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ISSN 1827-8817 80201

DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

he di c a n o r c di Ferdinando Adornato

Sayed Parwiz Kaambakhsh, 23 anni reporter. Il Senato afgano ha confermato la sua condanna a morte. Perché, con un articolo, avrebbe “offeso Maometto”

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Salviamo Sayed Non siamo in Afghanistan per permettere questo Un appello alla comunità internazionale Ferdinando Adornato, André Glucksmann, Michael Novak ALLE PAGINE

Carte

L’INSERTO

1968, anno terribile Renato Cristin Renzo Foa Gennaro Malgieri, Lorenzo Ornaghi

a pagina 12 QUOTIDIANO • 1

FEBBRAIO

2E3

riforme

intervista

cultura

UNA LEGISLATURA COSTITUENTE

BUTTIGLIONE: «COSA BIANCA? NON ORA»

BENEDETTO XVI PAPA BIBLIOFILO

di Renato Brunetta, Achille Chiappetti, Sergio Valzania a pagina 11

di Susanna Turco

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

16 •

WWW.LIBERAL.IT

a pagina 7 • CHIUSO

di Andrea Capaccioni

IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 21 19.30


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salviamo

Sayed Il testo dell’appello di Adornato, Glucksmann e Novak

La libertà non è un optional

Un doppio dovere di ingerenza di Renzo Foa avanti alla sentenza capitale emessa contro Sayed Perwiz Kambakhsh c’è un doppio dovere di ingerenza. Naturalmente per la repulsione nei confronti della pena di morte. Ma soprattutto perché il regime dei talebani era stato rovesciato dall’intervento occidentale nel nome della libertà e della democrazia e perché, nel nome di questi stessi valori, sosteniamo sul piano militare, politico ed economico il governo del presidente Karzai. Sottolineo l’aspetto militare. Siamo impegnati sul terreno contro l’insorgenza fondamentalista, abbiamo anche pagato un doloroso prezzo in vite umane. Ma il senso di questo impegno non può essere contraddetto da pratiche – da parte delle istituzioni afghane – che si ispirano allo stesso fondamentalismo che stiamo combattendo. Non possiamo difendere dalla «guerra santa» e dal terrorismo classi dirigenti che si affidano alla legge della Sharia.

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Siamo ben aldilà della fastidiosa discussione sull’«esportazione della democrazia» e sui suoi limiti. Il problema è la coerenza di un intervento attuato nel nome della libertà. L’internazionalismo democratico (e umanitario) è uno dei motori del mondo dell’ultimo mezzo secolo. Prese forma con il sostegno al Dissenso nei Paesi dell’Est. Si definì ancora meglio, dopo il 1989, attraverso interventi militari diretti. Penso ad Haiti, alla Bosnia, a Timor Est. Quando vi si rinunciò, come in Ruanda, ci si interrogò drammaticamente sul prezzo pagato alla rinuncia a difendere i fondamentali diritti dell’uomo. Oggi, in Iraq ed in Afghanistan, resta aperta la grande questione di come far seguire all’abbattimento di una tirannia la costruzione di assetti statali dove la libertà di parola non comporti il rischio di finire sulla forca. È certamente la grande e complicata questione del rapporto tra l’Islam e quella essenziale parte della modernità rappresentata dal diritto. Che non si risolve certo con un colpo di spugna su tradizioni e culture fortemente insediate, ma che deve aver dei limiti ben chiari. Nel caso di Sayed Perwiz Kambakhsh il limite è stato superato. L’allarme del dipartimento di Stato – e l’America è la potenza maggiormente impegnata in Afghanistan – ci dice che fortunatamente non è solo il mondo della cultura ad essere preoccupato. Ma ci dice anche che l’alternativa non è quella di ritirarsi e di tornare alle vecchie forme di diplomazia dell’appeasement. È semmai quella di ingerirsi sempre di più, di tutelare il Dissenso, di costruire strategie grazie alle quali la costruzione della democrazia non può essere delegata solo a classi dirigenti inaffidabili.

Così viene colpito il sogno di un nuovo Afghanistan Al Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon Al presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai Al Comando del Contingente Nato-Isaf Alle organizzazioni non governative internazionali

ayed Parwiz Kambakhsh sta rischiando la vita a causa dell’intolleranza fondamentalista. Studente universitario afghano di appena ventitre anni, reporter neo-assunto per il giornale di Mazar-i-Sharif, Sayed è in carcere da tre mesi poiché un tribunale lo ha ritenuto colpevole di blasfemia. In un articolo per il quotidiano locale “Nuovo Mondo”, il giovane giornalista avrebbe offeso il profeta Maometto e si sarebbe spinto a sostenere “il diritto delle donne ad avere più mariti” così come, secondo il Corano,“un uomo può sposare fino a quattro donne”.

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Nella giornata di ieri si è svolta a Kabul una seduta del Senato afghano, nel corso della quale è stato votato un ordine del giorno in cui si chiede la pena di morte per il “giornalista blasfemo”. I corrispondenti locali riportano che al momento del voto in aula erano presenti 75 senatori dei 120 totali. “Non vi è stata una vera e propria votazione, ma il documento porta la firma del presidente del Senato Mojaddedi, che sembra avesse il consenso di tutti i presenti”. Conosciamo bene la personale aspirazione del presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai alla realizzazione di una società democratica. Apprezziamo la sua volenterosa opera di ricostruzione di una nazione che ha sofferto lunghi anni di oppressione e violenze e consideriamo le enormi difficoltà culturali, economiche e sociali con cui è costretto quotidianamente a confrontarsi. Resta il fatto, per noi importante, che il presidente Karzai dovrebbe rendersi conto che un tale episodio rischia di colpire al cuore il processo di ricostruzione democratica avviato, facendolo nettamente regredire. La comunità internazionale non è intervenuta in Afghanistan per permettere questo, per permettere che i diritti umani fossero così schiettamente brutalizzati. Riteniamo che la vittoria della libertà, della democrazia e di tutti gli altri diritti civili nel paese afghano, come in tutto il mondo, non dipenda soltanto dal raggiungimento di una stabilizzazione militare, ma anche dal conseguimento di una democrazia, resa significativa dalla presenza di tutte le garanzie a tutela di un’esistenza libera. Oggi, 31 gennaio 2008, è prevista una manifestazione di giornalisti ed organizzazioni umanitarie a Kabul in difesa del giornalista su cui pende la condanna capitale. Ci uniamo a tale dimostrazione di solidarietà nei confronti di Sayed, e chiediamo di fare altrettanto alla politica e alle Istituzioni occidentali e di tutto il mondo, alla cultura internazionale, al giornalismo, al volontariato. Per la sua sorte, ci appelliamo all’intervento dell’ONU, alla determinazione del Presidente Karzai, al senso di giustizia delle Istituzioni afghane, alla volontà di intercessione del contingente Nato-Isaf. Infine, ci appelliamo ai cittadini afghani, al loro sentimento di fratellanza universale.

Ferdinando Adornato

André Glucksmann

Michael Novak

Per aderire all’appello inviate una email a: redazione@liberal.it o scrivete a liberal, via della Panetteria, 10 - 00187 Roma

Petizione del quotidiano britannico The Independent per salvare la vita del giovane giornalista

Si muove anche il Dipartimento di Stato reoccupazione anche negli Stati Uniti per la condanna a morte di Sayed Perwiz Kambakhsh. «Siamo estremamente preoccupati - dichiara il portavoce del Dipartimento di Stato, Tom Casey - per una sentenza emessa nei confronti di un reporter nell’esecizio della sua professione. Siamo fortemente contrari a qualsiasi azione che possa limitare la libertà di stampa o la libertà d’espressione». «Speriamo - continua Casey che il processo d’ppello possa correggere la situazione e che la il risultato della sentenza possa essere opposto a quello del primo grado». Anche le Nazioni Unite, la scorsa settimana, avevano chiesto al governo afghano di intervenire sul caso di

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Kambakhsh, che era stato portato all’attenzione dei media internazionali dall’organizzazione internazionale Reporters sans frontières. Ieri, anche il quotidiano britannico The Independent ha lanciato una petizione a favore del giovane giornalista condannato a morte. Per il giornale, la sentenza del tribunale afghano - confermata dal Senato - è un vero e proprio «affronto ai valori civili». The Independent ha invitato i suoi lettori a mobilitarsi per salvare Sayed. «Anche se la condanna non è ancora definitiva - scrive il quotidiano - con abbastanza pressione internazionale sul presidente Karzai la decisione potrà essere rovesciata». E’ possibile firmare questa petizione anche su In-

ternet, all’indirizzo: www.independent.co.uk/petition. Forte preoccupazione per la sorte di Sayed è stata espressa anche dal governo britannico, che ricorda come il ministero degli Esteri, insieme al dipartimento per lo Sviluppo internazionale, ha stanziato una considerevole quantità di denaro per la formazione e lo sviluppo dei media in Afghanistan. In particolare, Londra ha finanziato l’Institute for War and Peace Reporting (Iwpr) nella capitale della provincia di Helmand, Lashkar Gar. Anche il fratello di Sayed è un giornalista e ha scritto articoli, proprio per l’Iwpr, in cui vengono messi sotto accusa importanti personsaggi pubblici, tra cui alcuni parlamentari.


salviamo

Sayed

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Secondo alcuni, colpiscono Sayed per attaccare il fratello, giornalista scomodo

La sua colpa? Aver scritto di donne di Vincenzo Faccioli Pintozzi ayed Perwiz Kambaksh, giornalista afgano di 23 anni, è stato arrestato lo scorso ottobre nella provincia di Balkh, Afghanistan del nord, dove ha subito un processo sommario che si è concluso con un verdetto di morte per blasfemia. Le autorità sostengono di averlo fermato mentre distribuiva materiale contrario ai precetti religiosi islamici: a quanto è trapelato, i testi riguardavano la condizione della donna nel suo Paese. Il verdetto, pronunciato da tre giudici del tribunale di Balkh il 22 gennaio scorso, ha concluso quello che i familiari del ragazzo hanno definito «un processo sommario e a porte chiuse». Il fratello, Sayed Yacoub Ibrahimi, riferisce che Sayed non ha avuto neppure la possibilità di essere difeso da un avvocato in aula. Il giovane farà appello, come suo diritto, per sottolineare come il suo nome sia stato apposto sui volantini dopo il suo arresto. Tuttavia, l’influente Consiglio dei mullah preme per l’esecuzione capitale. Nel corso dell’intero procedimento di revisione del caso il giornalista, che lavorava per il quotidiano Jahan-iNawa, rimarrà in custodia cautelare a Mazar-i-Sharif: qui, denunciano i suoi familiari, viene trattato come un blasfemo e quindi come se non avesse diritti. Rhimullah Samandar, capo della National Journalists Union Afghanistan, spiega che il ragazzo è stato condannato a morte secondo l’art. 130 della Costituzione afgana, che prevede, in caso di vuoto legislativo su una materia, di attenersi alla giurisprudenza “Hanafi”. Questa è una scuola ortodossa di giurisprudenza sunnita, seguita nell’Asia centrale e meridionale. La diffamazione dell’islam, appunto, è un reato non previsto nel codice penale dell’Afghanistan e quindi perseguibile secondo la legge islami-

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Ancora nessuna risposta alla lettera scritta a Karzai dal presidente del Parlamento europeo, Hans-Gert Pöttering. E il Consiglio dei mullah preme per l’esecuzione capitale ca. Samandar ha fatto appello al capo di Stato, Hamid Karzai, perché intervenga sul caso Sayed. La settimana scorsa a favore della liberazione del giovane giornalista si è

espresso anche il Parlamento europeo, il cui presidente, Hans-Gert Pöttering, ha scritto a Karzai. Nella missiva si ricorda l’impegno dell’Europa contro la pena capitale e la necessità

L’esperienza a Kabul di Rosario Priore nel tentativo di riformare il diritto

La Sharia detta ancora legge di Francesco Lo Dico

ROMA. «Era il 2004 quando mi recai in Afghanistan. L’Italia aveva avuto il difficile compito di riformare il sistema giudiziario afghano, e io e miei colleghi ci mettemmo al lavoro per cercare di creare un nuovo codice di procedura penale di stampo europeo. Le donne adultere continuarono però a essere lapidate, e gli uomini, per lo stesso reato, a essere frustati. Ci fu chiaro insomma, perché così erano i patti, che per quanto la nostra riforma avesse avuto valore, l’ultima parola sarebbe spettata, sempre e comunque, alla Sharia» A quel tempo, Rosario Priore, capo del dipartimento per la Giustizia minorile e storico magistrato che ha indagato – da Ustica a Moro – i fatti più scottanti della recente storia italiana, faceva parte del team di giudici inviato a Kabul per ricostruire il settore giustizia. Un’ impresa, capeggiata dall’ex capo della Dia Giuseppe Di Gennaro, costata decine di milioni di euro e tre anni di sacrifici, che ha pagato però la debolezza di un governo sempre più delegittimato

dai signori della guerra. «Allora – racconta Priore – ci trovammo di fronte a un lavoro immane. Dovevamo redarre un nuovo codice penale e uno minorile, riformare il codice di famiglia e il codice civile. La linea guida del progetto era la creazione di un sistema giudiziario di impronta europea, che allo stesso tempo non si sovrapponesse alla legge islamica. Bisognava evitare il più possibile attriti e imbarazzi con le autorità religiose, che comunque avrebbero mantenuto il diritto di giudicare reati espressamente legati alla Sharia come la blasfemia e l’apostasia. Si trattava di un difficile gioco di equilibri, ma fu stabilito che nel caso di contrapposizione fra i due sistemi, l’Occidente avrebbe dovuto fare un passo indietro, e lasciare il giudizio al Corano» Nonostante l’impegno italiano, Sayed rischia dunque di morire a causa di un enorme paradosso. Come potrebbe infatti salvarsi, appellandosi alle leggi europee, se l’Islam condanna a morte chi si sottrae al suo giudizio?

per l’Afghanistan di «garantire ai cittadini i diritti fondamentali». Fino ad ora, questa lettera sembra essere stata ignorata. Alcune fonti interne al Paese sostengono però che il caso sia frutto di una montatura operata dai mullah locali contro il fratello del condannato, Ibrahimi (anche lui giornalista), che da tempo conduce una dura campagna sui media afgani contro gli abusi ai diritti umani che sistematicamente avvengono in Afghanistan. Fra gli articoli più scottanti del giornalista vi è quello sui “ragazzi danzanti”: la storia vera di bambini e adolescenti costretti a vestirsi da donne e ballare durante le feste dei signori della guerra e dei talebani della parte settentrionale del Paese. Ibrahimi si è inoltre scagliato più volte contro la corruzione del governo centrale, che secondo i suoi articoli estorce denaro ai cittadini che vogliano ottenere “qualunque cosa”, dall’allaccio elettrico ai documenti personali. Questo tema è uno dei più scottanti: un sondaggio eseguito lo scorso anno da una Commissione delle Nazioni Unite ha rivelato infatti che oltre il 70 % della popolazione indica nella corruzione il peggior malessere sociale, persino al di sopra della presenza dei talebani e dei signori della guerra. Jean Mackenzie, direttore della sezione afgana dell’Istituto War & Peace, racconta che i poliziotti di Balkh hanno sequestrato il computer di Ibrahimi il giorno dopo l’arresto del fratello, ufficialmente «per cercare le prove della blasfemia commessa». Lo stesso giornalista conferma una campagna di intimidazione e minacce contro di lui, operata da militari ed estremisti islamici, che tuttavia non l’ha mai fermato. Adesso però, conclude Mackenzie, «l’idea che suo fratello muoia per colpa sua lo ha distrutto».


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politica

È il Titolo sui rapporti economici il vero punto debole della Carta: la sinistra ne ha fatto una trincea

Serve un’Assemblea costituente per il salto verso la modernità di Renato Brunetta e Achille Chiappetti i ritorna a parlare di modifica della Costituzione, anche se nulla di nuovo è venuto dai ritagli di riforma istituzionale che l’attuale maggioranza ha malamente sottoposto al Parlamento. Abbiamo già denunciato da tempo e in più sedi che i resti dei partiti, coalizzatisi nel carrozzone del sinistra-centro, hanno fatto un uso improprio della Carta del ’47. Che essi - per contrastare e delegittimare ogni proposta e tutte le riforme, piccole o grandi, volute dalla Cdl - si sono sempre richiamati non solo ai principi fondamentali, ma hanno inventato il principio della intangibilità perfino della Parte I della Carta del ’47 e della modificabilità del solo assetto istituzionale disciplinato dalla Parte II. Senonché, ciò è falso: debbono essere salvaguardati e non possono essere modificati neppure con leggi di revisione costituzionale solo i principi fondanti della nostra democrazia che costituiscono, nel loro insieme, la costituzione materiale. Un termine, questo, che era stato coniato durante il fascismo da Costantino Mortati, ma per indicare un’entità sostanzialmente difforme: quella dell’insieme dei principi caratterizzanti la forma di governo fascista, al fine di giustificare l’immutabilità di tale regime dittatoriale. La differenza è dovuta al fatto che, nelle democrazie, l’assetto politico è per principio modificabile. È indubbio che l’inesistente divieto di modificare gran parte della Costituzione è brandito per un preciso disegno politico reazionario, ossia di conservazione dell’assetto di potere che i partiti di vecchio conio e i poteri forti (specie sindacati ivi compresi quelli dei magistrati) loro alleati, hanno consolidato negli scorsi decenni, mediante la distorta applicazione degli articoli 39, 49 e 111 della Costituzione. Ed è dunque innegabile che per bloccare il progetto di rinnovamento liberal-sociale della Cdl venga utilizzata una costituzione materiale nell’accezione che questa ebbe sotto il fascismo. L’intangibilità della Parte I della Carta, inoltre, è talmente essenziale che essa è ormai divenuta un tabù per la sinistra, la quale - pur di mantenerlo integro - è perfino pervenuta all’assurdo di inserire nella Parte II le poche modifiche riguardanti la Parte I che la Cdl è riuscita a imporre. Così i principi del giusto processo e della parità tra accusa e difesa, dell’osservanza delle norme internazionali pattizie e delle norme comunitarie e della sussidiarietà orizzontale. Non è dunque casuale il fatto che tali nuovi principi vengano occultati e poco

Repubblica. Dobbiamo smascherare questo scorretto modo di interpretare la Carta del ’47.

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Sopravvive un’insensata sproporzione tra i molti articoli dedicati ai lavoratori e l’invisibilità del libero mercato: grazie a questo scudo l’Unione ha realizzato finora una “conventio ad excludendum” ai danni della Cdl nel campo delle riforme attuati e che venga messa la sordina al fatto che l’intero Titolo III della Parte I, ossia la costituzione economica tracciata nel 1947, è stato sovvertito dall’irruzione dei principi comunitari del mercato, della libera concorrenza e della riduzione dell’intervento statale.

Ma non basta: è da tempo che affermiamo che la strumentalizzazione della Costituzione contro chi vuole smuovere questo vero e proprio regime non si realizza solo attraverso il falso teorema dell’intangibilità della Parte I. Il centrosinistra ha pure riscoperto con rinnovato vigore la supposta essenza antifascista e socialista della Carta per tentare di introdurre la regola secondo la quale al polo di destra non è consentito di modificare neppure la Parte II. Per avvedersene basta d’altronde osservare quanto avvenuto riguardo alla grande riforma istituzionale che la Cdl era riuscita a introdurre nel 2005, chiudendo la lunga transizione della democrazia italiana. Sebbene consolidasse l’ormai esistente premierato, rendesse finalmente efficiente l’azione del Parlamento e razionalizzasse l’assetto delle autonomie disastrato dalla folle riforma del Titolo V del 2001, questa è stata prima boicottata, poi demonizzata e infine fatta cadere con un’aspra e falsificatrice campagna referendaria. Dopodiché la stessa riforma viene ora riproposta a pezzi e bocconi dall’attuale maggioranza. Perciò, dando per sot-

tointeso che nel nuovo polo dimorerebbe il neo-conservatorismo, se non il fascismo, la sinistra ha tentato di imporre un inedito arco costituzionale dal quale il centrodestra sarebbe escluso, salvo contribuire in posizione servente con il suo voto alla riforme decise dalla sinistra, unica legittimata a farlo. E purtroppo anche gli ultimi presidenti della Repubblica sembrano avere condiviso questa visione di parte. Solo così si spiega il fatto che Scalfaro e Ciampi abbiano riesumato con vigore l’antifascismo alle feste della Liberazione del 25 aprile e la portata di demarcazione sociale a quella del lavoro del primo maggio. Sono gli stessi Capi dello Stato che, mediante l’esercizio del loro potere di nomina dei giudici costituzionali, hanno totalmente squilibrato a sinistra l’Alta Corte e che, con quello di nomina dei senatori a vita, hanno creato la compatta coorte, poi divenuta la pattuglia di soccorso rosso al governo Prodi. Un complesso di atti presidenziali che possono ben leggersi nella prospettiva di una conventio ad excludendum contro il polo di destra.Vi è una grave e diffusa responsabilità per la riedificazione di antichi steccati che cinquant’anni di democrazia avevano contribuito ad abbattere… Tanto più che non vi era e non vi è alcun pericolo all’orizzonte e che, anzi, il rientro sulla scena politica della destra democratica ha finalmente portato al superamento della democrazia zoppa della Prima

Occorre in primo luogo ricordare che i costituenti hanno escluso l’antifascismo dal testo costituzionale, inserendo deliberatamente il solo divieto di ricostituzione del P.n.f. (di Mussolini) tra le disposizioni finali e transitorie, mentre essi hanno vietato ogni forma di violenza politica, sia essa di sinistra o di destra. Ma neppure il socialismo, come tipo di Stato, rientrava nel disegno dei costituenti. L’articolo 3 secondo comma, che costituisce il fondamento dell’attuale stato sociale, impone solo l’obbligo di eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale che possono impedire ad ogni individuo di divenire un cittadino attivo nell’ambito dei rapporti politici, economici e sociali sui quali si fonda la democrazia. Non quindi un progetto di redistribuzione della ricchezza né di trasformazione complessiva della società italiana. Ma dobbiamo anche evidenziare che è proprio la Parte I della Costituzione che merita le più urgenti riforme, dato che essa ha subito i condizionamenti ideologici dovuti alla drammatica situazione in cui versava il Paese, impoverito dalla guerra persa e terremotato dalla guerra civile. Una situazione nella quale la forte componente social comunista, allora marxista, ha avuto grazie anche alla cedevolezza populista-assistenzialista della Dc - facile gioco nell’imporre la preminenza della classe lavoratrice e del valore del lavoro (articoli 1, 3 e 4 della Costituzione). Come anche, essa ha potuto imporre un forte interventismo statale nell’economia, sebbene non fosse riuscita, come si è visto, a introdurre un vero e proprio stato socialista nell’articolo 3 secondo comma. E, primo fra tutti, occorre modificare il Titolo III della Parte I, intitolato “Rapporti economici”. Una delle parti più disastrose e disastrate della Costituzione composta da tredici articoli in tutto (dal 35 al 47) che solo con tanta buona volontà possono definirsi una costituzione economica. E di cui ben dieci articoli sono dedicati ai lavoratori, alla loro retribuzione e assistenza, ai sindacati, al diritto di sciopero, alla cooperazione, al diritto di partecipare alla gestione delle imprese, alla distribuzione delle terre ai contadini. Tutto ciò, mentre il fondamentale momento della produzione è oggetto di due articoli (41 e 43) che disciplinano e costringono l’iniziativa economica privata, la


politica

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quale è soggetta a espropriazione (come anche la proprietà privata: articolo 42) dallo Stato o da cooperative di lavoratori. Una costituzione economica dunque obsoleta sin dalle sue origini, che ha contribuito alla spaccatura che blocca oggi il Paese, visto che essa ha praticamente obliterato o schiacciato in un angolo tutto il mondo produttivo privato, della grande e soprattutto della media e piccola impresa, delle libere attività nel terziario che avevano retto l’economia del Paese sin dalla fine del secolo XIX e contribuito massimamente al suo sviluppo. Una complesso di norme letteralmente fuori dal tempo e basate quasi esclusivamente su di una logica collettivista, abbandonata perfino dai Paesi del comunismo reale e poi strumentalmente interpretata ed applicata, consentendo alle sinistre e ai sindacati di cementare la loro presa sulla società e di far prevalere una visione più socialista che sociale del nostro Stato.

È per questo che siamo divenuti il Paese più statalista dell’Occidente, che abbiamo avuto un sistema produttivo quasi interamente nelle mani dello Stato (dalle materie prime ai panettoni, dai trasporti all’energia, dalle automobili alle navi e alle banane) e indebitato fino al collo. E, alla fine, la nostra economia non è più stata in grado di reggere la concorrenza con i Paesi a sistema liberale, retrocedendo continuamente nelle classifiche economiche mondiali. Ed è dietro a questa Costituzione dichiarata intangibile - anzi, a questa sua applicazione - che si barrica la sinistra con l’appoggio incondizionato di intellettuali di parte. Ciò sebbene essa non si attagli alla realtà del nostro Paese, nel quale dopo il fallimento dell’interventismo statale è cresciuto in modo inarrestabile il numero di coloro che compongono la vera grande classe produttiva sia nell’industria, sia nelle professioni e nelle varie attività indipendenti: il popolo delle partite Iva. Una Costituzione immutata, sebbene già superata dai nuovi principi costituzionali economici dell’Unione europea. Anche nell’attuale legislatura la maggioranza ha continuato a operare come se nulla fosse cambiato. Le attuali microriforme che essa ha proposto al Parlamento non sono state altro che inefficaci rammendi di un tessuto ormai slabbrato. È venuto il momento di dare formale riconoscimento costituzionale ai principi del libero mercato, della concorrenza, della libera iniziativa privata, della limitazione dell’intervento statale. E con essi a quelli che ne discendono: il rovesciamento della logica secondo cui l’imposizione fiscale non ha altro limite che quello di garantire agli apparati statali di intromettersi sempre più pesantemente nella società, l’introduzione in Costituzione del tetto fiscale e della razionalizzazione-riduzione degli apparati pubblici e quindi della limitazione della spesa pubblica. Occorre in altre parole, riconoscere finalmente la centralità del principio di sussidiarietà orizzontale ora nascosto nelle pieghe dell’articolo 118. Occorre perciò cambiare totalmente regime e fare partecipare il corpo elettorale a questa scelta fondamentale mediante nuove elezioni che facciano della prossima una legislatura costituente, con la elezione di una vera e propria assemblea costituente. Bel tema per la prossima campagna elettorale.

Banchi del governo deserti durante una seduta della Camera

Perché è balzana l’idea di un governo solo per la legge elettorale

I problemi degli italiani o quelli della politica? di Sergio Valzania idea di formare un governo con l’unico scopo di approvare una nuova legge elettorale è per lo meno balzana. Proviamo a spiegare perché. Esistono due livelli di problemi. Ci sono quelli veri, importanti, relativi al paese e al suo funzionamento.Vanno dalla disoccupazione giovanile alla crisi finanziaria, dalla regolamentazione dell’immigrazione al buon funzionamento del sistema scolastico, dalla pressione fiscale eccessiva all’incapacità di erogare servizi essenziali come la rimozione dei rifiuti in Campania. Solo dopo esistono i problemi della politica, fra i quali è giusto annoverare quello delle legge elettorale che sicuramente non è delle migliori, ma è comunque riuscita a far governare per diciotto mesi Prodi che aveva vinto le elezioni con un vantaggio di appena 24.000 voti. Un corretto funzionamento del sistema prevede che la politica, con il suo insieme di apparati, si occupi se non di risolvere, per lo meno di gestire i problemi del paese. Perciò si creano i governi. La formazione di un governo per risolvere una questione squisitamente politica, del tutto interna alle logiche di organizzazione del consenso in Italia, va nella direzione opposta. Anzichè affrontare i problemi aperti nel paese, la politica scarica sul paese le proprie contraddizioni che non riesce a risolvere. Quello che ne consegue è la paralisi totale, l’aumento del distacco fra società reale e le sue istituzioni, mentre si produce un senso generale di irrealtà. Quelli che più si affannano a chiedere una nuova legge elettorale sono proprio quelli che hanno vinto le elezioni e hanno governato sulla base del porcellum attualmente in vigore. La legge era giudicata sufficien-

L’

temente buona e non è stata sostituita fino a quando un governo è riuscito ad andare avanti. In modo speculare chi non amava questa legge al punto da raccogliere le firme per un referendum che la cancellasse si trova adesso in prima fila nel pretendere che con essa si vada alle urne. Tutto corretto, intendiamoci, la politica non è solo grande strategia è anche tattica, combattimento quotidiano, ricerca di piccoli vantaggi, conquista di qualche settimana di campagna elettorale in più per riorganizzare le proprie fila. Ma si tratta appunto di politica, di quella che viene giustamente considerata sovrastruttura di un paese, mo-

È una concezione che pretende di dominare la società con una vocazione, dal vago sapore sovietico, a imporsi totalmente su di essa mento applicativo di quello che è l’insieme dei suoi interessi economici, delle sue speranze, dei suoi problemi sociali, delle sue ambizioni e delle sue tensioni valoriali ed etiche. Non è nella natura delle cose che la politica ribalti sul paese le sue tecnicalità piu’ esasperate, quale la legge elettorale deve essere considerata. Quanti sono gli italiani che individuano nelle modalità di scelta dei parlamentari uno dei problemi più urgenti da affrontare, la cui soluzione migliorerebbe la qualità della loro vita quotidiana? La risposta è ovvia: nessuno o quasi. In nessun sondaggio ci si sognerebbe neppure di inserire la legge elettorale fra la

pressione fiscale, l’ingresso nel mondo del lavoro e la microcriminalita’ fra le questioni di piu’ assillante necessita’ da affrontare. In un sistema che funziona la politica risolve i problemi, non ne aggiunge di nuovi. Se ha una cattiva legge elettorale è suo compito darsene una migliore per svolgere al meglio il suo compito, ma non può imporre al paese una pausa istituzionale di alcuni mesi, come se tutte le problematiche italiane dovessero in ogni occasione mettersi in coda dietro alla politica e aspettare il proprio turno per essere avviate a soluzione. Il tempo per la legge elettorale non può avere il carattere del tempo sacro, durante il quale ogni altra attività e attenzione si ferma perché accade qualche cosa di superiore, di fronte al quale il quotidiano deve farsi da parte. Questa è una concezione della politica che pretende di dominare la società, con vocazione dal vago sapore sovietico a imporsi su di essa in ogni sua fibra. Tutto il rovescio di quello che ci si aspetterebbe di fronte al nuovo millennio, che richiede agilità di strutture decisionali e prontezza operativa. Sul merito c’è poco da aggiungere, se non che l’accordo su come riformare la legge elettorale manca completamente e che la crisi del governo Prodi viene anche dall’incapacità di questo Parlamento a dare una soluzione alla questione del referendum che incombe. Veramente sorprendente poi che si riproponga persino l’ipotesi delle preferenze, il cui fine è aumentare la politicizzazione di una società e le cui modalità operative sono quelle più costose e più aperte all’inquinamento da parte della criminalità organizzata. Motivo di tranquillità è sapere che non se ne farà di niente.


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politica d i a r i o

d e l

g i o r n o

Storace e Mastella i primi ”consultati” Sono iniziate ieri pomeriggio le consultazioni di Franco Marini, al quale il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha affidato un ”mandato finalizzato” alla riforma elettorale. Le prime rappresentanze ad essere ricevute sono state quelle della Destra di Storace, della Svp e dell’Udeur di Clemente Mastella. Stamattina toccherà all’Udc, Rifondazione comunista, Partito socialista e Italia dei valori. Nel pomeriggio si andrà avanti, ma il calendario è in corso di definizione: fino a ieri sera la Lega Nord è sembrata ferma sulla posizione di non rispondere all’invito. Ci sarà spazi anche per singoli parlamentari, almeno per quelli che fanno parte di forze formalmente autonome dai partiti: è il caso del senatore Pietro Fuda, ex forzista, che ha annunciato di essere atteso a Palazzo Giustiniani nel pomeriggio di oggi.

Enzo Bianco assiste il presidente

Ma il tentativo resta disperato, anche Dini dice no a governicchi

Marini non si arrende di Errico Novi

ROMA. Dell’abilità e dell’astuzia di Franco Marini si è subito parlato in tono quasi letterario, non appena il Colle gli ha affidato l’incarico. E ieri il presidente del Senato ha fatto tutto il possibile per rassicurare gli agiografi. Ha compiuto le prime mosse del suo “mandato finalizzato” con passo attento e una serenità ben ostentata. «L’impegno è molto gravoso, ma non impossibile, questa parola non piace a nessuno», ha chiosato per poi dedicarsi alle prime consultazioni con la Destra di Storace, la Svp e l’Udeur. Ha anche ammesso che «il sentiero è stretto, ma si può trovare uno spiraglio». Di fatto, Marini riconosce che non c’è, in questo momento, l’ampio consenso necessario all’impresa di formare una nuova maggioranza. E che il suo obiettivo è provare a raccogliere le macerie e tentare di costruire quel consenso nei prossimi giorni. Sicuramente attorno alla proposta di riforma elettorale, che prima della caduta di Prodi aveva sedotto persino Forza Italia, la cosiddetta seconda bozza Bianco: un proporzionale con collegi “plurinominali”, soglia di sbarramento al 5 per cento e un premietto di maggioranza al partito più votato. Tutto sembra dunque dipendere dalla capacità persuasiva, dalle esperte mani di negoziatore di Marini. Basta poco però per comprendere che lo spiraglio auspicato dalla seconda carica dello Stato resta una chimera. Cambierebbe qualcosa soltanto se l’Udc di Pier Ferdinando Casini cedesse

alla tentazione. Cosa che appare, questa sì, praticamente impossibile. Il leader centrista ha commentato con ironia l’improvvisa apertura di Massimo D’Alema al referendum: «Da una parte si parla di modello tedesco, dall’altra della consultazione: è come accostare il diavolo e l’acquasanta. E se nel centrosinistra c’è questa confusione, vuol dire che la legge elettorale è solo un alibi per tirare a campare». L’atteggiamento di Casini sarà stato pure ravvivato dalla rottura con Baccini e Tabacci. Ma in ogni caso non lascia molte speranze al tentativo di Marini. A meno che non ci si voglia accontentare di mettere assieme

Bertinotti parla di «legislatura politicamente finita». Fini pronostica: «Si vota il 6 o il 13 aprile». Consultazioni allargate alle parti sociali una simil-maggioranza analoga a quella di Romano Prodi. E anche da questo punto di vista i segnali arrivati ieri non sono incoraggianti. Lamberto Dini ha assicurato che se si torna alla casella di partenza i liberaldemocratici (cioè lui e il senatore Scalera, visto che D’Amico ha preso un’altra strada) voterebbero no. Se si provasse a giocare con il pallottoliere di Palazzo Madama non si andrebbe lontano, insomma.

Dall’ala sinistra dell’Unione oltretutto si lascia intendere che una maggioranza sbilanciata al centro non sarebbe cosa gradita. Fausto Bertinotti ha gelato i volenterosi della sua coalizione: «La legislatura è politicamente finita, serve un consenso ampio per la legge elettorale, ma bisognerebbe comunque votare entro giugno». Il presidente della Camera vede le elezioni assai più vicine, rispetto agli altri leader di maggioranza. Chiude il discorso sulla corsa per ranghi separati, semplicemente accettandola: «Il candidato del Pd sarà Veltroni, la sinistra invece presenterà una donna». Se Bertinotti fa intravedere diffidenza verso accordi centristi comunque improbabili, Oliviero Diliberto lancia una vera e propria scomunica: «Serve una legge elettorale approvata dall’intero centrosinistra, altrimenti non ci stiamo». Tutto questo non basta certo a scoraggiare Marini. Che ha in mente di creare un clima diverso, capace di suscitare svolte a sorpresa. Ha deciso di allargare le consultazioni anche alle parti sociali, innanzitutto. Scelta obiettivamente inedita. Quasi certamente incontrerà anche il comitato promotore del referendum, che ha titolo costituzionalmente riconosciuto. Gianfranco Fini trova inaccettabile che si aggrappino ora alla consultazione «proprio quelli che nei mesi scorsi l’avevano osteggiata». E fa una previsione ragionevole: «Si voterà il 6 o il 13 aprile».

Con Franco Marini ci sarà, per tutto il periodo delle consultazioni, anche il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Enzo Bianco. L’incarico affidato dal presidente della REpubblica è finalizzato innanzitutto alla ricerca di un’intesa per una nuova legge elettorale. E proprio Bianco aveva messo a punto una bozza poi rivista dalle diplomazie del Partito democratico, Forza Italia, Udc e Rifondazione. Questa seconda versione dell’ipotesi di riforma è la base di discussione di tutti gli incontri svolti da Marini e Bianco.

Napolitano: spetta a Csm valutare toghe Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano non incontrerà i rappresentanti dell’Udeur Mauro Fabris e Tommaso Barbato. Gli stessi parlamentari possono rivolgersi direttamente al Consiglio Superiore della Magistratura. Lo precisa una nota del Quirinale: «Le questioni sollevate dai parlamentari dei Popolari-Udeur possono essere direttamente sottoposte al Csm e agli organi titolari dell’azione disciplinare cui spetta valutare in assoluta autonomia la condotta dei magistrati».

Ue: emergenza rifiuti intollerabile Continuano i blocchi stradali e i roghi in tutta la Campania: solo in una delle località destinate ad accogliere l’immondizia, Marigliano, è stata dichiarata una tregua di 48 ore per consentire i controlli di rischio ambientale. E dall’Unione europea arriva un durissimo monito: «La situazione è intollerabile». Il commissario Gianni De Gennaro assicura però che lo stallo nella gara per il termovalorizzatore di Acerra non influisce sull’emergenza.

Referendari: si voti presto Il Comitato Referendario «non deve e non può intervenire nella contesa politica fra i due poli. Suo compito è difendere il diritto dei cittadini a dire la loro sulla legge elettorale». Lo affermano, in una nota, il presidente del comitato promotore dei referendum elettorali Giovanni Guzzetta, il coordinatore Mario Segni e il tesoriere Natale D’Amico. «Per questo - aggiungono - non possiamo intervenire nella polemica relativa alla opportunità di uno scioglimento anticipato della legislatura».

La Regione Sicilia fa ricorso La giunta regionale siciliana ha deciso di presentare ricorso al provvedimento di sospensione del presidente Cuffaro emanato mercoledì scorso dal governob dimissionario di Romano Prodi. Il conflitto di attribuzioni sarà sollevato davanti alla Corte costituzionale. Secondo gli esperti dell’amministrazione regionale, il decreto Prodi ha violato lo statuto speciale.


politica

1 febbraio 2008 • pagina 7

Rocco Buttiglione critica l’iniziativa di Bruno Tabacci e Mario Baccini: «Ripensateci»

Rosa bianca? La fretta fa fallire ogni progetto di Susanna Turco

ROMA. Non è liquidatorio come il suo leader Pier Ferdinando Casini («la Rosa bianca non so cosa sia»), né tranchant come altri suoi compagni di partito. Anzi. Quando si rivolge ai suoi quasi ex colleghi uddiccini, Rocco Buttiglione pare un po’ il Luca Carboni del Ci stiamo sbagliando ragazzi «Mario, ripensaci. State sbagliando tutto», è il suo appello dagli schermi di Sky tg 24 pomeriggio. Paterno, quasi. Una «corrispondenza di amorosi sensi quasi imbarazzante», la definisce lui. La critica che il presidente dei centristi muove alla fronda tabaccina a un passo dal lasciare la casa madre è, comunque, strettamente politica. «Se si tratta di una operazione per dare due o tre voti all’eventuale governo Marini è un nonsense, dannosa per il Paese e dannosa per la serietà dell’iniziativa politico-culturale che loro vorrebbero avviare». Non potrebbe essere invece un gesto di grande responsabilità, per dare all’Italia un sistema elettorale migliore? No, perché è chiaro che un governo così non riuscirebbe a far nulla, al massimo una legge fatta soltanto nell’interesse di alcuni partiti, che non avrebbe la garanzia di funzionare bene. Lo stesso Marini, peraltro, mi pare voglia evitare. Lui stesso ha parlato di larghe intese. Lasciamo un momento da parte Marini. Ecco, anche in una visione più ampia, l’ultimo congresso Udc è stato un grande congresso per fare il centro in Italia. Abbiamo fatto una battaglia non per dire che Berlusconi non doveva essere più leader, bensì per mettere in discussioni le attuali leadership, perché una fase nuova va giocata su volti nuovi. Ma se una battaglia così la perdi che fai, vai dall’altra parte? Io la penso diversamente. In America se McCain perde le primarie, finirà per sostenere Romney. Stesso discorso vale per Clinton e Obama. Noi non siamo in America, ma al fondo il discorso è lo stesso. Tabacci e Baccini dicono che è stato tradito il man-

dato del congresso. Il bipolarismo fallito, l’autonomia da Berlusconi, l’andare oltre l’Udc... Sostengono che da quando s’è sentita aria di elezioni, Casini ha messo tutto in cantina. Oh, ma io al congresso c’ero. Ho parlato, ho votato e non ho sentito dire: mai più con Berlusconi. È vero invece che è stato dato il mandato di avviare una battaglia politica per cambiare la natura del centrodestra. E la battaglia è in parte riuscita. In cosa, per esempio? Mercoledì abbiamo incontrato Berlusconi e sottoscritto insieme un comunicato che afferma la necessità di superare questa fase di guerra civile latente, e parla di un rapporto diverso con l’opposizione nella prossima legislatura, nella quale non è esclusa la possibilità di una grande coalizione e comunque è certamente contemplato il metodo Sarkozy.

«Condivido l’idea. Ma non si tratta di coinvolgere Pezzotta. E per la discesa in campo di Montezemolo non ci sono le condizioni» Queste possono essere le basi di una nuova alleanza nel centrodestra. Poi parleremo del programma. Quanto sarà forte la voce dell’Udc? Noi contiamo di mettere il nostro segno, per fare una alleanza nuova: ma comunque una alleanza. Altrimenti che facciamo? Una alleanza col centrosinistra? Non è ciò che ha stabilito il congresso. Ci sarebbe sempre l’opzione di correre da soli... Ebbene, se scegliessimo questa possibilità anche chi vuole un

centro forte non ci voterebbe.Vede, l’idea della Rosa bianca è giusta, riportare alla politica il meglio dell’Italia che adesso le sta distante, come per esempio i movimenti cattolici... Ma non si tratta di coinvolgere Pezzotta. Ho grande rispetto per la persona, ma non è lui il punto, il punto è quel mondo che lui rappre-

Se si tratta di un’operazione per dare due o tre voti a Marini è un nonsense: dannosa per il Paese e per la serietà dell’iniziativa stessa senta in alcune circostanze sì e in altre no. E lo stesso discorso vale per il mondo dell’impresa. Baccini è tornato a citare Luca Cordero di Montezemolo... Ecco, il presidente degli industriali potrebbe rappresentare quel mondo a certe condizioni, che però non ci sono. Non so cosa voglia fare, ma se volesse scendere in politica adesso, sarebbe il momento sbagliato. È lo stesso discorso che fa ai tabaccini? La Rosa bianca non è un fiore di serra, non può nascere fuori stagione. Deve fiorire a suo tempo. A giudicare dagli ultimi eventi, qualcuno deve aver temuto che questo momento potesse non arrivare mai. Io spero che la maturazione di questa grande operazione politica ci sia. E non la si può bruciare ripetendo esperienze fallite. Martinazzoli, Andreotti, D’Antoni... è inutile rimpolpare la lista. Pensa che Tabacci e Baccini torneranno indietro? A me piacerebbe, sono amico di tutti e due. Ma? Un’operazione così non si fa prescindendo,

almeno, dall’Udc. Se si comincia da qualcosa di meno di un partito così piccolo allora è velleitaria. Perché la vera operazione è legata allo sforzo di una trasformazione complessiva, di un rinnovamento culturale. Bisogna trovare una nuova sintesi tra i valori liberali e cristiani, un grande lavoro che è in corso, e del quale queste elezioni segnano una tappa, non la fine. Ecco, un percorso del genere non finisce con il voto. Di fronte alla nascita della Rosa Bianca, Giovanardi ha risposto: «tanto vale fare la costola italiana del Ppe». Lei cosa ne pensa? È un progetto antico e affascinante, e anche in questo caso un marchio di fabbrica lo rivendicherei. Ma le difficoltà sono numerose, ho visto progetti generosi affondarci dentro. Servirebbe una forte sintesi politica, ma è difficile che questo avvenga se non si apre prima una fase nuova, che vada oltre questo bipolarismo. Una questione di cultura, prima che di sistemi elettorali. Anche se, naturalmente, un sistema di tipo tedesco sarebbe d’aiuto. E a questo punto potrebbe tornare utile Marini. Quante possibilità ci sono secondo lei che riesca a formare davvero un governo? Guardi, io sarei favorevole a un governo di larga coalizione, perché la situazione attuale è gravissima. La Borsa di Wall Street cade nello stesso giorno in cui la Federal Reserve ha tagliato i tassi di interesse al 3 per cento. C’è un uragano in arrivo, c’è di che preoccuparsi, bisognerebbe mobilitare le migliori energie del Paese. Ma non ci sono le condizioni. Larghe intese non sono possibili, Berlusconi non le vuole. E l’Udc alle piccole intese non si presta. Allora tanto vale lavorare alle riforme dopo le elezioni. Anche a quella elettorale? Quale legge può venire fuori se ogni partito è preoccupato del proprio vantaggio particolare? Un governo che Marini facesse soltanto grazie a qualche voto di margine, che margini avrebbe per prendere qualche decisione nell’interesse del Paese?


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pensieri

L’INTERVENTO

Ambientalisti in crisi, trincerati dietro ai no di Rosa Filippini presidente Amici della terra

scire dalla rassegnazione, dice Carlo Ripa di Meana (su liberal del 24 gennaio), collegare fra loro gli ecologisti liberi contro la sinistra comunista al potere che, attraverso un’alleanza innaturale, ha disarmato e imbolsito il movimento verde. La mia associazione denuncia da tempo il carattere ideologico e dogmatico degli ambientalisti, non solo nostrani, che, dimenticato lo slogan dei tempi d’oro “l’ambiente non è di destra né di sinistra”, si ritrovano sempre schierati sulle posizioni antiliberali derivate dall’estremismo di sinistra. Dalle “navi dei veleni” all’antiamericanismo, gli ambientalisti sono ormai trincerati dietro un muro di “no” che ne caratterizza l’immagine e persino la denominazione: No Dal Molin, No Mose, No Inceneritori, No Discariche, No Tav, No carbone, No rigassificatori; No Ogm, eccetera. L’effetto finale, come un boomerang, ha creato nella società un’insofferenza diffusa verso qualsiasi critica ambientalista, anche fondata nel merito, su opzioni aperte (quali opere infrastrutturali sono necessarie? Di quanto eolico abbiamo veramen-

U

te bisogno e a quali condizioni? Come difendere efficacemente il paesaggio senza cadere in tentazioni dirigistiche? Come conciliare lo sviluppo economico con consumi più sobri?). L’analisi è molto simile ma, Ripa e liberal mi perdonino, io non rie-

Dibattito dopo l’articolo di Carlo Ripa di Meana. La domanda è: perché in tutto mondo il movimento ecologista è rimasto allo stadio infantile? sco ad emozionarmi a un richiamo all’anno zero dell’ambientalismo, ad un appello a ricominciare tutto da capo puntando su un altro cavallo, alla suggestione di poter dividere, una volta per tutte, i “verdi veri”dai “cattivi comunisti”. Non mi pare che il problema sia quello di tornare alle origini, piuttosto quello di capire perché il movimento ambientalista, in tutto il mondo o quasi, è rimasto allo stadio infantile del no a tutto e si è appoggiato all’unica analisi, quella anticapitalistica, che gli consentisse di non evolvere, di non assumere responsabilità. Salvo arrampicarsi sugli specchi, ogni volta che si è trovato al go-

er la satira di Crozza è l’uomo del «ma anche»: una caricatura implacabile che smaschera e ridicolizza quella indecisione ecumenica e l’atteggiamento mentale indotto, «pacatamente e serenamente», a considerare la politica come proiezione di sé, tra indole narcisista e mai sopiti sogni di egemonia. Eppure, paradosso di una politica che non è bella ma spesso beffarda, Walter Veltroni rischia di fallire non per i suoi «ma anche», ma per un «mai più» detto di troppo. Una similitudine inquietante con Francesco De Martino, il leader socialista che guidò alla disfatta il Psi nelle elezioni del 1976. Allora l’Italia usciva dal referendum sul divorzio e dalla vittoria comunista alle regionali del ’75 e sembrava irrimediabilmente attratta a sinistra; la sua formula degli “equilibri più avanzati” lo spinse a innescare la crisi del governo Moro e a spostare verso il Pci un Partito socialista che riteneva esaurita l’esperienza riformista. Coniando lo slogan «mai più senza i comunisti», De Martino affrontò la campagna elettorale andando incontro ad una sconfitta storica: il Psi scese per la prima

P

verno o nei dintorni, per conciliare l’inconciliabile. Per giunta, i partiti, di destra e di sinistra, per ignoranza o per indifferenza, non hanno mai ritenuto che le questioni ambientali fossero meritevoli di dibattito politico e, pur reclamando la loro parte in

nomine e affari connessi alla gestione di opere e servizi, hanno delegato in toto gli indirizzi politici, le scelte di fondo, le strategie ambientali agli ambientalisti più visibili, cioè quelli del No. O, tutt’al più, a quelli del Ni, che fanno discorsi ragionevoli, ma mantengono i propri striscioni alla testa dei blocchi stradali. Così succede, ad esempio, che a Napoli il ministro verde osteggi l’inceneritore, appoggi tutti i comitati del no e poi debba accettare l’invio dell’esercito in una situazione divenuta ingovernabile anche a causa sua. Ma, in questa vicenda, una squadra buona a cui allearsi non c’è. Se è giusto chie-

dere che Bassolino e Jervolino si dimettano, non si può dimenticare che Napoli è stata governata per alcuni anni anche dalla destra e che i treni dei rifiuti partivano già per la Germania quando al posto di Pecoraro Scanio c’era Altero Matteoli (per ben cinque anni). Con questi precedenti, com’è possibile che la destra cavalchi il disastro di Napoli senza alcun ripensamento o ammissione delle proprie responsabilità? Per quanto mi riguarda, ho deciso di fare il tifo solo per la squadra (o, più realisticamente, per la persona) che, ad esempio, accetti di discutere nel merito del caso Campania, e di tutti gli altri casi che sono già al limite dell’emergenza rifiuti, senza pregiudizi e senza opportunismi, assumendo le responsabilità necessarie anche se apparentemente impopolari. So bene che questa squadra anco-

«Mai più con i comunisti»: coraggio o suicidio politico?

Veltroni, un De Martino al contrario che sancisce la fine del centrosinistra di Giampaolo Rossi volta sotto il 10% e per De Martino fu l’inizio della fine. Nel congresso socialista del luglio successivo fu costretto alle dimissioni, cedendo la segreteria ad un giovane Bettino Craxi che aprì la strada alla stagione del vero riformismo socialista. Dal «mai più senza i comunisti» di De Martino, al «mai più con i comunisti» di Veltroni. La scelta del segretario del Pd di far correre il suo partito da solo «quale che sia la legge elettorale», esclu-

ra non esiste. So per certo, però, che non avrebbe nessuna possibilità di formarsi con elezioni anticipate immediate, nel corso di una campagna elettorale che finirà per sommergere con la demagogia quel poco di chiarezza che i fatti, la cronaca, non la politica, hanno prodotto. Se proprio devo tornare indietro, preferisco ricordare quel che argomentava Mario Signorino diciott’anni fa, in un periodo in cui riforma elettorale, riforma della pubblica amministrazione e crisi dei Verdi erano già all’ordine del giorno, con lo slogan “ambiente è buongoverno”. Aggiungerei solo “e stabilità”. Ps. Gli Amici della Terra, sui rifiuti e sul caso Campania hanno detto quasi tutto, a tutti, da oltre dieci anni. Provare per credere: www.amicidellaterra.it

dendo a priori l’ipotesi di accordo con la sinistra radicale, sembra proiettare (seppure con intenti opposti) lo spettro dello stesso fallimento. Ed è forse sulla base di questo precedente, che anche dentro il Pd, iniziano a montare le accuse a Veltroni di aver di fatto causato la crisi di governo, con l’intenzione di andare alle elezioni anticipate. Gli «equilibri più avanzati» di Veltroni non sarebbero più quelli di spostare l’asse politico a sinistra, ma al contrario di spostarlo a destra. Il partito «a vocazione maggioritaria» che Veltroni vorrebbe fondare con il suo «mai più» sancisce non solo la fine del centro-sinistra ma il suo storico fallimento; e l’imbroglio politico e culturale che c’era dietro di esso potrebbe travolgere non solo Prodi, ma anche coloro che in questi anni ne hanno rappresentato la classe dirigente. Forse quello di Veltroni è un atto di coraggio (e sarebbe il primo), forse è un autentico suicidio politico. Ma se si ripensa alla storia di De Martino, il segretario del Pd, per alcuni l’uomo nuovo della sinistra italiana, potrebbe svelarsi molto più vecchio di quello che sembra.


&

parole

n attesa di quel che avverrà e in un momento di euforia del centrodestra che si sente già vincitore, sia concesso ad uno qualunque di scrivere una lettera aperta ai maggiorenti della CdL, supponendo di interpretare il pensiero di molti elettori del centrodestra delusi e arrabbiati dalla sua precedente esperienza e della gente comune talmente stufa della situazione attuale da aver dato spazio a molti demagoghi dell’antipolitica, come sono stati definiti, che però qualche ragione l’hanno, prendendo un po’ lo spunto da un recente scritto di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, che ha indicato tutte le magagne e gli errori del centrosinistra. Ebbene lo si prenda come uno specchio: il centrodestra veda di non cadere in quegli stessi errori, che - sinceramente in parte furono anche suoi. Cosa chiedono gli italiani? Le stesse cose che chiedevano nel 2001 e per cui diedero al Polo una maggioranza tale che avrebbe veramente potuto fare quel che riteneva meglio: eppure non lo fece e non sciolse alcuni nodi fondamentali. Perchè? Perché perse metà legislatura a fare leggi che vennero definite ad personam e non riuscì in cinque anni a riformare l’ordine giudiziario, con la famosa separazione delle carriere. Perchè molte volte, nonostante le decine di deputati e senatori in più, andò in minoranza per clamorose assenze (al centrosinistra non è capitato praticamente mai). Perché, nonostante il Polo non fosse costituito da una decina di partiti come il centrosinistra, si litigava e soprattutto parlava troppo. E si tolga all’avversario la critica-principe risolvendo una buona volta e in un qualsiasi modo il famoso “conflitto d’interessi”... Ora un nuovo governo di centrodestra dovrebbe fare l’opposto di quello di centrosinistra, su tutti i piani. Intanto dare un esempio di serietà e di sobrietà: gli italiani tirano la cinghia come ben si sa e quindi si dia un esempio dall’alto indicandolo come programma elettorale. Si dimezzi tutto: non solo compagine governativa, regionale e comunale, ma anche stipendi, benefici assurdi, appannaggi per le Camere e il Quirinale, eliminazione delle Province, degli enti inutili (che pare impossibile sopprimere), sfolire gli impiegati pubblici invece di blandirli, non cedere ai ricatti di alcuni categorie invece di lisciarne il pelo per averne i voti, eccetera. Le resistenze ci sono: i tentativi del ministro Lanzillotta sono in pratrica falliti, ma ormai inchieste e libri sugli sprechi ce ne sono a bizzeffe e basterebbe documentarsi lì, oppure basterebbe vedersi tutte le sere Striscia la notizia. E questo lo si dica in campagna elettorale e lo si attui. Infatti - un ragionamento veramente elementare, questo - come è possibile, tanto per fare un esempio, agevolare i cittadini con l’abbassamento delle aliquote delle tasse dirette o l’elimininazione dell’Ici sulla prima casa e diminuzione in genere di questa tassa inventata da Amato, se non si diminuisce il fabbisogno dello Stato e degli enti locali? E ciò nonostante il vistoso incremento delle entrate.

I

Gli italiani pretendono che i loro soldi siano spesi bene: che l’amministrazione pubblica funzioni, che i trasporti non facciano schifo, che la scuola e l’università siano efficienti, che sia garantita la sicurezza, che la giustizia sia sopra le parti e certa e veramente tutti siano uguali di fronte alla legge, dall’immigrato al presidente di Regione, e non ci siano impunità né sociali né politiche. La percezione generale è che l’Italia sia diventata un Paese degradato in cui

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Posso chiedere al centrodestra

SERIETÀ

buona amministrazione e passione morale? di Gianfranco De Turris

Sfogo di un elettore qualunque, deluso dai cinque anni di governo della Cdl: attenzione a non commettere di nuovo gli stessi errori non funziona decentemente nulla: dalla sanità alle attività pèi piccole, che la corruzione dilaghi e che Tangentopoli non sia servita a nulla: non c’è praticamente giorno che non si legga di truffe e imbrogli a tutti i livelli, nel privato e nel pubblico. L’Italia è veramente una nazione in declino: non bastano le vittorie nel calcio, nel motociclismo, nell’automobilismo, nel pattinaggio, nello sci, nella moda, nella cucina per dire che non è vero. Tutte le indagini internazionali e nazionali, tutte le analisi degli istituti di ricerca (Istat, Censis, Eurispes) dicono il contrario sul piano scientifico e culturale, morale e sociale, cioé sui piani che stanno alla base di quel che ci fa nazione. Un Paese in cui fallisce la compagnia di bandiera, sono sull’orlo del fallimento le Ferrovie, è in svendita parte della grande industria, non si può costruire un incineritore come lo si definisce? Un Paese che è all’ultimo posto per l’insegnamento e la lettura, e non conosce più la propria lingua come dimostrano i concorsi, come lo si definisce? Questa è una nazione da ricompattare e da rifondare, e non lo si può fare che con l’esempio dall’alto, con la serietà degli intenti e con la serietà personale, con un rinnovamento etico: è questo che la gente comune

chiede. Il centrodestra deve proporre un cambiamento di mentalità e di morale. Ma non lo si può fare con una coalizione rissosa, spaccata, soprattutto parolaia e vanitosa, che si preoccupa solo di apparire in televisione e di farsi intervistare dai giornali. Per far ciò non si può aggregare chiunque: si corre il rischio di mettere su una coalizione soltanto antiprodiana, così come Prodi ha fallito mettendo su soltanto una coalizione antiberlusconiana, ma divisa su tutto. Incautamente è stato detto: “Mastella nel centrodestra!”. Ma come si fa! Mastella è stato un ministro per tutte le stagioni, passato da un opposto all’altro, e se non fosse incappato nella sua disavventura familistico-giudiziaria starebbe ancora al suo posto e non ci sarebbe stata alcuna crisi. Lo stesso vale per Dini che ha attraversato tutto l’arco politico. Aggregarli all’interno della Cdl sarebbe capito dagli elettori del centrodestra e da quelli “pentiti” del centrosinistra?

Incredibilmente, per colpa del centrosinistra e non per meriti del centrodestra, si presenta un’altra occasione: forse quella per mettere definitivamente in soffitta la demagogia cattocomunista. Ma si deve essere preparati e attenti: si deve andare al governo con piani già pronti, leggi già predisposte, soluzioni già chiare. Da come risolvere il problema dei rifiuti (una delle questioni più obbrobriose che siano date da vedere in un Paese civile) a quella della scuola: sì, perché - bisogna avere il coraggio di dirlo - non è che la Riforma Moratti fosse una cosa splendida... Altro che inglese, se non si conosce l’italiano! altro che informatica se

non si conosce la matematica! Bisogna avere il coraggio, dopo le esperienze ed i fatti concreti, di ammettere gli errori, come quello demagogico di aver abolito l’esame di riparazione provocando un effetto a catena inimmaginabile, e non invece protestare perché il boy scout Fioroni aveva pensato di ripristinarlo. Nella scuola, a partire dalle elementari, si costruisce il nostro futuro collettivo: noi oggi subiamo le conseguenze dalla catastrofe sessantottina, e i ragazzini di oggi sono i figli proprio di coloro i quali hanno studiato durante un Sessantotto durato venti anni ed hanno una mentalità giustificatrice sempre e comunque nei confronti dei loro pargoli per cui l’unica cosa che sanno fare è ricorrere al Tar per ogni bocciatura o sospensione. Il troppo ottimismo non paga, come il troppo pessimismo: bisogna essere semplicemente realistici ed accorgersi che la “gente” non ne può più e, meditato sugli errori propri e altrui, ricostruire questa nazione che, come è stato detto, è diventata nel giro di diciotto mesi una “mucillagine”, una “palude”, ridotta a “coriandoli”. Ma lo si può fare solo con la coerenza (non si può fare una legge elettorale che poi il suo ideatore definisce una “porcata”, non si può votarla in Parlamento per poi aderire al referedum che la vuole modificare!), con l’esempio personale e collettivo, ma sì anche con il rigore morale: nei comportamenti e nei fatti. Non si può predicare bene e razzolare male. Res non verba, diceva Ezra Pound. Per favore, non deludeteci ancora. Siamo tutti stufi, al limite della sopportazione. Questa potrebbe essere veramente l’ultima occasione, non solo per il centrodestra ma per l’Italia.


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mondo

Strade e mercati i centri di propaganda per l’Umma africana

Soffia sul Kenya il vento dell’Islam di Justo Lacunza Balda a violenza non si ferma in Kenya. E’ un massacro continuo dopo le elezioni, che tra brogli e contestazioni, hanno confermato Kibaki presidente di quello che era uno dei paradisi del turismo internazionale. Ma ciò che sta accadendo non è soltanto il risultato dello scontro frontale fra Kibaki e il suo avversario Odinga. Sullo sfondo di questa nuova crisi africana c’è anche la spinta islamista che soffia sul fuoco della rivoluzione popolare. Una spinta che viene da lontano. Nel 1992 lo sceicco Khalid Salim Balala, yemenita, ma residente a Mombasa, sfidò il governo di Daniel Arap Moi, creando il Partito Islamico del Kenya (Ipk). La formazione politica fu messa fuori legge e Balala arrestato. Le autorità governative erano decise a bloccare il tentativo dello sceicco e di altri islamisti di candidarsi nelle liste dell’Ipk, già nelle elezioni del 1992. Bloccato sulla strada della politica, Balala lasciò Mombasa per rifugiarsi in Germania. Il governo keniano gli aveva tolto la cittadinanza, perché di ascendenza arabayemenita. Poi tornò in Kenya nel 1997, convinto che l’Islam avrebbe conquistato il potere. La spinta islamista non era un fatto isolato in Africa. Somalia, Sudan, Tanzania, Nigeria, Senegal, Sudafrica, Chad, Niger, Etiopia, Uganda erano stati già raggiunti dalla propaganda della rivoluzione islamica. Ma quali sono le ragioni dell’islamismo militante? Sono tre: la rivoluzione islamica di Khomeini, i predicatori musulmani itineranti - con Ahmad Hussein Deedat in prima linea - e i movimenti musulmani, in modo particolare il Fronte Nazionale Islamico (Nif) di Asan el Turabi. La fondazione della Repubblica Islamica dell’Iran è il punto di partenza di un cambio di rotta. L’Islam era considerato, fino al 1979, come la religione e la civiltà

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di un altro popolo, quello degli arabi. Ma i capi religiosi continuavano la ricerca di un modello d’Islam africano. È quello che Abdullah Saleh al-Farsy (1912-1982), scrittore, traduttore del Corano in lingua suahili e poeta, chiamava, «scuotere la polvere del colonialismo degli arabi», quando scriveva dell’identità dei musulmani africani. La rivoluzione khomeinista arriva in un momento cruciale nella storia africana, legato alla delusione verso gli arabi. I Paesi africani saranno i più colpiti dalla decisione di usare il petrolio come un’arma. Ma ecco che dall’Iran arriva la rivoluzione islamica «politica». Gli uffici della propaganda a Teheran s’incaricano di produrre e di distribuire testi, riviste e publicazioni per rispondere alle aspettative dei leader musulmani africani. Basti come esempio la rivista Umma (Comunità) pubblicata in lingua suahili e distribuita in Somalia, Kenya, Uganda, Burundi, Rwan-

e politici musulmani, che cominciano a chiedere la creazione di uno Stato islamico, sul modello iraniano. Già in precedenza, le più importanti confraternite musulmane sunnite (I Muridi, la Qadiriyya, la Shadiliyya, la Tijaniyya) avevano avuto un’influenzato politica. Con l’Iran, però, si rafforzano gli sciiti. Un altro aspetto della cultura iraniana è il concetto di mujahidin o combattenti islamici. Migliaia di credenti africani sono reclutati per il jihad e la difesa dei musulmani in Paesi, come l’Afghanistan, le Filippine, la Cecenia e i Balcani. Oggi, in Africa, le forze della rivoluzione khomeinista sono presenti in Somalia, Kenya, Chad, Niger, Costa d’Avorio, Tanzania, Mali, Nigeria, Uganda e Sudan, con un intreccio indissolubile tra fede religiosa e potere politico. Il secondo fattore dell’ascesa dell’integralismo è l’insegnamento religioso dei predicatori itineranti, chiamati i «predicatori di strada». Questi «venditori di strada» sono importanti nel contesto africano, ma spesso gli esperti occidentali non ne hanno capito il ruolo. Ci sono due elementi incontestabili nella vita dei musulmani africani: la funzione del mercato e la liberazione dell’Islam dalle moschee. In tutta l’Africa il mercato ha una dimensione sociale, culturale ed economica. Fa parte del tessuto della vita, crea rete di communicazione, sistema di influenza ed equilibri di potere. L’esempio più evidente è la presenza di migliaia di rifugiati somali nei Paesi dell’Africa orientale, che controllano il commercio del bestiame, le macellerie e il commercio del qat (una droga tipica di quelle zone). I leader musulmani somali si inseriscono in questa fitta rete di relazioni commerciali. Il grande promotore di questa categoria di «viaggiatori musulma-

La lezione originale di al Turabi e Ahmad Deedat: dai predicatori di strada verso lo Stato islamico nei Paesi africani da, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Zambia, Malawi e Sudafrica. Mentre le sedi diplomatiche iraniane rendevano pubblici gli aspetti politici e culturali della rivoluzione. È allora che nascono le prime formazioni politiche per contrastare l’eredità delle potenze coloniali occidentali. Sono molti i leader religiosi, gli insegnanti delle scuole coraniche

ni» è stato Ahmad Hussein Deedat (1903-2005) che dal suo centro islamico di Durban, in Sudafrica, aveva ispirato decine di predicatori sunniti. I loro insegnamenti si fondano sul ritorno all’Islam del velo, delle tradizioni e dell’osservanza puritana e sull’invito a sfidare le comunità cristiane e i governi africani. L’Arabia Saudita, l’Egitto e la Libia hanno appoggiato la diffusione di questo islamismo conflittuale. La terza componente dell’islamismo radicale è l’attività dei movimenti musulmani. Il Fronte Nazionale Islamico (Fni), ispirato dai Fratelli Musulmani egiziani di Hasan al-Banna (1906-1949), è uno dei referenti principali degli islamisti africani. Il Fni fu fondato dal giurista e politico sudanese Hasan al-Turabi. E’ senza dubbio l’intellettuale che ha avuto maggiore influenza negli ambienti islamisti africani. Le sue le rivendicazioni sono arrivate oltre oceano, negli Stati Uniti e in Canada, nelle file dei musulmani in Europa e nei movimenti, come Hamas e i Talebani. Il testo di alTurabi «Lo Stato Islamico» è stato tradotto in molte lingue come il malayo (idioma colombiano e di alcune regioni del Pacifico). Ma qual è la formula del successo di al-Turabi? Sono due le idee

centrali del suo discorso. La prima è che la legge islamica è il fondamento delle leggi dello Stato e la seconda ne è la conseguenza: la necessità di riscrivere le Costituzioni nazionali. Ma alTurabi ha preso anche due decisioni che hanno avuto una influenza decisiva nello sviluppo dell’islamismo in Africa. Ha collegato le sue idee a al-Qaeda, ha accolto Osama bin Laden in Sudan nel 1991 ed è diventato il coordinatore del movimento islamista con la Conferenza Araba Popolare (Cap), che riunì a Khartum, negli anni Novanta, i rappresentanti dei movimenti islamici mondiali. Le delegazioni più numerose furono quelle afghane. La visione islamista di al-Turabi, oggi sorvegliato dal governo sudanese di al-Bashir, ha avuto molta influenza sul movimento dei Janjaweed nel Darfur, il gruppo dei difensori della Shari’a in Nigeria, quello del Maghreb Islamico in Africa occidentale e quello dell’Unione delle Corte Islamiche in Somalia. Nel frattempo l’islamismo radicale ha trovato un altro campo di influenza: dietro le quinte, la propaganda islamista in Kenya continua a soffiare sulla guerra aperta tra le frazioni etniche e tribali.


mondo

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Mentre il freddo paralizza il Paese aumentano i timori di Pechino

Cina, allarme energia il petrolio non basta più di Raffaele Cazzola Hofmann n gigante sempre più affamato di energia. Tanto che non bastano più i circa 7 miliardi di barili di petrolio fagocitati ogni anno, né l’enorme produzione interna di carbone. E tanto che i cinquanta miliardi di kilowatt oggi prodotti, con l’energia nucleare (alimentati dall’uranio australiano) rischiano di rivelarsi insufficienti. È questo il ritratto contraddittorio della Cina. Uno degli inverni più rigidi della storia ha già causato morti e danni per 2,5 miliardi di dollari. Ne deriva una crisi energetica molto complessa. L’allarme è stato lanciato dallo stesso governo di Pechino, non abituato a rendere pubblico ciò che non va nella locomotiva cinese lanciata all’inseguimento degli Usa. Sono ormai frequenti i black-out nelle regioni a più forte sviluppo, con un rallentamento preoccupante dell’attività industriale cinese. Per correre ai ripari è stata annunciata una riduzione nell’utenza privata. Così si potranno liberare risorse per l’industria che, invece, non può permettersi pause. Le cifre della Banca Mondiale confermano le preoccupazioni di Pechino: «Mettendo in relazione il prodotto interno lordo cinese col resto del mondo», afferma il rapporto China’s Development Priorities, «la Cina registra un consumo di energia pro-capite pari a 0.23 chilogrammi, circa lo stesso livello degli Stati Uniti, dell‘Indonesia, della Co-

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Per evitare che i black out mettano in ginocchio le imprese, il governo diminuisce la fornitura ai cittadini rea del Sud e della Malesia. In Europa e in Giappone la quota di energia consumata pro-capite è pari a 0.15 chilogrammi». Mentre il governo si appella alla popolazione, dietro le quinte è già attiva la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme. In Cina la politica energetica è tutta nelle sue mani e utilizza ancora dei piani quinquennali, aggiorna-

ti. Pur criticabile, la Commissione sul tema energetico è stata profetica, anticipando le stime della Banca Mondiale. Il capitolo sull’energia del Piano quinquennale 2005-2010, rivela dati interessanti. E mostra, come già circa tre anni fa, mentre le autorità cinesi andavano in giro per il mondo alla ricerca di oro nero a buon mercato, la crisi fosse considerata un pericolo. Tra le pieghe del Piano quinquennale, si legge che entro il 2010 - nonostante la necessità di limitare i danni ambientali la megaproduzione di carbone scenderà di appena il 3 per cento. A questo ritmo non basterebbero cinquant’anni per dimezzare l’uso del carbone, destinato a rimanere la prima fonte energetica cinese. Ma il focus del Piano quinquennale è un altro: «Il sistema di riserve strategiche appare troppo debole per far fronte a interruzioni nelle forniture».Tra gli obiettivi a breve, c’è l’accumulo di nuove riserve strategiche non inferiori a 100 milioni di barili. Una quantità in grado di assicurare, nello scenario peggiore, almeno quindici giorni di autonomia. Dire che la Cina si trovi già in condizioni di emergenza è eccessivo. Ma l’allarme scattato in questi giorni di gelo fa essere meno ottimisti sull’economia del gigante asiatico. Anche perché i tre miliardi di dollari investiti nell’estrazione di petrolio nel Mar Cinese non stanno ancora dando risultati.

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d e l

g i o r n o

Durissima reazione egiziana su sconfinamento a Gaza «Furore e indignazione» sono state esperessi dal capo dei servizi segreti egiziani, Omar Soleiman, nell’incontro con Khaled Meshal, leader in esilio di Hamas. Durante l’incontro svoltosi al Cairo le autorità egiziane hanno stigmatizzato la violazione, avvenuta nei giorni scorsi, del confine di Rafah nella striscia di Gaza.

Gli errori strategici d’Israele I risultati della Commissione d’inchiesta Winograd hanno evidenziato gli errori commessi nella guerra libanese contro Hezbollah. Una dottrina strategica troppo focalizzata verso il nemico lontano (Iran) ha causato un’indebolimento della struttura delle forze convenzionali di Tsahal.

Opposizione siriana in carcere Un altro firmatario della «Dichiarazione di Damasco» è stato arrestato dalle autorità siriane. Tala Abu Dan è un artista e un attivista per i diritti civili e con lui salgono a 12 i dissidenti ridotti in carcere dallo scroso dicembre. Già martedì la polizia avevav fermato l’ex deputato Riad Seif.

Turchia reintroduce il “turban” Dopo il no del due Sarkozy-Merkel all’ingresso di Ankara nella Ue, il governo turco prosegue l’iter parlamentare della legge sulla reintroduzuione della «libertà di velo». La Turchia laica protesta, accusando l’esecutivo di voler reislamizzare la società.

Ban Ki-Moon oggi in Kenya Il segretario generale dell’Onu arriva oggi nella capitale Nairobi, nel tentativo di ricomporre la crisi che ha investito il Paese dopo l’ultima tornata elettorale delle preseidenziali. I tumulti e i conflitti etnici hanno causato, ad oggi, più di 900 morti.

Iran: impiccato indipendentista arabo Il leader dell’indipendentismo arabo in iran, Zamel Bavi è stato impiccato ieri nel carcere Karoun di Ahwaz, capoluogo del Khuzestan. Altri tre membri del movimento indipendentista sono in attesa dell’esecuzione con l’accusa di «insurrezione armata».

Al-Qaeda aiuta il governo yemenita Il portavoce della cellula yemenita di al-Qaeda, Ahmad Mansour, ha affermato che governo di Sana’a ha chiesto la collaborazione dell’organizzazione terroristica per combattere i ribelli sciiti del Nord. I gruppi di bin Laden sarebbero presenti in tutte le provincie del Paese, sempre secondo le dichiarazioni di Mansour.

La Clinton domina i sondaggi a New York Hillary Clinton è data al 50 per cento delle dichiarazioni di voto, seguita al 27 per cento da Barack Obama nel campo dei democratici. Per i repubblicani John McCain al 31 per cento ha staccato il candidato Mitt Romney al 13 per cento. Le percentuali sono ricavate da una media dei sondaggi effettuati dai principali organi di stampa.

Sulla lotta al terrorismo rischia di scivolare la macchina elettorale del premier

L’Eta di Zapatero e il rompicapo dei Paesi baschi di Davide Mattei

MADRID. Se Zapatero vincerà le elezioni del prossimo 9 marzo, o se ne uscirà sconfitto, lo dovrà in buona parte a quello che è stato uno dei cardini della legislatura: la sua strategia contro il terrorismo. Dopo aver tentato in vano di dialogare con Eta, per arrivare alla fine del conflitto armato e soprattutto dopo l’attentato all’aeroporto di Barajas del 30 dicembre 2006 (quando il cessate il fuoco era ufficialmente in vigore), il governo socialista ha deciso di cambiare rotta e di non fare più sconti ai terroristi ed al loro entorno, ovvero chi li appoggia dentro e fuori i parla-

menti. Da allora la polizia ha arrestato numerosi etarrase, persone legate alla kale borroka, la lotta di strada dei simpatizzanti dell’Eta. Due giorni fa, la procura spagnola ha chiesto alla Corte costituzionale che questa interrompa i finanziamenti al Pctv (Partito comunista delle terre basche), che chiuda le sue sedi e che gli proibisca la partecipazione alle prossime elezioni. Oggi farà lo stesso con Anv (Azione nazionalista basca). Indagini bancarie testimonierebbero che i due partiti passavano il denaro che veniva pagato dal parlamento basco a conti di Ba-

tasuna, l’ex braccio politico di Eta sciolto dalla Corte Suprema nel 2003. La politica socialista del «tira e molla» non è piaciuta al Partido popular, che l’ha criticata durante la tregua, quando il Governo sembrava cedere troppo alle richieste dei terroristi, e la stigmatizza oggi, affermando che l’azione contro Pctv e Anv è solo una sorta di coup de teatre con scopi elettorali. Perché già dal 2005 tutti sapevano che vi erano legami tra i due partiti di estrema sinistra e Batasuna. Ma mentre Pp e Psoe dibattevano, i nazionalisti baschi hanno promosso una proposta di legge,

nel parlamento basco, che blinderebbe qualsiasi partito. La legge richiederà infatti che per sciogliere una formazione politica sia necessaria la maggioranza assoluta di 38 voti. Paradossalmente, questa maggioranza sarebbero capaci di riunirla, oggi, solo il tripartito al governo (Pnv, Ea e Eb) con l’appoggio proprio del Pctv. I primi sono i promotori della proposta di legge, mentre il secondo difficilmente darebbe il voto che segnerebbe la sua scomparsa. Così, mentre il nove marzo si avvicina, il rompicapo dei paesi baschi si complica e con lui l’esito delle elezioni.


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APPROFONDIMENTI

Carte 1968 AN

di Renzo Foa

l 1968 nel suo svolgersi storico fu «un anno terribile», un anno segnato dal sangue. Fu soprattutto l’anno in cui si formò e si sedimentò un grande equivoco, che si è trascinato a lungo: la parola liberazione venne confusa con la parola libertà. Devo la definizione di «anno terribile» a Mark Kurlansky, autore di una minuziosa ricostruzione di quel passaggio, che poi molti hanno paragonato al 1848, considerandolo il grande momento di rottura che ogni secolo vive, nel bene e nel male. Se questa regola fosse vera, chissà cosa ci aspetta in questo secolo. Ma per restare al tema di oggi, affidiamoci al setaccio della memoria. Forse nei ricordi di chi in quel momento era un teenager, prevale ancora altro: i primi cortei che svuotavano le università e le scuole, per poi riempirle nelle occupazioni, l’irruzione della musica e della poesia o la sensazione che stesse saltando un «vecchio mon-

I

do» e che ne stesse arrivando uno nuovo. Prevale l’immagine di un’incontenibile corsa a diventare padroni di se stessi, magari nelle forme irresponsabili e candide lette nella pagine del Giovane Holden. Ma nei fatti, il 1968 fu tutto molto diverso. Fu davvero «terribile».

Chi non provò un incolmabile senso di smarrimento quando Martin Luther King venne assassinato a Memphis? Restammo all’improvviso senza il pastore battista che aveva proiettato aldilà delle frontiere americane l’idea dei «diritti civili». Non un leader politico, ma un uomo di fede, se vogliamo pensare al ruolo della religione nella trasformazione del mondo. Poi, chi non precipitò nell’angoscia, quando nelle cucine dell’Ambassador hotel di Los Angeles Shiran Shiran colpì a morte Robert Kennedy, mentre era avviato alla conquista della Casa Bianca? Altro piombo che

cambiò il corso della storia e che venne universalmente vissuto come un’incolmabile ingiustizia. Provammo tutti un senso di vuoto, perché sia l’uno che l’altro rappresentavano un’idea di futuro accettabile. Universale,

con cui vivemmo quel duplice assassinio. Per la prima volta la televisione diventò anche per noi uno strumento di comunicazione immediata. Per la prima volta sentimmo gli spari di Memphis e quelli di Los Ange-

Martin Luther King, Robert Kennedy, Praga, Biafra, Vietnam: possibile che a dominare i ricordi sia solo Valle Giulia? aldilà del conflitto ideologico che spaccava il Novecento.

Attenzione. Non dimentichiamo un’altra novità: la vicinanza

les come se fossero stati esplosi sotto casa. Furono vicini come non era mai accaduto prima. Dettero la sensazione che il mondo era diventato davvero

piccolo e che ciò che avveniva altrove non poteva che riguardarci direttamente. Le ideologie internazionaliste furono semplificate dalla concretezza della comunicazione. Non c’erano più segmenti separati. Eravamo tutti sullo stesso palcoscenico. Così, per continuare a ricordare, come la mettiamo con l’agosto di Praga? Quella mattina in cui vedemmo in televisione i carri armati sovietici occupare la Cecoslovacchia sentimmo che era finito il grande e affascinante tentativo di cambiare uno dei pilastri negativi del Novecento, cioè il comunismo, attuato oltretutto dal suo interno. Fu un momento di disperazione, compiutamente rappresentato dai ragazzi disarmati che cercavano di convincere gli invasori che avevano sbagliato. Invece, la televisione non ci fornì mai allora l’occasione di vedere l’altra grande rivolta esplosa nell’Est europeo, quella degli studenti polacchi, in gran parte figli della


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Carte

NNO

TERRIBILE Quando la parola “liberazione” venne confusa con “libertà”. Scatenando un bagno di sangue fu la terza costante di quel passaggio. Forse la più importante, per i suoi effetti e le sue conseguenze. Di sangue, per tutto il 1968, ne corse a fiumi nel sudest asiatico. Lo vedemmo soprattutto durante l’offensiva del Tet. Lo annotavamo quotidianamente con i bollettini militari che fornivano le cifre delle perdite americane. Lo scoprivamo anche lì grazie alle immagini televisive, alle dirette che rivelavano l’essenza della guerra ad una generazione che non sapeva cosa fosse. E che si presentò con i bombardamenti e con il loro significato spaventoso nell’immaginario collettivo, in cui ci sono le vittime – i civili che stanno a terra – e i carnefici che pilotano gli strumenti più moderni di attacco.

nomenclatura rossa, nè la sua repressione. Non c’era ancora la spettacolarità dell’«Estate di Danzica». Eppure lì cominciò un cammino. Fu l’inizio – anche se lo apprendemmo dopo – di quel fenomeno culturale e politico che si rivelò decisivo e che fu il Dissenso.

Parlo sempre del 1968, quando penso alla catastrofe del Biafra, al milione di morti per fame, che ci avvicinarono di colpo e con orrore alle catastrofi umanitarie del Sud del mondo. Non fu anche quello un dettaglio terribile della nostra vita? E poi non abbiamo dimenticato la strage consumata nella Piazza delle Tre culture, a Città del Messico, quella che ci raccontò Oriana Fallaci che era lì in mezzo agli studenti che inscenavano la loro contestazione e che un potere indifferente alle reazioni del pianeta decise di massacrare.

Fu un concentrato di eventi spaventosi. Una stagione che ci diceva che tanto la nostra angoscia personale che la nostra soli-

darietà politica verso le vittime dell’ingiustizia, ormai così vicine a noi, servivano a poco se non a nulla. A pensarci ora, mi sembra strano che a dominare il concetto di Sessantotto siano rimaste soprattutto le immagini del maggio francese o – per noi italiani – quelle dello scontro di Valle Giulia o ancora quelle dei cortei degli studenti di Berlino. Come se si fosse trattato solo del momento topico in cui una generazione di occidentali si era impadronita del proprio destino, segnalando alla generazione precedente che il suo mondo era finito. Il predominio di questa sensazione è il mito che poi si è affermato grazie ai meccanismi della rimozione, che è rimasto e che si è trascinato, giungendo ormai logoro fino a noi. Ma – insisto – quell’anno fu terribile. E per averne piena consapevolezza, basta ricordarsi del Vietnam, argomento che ho lasciato per ultimo. L’ho lasciato per ultimo perché – con la contestazione studentesca sparsa per il pianeta e con la rivolta antitotalitaria di Varsavia e di Praga –

Perché il Vietnam fu così importante? A volte i ricordi personali sono più utili delle riflessioni storiche. Una mattina a Torino, all’inizio di quell’anno, gruppi di studenti medi e universitari stavano discutendo sull’occupazione di Palazzo Campana. Si parlava della 2314, dell’«autoritarismo accademico» e di tutti quegli argomenti che allora, all’inizio, erano la cornice del movimento ancora tutto concentrato sulla scuola. C’erano le carte rivendicative, c’erano lunghi documenti. Era una discussione infinita, in cui ognuno diceva la sua e che si perdeva in mille rivoli. Finché non fu pronunciata la parola Vietnam. E in quel momento scattò una sintesi. Tutti erano d’accordo. Tutti pensavano che alzare la voce all’interno di un’aula non era un gesto che poteva restare rinchiuso all’interno delle mura di un istituto, che bisognava uscirne. E allora, l’arretrata risaia, dove si lavorava ancora con la sola forza delle braccia, diventò un punto di riferimento globale. Non poteva certo saperlo la giovane dottoressa vietcong Dang

Thuy Tram, che venne uccisa allora e che ha lasciato uno straordinario diario pubblicato solo adesso, a distanza di tanto tempo, e contraddistinto da sentimenti e da amore per la propria terra. Ma fu proprio così: i vietcong, guerriglieri nazionalisti che prima del comunismo difendevano la propria terra, espressero la globalizzazione di una generazione e unificarono il Sessantotto. Certamente, se non fosse stato tanto diffuso quel grande senso di ingiustizia provocato dall’immagine della prepotenza del grande verso il piccolo, tutto l’anno sarebbe stato diverso. Il Vietnam fu quel qualcosa in più che spinse il malessere fisiologico di una generazione a trasformarsi in un moto, che trasformò le proteste degli studenti in questa o quella scuola, in questa o quella università, in questa o quella città, in un sovvertimento universale. Che aiutò a ridefinire l’idea del «nemico», aggiornando vecchie ideologie e componendone di nuove. Il Vietnam fu un orrore, ma fu nello stesso tempo la musica, la poesia, il sogno. E nello stesso tempo fu il collante del mito.

Due parole sul Vietnam. Tanto più ci penso, quanto più giungo alla conclusione che quello fu davvero un errore, anzi un doppio errore. Mi sono tante volte chiesto se, avendo la possibilità di viaggiare nel tempo, di tornare a raccontare quella guerra – perché ho avuto la fortuna di farlo - avrei riscritto quello che scrissi allora. E tutte le volte mi sono risposto che, sì, che avrei riscritto con lo stesso spirito di partecipazione e di adesione, perché troppo grande era il divario tra la potenza americana e la minuzia di quelle risaie per poter trovare almeno una ragione in quella guerra. Ma non per questo ho rifiutato di riconoscere che se l’errore di partenza fu di coloro che si erano lasciati risucchiare in un conflitto strategico

in una zona poi rivelatasi marginale del mondo, ci fu anche l’altro grande errore, sottolineato impietosamente dalla storia: quello di aver equivocato, di aver tradotto frettolosamente – e ideologicamente – la parola liberazione nella parola libertà. Alla pace non seguì certo la libertà per i vietnamiti. La vittoria – che coincise con l’unica grande sconfitta subito dagli Stati Uniti nella loro storia – fu poco più di un esorcismo. Ma quel doppio errore condizionò tutto. Anzi complicò tutto. Ridivise in due il mondo. E contribuì a creare un grande alibi. Ricordate il mito dell’«altra America»? C’era di tutto in quel mito, dalla musica, dalla poesia e dal cinema – un film, Il laureato, fu l’anticipazione del Sessantotto – fino ai ragazzi che bruciavano le cartoline-precetto e alle «pantere» che contrapponevano il «potere nero» all’integrazione di M.L. King. C’era proprio di tutto, visto che poi la storia ci ha raccontato che è diventato presidente degli Stati Uniti uno di quei ragazzi che bruciavano le cartoline-precetto, cioè Bill Clinton, e che ora aspira a diventarlo uno di quei ragazzi che invece nella guerra si era impegnato fino in fondo, cioé John McCain. È il mito che l’America ha superato e che, invece, continua a sopravvivere qui in Europa, a rinascere come un feticcio ogni volta che c’è bisogno di un nemico da costruire o, peggio ancora, di un’identità europea da costruire. Il grande alibi di quarant’anni fa fu quello che coprì un fenomeno di strabismo di massa, destinato a sedimentarsi e a caratterizzare l’esistenza della prima generazione immersa nell’era mediatica: si scambiò l’anti-democrazia con la democrazia e si dimenticò che la democrazia, per sua natura imperfetta, per sua natura destinata a sbagliare e per sua natura capace di correggersi, fosse comunque la qualità dell’Occidente.


Un’alleanza con la scienza e i giovani per sconfiggere il nuovo nemico dell’uomo

La sfida al dragone materialista di Lorenzo Ornaghi n quale stagione ci troviamo? Possiamo rispondere, con una qualche pur non infondata ruvidità, che si tratta di una stagione declinante: la definirei forse un autunno segnato dal tardo-secolarismo. L’Europa, dal 1500 al 1800, ha visto nascere e progressivamente affermarsi una“cultura” (e una prassi), a partire dalla crescente divaricazione tra la sfera politica e quella religiosa. Ma il tardosecolarismo, oggi sempre più, sembra consistere soltanto in un incalzante perseguimento non solo della separazione delle due sfere, ma dell’annullamento dell’una a vantaggio (reale o illusorio?) dell’altra: tale è noto appunto come secolarismo. In questo caso sembrerebbe trattarsi di un progetto consapevole e di ampio respiro, poiché il sistema sociale, politico e massmediatico nel suo complesso mostra un comune e coerente orientamento in tale direzione, quasi si trattasse di una specifica e diffusa “atmosfera” culturale. Le nostre società si avvertono – e per certi versi sono – precarie, vulnerabili, carenti di un durevole ethos di appartenenza. Smarrendosi o sbiadendo il significato vero non solo delle

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aspettative e delle promesse, delle positive opportunità e dei limiti, ma anche delle inquietudini e dei dubbi che inevitabilmente accompagnano la vita individuale e collettiva, così come quella di ogni soggetto associativo, sempre più ci sembra di vivere perennemente in bilico. Gli eventi che assecondiamo nella loro vorticosa progressione sembrano del tutto indeterminabili dalla nostra volontà. E ci sentiamo sospesi, così, tra l’inarrestabile forza di attrazione delle contingenze e urgenze del presente e l’assillo che il futuro possa non solo tradire le nostre più fiduciose aspettative, ma anche amplificare le inquietudini e ulteriormente minacciare le già scarse sicurezze odierne. Tornano così alla mente le parole di Papa Benedetto XVI, quando, nell’omelia pronunciata in occasione della Solennità dell’Assunzione di Maria lo scorso 15 agosto 2007, richiamando l’immagine apocalittica del «dragone», ha riflettuto sulla natura di un nuovo avversario, non tanto della Chiesa, quanto del bene dell’uomo, nella forma delle «ideologie materialiste» (per cui è assurdo pensare a Dio), del «consumo» e dell’«egoismo». E,

Bisogna alimentare un nuovo circolo virtuoso dell’educazione

ha notato il Pontefice, sembra «impossibile opporsi a questa mentalità dominante, con tutta la sua forza propagandistica». Proprio il Santo Padre ci sprona tuttavia a non disperare, poiché c’è «la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo», come ha anche successivamente ribadito nella sua Enciclica Spe Salvi. Questo, tuttavia, ci impegna profondamente. L’esigenza di fornire una testimonianza adeguata in risposta all’“assalto” del dragone coinvolge ogni ambito della nostra vita.

L’alleanza con la scienza È allora in questa prospettiva che si rende urgente e irrinunciabile un cambio di stagione culturale. E ciò dovrebbe avvenire soprattutto in due ambiti: quello della ricerca scientifica e quello dell’educazione dei giovani. Per quanto riguarda il primo, in controtendenza rispetto all’attuale orientamento del contesto pubblico, credo sia necessario stringere una sorta di nuova alleanza con la scienza. Il progresso scientifico e tecnologico ci ha permesso di compiere enormi passi in avanti nel migliorare l’esistenza quotidiana nostra e di intere collettività. Tuttavia, questa accelerazione tecno-scientifica, accanto a chiari elementi di positiva innovazione, implica un problema di fondo, che è senz’altro il perno di una sfida più ampia, che non a caso è stata autorevolmente definita “antropologica”. Esso riguarda la direzione verso cui questo progresso ci sta portando. L’uomo si trova in effetti nell’ine-

La ricerca è sensibilità per la verità, conoscendola andiamo verso il bene

dita posizione di chi può trasformare non solo la realtà intorno a sé, ma anche la realtà che egli stesso è. Il corpo e la mente risultano oggi manipolabili come mai prima è successo e, non raramente, ci scopriamo di fronte a tangibili e gravi deviazioni in un cammino estremamente delicato, quale è quello dell’esplorazione dell’umano nella sua più intima essenza. La nuova alleanza con la scienza dovrà allora consistere nell’elaborare insieme e tenere ben presente un’adeguata idea di persona umana, verso la quale indirizzare il progresso scientifico e tecnologico. E quest’idea – che per il cristiano sorge dalla fede nell’Incarnazione – andrà argomentata razionalmente, affidandosi alla possibilità, comune a tutti gli uomini, di attingere alla ragione in vista della verità, contro suggestioni relativistiche o scettiche. In questo, solo uno sguardo offuscato dal pregiudizio potrebbe non cogliere il messaggio di grande apertura che il Santo Padre sta lanciando al mondo della ricerca e dell’indagine scientifica; messaggio di cui è recentemente un ottimo esempio il discorso offerto all’Università “La Sapienza”(e purtroppo non pronunciato a viva voce). La ricerca è sensibi-

lità per la verità, conoscendo la quale ci si volge verso il bene.

L’emergenza educativa

Passiamo ora all’ambito educativo. Al proposito, notiamo che, se per fortuna è ben noto quanto la questione dell’educazione sia rilevante nel contesto sociale contemporaneo, ciò che sembra meno evidente è che ogni giorno che passa senza una precisa decisione in merito alla riorganizzazione e valorizzazione del sistema formativo (inteso come scuola e università) rappresenta un’occasione perduta. Esso ricopre infatti un ruolo di primo piano nell’edificazione del futuro di ogni società, poiché ogni collettività costruisce il proprio domani e allarga le prospettive di una piena promozione umana a partire dal contributo che la scuola e l’università possono dare. Per questo sono luoghi privilegiati di esercizio di responsabilità nella maturazione di sé e nella partecipazione a un progetto condiviso di convivenza, in cui è possibile imparare la pratica dell’approfondimento personale, del dialogo e del confronto critico tra le idee e le opinioni, espressioni dall’arricchente varietà delle esperienze umane. Il contesto in cui ciò dovrebbe avvenire, tuttavia, come abbiamo


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Carte visto non è dei più favorevoli. Le vorticose trasformazioni della società odierna costringono ogni individuo a fare i conti con una realtà in costante mutamento e non di rado ne provocano un pericoloso “spaesamento”, a causa anche della mancanza degli strumenti necessari per un’adeguata comprensione e conduzione della propria esistenza. Lo spazio sociale dell’educazione si scopre allora aggredito dall’“atmosfera” culturale predominante, che in varie forme più o meno esplicite lo squalifica, lo mortifica e lo depotenzia. Spendere tempo ed energie nell’educare e nell’educarsi non assurge facilmente al rango di valore, nell’epoca del consumo immediato e dell’immagine omnipervasiva. Tuttavia, specularmente, lo spazio sociale dell’educazione risulta ora più che mai determinante se si vuole invertire una tendenza evidentemente nociva per i singoli come per la collettività. Qui si svela nuovamente la sfida antropologica: l’ambiente scolastico deve infatti essere culturalmente vivificato, rispondendo con lungimiranza alle inedite interrelazioni che si stanno sviluppando fra studenti e professori, anche nel rispetto delle molteplici appartenenze a diverse culture, etnie e religioni che sopra richiamavamo. Deve essere potenziato il rapporto di sinergia con la famiglia – primo e imprescindibile agente di formazione – che ha il diritto di pretendere il massimo contributo dalle istituzioni scolastiche e universitarie, senza, nel contempo, delegare a esse i compiti suoi propri. E si deve anche, mi si permetta di aggiungere, tornare a essere consapevoli che l’educazione è, naturalmente, un cammino che richiede fatica. Solo alimentando un “nuovo circolo virtuoso dell’educazione” tra persone si potranno mettere in condizione le più giovani generazioni – e noi con loro – di affrontare e guidare, con seria preparazione e fiduciosa speranza, le trasformazioni che stiamo vivendo. Scuola e università realizzeranno allora processi sempre più attivi e attrattivi, si manterranno libere dai tanti conformismi con cui si confrontano e li sapranno contrastare e svuotare.

Il valore dell’uomo Consapevole dell’inevitabile sinteticità – e forse, a tratti, dell’eccessiva concisione – con cui ho affrontato questioni assai complesse, mi avvio a concludere l’intervento. Una coraggiosa concezione di “persona”si impone come nucleo centrale della questione educativa come anche della visione di scienza e ricerca che abbiamo rapidamente tratteggiato. In un momento storico in cui speri-

mentiamo troppo spesso ciò che lo studioso Matthew Fforde ha chiamato «desocializzazione» e ne percepiamo il peso come fattore di «crisi della post-modernità», possiamo concordare con lui sul fatto che tale fenomeno vada contrastato radicalmente. Ciò richiede, tuttavia, che venga riacquistata la convinzione della necessità di un «ritorno all’anima», per una (ri)presa di coscienza dell’umano, in reazione alla matrice materialistica su cui si fondano le più comuni convinzioni e abitudini sociali. In ciò consisterebbe, a mio avviso, un vero “cambio di stagione”: una nuova primavera in cui l’umano venga prospettato come senso e come fine. Oggi, infatti, «con tutte le sue stupefacenti conoscenze scientifiche e tecnologiche, l’uomo post-moderno – scrive Fforde – è caratterizzato da vaste aree di ignoranza agghiacciante, soprattutto su di sé. Ha dimenticato chi è veramente, è regredito». La consapevolezza di questa condizione sempre meno umana e sempre più disumanizzante ci obbliga a contrastare un simile processo. Per farlo, la dimensione educativa e formativa è cruciale: essa deve mantenere un orientamento fedele a principi genuinamente rispettosi della dignità personale, gettando uno sguardo più ampio sull’uomo, per coglierne la complessità e la grandezza. Se, come insegna il Catechismo della Chiesa cattolica, «l’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore» (n. 1784), ciò avviene quando la ragione è coraggiosamente sospinta a comprendere se stessa in tutta la sua ampiezza e il valore che essa incarna in ogni essere umano. Pertanto, attraverso l’educazione, «compito di tutta la vita» (ibidem), si favorisce la libertà autentica e la crescita, materiale e spirituale, di tutti e di ciascuno. Sono sicuro, infatti, che la priorità essenziale della missione dell’educare consista nell’operare per rendere concreto e tangibile l’amore per la ricerca del vero e del bene. Lo dobbiamo in particolare ai nostri giovani. Essi sono sì scossi da fragilità antiche e nuove, ma insieme manifestano grandi potenzialità: esprimono passione, voglia di fare e volontà di scoprire. Per riuscirci, tuttavia, hanno bisogno di guide, testimoni, maestri. Hanno bisogno di chi li accompagni nella loro ricerca. Solo così si potrà rispondere a quella carenza di senso che forse è il fattore principale delle molte, troppe forme di degenerazione dell’ethos pubblico e dei rapporti interindividuali, a cui da tempo stiamo assistendo e di fronte ai quali rischiamo di convincerci, sbagliando, di essere impotenti.

Confutazione di un paradigma culturale, sociologico e politico

La resa dei conti con il Sessantotto di Renato Cristin e idee del movimento del ’68 hanno formato un vero e proprio paradigma culturale, sociologico e politico, che ha plasmato le élites intellettuali e l’opinione pubblica dell’intera Europa occidentale. Lo schema sessantottino, figlio dell’ideologia socialcomunista e delle sue varianti internazionaliste, antimperialistiche e terzomondiste, aveva come obiettivo la distruzione dei pilastri della tradizione culturale occidentale, di quelle che venivano definite le strutture simbolico-concettuali del potere. L’abbattimento degli apparati di coercizione e dei dispositivi di controllo doveva infatti essere simultaneo all’eliminazione delle configurazioni di senso, del cosiddetto ordine del discorso, delle istituzioni della conoscenza. L’equazione fra sapere e potere, di cui Foucault fu uno dei maestri, e la conseguente necessità di destrutturare il primo per conquistare il secondo, divennero il perno teorico di quel complesso e pervasivo movimento. Sotto il profilo politico-sociale, il ’68 fu una sventura per l’Europa, perché aggredendo le istituzioni, tutte e indistintamente, intaccò la coscienza civile dei singoli individui e l’autocomprensione storica dei popoli. Sotto il profilo filosofico e culturale, fu una catastrofe perché sgretolando i concetti di ragione e di soggetto inficiò le possibilità stesse di elaborazione teoretica come donazione di senso. Quelli che André Glucksmann definiva “i padroni del pensiero” da Adorno a Marcuse, da Sartre ad Althusser - e la schiera di filosofi da loro allevati seguivano un’ispirazione nichilistica propensa a piegare qualsiasi teoria all’infinito gioco di una pseudodialettica che si avviluppava in se stessa e che fungeva da paravento culturale a uno scopo politico, quello di aggregare forze a sinistra, e che ha avuto come funzione principale quella di sequestrare, terrorizzare, omogeneizzare e paralizzare i cervelli, le loro facoltà critiche e, paradossalmente, le loro capacità creative. L’assalto sferrato a partire dal ’68 contro l’architettura del potere borghese era anche un attacco alla tradizione filosofica dell’Occidente. Ma esso fu, in buona misura, un abilissimo inganno. L’antifilosofia sorta intorno al sessantottismo si è configurata come un progetto culturale con finalità egemoniche per impossessarsi, una volta detenuto il sapere, degli strumenti del potere politico ed economico. Si tratta perciò di confutare quelle manipolazioni e smascherare gli imbroglioni che le ordirono. Per esempio, bisognerebbe oggi mostrare come molti epigoni della grande stagione filosofica tedesca e francese del primo Novecento abbiano distorto la lezione dei maestri come Bergson, Dilthey, Husserl, Blondel, Heidegger, o come abbiano strumentalizzato Nietzsche e Kierkegaard. Ma insieme alla critica radicale di quello che Luc Ferry e Alain Renaut hanno chiamato “il 68–pensiero”è urgente oggi elaborare un’altrettanto radicale e ben argomentata critica delle

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teorie che ne hanno ripreso e rinnovato l’eredità filosofica. Realizzare la prima senza eseguire la seconda equivarrebbe infatti a un fallimento da parte della cultura liberal-conservatrice che sta, faticosamente, emergendo oggi in Europa, come dimostrano l’esperienza italiana del centrodestra, quella francese sarkozyana, quella spagnola che ebbe inizio con Aznar e quelle di molti Paesi dell’Europa centro-orientale che stanno pian piano superando i traumi della dittatura comunista. Se il paradigma sessantottino, nei decenni successivi, è sopravvissuto a tutte le trasformazioni planetarie trasmigrando in molte forme ideologiche e politiche, se tutte queste forme hanno contribuito a minare i fondamenti teoretici e i valori etici della civiltà occidentale, e se riteniamo che a quest’ultima debba essere restituita l’autorevolezza e la potenza che le spettano e che possono salvarla da una dissoluzione non inverosimile, allora è indispensabile non solo abbandonare definitivamente il pensiero del ’68 ma anche confutare con precisione ed efficacia i suoi svariati continuatori, beceri o raffinati che siano. Dalle grigie teorie del relativismo culturale alle fallaci retoriche del postmodernismo, dalla saccente pratica del decostruzionismo all’ormai grottesco pensiero debole, il quadro delle trasfigurazioni, dei rinnovamenti e dei perfezionamenti del sessantottismo è oggi il nuovo multiforme ed equivoco paradigma che domina la cultura occidentale. La resa dei conti con il ’68 deve dunque andare di pari passo con questo ulteriore e arduo confronto, dal cui esito dipende l’esistenza storica dell’Europa e dell’Occidente.


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Carte

stupefacente come un non-evento qual è stato il Sessantotto abbia prodotto uno stile di vita, una cultura diffusa, dei comportamenti capaci di modificare gli assetti delle società occidentali. In realtà in quell’anno non accadde nulla di memorabile. Si concretizzarono le condizioni per creare un clima, un sentire, un modo d’essere. I giovani, protagonisti loro malgrado, di una contestazione globale a tutto ciò che era il passato, realisticamente non ne volevano sapere niente di Karl Marx o di Friedrich Engels, ma tutto del libero amore; non erano affascinati da Vladimir Illic Ulianov Lenin, ma da John Lennon; sognavano un viaggio on the road, piuttosto che incanaglirsi in fumosi dibattiti sulla rivoluzione. Amavano i riti descritti dai figli della borghesia comunista in Porci con le ali piuttosto che annoiarsi a morte sui Grundrisse. Un

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Cultura, valori e prospettive dopo l’inversione sessantottina

Genealogia di un non-evento di Gennaro Malgieri prendendo un consunto adagio marxiano, che ha prodotto danni irreparabili. La società degli eguali si è realizzata nella famiglia, nella scuola, nell’università, nelle professioni. Il merito è stato demonizzato, la selezione colpita come un male insopportabile, la verità dei padri demonizzata. Il pensiero unico ha prodotto un nichilismo le cui manifestazioni più evidenti, nella società post-ideologica, non sono modelli strutturali politici, ma la mercificazione di tutto quello che una volta era avvolto nella sfera della dignità. È la persona che paga il prezzo più alto del retaggio “progressista” le cui illusioni erano già state descritte da Georges Sorel agli inizi del Novecento.

L’autorità non è più il Moloch spietato che richiede il sacrificio della fantasia

universo onirico, contraddittorio, segnato, tragicamente, dalla messa in discussione, anche violenta, della figura del Padre, intesa nel senso più ampio, cioè a dire come incarnazione del principio di autorità. Fiorì nelle università occidentali, ma nacque e si consolidò nella lettura di libri che ebbero una certa importanza, soprattutto quelli di Marcuse e dei suoi derivati. L’influenza della Scuola di Francoforte, non certo sulla massa giovanile, ma sugli oligarchi del pensiero “nuovo” che avrebbe dovuto trasformare la società libera in una società oppressa – ecco il paradosso dell’innamoramento degli stessi contestatori per il maoismo, ad esempio – fu straordinaria. E da lì nacque il progetto di sradicamento, di alienazione dalla tradizione condivisa, dalla messa in discussione delle religioni, ri-

L’idea in discussione Tuttavia, già due decenni fa, i dubbi cominciarono ad affiorare negli studiosi della crisi che pure avevano partecipato a diverso titolo ed in maniera diversa, al movimento contestativo che trovò, lo ricordo a chi l’avesse dimenticato, in Pier Paolo Pasolini il più lucido critico proprio per la messa in discussione della “moralità”dei nuovi e improvvisati rivoluzionari. Non è precisabile il momento in cui il dubbio ha cominciato ad operare. E’ però certo che fino a poco tempo prima, reputando la questione archiviata, dell’Autorità non si dibatteva; discussioni sul «capo carismatico» (di weberiana

memoria) e sul decisionismo (di schmittiana lezione) appartenevano, nella migliore delle ipotesi, alle fantasie di epigoni, magari un po’ patetici, dell’ancien régime; possibili riflessioni sullo Stato «classico» erano assolutamente fuori luogo. Qualcosa nel corso del tempo, comunque è cambiato. L’Autorità non è più il Moloch spietato che richiede alla fantasia il sacrificio supremo. E’appurato e condiviso che essa nasce come necessità «emotiva» nella società moderna, cioè come elemento indispensabile di coesione sociale insieme con i vincoli di lealtà e di fratellanza secondo la fortunata definizione del sociologo americano Richard Sennet che non manca di aggiungere che l’Autorità rappresenta, in senso generale, «un tentativo di interpretare le condizioni del potere e di dare un significato alle condizioni del controllo e dell’influenza, mediante la definizione di un’immagine della forza». La recente fortuna delle tesi «autoritative» e degli autori che hanno posto al centro della propria riflessione politica il concetto di Autorità, da de Maistre a Schmitt, testimonia della la «curiosità» cresciuta intorno alla nozione di Autorità negli ultimi anni e vuol dire che la ricerca della stabilità e della sicurezza della forza altrui (essendo l’autorità anche un modo di definire e di interpretare le differenze di forza) sono «sentimenti» - forse nella più parte a livello inconscio – avvertiti profondamente. La «ricerca», tuttavia, non si esaurisce nel delegare ad altri, indiscriminatamente, l’illusione della propria sicurezza scaricando così le intime condizionanti

paure. Se il bisogno autoritativo volesse dire questo, ci sarebbe da pensare che la nostra epoca sarebbe pronta al sacrificio estremo, cioè alla legittimazione del tiranno. Al contrario, l’espresso (o inespresso, ma comunque avvertito) bisogno di Autorità può e deve voler dire liberazione dalle secche della «cultura del rifiuto». in favore del riconoscimento positivo del principio stesso dell’Autorità. Si tratta, indubbiamente di dar vita ad un processo eminentemente «rivoluzionario» - se confrontato a quello negativo dal quale si esce – che precisi, soprattutto in termini di adesione interna e spirituale, il progetto di Autorità nel nostro tempo. In ossequio ad un intimo principio di tolleranza, credo che attraverso il «conflitto» (in questo caso fra la disconosciuta Autorità e la rivendicazione della Libertà) si possa giungere ad un costruttivo riconoscimento che non si dipanerà lungo un percorso semplicemente «emotivo», ma attraverso quello più consapevole e «razionale» additato dai teorici del comunitarismo. (…)

Conservare ed innovare Le derivazioni culturali del Sessantotto hanno prodotto le inversioni nel campo dei valori politici, e non soltanto politici, qui sommariamente richiamati. Oggi c’è bisogno, anche sull’onda della richiesta popolare e della resipiscenza di numerosi studiosi, in particolare giuristi e politologi, di rimettere le idee a posto e tornare ad un ordine civile fondato sulle strutture, tutt’altro che inessenziali, nelle quali libertà, autorità, Stato, popolo e nazione formino un tutt’uno con una concezione della comunità correttamente intesa. Le devastazioni a cui abbiamo assistito possono essere cancellate con la consapevolezza degli uomini di buona volontà che si rendono conto di quanto l’assalto alla società dei padri sia stato nocivo allo sviluppo della convivenza. Conservare ciò che non è deperito e coniugarlo con le dinamiche della modernità dovrebbe essere il compito di chi vuole farla finita una volta per tutte con la cultura scaturita dalla mitologia del Sessantotto e seppellire questo nonevento una volta per tutte. Mi auguro che nessun, tra dieci anni, si azzardi a celebrarne il cinquantenario.


Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata Alessandro Manzoni

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DELLE IDEE


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economia

Confindustria e Cisl si danno da fare, ma c’è ancora la Cgil da convincere e troppi i nodi da risolvere

Contratti, lo sforzo di Montezemolo e Bonanni arriva fuori tempo massimo di Giuliano Cazzola eglio tardi che mai. Le cronache sono ricche di eventi che si concludono prima che sia troppo tardi. Persino i metalmeccanici sono riusciti a rinnovare il contratto poche ore prima che il governo chiudesse i battenti e Cesare Damiano diventasse un ex ministro del Lavoro. Questa volta, però, la fregola con cui i confederali e la Confindustria si accingono ad avviare un negoziato diretto per la riforma della struttura della contrattazione va iscritta – dispiace ammetterlo – nel mortificante teatrino della politica che si rappresenta in questi giorni, nel tentativo di salvare una legislatura, minata fin dall’inizio, da un male incurabile che non ne consentiva la vitalità.

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È singolare il peana che le parti sociali hanno intonato, rivendicando un nuovo governo che vari una legge elettorale e attui le riforme. Si stanno mettendo in moto, contro una possibile vittoria del centrodestra, delle forze potentissime, capaci di mobilitare – come non mai – i grandi organi di

per guadagnare stampa, qualche mese, al riparo di un «governicchio» in grado almeno di fare le nomine nelle aziende e negli enti pubblici, per preservare e perpetuare quella rete del potere effettivo che sponsorizza la sinistra. Immaginare però che un presidente come Luca Cordero di Montezemolo giunto a fine mandato e un bravo sindacalista come Raffaele Bonanni possano convincere gli altri partner a cambiare le regole

che le piattaforme contrattuali sono sempre state predisposte secondo criteri assolutamente arbitrari: senza ottemperare alle regole del protocollo del 1993 (nei fatti sconfessato dai sindacati) e senza delinearne di nuove e condivise. Un tasso inferiore o poco superiore al 2 per cento di dinamica del costo della vita impone, con riguardo all’impianto del 1993, politiche di grande moderazione salariale nei due momenti della contrattazione nazionale.

da alterare il modello vigente (che peraltro è di fatto quello introdotto nell’ordinamento intersindacale dal famoso protocollo Intersind-Asap del 1962). Si parla di spostare il peso della contrattazione (con relativi oneri e procedure) più sul livello decentrato (con maggiori aperture alla remunerazione della produttività e alle forme di retribuzione variabile) che su quello centrale. Nelle proposte vi sono, poi, vistose assenze. Perché non prendere at-

L’esperienza insegna che del secondo livello se ne avvantaggiano le grandi imprese e il pubblico impiego. E le riforme proposte non si discostano dal modello vigente. La lezione di Giugni e Biagi sulle deroghe necessarie della contrattazione, in zona Cesarini, non sembra essere una prospettiva concreta. Poco dopo il suo insediamento Montezemolo annullò un incontro sulla contrattazione, quando apprese che, diversamente da Cisl e Uil, la Cgil non avrebbe partecipato. Poi tutto rimase fermo in attesa degli orientamenti unitari a cui le confederazioni stavano lavorando. Salvo dover constatare

D’altro canto, risulta sempre più marcato, nel settore privato, il carattere elitario e minoritario della contrattazione decentrata in un universo composto da milioni di imprese piccole e piccolissime e da poche aziende medie e grandi: è provato che soltanto il pubblico impiego se ne avvale in maniera pressocchè generale. Le proposte innovative in circolazione, però, non sono tali

to che i tanti divari economici e sociali non permettono trattamenti forzatamente uniformi dalle Alpi a Lampedusa? Si osservi poi con onestà intellettuale la situazione del Mezzogiorno. Quando va bene è in corso l’applicazione di patti in deroga; i contratti nazionali operano in poche aziende grandi e medie; la contrattazione aziendale ha luogo unicamente negli stabilimenti dei grandi

gruppi come ricaduta di quella svolta a livello nazionale.

Per ovviare a questo due valorosi giuristi, incaricati di studiare il problema di un nuovo modello contrattuale, giunsero a conclusioni analoghe in tempi e contesti differenti. Il primo, Gino Giugni, a capo di una commissione governativa nella seconda metà degli anni Novanta, propose che negli accordi nazionali fossero inserite vere e proprie clausole derogatorie (anche in pejus). Marco Biagi, nel Libro Bianco sul mercato del lavoro dell’ottobre 2001, ipotizzò «una sorta di ”derogabilità assistita” … al fine di corrispondere alle attese di flessibilità delle imprese ma anche alle nuove soggettività dei prestatori di lavoro». È lungo tale problematica che si stanno esercitando – bon gré mal gré – la parti sociali in Europa, mettendo in causa il «principio che regola la gerarchia delle fonti contrattuali e che vieta», ha commentato in proposito il Cnel, «ai livelli contrattuali aziendali di rinegoziare i contenuti definiti nei contratti collettivi regionali».


economia

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Visco da mesi sfoggia i suoi successi. Ma ripete sempre gli stessi numeri

Lotta all’evasione, uno slogan da 20 miliardi di Gianfranco Polillo e maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione, continuamente sbandierate da Vincenzo Visco, rischiano di apparire come le armate di Benito Mussolini. Erano poche e disastrate. Sfilavano, tuttavia, più volte di fronte agli ignari spettatori, dando un’immagine di potenza e di baldanza. Secondo quanto riportato in una nota di qualche giorno fa, da lui stesso diramata, gli introiti sarebbero stati pari a 20 miliardi di euro. La stessa cifra era stata indicata il 22 ottobre dello scorso anno, in un documento inviato da Tommaso-Padoa-Schioppa alla Camera dei deputati, con una postilla velenosa. «La presente relazione», reca il frontespizio, «è stata redatta dal Vice Ministro On. Prof.Vincenzo Visco nell’ambito delle deleghe a lui intestate». Come dire: ho fatto solo da postino, il resto non è farina del mio sacco.

si fermano all’ottobre dello scorso anno. Aspettiamo con fiducia di conoscere non gli incassi di gennaio, ma quelli dei mesi precedenti, organizzati in modo tale da consentire un’analisi più serena. Nell’attesa ci affidiamo all’Istat. Durante il governo Prodi le entrate fiscali e contributive sono aumentate di 47,7 miliardi. Se Visco avesse ragione i contribuenti onesti avrebbero pagato in più solo 27 miliardi. I restanti 20 l’avrebbero versati gli evasori. La pressione fiscale sugli onesti, visto che il Pil nel frattempo è comunque aumentato, sarebbe diminuita. Ma questo non è vero, come può verificare ciascun contribuente e come risulta, indirettamente, dall’andamento delle altre variabili economiche.

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A distanza di qualche mese – il 15 gennaio – nuova presa di posizione su Repubblica. In una lettera Visco polemizzava con Giulio Tremonti, che aveva osato esprimere dubbi su quelle cifre, indicando un obiettivo più realistico di 3 o 4 miliardi. Bugie, secondo il responsabile di piazza Mastai. Ma la cifra di 20 miliardi, quale risultato della lotta all’evasione, rimaneva inchiodata. Nuovo gettito a gennaio di quest’anno, con una crescita del 9,4

per cento rispetto al corrispondente periodo del 2007, ed ulteriore grido di vittoria. Ma i 20 miliardi restavano sempre quelli. Se le cifre sono vere, possibile che al viceministro non sorgano dubbi? In questi ultimi 3 mesi l’azione di contrasto si è interrotta? La lotta all’evasione è terminata con una vittoria finale? No, ci tranquillizza Visco, «l’evasione in Italia resta tuttavia elevata». Ed allora perché la Guardia di finanza non riesce, con il passare del tempo, a ottenere ulteriori introiti? Piccolo mistero. Noi non abbiamo certezze, ma soltanto sospetti. I dati forniti dall’Agenzia delle entrate

I consumi in Italia stanno crollando. Le famiglie, anche a causa del maggior prelievo fiscale, riescono con maggiore difficoltà ad arrivare a fine mese. I sindacati chiedono a gran voce di abbassare le tasse sulle retribuzioni dei lavoratori. Prima della crisi, lo stesso Prodi si apprestava alla bisogna. Insomma tutto questo non avrebbe senso, perché grazie alla lotta all’evasione lo Stato avrebbe incassato di più e i contribuenti onesti risparmiato sulle tasse. Va bene che le elezioni incalzano, ma c’è un limite. Ormai abbondantemente superato.

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Tv, Ue condanna l’Italia per Retequattro La Corte europea di giustizia ha condannato il regime italiano di assegnazione delle frequenze televisive, dando ragione all’emittente Europa 7 nel contenzioso che la vede contrapposta al ministero delle Comunicazioni. L’emittente di Andrea De Stefano da tempo reclama le frequenze oggi assegnate a Retequattro. Secondo la Corte il regime di assegnazione italiano non rispetta il principio della libera prestazione dei servizi. Da Cologno Monzese replicano che l’atto «non può comportare alcuna conseguenza sull’utilizzo delle frequenze nella disponibilità delle reti Mediaset».

Cipe, fondi a pioggia per le infrastrutture Il Cipe ha sbloccato 1.035 milioni di euro da destinare a Rfi nel quadro dell’aggiornamento del Contratto di programma 2007-2011. Ottocento milioni saranno destinati a nuove opere e i restanti 235 alla manutenzione straordinaria della rete. Finanziamenti sbloccati anche per le opere d’accesso a Malpensa, per il Mose e le metropolitane di Napoli, Torino e Bologna.

Alitalia, Air One ora spera nel Tar Alitalia ha rinviato a oggi la comunicazione delle rotte da Malpensa che intende abbandonare. Intanto l’Air One di Carlo Toto si è rivolto al Tar del Lazio per chiedere l’annullamento della decisione con la quale il governo ha dato via libera alla trattativa in esclusiva tra la Magliana e Air France-Klm. Toto ha spiegato che non vuole né dilatare ulteriormente i tempi di vendita della compagnia «né arrecarle ulteriori danni», ma soltanto richiamare «regole certe e trasparenti che la legge prevede, ma che purtroppo non sono state applicate”. Nel ricorso presentato da Ap holding si contesta la trattativa in esclusiva poiché si tratta di vendita di un bene pubblico per la quale «è necessario procedere a una valutazione comparativa di un ventaglio di offerte».

Terna, investimenti per 3 miliardi Terna prevede investimenti per 3,1 miliardi di euro nel periodo 2008-2012, 400 milioni in più rispetto al piano precedente. Il nuovo target di contenimento dei costi relativo all’Italia prevede una riduzione di 50 milioni di euro circa dal 2006 al 2012. Il gruppo, intanto, continua, a cercare «opportunità di crescita all’estero nel proprio settore di attività». In questo ambito rientrano i rapporti nell’area dei Balcani, del Sud est Europa e del Nord Africa.

Gli stipendi crescono più dell’inflazione L’Istat ha annunciato che l’indice delle retribuzioni orarie ha registrato nel 2007 un aumento medio del 2,3 per cento. Le retribuzioni per dipendente sono cresciute un po’ meno, del 2,2. Rispetto all’inflazione media annua, 1,8 per cento, la crescita è di 0,5 punti.

Carovita in Eurolandia al 3,2 per cento Secondo la stima preliminare di Eurostat i prezzi al consumo sono in rialzo rispetto a dicembre (+3,2% annuo). Il dato supera leggermente le attese e sconta le recenti tensioni su energia e alimentari, che si riflettono sui listini al dettaglio. Senza le voci energia e alimentari la crescita dei prezzi resta più contenuta (+2,3 per cento).

Pechino, che lo ha eletto a suo bene rifugio, aumenta la produzione del metallo. E tanto basta per dare il via alla speculazione

Nella corsa all’oro la Cina batte al fotofinish il Sud Africa di Maurizio Stefanini oro oltrepassa la quota storica dei 920 dollari l’oncia, e per la prima volta dal 1905 il Sudafrica non è più il primo produttore mondiale, surclassato dalla Cina. E sì che John Maynard Keynes credeva di aver liquidato il metallo giallo col famoso epiteto di ”reliquia barbara”. Ma le sue quotazioni sono ormai in ascesa continua dal 1999, da molto prima che iniziasse la corsa del petrolio. Nell’oro investono i fondi comuni, è boom in Cina e India dove è considerato bene rifugio privilegiato, ma c’è crisi d’offerta in Sudafrica. E non mancherebbero spinte al ribasso, visto che

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tra 1999 e 2004 le Banche centrali di Regno Unito, Germania o Svizzera hanno venduto 2mila tonnellate. Che succederà quando l’effetto calmiere di queste dismissioni sarà finito? E a differenza del petrolio, non si può sperare nella tecnologia per trovare alternative. Di qui la spinta allo sfruttamento di quei giacimenti marginali che prima non era conveniente utilizzare. E su cui si basa il sorpasso cinese: da 225 tonnellate estratte nel 2005 alle 240 del 2006 e alle 276 del 2007, pari a 9,7 milioni di once. A questo decollo ha contribuito in particolare la miniera di Chang Shan Hao nella Mongolia Inter-

na, avviata a luglio dalla canadese Jinshan Gold Mines Inc, che a regime toccherà le 120mila once annue. Il Sudafrica è invece passato da 296 a 272 tonnelate: vuoi per problemi energetici, vuoi, soprattutto, per lo stop alla grande miniera Harmony, ferma da ottobre dopo che 3.200 minatori erano rimasti intrappolati per un paio di giorni a 2mila metri di profondità. Se nel 1970 il Paese controllava il 67,7 per cento della produzione, oggi è all’11,1. La Cina è al 11,3 per cento. Seguono gli Stati Uniti (con un 10,4 per due terzi proveniente da South Dakota e Nevada), l’Australia con il

10,3 e l’Indonesia con il 7 per cento (quasi il triplo rispetto al 1995). Rallenta il Perù (al 6,9), mentre risale la Russia (al 6,2), lontana dai picchi sovietici, quando era il secondo produttore mondiale. Negli ultimi 10 anni le estrazioni sono aumentate del 70 per cento, e almeno un quarto del totale dipende da piccoli produttori indipendenti che lavorano su scala artigianale. Ma la classifica andrà presto aggiornata, visto che a Pascua Lama la canadese Barrick Gold vuole estrarre oro a 4.500 metri di altezza sulle Ande, tra Cile e Argentina. Un affare da 17 milioni di once.


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società

Marie Smith Jones avrebbe compiuto 90 anni fra tre mesi

Scompare la memoria storica di questo idioma, indiana d’Alaska. Conosciuta in Usa come Marie Smith Jones

Udach’ Kuqax*a’ a’. L’ultima degli Eyak di Maurizio Stefanini ’è l’espressione teorica: linguicidio, o estinzione linguistica. Che indica il fenomeno per cui su circa 7000 lingue tuttora parlate nel mondo gli studiosi stimano che almeno la metà potrebbero estinguersi nel corso dei prossimi cento anni. Il che fa una media di 35 lingue all’anno. E poi c’è la cronaca concreta: che è quando scompare l’ultima persona ancora in grado di parlarla una lingua come viva. Che è quanto è avvenuto lo scorso 21 gennaio ad Anchorage a Marie Smith Jones, 90 anni meno tre mesi. Cittadina statunitense, indiana dell’Alaska, e ultima parlante dell’Eyak: un idioma di quella famiglia Na-Dené di cui fa parte anche il Navajo dei fumetti di Tex e delle trasmissioni radio cifrate nella Seconda Guerra Mondiale. Udach’Kuqax*a’a’che era in realtà il suo nome in Eyak: “un suono che chiama il popolo da lontano”. Figlia di un pescatore, aiutò nel 1990 il linguista Michael Krauss a compilare dizionario e grammatica dell’Eyak, e fu nominata dal suo popolo Capo Onorario: titolo che gli permise due volte di parlare all’Onu. Ma non riuscì a trasmettere la sua lingua ai nove figli.

C

Solo da due o tre secoli si è iniziato a registrare i nomi di questi “rememberes”, come li chiamano. Il 6 giugno 1829 se ne andò la Beothuk Shanawdithit, alias Nancy April: l’ultima indiana di Terranova. L’8 maggio 1876 toccò a Truganini, l’ultima tasmaniana pura. E il 18 ottobre 1853 scomparve Juana Maria, che tra 1835 e 1853 era sopravvissuta da sola sulla californiana San Nicolas Island. Lo scrittore Scott O’Dell le dedicò un libro per ragazzi pi-

Figlia di un pescatore, nominata Capo onorario del suo popolo fu invitata a parlare per due volte all’Assemblea delle Nazioni Unite uttosto popolare negli Usa, Island of the Blue Dolphins. Ma libri, film e un torneo di tiro con l’arco sono stati dedicati anche a Ishi: ultimo membro del popolo Yana della California del Nord. Unico sopravvissuto di un gruppo di 30 persone che si era nascosto nei boschi per quarant’anni, era stato ri trovato in un corral il 29 agosto 1911. Trasferito al Museo di Antropologia della University of California, vi sarebbe sopravvissuto 5 anni, prima di morire di tubercolosi il 25 marzo 1916.

Scrittori in prima persona furono gli aborigeni australiani Mary Carmel Charles, ultima parlante Nyunyul, e il capo Big Bill Neidije, ultimo parlante Gagudju: scomparsi rispettivamente nel 1999 e nel 2002. Sulle tracce della Jones e di Ishi fecero invece in tempo a trasmettere la loro eredità a linguisti l’indiano Tunica Sesostrie Youchigant, morto nel 1939; l’aborigeno Jinbilnggay Alf

Palmer, scomparso nel 1981; l’aborigeno Matuthunira Algy Peterson, deceduto il 6 agosto 1995. A Disneyland si era invece esibito Truman Washington Dailey, ultimo parlante di Chiwere, morto in Oklahoma il 16 dicembre 1996. La Russia ha registrato i nomi della samoieda Kamassiano Klavdiya Zakharovna Plotnikova e dell’eschimese Sirenik Valentina Vye, morte nel 1989 e nel 1997. E la Turchia quella del circasso Ubykh Tevfik Esenç, morto il 7 ottobre 1992 , e che lavorò con Georges Dumézil. Ci fu perfino il librettista d’opera Armand Lunel, morto nel 1977: anche se in francese, e non in quel dialetto giudeo-provenzale Shuadit di cui fu l’ultimo conoscitore. Le lingue si estinguono infatti anche in Europa.“Me ne vidn cewsel Sawznek!”, furono le ultime parole pronunciate nel dicembre del 1777 da Dolly Pentreath: in cornico, lingua celtica della Cornovaglia affine a gallese e bretone. Nel 1760 era morta Margaret McMurray, ultima parlante del dialtto gaelico Galloway delle Lowlands Scozzesi; attorno al 1890 sarebbe scomparso Walter Shuterland, ultimo remember del dialetto vichingo Norn delle Shetland; il 10 giugno 1898 un attentato anarchico uccise il barbiere Tuone Udaina, o in italiano Antonio Udina, ultimo dalmata; e col pescatore Ned Maddrell il 27 dicembre 1974 nell’Isola di Man morì l’ultimo parlante Manx Ma le lingue morte possono anche risorgere. Il cornico, resuscitato a partire dal 1904 da un gruppo di entusiasti, ha oggi 300 parlanti come prima lingua e olte 3000 come seconda, con giornali e trasmissioni radio. E allo stesso modo anche il Manx è risalito a 56 parlanti.


cultura Il libro sopra l’altare

1 febbraio 2008 • pagina 21

Benedetto XVI il Papa bibliofilo, come lo furono Ratti e Roncalli

di Andrea Capaccioni uò il Papa essere considerato un bibliofilo? A rileggere le pagine di Nello Vian dedicate a bibliotecari, papi e libri, raccolte dal figlio Paolo in un prezioso volume edito dalla Biblioteca apostolica vaticana (2005), ogni dubbio è fugato. L’“amor librorum” nasce in Chiesa “dove il Libro sta sopra l’altare”, poi ogni Papa declina la propria passione in modo diverso. Tra i papi del Novecento si possono ricordare Achille Ratti, bibliotecario vaticano e futuro Pio XI, e Giovanni XXIII. A questo Vian dedica un mirabile cammeo (Bibliofilia di Giovanni XXIII) in cui è tratteggiato il profilo di un placido amatore di libri che amava frequentare le biblioteche ecclesiastiche più importanti ma che non disde-

P

le sedi delle prestigiose università dove ha insegnato, dividendosi tra gli studi, le lezioni, il confronto sempre attento con i colleghi cattolici e protestanti. Sono anni durante i quali ha potuto frequentare alcune tra le più ricche biblioteche accademiche tedesche. Ma Benedetto XVI non è solo un Papa professore è anche un uomo curioso. La sua personale ricerca della verità passa attraverso la lettura di romanzi e poesie. In particolare durante gli anni del liceo egli si appassiona a Goethe, Eichendorff, Storm, Kleist. Quando negli anni più bui della guerra non si trovavano più libri si rivolge agli amici o ai parroci per uno scambio o un prestito. La passione per la letteratura non si spegne: Dostoevskij, Bernanos, Gertrud von Le Fort, Mauriac. Il presidente francese Sarkozy, informato di questa predilezione, ha portato in dono nella sua recente visita in Vaticano le edizioni originali di due opere di Georges Ber-

pa aveva curato personalmente l’organizzazione dei volumi e per procedere al loro corretto trasloco i suoi collaboratori avevano dovuto fotografare tutte le scaffalature in modo tale da poter fedelmente ricostruire la suddivisione originaria. Il tutto sotto il vigile occhio della più stretta assistente del Papa, una suora austriaca, che seleziona i cataloghi delle librerie, tiene nota delle novità, prepara le schede dei libri. Tuttavia, quando può, Benedetto XVI preferisce prendere i volumi da solo muovendosi tra gli scaffali e addirittura, gettando nel terrore la sua “famiglia”, salendo le scale appoggiate per raggiungere i plutei più alti. Il Papa continua a ricevere molti libri in omaggio da tutto il mondo, altri se li procura attraverso importanti librerie romane e internazionali. È invece diminuito il tempo che può dedicare alle biblioteche, anche se non sembra dimenticarle. A pochi mesi dalla sua elezione al

Professore universitario, ma soprattutto uomo curioso, Ratzinger ha messo insieme negli anni una biblioteca che è cresciuta in modo tale da non riuscire a trovare posto negli appartamenti pontifici

gnava soffermarsi tra i banchi dei bouquinistes.

B e n e d e t t o X V I a quale tipologia di bibliofilo appartiene? A quella del professore universitario. I tratti ci sono tutti: l’insegnamento impone la conoscenza degli studi più recenti, la ricerca delle edizioni più aggiornate. Frisinga, Monaco, Bonn e poi ancora Münster, Tubinga sono state

nanos L’imposture e La Joie stampate a Parigi dall’editore Plon rispettivamente nel 1927 e nel 1929. Alla letteratura si aggiungono le letture di filosofia, dei saggi dedicati alla scienza moderna e alla teologia, dei testi sacri in lingua originale. Ratzinger non sembra nutrire una particolare esigenza di possesso librario, al contrario di Riccardo da Bury vescovo di Durham più noto come l’autore di un trattato sull’amore (e il possesso) dei libri (Philobiblon, 1344). I tanti spostamenti, tuttavia, lo costringono a collezionare i volumi più utili e amati. Negli anni la sua biblioteca privata è cresciuta in modo significativo fino al punto di creare un problema non da poco quando giunse, nella primavera del 2005, il momento della sua sistemazione negli appartamenti pontifici. I bene informati raccontano di un Benedetto XVI molto accigliato alla notizia che tutti i suoi libri non avrebbero trovato posto nelle nuove stanze. Il Pa-

soglio pontificio Benedetto XVI ha promosso l’apertura della Biblioteca Vaticana agli studiosi che si occupano di Pio XI, ha nominato i nuovi vertici della Biblioteca Apostolica Vaticana, ha scelto il prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, mons. Gianfranco Ravasi, per rivestire l’incarico di presidente del Pontificio Consiglio per la cultura.

A i b i b l i o t e c a r i e agli archivisti vaticani riuniti in occasione di una sua recente visita ha confessato che al compimento del suo settantesimo anno avrebbe “tanto desiderato” che Giovanni Paolo II lo avesse autorizzato a dedicarsi esclusivamente allo studio. Ma qualcosa di importante è accaduto nel frattempo. Il Signore scrive Benedetto XVI “ha stabilito altri programmi ed eccomi oggi tra voi non come appassionato studioso di antichi testi, ma come Pastore chiamato a incoraggiare tutti i fedeli a cooperare alla salvezza del mondo”. Fedele al su motto “cooperatores Veritatis”.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

Larghe intese oppure inciucio? Quando le larghe intese le proponeva Silvio Berlusconi Allora: inciucio dovrebbe essere un’intesa tra maggioranza e opposizione in modo da determinare confusione di ruoli. Larghe intese ”invece” accordo tra opposizione e maggioranza con identiche conseguenze sul ruolo dell’una e dell’altra. Qual e’ allora la differenza? Io non lo so, però ho capito una cosa. All’indomani del risultato delle ultime elezioni politiche la proposta di collaborazione offerta da Berlusconi fu bollata sdegnosamente come improponibile. Ora la proposta proviene da Walter-ego e da ultimo dal compagno Napolitano. Ovviamente si tratta di larghe intese. Mio nonno diceva ”se c’avesse le rote sabbe ’na cariola”. Filiberto Guidi - Ostia (Rm)

Elezioni? A ottobre per permettere ai politici di prendere la congrua pensione Scommettiamo che in qualche modo questo nuovo pseudogoverno che si inventerà Marini porterà sì ad elezioni, ma non prima di ottobre per permettere ai cari politici eletti nel 2006 di raggiungere la metà legislatura e percepire così la congrua pensione? Emanuela Santini - Ravenna

Ancora una volta il bene del Paese è stato sacrificato all’interesse partitocratico Napolitano ha convocato Marini per un governo di responsabilità. Per l’ennesima volta il bene del Paese è stato sacrificato all’interesse partitocratico. Questo comportamento rivela quanto sia inaffidabile in nostro presidente della Repubblica. Non mi sento rappresentata dal signor Napolitano, che appena eletto si era detto ”di tutti gli italiani”, un personaggio che

dovrebbe essere super-partes ma si comporta da perfetto capo di un regime comunista del quale ha fatto parte per tutta la sua vita. Avrei preferito un accordo tra Berlusconi e Veltroni, purché sia dato modo all’Italia di ripartire alla grande. Quanto mi sento ridicola se penso che, nel profondo della mia coscienza, ho creduto che esistano ancora i valori morali intesi come me li hanno insegnati i miei genitori, che non si potesse scendere a compromessi, che non si potesse scherzare sulla coscienza morale. Insomma, se cade un governo perché mancano i numeri, la legge prevede che si consulti il popolo che è sovrano. Ce l’ha ripetuto Prodi fino all’ossessione per tutta la durata del suo governo. Non so quando, ma sono certa che per avere il mio voto se lo dovranno meritare, perché non so se mi recherò a votare, tanto conta niente. Gloria Pellacani - Carpi (Mo)

Il centrosinistra deve avere il coraggio di addossare le responsabilità a Prodi Perché quando a condurre il governo era il Panzerotto tra maggioranza e opposizione non c’è stata possibilità di intesa nonostante i ripetuti inviti del capo dello Stato? Se a Marini il tentativo dovesse riuscire, il centrosinistra dovrebbe avere il coraggio di addossare la responsabilità al boss di Bologna, il quale ha sempre affermato che l’opposizione si metteva sempre di traverso ad ogni sua iniziativa. E’ vero che nessuno ci ha mai creduto, però... Clodoveo Tarsi - Belluno

Reintegri Ma se si fanno le larghe intese Mastella viene reintegrato al ministero del Beni familiari? Nina Ghigliottina

LA DOMANDA DI DOMANI

Sessantotto: più i lati negativi o quelli positivi?

I magistrati torneranno ad attaccare Berlusconi Il 30 gennaio scorso Berlusconi si è liberato di un’ennesima accusa del Tribunale di Milano. Penso che nel momento in cui inizierà la campagna elettorale si scatenerà una massiccia offensiva da parte di certa magistratura, di nuovo contro Berlusconi, e forse anche contro altri della CdL. Naturalmente le reali responsabilità dell’altra parte (vedi Napoli) abortiranno prima di nascere. Assunta Marini - Napoli No ad una nuova spirale di violenza politica Per fortuna che Bossi continua sulla strada della chiarezza e della concretezza. Subito elezioni, non c’è altro da fare. Altrimenti tutti in piazza a marciare su Roma come dice il Cavaliere. Il proiettile al direttore della Padania è un segno chiaro: il Carroccio dà fastidio. E adesso attenzione a fare quadrato contro provocazioni e violenze. Se il centrodestra vincerà, gli utili idioti del sistema (centri sociali e autonomi) si faranno vivi nuovamente. Bisogna respingerli tutti insieme con una lotta politica senza quartiere. Non prestiamogli il fianco. Non diamogli possibilità di agire. Per non tornare nella spirale della violenza. Carlo Sanna - La Spezia Rifiuti in Campania? Colpa dei governatori Il problema della ”munnezza” a Napoli dura da più di quindici anni. Da oltre dieci Bassolino viene cronicamente votato, proprio come la Iervolino. Come mai i napolitani non pensano che forse cambiando i loro amministratori la situazione potrebbe migliorare? E perché la magistratura non è mai intervenuta dal momento che sicuramente c’è responsabilità

dai circoli liberal

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

DAI DIAMANTI NON NASCE NULLA MA DAL LETAME NASCONO I FIORI L’emergenza rifiuti in Campania ormai va avanti da mesi, anche se il problema l’amministrazione campana lo trascina da anni. Quante volte mi è tornata in mente quella strofa di Fabrizio De Andrè… “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori…”una strofa ricca di speranza per chi è circondato dal letame come noi napoletani. Purtroppo la realtà è davvero terribile la situazione peggiora momento dopo momento. Quante colpe abbiamo noi napoletani eppure non ce ne vogliamo assumere le responsabilità. Sì, è vero, chi ha amministrato la Regione e la città come Bassolino e Iervolino hanno davvero fatto del male, ma noi napoletani gli abbiamo permesso di stare nei palazzi del potere ad arricchirsi scorrazzando qui e li per la città nelle auto blu, e noi il nostro malessere lo manifestiamo nella chiacchiera da bar. E se qualcuno non napoletano ci chiede, “ma come fate a vivere così?” il napoletano risponde con la frase tipica che è la nostra condanna “Ci

arrangiamo!”, ovvero ci adattiamo. Questa non è una particolare capacità dei napoletani oppure semplice pigrizia ma è un sintomo di un virus letale ancora radicato a Napoli, l’ignoranza. L’ignoranza di chi con uno sforzo minimo non ha mai fatto la raccolta differenziata e di chi non si è mai reso conto che la persona che stava votando magari gli avrebbe fatto un piccolo favore personale ma dopo un pò lo avrebbe abbandonato come tutti gli altri nella trappola mortale che è diventata Napoli. La rabbia di chi non vuole le discariche vicino casa non è del tutto da condannare ma perché soltanto ora? Perché mai nessuno ha detto basta quando i camion scaricavano rifiuti tossici abusivamente? Dove era lo stato? Dove erano i nostri governatori? Perché l’esercito è stato mandato per fare il netturbino in mimetica e non per bloccare il fiume di sangue di qualche faida? Perché ancora oggi la gente si scaglia contro le forze dell’ordine e permette a chi è il maggior colpevole di tutto questo di non dare ancora le dimissioni? Perché dobbiamo ancore essere umiliati?! Napoli, la città

amministrativa? E’ forse troppo impegnata a perseguire le raccomandazioni alle attricette di Berlusconi? Marco Faletti - Alessandria Roma come Venezia, invasa da piccioni pericolosi A Venezia si sono accorti che i piccioni danneggiano i monumenti e intendono correre ai ripari. Il nostro ”amato” sindaco Veltroni si è mai posto lo stesso problema? Roma è invasa da storni e piccioni, ma il danno non è solo per i monumenti, ma è anche per la salute pubblica. I piccioni sono pieni di parassiti, ma soprattutto possono portare malattie come la psittacosi, che si diffonde per via respiratoria e che, se non riconosciuta, può essere letale! Lorenzo Pagani - Roma

I palazzi del Potere si sono scordati del popolo Siamo proprio sicuri che la politica incarni ancora i bisogni dei cittadini? Famiglia, casa, mutuo, lavoro, futuro. Queste dovrebbero essere le parole d’ordine che invece sono scomparse dai palazzi del potere del Belpaese. Di tutto il resto non ci importa nulla, tanto anche se cambiasse il governo, anche se si facesse il referendum, cosa cambierebbe nella nostra vita quotidiana? Alessandrina Cantore - Lecce

dell’arte, del teatro, della musica, una capitale della cultura che per troppo tempo è riuscita a mascherare i suoi veri problemi, profondi come la bocca del vesuvio che scende giù nelle viscere della terra e si accumula fino ad esplodere… è esploso, la maschera si è sciolta. Bisogna salvare Napoli prima che il suo sipario si chiuda definitivamente.

Nello Mormile

LIBERAL CLUB POZZUOLI

APPUNTAMENTI ROMA - 1-2 FEBBRAIO 2008 Tempio di Adriano, Palazzo dei Congressi Meeting internazionale ”Cambio di stagione: 1968-2008, quarant’anni dopo”


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

”Era il solo uomo al mondo capace di impregnare una lettera di corrente magnetica” Non apro mai senza tremare questi cofanetti e queste cartellette dove si ammassano le lettere, i cablogrammi e i disegni di mio marito. Quei messaggi pieni di vive tenerezze e di segreti trascorsi hanno l’odore tragico e meraviglioso del passato. Quei foglietti ingialliti, costellati da alti fiori e da ”piccoli principi”, sono i testimoni fedeli di quella felicità annientata della quale misuro ogni anno con maggior forza le grazie e i privilegi. Antoine era il solo uomo al mondo capace di impregnare un telegramma di una corrente magnetica di lirismo personale. Quei segni e quelle lettere, incollati tra le loro anonime carte blu, parlavano con la sua voce. Ancora oggi vi ritrovo le carezze, le esplosioni e le inflessioni di quella voce che sapeva coniugare come nessun’altra le segrete magie dell’infanzia e i grandi sogni alati degli uomini”. Consuelo Suncin Sandoval a proposito di suo marito, Antoine de Saint Exupéry

Caro liberal, continuerò a leggerti La comparsa di un nuovo quotidiano in edicola è sempre una buona notizia. Ma la trasformazione del periodico preferito in un appuntamento giornaliero è una vera gioia.+ Vi continuerò e leggere. Ma anche a scrivervi. Michele Forino - Genova Giochi di ruoli e spirito di conservazione De Gasperi amava distinguere i politici dagli uomini di Stato. I primi, ahimé, pensano alle prossime elezioni, i secondi invece hanno a cuore la generazione futura. Purtroppo i litigi effimeri di questi politici di oggi hanno pervaso di incertezza il presente italiano. Di fronte ad un presente invivibile è difficile immaginare un futuro certo. C’è ancora speranza? Ci deve essere! La speranza intesa come un habitus dell’animo, una predisposizione al coraggio, al giusto, al senso di Stato. “ L’audacia ha in sé genio, potere e magia” (liberaldel 24 Gennaio). Credo che ora come

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

non mai servano uomini di Stato con “l’ audacia della speranza”. Pitta Doriano - Vietri (Pz) La legge 194 è il frutto di un’imposizione politica Rispondo alla domanda dell’altro giorno. Ritengo sia giusto cambiare la legge 194 per i seguenti motivi: 1) L’aborto è l’uccisione di un individuo vivente appartenente alla specie umana. 2) La 194 legalizza di fatto l’aborto a semplice richiesta della donna nei primi 90 giorni di gravidanza e legalizza l’aborto eugenetico fino alla 22a - 24a settimana , anche quando la

malattia o la malformazione potrebbero essere guarite o corrette dopo la nascita, e li maschera, in entrambi i casi, come aborti terapeutici volti a tutelare la salute fisica e psichica della madre. Ciò in un’epoca in cui il vero aborto terapeutico è stato quasi completamente eliminato dal progresso medico. 3) Anche prima della 194 le morti per aborto clandestino erano rarissime, e le patologie da aborto clandestino non erano un capitolo rilevante delle malattie femminili. 4) La legge 194 è in contrasto con la sentenza della Corta Costituzionale (n° 22 del 12/2/1975) che giudicava costituzionale il solo aborto terapeutico e condizionava la sua liceità ad un serio accertamento del danno o pericolo per la salute della madre. Nei primi 90 giorni di gravidanza (97% delle interruzioni di gravidanza) questo accertamento non è previsto dalla legge, ma basta la richiesta della donna. La legge 194, come tutte le altre leggi simili del mondo occidentale, non ha alcuna giustificazione medica. Essa è esclusivamente il frutto di un’imposizione politico-ideologica, senza alcuna base giuridica né medico-scientifica. Roberto Algranati Merano (Bz) Sputi e baccini Franco Marini sta esplorando il Senato per capire se per un eventuale governicchio ci sarebbero più sputi o più baccini. Giancristiano Desiderio Benevento

La funzione del genio è quella di fornire idee ai cretini vent’anni dopo LOUIS ARAGON

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di LA VOLPE E IL LUPO C’era una volta una “volpe” dal consueto pelo rosso. Lei viveva su di un colle in una foresta vicino Roma e da tutti era molto rispettata per la sua furbizia, accresciuta anche dalla veneranda età. In quel tempo nella foresta attorno al colle c’era un gran trambusto. Da quando la “faina”, da sempre conosciuta per le sue qualità funamboliche, era stata cacciata, tutti gli animali volevano per forza comandare e si erano divisi in fazioni. (…) Dapprima fece salire sul colle tutti gli animali della foresta e li ascoltò uno ad uno, pur sapendo che avrebbe ascoltato e accontentato solo uno parte di essi, poi scelse, per dare maggiore credito alla soluzione che aveva già pensato, di aspettare alcuni giorni prima di rivelarla. La chiamò: “pausa di riflessione”. Nel frattempo metteva in campo il suo piano. Aveva deciso di servirsi del “lupo”. Non di un lupo qualsiasi però, scelse quello che riteneva più adatto all’incarico, quello più testardo e nel contempo quello che si era dimostrato un ottimo mediatore. Il lupo in questione era il famoso “lupo marsicano”. (…) La volpe seppe trovare gli argomenti giusti per convincerlo. C’era infatti nella foresta un animale pericoloso, il grifone, simbolo di forza e regalità, questi aveva già governato e malgrado il suo governo avesse fatto cose egregie non era piaciuto a quelle fazioni faziose di bestie che da sempre erano alleate della volpe. Fu questa la vera ragione che spinse il lupo marsicano ad accettare. Così il lupo andò aggirandosi per la foresta. Fece visita allo sciacallo suo alleato, al leone che odiava, al cinghiale bianco. Quan-

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do ebbe finito si accorse che aveva perso tempo e dovette tornare dalla volpe da pelo rosso con la coda tra le gambe, lasciando la foresta peggio di come l’aveva trovata.

L’Osservatore di Romano giusva1.iobloggo.com

TUTTI AL CENTRO Alla notizia dell’incarico a Franco Marini, finalizzato alla riforma elettorale, si può trarre qualche conclusione sulle strategie politiche, notando una corsa al centro sfrenata, che sembra non abbia fine. Che l’elettore mediano fosse il punto d’interesse delle strategie dei poli, era fuor di dubbio. Che il parlamentare mediano acquistasse così tanta importanza, si poteva anche prevedere, ma era più improbabile. Il governo Prodi era stato oggetto di critiche iniziali per l’appoggio determinante della sinistra radicale (…). Il rimedio è arrivato allora con il sen. Follini, ex Udc, che si è spostato ”più al centro” e ha dato la fiducia al governo. Nel frattempo si tesseva l’avvicinamento al centro da parte dei Ds, con il Pd. (…) Intanto il governo è caduto, ma non per mano dei senatori dell’estrema sinistra, bensì per ”la destra” della coalizione (…). Con l’incarico a Marini si apre però una breccia nell’Udc: Tabacci e Baccini escono dal partito per andare ”più al centro” e dialogare in vista di un possibile appoggio al nuovo governo. (…) La politica passa dunque sempre più attraverso la conquista del parlamentare centrista. Più ce n’è, più ci si può assicurare la governabilità per la propria parte. Bisogna prenderne atto.

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PAGINAVENTIQUATTRO

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8Lennon,

Aperto ieri a Roma il meeting

NON LENIN di Riccardo Paradisi

ici di volere la rivoluzione ma faresti meglio a cambiare la tua mente», cantava John Lennon nel 1968. Lasciamo perdere che per cambiare la mente il leader dei Beatles contemplasse anche l’uso dell’Lsd, il fatto è che sul ’68 – movimento nato libertario – mise presto le briglie il marxismo-leninismo. Lenin più che Lennon. Che è una deriva peggiore dell’Lsd. Perchè dopo i primi sussulti di contestazione studentesca e operaia, almeno in Italia, le parole diventano pietre, poi spranghe, infine s’avvitano nel piombo delle P.38. E lasciano una una lunga scia di sangue e di miserie. Vecchie storie si dirà. Ma nel nostro Paese il ’68 è un quarantenne ancora molto ambizioso. Ha sbagliato analisi e sintesi,

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ha lasciato sul suo cammino macerie politiche ed esistenziali – la famiglia a pezzi, la rottura del rapporto col padre, la distruzione dell’autorità – eppure continua a essere celebrato e festeggiato come avanguardia del nuovo. Un fallito di successo. Per questo sarebbe ora di votar pagina, di cambiare stagione, come suggerisce il meeting internazionale della fondazione Liberal che si è aperto ieri a Roma nella rossa Aula Magna dell’Università Lateranense.Tre giorni di dibattiti e confronti su una stagione che continua a proiettare la sua ombra sul presente, condizionandone ancora i riflessi e la memoria. Ieri a raccontare il loro Sessantotto alla Lateranense c’erano Monsignor Rino Fisichella, che ha fatto gli onori di casa e che ha ricordato come nel ’68 a Lodi non ci fosse molto altro da fare che studiare, Andrè Glucksmann che ha raccontato la contestazione vista da Parigi, Krzysztof Zanussi dalla Polonia, Michael Novak, che ha messo a confronto il ’68 americano con quello europeo, Lorenzo Ornaghi, che nella stagione delle barricate, vede la fine della meritocrazia. Parigi nel ’68 non era Roma, nè Milano. Alla Sorbona, malgrado le gigantografie di Mao gonfiate dal vento, chi contestava era amico di Socrate più che di Marx e di Lenin. Andrè Glucksman lo ricorda così il maggio francese, e ammette che altrove magari è stato diverso. Però è vero che a Luois Aragon che dichiarò di essere a fianco degli studenti in rivolta Cohn Bendit, l’enfant terrible del maggio, rinfacciò d’essere stato il cantore di Stalin: «Hai del sangue sui tuoi capelli bianchi». A Milano i katanga seguivano un altro spartito: «Viva Marx, Viva Lenin, Viva Stalin e la Ghepeu», gridavano a passo di marcia. Prima di picchiare, molti contro uno, ca va sans dire. A Giuseppe Conti, un sindacalista dell Uil, ruppero la testa perchè amava la notte e bere vino. Meglio Parigi. «La coscienza antitotalitaria», racconta Glucksmann, «nasce dalle lunghe discussioni in libertà sulla libertà. Dalla prassi di mettere a confronto la propria opinione senza sangue. Per questo il ’68 in Francia è stato antitotalitario e antisovietico. Le rivoluzioni di velluto oggi nell’est europeo sono anch’esse l’onda lunga di quella stagione il cui senso è sfuggito anche a molti di coloro che l’animarono». «I sessantottini poi non hanno preso alcun potere», ricorda Glucksman. E parla ancora della Francia naturalmente. Anche per Krzysztof Zanussi il Sessantotto in Polonia è stato positivo. Michael Novak

invece è meno indulgente: «A Sanford e Berkeley, tra il ’65 e il ’68, si percepiva nell’aria che la rivoluzione giovanile non avrebbe avuto esiti positivi. I giovani del ’68, la generazione dei baby boom, coccolata come nessun altra si sentivano potenti, come se fossero favoriti dall’intero universo». Tutto e subito dunque. E così racconta ancora Novak si passò presto alla prepotenza in nome del diritto di parola e dell’uguaglianza: «Studenti minacciosi riuscirono a intimorire il corpo docente e a farlo capitolare

Il movimento della contestazione nasce libertario ma finisce presto per essere imbrigliato dall’ideologia della sinistra più radicale e totalitaria

a questa estorsione. Fu distrutta qualsisasi autorità etica o intellettuale i professori avessero mai avuto agli occhi degli studenti». È il problema che anche Ornaghi affronta quando parla della necessità di rianimare i luoghi della formazione rimettendo in circolo l’idea, abolita dalle derive antiautoritarie e radicali degli anni Sessanta, che «l’educazione e la cultura sono un cammino che richiede fatica». Per i ragazzi dei Sessanta di cui parla Novak nessun limite poteva contenerli. Subito dopo la fine del decennio iniziarono però a farsi numerose le segnalazioni di “viaggi finiti male” causati dall’Lsd e sfociati in suicidi, in casi di abbandono scolastico, nel naufragio di carriere promettenti, in dolorose rotture dei legami famigliari. Era l’esito disastroso della ”rivoluzione”.

A sinistra: John Lennon. In alto in senso orario: André Glucksmann, Michael Novak, Lorenzo Ornaghi e Krzysztof Zanussi


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