriera di Rafah, da gestire però in collaborazione con la Ue. Ad Hamas, invece, potrebbe toccare un ruolo tecnico. Se fosse così, niente più embargo per Gaza. Né per la forza politica islamista che ne ha preso il controllo.

La soluzione possibile? Fatah e Anp responsabili del confine con il supporto dell’Unione Europea

aeed Jalili è il segretario del Consiglio Supremo della Sicurezza Nazionale della Repubblica Islamica. Da ottobre è l’uomo del regime iraniano incaricato di negoziare il dossier nucleare con l’Occidente. A Javier Solana, capo della diplomazia europea, sono bastati due incontri - a Roma a fine ottobre e a Londra a fine novembre - per farsi un’opinione negativa del personaggio e, di riflesso, dell’attuale disponibilità iraniana a cambiare direzione sul nucleare. È auspicabile che quest’opinione venga ora condivisa anche dai nostri governanti. A giudicare dalle dichiarazioni fatte da Jalili durante una recente visita a Bruxelles, Solana ha ragione di esser pessimista. Jalili occupa la posizione di maggiore influenza della politica estera iraniana grazie alle sue credenziali

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ni, ma le consultazioni fra i due gruppi sono state continue in questi giorni», ricorda Rashwan. Niente in contrario a un tavolo negoziale fra Hamas e Fatah, hanno fatto sapere i Fratelli, né a un’amministrazione comune del valico di Rafah, prodromo di una gestione allargata dell’intera Striscia. Una situazione grottesca quella che si è deli-

La Corsica attraversa un nuovo periodo di tensioni. Un incendio al Parlamento, mezza dozzina di attentati, tafferugli a margine delle adunate nazionaliste, magistrati che leggono un verdetto dietro una fila di gendarmi mobili muniti di casco: in appena quindici giorni, l’isola francese si è ritrovata in una delle fasi problematiche che la scuotono ad intervalli regolari.

Il governo spagnolo ha avviato le procedure per tagliare i fondi pubblici ai due partiti della sinistra radicale basca Anv e Pctv (Azione nazionalista e Partito comunista delle terre basche) legati al braccio politico dell’Eta, Batasuna. Il ministro dell’Interno, Alfredo Perez Rubalcaba, ha presentato un’istanza all’Avvocatura dello Stato perché chieda alla Corte suprema di «sospendere tutti i finanziamenti pubblici destinati alle due formazioni politiche in qualsiasi ambito istituzionale».

Canada: vengo anch’io se vieni anche tu Il Canada ha annunciato di essere disposto ad ampliare il proprio contingente militare in Afghanistan, ed il suo mandato, se anche un altro Paese aderente alla Nato dispiegherà nella provincia meridionale di Helmand un numero maggiore di soldati.

Libano: Jumblatt va a Mosca Il presidente del Partito social progressista libanese, Walid Jumblatt, è a Mosca per discutere sul sostegno offerto dalla Russia alla soluzione della crisi politica del Paese dei Cedri. Jumblatt ha annunciato che chiederà al Cremlino la sua proposta per arrivare all’elezione di un nuovo presidente libanese.

Terrorismo e antiterrorismo A meno di un anno dall’offerta all’Arabia Saudita di aderire alla cosiddetta ”iniziativa di Istanbul” per lo scambio di informazioni, l’addestramento degli specialisti e la lotta al terrorismo, la Nato ha rinnovato il suo appello ai sauditi e al sultanato dell’Oman, affinché sottoscrivano quell’iniziativa, essendo gli unici due Paesi della cooperazione del Golfo a non averla ancora accolta.

Nucleare: nessun accordo con Saeed Jalili, il negoziatore di Ahmadinejad in Occidente

Iran, una lunga scia di menzogne di Emanuele Ottolenghi ideologiche. Si dice di lui che segue lo stile di vita dello scomparso leader supremo, l’Ayatollah Khomeini, all’insegna della semplicità e del rifiuto di lusso e privilegi. È un reduce della guerra con l’Iraq, sopravvissuto a un attacco chimico e con una gamba artificiale. Ma l’aspetto più importante è che è un fedele del presidente Ahmadinejad e l’esecutore, quando era responsabile per l’America Latina, della sua strategia ‘sud-sud’, cioè dell’acquisizione per l’Iran del ruolo di nuovo patrono delle rivoluzioni anti-americane nel mondo. Come Ahmadinejad, è un seguace

dell’Ayatollah Mesbah Yazdi, un leader religioso legato a doppio filo con il messianesimo sciita che crede nella necessità di una guerra per facilitare il ritorno del Mahdi (il messia sciita). E a dispetto delle speranze di un riallineamento politico in Iran dopo le elezioni del prossimo marzo, Jalili rimarrà saldo in sella. A Bruxelles ha parlato di dialogo tra le civiltà - un concetto lanciato a suo tempo dall’ex presidente Khatami, e come lui, lo ha fatto più per distrarre l’attenzione dalle attività del regime che per promuovere un dialogo. Molti rimpiangono Khatami e la

sua stagione riformista, dimenticando due cose: le gravissime violazioni dei diritti umani avvenute sotto di lui e che se la National Intelligence Estimate è corretta nel dire che l’Iran ha sospeso il suo programma militare nucleare nel 2003, ciò significa che il dialogo che Khatami promuoveva con l’Occidente era uno specchietto per le allodole mentre si stava costruendo una bomba nucleare non esattamente lo strumento principe per il dialogo. L’Iran era dunque impegnata in un raggiro dell’Occidente mesmerizzato dall’elegante Khatami. Lo stesso va

detto di Jalili. Impeccabile e gioviale, ha risposto solo alle domande amichevoli, sfruttando le altre per lanciarsi in diatribe antiamericane o evitando di rispondere. Ha difeso il programma nucleare iraniano invocando la NIE come dimostrazione degli intenti pacifici del suo Paese - nonostante la NIE dica che l’Iran stava costruendo una bomba e nonostante le accuse circostanziate del pubblico. Mostrando che l’Iran serba un profondo rancore verso l’Occidente e non mancherà di prendersi le sue rivincite, Jalili ha evocato 4 volte il colpo di stato del 1953 contro Mossadeq e 3 volte il sostegno occidentale a Saddam, sottolineando che anche le sanzioni passeranno alla storia come un’ingiustizia contro l’Iran. Ma questo vittimismo misto a minacce non lascia spazi a compromessi.


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AFFARI ESTERI

Occidente

MUSHARRAF, IL DITTATORE IN di Mario Arpino

opo la fiammata di interesse alimentata, dall’attacco prima, delle forze governative agli integralisti della Moschea Rossa, poi, dal rientro concordato di Benazir Bhutto e, da ultimo, dal suo assassinio, tutto tace in Pakistan. O, meglio, tutti tacciono sul Pakistan. Se non fosse per gli articoli di propaganda fatti circolare a pagamento dall’ineffabile Asif Zardari, più noto nel suo Paese come “mister dieci per cento”, marito di Benazir ed erede del suo patrimonio (ma non del suo carisma), il silenzio sarebbe assoluto.“L’ordine regna a Varsavia”. I casi sono due: l’interesse era incentrato più sul folclore generato dall’“effetto Benazir”che sulla preoccupazione che il Paese potesse cadere in mano agli islamisti, oppure le cose stanno andando un po’ meglio, e in questo caso le “democrazie”, non volendolo riconoscere, hanno deciso di punire Musharraf con il silenzio. C’è, in verità, un terzo caso: forse l’Occidente si è

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un po’ spaventato, e ha capito di aver un po’esagerato con il tiro al piccione. Ma i “veri democratici” non possono ammettere di aver sbagliato, e allora tacciono. Sperando in cuor loro che Musharraf riesca a reggere ancora. In effetti, è sulle sorti di quest’uomo e del suo regime che si giocherà la prossima partita. Viene dipinto come un Giano bifronte, che da un lato si allea e fa patti con gli americani mentre dall’altro, pur combattendo al-Qaeda, blandisce i talebani. Intervistato, ammette candidamente che è così, perchè i talebani ce li ha in casa, come le scuole coraniche che li allevano e le tribù pashtun che li ospitano e li sostengono. Persino una buona metà dei suoi soldati sono di origine pashtun, quindi poco inclini ad andare a combattere contro i propri parenti nelle aree tribali. Pur tuttavia, dopo l’11 settembre ha aderito sinceramente alla lotta al terrorismo, come mai nessun governo precedente aveva fatto, e li combatte. Non è una situazione che ha creato, dice spesso nelle interviste, ma che si è trovato. Ed è vero, perché se risulta che

Benazir Bhutto ad un certo punto aveva cercato di prenderne le distanze, è comprovato che Nawaz Sharif, al contrario, ne aveva favorito la penetrazione per aver mano libera in attività che con quelle di governo avevano ben poco a che fare. Ora, sotto questo terribile dittatore, oltre al clan Bhutto, per complicare le cose è rientrato in Pakistan anche Sharif. Le elezioni ormai sono vicine, e con esse il momento della verità. Chi vive e lavora in Pakistan, ci racconta che gli equilibri ed i rapporti di forza non sono quelli che, in modo così scenico, ci sono pervenuti nei giorni dell’infausto rientro di Benazir. Se il numero degli estremisti è cresciuto, il loro numero è ancora piccolo rispetto a quello di una maggioranza silenziosa che non cerca avventure ed è consapevole della propria forza. Gli stessi colletti bianchi, cui i nostri media hanno dato tanto risalto mentre manifestavano contro il generale, in realtà erano un numero irrilevante rispetto alla massa dei professionisti e dei funzionari statali. Il pachistano medio sa che, piaccia

Pakistan al voto. Un momento di scelta anche per l’Occidente: il presidente-generale è l’alternativa ai talebani o non, il Paese non può essere governato da chi non abbia dalla propria parte il consenso dei militari. A Musharraf questo consenso di certo non manca. Una parte di questa maggioranza avrebbe votato forse per la Bhutto, che aveva un certo fascino carismatico, ma non certo per suo marito, il chiacchierato uomo d’affari Asif Zardari, che non è Benazir. Perfino in Pakistan il

concetto di“democrazia per diritto ereditario”puzza un po’di bruciato, né il compromesso Sharif, già acerrimo nemico del clan dei Bhutto, sembra essere un’alternativa. Chi se ne intende, e osserva la situazione da vicino, è convito che Musharraf ce la possa fare ampiamente, senza necessità di quei brogli elettorali di cui verrà, comunque, inesorabilmente accusato.


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Occidente

Punjabi, pashtun, sindhi e beluchi in una terra grande come la Spagna

Mosaico impazzito di feudi e di etnie di Maurizio Stefanini

u nel 1933 che Chaudhary Rahmat Ali coniò il termine Pakistan: «Una parola composta da lettere prese da tutte» le regioni a maggioranza islamica «del Subcontinente Indiano: Punjab, Afghanistan, Kashmir, Iran, Sind, Tukharistan e Beluchistan». Nel nuovo Stato effettivamente costituito il 15 agosto 1947 non ci sarebbero però stati né l’Iran, né l’Asia centrale turcofona (Tukharistan), e neanche l’Afghanistan, eccetto la regione pashtun della frontiera di Nord-Ovest. In compenso, ci sarebbe stato il Bengala Orientale, mentre in Kashmir un sovrano indù optò per l’India, che pur sfidata da una guerriglia endemica continua a controllarne la maggior parte anche dopo le guerre del 1947, 1965 e 1999. L’altra guerra del 1971 portò poi via il Bengala Orientale, oggi Bangladesh. Il Pakistan di oggi è dunque una federazione tra le Province di Beluchistan, Frontiera di Nord-Ovest, Punjab e Sind, più i territori federali della capitale Islamabad e delle Aree Tribali ad Amministrazione Federale (Fata), più l’Azad Kashmir (Kashmir Libero) e le Aree a Amministrazione Federale del Nord (Fana). Fata e Fana sono un regime speciale per popolazioni tribali: simile alle riserve indiane del Nord America, e ereditato dal regime coloniale inglese. Sono amministrate direttamente dal governo centrale, ma per salvaguardare le consuetudini locali la legislazione nazionale può essere modificata dalle jirga, le assemblee tribali di villaggio. Solo in casi di estrema gravità il presidente della repubblica può imporre decisioni senza il consenso delle jirga, e la piena autonomia contempla il permesso di portare armi e di consumare oppio: cose invece vietatissime nel resto del Paese. Le Fata, con capoluogo a Peshawar, comprendono le cosidette “Agenzie” di Bajaur, Mohmand, Khyber, Orakzai, Kurram, Waziristan del Nord e Waziristan del Sud, per un totale di 27.220 Kmq e 3.341.070 abitanti, quasi tutti pashtun. Le Fana, capoluogo a Gilgit, coi sei distretti di Ghanche, Skardu, Astore, Diamir, Ghizar e Gilgit si estendono invece su 72.496 kmq con 1.500.000 di abitanti: per un 40% shina di lingua iraniana e per un 30% balti di lingua tibetana. Gli abitanti delle Fana non sono però rappresentati al Parlamento pakistano. Come nel caso dell’Azad Kashmir, capoluogo a Muzzaffarabad, con i suoi 13,297 kmq e 4.067.856 abitanti, il Pakistan si limita ad amministrare la zona, in attesa di una ipotetica risoluzione dell’intero dossier. Delle quattro Province, due sono di cultu-

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NCOMPRESO Tempo di scelte, quindi, ma non solo per i cittadini pachistani. Tempo di scelte anche per l’Occidente, quello vicino e quello oltre Atlantico, che dovrà decidere da che parte stare. Per gli americani e gli inglesi, non credo ci siano dubbi. Democratici o repubblicani, laburisti o conservatori, saranno dalla parte di Musharraf, come i francesi di Sarkozy. Per gli europei più ideologizzati, con gli italiani in prima fila, come per tutti coloro che adorano il “vitello d’oro” della democrazia formale come feticcio, invece di considerarla mezzo perfettibile per giungere prima o poi ad una democrazia sostanziale, ammetto che la scelta possa essere dura. Ma non ci sono alternative. Anzi, ci sono: integralisti e talebani, oppure oligarchie famigliari corrotte. L’Occidente non può essere autolesionista oltre un certo punto, e deve saper superare la sua dialettica interna ritrovando la forza e la volontà di vincere. Anche a costo di dover accettare per un certo tempo una democrazia non compiuta, ma amica, come quella che nel

migliore dei casi Musharraf sarà in grado di costruire. In fondo, in otto anni ha messo al sicuro l’armamento atomico, ha raffreddato il conflitto con l’India, ha cercato di mantenere tutte le promesse in termini di guerra al terrorismo e di lotta alla corruzione, ha estromesso gli estremisti dal governo, ha risanato le casse dello Stato, ha rilanciato l’economia, ha creato una commissione speciale per i diritti delle donne, che, almeno fuori dalle aree tribali, hanno diritto di accedere a qualsiasi carica o impiego, ha reso gratuite le scuole pubbliche, ha imposto programmi statali nelle scuole coraniche e, cosa che nella civilissima Italia è accaduta solo pochi anni addietro, ha messo al bando la pratica dell’omicidio d’onore. Possiamo considerare che, in un Paese come il Pakistan, un“dittatore” così rappresenti il minore dei mali o preferiamo, assieme a tante altre anime candide, tollerare che, in attesa che prenda piede una solida democrazia di tipo occidentale, vadano al potere i talebani?

ra iraniana: il Beluchistan, con 347.190 kmq, 9.893.727 abitanti e capoluogo a Quetta; e la Frontiera di Nord-Ovest (Nwfp), con 74.521 kmq, 19,343,000 abitanti e capoluogo anch’essa a Peshawar. In entrambe esistono Aree Tribali ad Amministrazione Provinciale, le cosidette Pata, che fanno altri 5 milioni di abitanti, e in cui può bastare anche solo l’intervento del presidente provinciale per imporsi alla jirga. Il Punjab, con 205.344 kmq, 79.429.701 abitanti e il capoluogo a Lahore, e il Sind, con 140.914 kmq, 34.231.000 e capoluogo a Karachi, sono invece di cultura indo-aria. Tra il Punjab e la Frontiera del Nord-Ovest è incuneato il territorio della capitale Islamabad, con 1.165,5 kmq e 955.629 abitanti. Dal punto di vista etnico, i punjabi costituiscono il 44,15% della popolazione, i pashtun il 15,42%, i sindhi il 14,1% e i beluchi il 3,57%. Oltre a un 4,66% di kashmiri e altri gruppi minori ci sono però due importanti etnie non identificate con nessuna Provincia. Un 10,53% della popolazione è infatti costuita da siraiki, un gruppo intermedio tra punjabi e sindhi; e un altro 7,57% da muhajirs, discendenti dei musulmani del territorio dell’attuale India fuggiti nel 1947. Tra loro lo stesso presidente Musharraf, che è nato a Delhi. Concentrati in particolare nelle città, parlano l’urdu: lingua non indigena del territorio pakistano, che però è quella ufficiale assieme all’inglese, mentre punjabi, sindhi, siraiki, pashtun e beluchi hanno un rango solo regionale. Il campanilismo marca pesantemente la politica. Ha infatti la sua roccaforte in Punjab la Lega Musulmana, oggi divisa tra l’ala fedele a Musharraf e quella dell’ex-premier Nawaz Sharif. Viceversa, il Sind è tradizionale feudo del Partito Popolare Pakistano (Ppp) della ricchissima famiglia locale e sciita dei Bhutto. Il Muttahida Qaumi Movement, “Movimento Nazionale Unito”, fortissimo a Karachi, è a sua volta un partito mohajir, anche se oggi cerca di presentarsi come forza politica nazionale. Mentre in Beluchistan e nella Frontiera di Nord-Ovest governa il Muttahida Majlis-e-Amal: un Consiglio Unito d’Azione tra cinque partiti islamici a loro volta però divisi tra le pretese nazionali della Jamaat-e-Islami, branca locale dei Fratelli Musulmani, e i particolarismi pashtun del Jamiat Ulemae-Islam; sufi sindhi e punjab del Jamiat Ulema-e-Pakistan; sciita del Tehrik-eIslami; wahabita del Jamiat Ahl-e-Hadeeth. Nelle Fata agiscono poi le milizie tribali pro-Taliban, e in Beluchistan c’è un gruppo armato separatista.


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Occidente

Nell’autobiografia la sua difesa contro l‘Occidente. Ne anticipiamo dei brani

Non giudicatemi male, voglio battere al Qaeda di Pervez Musharraf

olte volte nella quiete della notte, seduto da solo nel mio studio, ho riflettuto su ciò che è accaduto al Pakistan. Che cosa ha provocato il deterioramento del nostro tessuto nazionale? Come siamo arrivati all’epidemia attuale di terrorismo ed estremismo? Il trauma iniziò nel 1979 con l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica quando ci rendemmo conto di trovarci di fronte ad una duplice minaccia: l’India da Oriente e l’Unione Sovietica ed il suo Stato fantoccio afghano da Occidente. Fortunatamente per noi, l’Occidente, guidato dagli Usa di Reagan, riteneva l’Afghanistan un’arena importante nella quale testare le ambizioni sovietiche. I signori della guerra afghani e le loro milizie furono armate e finanziate per combattere i sovietici. Oltre ai 2030 mila mujaheddin da tutto il mondo islamico, studenti di alcuni seminari pakistani furono incoraggiati, armati, finanziati ed

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La classe illuminata non ha insegnato il vero Islam alle masse

addestrati per dare manforte agli afghani ed opporsi alla macchina da guerra sovietica. Prima del 1979 le nostre madrasse erano poche e le loro attività non significative. La guerra afghana le portò alla ribalta, sollecitate dal presidente Zia-ul-Haq, che propugnava vigorosamente la causa della jihad contro l’occupazione sovietica.

La jihad continuò per dieci anni, fino a che i sovietici furono sconfitti nel 1989. Si ritirarono in fretta, lasciandosi dietro un enorme arsenale di armi ed artiglieria pesante che comprendeva carri armati, cannoni e aerei. Anche gli Stati Uniti e l’Europa, mentre cadeva il Muro di Berlino e si attenuava la minaccia sovietica, abbandonarono velocemente la regione. Il vuoto improvviso creatosi in Afghanistan portò prima al rovesciamento del governo fantoccio insediato dall’Unione Sovietica e successivamente ai disordini ed allo spargimento di sangue fra i signori della guerra

che lottavano per il potere. L’Afghanistan fu devastato da un conflitto interno che durò dodici anni, dal 1989 al 2001. L’effetto di questa rivolta dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan fino al disordine interno fu triplice. In primo luogo portò 4 milioni di rifugiati in Pakistan. In secondo luogo, provocò l’ascesa

Elezioni: 3 partiti per 272 seggi Quelle previste per il prossimo 18 febbraio sono le prime elezioni parlamentari veramente libere nella storia del Pakistan contemporaneo. Ufficialmente una Repubblica federale, il Paese ha infatti affrontato una lunga storia di dittature militari (il generale Ayub Khan negli anni ’60, il generale Zia ul Haq negli anni ’80, e il generale Pervez Musharraf dal 1999) che hanno seriamente minato i principi democratici su cui si basa la Costituzione emanata dal Padre della Patria, Ali Jinnah. Gli elettori andranno ad eleggere i parlamentari delle quattro Assemblee provinciali (Belucistan, Frontiera nord-occidentale, Sindh e Punjab) e di quella federale, il vero organismo legislativo del Paese: qui sono in ballo 272 seggi. I principali Partiti in corsa sono tre: il Partito Popolare pakistano, guidato dal 19enne Bilawal Bhutto dopo la tragica fine della sua ex leader Benazir Bhutto, assassinata alla fine di dicembre; la Lega musulmana N, guidata dall'ex premier Nawaz Sharif, e la Lega Musulmana Q, il Partito presidenziale.

Hassan Abbas, ex politico pachistano oggi ricercatore ad Harvard, ritiene che le elezioni del 18 febbraio, se saranno regolari, dovrebbero avere il seguente esito: oltre il 50 per cento al Partito della Bhutto, circa il 20 per cento a quello di Nawaz Sharif e non più del 10 per cento al Partito di Musharraf. «Se il Partito di governo prenderà più di 25 seggi - sostiene Abbas - vorrà dire che il voto è stato truccato». In questo caso, come hanno dichiarato i vertici del Partito Popolare, nel Paese esploderà di nuovo la protesta. Se tutto andasse liscio, i due partiti d’opposizione avrebbero la forza sufficiente per formare un governo di coalizione, escludendo del tutto le forze che sostengono Musharraf. La corsa rimane aperta per il ruolo di premier. Asif Zardari, reggente del Ppp, gode di scarsissima fiducia per la sua fama di uomo dissoluto e corrotto. L’alternativa sarebbe l’ex premier Nawaz Sharif, molto stimato in patria ma ritenuto inaffidabile dagli Stati Uniti per il suo islamismo.

dei Talebani nel 1995. In terzo luogo, portò i mujaheddin internazionali a confluire in al Qaeda, con rinforzi che arrivavano dalle nuove Repubbliche indipendenti dell’Asia centrale, dalla scontenta Cecenia e da molti Paesi arabi.

Poi arrivò l’11 settembre, la catastrofe che cambiò il mondo. Anche prima che il Segretario di Stato, Colin Powell mi chiamasse per chiedermi aiuto, anche prima che il presidente Bush annunciasse in un discorso pubblico che tutte le nazioni erano «con noi o contro di noi», sapevo che il Pakistan si trovava di fronte ad un bivio. Avevamo la possibilità di sbarazzarci del terrorismo nel nostro interesse nazionale e non dovevamo esitare. Gli estremisti erano fin troppo bene armati e troppo numerosi perché li potessimo gestire pacificamente. Eppure, dopo la rabbiosa invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e la perdurante instabilità e guerriglia in quel Paese, molti appartenenti ad al Qaeda si spostarono verso le città e le montagne occidentali del Pakistan. La nostra situazione, prima degli attentati contro di me, era peggiorata. Come se non bastasse, la lotta per la libertà che scoppiò nel 1989 nel Kashmir controllato dall’India ebbe notevoli conseguenze sulla società pakistana. Il popolo pakistano è emotivamente e sentimentalmente legato ai

suoi fratelli del Kashmir. Decine di gruppi di sostegno spuntarono fuori in tutto il Paese, pronti ad unirsi alla jihad contro l’esercito indiano.

L’instabilità dura da 26 anni ai nostri confini occidentali e da 16 in quelli orientali in Kashmir. Una cultura di militanza, armi e droga fiorisce ora in Pakistan. La mortale rete terroristica di al Qaeda si è radicata nelle nostre città principali e sulle montagne delle nostre “agenzie”tribali, vale a dire le zone al confine occidentale con l’Afghanistan. Si è radicata una cultura di esplosioni mirate, di auto bombe e di attacchi suicida. Gli attentati che abbiamo subito ne sono un esempio. Questo è ciò che si è verificato in Pakistan negli ultimi 26 anni e che ancora causa sofferenze, sebbene in misura minore dopo i molti successi da noi registrati contro i terroristi e mi ferisce che alcuni occidentali non abbiano compreso le nostre sofferenze ed il contributo del Pakistan. Se non ci fossimo uniti alla jihad contro l’Unione Sovietica e se quest’ultima non si fosse ritirata dall’Afghanistan, sarebbe già finita la Guerra Fredda? Abbiamo fatto ciò che Napoleone ed Hitler non riuscirono a fare: abbiamo sconfitto la Russia con l’aiuto dei nostri amici della jihad. Gli importanti successi da noi conseguiti nello spezzare la rete di al Qaeda sono un buon inizio per recuperare e riscattare il Pakistan, ma gli estremisti sono ben lungi dall’essere sconfitti (…). Nel profondo, i pakistani sono religiosi e moderati. Il Pakistan è uno Stato islamico creato per i musulmani del subcontinente. Solo una piccola frangia della popolazione è estremista. Questa frangia in tema religioso ha opinioni rigide, ortodosse, oscurantiste, intolleranti e non è soltanto militante e aggressiva, ma anche indottrinata al terrorismo. La maggioranza moderata, invece, si può dividere in tre vaste categorie. Da un lato vi sono i clerici (di fatto semianal-


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fabeti visto che l’Islam non riconosce alcuna chiesa o clero) con una visione ortodossa e ritualistica dell’Islam. Dall’altro vi è un gruppo istruito ed illuminato che comprende la religione nel suo vero significato e si concentra sulla natura, sui valori e sulle responsabilità nei confronti della società. Nel mezzo vi è la massa di poveri pakistani a basso tasso di scolarizzazione che vivono nelle aeree rurali e semi-urbane. Moderati che seguono la filosofia del “vivi e lascia vivere” e che sono bacino di reclutamento degli estremisti. Alcuni dei quali non sono né poveri né poco istruiti. Che cosa li motiva? Ritengo sia la loro pura e semplice avversione nei confronti del pathos della condizione musulmana, delle ingiustizie politiche, delle privazioni della società e dell’alienazione che hanno ridotto molto musulmani alla marginalizzazione ed allo sfruttamento. Questo vale per gli Osama bin Laden, gli Ayman al Zawahiri, i Kahlid Sheik Mohammad e gli Omar Saeed Sheik - tutti ricchi e istruiti - due dei quali hanno frequentato la scuola e l’università negli Stati Uniti e in gran Bretagna ed uno dei quali è nato in Gran Bretagna. La verità è che la classe illuminata ha abdicato alla

sua responsabilità di insegnare il vero Islam alle masse di quel centro di cui sopra. Gli appartenenti alla classe illuminata insegnano ai giovani tutte le discipline dello scibile umano, ma quando si tratta di questioni religiose rinunciano a questa responsabilità di cruciale importanza, lasciandola nelle mani dei clerici locali e di quartiere. E adesso si trova di fronte ad una catastrofe. La sfida da raccogliere è grande, ma l’obiettivo è conseguibile. L’esperienza ci ha insegnato che gli stranieri in al Qaeda sono sempre stati la mente degli attacchi terroristici in Pakistan. Le menti trovano pianificatori a livello locale e questi ultimi penetrano nelle bande di organizzazioni estremiste religiose o indottrinano gruppi di fanatici scelti affinché eseguano specifici compiti terroristici. Questi esecutori sono semplici pedine. Non sono sempre religiosamente motivati, tuttavia è questa via in Pakistan in cui terrorismo si mescola con la religione. Se dovessi fare un paragone fra le fila terroristiche ed un albero, definirei le prime semplici foglie dell’albero. Mentre paragonerei l’intera rete di al Qaeda, ivi comprese menti e pianificatori, ad un ramo dell’albero. Eliminando

I musulmani oggi sono impotenti, disperati e quasi sempre analfabeti

al Qaeda, dunque, recideremmo soltanto un ramo (…). Ciò che va tagliato sono le radici. E queste sono rappresentate dal senso di disperazione, d’impotenza e ingiustizia che vive oggi il musulmano. Sentimenti che, se uniti all’analfabetismo e alla povertà, creano una miscela esplosiva. Quando un individuo con una tale forma mentis è analfabeta al punto da credere che la chiave che porta appesa al collo sia la chiave per il paradiso e conduce una vita povera e miserabile, diventa facile preda di coloro che vogliono reclutarlo nelle fila del terrorismo. Perché non dare un contributo alla causa politica e poi lasciare questo miserabile mondo per un aldilà più felice, generoso e munifico? Oggi ci si deve opporre a tutto ciò. Abbiamo bisogno di una visione, di un’impostazione e di una strategia a tutto campo.

Preferisco separare la risposta al terrorismo in strategia a breve termine e strategia a lungo termine. Nel breve periodo si devono combattere i terroristi a tutto tondo: eliminandoli fisicamente. Ma questo non basta ad eliminare la minaccia, che deve affrontata su tre livelli: dalla comunità internazionale, dal mondo musulmano e nel contesto di ciascuna sovranità nazionale. A livello internazionale dobbiamo risolvere importanti controversie politiche. All’interno del mondo musulmano dobbiamo rifiutare l’estremismo ed il terrorismo e concentrare le nostre energie sullo sviluppo socioeconomico. A livello nazionale, mi limiterei ad esaminare ciò che è necessario fare in Pakistan.

Uccidere i terroristi non basta. Bisogna sradicare la povertà Combattere il terrorismo a viso aperto fino a che non sarà sradicato.

La strategia fino ad oggi seguita è stata quella di colpire le menti e dunque gli alti ranghi della gerarchia terroristica. Dei risultati li abbiamo conseguiti ma successo ben maggiore sarebbe quello di eliminare i massimi livelli della gerarchia terroristica. Per vincere, tuttavia, bisogna tagliare le radici e dunque eliminare le vessazioni nei confronti dei musulmani. Questo spetta all’Occidente, in particolare all’America. Affrontare la problematica dell’estremismo richiede prudenza. Implica affrontare il tema dell’estremismo religioso e settario. È una battaglia che coinvolge sia il cuore che la mente e le mentalità non possono essere cambiate con la forza. Devono essere trasformate, il che implica mobilitare la maggioranza moderata favorendone l’ascesa per farle svolgere un ruolo costruttivo. Noi stiamo lavorando su questo: abbiamo messo al bando tutte le organizzazioni estremiste, negando loro l’accesso ai finanziamenti e restando al contempo vigili su una loro eventuale ricomparsa sotto altra forma. Abbiamo proibito la redazione, pubblicazione, stam-

pa, vendita e distribuzione di materiale che incita all’odio sotto forma di libri, riviste, quotidiani o volantini. Abbiamo modificato i curriculum scolastici al fine di eliminare tutti quei materiali e programmi che fomentano l’odio o lo scontro settario e religioso sostituendoli con altri che insegnano i veri valori ed il vero spirito della nostra religione. Abbiamo iniziato ad affrontare il problema del cattivo uso che si fa degli altoparlanti nelle moschee per diffondere l’odio. Abbiamo iniziato ad inserire nelle madrasse l’insegnamento di altre materie oltre alla religione e ad offrire la possibilità di sottoporsi ad esami elaborati dai consigli responsabili in tema di istruzione per consentire agli studenti di prepararsi all’esercizio di professioni diverse da quella del clero. Infine, abbiamo avviato un dibattito nazionale sull’Islam con accademici islamici illuminati al fine di influenzare le masse nella giusta direzione. Ciò può costituire l’inizio di una sorta di rinascimento musulmano che parta, per così dire, dal Pakistan. Il brano è tratto dal libro di Pervez Musharraf, In the line of fire: a memoir, di prossima pubblicazione per i tipi di liberal edizioni


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Per la prima volta i cattolici potranno votare alla Camera federale i propri candidati

Fuori dal ghetto cristiano Colloquio con Peter Jacob di Vincenzo Faccioli Pintozzi e prossime elezioni parlamentari rappresentano un punto di svolta per il Pakistan, perché «vanno alle urne dei votanti sempre più aperti al mondo che li circonda», ma rischiano di essere inutili «se non si riafferma l’indipendenza del potere giudiziario, vera garanzia di giustizia per tutti i cittadini». In questo scenario, i cristiani «devono fare di tutto per evitare il ghetto in cui molti li vorrebbero rinchiudere e devono lottare per divenire parte integrante della società in cui vivono». Lo dice a liberal Peter Jacob, Segretario esecutivo della Commissione episcopale Giustizia e Pace ed uno degli attivisti più presenti nel dibattito politico degli ultimi tempi, che in diverse occasioni ha combattuto contro le discriminazioni subite dalla comunità cristiana e da tempo lotta per ottenere un elettorato congiunto che permetta ai non musulmani di votare deputati di qualunque fede. Signor Jacob, qual è la situazione attuale della comunità cristiana in Pakistan e quali sono le previsioni per le minoranze dopo le prossime elezioni legislative, previste per il 18 febbraio? Storicamente, la comunità cristiana del mio Paese è stata discriminata da leggi e politiche governative contrarie ai non musulmani. La Legge sulla blasfemia (che punisce con l’ergastolo o la pena di morte chi dissacra Maometto od i testi sacri dell’Islam ndr) e le Ordinanze Hudood di ispirazione coranica ne sono un esempio lampante. Tuttavia, il nostro desiderio di integrazione e la nostra lotta verso un pari trattamento giuridico non si sono mai fermati. Per questi desideri, abbiamo pagato prezzi pesanti: violenze,

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intimidazioni, arresti arbitrari contro i nostri attivisti sono all’ordine del giorno da almeno 25 anni. Ora però abbiamo la possibilità di cambiare qualcosa: per la prima volta, queste elezioni ci consentono di votare deputati cristiani, sia a livello provinciale che federale. Dal 18 febbraio saremo parte del sistema politico. La morte di Benazir Bhutto ha dato un colpo pesante alla vostra battaglia. L’arcivescovo di Lahore e presidente della Conferenza episcopale pakistana, monsignor Saldanha, ha definito l’omicidio della leader Popolare come «la fine di un grande segno di speranza». Ora, per chi voterete? Chi dovrebbe ricoprire il ruolo di primo ministro? Anche se l’attentato che ha ucciso Benazir Bhutto ha dato un duro colpo alle speranze di pace per il nostro Paese, è importante non cedere al sentimentalismo. Per le minoranze la leader del Partito Popolare rappresentava una speranza, ma è anche vero che fino ad ora non aveva dato segnali di voler cambiare la nostra situazione. Era molto amata e aveva un’educazione occidentale che la teneva lontana dall’estremismo islamico. Ora dobbiamo cambiare il nostro punto di vista: sono sempre di più i giovani pakistani che studiano all’estero per tornare in patria con una mentalità diversa, e la nostra economia si deve confrontare con quella americana ed europea. Anche se al momento non vi sono candidati di spicco per il seggio di premier, mi dà fiducia pensare che vi siano elettori che un domani potranno essere ottimi primi ministri. Ma al momento attuale come pensate di poter continuare il vostro cammino

libri e riviste

un’America che soffre quella che emerge dai sondaggi durante la più seguita campagna presidenziale, almeno in Italia. Una classe media sofferente che vede il proprio reddito eroso costantemente e stati ricchi, come il New Hampshire, con l’81 per cento dei votanti con una cultura universitaria e con gli indicatori di disoccupazione e povertà più bassi d’America, dove sono tutti “preoccupatissimi” per l’andamento negativo dell’economia. I cento dollari al barile per il greggio e il disastro dei subprime preoccupano, ma si è incominciato ad insinuare il dubbio che anche i meccanismi della globalizzazione non stiano avvantaggiando la Big Country. Proprio nel NH John McCain è riuscito a prevalere nei confronti di un Mitt Romney poco credibile come leader populista. Immigrazione percepita come aggressiva, fra vantaggi e svantaggi i meccanismi del melting pot sembrano incominciare a creare preoccupazione, nonostante gli esperti considerino la globalizzazione il boccone migliore per l’America. Un sondaggio Pew sottolinea i timori per una sempre maggiore ineguaglianza nella distribuzione dei redditi, insieme col netto declino dei posti di lavoro nel settore high tech. Così in campo democratico Hillary Clinton difende il proprio elettorato più spaventato dalle nuove dinamiche rispetto a quello di Barack Obama più giovane e formato dalla cosiddetta creative class che ha prosperato nella globalizzazione. Fred Siegel - The Globalization Election - City Journal - Winter 2008

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verso una società più liberale, meno repressiva? Andremo avanti come abbiamo fatto fino ad ora: dialogando con chi ci ritiene stranieri soltanto per il nostro credo, come i fondamentalisti islamici e gli ultra-nazionalisti, ed agendo sul piano legale grazie all’operato di organizzazioni non governative, che aiutano coloro che soffrono rimanendo indipendenti dalle pressioni del governo. Grazie a questi gruppi, negli ultimi cinque anni siamo riusciti a portare all’attenzione del mondo la situazione dei diritti umani, della libertà religiosa e delle discriminazioni subite da tanti pakistani. Quale che sia il prossimo esecutivo, continueremo in questa battaglia per garantire che sempre meno persone soffrano ingiustamente. A questo proposito, quale pensa che sarà il risultato elettorale? Al di là dei singoli eletti, che sono veramente impossibili da prevedere, possiamo parlare di scenari: nel miglior scenario possibile, dopo tre rinvii, le elezioni si terranno come stabilito in maniera tranquilla e pacifica. Da queste urne usciranno moltissimi deputati del Partito Popolare ed un buon numero di legislatori della Lega Musulmana N guidata da Nawaz Sharif. Noi, come gli indù, sosterremo in tutti i modi i nostri singoli candidati, che sono stati scelti in base alla loro preparazione economica e giuridica, e faremo di tutto per farli arrivare sui seggi della Camera federale. Sempre nel miglior caso possibile, assisteremo ad un passaggio di poteri senza scossoni, che finalmente segnerà la fine delle Ordinanze speciali promulgate dal presidente Musharraf. Va tuttavia sottolineato che nulla di tutto que-

n classico sulla Shoa, passato attraverso diverse edizioni riviste, ci immerge nel mare dei sentimenti umani, risentimento e perdono, passione e resurrezione dell’uomo. Attraverso alcuni passaggi che aprono alla comprensione del male. Nel 1942 a Leopoli in Ucraina l’autore è un giovane prigioniero in un lager che lavora presso un ospedale.Un giovane SS in punto di morte chiede di poter parlare con un ebreo, per confessare un delitto atroce «io non sono un assassino, mi ci hanno fatto diventare». Il caso vuole che sia chiamato Simon Wiesenthal a raccogliere la richiesta di perdono del nazista, che rifiuta, troppo l’orrore di cui è stato testimone. Questo rifiuto sarà un compagno di strada, fra rimorsi e turbamenti, della vita del più famoso cacciatore di nazisti. Belle pagine di un libro a tinte forti dove «il confine fra luce ed ombra è scivolato» verso il grigio indistinto. A dimostrazione che la scelta per il bene non è mai definitiva ma una lotta quotidiana. Simon Wiesenthal - Il Girasole Garzanti - 225 pagine - euro 9.50

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sto avrà un senso se non verrà garantita l’indipendenza del potere giudiziario, decapitata dall’allontanamento del presidente della Corte Suprema. Nel peggior scenario possibile, le elezioni saranno segnate da violenze e brogli: in questo caso, sarà fondamentale richiedere l’intervento della comunità internazionale. Per quanto riguarda invece il dialogo islamo-cristiano nel Paese, al 98 percento composto da musulmani, la situazione presenta dei cambiamenti rispetto alle stragi dello scorso anno contro i cristiani di Sangla Hill, attaccati nella notte per ordine dei mullah locali? Io credo che la Lettera di Benedetto XVI abbia dato un impulso molto positivo al dialogo fra islam e cristianesimo a livello globale, ma va rilevato che questo dialogo rischia di essere ridotto ad una schermaglia teologica da parte di quegli studiosi musulmani che non ritengono necessario parlare di diritti umani o democrazia, ma soltanto della natura di Allah. Per quanto riguarda noi pakistani, da sempre pratichiamo il dialogo “porta a porta”, cercando di garantirci sicurezza dove sia possibile e denunciando le situazioni in cui questa diviene un semplice miraggio. Eppure non è facile, ed ogni giorno affrontiamo il rischio di vedere dei ghetti cristiani, delle aree pacifiche dove ci venga “consentito” vivere. Dobbiamo evitare a tutti i costi questa soluzione: al mondo chiedo preghiere per i cristiani pakistani, ed al Papa chiedo di continuare sulla strada di Regensburg, mettendo in chiaro che il rapporto fra cristiani e musulmani non deve divenire uno scontro ma semplicemente una serena e reciproca affermazione di identità.

l’addio ad una g e n e ra z i o n e , quella dei sessantottini innamorati della rivoluzione, raccontata da un grande giornalista, oggi vicedirettore del Tg5 e conduttore del settimanale Terra. Toni Capuozzo ripercorre le tappe di una carriera costruita tra il fogliame della giungla centroamericana, a cavallo di El Salvador, il Nicaragua dei sandinisti e la Bolivia. Aneddoti ed esperienze vissute da chi ci credeva e, una volta superata la linea d’ombra conradiana, ha deciso di scrivere «un libro che in fondo è sull’illusione, che come un prestigiatore la vita ti agita davanti, e poi fa scomparire». Toni Capuozzo - Adios Mondadori - 181 pagine - euro 16,50

È

a cura di Pierre Chiartano


poteri

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Sangalli cerca alleanze con Veltroni per dimenticare l’era Visco. E il sindaco di Roma promette: «Non più differenze con gli altri lavoratori»

Le partite Iva temono di pagare gli aiuti ai salari di Francesco Pacifico più facile per Carlo Sangalli, quando la controparte è Walter Veltroni e non Vincenzo Visco, far passare un concetto semplice semplice come «giù le tasse, ora o mai più, per reagire a prospettive di crescita debolissima nel 2008». Per la cronaca vicine o di poco superiori all’1 per cento. È più facile per un’esponente del centrosinistra conquistare la platea di Confcommercio, se, come ha fatto ieri lo stesso Veltroni, si scandisce: «Non pagare tutti e pagare meno, ma pagare meno e pagare tutti. Sembra un’ovvietà ma non lo è: dobbiamo fare uno Stato che sia amico della crescita, che non distingue lavoratori dipendenti da lavoratori autonomi».

unirsi al coro dopo che Bankitalia ha certificato guadagni dal 2000 in poi pari a un +13 per cento, mentre le famiglie sono su lastrico. Gli autonomi, in questa partita, si fanno forti soprattutto di quanto prevede il protocollo firmato a fine 2006 con Pier Luigi Bersani eVincenzoVisco: ogni soldo di extragettito guadagnato in più dopo la rimodulazione degli studi di settore sarà restituito alle categorie. E già girano stime vicine ai 5 miliardi di tasse in più pagate da commercianti o artigiani. «Eppure», nota Giorgio Guerrini, «quando si discute di potere dei salari, ci si dimentica di noi. Non veniamo neppure convocati ai tavoli a Palazzo Chigi, e poco importa che il ministro Damiano aveva promesso di farlo dopo aver sentito i sindacati. C’è il rischio che ci si muova con i nostri soldi». Aggiunge Marco Venturi, leader della Confesercenti: «Se si dovessero fare passi indietro, sarebbe buttare benzina sul fuoco».

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Ieri mattina a Roma, nella sede liberty di piazza Gioacchino Belli, Carlo Sangalli e Walter Veltroni hanno cinguettato all’unisono, gli imprenditori intervenuti se ne sono andati entusiasti e rasserenati. Sembrava quasi che la maggiore organizzazione della galassia degli autonomi adottasse il futuro candidato premier del centrosinistra. Ma sarebbe sbagliato pensare a un cambiamento di fronte di un mondo, quello dei commercianti, da sempre vicino al centrodestra, così come a uno stravolgimento di fronte di Carlin Sangalli, rapporti trasversali ma una solidissima amicizia con Silvio Berlusconi. Si è voluto ricreare un rapporto uscito malconcio dopo quasi due anni di governo Prodi, anche quando a portare avanti le istanze della categoria erano quelle sigle, la Cna di Ivan Malavasi o la Confesercenti di Marco Venturi, non certo ostili al centrosinistra. Così anche i plausi a Veltroni rientrano in una battaglia più impegnativa di dare una

dati che caratterizzano l’economia italiana non lasciano dubbi: il peso crescente del prelievo fiscale si accompagna a una composizione della spesa pubblica di stampo inflazionistico. Una miscela esplosiva, in grado di bloccare la crescita economica dell’anno in corso e attestare la previsione del Pil nazionale tra lo +0,6 per cento (stimato dal centro studi Economia reale) e il +1,3 (previsto dall’Ocse).Tendenza preoccupante se confrontata con le stime di crescita dell’area euro, superiori a quella italiana di 0,6-1,3 punti. Il trionfalismo manifestato dal governo uscente è dunque inappropriato perché, nonostante l’interessato avallo dell’Istat e delle Entrate, la flessione della produzione complessiva, e la crisi strutturale del modello produttivo, mettono in luce due dati non trascurabili: da

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Le categorie sospettano che per rimpinguare gli stipendi il governo prenda risorse dal loro extragettito o decida una nuova stretta sugli studi di settore. E chiedono di vedersi restituire almeno 5 miliardi di euro, come promesso da Bersani un anno fa bandierina sul futuro inquilino di Palazzo Chigi: evitare che i 3 milioni e mezzo di autonomi siano esclusi dai prossimi tagli delle tasse e che, scenario peggiore in questo quadro, si recuperino dalle loro dichiarazioni i soldi necessari per rimpinguare i salari (spesa prevista intorno ai 7 miliardi di euro) o per pagare il prossimo rinnovo dei contratti degli statali (ne ser-

vono almeno due, eccessivi però per la Ragioneria). Certo, le ipotesi di elezioni anticipate si rafforzano sempre di più, ma se così non fosse il nuovo governo convocherebbe subito i sindacati per discutere di detrazioni, Confindustria ricorderebbe la necessità di un nuovo taglio al cuneo fiscale e gli autonomi farebbero fatica a

Il timore principale, quindi, è che non si restituisca alla categoria quanto promesso. Ma non mancano altri spettri. Intanto che si ritorni a un modello degli studi di settore dove chi non si adegua, rischi di fatto l’accertamento automatico. «Al riguardo, dice Claudio Carpentieri della Cna, «bisognerebbe rafforzare la parte dell’accertamento, quando l’agenzia delle entrate convoca un imprenditore». Di conseguenza si lavora con le Finanze per un attenuamento della valenza probatoria gli indicatori per evitare un nuovo salasso. Una partita fondamentale questa perché portare l’esenzione Irap a 15mila euro vale quanto una maggiore concertazione per i nuovi indicatori.

In assenza di interventi strutturali la pressione fiscale toccherà il 44 per cento

Meno tasse in difesa del ceto medio di Alberto Cavicchi un lato, la perdita di competitività dell’Italia nei confronti dei Paesi più industrializzati degli emergenti del Sudest asiatico (Cina e India); dall’altro la caduta del potere d’acquisto delle famiglie italiane, soprattutto di quelle a salario fisso, le quali, come ha confermato Bankitalia, nell’ultimo decennio hanno visto il loro reddito disponibile pro-capite (al netto dell’inflazione) crescere in modo irrilevante. Dunque, nonostante gli annunci roboanti del governo, il quadro economico italiano è desolantemente triste e non si vede come possa migliorare se non si procederà tempestivamente

a una seria riforma fiscale, che permetta di diminuire le tasse. Fiscalità che in assenza di interventi strutturali toccherà quest’anno il tetto del 44 per cento, livello superiore di due punti e mezzo al dato raggiunto dalla gestione Tremonti. È quindi necessario avviare in tempi strettissimi una politica fiscale capace di evitare il rischio di stagflazione, indirizzata alla riduzione delle imposte dirette e all’armonizzazione di quelle indirette; provvedimenti capaci di favorire tanto la crescita degli investimenti produttivi quanto quella dei consumi. Dunque, al fine di evitare la stagnazione produt-

tiva e la contemporanea crescita tendenziale dell’inflazione, è necessario accrescere l’efficienza produttiva, riducendo i costi energetici (nucleare), migliorando la logistica (sistema infrastrutturale e dei servizi di collegamento e comunicazione) e portando a compimento la riforma sulla flessibilità del mercato del lavoro. Va da sé che per consolidare uno sviluppo duraturo è necessario ridurre il prelievo, tagliando di conseguenza la spesa pubblica di parte corrente. Qualora non fossero adottati tempestivi provvedimenti in grado d’invertire le tendenze in atto, registreremmo in tempi

brevi un’ulteriore caduta di competitività del nostro sistema produttivo e una crescita dell’inflazione che porterà alla destabilizzazione dei prezzi, alla redistribuzione casuale della ricchezza, all’impoverimento crescente delle famiglie a reddito fisso e allo scoraggiamento degli investimenti. Ammesso – ma non sempre concesso – che l’inflazione sia in sé un male, il suo contenimento non può essere sempre e comunque realizzato utilizzando la leva monetaria e, quindi, attraverso la stretta creditizia che, come abbiamo visto, è all’origine degli aumenti delle rate dei mutui ipotecari e del credito al consumo. Circostanze che hanno gravemente intaccato il risparmio, gli investimenti e i consumi delle famiglie come delle piccole e medie imprese. a_cavicchi@hotmail.com


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economia d i a r i o

d e l

g i o r n o

Autostrade-AutoAbertis, ora è finita Ultimo atto nella fusione mancata tra Autostrade e AutoAbertis. Ieri gli spagnoli hanno annunciato di voler uscire anticipatamente dal patto di sindacato di Schemaventotto, la società che detiene il controllo di Atlantia. A fine maggio ogni socio andrà a detenere direttamente la propria quota in Atlantia e la holding dei Benetton, Sintonia, possiederà complessivamente il 36 per cento, mentre Abertis deterrà il 6,6 per cento. Entrambe le parti continueranno a mantenere rapporti d’affari e studiare nuovi business.

Un nuovo tesoretto

La politica litiga sulle nomine, lui festeggia un quarto di secolo in Tirrenia

Pecorini, il boiardo dei mari di Alessandro D’Amato on capita a tutti di essere nominati ”Gentiluomo di Sua Santità”. Ma per Franco Pecorini, 66 anni, non si tratta dell’unica carica, visto che è anche Cavaliere del Lavoro e vicepresidente di Confcommercio. Eppure sulla poltrona dell’amministratore delegato della Tirrenia, campione assoluto per longevità nella categoria dei boiardi di Stato – guida l’azienda da quasi un quarto di secolo – non sembrano addensarsi particolari pericoli. Così, mentre quello che rimane del centrosinistra litiga se nominare o meno 600 nuovi amministratori pubblici, lui si rafforza. Questo nonostante i giornali lo abbiano eretto di recente a simbolo di quel “capitalismo di Stato” fonte di sprechi e inefficienze, ripianate poi generosamente dai contribuenti. E non senza ragione, perché la compagnia, controllata al 100 per cento da Fintecna (ex Iri), è uno dei carrozzoni pubblici più sgarrupati d’Italia, perde quasi 200 milioni di euro l’anno, generosamente ripianati dal Tesoro a ogni chiusura di bilancio: soltanto nel periodo 2000-2007 i trasferimenti sono stati di un miliardo e mezzo di euro.

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gli ha permesso anche di schivare l’ostilità di Alessandro Bianchi, il ministro dei Trasporti. Il quale a un certo punto aveva accarezzato l’idea di mandarlo a casa, ma poi ha dovuto desistere a causa delle proteste dei colleghi di governo. Perché chissà quanti ce n’erano, di ospiti illustri, il giorno in cui Pecorini, secondo la Filt Cgil, ha preso in prestito una nave di linea per caricarci ammiragli, politici e prelati in una gita di piacere. E poco importa che, stando alla notizia, sia stato utilizzato un traghetto che di solito era impiegato nella tratta Genova-Porto Torres, sostituito nell’occasione da un’imbarcazione più lenta e meno capiente,

aveva subito definito «illogica, non comprensibile e non condivisibile» la posizione del governo. Ma incassando anche la solidarietà del governatore della Sardegna Renato Soru, che da anni chiedeva di fare cessare la convenzione statale con la Tirrenia e poter così varare una legge sulla continuità marittima sulla falsariga di quella che già esiste per i voli aerei. E, soprattutto, era arrivato l’ok di Confitarma: «L’Italia registra un ritardo sul cabotaggio notevole, anche considerando coste e posizione geografica nel Mediterraneo. La presenza di Tirrenia ha fatto da tappo ed ha impedito lo sviluppo», dichiarava Nicola Coccia, il presidente, qualche tempo fa.

Il manager, nel mirino di sindacati e concorrenti, è saldo alla tolda di comando nonostante la compagnia perda 200 milioni all’anno. Si allontana la privatizzazione

Eppure, Pecorini è ancora lì, nominato da Prodi dopo una carriera nella controllata Finmare, accreditato di simpatie socialista e di vicinanza con l’allora premier Bettino Craxi, che come un albero maestro di una nave in tempesta ha resistito a diciassette governi, in virtù di una capacità di public relationship davvero invidiabile. E che oggi lo accredita di simpatia verso tutto l’arco parlamentare, dal Pd ad An passando per Forza Italia: una ragnatela di amicizie politiche che

causando anche mancati ricavi alla compagnia e molti disagi. Pecorini è un uomo dalle mille amicizie, che gli permettono di passare tra una goccia e l’altra nei giorni di pioggia, calmare tutte le acque in tempesta e schivare tutti i pericoli. Anche quello più grande di tutti: la privatizzazione di Tirrenia, che pur il nostro dice di non temere. «Il governo ha già individuato l’advisor, ed il nome della società che collaborerà con il Tesoro per la cessione della compagnia sarà reso noto nei prossimi giorni», aveva detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta a Ballarò all’inizio di gennaio. Scatenando subito la prevedibile reazione dei sindacati, con il segretario generale della Uiltrasporti Giuseppe Caronia che

E non c’erano solo gli

imprenditori, visto che la Ue da anni chiede liberalizzazione delle tratte e privatizzazione. Ma ci sono ancora molti altri problemi da superare oggi: per esempio la difficoltà nel mettere insieme una cordata di imprenditori italiani che riesca ad acquistare l’azienda, e le stesse regole Ue. Le quali non prevedono la liberalizzazione delle tratte sociali, ovvero quei collegamenti essenziali tra le aree del Paese che vengono mantenuti attivi perché considerati bene pubblico anche se in perdita. E per le compagnie private tenerle in piedi sarebbe impossibile, senza l’aiuto dello Stato. In più, anche i sindacati sembra si siano messi di traverso, chiedendo, come per le ferrovie, che gli standard minimi contrattuali della Tirrenia vengano garantiti anche per i privati. Tre ostacoli insormontabili. E il governo è caduto. Insomma, con tutta probabilità, Pecorini anche stavolta rimarrà in sella. Pardon, a bordo.

L’anno in corso si apre con buone notizie per l’erario. A gennaio, secondo le prime stime del Tesoro sulle cifre versate con il F24, le entrate sarebbero ammontate a 33,8 miliardi (+9,4 per cento rispetto al gennaio 2007) mentre le entrate tributarie hanno registrato un +7,4 per cento. Per via XX settembre questi numeri dimostrano la bontà «del costante recupero di base imponibile». Tradotto, la lotta al sommerso va avanti. Intanto il viceministro Vincenzo Visco ha annunciato ieri che si sono così recuperati «circa 20 miliardi di euro di maggiori entrate fiscali, grazie all’emersione spontanea». Intanto Casartigiani, Confagricoltura, Confartigianato, Confcommercio, Confcooperative, Confesercenti, Confindustria, Cna e Lega delle Cooperative esprimono assieme «forte preoccupazione per il quadro economico internazionale».

Italease verso la Germania Bancopopolare, primo azionista di Italease con il 30 per cento, non smentisce i rumors su una cessione della banca guidata da Massimo Mazzega alla DZ bank, ma conferma soltanto di aver affidato a Rothschild il ruolo di advisor per la «ricerca di possibili partner strategici, nazionali e internazionali, nell’ambito di un piu’ ampio mandato finalizzato a valutare, nell’interesse della banca, ogni possibile scenario evolutivo». Il mercato scommette sulla cessione ai tedeschi, tanto da aver premiato il titolo Italease con un balzo del 14,71 per cento a quota 6,784 euro per azione.

I grandi a Londra contro la crisi... I leader di Italia, Gran Bretagna, Germania e Francia, riuniti ieri durante il G7 di Londra per affrontare la crisi di liquidità in atto, si dicono fiduciosi nella capacità dell’Europa a resistere alle incertezze economiche e alle turbolenze finanziarie. Questo il messaggio inviato ai mercati da Romano Prodi, Angela Merkel, Gordon Brown e Nicolas Sarkozy, piu’ il presidente della commissione Ue José Manuel Barroso. I quali hanno chiesto alle agenzie di rating di informare meglio gli investitori sui rischi inerenti ai prodotti finanziari strutturati. «I fondamentali dell’economia sono buoni. Il nostro obiettivo è quello di far finire queste volatilita», ha fatto sapere il premier italiano.

...Ma spaccono la Ue Scontro in seno all’Unione europea sulle strategie per affrontare la crisi finanziaria di questi giorni dopo il G8 di Londra. Il ministro delle Finanze sloveno e presidente di turno dell’ Consiglio Affari economici e finanziari Ue, Andrej Bajuk, ha richiamato Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia. «Le decisioni per assicurare la stabilità finanziaria», ha detto per ricordare la linea comune, vanno prese nel quadro delle istituzioni europee. L’Ecofin è il luogo designato». Sullo stesso argomento o stesso premier lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker, aveva fatto sapere che i 4 grandi leader avrebbero potuto fare delle proposte ma non prendere decisioni in materia di mercati finanziari».

Piazza Affari in positivo Seconda giornata positiva in 48 ore per Piazza Affari, che ha approfittato anche delle ipotesi di tagli ai tassi da parte della Fed. Al termine delle contrattazioni il Mibtel ha guadagnato l’1,36 per cento. Migliore bluechip Tenaris (+6,6 per cento a 14,1 euro) a un giorno dalla cessione di asset della controllata Hydril per 1,11 miliardi di dollari a GE. Salgono anche (+4,6 per cento a 25,02 euro) e Impregilo (+4 a 3,69 euro). Cosi’ come Fiat (+3 a 16 euro) e Alitalia (+1,9% a 0,67 euro).

Immigrati allo sportello Sette immigrati su dieci sono clienti di una banca. Sono in totale quasi un milione e mezzo, numero questo che segna un balzo esponenziale rispetto a soltanto due anni fa: erano infatti un milione. Lo ha annunciato il direttore generale dell’Abi, Giuseppe Zadra, aprendo il Forum sulla Responsabilità sociale d’impresa. «Le banche italiane», ha spiegato, «si sono attivate per rispondere subito alla domanda dei migranti». In Italia gli stranieri sono, stando alle ultime stime di dicembre 2006, 2.119.188.


local

30 gennaio 2008 • pagina 19

Il caso del sequestro dell’Ipercoop di Forlì

Metafora di un abuso di sinistra di Rodolfo Ridolfi Iper di Forlì, che Coopsette, Alla domanda su cosa sia tutta questa mega coop di costruzioni del- insistenza sui legami coop e Pci-Pdsla Legacoop di Reggio Emilia, Ds-Pd, i dirigenti delle cooperative ristava costruendo per il Conad spondono dicendo che loro fanno fat(Legacoop) è stato interamente posto turato, loro sono il mondo del lavoro e sequestro dalla magistratura. La vicen- garantiscono le imprese ed i consumada è semplice. Conad, attraverso la sua tori. Oggi la pubblicità della coop, società immobiliare Punta di Ferro, quella dei supermercati, ci dice anche nell’ottobre del 2004 ottiene dalla con- che i sei milioni di soci approvano i ferenza di servizi Regione Emilia-Ro- prodotti in vendita. Forse hanno ragiomagna, Provincia e Comune di Forlì ne. Ma non si può dimenticare che la l’autorizzazione commerciale e la con- legge è uguale per tutti, se un cittadino cessione edilizia per la costruzione di qualunque si fa un garage abusivo un Iperconad a Pieve Acquedotto. Si glielo sequestrano e glielo fanno abpossono costruire 14.000 metri quadra- battere. Sarà un segno del cambiamenti. La prassi è normale, lo sanno tutti i to possibile, ma con la caduta del goconsiglieri di tutti i Comuni dell’Emi- verno Prodi un altro colpo si è abbattulia-Romagna. I quali però sanno pure to sulla superiorità etica che la sinistra che a una prima richiesta di una me- rivendica. tratura inferiore ne segue un’altra, a È stata ed è ancora fortissima l’osmosi breve, per una metrafra cooperative rosse tura superiore, spese giunte rosse; è sufficiente avere un modeso il 40 per cento in Come un inatteso stissimo titolo di stupiù. Anche a Forlì è dio, e naturalmente la andata così: dopo i intervento tessera del partito o le primi 14.000 metri conoscenze necessaquadrati si è richiesto della magistratura rie per entrare in una di costruirne 7.500 in cooperativa di consupiù, fino ad arrivare a (per la costruzione mo o di lavoro. Il Pci21.500. Un gioco da Pds-Ds-Pd ha avuto ragazzi tanto, qui, di 7.500 metri quadrati un ruolo decisivo nel quasi tutte le amminiin più) ha messo in mora mantenere quei tratstrazioni comunali sotamenti fiscali privileno di sinistra e le coop la rivendicazione di una giati con cui le impresono di sinistra. Chi si cooperative (ormai intende di scommesse superiorità morale della se in gran parte più capisa che è quasi una scommessa alla pari, sinistra in uno dei territori talistiche assistite e favorite che mutualiun giochetto semplistiche) fanno concorce. Si fanno votare le egemonizzati renza alle imprese varianti al piano regodal leninismo debole private agricole, di latore ai compagni in costruzione, della diconsiglio comunale e e ha riproposto stribuzione e dei servia. A Faenza, ad esempio, il giochino è vizi, non solo in Italia. la questione del rapporto Addirittura la Corte riuscito pulito. A Forlì invece ci si sodi Cassazione ha ritetra coop e politica no messi di mezzo olnuto necessario intertre alle forze di minopellare la Commissioranza, che, però orne europea in merito mai da un decennio si fa finta che non al regime fiscale delle coop. esistano e non si ascoltano mai, i Ver- L’Italia è un Paese sottocapitalizzato, di. E la procura ha fatto scattare i prov- cioè mancano investimenti, e il govervedimenti di sequestro. Vani risultano i no Prodi anziché ridurre il deficit e pritentativi di salvare il salvabile, vedi vilegiare la spesa produttiva (investil’ordinanza di abbattimento non ese- menti) ha preferito premiare la spesa guibile perché in quell’area sono stati pubblica e fare doni alle coop. Dopo i apposti i sigilli e nessuno vi può entra- doni del 2007 non mancheranno i doni re, un tentativo ridicolo per salvare la con la Finanziaria 2008. faccia dopo il mancato controllo. La vicenda dell’Iperconad di Forlì è un

L’

altro pezzo del puzzle del conflitto di interessi delle coop, con le scelte di poteri locali per avvantaggiare le coop e soltanto le coop. Dov’è in questa vicenda la presunta superiorità morale delle sinistre? Nuove regole sono state proposte, ad esempio da Renato Brunetta. Regole che prevedono un’iniziativa europea, che vada al di là della Sce (Società cooperativa europea), un allontanamento del partito-padrone dalla governance delle coop, una parità di accesso delle società, senza canali preferenziali con le società politicamente “alleate”. In sintesi: fuori la politica dalla gestione dell’economia della cooperazione. Da questo punto in avanti si può discutere di riforme del sistema socioeconomico, della governace e del management delle coop rosse. Senza queste priorità, è aria fritta. Del resto ci sono altre valutazioni, come quelle di Giulio Sapelli, professore di storia economica all’Università degli studi di Milano. Il quale ha scritto che “la cooperazione come impresa ha [...] bisogno di mercato, e il mercato dispiegato ha bisogno di cooperazione, perché in esso continuino ad affermarsi la solidarietà e la giustizia sociale, l’efficienza con l’efficacia del dono e della morale che fondano l’integrità. Se questo si vuol far inverare, le classi politiche debbono compiere un passo indietro. Si occupino di un contesto legislativo che favorisca l’autoregolazione della governance dell’impresa tout court e quindi anche della cooperazione, promuovendo in tal modo la crescita di organizzazioni economiche trasparenti e moralmente responsabili. E nulla più facciano. Nella loro circolazio-

ne non provochino attriti e non cerchino favori, e neppure ne concedano, ma diffondano, invece, ideali e progetti. Il mondo della cooperazione non potrà che trarne beneficio e la circolazione delle élite politiche non potrà che vedere arricchita la società in cui il suo percorso si dipana». Le élites politiche in questione sono le creatrici di un «socialismo del capitale», pallida copia delle immaginazioni sociali ed economiche di Rathenau; queste élites hanno un nome e un cognome: i post comunisti italiani. E hanno anche una mission che si dipana nei territori più egemonizzati dal «leninismo debole» di cui ha parlato Baget Bozzo. Du nq u e , il c onf l itt o di interessi, se c’è e quando davvero c’è, va osservato secondo la logica unitaria dell’oggettività, non secondo il solito strabismo ideologico dei due pesi e delle due misure: a Palazzo Chigi, con Berlusconi sì, e con le coop rosse no. Il capitalismo è «opaco» anche quando ha un «socio occulto», un partito politico che, entrando nella governance di fatto della cooperazione, crea una rendita di posizione difficilmente smantellabile. Questione duramente politica, come si può facilmente constatare. Se la sinistra parla oggi di moblità sociale e di mercato del lavoro che arranca e non crea dinamismo e autentica flessibilità, dovrebbe prima guardare in casa propria, nel mondo più anchilosato e bloccato che si possa immaginare, quel mondo della cooperazione che dovrebbe essere il volano della Welfare community e invece è, oggi, oggetto di indagini da parte della magistratura, fino all’ultimo scandalo dell’Iper di Forlì.


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cultura

Assoluzione postuma per van der Lubbe, il giovane condannato a morte nel 1933

Ultima sentenza per il rogo del Reichstag di Alberto Indelicato a notte tra il 26 e il 27 febbraio del 1933 il cielo di Berlino fa improvvisamente illuminato dalle fiamme che si innalzavano dal palazzo del Reichstag, la Camera dei deputati. Qualcuno aveva appiccato il fuoco a pochi giorni dalle elezioni, che si sarebbero tenute per la prima e ultima volta in una Germania ormai sotto il governo nazionalsocialista. La polizia subito intervenuta insieme ai vigili del fuoco arrestò nei corridoi del palazzo un ventiquattrenne olandese, Marinus van der Lubbe, che immediatamente dichiarò di essere l’autore dell’incendio e di aver agito da solo. Aveva compiuto il suo gesto dimostrativo – disse - per esortare la classe lavoratrice tedesca ad insorgere contro il regime anti-operaio che si stava istaurando. L’episodio è tornato d’attualità perché nei giorni scorsi la corte suprema di Karlsruhe ha pronunciato la quinta sentenza sul suo caso, assolvendo pienamente van der Lubbe dai reati d’incendio doloso e d’alto tradimento, per i quali era stato condannato a morte nel primo processo, svoltosi a Lipsia e concluso il 23 dicembre del 1933. La sentenza era stata eseguita pochi giorni dopo mediante decapitazione. Il tribunale di Lipsia aveva mandato assolti altri quattro imputati: il capo del gruppo parlamentare comunista Ernst Torgler e tre comunisti bulgari. Uno di questi ultimi era Georgi Dimitrov, che sarebbe diventato in seguito segretario generale del comitato esecutivo del Comintern e dopo la guerra dittatore e primo ministro di Bulgaria. Al momento dell’arresto, però, nessuno a Berlino sapeva quale importanza egli rivestisse nell’ambito del comunismo internazionale perché egli era entrato in Germania sotto falso nome. Fu comunque la sua presenza nell’aula di Lipsia che fece del processo una “cause célèbre” sia per il suo comportamento durante il dibattimento, sia per le ripercussioni in parte spontanee, in parte stimolate da una regia abilissima, che quel processo ebbe nell’opinione pubblica internazionale. Il regime nazionalsocialista ed in particolare il suo massimo propagandista Joseph Goebbels tentarono di sfruttare il caso per dimostrare che l’incendio era stato sol-

L

Il Reichstag in fiamme la mattina del 27 febbraio del 1933. In alto a destra, Marinus van der Lubbe il giovane accusato dell’attentato e condannato a morte

tanto l’atto iniziale di un piano comunista per rovesciare il governo ed impadronirsi del potere. Il massimo propagandista del Comintern Willi Münzerberg, anch’egli tedesco, preparò e realizzò forse con maggiore maestria e certamente con maggior successo nell’opinione pubblica internazionale la controffensiva, per dimostrare o almeno far passare l’idea che l’incendio era stato organizzato e messo in opera proprio dai nazionalsocialisti. A questo scopo riuscì a creare un “tribunale indipendente” con sede a Londra, le cui conclusioni e la cui sentenza erano scontate in partenza. La tesi che vi si affermò riprendeva infatti pienamente la linea difensiva – o piuttosto offensiva - di Dimitrov: il colpevole, secondo lui ed il “tribunale” londinese, era stato certamente il giovane van der Lubbe, abilmente manovrato però dai servizi polizieschi hitleriani. La motivazione della pretesa iniziativa nazionalsocialista era indicata dal “tribunale” di Londra nel classico “cui prodest”. Gli autori dell’incendio potevano essere soltanto coloro che ne avevano approfittato per scatenare la caccia agli oppositori, comunisti compresi,

Dopo 75 anni

la Corte suprema di Karlsruhe

ha riscritto la storia

dell’atto grazie al quale Hitler completò la svolta totalitaria e sul quale si consumò uno spettacolare duello propagandistico tra comunisti e nazisti

ed una durissima repressione con migliaia di arresti e apertura dei primi Lager. L’aspetto più paradossale della questione consistette nel fatto che i giudici di Lipsia condannarono come si è detto - van der Lubbe, ma assolsero invece gli altri imputati tra cui Dimitrov, che poté tranquillamente ritornare nell’Unione Sovietica. I suoi partigiani sostennero che la sua assoluzione era stata la conseguenza della mobilitazione internazionale e della sua efficace autodifesa (non aveva voluto avvocati difensori). In particolare fu esaltato un suo duello verbale con Goering. Al processo assistevano infatti rappresentanti della stampa di numerosi paesi, specie europei. Nel duello propagandistico tra comunisti e nazionalsocialisti, la figura e la sorte di van der Lubbe era passata in secondo piano fin quasi a scomparire. Durante il processo Dimitrov per puntellare la sua difesa aveva dato il “la” sostenendo che quel giovane era un ”sottoproletario” (massima offesa per un comunista), un idiota, anzi un pazzo, capace soltanto di farsi manovrare dai nazionalsocialisti per nuocere alla classe operaia, ed

aveva negato che fosse comunista precisando che era un anarchico (altra imperdonabile colpa). Altri insinuarono che egli avesse agito soltanto per megalomania, quasi come un moderno Erostrato. Nessuno ebbe una parola di comprensione per lui e tutti concordarono sulla sua pretesa follia o stupidità. Sembra, al contrario, che la sua intelligenza fosse al di sopra della media. Certo si trattava di un fanatico, che s’illudeva di suscitare una reazione popolare con un gesto clamoroso e con la repressione che ne sarebbe seguita, un’illusione certamente di tradizione anarchica, che sarebbe stata peraltro ripresa in più di una occasione e con conseguenze tragiche per degli innocenti, anche dai comunisti. Nel 1967 un suo fratello, Jan van der Lubbe, ottenne che si facesse un nuovo processo davanti al tribunale di Berlino, che riformò la prima sentenza condannando Marinus a otto anni di detenzione soltanto per aver provocato l’incendio. Il procuratore e lo stesso Jan interposero appello. Un terzo processo, nel 1980, si concluse con l’assoluzione, ma anche questa fu annullata dalla corte di cassazione che in una quarta pronuncia confermò la condanna del 1967. La decisione del gennaio scorso ha messo un punto finale alla questione decretando la definitiva assoluzione di Marinus van der Lubbe: egli non era stato colpevole dell’incendio del Reichstag. Certo l’insistenza con cui la sua famiglia si è battuta per tre quarti di secolo contro la sua condanna è lodevole e addirittura commovente. La conclusione della sua vicenda giudiziaria lascia però l’impressione che ancora una volta egli sia stato cancellato dalla storia a cui avrebbe voluto partecipare e che il suo gesto, per quanto velleitario e controproducente, e la stessa sua orgogliosa confessione nei corridoi del Reichstag ripetuta a Lipsia davanti ai giudici, siano stati annullati prima dai comunisti che l’avevano abbandonato per salvare uno dei loro dirigenti e poi dall’affetto familiare e da magistrati “revisionisti”a qualsiasi costo. Questa assoluzione, svuotando la sua vita da quel momento per lui essenziale, molto probabilmente non gli sarebbe piaciuta.


cultura

30 gennaio 2008 • pagina 21

In uscita per Garzanti un saggio del filosofo Luc Ferry, ministro dell’Educazione con Chirac

Un amore di famiglia di Pier Mario Fasanotti l ritornello si fa un po’ ossessionante: ah, come era meglio la vita tempo fa; ah, oggi non ci sono più valori; ah, le famiglie sono allo sfascio! Una sorta di autoflagellazione collettiva, e depressiva, da cui non è immune nessun paese occidentale, a parte l’italica tendenza alla lagna endemica. È vero che la nostra società è pervasa dal senso della paura, a tal punto che anche minimi cambiamenti producono diffidenza. Un esempio per tutti: in Francia sono scesi in piazza i giovanissimi manifestando preoccupazione per le loro future pensioni. Questo va ascritto al timore di «navigare in mare aperto», dimenticando che quei regimi politici in apparenza più garantisti (col vessillo del socialismo) alla fine opprimevano l’individuo fornendogli pochissime speranze di miglioramento, sia individuale che sociale.

I

L’editore Garzanti sta per pubblicare un brillante saggio di Luc Ferry, filosofo e già ministro dell’Educazione con il presidente Chirac. È intitolato Famiglie, vi amo! (123 pagine, 12 euro), e capovolge così la frase ad effetto esistenzialista di Gide: «Famiglie, vi odio!». Ferry ribalta infatti la pigra e dolente credenza secondo cui la famiglia è smembrata e si va sempre più

rapidamente al crollo delle istituzioni pubbliche. Il ritornello è sbagliato, sostiene Ferry, perché basta non dimenticare la memoria storica e concludere che oggi, sia pure tra uno scossone e l’altro, si sono realizzate quelle utopie ottocentesche che due secoli fa parevano voli fantastici di intellettuali bizzarri e in odore di messianesimo.

Rileggiamo I miserabili di Victor Hugo. Né il romanziere né gli utopisti alla Saint Simon avrebbero immaginato che la società di fine Novecento e di inizio Duemila avesse la centesima parte di quel che loro stessi si auguravano. Monsieur Hugo

da dove viene la vocazione all’autoflagellazione? In primo luogo, sostiene Ferry, da un processo di “decostruzione”: fine delle ideologie, snervamento degli ideali collettivi, parcellizzazione dei problemi, timori verso la globalizzazione. Ma è anche radicalmente cambiato il rapporto tra le vecchie trascendenze- Dio, Patria e Famiglia- e l’individuo. Se un tempo questi idoli- per dirla con Nietzscheerano in alto, aggrappati a una concezione di una società gerarchizzata e impersonale, oggi le trascendenze da verticali sono diventate orizzontali. Se un tempo si sacrificavano famiglie e figli in nome dell’interesse

(ossessione sessantottina, peraltro), ma la politica al servizio della famiglia: ecco la rivoluzione copernicana. Proviene dalla nuova famiglia l’elemento propulsore per una migliore politica.

Ci sono state delle importanti «fratture». L’amore, per esempio. È pur vero che se negli anni Venti o Trenta si divorziava meno di oggi, non è detto che la famiglia borghese della prima metà del XX secolo fosse più felice o unita, aldilà delle «decorose apparenze». Basta rileggere un racconto di Maupassant e ci si accorge del “salto”. In quelle pagine c’è il dialogo tra

Viene ribaltata la credenza che ci siano dei nuclei familiari smembrati, anzi le unioni di oggi sono più consapevoli di quelle del passato, che spesso erano caratterizzate da convenienze monetarie e sociali salterebbe sulla sedia se gli dicessimo che oggi l’insegnamento e l’assistenza sanitaria sono gratuiti, accessibili anche ai più poveri e agli stranieri, che nessuno viene più mandato in esilio per aver criticato il governo, che non si lavora più 70/80 ore la settimana, che ci sono tutti i mezzi per informarci e divertirci. Si metterebbe a ridere l’autore dei Miserabili e ci prenderebbe per pazzi. Invece è così. Ma, allora,

nazionale, oggi sono le istituzioni che si mettono a disposizione dell’individuo. Assistiamo appunto a un rovesciamento: in un certo senso siamo “obbligati” a essere liberi, quindi siamo più autodeterminati, finalmente più lontani da quelle pericolose astrazioni scientifiche e filosofiche, giuridiche che non valorizzavano la persona. Basta con le famiglie al servizio della politica

una ragazza e sua nonna. Quest’ultima sostiene con veemenza che l’amore-passione, alla Abelardo ed Eloisa, è sempre fuori dal matrimonio. Oggi invece vince l’amore consapevole, frutto di una scelta privata, non pilotata da convenienze monetarie o sociali. La seconda frattura è l’intimità, cosa che non esisteva un tempo, né nelle classi popolari né tra le fila dell’aristocrazia. Se uno ri-

flette sull’architettura, si accorge che bisogna aspettare il XVIII secolo per vedere pareti divisorie in grado di assicurare spazi di privacy. La terza frattura è nell’amore genitoriale. Certo, questo era esaltato romanticamente da millenni, ma nella quotidianità non risultava prioritario. Montaigne, per esempio, confessava di non ricordarsi l’esatto numero dei figli che erano morti mentre erano a balia. Rousseau, l’alfiere filosofico dell’educazione, abbandonò cinque figli in un batter d’occhio. Una volta i bambini, in quanto esseri umani “in nuce”, erano poco considerati. Tutti insistevano sui doveri dei figli verso i padri, mai il contrario. La tanto screditata famiglia moderna, sostiene Ferry, è diventata «il più potente vettore di umanesimo». Quanto poi alla religione, continua l’autore, finalmente «le nostre società laiche hanno rimesso Dio al suo posto, che diventa quindi l’oggetto di una fede privata». Si ha «l’umanizzazione del divino», col risultato che il nucleo autentico del cristianesimo continua ad alimentare molti valori democratici, a cominciare da quello dell’eguale dignità degli uomini. Certi valori insomma hanno abbandonato il cielo dell’astrazione e si sono collocati al centro dell’umanità.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog Shoah, serve un giorno della memoria che spieghi davvero

LA DOMANDA DEL GIORNO

Aborto, è giusto cambiare la legge 194? La 194 non si cambia, ma bisogna applicarla tutta Partiamo da un presupposto: l’aborto è un omicidio. Non c’è nulla da fare, non ci si può girare intorno. E’ così e basta. Ma la battaglia contro l’aborto deve uscire dal ”no” senza se e senza ma. Bisogna uscire dall’immobilismo (tra l’altro giustificato) della Chiesa. La politica però può e deve uscire dagli schemi vaticani e quindi dare risposte più complesse, come tra l’altro si aspettano i cittadini. La prima volta degli adolescenti avviene sempre prima. Il rapporto con il sesso è mercificato e distrutto dai modelli televisivi. Proprio per questo bisogna avere il coraggio di dire che la 194 non si tocca. Ma che anzi va messa in atto tutta. Quando diciamo questo significa che bisogna prima di tutto partire dalla prevenzione. Preservativi nelle scuole. Pillola del giorno dopo a basso costo per le ragazze. Educazione. Così si possono prevenire ed evitare gli aborti. Non con le posizione da muro contro muro. Quelle non servono a nulla e fanno solo il male delle nostre giovani generazioni.

Cristiano Molinari - Firenze

La legge va abolita, ci sono le condizioni per farlo La 194? Una vergogna. E’ arrivato il momento di abolirla. Ci sono possibilità e clima politica giusto. Basta con questi omicidi. E basta con il relativismo marxista. I valori non si toccano e i diritti del nascituro vanno tutelati.

Carmen Santoro - Reggio Calabria

La donna ha il diritto di appropriarsi del proprio corpo La Chiesa è tornata all’attacco in grande stile sulla questione aborto. Ora non voglio addentrarmi

nella ormai trita discussione, se ne ha il diritto o se in nome della laicità dello Stato sarebbe opportuna una maggiore discrezione. Il problema vero sta nel diritto della donna ad appropriarsi totalmente del suo corpo. Perché non sempre uomo e donna sono una coppia, sposati o no, ma sicuramente si accoppiano e magari si lasciano subito. La donna rimane incinta? Non vuole il figlio? Che abortisca. Nessuno ha ancora dimostrato davvero che entro certi limiti temporali si commette omicidio.

Loredana Niccolai - Ancona

Un feto di 90 giorni? Si possono già riconoscere i tratti del bimbo Gentile direttore, sono un medico e a proposito della legge 194 mi chiedo: chi l’ha votata, chi la sostiene, chi la utilizza, ha mai visto l’ecografia di un feto al 90° giorno di gestazione? Basterebbe anche solo collegarsi a internet e cercare una semplice fotografia: il bambino si riconosce perfettamente.

Lettera firmata

Se la legge 194 ha davvero ridotto il numero di aborti, perché toccarla? Sig. Direttore, se è vero quanto affermato da alcuni organi di stampa - certo di sinistra - che la legge 194 ha ridotto notevolmente il numero degli aborti, che le mammane sono rimaste disoccupate, che i cucchiai d’oro hanno notevolmente ridotto i loro profitti illeciti, che le donne che abortiscono dopotutto non hanno gravi conseguenze psicologiche, che i cattolici osservanti possono non abortire, perché ritoccare la legge?

Pasqualina Rotondi - Enna

LA DOMANDA DI DOMANI

Elezioni o governo di responsabilità, cos’è meglio per il Paese? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

IL PAPA E LA SAPIENZA C’erano un volta delle istituzioni culturali finalizzate alla didattica e all’attività di ricerca: le università. Infatti, per quanto in tutto il mondo siano esistite istituzioni di questo tipo che possono farsi risalire all’Accademia platonica e alla Schola medica salernitana, oltre che ai vari simposi culturali presenti in Grecia (i più celebri dei quali sono l’etería di Alceo e il tíaso di Saffo), il termine ”università” designa un preciso modello culturale. La “Sapienza”, Università di Roma, è proprio una di queste istituzioni, anzi una delle più antiche, in quanto nacque a Roma il 20 aprile 1303, proprio, ironia della sorte, per volontà di un Papa! Invece la recente esclusione di Papa Benedetto XVI, del teologo Ratzinger, dal tenere un intervento alla “Sapienza”di Roma dietro invito del Rettore, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico, è non solo assurda ma mortificante. Non esiste alcuna plausibile giustificazione del comportamento di un certo numero di “magistri” che hanno contestato l’invito del professor Ratzinger in nome di una mal invocata “libertà di non ascoltare”. La verità è che abbiamo assistito impotenti ad una mode-

Cè ancora una parte d’umanità che mal digerisce l’esistenza dello stato democratico d’Israele. Non si affrontano seriamente le problematiche legate ad un antisemitismo tuttora diffuso ed estremamente pericoloso. Emblematico è l’atteggiamento iraniano ove la negazione della shoah va a braccetto con il riarmo nucleare e la ventilata distruzione dello stato di Israele. Si insiste nel descrivere nel dettaglio la vita nei campi di sterminio e mai ci si domanda seriamente perché sia successo tutto questo proprio nella civilissima Europa. Non ci si sforza di capire e di spiegare: è più semplice dare la colpa alla ventata di follia e insistere sulle agghiaccianti immagini dell’evento. Allora, giornata della memoria sì, ma non solo celebrativa, ma di studio sulle cause, sui motivi. Una giornata della memoria che dovrebbe spiegare le ragioni dell’esistenza dello stato d’Israele. Dare una mano a Israele oggi: aprendolo all’Europa e sostenendolo in ogni senso, anche militare, è solo questo che può farci ricordare la Shoah. Una giornata della memoria che dovrebbe vedere l’intera civiltà occidentale schierata a sostegno della guerra contro il terrorismo, nella quale il popolo d’Israele è in prima fila anche per affermare il proprio diritto ad esistere. E dico questo da uomo di destra, ma laico e laicista, convinto che molte delle sciagure potrebbero evitarsi con la fine delle religioni e del petrolio. E perché non anche una giornata della memoria per tutte quelle stragi, superiori di numero, che il comunismo ha perpetrato contro l’umanità?

Vittorio Baccelli

In politica ci vuole sincerità, non solo promesse elettorali Leggo che Caroline Kennedy si schiera dalla parte di Obama, sostenendo che lui le ricorda suo padre. La cosa più interessante è però un’altra. Scrive Caroline: ”Certo, tutti noi preferiremmo de-

dai circoli liberal

sta minoranza che ha imposto alla quasi totalità dei docenti della “Sapienza” di non ascoltare un collega, qual è il prof. Ratnziger, ed, a quest’ultimo, di non tenere il suo discorso con grave lesione di un diritto a tutti riconosciuto come inviolabile. Si badi bene, sulla base di un pregiudizio: qualunque fosse stato l’oggetto di quel discorso, comunque non sarebbe andato bene. Non per i contenuti, non conosciuti, ma per l’“autorità” di chi lo pronunciava. Si tratta, come è evidente, di una censura preventiva di un pensiero e, quindi, dell’anticamera dell’“ignoranza”. In un epoca in cui più che erigere barricate è necessario gettare ponti assistiamo a frange pseudo progressiste che nel malcelato uso del concetto di laicità dello Stato non consentono alle forze vive del Paese di poter concorrere al progresso ed allo sviluppo verso forme di dialogo ed incontro tra la cultura laica e quella cattolica. Il principio della laicità va inoltre letto in collegamento con altre norme, garantite sempre a livello costituzionale, come l’accordo del 1984 con la S. Sede che prevede l’impegno “alla reciproca collaborazione”fra Stato e Chiesa “per la promozione dell’uomo e del bene del Paese”. Esse contengono il riconoscimento da

QUI LO DICO Curva, tossicchiante e con la voce un po’ rauca, un’ anziana donna di settantasette anni si è presentata l’altro giorno presso la celebre clinica della Locride specializzata in import export con l’aldilà. Dopo un accurato esame via mail, circondata dalle amorevoli preghiere di infermiere che ne imploravano l’eutanasia, assistita da un amabile rappresentante di urne prendi tre e paghi due, la donna è stata dichiarata in fin di vita e trasportata d’urgenza in ambulanza. Tutto lasciava presagire il peggio, ma a causa dell’imprevedibile decorso di un’aspirina assunta poche ore prima, e contro ogni diagnosi clinica, la vecchietta è inaspettatamente guarita dal raffreddore.

cidere come votare in base alle differenze dei programmi politici. Ma gli obiettivi dei candidati sono simili. Perciò qualità come la leadership, la personalità e il giudizio contano più del solito”. Mi sembra un giro di parole per evitare di arrivare al nocciolo della questione: quello che i candidati dicono in campagna elettorale sono solo promesse, la cui realizzazione è tutta da verificare. Caroline avrebbe fatto meglio a dirlo chiaramente: la qualità di cui ci sarebbe bisogno nei candidati, in Usa come altrove, è la sincerità. A trovarla.

Lorenzo Sacchi, Milano

An, Udc e Fisichella, nulla di nuovo sotto il sole Ma voi siete proprio sicuri che Fini voglia andare ad elezioni? Secondo me stanno per fare il partitone con Udc e Fisichella. Da Alleanza nazionale a Nuova Dc. D’altra parte questo percorso lo avevano iniziato a Fiuggi. Niente di nuovo sotto il sole.

Augusto Curino - Roma

parte della Repubblica del “valore della cultura religiosa” e dei principi del cattolicesimo come “parte integrante del patrimonio storico del popolo italiano”. Ma tutto questo alla “Sapienza” ed ai dotti firmatari non è pervenuto. Ancora una volta il più sapiente è stato proprio il Papa che non ha voluto creare tensioni ed ha rinunciato ad esercitare un diritto, con grave sconfitta delle regole democratiche e delle norme costituzionali che paiono sempre più un vuoto e silente simulacro. Ignazio Lagrotta PRESIDENTE CLUB LIBERAL LEVANTE BARI

APPUNTAMENTI ROMA - 31 GENNAIO-1-2 FEBBRAIO 2008 Università Lateranense, tempio di Adriano, Palazzo dei Congressi Meeting internazionale ”Cambio di stagione: 1968-2008, quarant’anni dopo”


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”Italiani, ritrovate il vostro vecchio cuore” Ritrovate il vostro cuore italiani. Ricercate nei vostri ricordi lontani le parole della vostra maestra e del vecchio libro di lettura. Non disprezzate le illusioni della vostra giovinezza lontana. Ritrovate il vostro vecchio cuore, italiani; ritroverete le antiche virtù e comprenderete ciò che oggi non potete più comprendere: la divina bellezza della Libertà. Di quella Libertà che state giorno dopo giorno perdendo, e voi lo sapete, ma rifiutate di accorgervene perché ”l’importante è vivere e, insomma, insomma, si vive”: ma quando questa legione di astuti politicanti sarà riuscita a statizzare ogni umana attività, quando la polizia avrà schedato anche i vostri fazzoletti, chi impiccherete al lampione, il giorno in cui verranno a ”liberarvi” i cinesi o gli altri ”liberatori ” di turno? Voi direte ”esagerazioni: oggi si vive”. D’accordo, rivivrà domani, fra un anno o fra due. Si vive sempre finché non si muore. Italiani ritrovate il vostro vecchio cuore. Giovannino Guareschi 7 Giugno 1953 - Mondo Candido

Evitiamo che oggi i giovani cedano al vagabondaggio Caro direttore, sono passati un po’ di anni, troppi, da quando, mentre la meglio gioventù cercava la libertà dalla parte sbagliata, noi occupavamo le università, altri facevano un lavoro sporco e i cattivi maestri si impegnavano, senza risparmio, a nascondere, rimuovere, falsare, tradire, sempre e dappertutto, il pensiero liberale. Sono passati quarant’anni da quel non dimenticato ’68. Finalmente. Oggi, i cattivi maestri non raccolgono più di settanta firme e la meglio gioventù (pochi, molto agitati, ma pochi) avrà tutto il tempo di capire, in piena libertà e senza obbligo di presenza in piazza San Pietro. Da oggi, ci tocca lavorare per evitare che alcuni vecchi maestri continuino a spiegare solo la bellezza dell’errore e i giovani cedano al vagabondaggio errante.

Nicola Marrone CLUB PHILADELPHIA BARI

Un’ingiustizia i criteri delle pensioni dei politici

sione, spesso modesta, mentre i politici dopo due anni e mezzo di legislatura godono di una pensione non so di quale entità, ma di certo ingiusta? Qualcosa mi dice che qualunque forza politica prenderà il potere, nel futuro questo non cambierà mai.

Romeo Ricci - Rieti

Il meglio per l’Italia? Un governo liberale Egregio direttore, se il governo interventista e socialista di Prodi andasse a casa e fosse sostituito da un altro liberale, si allevierebbero i fastidi, i pruriti e pure le nostre sopportazioni. Ma forse è sperare troppo. Il premier non vuole dimettersi e, spalleggiato

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

Certificati di sana e robusta costituzione ai senatori C’è chi al Senato ci va con le stampelle. Chi con l’ambulanza. C’è chi accusa un malore e sviene. Ma perché non chiediamo ai nostri parlamentari un certificato di sana e robusta costituzione per l’espletamento delle loro funzioni istituzionali? Non si sa mai che ci dovessero chiedere i danni...

Ludovica Splendore - Trieste

L’unicità di Roma si vede anche dalle piccole cose Gentile direttore, sa qual è il criterio per definire il genere (maschile o femminile) di una squadra di calcio? Le rispondo. Per tutte le formazioni che portano il nome della città in italiano (il Napoli, il Torino) o in lingua straniera (il Genoa, il Milan) si usa il genere maschile. Quando si ricorre ad un aggettivo (la Fiorentina, la Pistoiese), ad una parola composta (la Sampdoria) oppure al nome di una regione (la Lazio) si adopera il femminile. Roma è l’unico caso che esula dalla regola avendo la squadra il nome della città, ma in genere femminile. La suà unicità si denota anche dalle piccole cose.

Gabriele Rampelli - Roma

Morire, mio caro dottore, è l’ultima cosa che farò! VISCONTE PALMERSTON

Per quale motivo noi cittadini qualunque dobbiamo lavorare quarant’anni per avere una pen-

e di cronach

da capi e capetti, le sta escogitando tutte per restare. Che dire: a chi non è mai stato del mestiere, e resta lontano dalla nostra idea della classe dirigente, va pur concessa una qualche licenza poetica. O no? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di IL PENDOLO DI BERLUSCONI Le consultazioni per risolvere la crisi di governo non sono confinate alle stanze del Colle, perché comprendono anche i segnali provenienti dalla piazza. La martellante pressione di Berlusconi per ottenere le elezioni anticipate ha bloccato la politica nelle mani del leader dell’opposizione. La regola di queste consultazioni è che senza il partito di Berlusconi non può formarsi nessun governo. Nonostante la propaganda per le elezioni subito e i sondaggi dalla parte di Berlusconi, anche l’ipotesi del governo di transizione può rivelarsi una vittoria per Forza Italia. Un governo a scadenza con Berlusconi e Veltroni potrebbe fare la riforma elettorale, evitando il referendum e preparandosi ad elezioni con un nuovo sistema elettorale ma soprattutto con nuovi partiti e nuove coalizioni. In questo momento Berlusconi può decidere il futuro della politica, che ancora una volta è polarizzata tra il palazzo e la piazza. Ma Berlusconi è abile a cambiare posizione: dall’opposizione dura e intransigente è passato al dialogo con Veltroni e adesso è di nuovo sulle barricate. La prossima mossa è quella decisiva: se Berlusconi ritorna al palazzo, la strada per il governo di transizione sarà in discesa. Altrimenti le consultazioni si concluderanno con il decreto di scioglimento delle camere.

Joyce

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VOTARE SUBITO PER IL BENE DEL PAESE

no a delinearsi chiaramente le strategie delle forze politiche in campo. (…) Al di là delle bieche convenienze politiche, però, occorre chiedersi quale sia, oggi, la soluzione migliore per il bene del Paese. Se è vero, infatti, che l’attuale legge elettorale proporzionale, a differenza del maggioritario, può favorire la frammentazione, è però altrettanto vero che l’Italia sta attraversando una crisi profondissima, tanto sul piano economico che su quello sociale. (…) Ma la cosa peggiore è che questo paese, grazie soprattutto ad un ex-governo inetto ed imbelle, incapace di progetti che siano andati oltre il meschino mantenimento della propria fetta di potere, ha perduto la fiducia in se stesso e nel proprio domani. Perciò, oggi, il ricorso immediato alle urne appare improcrastinabile. Perché una nazione senza speranza, senza risorse, senza futuro, non può più permettersi di temporeggiare, di aspettare i soliti discorsi vacui ed oziosi del politico di turno, che cavilla sui compromessi intorno all’ennesima variazione di una legge elettorale che alla fine, a furia di mediare, non potrà essere altro che l’ennesimo pastrocchio italiota. Ed allora meglio votare subito, pur con un sistema non ottimale, piuttosto che attendere di sprofondare definitivamente nella crisi che già ci sta soffocando. Confidando soprattutto nell’intelligenza dei cittadini italiani che, stavolta, speriamo sappiano scegliere una maggioranza in grado di governare. Il momento è grave, la situazione complicata: cerchiamo di non perdere l’ennesimo treno per l’avvenire.

Liber.t@’

Dopo il terzo giorno di consultazioni al Quirinale, comincia-

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Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata Alessandro Manzoni

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