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DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
he di c a n o r c di Ferdinando Adornato
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
Mentre Mentre Franco Franco Marini Marini “esplora”, “esplora”, istituzioni, istituzioni, partiti partiti ee media media hanno hanno spento spento ii riflettori riflettori sull’emergenza sull’emergenza rifiuti… rifiuti…
Ma l’inferno è ancora lì
La solitudine di De Gennaro è la metafora di un Paese sempre pronto a indignarsi, ma mai capace di risolvere i problemi
Socrate L’INSERTO
Se la scuola fa l’Italia a pezzi Giuseppe Bertagna Valentina Aprea
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GENNAIO
conflitti
processo di Erba
CAUCASO DEL NORD, LA NUOVA CECENIA
IDENTIKIT DI ROSA E OLINDO
di Francesco Cannatà
di Pier Mario Fasanotti
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2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
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4 PAGINE SPECIALI 1968: QUARANT’ANNI DOPO
Cambio di stagione Michael Novak Angelo Crespi Marcello Veneziani
pagine 6, 7, 8 e 9 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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ma
l’inferno
è ancora lì
La denuncia di Raffaele Bonanni: «In questo Paese ci si muove solo dopo che il sacco si rompe»
«Non lasciamo da solo De Gennaro, poi faremo i conti con i responsabili» Emergenza sempre più grave
Senza aspettare la nottata di Carlo Ripa di Meana e anche, ufficialmente, non risulta che se ne sia parlato nelle consultazioni “dietro la vetrata”, considero la quasi sommossa di Napoli e delle sua provincia il maggior problema della realtà italiana di questa fine gennaio. Destinato ad inasprirsi e ad estendersi a Roma e al Lazio, se affidato ancora alle lente, blande e incomplete terapie De Gennaro. Che sono fallite, come si deve ormai constatare, purtroppo, senza perdere altro tempo in relazioni pubbliche felpate.
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L a r e s i s t e n z a f i s i c a delle popolazioni alle riaperture e alla scelta di nuovi siti non può essere piegata con la forza, perché ormai ha dalla sua la convinzione fondata, e insieme fanatica, del torto subito da parte dei potenti che hanno mentito, lucrato, mentito e lucrato per anni e anni con conoscenza del guasto. Pesa in questa difficile intransigenza dei cittadini il fatto che i tre diretti responsabili politici, il ministro dell’Ambiente, il presidente della Regione e il sindaco della città siano ancora lì in bella mostra, con l’aria di chi, alzati gli occhi al cielo, confida che “adda passa’ ’a nuttata”. Prima che l’incendio di Napoli e provincia si propaghi, prima che la situazione sia del tutto fuori controllo è urgente un segnale di inversione di rotta. Non il cicaleccio di governi tecnici, no istituzionali, no di pacificazione, no di tre mesi, no “di un anno e poi il voto”, no di “governo di scopo”. La più dadà tra tutte le formule di questi giorni. Domanda l’autore: secondo lei può esserci un governo senza scopo?
di Errico Novi ROMA. «Prima collaboriamo. Diamo una mano al prefetto De Gennaro, evitiamo strumentalizzazioni. Poi però i responsabili dell’emergenza rifiuti non potranno più fare finta di niente». Così parla un moderato come Raffaele Bonanni. Anche un uomo capace di grandi mediazioni come il segretario generale della Cisl fa fatica a controllare l’indignazione. E aspetta la resa dei conti. Bonanni, De Gennaro deve affrontare da solo un disastro epocale. «Ha le capacità per discutere e convincere le comunità locali, è un uomo risoluto. L’importante è che tutti gli diano una mano. Liberiamo Napoli e la Campania da questa vergogna. Dopodiché chiameremo i responsabili, e sappiamo chi sono». I media sembrano già lontani dalla tragedia. «Va anche detto che l’informazione segnala il pericolo da anni e che questo non è bastato a evitare la distrazione, diciamo così, dei poteri locali». Il governatore Bassolino va chiamato in causa senz’altro per primo, è stato anche commissario straordinario. Ma la sua parte politica, a Roma, è rimasta a guardare. «È così. Il tempo è trascorso senza che nessuno intervenisse per sbloccare gli inceneritori, che sono l’elemento chiave nel ciclo dei rifiuti. In questo Paese si aspetta finché il sacco non si crepa, solo dopo ci si muove». La crisi di governo non aiuta. L’impressione è che il commissario attuale non abbia le spalle abbastanza coperte. Mar-
Sono ancora centomila le tonnellate da piazzare Basta il bollettino di ieri a spiegare perché Gianni De Gennaro considera ancora lontana la fine dell’emergenza. Blocchi stradali e proteste in tutta la provincia di Napoli, due manifestanti hanno minacciato il suicidio. Fino alla guerriglia di Gianturco, alla periferia est del capoluogo, dove i rivoltosi hanno attaccato la polizia. Il no alle discariche e ai siti di stoccaggio mette in pericolo il piano. Il supercommissario assicura per oggi «la decisione definitiva sui siti di smaltimento». Ma seppure le resistenze delle comunità locali fossero vinte, resterebbe un ”buco”di almeno 100mila tonnellate di rifiuti da piazzare. Il conto è semplice. Le discariche vere e proprie sono tre, Montesarchio, Ariano Irpini e Villaricca. Sono stati previsti poi quattro siti provvisori per lo stoccaggio delle ecoballe. In tutto c’è spazio per non più di 800mila tonnellate. Per questo De Gennaro ha avvertito la commissione ecomafie che una parte dell’immondizia andrebbe trasferita all’estero. Ma finché non arriverà l’ok del governo una decisione del genere è impossibile, e l’incubo non si allontana.
tedì scorso davanti alla commissione Ecomafie ha ricordato che sarebbe ancora possibile inviare parte dell’immondizia campana in Germania, ma che anche su questo servirebbero indicazioni da parte dell’esecutivo. «Nonostante la caduta del governo il prefetto può farcela, ne sono convinto. D’altra parte una situazione così difficile può essere gestita solo con poteri straordinari. È questo il senso dell’incarico che gli è stato affidato. Il pericolo è che si approfitti della situazione per strumentalizzarla. Così certo non si aiuta De Gennaro». Lei fa notare che per anni in Campania si è ballato sul ciglio del baratro. Forse è andata così anche perché le tragedie di Napoli sono un fatto scontato, nella percezione di molti.
vivere nella perenne emergenza. E invece non è così». L’emergenza si crea. «Infatti. Sono le classi dirigenti a determinarla e a farvi ricorso come alibi. Se chi amministra fa il proprio dovere fino in fondo l’emergenza non arriva. C’è qualcosa che non torna. La città ha saputo reagire ad altri momenti difficilissimi, le cose sarebbero andate diversamente se fossero state prese le decisioni nei tempi dovuti. E poi credo sia ingiusto parlare di ineluttabilità. Sono molto legato affettivamente a Napoli, ci vado sempre appena posso. Amo la sua tradizione culturale e credo che in realtà sia molto lontana dall’idea del fatalismo, della rassegnazione al disastro». Chiede l’intervento di tutti, una generale assunzione di responsabilità. Crede di potersi considerare coinvolto direttamente, come leader della Cisl?
«Purtroppo è vero. Si parte dall’idea che su Napoli gravi una condanna ineluttabile, che il suo destino sia di
«Lunedì prossimo sarò a Napoli, abbiamo incontri in programma con tutti gli interlocutori possibili per cercare di dare una mano a trovare le soluzioni migliori. L’importante è che questo sia lo stile di ciascuna parte. AppeÈ passata una settimana dall’uscita del primo numero di liberal quotina avremo portato diano e finalmente abbiamo potuto verificare i primi dati della diffula città e la regione sione, che sono per noi estremamente lusinghieri e perfino imprevisti. fuori da questa verA parte il successo, quasi sempre scontato del primo numero, le vengogna, non sarà dite medie della prima settimana sona state di 20mila copie. Un gradifficile mettere chi zie di cuore, dunque, a tutti i nostri lettori. La nostra scommessa è difse lo merita davanti ficile, ma col vostro aiuto, come sembra possiamo farcela. alle proprie responsabilità».
20mila copie, grazie ai lettori
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La solitudine di De Gennaro/Cronache di un’ordinaria giornata di sollevazioni e di paralisi
La Campania, ovvero un’Italia minore di Giancristiano Desiderio ommaso Barbato, quello degli sputi e della rissa a Palazzo Madama, ci ha preso gusto. Così, dopo aver partecipato alla battaglia del Senato, ha preso parte anche alla battaglia di Marigliano (contuso un bambino di otto anni). Questo il suo grido di battaglia: “Basta, questa è una dittatura. È così che il prefetto De Gennaro vuole risolvere l’emergenza rifiuti?”. Già, De Gennaro. A lui il governo si è (era) rivolto per far riemergere la Campania dal mare di rifiuti che la sommerge. Il “prefetto di ferro” disse: “Obbedisco”. In Campania ha preso visione della situazione, ha elaborato un piano, ha individuato le discariche da riaprire e ha detto: “In centoventi giorni ce la possiamo fare”. Ottimista. Non aveva previsto ciò che si è verificato: sollevazioni di popolo ovunque: a Marigliano, a Giugliano, a Montesarchio, ad Ariano Irpino. La Campania insorge. La Campania è in fiamme. La Campania puzza. E De Gennaro va in Parlamento, bussa a soldi (servono per cominciare altri venti milioni di euro) e già ritorna sui suoi passi: “Non ho una soluzione”. Ma proprio quando il prefetto De Gennaro confessa di non sapere come fare, ecco che il governo Prodi che gli ha dato l’incarico non c’è più. Caduto. Affossato. In discarica.
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Oggi la Campania è un’Italia a parte. Un’Italia minore. Ma, strano paradosso, non sembra più essere un’emergenza. È scomparsa dall’agenda politica romana. Sui colli romani si pensa ad altro. Proprio quando Napoli aveva bisogno di Roma. È
forse un caso che ieri ci sono stati blocchi sull’autostrada A30 e sui binari della linea ferroviaria Salerno-Cancello? La Campania si sta progressivamente staccando dal resto del Paese. Ma il resto del Paese non lo sa. Quando si entra in Campania sembra di entrare non solo in un’altra terra, ma anche in un altro tempo. Gianni De Gennaro, l’uomo che risolve problemi, come i predecessori è già diventato un uomo solo. Egli stesso è oggi un problema. Sull’autostrada A30, precisamente all’altezza dello svincolo di Nola, sia in
Pozzuoli, presidio permanente a Villaricca per evitare la discarica di Cava Riconta, presidio permanente anche a Montesarchio per la discarica di Tre Ponti. Ad Ariano Irpino, paese di ventimila abitanti, sono scesi in piazza in ben diecimila. A San Giorgio a Cremano le mamme e gli alunni sono scesi in piazza: “Non siamo topi di fogna, vogliamo una città pulita”. Nelle scuole di Caserta e provincia è stato distribuito un documento che spiega cos’è e come funziona la raccolta differenziata. Ma Caserta è tuttora una
Il finimondo avrebbe dovuto essere risolto dall’ex capo della Polizia, nominato da un governo che non c’è più e con pieni poteri che invece non può esercitare perché gli vengono contestati quotidianamente. E si era parlato di Risorgimento... direzione Nord che Sud, i cittadini si sono stesi sulla carreggiata. Si protesta contro la decisione di attivare il sito di stoccaggio a Marigliano. Si è arrivati allo scontro tra cittadini e forze dell’ordine. Il sindaco di Marigliano, Felice Esposito Concione: “La polizia ha caricato me ed i misi concittadini in nome della Repubblica italiana, calpestandoci e malmenandoci”. Al di là del fatto di cronaca, ciò che accade a Marigliano e nel Nolano, come a Montesarchio, nel Beneventano, ad Ariano Irpino, nell’Avellinese, esprime un forte disagio sociale e politico: la Campania è senza governo. La Campania è acefala: a Giugliano blocco ferroviario, stessa situazione sulla linea Villa Literno-
città piena di spazzatura. Nelle scuole si parla di raccolta differenziata, ma il Provveditorato agli studi (non si chiama più così ma fa lo stesso) a via Ceccano è pieno di monnezza. Ad Acerra la costruzione del termovalorizzatore è ancora più lenta. Praticamente ferma. Le aziende non si sentono politicamente garantite.
E come potrebbe essere altrimenti se la politica non può fare nulla senza aumentare il caos e disordine? Proprio così. Perché la Regione è semplicemente allo sbando tra inchieste, inquisiti, arrestati non può fare nulla senza essere causa di altro malessere. Bassolino non fa l’unica cosa che può fare per ridare speranza alle isti-
tuzioni: dimettersi. L’assessore comunale di Castellamare di Stabia, Nicola Corrado, ha scritto una favola sui rifiuti. E’ piaciuta molto a Roberto Saviano, l’autore ormai celebre del famoso Gomorra. La potete leggere sul sito www.nazioneindiana.com. La favola dice quello che tutti sanno. Si prenda il caso di Marigliano. Era la patria della patata. Il paese italiano che produceva più patate e della migliore qualità. Oggi la campagna di Marigliano, terra di patate e di pomodori, è la campagna dei veleni. E se nella relazione annuale della Direzione antimafia si legge che “l’emergenza rifiuti è stata elevata a sistema, grazie a una perversa strategia politico-economico-criminale” allora forse si riesce a capire perché oggi la Campania è un mondo a parte. Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, ha detto questa cosuccia: “Nelle ultime consultazioni elettorali sono stati versati soldi ai capi delle organizzazioni per ottenere voti”. Attualmente sono otto le inchieste della Procura di Napoli che indagano su politici e clan, mentre l’ex boss della Sanità (notissimo quartiere di Napoli) - dopo aver inguaiato il consigliere regionale del Pd, Roberto Conte - continua a vuotare il sacco. Ciò che esce, naturalmente, è “spazzatura”. Pensate: solo quattordici anni fa a Napoli iniziò il Rinascimento. Questo finimondo dovrebbe essere risolto dal solo Gianni De Gennaro? “Così non andiamo avanti”, ha detto lo stesso prefetto al Parlamento. Ma semplicemente la Campania non sembra più essere un’emergenza.
politica Tutti gli errori di Walter il doroteo
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Se il centrosinistra oggi è a pezzi parte importante delle responsabilità va addebitata al segretario Pd
di Gennaro Malgieri l centrosinistra si è dissolto. Comunque evolva la situazione, esso non assomiglierà in alcun modo a quello che abbiamo fin qui conosciuto. Forse non si proporrà più nemmeno come formula. Una responsabilità determinante in questo senso grava sulle spalle strette di Walter Veltroni. A ben vedere, la dinamite che ha sbriciolato il governo di Romano Prodi l’ha piazzata proprio il leader del PD. Rinunciando al sistema elettorale tedesco sul quale (probabilmente) si sarebbe registrato un consenso vasto e trasversale, Veltroni ha scelto una scorciatoia, quella dell’accordo con Berlusconi, e per uno scopo non certo nobile: farsi una legge a proprio uso e consumo. Insomma, roba d’altri tempi. Il nuovo soggetto politico della sinistra riformista italiana è invecchiato nel momento stesso in cui non ha dato prova di emanciparsi rispetto ai consunti riti della Prima Repubblica.
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Il dor oteis mo veltroniano, espresso nella forma più piena durante le consultazioni sulla possibile riforma del sistema elettorale, ha finito per scontentare tutti. In particolare ha gettato nello sconforto gli innovatori autentici che hanno vissuto come un tradimento l’appeasement del segretario con il leader dell’opposizione sulla complessa materia delle riforme. Veltroni ha incassato la diffidenza di Prodi, il rancore dell’ala radicale unionista, le perplessità dei maggiorenti del Pd. E, per difendersi da possibili attacchi, è arrivato a far scrivere nello statuto del partito che in nessun caso chi ricopre cariche all’interno di fondazioni, club, circoli, associazioni politico-culturali di area potrà assumere ruoli dirigenziali nel partito. Il riferimento immediato a D’Alema è stato colto da chiunque e gli interessati alla frattura nel nuovo e fragile soggetto, si sono dati da fare per soffiare sul fuoco dell’antica rivalità tra i due. Al momento della caduta di Prodi, non c’è stato un solo esponente di rilievo del Pd che
Primo fra tutti quello di non aver puntato sul modello tedesco (che aveva una maggioranza) per cercare un furbo accordo di convenienza con Berlusconi abbia tenuto l’ombrello sulla testa del segretario: mentre grandinavano le accuse, tutti coloro che fino a qualche giorno prima lo aveva incensato, fingevano indifferenza, ma schiumavano rabbia. E si possono comprendere.
Quando mai s’è visto, nel bel mezzo di una Legislatura difficile, segnata da passaggi strettissimi, il capo del maggior partito della coalizione uscirsene con una sconfessione brutale degli stessi alleati, annunciando che il Pd, in ogni caso, quando si fosse presentata l’occasione, sarebbe andato da solo alle elezioni, insomma, senza l’ingombro dei “cespugli” e con le mani finalmente libere? Certo, se si sta insieme a tavola ed alcuni dei commensali scoprono di essere sgraditi ad
altri, il minimo che possono fare è alzarsi ed andarsene. E’ più o meno quello che è accaduto nel centrosinistra, dove, se Mastella e Dini, per motivi diversi, ci stavano con disagio, lo stesso può dirsi dei cosiddetti massimalisti i quali non hanno staccato la spina al momento opportuno perché paventavano l’aprirsi dello scenario che è davanti ai loro occhi attoniti.
Insomma, Veltroni non ha costruito, non ha mediato, non ha “abbozzato” come era lecito attendersi, ma ha lavorato per distruggere, nella segreta (ma mica tanto poi) speranza che comunque il logoramento di Prodi sarebbe durato almeno un altro anno, giusto il tempo per prepararsi alle elezioni come leader del maggior partito del centrosinistra, forte di una legge che lo avrebbe favorito. I calcoli di un doroteo che non ha l’anima, lo stile e la preparazione del doroteo, si sono rivelati sbagliati. Come sbagliato è stato fin dall’inizio dell’avventura, immaginare l’incontro tra cattolici democratici e post-comunisti, in uno stesso soggetto, senza aver elaborato un progetto culturale che li tenesse insieme. Ognuna delle due componenti ha continuato ad essere fedele ai suoi riferimenti storico-politici, ai propri ideali, alle differenti visioni del mondo. Il piano valoriale si è rivelato inconsistente alla prova dei fatti. E sono bastate poche settimane per appurare che il Pd altro non è stato che un’abile (se fosse riuscita) operazione di marketing, quando si attendeva, anche da parte di chi milita altrove, una chiara operazione politica tesa al rinnovamento e all’accentuazione del bipolarismo nel nostro Paese. Walter Veltroni è uomo gradevole e non poco intelligente, ma delegargli la costruzione di una strategia politico-culturale di ampio respiro è stato certo un bel azzardo. Nessuno dei suoi, comunque, e neppure tra gli avversari, poteva immaginare una delusione così cocente e tanto repentina.
politica
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Napolitano incarica Marini “Ho chiesto al presidente del Senato, facendo appello al suo senso di responsabilità istituzionale, di verificare le possibilità di consenso su un preciso progetto di riforma della legge elettorale e di sostegno a un governo funzionale all’approvazione di quel progetto e all’assunzione delle decisioni più urgenti in alcuni campi”. Queste le parole del Presidente Napolitano con le quali affida a Franco Marini l’incarico di formare un governo.
Marini: «i tempi sono stretti» Il presidente del Senato Franco Marini commenta così: “So bene che si tratta di un impegno non semplice, anzi gravoso. Nelle attese dei cittadini c’è una attenzione forte per la modifica della legge elettorale. I tempi sono stretti, cercherò di trovare un punto di equilibrio tra le diverse esigenze. Ci metterò tutta la mia determinazione”.
Berlusconi e Casini: una legislatura costituente
Napolitano nomina Marini “esploratore“, ma i margini sono stretti
Mission impossible di Susanna Turco roprio nel momento più sospeso, quando la politica tutta tirava la pancia in dentro nell’attesa che il Quirinale sciogliesse la riserva sulla soluzione per uscire dalla crisi innescata con la caduta del governo Prodi, ecco proprio allora una frotta di ballerini sciamare per gli austeri corridoi della Camera. E Fausto Bertinotti, nella sua piena funzione di terza carica dello Stato, di fronte a Rutelli, Gianni Letta e altre varie personalità conferiva in pompa magna il premio per la «eccellenza nella cultura italiana» nel 2007, alla danzatrice Carla Fracci. Con queste parole: «In questi tempi difficili, essere protagonista della forma della danza che porta un linguaggio di lievità, movimento e sguardo al futuro, è un incoraggiamento per noi». Proprio nelle stesse ore, una molto onorevole eccellenza della politica di ieri e di oggi, il presidente del Senato Franco Marini, si sollevava sulle punte per danzare uno dei minuetti apparentemente più ardui della sua carriera: mettere insieme una maggioranza in grado di approvare una legge elettorale diversa dal Porcellum prima di tornare a votare. O quanto meno provarci.
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Già, perché i toni e i modi con i quali Napolitano ha dato l’incarico e il presidente del Senato l’ha ricevuto non sono parsi quelli di chi nell’ipotesi di un governo capace di realizzare la riforma elettorale creda davvero. Resta inteso, naturalmente, la scelta del capo dello Stato non è «né rituale, né dilatoria». Così come il dato che Marini, pur con-
siderando «gravoso» l’impegno, se lo carica sulle spalle. Eppure, tutto nel film della giornata porta a far pensare che all’obiettivo più ambizioso, quello di provare davvero a farlo, un esecutivo «di scopo» per quelle riforme che «chiedono il Paese e molti partiti», si sia dovuto rinunciare. E insomma, se – come ha scritto questo giornale – la coda delle consultazioni è stata da Prima Repubblica, la conclusione di ieri ha confermato l’andazzo. Dal punto di vista semantico, ne è una prova un’espressione che ha rifatto capolino ieri, dopo aver preso la polvere per un decennio: pre-incarico. A metà giornata si vociferava fosse questa
Il capo dello Stato chiede di verificare il consenso su un «preciso progetto» di riforma. Proprio ciò che sinora è mancato la mediazione possibile tra un Napolitano, che appariva orientato a dare a Marini un mandato pieno, e i suoi consiglieri, inclini piuttosto a pensare che non ci fossero margini per un nuovo esecutivo. E invece, al momento di sciogliere la riserva, il capo dello Stato ha conferito un incarico meno impegnativo, quello di un mandato «esplorativo». Per di più, Napolitano ha in qualche modo voluto spiegare, ascrivendolo ai suoi «doveri», il suo operato: «Ri-
cordo che sciogliere anticipatamente le Camere ha sempre rappresentato la decisione più impegnativa e grave affidata dalla Costituzione al presidente della Repubblica e questa volta la decisione dovrebbe essere assunta a meno di due anni dalle ultime elezioni», ha infatti detto. A conferma del clima poco favorevole, c’è poi nelle parole del capo dello Stato il prematuro accenno alle elezioni: «Il dialogo tra opposti schieramenti è obiettivamente necessario qualunque sia il risultato di nuove elezioni».
Infine, la considerazione che, a ben guardare, l’oggetto del mandato contiene in sé le ragioni del suo fallimento: Napolitano ha infatti chiesto a Marini di «verificare le possibilità di consenso su un preciso progetto di riforma della legge elettorale e di sostegno a un governo che sia funzionale all’approvazione di quel progetto». Ma, appunto, su un «preciso» progetto di riforma elettorale è già verificata l’assenza di concordia, fosse anche soltanto nel centrosinistra. L’unico spiraglio per riaprire il dialogo sul tema poteva essere una convergenza sul sistema tedesco, che avrebbe potuto indurre Silvio Berlusconi a tornare sulle sue posizioni per lavorare (ancora con Veltroni) a un sistema più favorevole ai grandi partiti, come la bozza Bianco. Ma, appunto sul sistema tedesco la convergenza non s’è trovata, e Casini - unico possibile interlocutore - è tornato armi e bagagli nella Casa delle Libertà. In attesa delle elezioni.
“Il nostro Paese ha bisogno di tornare ad essere competitivo e non può farlo senza istituzioni efficienti. Il presidente di Fi e il leader dell’Udc si impegnano a promuovere le riforme costituzionali necessarie ed utili al Paese con la convinzione che queste non possano essere realizzate nel solo perimetro di una parte politica”.
Udc compatta, senza Baccini Il gruppo dei 20 senatori dell’Udc conferma ”la condivisione della linea politica” del partito e in una nota afferma che ”venuta meno la possibilità di un governo di pacificazione”, si deve procedere ”senza indugio allo scioglimento delle Camere e all’indizione delle elezioni”. In calce al comunicato manca solo la firma di Mario Baccini.
Veltroni: “Esecutivo a tempo per le riforme” Il segretario del Pd lo ha ribadito all’assemblea dei deputati del partito: “Siamo disponibili per un governo a termine che realizzi la riforma elettorale e quelle istituzionali o che conduca al referendum”.
Per Calderoli l’esecutivo nasce già morto Il vice presidente del Senato della Lega afferma: “Che senso ha fare un Governo che nasce già morto, con uno o due voti di maggioranza, magari ottenuti attraverso il voto di scambio, ovvero la presidenza del Senato? “
Palazzo Chigi sospende Cuffaro Notificato ieri il decreto di sospensione dall’incarico al presidente della Regione Sicilia. ”Una provocazione politica poiché, come è noto, ho già lasciato spontaneamente la carica con le mie dimissioni irrevocabili” ha dichiarato Cuffaro.
Nuova assoluzione per Berlusconi Il tribunale di Milano ha assolto Silvio Berlusconi dall’accusa di aver falsificato il bilancio Fininvest perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato dopo la modifica della norma nell’aprile 2002. Il pm aveva chiesto la prescrizione.
Tutto confermato al Comitato Nazionale di Bioetica La presidenza del Consiglio dei Ministri ha confermato Lorenzo d’Avack, Riccardo Di Segni e Laura Palazzoni nell’Ufficio di Presidenza del CNB perché il loro apporto è stato giudicato “di particolare importanza”, e dunque irrinunciabile.
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l Sessantotto ha quarant’anni. A prendere per buono lo slogan che ha segnato la mentalità di quel movimento: «Non fidarti di nessuno che non abbia meno di trent’anni», sembrerebbe arrivato davvero il momento di ripensare quell’esperienza criticamente. Domandandosi, oltre la retorica dell’immaginazione al potere, che cosa ha prodotto il grande disordine dei cinquantenni, sessantenni di oggi, che si preparano di nuovo a celebrare quella stagione. Marcello Veneziani ha appena pubblicato per Mondadori un libro dove l’apologetica della contestazione è confutata da una lunga ricognizione sulle macerie lasciate da quel periodo. Il libro si intitola Rovesciare il ’68 ed è una lunga ricognizione aforismatica su quarant’anni di conformismo di massa. Veneziani, dove era nel ’68 Nel ’68 ero ancora un ragazzino, facevo le scuole medie. Ma capivo già che quello che stava succedendo aveva qualcosa di inquietante. Non mi piaceva. Ricordo che in un tema sulla contestazione davanti alla Scala di Milano scrissi che le uova marce lanciate contro il pubblico non erano idee. Eppure della stagione che seguì all’anno fatidico lei qualcosa mette in salvo. Prima di aprire la diga della critica mi fa l’inventario delle tre quattro cose che salverebbe del 68? Sono più di tre o quattro per la verità, e per onestà devo dire che parte della mia critica nasce da una leggera invidia nei confronti di chi visse quel fermento, partecipando, nuotandoci dentro. Deve essere stato molto bello. Ciò premesso di quegli anni salvo sicuramente le battaglie sui temi dell’identità della donna, che non si possono ridurre all’aborto; Jan Palach che per la libertà si dà fuoco sulla piazza San Venceslao di Praga; le lotte sindacali che sfoceranno nello statuto dei lavoratori del 1970. Queste sono cose importanti. Lo erano, lei dice, anche molte cose che il Sessantotto ha spazzato via però Il punto è proprio questo: il Sessantotto ha infiammato un epoca di massimalismi messianici e poi
I
polemiche
Marcello Veneziani parla del suo libro “Rovesciare il Sessantotto”
Il fumo e le macerie di un lungo conformismo ».
di Riccardo Paradisi ha lasciato una nuvola di fumo. Macerie. La contestazione ha liquidato l’autorità, il padre, il passato. Ha tagliato le radici. I sessantottini si sono voluti sentire figli del proprio tempo anziché dei propri padri. E al proprio tempo hanno sacrificato anche quello delle generazioni venture.
Dopo aver fatto fuori i padri sono passati ai figli... È così: chi elimina il padre elimina il figlio. Il sessantottino è in fondo un adulto geloso dei giovani, dei figli, perchè il giovane, il figlio sente di dover essere sempre e ancora lui. Non c’è spazio per chi viene dopo. L’egocentri-
smo generazionale del resto è l’effetto più profondo del Sessantotto Il 68 spazzò via anche la borghesia, lei scrive con una punta di rammarico. E si riferisce alla borghesia che avevamo in Italia: le virtù del risparmio, del decoro, le pattine in casa, mai uno slancio, uno spasmo di grandezza. Non è che quel ceto e il suo universo di valori fossero già un residuo quando la contestazione e poi la società dei consumi li seppellirono per sempre? Certo, quella borghesia aveva esaurito i suoi valori, su qesto non c’è dubbio e non c’è nessuna ragione per averne. Io penso però che la borghesia che è venuta dopo, la borghesia del sessantotto sia peggiore di quella un po’ipocrita e piccina che c’era prima. Era meglio insomma la borghesia dei valori cristiano tradizionali del ceto medio che l’ha soppiantata e che accetta la distruzione gioiosa di questi valori. Perchè poi va detto che il 68 ha spazzato via la borghesia ma dalle sue ceneri non è nata una società di eguali: la borghesia è pas-
sata alla clandestinità, ha continuato a vivere come utente, consumatore, ceto medio. Qualcosa di meno di una classe. C’è una frase di Adriano Romualdi, che spiega perchè i giovani andarono a sinistra nel 68: «A destra non c’era più niente». Sconsolante. Quella destra mostrò delle insufficienze gravissime, è vero: non capì cosa stava succedendo, si limitò a reagire, e male, mandando i picchiatori a sgomberare le università occupate invece di ingaggiare la battaglia delle idee su posizioni di rivoluzione conservatrice. Detto questo però c’è un malinteso che va fugato: per la destra il 68 non è stata come qualcuno ancora sostiene un’occasione mancata, l’ennesimo autobus perso. No. Il sessantotto è nato con una forte radice anarco-libertaria, in rivolta contro il padre, la tradizione, l’autorità. La destra doveva rianimare questi principi mica liquidarli. Ci sono molte pagine dedicate ai cinquantenni in Rovesciare il 68 e alcune sono onestamente e coraggiosamente autobiografiche. Gli effetti di quella stagione, soprattutto nel campo della sfera affetti-
Oggi a Roma il meeting internazionale Comincia oggi pomeriggio a Roma il convegno ”1968-2008: cambio di stagione” organizzato dalla Fondazione Liberal. Ad aprire la prima giornata dei lavori, oggi alle 15,00 all’Università Lateranense, sarà il saluto introduttivo di Monsignor Rino Fisichella. Seguiranno le relazioni di Andrè Glucksmann, Michael Novak, Lorenzo Ornaghi, Krzysztof Zanussi e Rocco Buttiglione. Gli incontri
proseguiranno poi nei giorni di venerdì e sabato al tempio di Adriano in Piazza della Pietra. Venerdì con le relazioni sul tema ”Ideologia”, ”Media e cultura”, ”La Vita” alle quali seguirà il forum sui ”Ragazzi del 2008”. Sabato mattina gran finale: alla chiusura del convegno intervengono Ferdinando Adornato, Josè Maria Aznar, Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini.
va e sentimentale, si fanno sentire su tutti, compresi quelli che verso la contestazione hanno un giudizio critico. Nessuno può chiamarsi fuori da quanto è avvenuto: si vive il proprio tempo del resto anche se non ci si trova a proprio agio dentro. Sono moltissimi i cinquantenni che hanno rimesso in discussione i loro legami famigliari, che hanno difficoltà ad accettare il loro ruolo di padri, di smettere di essere degli eterni adolescenti. La differenza però è tra chi crede di avere perduto un bene e chi invece pensa che ciò che sempre è stato a un certo punto può non esserci più, o diventare altro. I suoi pensieri sono il sillabario di una tranquilla apocalisse in corso d’opera, fotogrammi di un paesaggio con rovine: «Vivere è una perdita di tempo», recita l’ultimo aforisma del libro, «morire una perdita di spazio». E un altro: «Siamo condannati a vivere tra piangenti speranze e ridenti disperazioni». Ci riusciamo a chiudere l’intervista con un po’ di ottimismo? Si. Perchè alla mentalità che viene del Sessantotto e che oggi nel laicismo e nello zapaterismo ha le sue leve di azione si oppone una sensibilità diversa. Sarkozy in Francia vince richiamando il Paese all’ordine, negli Stati Uniti ci sono candidati che vincono le primarie perchè si battono contro l’aborto, il Papa tiene alti i principi del sacro e della tradizione. Si può ripartire dal conflitto, con una rivoluzione conservatrice.
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Trent’anni fa veniva imposto per la prima volta il sistema che ha portato alla decadenza della scuola
6 politico. Il declino cominciò lì di Angelo Crespi l 31 gennaio 1978 a Milano, all’istituto Cesare Correnti, un professore che rifiuta di dare il 6 politico viene picchiato da un gruppo di studenti di estrema sinistra. Questa è la data - simbolica come tutte le date - che sancisce nelle cronologie ufficiali della nostra Prima Repubblica la nascita di questo voto poco aritmetico e alquanto ideologico. A trent’anni di distanza e a quaranta dal fatidico Sessantotto, altra data spartiacque per il sistema educativo italiano, vale la pena tentare qualche riflessione, poiché se il “6 politico” è sparito dalla terminologia corrente (lo si usa solo al fantacalcio per determinare un punteggio ai fantagiocatori quando non si svolgono le partite reali) nella realtà delle cose la sua dirompente e nefasta portata inquina ancora la nostra scuola. Se infatti nelle menti postideologizzate degli studenti di oggi non c’è più posto per particolari rivendicazioni politiche, nelle menti dei professori, che sono guarda caso gli studenti di allora, resiste il tarlo progressista. Un virus che a prescindere dagli organi in cui si è insediato prosegue a minare la salute del corpo.
pone la messa al bando di qualsiasi forma di autoritarismo o di qualsiasi gerarchia burocratica all’interno della struttura scolastica, alimenta il mito delle decisioni “collegiali”, depotenzia il ruolo del maestro o del professore. (Per un’esaustiva analisi di questo fenomeno, si consiglia di Manfredo Anzini, ”Riflessioni su Politica e Scuola”, Rivista dell’Istruzione, n.5/2002).
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I l p a n o r a m a d e l l a s c u o l a italiana è oggi devastante e a poco sono servite faticose riforme, proprio perché si teme di agire in profondità, andando a colpire davvero la malattia. L’asilo non serve a nulla, le elementari sono diventate un asilo, le medie sono le elementari, il ginnasio è una media ristretta, il liceo un ginnasio allargato, il “3” all’università è ora un liceo, infine il “+2” è nulla. Col paradosso che un giovane si laurea dopo, sapendo meno. Sempre che sia possibile recuperare, per paragonarsi a un laureato di quarant’anni fa, dovrà almeno sostenere un paio di anni di master e un paio di tirocinio gratuito. O altrimenti se è figlio di ricchi, andarsene direttamente all’estero o frequentare fin dall’asilo istituti privati. Questo è il lascito del “6 politico”, cioè di quella perversa ideologia progressista e falsamente democratica di primo acchito impossibile da non condividere quando applicata alla scuola – che ha nell’egualitarismo e in una mala dose di utopia i suoi cardini e fa proseliti al grido di “pari opportunità” per tutti. In sostanza, l’ideologia egalitaria tende ad eliminare qualsiasi differenza perfino disciplinare, a privilegiare l’accesso alla scuola piuttosto che l’uscita, a pareggiare i percorsi formativi (per esempio tra liceo e istituti tecnici), a scoraggiare la meritocrazia, a santificare lo spontaneismo, la libertà, l’autogestione. Mentre dall’altro lato, l’ideolgia “falsamente democratica” im-
Che sia ora di cambiare strada non soltanto in Italia, ma in tutta Europa, lo dice il successo di un pamphlet scritto da un preside tedesco che ha fatto l’elogio della disciplina e ha chiesto di restaurare il principio di autorità Estremismo di governo a Londra, tarda eredità del Sessantotto
Vietato dire papà e mamma nella scuole di Sua Maestà brogati mamma e papà. Nella scuola inglese questi due termini devono scomparire. Se un insegnante invia una lettera o un email a casa dovrà indirizzarla ai genitori, e non a mamma e papà. La decisione l’ha presa nientemeno che il governo e il ministro della Scuola, Ed Balls, se ne dice fiero. Ma perché mai questa incomprensibile direttiva? Semplice, per “arruolare i bambini nella lotta contro l’omofobia”: si devono abituare sin da piccoli a non pensare che i propri genitori sono un uomo e una donna e cioè una mamma e un papà. Potrebbero essere anche due uomini o due donne. Per non disturbare la sensibilità gay, per creare questi piccoli guerrieri della libertà sessuale si manda all’aria il fondamento stesso della famiglia. Il politi-
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cally correct trionfa sulle macerie del nucleo fondante della società occidentale. Il sessantottismo è una talpa che scava ancora e ci regala queste perle di pericolosa stupidità, di arroganza sotto le mentite spoglie della tolleranza, di mancanza di rispetto per i valori prodotti dalla nostra civiltà. Ma non finisce qui, i poveri bambini verranno sottoposti ad un rigido controllo del linguaggio. Nessuno potrà dirgli: abbi coraggio, comportati da uomo. Le lezioni di inglese verranno svolte sulla base delle emozioni provate dal soldato italiano Carlo, un giovane gay fra i protagonisti del film Il mandolino del capitano Corelli. E tutto questo – neanche a dirlo – in nome della libertà e della fantasia al potere.
L ’ a r c h i v i a z i o n e del “6 politico” non è però pratica semplice. I detriti di decenni di politicamente corretto pesano sul settore. E poi, la devastazione non fu casuale, bensì frutto di una strategia scientifica che aveva nei sindacati il primo strumento. C’è un illuminante pamphlet degli anni Settanta scritto da Lucio Lami, La scuola del Plagio (Armando editore), che andrebbe oggi ripubblicato per capire come anche attraverso i testi scolastici si sedimentò la menzogna e la falsità ideologica che oggi sono il substrato su cui prolifica l’ideologia progressista. Si potrebbe iniziare da una rivoluzione culturale, spiegando che l’egalitarismo ha generato la peggiore e meno democratica scuola del mondo. In un saggio di qualche anno fa, ricordava uno studioso per nulla reazionario come Giuliano da Empoli, che “in Italia le probabilità di laurearsi di un figlio con padre laureato sono infinitamente (725mila volte) superiori a quelle di un figlio di un padre che non abbia completato l’obbligo scolastico, negli Stati Uniti la stessa probabilità è di 50 a 1”. E negli Usa, tanto per dire, funziona un sistema scolastico più orientato al privato, che invece in Italia è visto come il diavolo. Anche dal punto vista degli insegnanti la situazione non è migliore. Il democraticismo a tutti i costi ha fatto perdere prestigio alla professione in modo definitivo. Basta leggere le indagini dello Iard sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, per comprendere il fenomeno. Minori retribuzioni, peggiori condizioni sociali, peggiori prospettive di vita, matrimonio, carriera, sono gli indici negativi di una categoria in declino. Altro che “decisioni collegiali”. Si capisce così il successo di un pamphlettino come quello di un oscuro preside di un pur esclusivo tedesco, tale collegio privato Nernhard Bueb, che l’anno scoro ha venduto centinaia di migliaia di copie in tutta Europa con un provocatorio Elogio della disciplina (Rizzoli) il cui succo è “bisogna ritrovare il coraggio di educare” “ridando credito all’autorità e alla disciplina”. Incredibile nessuno lo ha sputtanato bollandolo come “fascista”. Forse il vento sta davvero cambiando
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a maggior parte dei miei studenti di Stanford avevano soltanto 15 o 16 anni il 22 novembre de 1963, data in cui il giovane e forte John F. Kennedy fu colpito da un proiettile che gli fece esplodere la nuca, mentre attraversava le strade di Dallas (Texas) in un’auto decappottabile. Ancora oggi la sinistra americana non sa come rapportarsi a quell’evento. Come spiega James Piereson nel suo nuovo libro dal titolo Camelot and the Cultural Revolution (il miglior libro del 2007), ancora oggi la letteratura di sinistra insiste nell’asserire che l’assassino di Kennedy fosse un folle squinternato di sinistra. Tuttavia, oggi esistono prove significative del fatto che si trattasse di un comunista, che aveva vissuto per un certo periodo a Mosca, aveva una moglie russa e poco prima del 22 novembre aveva preso contatti con l’ambasciata cubana in occasione di un viaggio a Città del Messico. Secondo i racconti della sinistra dell’epoca, la Guerra Fredda era basata su un errore: la vera minaccia non era costituita dai comunisti; la “minaccia rossa”era pura propaganda della Destra americana. Quindi, il fatto che Kennedy fosse stato ucciso da un comunista, forse al soldo di Cuba o dell’Unione Sovietica, turbava le menti della sinistra, che non sopportavano neppure il pensiero. Se la sinistra avesse ammesso questo evento, tutta la sua visione del mondo sarebbe crollata. Per molti esponenti della Sinistra, l’unico modo per dare un “senso”a quell’omicidio fu di trarre soddisfazione nell’incolpare la Destra, sebbene ingiustamente.
polemiche Seconda puntata del saggio autobiografico sulla contestazione in America
Da Kennedy all’Lsd, morte di una rivoluzione di Michael Novak do sito al di fuori della scienza, del pragmatismo e della concretezza. La religione non veniva considerata una disciplina alla pari delle altre scienze.
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LE TEORIE COSPIRATORIE Ancor peggio della storia immaginaria nella quale hanno continuato a credere i liberal è l’incoerenza delle lezioni che non hanno mai smesso di impartire al Paese riguardo all’omicidio di Kennedy. Non riuscendo ad accettare che l’omicida fosse un comunista, sono andati alla ricerca di “complotti”, naturalmente orchestrati dalla destra. Tuttavia, il danno peggiore arrecato dalle teorie complottiste alla sinistra americana è stato fatto ai giovani del loro stesso partito. I miei studenti del 1965-68, ad esempio, entrarono all’università con animo rovente. Il giovane, bello ed incredibilmente promettente presidente di “Camelot” è stato abbattuto da un folle complotto orchestrato dalla destra, un complotto che cui hanno partecipato i livelli più alti dell’Amministrazione americana e quelli più alti e rigorosi delle istituzioni preposte all’applicazione della legge. Lezione principale: non fidarsi dello Stato. Seconda lezione: l’annosa ipocrisia
IDEALISMO CONTRO PRAGMATISMO
Non riuscendo ad accettare che l’omicida del presidente fosse un comunista, sono andati alla ricerca di “complotti”, naturalmente orchestrati dalla destra. Ed hanno finito con il coinvolgere la CIA, l’FBI, Johnson e persino la Commissione Warren confessata dallo Stato in relazione al rispetto dei diritti umani si intreccia ora con un’ipocrisia ancora più esecrabile e nauseante: la “copertura” di un omicidio perpetrato dai maggiori esponenti dello Stato. Inoltre, per i miei studenti del ’65, esisteva anche una terza ipocrisia. Il cosiddetto “Movimento per la Libertà di Parola” nato a Berkeley, fu in realtà un tentativo di strappare il potere al corpo docente ed agli amministratori, in nome di un fallace principio di uguaglianza. L’idea stessa di università è intrinsecamente basata su una fondamentale ineguaglianza. Un’università si fonda sul principio che i professori hanno maggiori conoscenze da trasmettere ai loro studenti, molto meno sapienti. Eppure tale incoerenza fu resa infinitamente peggiore dalla facilità con cui studenti minacciosi riuscirono ad intimorire il corpo docente e a farlo capitolare a questa estorsione. Fu distrutta qualsiasi autorità etica o intellettuale i professori avessero mai avuto agli occhi degli studenti. C’era qualcosa di marcio nel corpo docente pragmatico, empirico e progressista del Paese, così come negli
amministratori delle università e questo qualcosa si manifestò chiaramente perché gli studenti del 1965-1968 potessero vederlo con i propri occhi. A ciò, si aggiunga l’intenzionale delegittimazione della Guerra in Vietnam da parte della sinistra americana.
L’UOMO È MORTO Prima che tutto ciò accadesse, nel 1961, frequentavo il secondo anno di studi post-universitari (in filosofia delle religioni) presso l’Università di Harvard, quando fui invitato dall’Harper’s Magazine ad intervenire ad un simposio sulle università, in programma per l’anno successivo. Mi fu chiesto di scrivere un articolo sul posto occupato da Dio nelle università del Paese. Dalle letture su altre università ed in base alla mia esperienza ad Harvard, mi ero fatto un’idea abbastanza chiara dell’ideologia prevalente nelle università e soprattutto in quelle più importanti. Si trattava di un’ideologia definita da tutti liberale, pragmatica, realistica ed impegnata a concentrarsi sul “descrittivo”, mentre le proposizioni “prescrittive” venivano attribuite ad un mon-
Quando tale ideologia “pratica” si coniugò alle incombenze amministrative di uno stato sociale in continua espansione, alla politica pragmatica (di stile kennediano) e alle nuove tecnologie postbelliche, si attribuì un diverso significato alla “ragione”. Il poeta francese Charles Peguy aveva scritto: «Tutto ha inizio nel misticismo e finisce in politica». In altri termini, «l’idealismo finisce sempre nella dura politica». Ovunque, questa particolare miscela di intellettuale e pratico, gioco duro lontano dai vecchi studi umanistico-liberali. La crescente separazione tra “le due culture” descritte in Inghilterra da C.P. Snow, rendeva impossibile ad una parte comprendere l’altra, per non parlare poi della possibilità di condurre un dialogo costruttivo. Non furono soltanto gli studenti a ribellarsi contro la nuova “scienza politica” basata quasi esclusivamente sui indagini statistiche e studi di dettaglio: “a meno che non vi si possa sovrapporre un numero, non esiste”. Alcuni professori rifiutavano questa brodaglia insipida e condussero un recupero della “filosofia politica” di tradizione classica. I principali fautori di tale iniziativa furono i seguaci di Leo Strauss (“gli straussiani” Allan Bloom, Walter Berns, Harvey Mansfield, Harry Jaffa, e molti altri). Questi cercarono di ripensare in termini filosofici e critici i principi fondamentali della politica, alla luce di secoli di conoscenza occidentale della materia. A questo movimento si correlò la rinascita degli studi sul thaoismo, cos’ come presentata dall’eccellente pubblicazione trimestrale della Notre Dame dal titolo The Review of Politics. Molti studenti delle grandi università aperte negli anni ’60 si sentivano soffocare tra i miasmi del materialismo, della logica e dell’irregimentazione quotidiana. Avevano contatti diretti con gli rarissimi con i loro amministratori. Le comunicazioni principali venivano inoltrate tramite schede informatiche, su cui si leggeva: “Non piegare, flettere, danneggiare o infilzare in raccoglitori”. A nessuno sembrava interessare chi fossero e quali timori nutrissero. Quasi nessuno parlava alle loro coscienze. Erano forse i fruitori meglio organizzati e trattati in maniera più impersonale nella storia dell’istruzione. Alcuni si sentivano piccole rotelle che venivano preparate per essere inserite in un enorme ingranaggio sociale ed industriale. Avevano la sensa-
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l’esperienza storica dell’uomo. Dimenticava la debolezza umana (propria ed altrui), quanto fosse sottile la corazza della civiltà, gli ineguagliabili tesori della cultura che aveva ereditato grazie al sacrificio di tante generazioni precedenti e dimenticava altresì i grandi limiti della scienza pura. Inoltre, si è dimostrata assolutamente incapace di formulare argomentazioni etiche a giustificazione del proprio agire e del proprio modo di impostare la cultura universitaria. Dinanzi alle accuse mosse dagli studenti insoddisfatti, l’élite culturale dell’epoca non ha saputo difendersi, neppure per propria soddisfazione. E’ per questo che, nei momenti di confronto, si è arresa tanto facilmente. Aveva smesso di credere persino nelle proprie attività.
SOPRAFFATTI DALLA REALTÀ
zione che la mente gli venisse contratta, imprigionata, rinchiusa. Quindi, talvolta, quella che poteva apparire come una ribellione studentesca contro la tradizione, la storia e la sapienza umanistica del passato era in realtà una rivolta istintiva contro uno scientismo arido, che si esprimeva in maniera impersonale, “oggettiva”,“descrittiva”(quasi al livello di dettaglio che si rileva nelle istruzioni per l’assemblaggio di alcuni prodotto di recente fabbricazione, che si trovano nei negozi che vendono forniture per uffici). Gli studenti apparivano spesso confusi riguardo a dove trovare la vera sapienza e come distinguerla da quella fallace – come il “decostruzionismo” di Paul de Ma ed il postmodernismo in genere. Qualche anno dopo, questi furono gli obiettivi professionali che Allan Bloom si poneva nel libro di grande successo The Closing of the American Mind.
HIPPY E ATTTIVISTI La cosa che per prima mi colpì, arrivando dalla costa orientale degli Stati Uniti nel 1965, fu il fatto che “il movimento”appariva diviso in due correnti che, divertito, definivo “gli ordini contemplativi” e “gli ordini attivisti”. Forse quale eredità della Beat generation e, probabilmente, anche delle generazioni precedenti, San Francisco aveva già avuto la sua parte di anticonformisti, disadattati, contestatori e dissenzienti – che ora indossano un sacco e dei sandali – insieme a dinamici imprenditori e visionari, che l’avevano resa una città grande e florida, una delle più belle del Nord America. A prima vista, tutto sembrava abbastanza tranquillo. Ma non molto sotto la superficie si nascondevano rabbia e pericoli. Quella gente non era soltanto dissenziente ed autoemarginata. Almeno alcuni di loro imparavano ad odiare la classe borghese che li aveva cresciuti e l’Establishment che li guardava dall’alto in basso e li disprezzava. Un crescente antiamericanismo pieno di rabbia agitava le acque più profonde. L’attrazione per la violenza, per esempio, accompagnata da riferimenti espliciti ad una guerra aperta con-
tro i “porci”, vale a dire la polizia locale e persino (come alla Kent State) la Guardia Nazionale. Iniziarono gli attentati dinamitardi contro i tralicci elettrici, gli edifici ROTC, i laboratori scientifici ed altri obiettivi sensibili. Per un po’, i radicali dettero un taglio alle esperienze violente. Per questo, i giovani impiegarono un tempo eccezionalmente lungo a comprendere che la Città dell’Uomo, come sottolineato molto prima da S. Agostino, è sempre costruita sulla forza di sedare le insurrezioni ed imporre la pace. Tali sgradevoli teorie sull’uso civilizzatore della forza erano sempre state difficili da accettare per una nazione protestante e liberal. In passato, diverse generazioni di americani avevano dimostrato di saper agire con grande forza. Eppure, a livello filosofico, non amavano pensare di doverlo fare. Gli americani continuano ad auspicare di poter risolvere le questioni legate agli uomini in maniera razionale, senza ricorrere alla forza. Perciò, i dirigenti universitari del 1960 non sapevano come comportarsi dinanzi alla violenza ed i neoradicali impiegarono troppo tempo a comprendere la loro reale debolezza nei confronti dell’energico potere dello Stato.
zione che hanno distrutto lo spirito di alcuni, ed un senso di “smarrimento” per aver vagheggiato una natura allo stato selvaggio, priva di punti di riferimento e delle tradizionali reti di significati. Quest’ultima veniva considerata l’ironica fine della “ricerca di un significato” che molti adducevano a giustificazione primaria della loro partecipazione alla “rivoluzione”. Ma v’era anche un’altra giustificazione, almeno da parte degli uomini. “poiché potremmo morire tra breve nella giungla vietnamita”, perché non vivere la vita in maniera rischiosa a casa propria? In molti casi si scelse con sconsideratezza di fare uso di droghe pericolosissime, di partecipare a folli corse motociclistiche, di brindare, alla faccia dei custodi della legge, ad occasionali incursioni nel mondo della criminalità (in segno di protesta contro i mali del regime, naturalmente), di mettere a rischio qualsiasi possibilità di una vita regolata persino dall’autogoverno. Purtroppo, molti caddero lungo la strada, spezzando il cuore delle persone a loro più vicine. In quei giorni, si udiva spesso l’espressione “decisioni esistenziali”. Molti avevano la sensazione di avere in mano la propria vita e di dover trarre un dado decisivo. In quest’ottica, le grandi lacune del sistema dell’istruzione costituiva un tradimento da parte di molti docenti e dirigenti universitari. La grande considerazione per l “scienza”, il “pragmatismo” e la “tecnocrazia”, coniugata all’aver dimenticato la più profonda saggezza e sapienza degli antichi, era un riflesso della boria post bellica. L’intellighenzia dimenticava alcune cose molto rilevanti, sia riguardo alla scienza, sia riguardo al-
Ben presto iniziarono gli attentati dinamitardi contro i tralicci elettrici, gli edifici governativi, i laboratori scientifici
IL TRADIMENTO DELL’INTELLIGHENZIA Persino nel periodo immediatamente successivo agli anni Sessanta, iniziarono a farsi numerose le segnalazioni di “viaggi finiti male” causati dall’Lsd e sfociati in suicidi, in casi di abbandono scolastico e naufragio di carriere promettenti, in dolorose rotture dei legami familiari, dei rapporti con amici di vecchia data, coniugi o fidanzati, nonché casi di deten-
Gli intellettuali avevano dimenticato le ambiguità presenti alla base della scienza in quanto progetto umano. Una costruzione della ragione troppo limitata indusse proprio la chiusura mentale degli americani. Inoltre, fece sì che molti esponenti dell’élite culturale impegnati nelle università e nel mondo della stampa divenissero facile preda di argomentazioni fallaci a sostegno di una politica fatta di stupida poltiglia molliccia, nobile nelle sue espressioni fiorite, ma assolutamente irrealistica ed inattuabile. Chi inizialmente simpatizzava per la sinistra ma era determinato a metterne alla prova le teorie e le finalità misurandone i risultati (e non le intenzioni), si spostò lentamente dalla parte dei più accaniti oppositori a causa di tutto ciò cui aveva assistito. E’ da questa educazione alla politica che deriva la divertente definizione di neoconservatore: un progressista che è stato “sopraffatto dalla realtà”. E’ innegabile che le idee venefiche che, col tempo, hanno acquisito crescente cittadinanza tra gli esponenti della Sinistra abbiano avuto origine negli anni Sessanta. Inoltre, l’isolamento in cui, sotto diversi aspetti, molti di loro preferiscono procedere, ha reso la sinistra particolarmente sensibile alle teorie inattuabili. I liberal di sinistra hanno sviluppato un’allergia nei confronti di fatti sconcertanti che potrebbero minare le basi della loro concezione dell’economia, della politica e della cultura. Gli ultimi decenni hanno dimostrato quanto la loro visione dell’esperienza umana e dei fatti della storia non trovi corrispondenza nella realtà.Ironia della sorte, tale mancanza di realismo della rivoluzione culturale ha avuto quale conseguenza diretta la nascita di quello che attualmente viene definito, in politica e in economia, il “centrodestra”. Le comprovate erronee credenze della sinistra hanno inoltre dato luogo ad un profondo apprezzamento per sapienza dei nostri avi e per il metodo del pensiero filosofico ed etico che va ad integrare le nostre conoscenze scientifiche. La scienza è uno splendido servitore dell’umanità, ma non il suo maestro. In altri termini, l’inadeguatezza degli energici ed allora promettenti anni Sessanta ha dato luogo ad una rinnovata ricerca di quella ordinata Città dell’Uomo che i nostri avi chiamavano Sophia,“saggezza”. E’ una città che ben conosce i peccati e la fragilità dell’uomo, la tragedia e l’ironia e la famosa lotta tra Umiltà e Presunzione. 2/Fine
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L’iniziativa del ministero dell’Interno trova il sostegno dell’Istituto Cattolico di Parigi
I musulmani francesi vanno a scuola di laicità di Luca Sebastiani PARIGI. Musulmani formati alla scuola cristiana? Sembra impossibile, ma nella laica Francia si tratta già di una realtà. Da ieri, infatti, una ventina di aspiranti imam hanno iniziato a frequentare un corso universitario appositamente creato per loro dall’Istituto cattolico di Parigi, la celebre Catho. Non si tratta di una formazione teologica in senso stretto, ma piuttosto di un diploma in civilizzazione francese, un’introduzione alla laicità che il ministero dell’Interno ha fortemente voluto come barriera contro il fanatismo. Sono anni che l’ufficio dei Culti presso il suddetto ministero e la Moschea di Parigi cercano di promuovere la formazione degli imam direttamente sul territorio. Inizialmente hanno tentato con l’Università pubblica, ma dopo il fermo rifiuto sia della Sorbona che di Saint Denis «in nome del rispetto della laicità» si sono rivolti all’Istituto Cattolico che, con la benedizione del Cardinale di Parigi André Vingt Trois, ha accettato di buon grado la sfida. Lo scorso autunno il solo annuncio del progetto aveva aperto un vivo dibattito nel Paese. Da una parte l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia,
l’Uoif, corrente vicina ai fondamentalisti dei Fratelli musulmani, aveva reclamato che «la formazione degli imam spettasse solo ai musulmani». Dall’altra i cattolici tradizionalisti avevano accusato lo Stato «di promuovere l’Islam» e di concorrere «all’islamizzazione della Francia». Alle polemiche aveva risposto il Rettore dell’Istituto musulmano della Moschea di Parigi, Dalil Boubakeur, che aveva assicurato che la formazione «non riguarda e non riguarderà in alcun caso e in alcuna maniera la teologia musulmana».
Finanziato al 60 per cento dallo Stato, oltre 100mila euro, per il ministero dell’Interno il corso risponde piuttosto ad un’esigenza laica che si è fatta pressante dopo l’11 settembre e il diffondersi del fondamentalismo islamico. In Francia l’Islam costituisce la seconda confessione in termini numerici, ma l’80 per cento degli imam viene dall’estero, principalmente dal Maghreb e dal Medio Oriente, dove ricevono anche la formazione. Gli altri si improvvisano “guide della preghiera” imparando il mestiere direttamente sul terreno. C’è da aggiungere che almeno 10 per cento degli imam d’Ol-
tralpe è pagato direttamente dagli Stati d’origine, soprattutto Turchia e Algeria. Il dato non è certo più rassicurante se si prendono in considerazione i religiosi nati sul territorio francese. La maggior parte di loro, infatti, si è formata in Siria, a Damasco, dove i centri religiosi sono meno esigenti nella selezione all’ingresso. Solo una piccola parte si rivolge ai tre centri
ne parigina dove,per 350 tra sale di preghiera e moschee, gli imam sono solo una cinquantina. Una situazione di oggettiva insufficienza che favorisce l’importazione di religiosi e crea le condizioni per la deriva radicale salafista che le istituzioni temono tanto. Ma non si tratta solo di una questione di controllo, perché alla fine, da questa completa derego-
Finanziato al 60 per cento dallo Stato, il corso corrisponde ad un’esigenza che si è fatta pressante dopo l’11 settembre e il diffondersi del fondamentalismo islamico anche in Europa di formazione francesi, uno dei quali, il più importante, è proprio quello della Moschea di Parigi. Le tre scuole diplomano ogni anno appena una decina di imam, un numero cioè incredibilmente al di sotto della domanda nazionale effettiva. La Francia conta infatti 2.200 luoghi di culto circa per soli 1.500 imam. Un po’ pochino, soprattutto se si considera che due terzi di questi esercitano a titolo gratuito come volontari. La situazione è preoccupante soprattutto nella regio-
lamentazione risulta anche che più di un terzo degli imam d’Oltralpe quasi non parla il francese e, soprattutto, non conosce le regole sociali, giuridiche, istituzionali e culturali del contesto nel quale opera. Come il prete, infatti, anche l’imam oltre a guidare la comunità dei fedeli svolge una funzione di mediazione sociale. Ed è proprio per riempire questo vuoto che uno come Mohamed, arrivato nel 2002 dall’Algeria per studiare da imam alla Moschea di Parigi, ha deciso di iscriversi in parallelo al corso
della Catho. «Noi siamo anche degli animatori – ha spiegato – e se non capiamo i problemi della gente perché siamo sconnessi e lontani dalla loro realtà, non possiamo aiutarli».
Intitolato “Religioni, laicità, interculturalità”, il corso universitario di sei mesi è costituito da 400 ore di lezione ripartite intorno a quattro temi principali: “Cultura generale”, “Giurisprudenza”,“Apertura al mondo religioso”e “Interculturalità”. Niente teologia dunque, ma solo una formazione generale. «Il diploma è un complemento secolarizzante – ha sottolineato Olivier Bobineau, sociologo delle religioni e responsabile del corso – Non si tratta di formare gli imam, ma di vera e propria integrazione repubblicana». È con quest’obiettivo che ieri i primi 25 iscritti si sono recati all’università cattolica per cominciare con una lezione di Retorica. La maggior parte di loro frequenta la Moschea di Parigi per diventare imam ed è originario del Magreb, ma tra i banchi hanno fatto capolino anche tre donne che si sono iscritte col fine di poter un giorno lavorare nei penitenziari o negli ospedali con le associazioni musulmane.
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La guerra sotterranea tra fondamentalismo islamico e Russia
Caucaso del Nord, la nuova Cecenia di Francesco Cannatà rosegue in Caucaso lo stillicidio di attentati e repressione quasi quotidiane. Nello scorso fine settimana un poliziotto è stato ucciso in Cecenia, colpito a morte durante scontri tra le forze di sicurezza di Grozny e gruppi guerriglieri ancora presenti nelle zone montagnose della repubblica. Alcuni giornalisti, invece, sono stati aggrediti e feriti dalla polizia in Inguscezia, durante una manifestazione indetta per protestare contro Murat Ziazikov, il generale dei servizi segreti federali (Fsb) che dal 2002 governa brutalmente questa repubblica caucasica. Anche se, dopo l’elezione di Ramzan Kadyrov alla presidenza della Cecenia, Mosca ha ritirato buona parte delle sue truppe dalla repubblica ex separatista e da tempo Grozny non è più teatro di clamorose azioni di guerra, la situazione resta tesa non solo in Cecenia ma in tutto il Caucaso del nord. A differenza di alcuni anni fa, oggi la Cecenia è però la parte meno visibile del conflitto. Una guerra sotterranea che coinvolge tutta questa regione della federazione russa a forte connotazione islamica. E che vede in prima fila soprattutto Inguscezia, Daghestan e Kabardino-Balkarie. In queste repubbliche da circa due anni le azioni di violenza sono in crescita e, a differenza di quanto avveniva in precedenza, la guerriglia non è composta solo da ceceni, ma da tutte le etnie nordaucasiche. Non è certo un caso se le ultime due grandi operazioni separatiste si sono avute nel 2004 a Nazran, la città più
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popolata di tutta l’Inguscezia e, nel 2005, a Naltschik la capitale della Kabardino-Balkarie. In comune queste due azioni non avevano solo bersagli e tattica militare. Era evidente anche l’esistenza di un centro unitario: quel “Fronte del Caucaso del nord” fondato nel 2005 dal terrorista Basajev. In questo quadro comune a tutta la regione, l’Inguscezia si caratterizza per il fatto che durante il conflitto ceceno qui si trovavano i campi per gli sfollati che fuggivano la guerra. Molti di questi sfollati, uniti ai guerriglieri fuggiti dalla repressione russa in Cecenia, hanno formato sacche di guerriglia che continuano le azioni anti-russe. Grazie alla presenza di unità speciali del ministero
Un telefono (fisso) è una linea diretta con la democrazia partecipativa. Quando il telefono è invece “mobile” le cose si complicano. In Europa i sondaggisti, le società di consulenza e i think tank che periodicamente interrogano l’opinione pubblica sono andati in tilt. Stando alle ultime analisi sui consumatori effettuati da Eurostat, sono sempre di più i cittadini della Ue che hanno ormai abbandonato il telefono di casa per il cellulare. Risultato: i guru delle rilevazioni non sanno più come e dove rintracciarli, perché ancora non esistono elenchi “pubblici”con i numeri dei telefonini. Insomma, in un futuro non troppo lontano sarà quasi impossibile fare i sondaggi e registrare le opinioni della gente, e quindi raccogliere tutte quelle informazioni preziose ai fini dei processi decisionali delle istituzioni nazionali ed europee. L’Unione europea, i singoli governi nonché i vari partiti che siedono in Parlamento si nutrono dei risultati dei sondaggi e li utilizzano per costruire campa-
federale dell’interno (Mdv), di quelle dei servizi di sicurezza Fsb, e del decreto che a settembre ha dichiarato la repubblica “zona di operazioni antiterroriste”, l’Inguscazia oggi ricorda in modo particolare la Cecenia della fine degli anni Novanta. Come a Grozny, anche a Nazraan - in nome della lotta ai presunti seguaci del “wahhabismo”gli uomini dei servizi si arrogano il potere di vita e di morte sulla popolazione civile. Sequestri, torture esecuzioni sommarie, diritti umani violati. Una strategia aggressiva, che fa capire quanto il potere centrale russo tema l’espandersi della febbre separatista in repubbliche finora immuni da questo tipo di rivendicazioni. Ma il vero pericolo per la Russia potrebbe essere un altro. La spaccatura tra indipendentisti e islamisti nella resistenza sembra favorire chi vorrebbe l’edificazione del califfato nella regione compresa tra le repubbliche del Daghestan, quella dell’Inguscezia e il mar Caspio.“La Mecca invece di Strasburgo”: questa la linea degli estremisti islamici che invitano i giovani a non lottare più per la “democrazia in Cecenia” ma per la “Shari’a nel Caucaso”. Integralisti guidati da Doku Umarov, signore della guerra e comandante di un esercito di mille uomini, recentemente proclamatosi capo di un “Emirato caucasico”. Se il nord del Caucaso dovesse sprofondare nel caos islamista, Mosca non potrebbe fare a meno di chiedersi quali siano state le sue responsabilità. (direttore di Quadrante Europa)
d i a r i o
g i o r n o
Rudy Giuliani verso il ritiro (endorsement per McCain?) Ormai è quasi ufficiale: dopo il terzo posto alle primarie in Florida, l’ex sindaco di New York avrebbe deciso di ritirarsi dalla corsa alla nomination repubblicana per appoggiare John McCain. Oggi, a Los Angeles, dovrebbe essere il giorno dell’endorsement ufficiale, proprio alla vigilia del dibattito televisivo in programma alla Reagan Library. A negoziare l’accordo tra i due ex rivali sarebbe stato il manager della campagna di McCain, Rick Davis.
Lascia anche John Edwards L’ex senatore della North Carolina sarebbe sul punto di abbandonare la campagna elettorale per la nomination democratica. L’annuncio ufficiale dovrebbe arrivare oggi pomeriggio a New Orleans, in Louisiana. Nella stessa città in cui Edwards annunciò la sua decisione di prendere parte alle primarie democratiche del 2008. Edwards, per ora, non ha intenzione di appoggiare Hillary Clinton o Barack Obama, ma non è escluso un endorsement nei prossimi giorni.
Ucraina: fuori dall’orbita russa La premier ucraina, Yulia Timoshenko, ha detto ieri che «aldilà delle connotazioni cromatiche: l’ingresso nella Nato per quanto inviso alla maggioranza dei cittadini, è un elemento fondamentale del processo di apertura a nuove partnership; che si parli di energia o di sicurezza. L’Ucraina vuole cercare un proprio posto fuori dall’orbita della Russia».
Elezioni a Mosca? No grazie Il più importante gruppo in Europa per il monitoraggio delle elezioni - una ramificazione dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) - ha annunciato che potrebbe rifiutarsi per la seconda volta di fila di supervisionare il voto in Russia, perché le autorità di questo Paese hanno imposto “gravi restrizioni” alla capacità dell’associazione di valutare le presidenziali del prossimo 2 marzo.
Gaza: tutti a casa entro mercoledì L’Egitto ha avvertito che tutti i palestinesi entrati sul suo territorio negli scorsi giorni dovranno far ritorno all’interno della Striscia di Gaza entro l’inizio della prossima settimana. Intanto i servizi di sicurezza egiziani hanno sventato degli attentati terroristici suicidi organizzati da elementi palestinesi in territorio egiziano: cinque terroristi sono stati arrestati al confine con Israele sulla costa del Mar Rosso e trovati in possesso di cinture esplosive. Le autorità hanno rafforzato i controlli lungo il muro di confine fra l’Egitto e Gaza.
Scuse agli aborigeni Il premier australiano, Kevin Rudd, ha annunciato che il mese prossimo il suo governo presenterà a nome di tutto il Paese le scuse alla popolazione aborigena: si tratta della prima volta in cui le istituzioni australiane ammettono formalmente le proprie responsabilità per i maltrattamenti e le ingiustizie impartire agli indigeni.
Esplode l’utilizzo dei telefoni cellulari. E a rimetterci sono i sondaggisti
L’Europa è “mobile” di Silvia Marchetti gne e programmi politici. Insomma, se cambiano gli stili di vita (e i trend telefonici) cambiano automaticamente anche le tecniche di rilevazione e i metodi della democrazia partecipativa. A breve un gran numero di cittadini europei si recheranno alle urne. Quest’anno si terranno le elezioni in Spagna, Repubblica Ceca, Cipro, Romania e Slovenia, se non addirittura in Italia. Nel 2009 sarà invece il turno di Germania e Slovacchia, in concomitanza con le elezioni europee che si svolgeranno a scaglioni nei vari Paesi membri. Insomma, sarà un periodo movimentato e la mania dei telefonini sta uccidendo l’arma dei sondaggi.
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Per avere un’idea del fenomeno, ecco alcuni dati Eurostat. Negli ultimi dieci anni nell’Europa a 27 gli abbonamenti ai cellulari si sono moltiplicati 14 volte, passando da 7 a 96 abbonamenti ogni 100 abitanti nel 2005. Tra i Paesi dove infuria la malattia del cellulare come si sa c’è l’Italia (al terzo posto) con 122 sottoscrizioni ai servizi di telefonia mobile nel 2005, in confronto alla media europea di 96. In pole position il Lussemburgo (dove sono più i telefonini dei cittadini) e la Lituania, nuovo paradiso dell’hightech. In fondo alla classifica, per consolare i sondaggisti rimangono la Romania, la Polonia, la Francia e la Bulgaria. Nel 2006 in Italia il 25 per cento delle case si affidava-
no unicamente al cellulare, contro una media europea del 18 per cento, e c’erano 43 linee fisse ogni 100 abitanti, una in meno rispetto al ’96. La classica cornetta telefonica è stata invece già abbandonata da circa la maggioranza dei lituani e dei finlandesi. In questo scenario ”fluido” il problema numero uno diventa la reperibilità delle persone. Senza telefono di casa non c’è raccolta d’informazione e non c’è partecipazione pubblica alle decisioni che vengono prese a livello politico. Insomma, se già fare le rilevazioni non è un mestiere facile, con la proliferazione dei cellulari diventa quasi impossibile. Ne sa qualcosa Gallup Europe, il colosso dei sondaggi periodicamente ingaggiato dalla commissione europea per la realizzazione del Flash Eurobarometer. Se fino a ieri bastava scorrere gli elenchi dei telefoni fissi, oggi ci vorrebbe una banca dati con i numeri di tutti i cellulari. Chissà se in futuro sarà possibile, legge sulla privacy permettendo.
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EDUCAZIONE E FORMAZIONE
Socrate
SE LA SCUOLA FA L’ITALIA A PEZZI di Giuseppe Bertagna a scuola italiana è un ossimoro. Ha sempre dichiarato di mirare all’uguaglianza delle opportunità e anche dei risultati di apprendimento tra tutti i cittadini. Proprio per questo ha giustificato il suo tradizionale statalismo e la sua nota uniformità organizzativa: gli stessi programmi di insegnamento per tutti; i docenti scelti allo stesso modo, dalle graduatorie, in tutto il paese; gli orari settimanali uguali per ogni allievo per 33 settimane; l’organizzazione sempre per classi d’età, come nelle leve militari napoleoniche; la didattica centrata dappertutto sulle discipline; gli strumenti di valutazione sempre gli stessi e così via. Perfino le pochissime (in pro-
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porzione a tutti gli altri Paesi Ocse) scuole non statali, da noi, invece di essere l’esempio di una creativa libertà pedagogica, metodologica e organizzativa, si improntano, per vincoli di legge, al modello unico delle scuole di Stato. Nonostante tutto questo (o forse proprio a causa di questo?) la nostra scuola ottiene, però, risultati di segno esattamente opposto: invece di creare maggiore uguaglianza tra i cittadini, o crea nuove disuguaglianze o conferma quelle esistenti. Lo fa nei risultati di apprendimento prettamente scolastici, ovvero nelle conoscenze disciplinari che trasmette ai ragazzi. Variano in maniera consistente da scuola a scuola, e, in peggio, da Nord al Sud e alle Isole, oltre che tra licei, istituti tecnici, istituti professionali e centri di formazione pro-
fessionale. Lo fa, a maggior ragione, nei risultati di apprendimento relativi alle competenze, ovvero al grado con cui pone gli studenti nella condizione di fronteggiare in modo efficace, critico e responsabile richieste, compiti complessi, problemi, progetti autentici della vita quotidiana personale, sociale e civile. E lo fa a maggior ragione perché se le differenze di risultato nelle conoscenze scolastiche dipendono in larga parte dalla qualità dell’insegnamento, quelle esistenti nelle competenze personali dipendono anche dalla qualità e dalla ricchezza dell’insieme delle opportunità formative che coinvolgono i nostri giovani in famiglia, nel territorio, con i mass media, nel gruppo dei pari ecc. Non sorprendono, quindi, due dati fatto. Il primo è che, nel
nostro paese, il 5 assegnato dal professore di matematica della terza A coincide spesso con il 6/7 del docente della terza C, nella stessa scuola; e che la forbice si allarghi poi progressivamente fino alla patologia nelle votazioni assegnate tra scuola e scuola, tra scuole di regioni diverse, tra Nord, Sud e Isole. Il secondo dato è che la cosa si ripete in maniera ancora più amplificata quando dalle conoscenze scolastiche si passa alle competenze degli studenti. Se mai ve ne fosse stato bisogno, un’ulteriore conferma di questa situazione è stata portata dall’ultima indagine Ocse Pisa sulle competenze matematiche, scientifiche e di letture dei ragazzi quindicenni italiani. Ultima indagine che purtroppo peggiora quelle del 2000 e del 2003. Non solo, fatta 10 la media
dei punteggi ottenuti dai ragazzi dei 57 Paesi dell’Ocse, non riusciamo ad andare oltre il 7, così collocandoci sotto la media e quasi in fondo alla classifica. Ma cosa ben peggiore arriviamo a questo nostro 7 medio, partendo da differenziazioni talmente polarizzate da essere uniche tra i Paesi Ocse. Così se le competenze matematiche, scientifiche e di lettura dei ragazzi dei nostri Licei superano sono nella media Ocse, quelli degli studenti dei nostri istituti tecnici e professionali non riescono ad andare oltre rispettivamente il 6 e il 4. E se il livello di competenza più basso interessa il 18 per cento degli studenti che frequentano le scuole del Nord Est e il 22 per cento del Nord Ovest, nel Sud giungiamo ad una percentuale del 42 per cento, che sale a ben il 51 per
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Socrate Come migliorare il livello professionale dei docenti
Meno insegnanti, ma stipendi più alti di Giancristiano Desiderio
a scuola italiana non è più riformabile. Quarant’anni di sperimentazioni e numerosi tentativi di riforma hanno lasciato il segno: la scuola è diventata un blob che tutto assorbe e inghiotte. Non c’è altro da fare che interventi pratici e mirati che partano da un presupposto: la conoscenza della quotidianità del mondo scolastico. Ne avanzo tre: riduzione del numero dei docenti; aumento consistente dello stipendio dei professori; un calcio al novanta per cento delle carte, dei collegi e dei consigli scolastici con la sostituzione dello studio pomeridiano degli insegnanti per preparare le lezioni del giorno dopo. Come non vedere o non sapere, infatti, che il problema della scuola italiana è legata a doppio filo alla “questione docenti”? Se apro un libro a caso, l’ultimo di Marcello Veneziani (Rovesciare il 68, Mondadori), leggo: “Se la scuola italiana fa pena, la colpa principale spetta agli insegnanti: li pagano poco, è vero, ma molti di loro non meritano neanche quello. I prof italiani sono i peggio considerati d’Europa ma anche i peggio preparati, i peggio selezionati e i più ideologizzati. Vengono dal 68, come praticanti o beneficiati dall’onda lunga di quel clima. Certo, è più facile cambiare un ministro che una milionata di docenti. In quell’esercito di professori c’è una dignitosa minoranza che merita rispetto e lavora bene; però la media è deprimente. Troppi professori sono figli della demagogia postosessantottina, delle infornate senza concorso, dei cortei e delle occupazioni, della demeritocrazia. La scuola non forma, non educa, non matura”. Lasciamo perdere il 68. Stiamo ai fatti: prima di tutto il numero. Neanche a viale Trastevere sanno veramente il numero effettivo dei docenti. Più che il corpo docenti, in Italia abbiamo un vero e proprio esercito. Il ministero della Pubblica istruzione è l’azienda italiana con il più alto numero di dipendenti. Un milione di professori sono tanti, troppi. Ma perché sono così tanti? Perché la scuola è stata utilizzata per altri scopi: clientelari, occupazionali, ideologici. Per farlo si è fatto ricorso allo sdoppiamento, alla tripartizione e alla moltiplicazione delle cattedre. Si insegna di tutto, dall’astrofisica alla zootecnia, ma non si sa l’essenziale. La scuola secondaria è stata trasformata in una piccola università, con il risultato che non è né scuola né ateneo. Per ridare serietà all’insegnamento la strada è dettata dai fatti: ridurre il numero dei docenti. “Nessuna scuola”, diceva benissimo Gaetano Salvemini, “può impartire tutte le
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Centrata sul modello unico di Stato, determina profonde disuguaglianze tra Nord e Sud, tra licei e istituti professionali cento nelle isole. Per converso, se il livello di competenza più alto è raggiunto dal 13 per cento dei ragazzi del Nord Est non si va oltre il 3 per cento nelle Isole. Infine, si conferma che, all’interno dell’unica scuola statale, esistono da noi ben tre circuiti formativi tra loro così alternativi e talmente gerarchizzati sia a livello di prestigio sociale sia a livello di effettive maturazioni di competenze da non trovare uguali negli altri Paesi Ocse. Non si tratta, a dire il vero, di novità. È dalla fine degli anni settanta che questa situazione è nota e sempre più documentata. Ma è da quegli anni che è curata, purtroppo, in maniera solo ideologica. Se infatti il mantenimento di una scuola organizzata come adesso non consente di raggiungere le finalità che pur essa
dichiara di voler perseguire, sarebbe solo buon senso introdurre cambiamenti strutturali. Lo pensava anche la Moratti durante il governo Berlusconi. Ma non le hanno lasciato il tempo di introdurre nella nostra scuola, insieme a maggiore flessibilità, a strumenti per la personalizzazione degli apprendimenti, alla pari dignità tra i percorsi dell’istruzione liceale e dell’istruzione e formazione professionale e a per la verità timidissimi incentivi alle scuole non statali, un sistema di valutazione esterna degli apprendimenti degno di questo nome, per controllare la produttività del sistema. Con il governo Prodi, però, siamo subito tornati al rassicurante statalismo uniformizzante che ci ha portato ai risultati che si sono ricordati.
cognizioni che possono essere necessarie, utili o dilettevoli nella vita. Ciò che la scuola può dare è un piccolo numero di fatti e idee chiare e ben coordinate, capaci di servire d’intelaiatura per inquadrarvi le ulteriori esperienze della vita”. Il secondo punto è lo stipendio. Non è solo una questione economica. La scuola in Italia si fonda su un patto tacito tra Stato e docenti: “Ti pago poco e ti chiedo poco”. I docenti sono trasformati in assistenti sociali che hanno il compito di intrattenere i ragazzi nel corso della mattinata quando i genitori sono al lavoro. I docenti assolvono il loro compito e poi si dedicano ad altro perché con lo stipendio ministeriale di certo non ci possono campare la famiglia. Lo Stato - cioè un governo serio che si ponga il compito non di riformare, ma di fare la scuola - deve rompere questo patto tacito, aumentare in modo consistente lo stipendio per poter chiedere ai professori di svolgere il ruolo che loro compete: educare attraverso l’insegnamento. Così si arriva al vero scopo: la preparazione dei docenti. Gli studenti più sono bulli, più hanno la testa nei video e in Internet e più hanno bisogno di professori autorevoli, preparati, interessati e interessanti. La diminuzione dei numero dei docenti è funzionale all’aumento dello stipendio e l’aumento è funzionale alla restituzione al docente del suo tempo da dedicare allo studio quotidiano. Via le inutili riunioni, i collegi, le programmazioni, i sindacalismi. I docenti devono avere l’obbligo, morale e contrattuale, di preparare le lezioni per entrare in classe ed educare i ragazzi con l’utilizzo della loro disciplina. La disciplina è solo un mezzo per raggiungere il fine: la formazione (ecco perché una buona scuola è più importante degli studi universitari). Ma il mezzo ci deve essere, altrimenti il docente non ha in mano alcuno strumento con cui lavorare. Il problema della scuola italiana è antico. Veneziani nel suo libro lo riporta al 68 e ha delle buone ragioni. Ma se non ricordo male già Longanesi diceva con una delle sue brillanti battute: “Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola”. Ma non è una consolazione. Oggi gli studenti italiani a scuola imparano poco. Il potere educativo dell’istituzione scolastica è superato dalla televisione, dal computer, da Internet, dalla tecnologia. Se vogliamo nutrire una speranza non illusoria di miglioramento della scuola dobbiamo affrontare la “questione docenti”. Altrimenti non pensiamoci più e teniamoci la diseducativa assistenza sociale che abbiamo.
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Socrate Parla l’assessore regionale alla scuola
«In Sardegna faremo come in Finlandia» Colloquio con Maria Antonietta Mongiu di Antonino Ulizzi ggi ,come non mai, abbiamo verso i giovani delle responsabilità straordinarie. C’è in gioco il futuro del nostro Paese, e se gli studenti vengono abbandonati a se stessi , se non tornano a essere i punti di riferimento intorno ai quali costruire una scuola migliore, non smarriremo soltanto le loro risorse, ma anche il nostro patrimonio culturale. Un ragazzo che affronta il mondo senza cultura è come un folle che si lancia in cielo senza avere le ali». Maria Antonietta Mongiu, assessore alla Pubblica istruzione e Beni culturali della Regione Sardegna, tradisce subito il suo passato da colta e caparbia insegnante di liceo. Dopo l’ennesimo tonfo della scuola italiana nelle classifiche internazionali dell’Ocse, la metafora di Icaro non poteva essere più azzeccata. Assessore, l’indagine Pisa dice che gli studenti del Nord se la cavano, quelli del Centro arrancano, e quelli del Sud continuano a precipitare. Sì, le scuole sarde hanno fatto registrare risultati poco lusinghieri. È inutile nascondersi dietro un dito o piangere sulle nostre miserie. Nel complesso, i nostri studenti sono andati molto male, e minimizzare que-
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sti indici, o fuggire dall’autocritica, servirebbe soltanto a danneggiare il loro avvenire. Ciò che conta è intervenire subito, cambiare rotta. Noi, qui in Sardegna, lo abbiamo già fatto. Puntiamo dritto al Nord Europa. Secondo l’Ocse, ospita le scuole più efficienti del Vecchio Continente. Già, in particolare la Finlandia. A livello scolastico è la prima nazione d’Europa, e in seguito a un’attenta analisi, abbiamo deciso di prenderla a modello per finanziare il rilancio delle nostre scuole. Abbiamo già messo in bilancio ventinove milioni di euro per un totale di quasi novanta milioni in tre anni. Sono parecchi soldi. Ma più che i numeri, mi incuriosisce l’idea di imitare la Finlandia. Mi spiega? Il punto non è infatti quanto investiremo, ma come questi fondi saranno gestiti dalle scuole. Anche se l’autonomia scolastica è quasi del tutto nominale, ed esistono pochi margini di discrezionalità, abbiamo intenzione di finanziare soprattutto dei laboratori. L’idea è quella di tenere le scuole aperte fino a sera, proprio come accade in Finlandia. Vogliamo creare corsi di recupero mirati a colmare le lacune
Nell’isola il livello degli studenti risulta catastrofico. «Abbiamo stanziato 30 milioni, terremo aperte le scuole fino a sera» sottolineate dall’Ocse in materia di competenze scientifiche, matematiche e di lettura. Già a partire dalle scuole primavera. L’Ocse ha dimostrato quanto i nostri ragazzi siano indietro rispetto al problem solving, ossia la capacità di risolvere i problemi attraverso ciò che si è appreso. I laboratori a tempo pieno, serviranno a colmare questo divario, endemico nella
scuola italiana, fra ciò che si sa e ciò che si sa fare delle proprie conoscenze. Una specie di doposcuola? Niente affatto. Fino alle diciassette, i ragazzi che necessitano di recuperare lavoreranno più che altro sulla dimensione testuale. Su testi, cioè che non vanno intesi come rigidamente legati alla letteratura, ma che si innervano in un’idea di cono-
Classifica delle regioni Nord Est
Nord Ovest
Centro
Sud
Sud-Isole
(Trentino, Friuli, Veneto, E. Romagna)
(Valle D’Aosta, Piemonte, Lombardia, Liguria)
(Toscana, Umbria, Marche, Lazio)
(Abruzzo, Molise, Campania, Puglia)
(Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna)
MEDIA MEDIA OCSE
510,3 MEDIA 496,6 MEDIA OCSE
494 MEDIA 496,6 MEDIA OCSE
478,3 MEDIA 496,6 MEDIA OCSE
443,6 MEDIA 496,6 MEDIA OCSE
SOLO IL NORD EST HA UNA MEDIA PIÙ ALTA DI QUELLA INTERNAZIONALE. IL NORD OVEST È PIÙ O MENO SUGLI STESSI LIVELLI. TUTTO IL RESTO VA PEGGIO. CATASTROFICI I DATI DI SICILIA, SARDEGNA, CALABRIA E BASILICATA IL RISULTATO È RICAVATO DALLA MEDIA DI COMPETENZE SCIENTIFICHE, MATEMATICHE E DI LETTURA DEGLI STUDENTI REGISTRATE DAL RAPPORTO OCSE PISA 2006
424,6 496,6
scenza più ampia. Anche i problemi scientifici sono testi, e come tali, bisogna fare in modo che i ragazzi imparino a interrogarli, interpretarli, e trarne risposte. Per far sì che tutto questo si traduca in fatti, ieri abbiamo già iniziato con la formazione dei referenti. E particolare attenzione sarà dedicata all’orientamento delle famiglie, perché non esiste una buona formazione scolastica, senza una fitta collaborazione fra insegnanti e genitori. Il tempo prolungato non rischia di diventare un’arma a doppio taglio? Molti ragazzi non la prenderanno bene. Abbiamo calcolato il rischio, ma in realtà abbiamo in mente una scuola in cui ci si possa anche divertire. Dopo le diciassette, moltissime scuole del nostro territorio daranno vita ad attività extracurriculari. Si faranno danza, teatro, e altre attività artistiche. Biblioteche e locali resteranno aperti, e soprattutto saranno benvenuti anche i familiari. Le lacune non si recuperano soltanto con sangue e lacrime.
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Socrate
libri e riviste
a scommessa di un sistema educativo di istruzione e di formazione di pari dignità è il filo conduttore del testo di Bertagna, Pensiero manuale. Il volume documenta la discussione sulle linee di politica educativa avviata nella XIV Legislatura: la centralità della persona umana, lo sviluppo di culture formative di pari dignità, il passaggio dal centralismo alla sussidiarietà. L’autore sostiene che garantire a tutti l’istruzione per almeno dodici anni è un dovere morale nonché un imperativo economico. L’istruzione rappresenta l’unica ricchezza strategica su cui contare: nessuno può lavorare senza studiare. Attraverso le riforme degli ultimi anni, il volume spiega come in Italia sia difficile ottenere un cambiamento. Giuseppe Bertagna Pensiero manuale Rubettino 2006
L L’assessore regionale racconta come funziona una delle esperienze riconosciute valide dall’Ocse
«Ecco la devolution lombarda» Colloquio con Gianni Rossoni di Francesco Lo Dico o sforzo di una istituzione come la nostra è quello di garantire, per quanto le compete, l’offerta di un sistema educativo modellato sempre più sulla persona e sempre meno sulla burocrazia degli apparati». Gianni Rossoni, assessore all’Istruzione e formazione della Regione Lombardia, ha il tono sicuro di chi punta dritto sulla propria strada, con una meta precisa. I dati dell’ultimo rapporto Ocse Pisa attribuiscono ai quindicenni del Nord Ovest competenze perfettamente in linea con quelle dei loro coetanei europei. Quali sono le ragioni di questo successo? La centralità della persona, l’autonomia degli istituti, la libertà di scelta all’interno di un sistema misto pubblico-privato: sono questi i fattori che hanno reso il sistema scolastico e formativo lombardo all’altezza dei Paesi europei più sviluppati. Lo sforzo di una istituzione come la nostra è quello di garantire, per quanto le compete, l’offerta di un sistema educativo modellato sempre più sulla persona e sempre meno sulla burocrazia degli apparati. Entrare in questa logica significa
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rivoluzionare anche il sistema dei finanziamenti, mettendo le risorse in capo agli allievi e non più alle strutture. Molti additano il monopolio statale come principale responsabile della scarsa competitività delle scuole italiane. La Lombardia ha intrapreso perciò un percorso di autonomia scolastica. Quali sono gli obiettivi della riforma? Innanzitutto dare all’Istruzione e Formazione professionale la stessa dignità che ha il sistema scolastico. Nella legge regionale 19/07, infatti, rafforziamo l’esperienza dei nostri percorsi triennali aggiungendo un quarto anno che porta ad una certificazione di terzo livello europeo ed un quinto anno propedeutico all’Università, così da creare un sistema parallelo a quello dell’Istruzione ma più incentrato sul “saper fare” che sul “sapere”. Accanto a questo garantiamo la certificazione delle competenze acquisite nel percorso di studi operando così un superamento di fatto anche se non formalmente - del valore legale del titolo di studio. E infine valutiamo i risultati dei singoli istituti formativi, anno per anno, attraverso l’azione di un valutatore indipendente.
Centralità della persona, sistema misto pubblico privato e autonomia degli istituti
”
Il rapporto Pisa evidenzia che la scuola funziona laddove vigono autonomia, valutazione e programmi flessibili. Anche se qualcuno ha definito la vostra riforma una fuga in avanti, non è più probabile che siano gli altri a essere rimasti indietro? È proprio così. La maggior autonomia consente agli istituti di rispondere più efficacemente ai propri bisogni e a quelli del territorio in cui operano; la valutazione responsabilizza dirigenti e docenti chiamandoli a dar conto del loro lavoro; la flessibilità dei programmi consente di calibrare l’offerta formativa sui bisogni degli allievi. Se in questi ultimi due campi abbiamo compiuto progressi concreti, nell’ambito dell’autonomia restiamo molto distanti dal resto d’Europa. Nella nostra legge indichiamo la vera prospettiva capace di rivoluzionare il sistema: la possibilità che siano le scuole a scegliere gli insegnanti, così come accade in gran parte dei Paesi del Continente. Purtroppo ci scontriamo con una concezione impiegatizia del ruolo insegnante che è tra le cause del fallimento della nostra scuola. Che cosa devono aspettarsi i vostri studenti nei prossimi anni? Le iscrizioni ai percorsi triennali per l’anno 2008/2009 avvengono con il nuovo sistema della "Dote", l’insieme di risorse di cui dispone l’allievo che si iscrive al primo anno dei corsi regionali, e che gli da’ la possibilità di scegliere dove realizzare la propria formazione. Questo meccani-
smo sta rivoluzionando il sistema degli enti di formazione, che si vedono così costretti a rivedere la propria offerta anche in base alle richieste di una domanda finalmente libera di scegliere. Naturalmente il sistema formativo lombardo si fonda anche su una stretta connessione con il tessuto economico-produttivo, del quale intercetta e accoglie le esigenze formando le figure professionali richieste dalle imprese. Regione Lombardia crede nel suo sistema di Istruzione e Formazione professionale: lo scorso anno gli iscritti sono arrivati a 31mila, con una richiesta inevasa di oltre 20mila domande. Detto della Lombardia che è una felice eccezione, quali sono le ragioni che hanno portato la scuola italiana al “disastro pedagogico”? La liceizzazione del sistema educativo, che ha portato alla svilimento del ruolo degli istituti tecnici e della Formazione professionale in Italia, tanto da farne una scuola di serie B. Si è modellato il sistema scolastico secondo il presupposto del primato della cultura sul saper fare. La presunzione che sia impossibile educare insegnando un lavoro è uno dei motivi che impediscono di riformare seriamente il sistema educativo italiano. Educare, invece, non è solo istruire, è introdurre alla realtà, è coltivare lo spirito critico, vale a dire al capacità di giudizio, e la creatività. Questo della valenza educativa della formazione professionale è il cuore dei nostri percorsi regionali.
l volume di Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, descrive la «storia di una scomparsa». La scomparsa della scuola secondaria di secondo grado. L’autore traccia le linee essenziali della storia dell’istruzione dalle origini risorgimentali fino alla riforma Moratti. Fin dalla fondazione dello Stato liberale la scuola riveste un ruolo primario nella fase di unificazione e di edificazione della nazione. L’autore spiega il confronto, attorno al tema dell’educazione, tra la cultura cattolica e quella comunista e dedica attenzione all’istruzione tecnica e professionale nel succedersi dei regimi politici e del (mancato) processo riformatore. Adolfo Scotto di Luzio La scuola degli Italiani Il Mulino, Bologna, 2007
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a cura di Domenico Sugamiele
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Socrate
I consigli della responsabile del progetto Ocse Pisa
«L’autonomia può salvarvi»
FINLANDIA COREA CANADA AUSTRALIA NUOVA ZELANDA IRLANDA SVEZIA OLANDA
«A
Cioè? I ragazzi del Nord Ovest e del Nord Est del vostro Paese, non soltanto mostrano competenze scolastiche in linea con il resto del mondo e la media Ocse, ma in alcuni casi raggiungono livelli di eccellenza. Non così al Centro, dove si registrano molte carenze, e al Sud, dove i risultati sono addirittura catastrofici. Siete un Paese diviso, con una parte che sta nella zona alta della classifica
BELGIO NORVEGIA SVIZZERA GIAPPONE POLONIA FRANCIA STATI UNITI DANIMARCA ISLANDA
507,0 499,7 499,1 498,1 496,6 496,2 495,2 492,3 491,7
GERMANIA AUSTRIA REPUBLICA CECA UNGHERIA SPAGNA LUSSEMBURGO PORTOGALLO ITALIA
491,4 490,7 488,5 481,9 480,5 479,4 477,6 475,7
GUIDA LA FINLANDIA. MEGLIO DI NOI COREA, ISLANDA E LUSSEMBURGO FONTE: OCSE PISA 2006. CLASSIFICA DI RENDIMENTO IN SCIENZE CALCOLATA
Colloquio con Karin Zimmer di Francesco Lo Dico nche se non è nostro compito dare consigli o linee politiche, i numeri di Ocse Pisa riconfermano anche quest’anno una precisa tendenza: l’istruzione è più efficiente nei Paesi in cui le scuole hanno maggiore autonomia, sia a livello finanziario che nella gestione del personale. A sentire Karin Zimmer, responsabile del progetto Pisa (Programme for International Student Assessment), la situazione dell’Italia non deve essere per niente buona. La classifica condanna infatti i nostri quindicenni nelle ultime posizioni, e di fronte alla brutale schiettezza della matematica, non ci resta che l’appiglio dell’interpretazione. Dottoressa, non è che i nostri ragazzi, più abituati alla teoria che alla pratica, risultano così impreparati soltanto perché hanno poca confidenza con i vostri test? È un’obiezione che ho già sentito, ma la risposta è molto semplice. L’indagine Pisa valuta competenze scientifiche, matematiche e di lettura tramite questionari. Ma l’Italia, come nelle indagini precedenti, sembra spaccata in due.
543,5 534,1 527,9 525,4 521,6 515,5 514,3 513,1
la classifica
mondiale e un’altra, prevalente, che si colloca ai livelli più bassi. Un problema che ci è molto familiare. Voi del Pisa come ve lo spiegate? Ci sono altri casi simili al vostro, come ad esempio in Belgio. La presenza di risultati così disomogenei indica che spesso l’ uniformità amministrativa e giuridica del sistema nazionale di istruzione non basta, per garantire uniformità. E questo vale sia per
il livello di prestazione del servizio educativo offerto agli studenti, sia per la qualità degli apprendimenti. Anche il Pisa punta il dito sugli insegnanti. Niente affatto. La nostra esperienza ci dice che il successo delle politiche scolastiche ha a che fare piuttosto con un concetto di modernità. Un sistema scolastico competitivo, vincente nel mondo del lavoro così come si profila oggi, dipende da molti ingredienti. Tre di questi sono però indispensabili. Bene, ci dia subito la ricetta. Il primo ingrediente è legato al grado di autonomia delle scuole. Laddove i dirigenti scolastici hanno ampio potere decisionale in materia di gestione economica e del personale, i risultati sono decisamente buoni. In secondo luogo, per migliorare qualità affidabilità degli istituti, è necessario che le scuole siano sottoposte a valutazione, attraverso la pubblicazione dei risultati delle verifiche. Da ultimo, i nostri dati dicono che l’efficacia dell’insegnamento si accresce grazie a programmi personalizzati e flessibili. Nei Paesi dove s’insegnano troppe materie, i risultati peggio-
rano a scapito degli apprendimenti di base. Mi aspettavo una dritta anche sugli insegnanti. Qui da noi sono pagati pochissimo, e molti sostengono che sono demotivati. Le posso dire che in Finlandia, uno dei Paesi più brillanti in fatto di istruzione, gli insegnanti sono sottoposti a un aggiornamento continuo e comunque retribuito. Vengono cioè valutati, e fanno carriera in base ai risultati. Temo che nell’immediato non risaliremo la classifica. Può farci il nome di un Paese che nell’ultimo rapporto è migliorato? Ci serve un po’ di speranza. Rispetto a Pisa 2003, ha fatto notevoli progressi la Polonia. Nel 2002, infatti, il governo ha riformato il sistema scolastico in direzione di una maggiore apertura. È stata introdotta cioè maggiore libertà di scelta nei curriculum e nei libri di testo adottati, a condizione che fossero conformi al programma di base. Una scelta pluralista, sorretta da verifiche e test di orientamento, che ha permesso a migliaia di giovani quindicenni di poter affrontare gli studi più consoni alle loro capacità e ai loro interessi.
Ma il governo Prodi-Fioroni ha fatto il contrario di Valentina Aprea L’indagine Ocse Pisa 2006 ci consegna un Paese diviso rispetto alla qualità degli apprendimenti dei nostri quindicenni, con una parte (il Nord) che sta nella zona alta della classifica mondiale e un’altra (Centro-Sud), purtroppo prevalente, che si colloca ai livelli più bassi, come già nel 2000 e nel 2003. Insomma, nonostante un’uniformità amministrativa e giuridica del sistema nazionale di istruzione, non esiste uniformità nazionale dei livelli di apprendimento. È la fine del “mito della scuola unica” che garantirebbe uguaglianza delle opportunità educative, e soprattutto dei risultati. In verità, anche il Nord non è esente da fenomeni di dispersione scolastica, ma anche in questo caso esistono differenze. Ricercando le cause ad esempio tra dispersione scolastica e Pil pro capite emerge che in alcune Regioni
coesistono alti livelli di dispersione e di ricchezze (quelle del Nord); in altre invece elevati tassi di dispersione si accompagnano ad un ridotto Pil pro capite (Regioni del Sud). Certo, le uscite precoci dal sistema che si registrano al Nord risultano “compensate” dalle maggiori competenze dei giovani che continuano a studiare. Ma sarebbe un errore prevedere perfino politiche omogenee di contrasto all’abbandono nei due territori. Per le Regioni del Mezzogiorno si tratta di fronteggiare una situazione di svantaggio complessivo, sia economico che sociale, in alcune zone del Nord si tratta piuttosto di mettere la scuola in grado di collegarsi maggiormente con il mondo del lavoro e di sostenere la competizione valoriale e cognitiva che si viene ad istaurare tra ambienti di
apprendimento formali e luoghi di lavoro. È indubbio, tuttavia, che al Nord come al Sud per contrastare significativamente l’abbandono scolastico e innalzare la qualità degli apprendimenti occorre investire in una istruzione che sia capace di divenire un reale fattore di promozione della coesione sociale, della cittadinanza attiva, dell’alternanza scuola lavoro, dell’educazione per tutta la vita. Per superare il divario Nord-Sud, anziché invocare ricette uniformi e soltanto di tipo scolastico da anni Sessanta (più tempo scuola e più apprendimento scolastico, corsi di recupero) occorre, dunque, rilanciare e valorizzare la “sussidiarietà orizzontale” (modelli organizzativi policentrici) e quella “verticale”(decentramento, autonomia delle scuole). Solo attuando queste strategie - che raccontano di forti
sinergie capaci di valorizzare progettualità e innovazione ma anche personalizzazione dei percorsi - si può aiutare realmente il Sud. Ovviamente, nessuna adozione delle strategie di sussidiarietà appena indicate è possibile senza rafforzare i processi di valutazione interni ed esterni alle scuole, inopinatamente interrotti dal Governo Prodi allo scopo di fare un dispetto alla riforma introdotta dal Governo Berlusconi. Attraverso queste tre leve (già attivate nella scorsa Legislatura e brutalmente bloccate dal Ministro Fioroni) e cioè autonomia, valutazione e personalizzazione degli studi, la Polonia, in posizione non certo più favorevole della nostra, ha recuperato molte posizioni nella classifica Pisa. Se l’ha fatto la Polonia, perché non possiamo farlo anche noi?
1968-2008 quarant’anni dopo
L’APERTURA 31 GENNAIO • ORE 15,00 UNIVERSITÀ LATERANENSE • PIAZZA S.GIOVANNI IN LATERANO, 4 SALUTO
INTRODUTTIVO
Monsignor Rino Fisichella
Siamo ancora prigionieri di vecchie e false idee È arrivato il momento di voltare pagina
INTERVENTI André Glucksmann Michael Novak Lorenzo Ornaghi Krzysztof Zanussi presiede Renato Cristin IL DIBATTITO
1
FEBBRAIO • ORE 09,30 TEMPIO DI ADRIANO • PIAZZA DI PIETRA
RELAZIONI/L’IDEOLOGIA Renzo Foa Gennaro Malgieri Monsignor Luigi Negri DISCUSSANT Renato Brunetta, Enrico Cisnetto, Lucetta Scaraffia FORUM/MEDIA E CULTURA Ferruccio de Bortoli Mauro Mazza Roberto Napoletano Gianni Riotta presiede Andrea Mancia
MEETING INTERNAZIONALE
CAMBIO DI STAGIONE ROMA • 31 GENNAIO 1 e 2 FEBBRAIO 2008
IL DIBATTITO FEBBRAIO • ORE 15,00 TEMPIO DI ADRIANO • PIAZZA DI PIETRA 1
RELAZIONI/LA VITA Francesco Alberoni Sergio Belardinelli Eugenia Roccella DISCUSSANT Giuliano Cazzola Assuntina Morresi Marcello Veneziani FORUM/I RAGAZZI DEL 2008 Mara Carfagna Giorgia Meloni Paolo Messa Gian Luigi Paragone presiede Angelo Crespi LE CONCLUSIONI 2 FEBBRAIO • ORE 10,00 PALAZZO DEI CONGRESSI VIA DELLA PITTURA Ferdinando Adornato José María Aznar Pier Ferdinando Casini Gianfranco Fini introduce Giuseppe Gargani presiede Angelo Sanza
fondazione
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economia Ultimi ritocchi a Sintonia, finanziaria per il business delle infrastrutture
Benetton, un tesoretto da spendere all’estero di Giuseppe Failla addio della spagnola Abertis a Schema28 era scontato da mesi, almeno da quando è apparso chiaro a tutti che la fusione con la ex Autostrade non sarebbe andata in porto. Meno scontato l’arrivederci con il quale si sono salutati gli ex soci. Il motivo dell’interesse di Salvador Alemany Mas per il nostro Paese ha un nome: Sintonia, la holding delle partecipazioni infrastrutturali dei Benetton.
L’
tuale contesto economico, ma che i Benetton puntano soprattutto a mobilitare all’estero piuttosto che in Italia. Abertis questo lo sa e spera di potere avere Sintonia come partner in operazioni future. L’orientamento della holding è quello di trovare delle occasioni di investimento prevalentemente all’estero, ed è per questo che, fatta eccezione per Mediobanca, gli altri soci saranno tutti stranieri.
Sintonia, la scorsa settimana, ha depositato il patto di sindacato sottoscritto con i primi due azionisti cui è stato aperto il capitale: Goldman Sachs e Mediobanca. Lo schema prevede, secondo quanto dichiarato da Gilberto Benetton all’agenzia Mf-Dow Jones, che il progetto coinvolga un massimo di tre ulteriori nuovi soci provenienti, possibilmente, da Est Europa, Medio Oriente e Asia. L’obiettivo è quello di raggiungere, attraverso l’aumento di capitale sottoscritto dai nuovi azionisti, una dotazione di 4 miliardi di euro, cui si aggiungono i due miliardi di euro di linee di credito ottenuti recentemente dalla società. Una volta a regime, Sintonia, e considerando anche una leggera leva finanziaria, avrà una capacità potenziale di investimento vicina ai 10 miliardi di euro. Una cifra impressionante, soprattutto nell’at-
Dopo la mancata fusione con Abertis il gruppo di Ponzano non vuole investire in Italia. Gli spagnoli sperano di fare nuovi affari in futuro Sintonia in Italia supporterà i piani di investimento della controllata Gemina e di Atlantia, anche se quest’ultima può fare affidamento all’autofinanziamento grazie alla generazione di cassa. La vocazione esterofila della società, letta alcuni mesi fa (e in parte con ragione) come una reazione all’ostracismo incondizionato del governo Prodi all’integrazione fra Autostrade e Abertis, nasce dalla voglia di replicare all’estero lo schema di partecipazioni detenu-
ROMA. L’altra faccia della medaglia
Il boom occupazionale non riguarda gli under 25: il 20,2 per cento è a spasso
del boom dell’occupazione è il difficile ingresso nel mondo del lavoro dei più giovani. Stando agli ultimi dati di Eurostat (settembre 2007) il tasso di disoccupazione degli under 25 italiani è al 20,2 per cento, tra i più alti d’Europa. Peggio di noi solamente Romania e Polonia, rispettivamente al 21 e 20,5 per cento, e la Grecia, fanalino di coda con il 22,6. I dati diventano allarmanti se consideriamo il Mezzogiorno: in Campania e Calabria la percentuale supera il 35 per cento, mentre la Sicilia sfiora addirittura il 40. L’Italia è un maglia nera anche di fronte ai partner dell’Est, con tassi inferiori al nostro Sud. Al contrario, Paesi più virtuosi di noi hanno registrato numeri più contenuti: Austria e Germania, rispettivamente, non vanno oltre l’8,3 e il 10,8 per cento; l’Olanda è un miraggio, con il suo 5,4. Eppure il tasso di disoccupazione italiano è inferiore alla media europea (7,3 per cento) tanto da raggiungere a settembre il 5,6, il livello più basso dal 1992. Come spiegare tale incongruenza? La tardiva immissione nel mercato
Troppo giovani per poter lavorare di Alessio Maniscalco del lavoro può essere una risposta. Ma non è la sola. Gli studenti italiani, infatti, sono spesso vittime del clichè della laurea triennale come pezzo di carta che non vale nulla. Gli si dice che l’iter universitario debba necessariamente proseguire in percorsi formativi talvolta superflui ai fini occupazionali come lauree specialistiche e costosi master. Ma le lauree ritenute brevi (a volte con dispregio), una volta seminate producono i loro frutti. Emblematico quanto testimonia il rapporto annuale del Cilea (Consorzio interuniversitario lombardo per l’elaborazione automatica), nell’ambito del progetto Stella (Statistica in Tema di Laureati e Lavoro). E questo lavoro traccia un quadro della situazione che rasserenerebbe anche i più scettici. I laureati triennali che optano per un in-
gresso immediato nel mercato del lavoro, trovano un’occupazione nel breve periodo e con stipendi soddisfacenti (chi è in possesso di una laurea triennale ha una retribuzione media di 1175 euro, mentre i laureati magistrali un salario medio di 1173 euro). Ma la questione non si esaurisce qui. Nell’architettura del sistema di istruzione italiano si palesa la mancanza di dialogo tra le istituzioni formative e le imprese. Scrive il professor Michele Tiraboschi sul Bollettino Adapt dello scorso 14 gennaio: «L’Italia sconta il problema del mancato raccordo tra scuola e mercato del lavoro. E soprattutto il mancato decollo di alcuni strumenti fondamentali contenuti nella Legge Biagi. La presenza di uffici di orientamento e collocamento nelle scuole e nelle università, in primo luo-
to in Italia dal gruppo Benetton in autostrade, aeroporti e stazioni.
Da Ponzano è stato spiegato che l’esame dei primi progetti è già iniziato. Il sogno, è trapelato, è quello di partecipare alla privatizzazione delle autostrade statunitensi, una volta che il progetto dovesse venire avviato. Sui nomi dei possibili nuovi soci ancora regna un riserbo molto stretto. Si sa soltanto che sono state siglate tre lettere di confidenzialità con altrettanti potenziali investitori. È plausibile che un candidato venga scelto a breve, anche perché da questo passaggio dipende l’avvio della scelta dell’amministratore delegato di Sintonia. Prima di decidere il futuro capoazienda, i Benetton vogliono che almeno siano noti la maggioranza dei soci di Sintonia, che nel progetto non dovrebbero essere più di sei. Dalla lettura del patto si vede come i Benetton abbiano fatto tesoro dalle vicessitudini recenti. In particolare, è stato deciso che in caso di stallo decisionale, il gruppo di Ponzano Veneto si riservi il diritto di riacquistare le azioni in mano all’azionista che ha causato lo stop. Proprio quello che sarebbe servito in passato per evitare le esperienze negative vissute con Macquarie in Adr e in parte con Abertis in Schema 28
go. Ma anche l’apprendistato di primo livello, quello cioè rivolto a costruire percorsi formativi ed educativi in contesti e assetti lavorativi. Uno strumento ampiamente sperimentato nei Paesi più virtuosi e che bene si concilia con le logiche della nuova economia che hanno definitivamente rotto la barriera tra scuola e impresa». I percorsi formativi dovrebbero quindi non limitarsi a essere meri strumenti di apprendimento, ma anche delle opportunità che consentano agli studenti di decifrare le richieste del mercato del lavoro. Le istituzioni formative sono chiamate pertanto a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, tramite l’istituzione di servizi di placement (ovvero di collocamento) e realizzando convenzioni con le imprese destinate a fornire ai propri studenti occasioni di stage, oramai indispensabili per inserirsi nel mondo del lavoro. Tutti strumenti non efficacemente implementati nel nostro Paese. Un’occasione persa per ridurre lo sfasamento tra scuola, università e mercato del lavoro. www.alessiomaniscalco.blogspot.com
economia
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d i a r i o
d e l
g i o r n o
Conti, Italia fuori dalla lista nera della Ue
La Ue pronostica per le imprese del settore una crescita esponenziale
Energia pulita, un affare da 200 miliardi di euro di Giuseppe Latour ischia di tramutarsi in un affare la lunga guerra dell’Unione europea contro le emissioni di gas serra. Se l’obiettivo è raggiungere quota 20 per cento di energia prodotta con rinnovabili entro il 2020 (a fronte dell’8,5 del 2005), si ipotizzano anche la creazione di un milione di nuovi posti di lavoro e, soprattutto, un giro d’affari da almeno 200 miliardi di euro entro il 2016. Un numero al quale si arriva sommando i maggiori profitti (circa 150 miliardi all’anno) che attendono le industrie di solare, eolico e biocarburanti con altri 50 miliardi da recuperare attraverso le operazioni alla futura borsa delle emissioni.
R
Questa trasformazi one avrà un costo. Salato per i cittadini dell’Unione, con oneri sulle bollette pari a 60 miliardi di euro in più. Molto salato per l’Italia, che dovrà produrre aumentare del 17 per cento la propria quota di rinnovabili. E sarà ancora più salato per l’industria europea, che teme la desertificazione del già martoriato panorama produttivo continentale, con il rischio che saranno molte le realtà a delocalizzare, a cercare oasi più comprensive dell’Unione europea verso l’inquinamento.Tanto che, e gli uomini di Barroso si stanno già muovendo in questa direzione, sarebbe molto proficuo coinvolgere in questa battaglia per l’ambiente altri giganti del pianeta, Stati Uniti, India e Cina su tutti. Resta poi l’incognita di obiettivi che sembrano troppo ambiziosi. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia ed economista, non ha dubbi: «Sarà tanto se arriveremo a un 12-13 per cento. I
tedeschi probabilmente ce la faranno, ma hanno una burocrazia che funziona, la spinta del carbone e soprattutto il nucleare». Per gli altri, italiani inclusi, poche speranze di successo. «Si continua a illudere la gente che i nostri maggiori consumi possano essere coperti dall’avanzata delle rinnovabili, ma non è così», chiosa l’economista.
Alla riconversione energetica non ci sono alternative, visto che l’inattività, si legga prezzo del petrolio, potrebbe costare fino a dieci volte in più. E mentre l’Italia, nel periodo 1990-2007, aumentava le proprie emissioni anziché ridurle portandosi a distanza di sicurezza dagli obiettivi del primo
In Italia, che deve ridurre del 17 per cento le proprie emissioni di CO2, soltanto Sorgenia riesce a fare concorrenza a Enel round di Kyoto, alcune realtà facevano eccezione e adesso si trovano a trainare gli altri. Come Enel che, proprio negli ultimi 18 anni, ha ridotto del 20 per cento le proprie emissioni di Co2. Un livello da abbassare ulteriormente nei prossimi anni. Attualmente, infatti, ha in piedi un piano di investimenti da 4,1 miliardi di euro fino al 2011. Circa 3 dei quali per lo sviluppo delle tecnologie per il ricavo di energia da fonte rinnovabile. Altri 200 milioni saranno usati per progetti innovativi nel settore delle energie “verdi”, come la multigenerazione delle
Eolie o il progetto “Archimede” di Priolo Gargallo. Trecento milioni saranno investiti in tecnologie per l’efficienza energetica, mentre 330 milioni andranno alla ricerca su impianti a zero emissioni e sullo sviluppo delle tecnologie legate all’idrogeno. Due settori che passano dall’impianto di cattura e sequestro del Co2 di Brindisi e da quello sperimentale a idrogeno di Fusina. Stessa filosofia seguita da Sorgenia, gruppo Cir, che sta spingendo sull’energia verde forse più dell’ex monopolista. «Da quattro lavoriamo su questo fronte, dove abbiamo visto aprirsi spazi di crescita importanti», spiega l’amministratore delegato, Massimo Orlandi.
Nel piano investimenti 2007/2011 ci sono circa tre miliardi di euro sulle rinnovabili, con l’obiettivo di ottenere 22 megawatt dal fotovoltaico e almeno 400 dall’eolico. A breve saranno annunciati nuovi investimenti sia per i buoni risultati ottenuti in Italia sia, soprattutto, per dare seguito alla politica di acquisizione all’estero. Ultima preda è stata la francese Sfe, seconda società transalpina nel settore eolico con 100 megawatt installati, che ha di fatto raddoppiato la capacità produttiva di Sorgenia nell’energia prodotta dal vento. Rilancio anche su biomasse e bioenergia, che per adesso hanno deluso le aspettative. Perché, aggiunge Orlandi, se vuole raggiungere gli obiettivi della Ue l’Italia deve rivedere le proprie priorità: «L’autorizzazione degli impianti, in capo alle Regioni dopo la riforma del titolo V, deve passare al livello statale, altrimenti il nostro Paese continuerà a essere troppo lento».
A maggio del 2008 l’Italia rientrerà nella lista dei partner più rigorosi dell’Unione europea: si chiude infatti il piano di rientro per l’extragettito che era stata concordato da Roma con Bruxelles nel 2005 per garantirsi una politica più espansiva. Ad annunciarlo il mai tenero con il Belpaese, Joaquin Almunia. «Una volta che saranno notificati ad aprile i dati sul deficit del 2007 e una volta che avremo le previsioni del 2008 a maggio», ha detto il commissario Ue all’Economia, «con altissima probabilità vedrà abrogata la procedura per deficit eccessivo, aperta nei suoi confronti nel 2005». Il politico spagnolo ha anche voluto riconoscere l’onore delle armi a Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa, con i quali si erano registrate frizioni nei mesi scorsi. «Mi auguro», ha spiegato, «che si vada avanti con le politiche lodevoli portate avanti da loro due.
Il Leone alla conquista della Romania In attesa di capire se Generali ha intenzione o meno, come chiedono fondi e piccoli azionisti, di puntare ai colossi continentali, da Trieste hanno annunciato di guardare alla romena Aisban. «La Romania è un paese che ci interessa, abbiamo fatto un’offerta per la Asiban e siamo entrati nella short list. Ma non è un’acquisizione che facciamo ad ogni costo», ha spiegato l’amministratore delegato per le attività estere, Sergio Balbinot.
Bianchi: avanti con Alitalia-Air France Non si ferma l’avvicinamento di Alitalia ad Air France, nonostante le speranze di Carlo Toto e dei politici lombardi, in testa Roberto Formigoni. E si andrà avanti se ci sarà un prolungamento del governo per fare elettorale e andare al voto. Ha spiegato il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi: «Si è decisa questa linea perché è una procedura fissata e sarebbe irragionevole fermarla. Quanto alla possibilità di chiudere l’operazione con un governo in carica solo per l’ordinaria amministrazione nulla fa prevedere che si possa fermare la cosa». Per concludere: «Solo nel caso in cui si vada a un nuovo governo, si dovrà ridiscutere tutto». Intanto oggi il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, chiede al Cipe l’autorizzazione per due opere di collegamento per Malpensa: il collegamento ferroviario ArcisateStabio verso la Svizzera, con un costo di 223 milioni di euro, e la Strada statale Padana superiore tra Magenta e la tangenziale Ovest di Milano, che avrà un costo di circa 281 milioni di euro. «Abbiamo voluto procedere con queste opere», ha detto Di Pietro, «perché siamo convinti che Malpensa sia un asset per l’intero Paese indipendentemente dal futuro di Alitalia».
Boeing rallenterà nel 2008 Dati contrastanti per il colosso americano dell’aerospaziale Boeing. L’azienda ha annunciato per il quarto trimestre del 2007 utili in crescita, grazie alle forti vendite dei suoi velivoli commerciali. Spaventano invece i mercati le prospettive per l’anno in corso: Boeing prevede una quotazione compresa tra 5,70-5,85 dollari, al di sotto dei 5,95 dollari del consensus. Per il 2009 la società stima una consistente crescita degli utili per azione.
SocGen non esclude una scalata Il sistema francese continua a studiare come blindare il controllo di SocGen, dopo la maxi truffa scoperta in questi giorni. Intanto Daniel Bouton, il suo Ceo, avrebbe detto in occasione dell’ultimo Cda di essere disposto a «studiare un’offerta amichevole di acquisizione per la banca», pur ribadendo il suo impegno a mantenere «l’indipendenza dell’istituto. I soci avrebbero deciso di non cambiare i vertici della banca in questa fase, ma Bouton sarebbe stato escluso dalla task force per uscire dall’emergenza.
Borsa in calo, si paga l’incertezza Usa La Borsa chiude a -0,82 per cento in attesa delle decisioni della Fed. La Fiat scende sotto la soglia psicologica dei 16 euro.
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società
I coniugi di Erba: due italiani assassini “banali”
Identikit di Rosa e Olindo gli spazzini della morte di Pier Mario Fasanotti rocesso ai tranquilli mostri di Erba. Tanto pubblico, cronisti d’eccezione. Come un tempo, quando (1950) a Milano la gente voleva vedere com’era fatta la “belva di via San Gregorio”, ossia quella Rina Fort che aveva massacrato, nel ’46, la moglie( incinta) del suo amante e i suoi tre bambini. Scriveva Buzzati, impressionato dalla vittima più piccola, sul seggiolone: «…la testa piegata da una parte come per un sonno improvviso, fermo anche il sangue i cui rigagnoli simili a polipi immondi, lucevano sempre meno ai riflessi di una lampadina da 25 candele, facendosi sempre più neri». Come un tempo, quando (1947) al tribunale di Viterbo arrivarono anche le contadine con le scarpe in mano pur di guardare in faccia il musicista Arnaldo Graziosi, accusato di aver sparato alla moglie mentre era a letto con la figlioletta. Come quando…Stop: come sempre. I processi per la piccola borghesia sono come un’opera offerta ai ricchi alla Scala di Milano o al Regio di Parma. Non c’è musica, ma c’è mimica facciale nella quale scovare le ragioni del male. Quel male che è stato definito «banale», ossia universale, ma che in fondo è qualcosa di più terribile: è semplice.
P
L’opera al nero attira, aldilà del morboso che solleva in ognuno di noi, spalmato via etere dal giornalismo birbantello. Nel caso degli sbiaditi coniugi di Erba, seduti dietro a sbarre bizzarramente color oro, c’è l’Italia che si consola. Sì, l’Italia mai abituata a trovare soluzioni ai gialli comuni e di di mafia o di finanza, l’Italia che ha metabolizzato l’arguto scetticismo di Sciascia, l’Italia che vede i carabinieri del Ris perfetti solo in televisione, finalmente sa che quei due che amavano tanto il silenzio murato della loro casa e della loro anima, sono colpevoli. Il delitto e i suoi autori da una parte, e le vittime dall’altra. In mezzo un padre che ha avuto la dignità mo-
rale del perdono e ora ha il decoro di limitarsi a una stretta di mano con il genero tunisino Azouz, ormai troppo divo per essere credibile come vaso di lutto. Quell’Azouz che è andato in carcere per spaccio di droga, quell’immigrato che ha ricevuto le scuse ufficiali di una Brianza del medioevo umoral-leghista e incapace di sondare le proprie viscere dove, eh sì, si possono incistare la ferocia, l’odio per chi viene oltre in mare di Sicilia, la programmazione patologicamente impiegatizia di plurimi delitti. Quei due, Rosa e Olindo. Nomi che fanno pensare a tutto salvo che coltelli e sangue. Quelli son già nel girone penitenziale dei dannati, anche se nessun Dante potrà descrivere i movimenti interni della loro colpa, anche se nessun Virgilio è in grado di ascoltare il loro lamento. Sono
L’aula del tribunale di Como trasformata in un palcoscenico da melodramma muti e resteranno muti: non tanto per castigo, quanto per afasia dell’anima. Quello che possono dire l’hanno già detto, le ritrattazioni sono espedienti da legulei. Il martello del giudice ha già fracassato il loro futuro. Ma si deve pur vederli, studiarli come insetti del crimine. Se ne stanno lì. Lui ancora più feroce perché impietrito, o indifferente, lei a continuare a rassettare il golf e la camicia del marito. Commentatori eccellenti come Natalia Aspesi, notando il rossetto e i gesti coniugalmente amorevoli della donna che ha sgozzato un bambino, ha fatto cenno alla «seduzione». Ma via: è pur vero che «la forcuta sciagura» (Shakespeare) può avere le movenze di astuta puttana, è pur vero che dall’orlo dell’abisso siamo
attratti (Nietzsche), ma quello di Rosa Romani è accudimento. Lei, con la pinguedine che avvolge anche la sua mente, accudisce il suo marito-bambinone, quel rotweiller che s’è avventato con furia contro i chiassosi vicini di casa. Ora deve imboccare, accarezzare il cagnaccio grigio che una notte ha assecondato la consorte, così avida di tranquillità svizzera e forse così dolente per il suo ventre sterile dinanzi a un bambino in triciclo, a un giovane uomo che le mostrava volgarmente la sua mascolinità, a una donna (Raffaella Castagna) che per amore s’era fatta addirittura musulmana.
S o n t u t t i lì al tribunale di Como ad aspettare un’espiazione. No: ci sarà soltanto il rumore della chiave delle celle. Un futuro lugubremente meccanico per coloro che hanno considerato il delitto un semplice affaruccio da sbrigare prima di andare da McDonald. Strano ma vero: dopo tanto sangue, viene sempre fame, come se l’adrenalina dell’ultima delle Parche si fosse essiccata e lasciasse il posto a impulsi gastrici. Anche Doretta Graneris di Vercelli, dopo aver spazzato via un’intera famiglia( 1975), andò in pizzeria. Quei due dietro le sbarre gialle di mestiere facevano le pulizie. Lei nelle case dei benestanti, lui come netturbino. Spazzini della morte, hanno fatto ordine attorno alla loro esistenza che intendevano proteggere con pareti di sughero per silenziare la musica orrendamente araba, gli schiamazzi, i «festini», la sgangherata ma pur lecita voglia di vivere di gente felice. Che strumenti avevano? Impugnarono quel che il mestiere offriva loro, la ramazza. Invece delle scope hanno afferrato coltelli e bastoni. Un lavoro sporco ma necessario. Definitivo. E la coscienza? Aveva ragione Bernard Shaw:«L’assassinio è una forma estrema di censura». E noi, al processo, diremo quel che gridò Macbeth:«Mi sono rimpinzato di orrori».
I protagonisti dell’eccidio di Erba: Rosa e Olindo, il padre di Raffaella Castagna e il marito Azouz
cultura
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Promemoria sui vizi privati e le pubbliche virtù del Generale
No. Garibaldi non regge come mito fondatore di Angela Pellicciari dei due mondi fatto da Denegri: «M’ha sempre portato cinesi nel numero imbarcato e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie».
aribaldi è “il simbolo dell’unità nazionale e l’eroe della religione civile italiana”: questo l’occhiello che accompagnava su liberal del 25 gennaio l’articolo di Riccardo Paradisi a commento del nuovo libro di Aldo Ricci che “rivaluta il mito” Garibaldi. Verrebbe da dire che se siamo ridotti a ricorrere a Garibaldi per dare consistenza all’unità nazionale siamo ridotti male. Tre sono i grandi meriti che vengono attribuiti al generale: aver contribuito in modo determinante all’unificazione italiana consegnando a Vittorio Emanuele il più importante e ricco regno d’Italia, il Regno delle Due Sicilie; aver combattuto guerre di liberazione in entrambi gli emisferi; essersi ritirato in buon ordine a Caprera, novello Cincinnato, quando il suo braccio era diventato ingombrante. Entriamo brevemente nel dettaglio. Primo: qualche anno fa liberal edizioni ha pubblicato un testo da me curato (I panni sporchi dei mille) in cui ripercorro la storia della spedizione dei Mille a partire dalle più importanti fonti liberali dell’epoca: le lettere e gli articoli dello storico siciliano Giuseppe La Farina, segretario della Società Nazionale, il Diario dell’ammiraglio Persano e il pamphlet del deputato e studioso Pier Carlo Boggio Cavour o Garibaldi?
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Queste testimonianze, al di sopra di ogni sospetto, documentano come l’impresa dei Mille fosse ideata e programmata non da Garibaldi ma dal duo Cavour-La Farina (per quattro anni si erano visti tutte le mattine prima dell’alba a palazzo Cavour); come l’ammiraglio Persano avesse potuto organizzare lo sbarco di uomini, armi e munizioni sulle coste siciliane, grazie al denaro da lui profuso a piene mani per corrompere gli ufficiali borbonici; come la dittatura garibaldina in Sicilia fosse paragonabile all’operato dei Vandali o degli Unni (per usare le espressioni di La Farina e Boggio). Secondo: Garibaldi libertador. A. Vittorio Vecchj è autore, fra l’altro, di una biografia di Garibaldi pubblicata in tre volumi nel 1882. La vita e le geste di Giuseppe Garibaldi si avvale della prefazione di Giosuè Carducci che plaude alla scelta dell’editore: “Approvai che, mancando io, Ella invitasse il signor Vecchj a far ciò che io non potei”. Al libro di Vecchj, che è libro apprezzato nell’Ottocento, è capitata una sorte singolare: è divenuto introvabile. A Roma, che io sappia, ne esiste un’unica copia alla biblioteca di storia moderna e contemporanea: copia mutilata, perché man-
Emulo di Cesare, è lo stesso Garibaldi a scrivere un libro di Memorie pieno di preziosi dettagli sulla sua impareggiabile vita. Del viaggio Callao-CantonCallao sappiamo praticamente tutto: giorni di traversata, carichi trasportati, traversie. Manca un unico particolare: non viene specificato con che tipo di merce, dopo aver venduto a condizioni vantaggiose il guano in Cina, la Carmen abbia fatto ritorno in Perù. Terzo: se non è un “liberatore”, o, perlomeno, se lo è a corrente alternata, il generale è un servitore della patria del tutto disinteressato. Nel 1874 il governo italiano propone che Garibaldi sia compensato con una rendita di centomila lire annue. Lui, sdegnato, rifiuta: “Le cento mila lire pesandomi sulle spalle come la Camicia di Nesso”, scrive al figlio Menotti. Dura poco, perché, passato qualche mese, il generale indossa la camicia di Nesso. “Se potessi avere mille lire al mese”, canta un motivetto fascista. Se mille lire al mese erano un sogno negli anni trenta, dopo la svalutazione massiccia seguita alla prima guerra mondiale, centomila lire nel 1874 non erano poche.
Tre obiezioni storiche: la spedizione dei Mille fu opera soprattutto di Cavour e La Farina, fu un libertador a corrente alternata e non fu un disinteressato ”servitore della patria” cante degli ultimi due volumi. Proprio nel secondo volume Vecchj cita un interessante episodio relativo al 1852. In quell’anno Garibaldi lavora in Perù come capitano della Carmen di
proprietà dell’armatore ligure Pietro Denegri. Grazie ad internet sono riuscita a procurarmi un esemplare del libro di Vecchj e posso citare con esattezza un disarmante apprezzamento dell’eroe
Francesco Merlo chiude un lungo articolo su Garibaldi (Repubblica del 22 giugno 2007) con una considerazione, a giudizio di chi scrive, inoppugnabile: «Non si sta celebrando Garibaldi. Si sta riempiendo un vuoto». Quale vuoto? Quello provocato dalla rovinosa rimozione dei millecinquecento anni di gloriosa storia cattolica su cui gli uomini del Risorgimento hanno preteso di unificare l’Italia. Recentemente il cardinal Caffarra osservava rivolgendosi ai bolognesi: «Sradicarsi dalla nostra tradizione progettando una sorta di ‘patto di convivenza’ da sottoscrivere dimenticando o mettendo fra parentesi tutto ciò che definisce la nostra vita e la nostra persona così come la vita e la storia della nostra città, significa metterci su una strada che porta alla totale disgregazione». La speranza –proseguiva- è diventata fragile: «La speranza nel cuore del singolo e nel cuore di un popolo si riduce e perfino si inaridisce, se il singolo e la città ha la sensazione come di dover ripartire dal nulla. Nel nulla si può solo cadere; ma dal nulla non si ha alcun appoggio per risalire». Garibaldi come mito fondatore non funziona.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Voto o governo tecnico, cos’è meglio per l’Italia? Il presidente della Repubblica non ci provi, si vada subito a elezioni
Prima di tutto serve una legge elettorale più equa
Napolitano non ci deve neppure provare. Troppo spesso ha approfittato della sua posizione per portare acqua ai suoi compagni. Il popolo italiano vuole tornare alle urne perché vuole un altro governo. I sondaggi parlano chiariamente: oltre il cinquanta per cento degli elettori rivuole il centrodestra. Non è certo segno di democrazia andare contro la maggioranza. Evidentemente il richiamo della foresta è sempre troppo forte! La legge elettorale in vigore non è la migliore possibile, ma ha ragione Berlusconi quando dice che per migliorarla (indicazione del parlamentare da eleggere e premio di maggioranza nazionale in Senato) sono sufficienti quindici giorni. Questo Prodi dovrebbe essere capace di farlo. L’italiano è incavolato. Stiano attenti i nostri Caporioni.
Sono del parere che in questo momento in l’Italia, con tutti i problemi che ci sono, le elezioni anticipate costino troppo sulla nostra testa. Se adesso si andasse al voto, con questa legge elettorale, si avrebbe di nuovo un governo zoppo, che ci riporterebbe con tutta probabilità al voto anticipato fra uno o due anni. Una legge elettorale più equa può aiutare qualsiasi esecutivo a governare, almeno per una legislatura completa.
Lorenzo Giacometti - Roma
Qualunque sia il nuovo esecutivo, l’importante è che possa governare Il centrodestra vuole le elezioni. E va bene. Ma perché cosi’ subito quando esso stesso è del parere che la vigente legge sia una ”porcata”? Sono un elettore del centrosinistra profondamente deluso, e credo proprio che non andrò a votare. Ma qualunque sia il governo che uscirà dalle elezioni, dovrà governare. O meglio, dovrà poter governare. Non solo perché questo è il compito che il popolo gli affida, ma anche perché non dovrà poi poter dire: ”Non ho potuto governare”, come Prodi ha affermato dimenticando di non aver vinto le elezioni. Avrebbe fatto bene ad accettare la collaborazione che gli aveva offerto (magari pelosamente) il centrodestra.
Fiorenzo Leali - Milano
Lidio Berro
Il centrosinistra non vuole elezioni perché è troppo attaccato alla poltrona ”Al voto sì, al voto no, se famo du spaghi”? In questo triste momento dell’Italia serve parafrasare il gruppo di ”Elio e le storie tese”per sdrammatizzare un po’. Questi politici di centrosinistra sembrano solo attaccati alla poltrona e stanno facendo di tutto per evitare le elezioni. Silvio, portaci in piazza, non ne possiamo più!
Elio Teso - Pisa
Vogliamo due partiti e un centrodestra coeso Elezioni? Tanto non cambia nulla. Con queste legge elettorale, con questo centrodestra, con questi democristiani che sono sempre pronti a tradire, cosa faremo anche in caso di vittoria? Lo scenario da cataclisma è la vittoria della CdL con Mastella ministro, Casini vicepremier, Storace non si sa cos’altro. C’è bisogno di smetterla con le frammentazioni e i soliti politicanti di mestiere.Vogliamo due partiti e basta. E soprattutto un centrodestra coeso. L’unico modo per far rinascere l’Italia.
Sandro Palo - Sulmona (Aq)
LA DOMANDA DI DOMANI
Larghe intese o inciucio?
Così Mastella ha accolto la moglie dopo la scarcerazione: “Sandra, finalmente a casa”.
Giancristiano Desiderio Benevento
Speriamo che gli Usa non si stufino dell’Europa Ho letto nei giorni scorsi sul vostro giornale, nello spazio delle lettere, qualcosa come ”basta con gli Usa, siamo italiani ed europei”. Si dice basta con gli Usa quando non ci servono, quando non mandano i loro figli a morire in due guerre mondiali per risolvere i nostri problemi europei, anche se non coinvolti direttamente. Inoltre, il loro aiuto economico (capisco non del tutto disinteressato) ha fatto sì che esplodesse il nostro boom economico. Speriamo, dopo tutto, che gli Usa non si stanchino mai della vecchia Europa.
Lara Simonetti - Vicenza
C a r o liberal, q u e s t o a g g e t t i v o è percepito in modo negativo Ho saputo della nascita di questo nuovo quotidiano dalla radio; conoscevo l’esistenza del periodico ma confesso di non averlo mai letto. Ho così deciso di sacrificare un euro allo scopo e ho portato a casa, oltre che il solito giornale locale, una copia di liberal. Sono alla ricerca di un quotidiano che
dai circoli liberal
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
MASTELLA E’ STATO LA GOCCIA CHE HA ROTTO IL VASO DI PRODI Il governo Prodi non è caduto perché travolto dalla forza politica dell’opposizione, ma perché il progetto dell’Unione di centrosinistra era solo un accordo elettorale contro Berlusconi, che si è decomposto man mano che si è trattato di prendere decisioni di governo. Già il risultato delle elezioni del 2006, aveva ridotto l’annunciato trionfo in una vittoria di strettissima misura dell’Unione di centrosinistra, poi l’azione del governo Prodi è stato un susseguirsi di provvedimenti disastrosi, come la controriforma delle pensioni e l’aumento della pressione fiscale, in un crescendo di opinioni divergenti tra i gruppi e partiti dell’Unione che si scontravano pubblicamente sulla stampa, nelle piazze e in parlamento. Ma il fatto politico rilevante è la nascita nel 2007, con la confluenza dei democratici di sinistra e della margherita, del partito democratico (Pd) il quale senza grandi preoccupazioni per il voto chiesto pochi mesi prima a sostegno dell’Unione, cambia linea politica. L’unione di centrosinistra che aveva vinto le elezioni viene considerata un fallimento da superare e con essa il bipolarismo, si rinnega l’alleanza con i
partitini, e la nuova linea: “Il Pd ha una vocazione maggioritaria”, tradotta vuol dire, basta con queste alleanze, lavoriamo per avere noi la maggioranza dei voti, con il conseguente annuncio di voler “correre da soli” come partito democratico alle prossime elezioni. A questo punto il partito democratico, con il neosegretario Walter Veltoni, apre il dialogo diretto con Silvio Berlusconi, diventato un interlocutore credibile a cui proporre un accordo e, subito dopo la caduta del Governo Prodi, l’invito del partito democratico a Berlusconi, di passare dalla cronaca alla storia come comprimario di un governo istituzionale in grado di riformare il sistema elettorale ed istituzionale. Tutto ciò mi fa dire che Mastella è solo la goccia che fa traboccare un vaso ormai rotto. E adesso? Certo il senso di responsabilità và richiesto alle forze politiche grandi ed è sicuramente auspicabile il dialogo tra Pd e Forza Italia per ricreare fiducia e senso dello stato, ma francamente dopo questo fallimento quale fiducia, quale responsabilità nazionale, quale credibilità può venire da coloro che hanno fatto, pochi mesi or sono, una campagna elettorale chiedendo i voti per l’Unione di centrosinistra e per Prodi premier, contro il nemico numero uno del-
possa sostitutirlo perché a causa di un recente cambio di proprietà editoriale con conseguente sostituzione del direttore, il livello di quest’ultimo si è abbassato a quello di ”foglio parrocchiale”. Una annotazione: il termine liberal è percepito dalla gente che si interessa alla politica ed ha una connotazione di destra, in modo totalmente negativo: fa venire in mente personaggi appartenenti al capitalismo rosso alle vongole. Credo solo che potrebbe essere dannoso alla diffusione del vostro foglio l’accostamento a certe figure. Quello che mi aspetto da un giornale che usa un glorioso aggettivo quale ”liberale” è la lettura di articoli che non diano tregua a questa obsoleta classe politicosindacale quando essa si produce nei soliti squallidi rituali. Non sarà un compito facile, perché al di là delle parole non vi è praticamente alcuna grossa differenza di metodo tra marxisti (e post marxisti) con la cosidetta destra a guida Berlusconi. Ambedue affondano nei fantasmi ideologici del dopoguerra e sono entrambe afflitte dal clericalismo cattolico. In ogni caso i migliori auguri.
Carlo Maschio Selvazzano Dentro (Pd)
Aspetti, continui a leggerci e vedrà. D’accordo con lei. Non sarà un compito facile. Ma ce ne siamo fatti carico.
Liberal? Meglio del pesante, ”ateo devoto” Foglio di Ferrara Giuliano Ferrara dimagrisce sempre di più. I chili persi? Tutti al Foglio, che negli ultimi mesi è diventato sempre più pesante. Troppo vicino alle Sfere Celesti, è diventato illeggibile per chi non ha una laurea in teologia. Risultato? Dalla mazzetta dei giornali (contingentata) ho eliminato l’ateo devoto per inserire liberal, che ogni tanto si ”sporca le mani” con la Divina Commedia terrestre. Buon lavoro.
Pupi Salomonica - Roma
la democrazia, contro il corruttore della vita pubblica, e ora ne invocano l’alleanza per salvare l’Italia (o se stessi). Penso che un passaggio elettorale si imponga, proprio perché non è caduto solo il governo ma è fallito il progetto strategico dell’Unione di centrosinistra. Così il partito democratico potrà passare dalla vocazione maggioritaria ai voti reali e legittimare, per la prossima legislatura, la sua linea di dialogo e di collaborazione istituzionale con Forza Italia, stando, come mi auguro, all’opposizione. Carlo Bongioanni CLUB LIBERAL VOLPIANO (TO)
APPUNTAMENTI ROMA - 31 GENNAIO-1-2 FEBBRAIO 2008 Università Lateranense, Tempio di Adriano, Palazzo dei Congressi Meeting internazionale ”Cambio di stagione: 1968-2008, quarant’anni dopo”
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog mini. Contrariamente ad alcuni amici sono convinto che sia una città che si pone per importanza a livello delle maggiori città italiane. D’estate è l’indiscussa capitale del turismo, ospitiamo un centro fieristico all’avanguardia e tutto l’anno eventi congressuali di notevole livello. Abbiamo due bellissimi centri commerciali e d’inverno due teatri dove si ebiscono i più bei nomi della musica e dello spettacolo. E poi non guasta mai anche una grande squadra di calcio che milita in serie B. Sono convinto che sia difficile trovare una città che offra come Rimini. Il mio punto di vista deriva da un eccessivo amore per la mia città o c’è del vero in quel che dico?
LETTERA DALLA STORIA
”Il piacere è la sensazione che accompagna la scoperta di un’idea” Il piacere vien dalla sensazione della perfezione. E noi non sappiamo cosa che cosa sia la perfezione. Per certo la vista della perfezione ci dà piacere, ma la coscienza della perfezione è una nostra idea, e non ancora sappiamo come questa idea si formi in noi. E’ essa comune a tutti gli uomini? E’ un capriccio di ciascun uomo? E’ sempre la stessa? E’ varia? E nella stessa varietà non avrebbe una legge? Il piacere è la sensazione che accompagna la scoperta di un’idea, dice Maupertuis. Ma questo piacere accompagna la scoperta di tutte le idee? Non ve ne sarebbe qualcheduna la scoperta della quale sia dolorosa? Indifferente? Così quasi tutte queste definizioni possono essere o vere o false. Può essere ancora che la vera definizione del piacere le comprenda tutte, e che ciascuna delle teorie dipendenti sia falsa se riman sola e possa esser vera se si unisce con tutte le altre. Tutte queste definizioni sono osservazioni di fenomeni che sogliono accompagnare il piacere: il fondo dunque delle medesime è vero, perché i fenomeni esistono, ma si è caduto nell’errore frequente di confondere il fenomeno colla sostanza. Da questo errore sono venute le definizioni incomplete. Vincenzo Cuoco a un amico
Trasformiamo Forza Italia nel Popolo della Libertà Ho letto e molto apprezzato l’articolo dedicato dalla brava Susanna Turco alla piccola galassia radicale di Forza Italia e scrivo questa mail per sottolineare come alla base del partito di Berlusconi ci siano segnali di vivacità che addirittura superano in rapidità i vertici nazionali. Porto in tal senso l’esempio di Marino, città dei Castelli Romani, dove ho l’onore di essere presidente del Club Riformatori Liberali. Dove con la formula di una Casa delle Libertà ampia e dialogante nel giugno 2006 abbiamo vinto le elezioni amministrative e da due anni siamo al governo della città. E dove, lo scorso 25 novembre, a pochissimi giorni dalla San Babila berlusconiana, ho lanciato i Riformatori Liberali di Marino nel pieno dell’avventura del Popolo delle Libertà, divenendo autore di una coraggiosa mozione al locale congresso di Forza Italia, tutta mirata nella direzione del partito nuovo, votata all’unanimità e grazie alla quale, da Riformatore Liberale, sono entrato nel direttivo. Il prossimo passo sarà ora la trasformazione del gruppo consiliare di Forza Italia in Popo-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
Giancarlo Baldiserre Rimini
Rimini, gran bella città d’estate come d’inverno. Nessuno, meglio di lei che ci abita, può apprezzarne le qualità.
lo della Libertà. Chissà che lo shock radicale firmato Della Vedova-Capezzone, dai vertici alla base, non possa finalmente dare vita al partito liberale di massa atteso ma ancora mai realizzato dal 1994 a oggi.
Daniele Priori CLUB RIFORMATORI LIBERALI MARINO
Rimini, una città importante come le maggiori in Italia Mi chiamo Giancarlo Baldiserre, conosciuto da tutti come ”Baldo”. Una vita dedicata alla carta stampata, prima come strillone anche molto quotato, avendo lavorato al seguito di diversi Giri d’Italia e di molte tappe del Tour. Da quarant’anni sono edicolante nella capitale del turismo europeo: Ri-
Veltroni si dimetta da sindaco per il bene di Roma Vivo a Roma nella zona di piazza Bologna. Quando ci furono le elezioni per il sindaco fui contattata da una sezione dei Ds per sapere cosa potessi sperare dal nuovo sindaco. Mi promisero parcheggi, riduzione del traffico, città più pulita.Veltroni fu eletto e continuò a verniciare di blu i parcheggi che già c’erano (continuando l’opera di Rutelli) senza farne di nuovi, almeno nel mio quartiere. Il traffico è peggiorato. L’elegante via di Villa Massimo è piena di cartacce, foglie secche e feci di cani, vicine alle giostre dove portiamo i nostri bambini! Quando si voterà di nuovo per il sindaco a Roma?
Giada Romiti - Roma
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L’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano PASCAL
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
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Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di PER IL BENE DEL PAESE “Per il bene del Paese” è la frase più abusata dai politici italiani. Fatto del tutto singolare se si pensa che proprio gli stessi politici vengono additati dai cittadini come il male del Paese. E’ per questo che la proposta di Veltroni di rinviare le elezioni “per il bene del paese” è solo una scusa per evitare il confronto elettorale che lo vedrebbe molto probabilmente sconfitto. Intendiamoci, la tattica di Veltroni e della Sinistra è del tutto legittima e comprensibile. Rimane, tuttavia, il fatto che al bene del paese dovevano pensarci prima quando hanno deciso di andare a governare con un’armata brancaleone, un programma fumoso e, soprattutto, senza aver vinto le elezioni. (…) Al bene dell’Italia dovevano pensarci prima, quando in barba all’evidenza di un risultato elettorale di pareggio hanno dichiarato vittoria e tirato dritto per la loro strada. Su quelle basi il governo Prodi è stato un puro azzardo politico, una scommessa non sul “se” ma sul “quando” sarebbe caduto. Prodi ha voluto scommettere forte e adesso il prezzo da pagare è salatissimo. (…) Ci pensi bene, quindi, il compagno Napolitano prima di dare l’incarico a presunti uomini super-partes (Marini?!) per un governo di transizione. L’ultima volta lo fece Scalfaro con Dini e ce lo siamo tenuti per due anni. Per il bene del Paese andiamo a votare!
Fenomeni in giro non ce n’è www.fenomeninoncene.com
DALLA DEMOCRAZIA USA ALLA PALUDE ITALIANA Prendiamo come punto di riferimento temporale il 1994, l’anno di nascita della cosid-
Società Editrice Edizione de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Poligrafico Europa s.r.l. Paderno Dugnano (Milano) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania
detta Seconda Repubblica. Cos’è cambiato da allora a oggi nella politica italiana? Poco o nulla. I protagonisti sono sempre gli stessi. I problemi idem. Guardiamo invece agli Stati Uniti: lì nel 1994 governava Bill Clinton. Oggi Clinton è in pensione, da tempo. E fra pochi mesi andrà in pensione anche il suo successore, George W. Bush. Entrambi sono stati eletti e rieletti, in pratica hanno governato per due mandati (a Bush manca ancora un anno). Poi stop, si volta pagina. E’ la regola della democrazia. Grandi poteri al presidente eletto dal popolo, sistema di ”pesi e contrappesi” per evitare derive dittatoriali (com’è giusto che sia), parlamento con altrettanto grandi poteri (più che altro di budget). Elezioni che sanciscono l’approvazione o la bocciatura da parte degli elettori. Democrazia ”dal basso” attraverso le primarie, il miglior sistema mai sperimentato per selezionare la classe politica. Anche l’America ha i suoi difetti, ovviamente. Ma gli States sono lontani anni luce dalla melmosa palude italiana, il regno dei trabocchetti e dei sotterfugi, dei mille furbi e furbastri che siedono in parlamento e governano (o almeno credono) il Paese. Da noi prevalgono i bizantinismi e le ”geometrie variabili”, la politica si trasforma in barzelletta o commedia tragicomica. Qualcuno dice che in fondo siamo contenti così, che ci piace, che ci meritiamo tutto questo. Non è vero. Lo sdegno è più diffuso di quanto si possa immaginare. E accanto a esso, purtroppo, prevale una triste e sconsolata rassegnazione.
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