No Title

Page 1

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80202

DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Manifestazioni nella capitale afghana per salvare Sayed, condannato a morte. Tantissime adesioni al nostro appello. Ora si muove qualcosa anche in Italia

Dalla parte di il Creato

Kabul Documento dell’Onu: cloni umani inevitabili Bruno Dallapicccola Lorenzo D’Avack Gianfranco De Turris Assuntina Morresi

inserto a pagina 12 QUOTIDIANO • 2

FEBBRAIO

I POST-COMUNISTI CHE AFFOSSANO LA SCUOLA

6 8

intervista

educazione

CUFFARO: «INSULTANO IL VOTO DEI SICILIANI»

SPECIALE 1968: QUARANT’ANNI DOPO

Cambio di stagione André Glucksmann Riccardo Paradisi

di Giorgio Israel

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

a pagina 8 NUMERO

17 •

di Errico Novi WWW.LIBERAL.IT

a pagina 9 • CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

pagine 4 e 5 19.30


pagina 2 • 2 febbraio 2008

dalla parte di

Kabul

Il testo dell’appello lanciato da liberal Al Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon, Al presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai, Al Comando del Contingente Nato-Isaf, Alle organizzazioni non governative

S

ayed Parwiz Kambakhsh sta rischiando la vita a causa dell’intolleranza fondamentalista. Studente universitario afghano di appena ventitre anni, reporter neo-assunto per il giornale di Mazar-i-Sharif, Sayed è in carcere da tre mesi poiché un tribunale lo ha ritenuto colpevole di blasfemia. In un articolo per il quotidiano locale “Nuovo Mondo”, il giovane giornalista avrebbe offeso il profeta Maometto e si sarebbe spinto a sostenere “il diritto delle donne ad avere più mariti” così come, secondo il Corano, “un uomo può sposare fino a quattro donne”. L’altro ieri si è svolta a Kabul una seduta del Senato afghano, nel corso della quale è stato votato un ordine del giorno in cui si chiede la pena di morte per il “giornalista blasfemo”. I corrispondenti locali riportano che al momento del voto in aula erano presenti 75 senatori dei 120 totali. “Non vi è stata una vera e propria votazione, ma il documento porta la firma del presidente del Senato Mojaddedi, che sembra avesse il consenso di tutti i presenti”. Conosciamo bene la personale aspirazione del presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai alla realizzazione di una società democratica. Apprezziamo la sua volenterosa opera di ricostruzione di una nazione che ha sofferto lunghi anni di oppressione e violenze e consideriamo le enormi difficoltà culturali, economiche e sociali con cui è costretto quotidianamente a confrontarsi. Resta il fatto, per noi importante, che il presidente Karzai dovrebbe rendersi conto che un tale episodio rischia di colpire al cuore il processo di ricostruzione democratica avviato, facendolo nettamente regredire. La comunità internazionale non è intervenuta in Afghanistan per permettere questo, per permettere che i diritti umani fossero così schiettamente brutalizzati. Riteniamo che la vittoria della libertà, della democrazia e di tutti gli altri diritti civili nel paese afghano, come in tutto il mondo, non dipenda soltanto dal raggiungimento di una stabilizzazione militare, ma anche dal conseguimento di una democrazia, resa significativa dalla presenza di tutte le garanzie a tutela di un’esistenza libera. Oggi, 31 gennaio 2008, è prevista una manifestazione di giornalisti ed organizzazioni umanitarie a Kabul in difesa del giornalista su cui pende la condanna capitale. Ci uniamo a tale dimostrazione di solidarietà nei confronti di Sayed, e chiediamo di fare altrettanto alla politica e alle Istituzioni occidentali e di tutto il mondo, alla cultura internazionale, al giornalismo, al volontariato. Per la sua sorte, ci appelliamo all’intervento dell’ONU, alla determinazione del Presidente Karzai, al senso di giustizia delle Istituzioni afghane, alla volontà di intercessione del contingente Nato-Isaf. Infine, ci appelliamo ai cittadini afghani, al loro sentimento di fratellanza universale.

Ferdinando Adornato

André Glucksmann

Michael Novak

Per aderire all’appello inviate una email a: redazione@liberal.it o scrivete a liberal, via della Panetteria, 10 - 00187 Roma

Un dramma che rischia di vanificare il senso della nostra missione

Non lasciamo soli i democratici afghani di Renzo Foa pero proprio che Sayed Parwiz Kambakhsh abbia saputo, nella cella in cui è rinchiuso, che nel mondo c’è qualcuno che si preoccupa della sua vita. Che due giornali, a Londra The Independent e a Roma liberal, gli hanno dedicato l’intera prima pagina con due titoli identici, «Save» l’uno «Salviamolo» l’altro. Spero che sappia di non essere solo. Così come spero che sappiano di non essere soli coloro che a Kabul hanno deciso di non accettare l’ineluttabilità delle legge coranica e sono scesi in piazza per difendere il giovane giornalista condannato a morte.

S

Il dramma nel dramma, in vicende come queste, è la solitudine. La solitudine di una vittima innocente del potere equivale ad una sconfitta. La solitudine è il segnale, spaventoso, del trionfo dell’ingiustizia. Pagine bellissime sono state scritte sull’argomento. In ogni momento del Novecento, sono bastati un cenno o una frase per dare coraggio a chi era rinchiuso in un carcere o in gulag per un reato di opinione. Un esempio? Natan Sharansky ha ricordato come «una giornata meravigliosa» il momento in cui apprese che Ronald Reagan aveva definito l’Unione Sovietica «impero del Male». «Era diventato impossibile, a chiunque vivesse in Occidente, poter continuare a tenere gli occhi chiusi». Un discorso analogo può essere fatto quando si è provato un senso di impotenza – dovuto alla mancanza di attenzione del mondo – di fronte a tragedie umanitarie. Il generale Roméo Dallaire, che comandava la missione dell’Onu in Ruanda quando si consumò il genocidio, ha scritto uno straordinario libro sulla sua solitudine nei mesi in cui si consumò una delle peggiori mattanze del

Novecento, che avrebbe dovuto evitare, ma che non riuscì a farlo perché il mondo stava guardando altrove. La disattenzione e il silenzio sono due grandi difetti politici e culturali, di un’Italia che tende ad essere autoreferenziale, che ha difficoltà ad alzare lo sguardo sul mondo. Il sistema mediatico ha sorvolato ieri sulla vicenda di Sayed Parwiz Kambakhsh. Non lo ha fatto per una scelta consapevole, più semplicemente per una vecchia abitudine che hanno le classi dirigenti di questo paese, salvo poche eccezioni, a restare schiacciate sui propri problemi più immediati. È un brutto vizio. In questo caso non ci si preoccupa troppo non soltanto di una vita, ma soprattutto della sconfitta che subirebbe una politica, quella dell’interventismo democratico, e una scelta, quella di liberare l’Afghanistan dal regime dei talebani, ma non certo per affidarsi ad un governo che viola i diritti dell’uomo.

zioni Unite in Afghanistan si è già fatto sentire, chiedendo la revisione del processo. Colpisce questo divario.

Colpisce ancora di più perché dimostra una scarsa consapevolezza del drammatico problema posto dalla condanna a morte di Sayed Parwiz Kambakhsh. L’Italia è impegnata in Afghanistan sul piano militare, politico e umanitario. Sul piano militare partecipa alla lotta contro il terrorismo fondamentalista, che non conosce frontiere. Il problema è il senso di questa partecipazione. Spesso c’è la tendenza a dimenticare cosa è questo terrorismo. Ieri in Iraq – le matrici dell’insorgenza sono analoghe – ci sono stati due attentati kamikaze, che hanno provocato a Baghdad la morte di almeno 68 persone e il ferimento di altre 165. Un particolare agghiacciante: i due kamikaze

Ieri il sistema mediatico italiano ha sorvolato sul caso Sayed. Disattenzione e silenzio sono due grandi difetti di un’Italia che ha difficoltà ad alzare lo sguardo sul mondo Parlo dell’Italia, perché già ieri mattina ieri il ministro degli esteri britannico, David Miliband, ha dichiarato all’Independent di aver sollevato il caso Kambakhsh di fronte all’Unione europea e alle Nazioni Unite. Anche l’Italia ha un ministro degli Esteri, che pure ha rivendicato alla sua azione la moratoria internazionale sulle esecuzioni, approvata dall’Assemblea generale dell’Onu, ma che in questi giorni sembra preso solo dalla crisi di governo. Parlo dell’Italia, perché il rappresentante speciale delle Na-

erano due donne down, non in grado di farsi esplodere da sole, per cui di fatto sono state uccise da qualcuno che ha usato un telecomando a distanza. È vero che dall’Iraq, ci siamo ritirati. Ma è anche vero che i rivoli del terrorismo fondamentalista attraversano le frontiere e che rappresentano un unico nemico, tanto per gli iracheni e gli afghani che per le forze militari occidentali. Allora va ripetuta la domanda: che senso ha lottare contro questo mostro, se poi gli

alleati, coloro che dovrebbero assicurare uno sviluppo civile di quelle società, calpestano norme e diritti che non appartengono solo alla «civiltà occidentale», ma che fanno parte di

quella carta globale rappresentata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu? Questa è la domanda a cui rispondere, intanto, alla pubblica opinione, ma anche a coloro che sono impegnati sul terreno. La lotta alla violenza e all’oscurantismo è unica. E questo va fatto sapere, va riaffermato in continuazione, non per un problema di coerenza, ma perché sappiamo tutti che la democrazia e l’habeas corpus si costruiscono giorno dopo giorno.

C’è, infine, un dovere. Quello della solidarietà non solo a Sayed Parwiz Kambakhsh, ma anche a coloro che a Kabul sono scesi in piazza per difenderne la vita contro un potere più oscurantista di quanto non si pensasse. Questi coraggiosi, questi democratici devono sentirsi sostenuti, in qualche modo protetti, anche da azioni diplomatiche e politiche concrete. La ragione è semplice: se la democrazia non si esporta, quel che non deve mancare è l’appoggio a coloro che lavorano, rischiando, per costruire la democrazia in casa propria. Il silenzio incoraggia soltanto coloro che esercitano il proprio potere a colpi di sentenze capitali, di repressione e di violenza.


dalla parte di

Kabul

2 febbraio 2008 • pagina 3

Le prime risposte alla nostra iniziativa

Adesioni bipartisan: salviamo Sayed È dovere di D’Alema intervenire su Karzai di Gianfranco Fini Aderisco all’appello lanciato su liberal da Ferdinando Adornato, André Glucksmann e Michael Novak per salvare la vita di Sayed. La comunità internazionale e l’Italia non possono accettare che in Afghanistan, dove siamo impegnati nella lotta al terrorismo fondamentalista e per la ricostruzione democratica del Paese, l’intolleranza fondamentalista colpisca un giovane giornalista e lo metta morte per aver espresso un’opinione. La difesa dei diritti dell’uomo resta sempre e ovunque una priorità. Questo concetto va ribadito e ricordato anche a governi che sosteniamo, con grande sforzo politico, militare e umanitario, e a capi di Stato amici, come il presidente Karzai, che ho conosciuto in quanto ministro degli Esteri. Impedire l’esecuzione di Sayed è un’azione obbligata per riaffermare il senso dell’impegno globale per la democrazia. Anche se il governo è in crisi, credo che sia doveroso che il nostro ministro degli Esteri faccia un passo ufficiale presso il presidente Karzai affinché tenga conto delle preoccupazioni del mondo che lo appoggia: la pressione internazionale può essere decisiva per rovesciare la sentenza.

Margherita Boniver deputato Forza Italia Non solo ho immediatamente ritenuto di dover sottoscrivere l’appello, ma mi sono anche interessata del caso presso il governo Karzai. Dagli interlocutori ascoltati mi è stato spiegato che, nonostante la delicatezza del caso, c’è l’intenzione di risolverlo. Mi impegno inoltre a seguire ancora la vicenda finché non sarà scongiurato il pericolo della condanna. Lamberto Dini presidente commissione Esteri Senato Ritengo che l’iniziativa di liberal sia assolutamente lodevole e che vada sostenuta in tutti i modi possibili. Umberto Ranieri presidente commissione Esteri Camera Sono d’accordo sulla necessità di produrre la massima pressione della comunità internazionale per scongiurare che il giovane afgano sia giustiziato e fare in modo che venga restituito anzi alla piena libertà. Purtroppo il processo di costruzione dello Stato di diritto in Afghanistan non è andato avanti con la speditezza necessaria. Il fatto che la comunità internazionale non sia intervenuta non vuol dire che non ci si aspetti una condotta rispettosa dei diritti umani. Giampaolo Pansa giornalista e scrittore Aderisco e noto come spesso di fronte a storie come questa il

mondo sia distratto. E ricordo che anche i governi amici possano prendere decisioni assolutamente sbagliate. Roberto Mussapi poeta e scrittore Se giungessi sulla terra da un altro pianeta e apprendessi che un uomo è condannato a morte per un’opinione (religiosa, politica non importa) farei immediatamente rotta su Disneyland per trovare un minimo di logica. Invece non mi resta che firmare contro qualcosa che mi parrebbe irreale, ma esiste. Giorgia Meloni vicepresidente della Camera Aderisco all’appello di liberal. Chiedo alle istituzioni afgane e alla comunità internazionale di impegnarsi per risparmiare la vita al giovane Sayed. Ricordo che l’Italia sta contribuendo con coraggio e convinzione alla ricostruzione politica e sociale dell’Afghanistan, anche con il sacrificio dei suoi giovani militari feriti o caduti. Dario Rivolta deputato Forza Italia Sono in piena sintonia con lo spirito dell’appello. Capisco la necessità delle autorità di Kabul di trovare il modo di ricucire con i Talebani non disponibili alla guerriglia. Ma questo non può contraddire i motivi stessi che hanno spinto la comunità internazionale a intervenire. Antonio Polito senatore Partito democratico Sottoscrivo con convinzione e

mi chiedo: ma non c’è una moratoria per vicende di questo genere? Massimo Teodori professore universitario Condivido l’appello e sottoscrivo. Roberta Angelilli delegazione An parlamento Ue Aderisco e ricordo che la comunità internazionale è presente in quel Paese perché vengano difesi i diritti civili, la libertà e la democrazia. Gad Lerner giornalista Sono d’accordo e sottoscrivo, nell’umile consapevolezza che la mia adesione non può avere purtroppo un’influenza significativa sulle decisioni delle autorità afgane. Comune di Firenze La commissione Pace e Relazioni internazionali del Consiglio comunale di Firenze aderisce all’appello e comunica che lunedì prossimo presenterà una risoluzione in favore del giovane giornalista afgano. Mario Borghezio delegaz. Lega parlamento Ue Trovo la campagna più che giusta. Sostengo da sempre il principio dell’autodeterminazione dei popoli, ma in questo caso le decisioni colpiscono non solo i valori umanitari ma anche la libertà di espressione. La reazione alla condanna deve essere ferma, decisa, unanime e super partes.

Filippo Berselli senatore An I diritti umani vanno sempre difesi ovunque siano calpestati. Siamo in Afghanistan per ripristinarne il rispetto e non possiamo restare indifferenti Marco Zacchera responsabile Esteri An Condivido in pieno l’appello e ritengo che sia giusto pretendere dalle autorità afgane la reciprocità nel rispetto dei valori fondamentali di ciascuna delle parti. Beniamino Donnici delegazione Idv parlamento Ue La comunità internazionale non deve tollerare l’assurda e inaccettabile condanna a morte del giovane studente e giornalista afgano Fabio Rampelli deputato An La libertà di stampa va salvaguardata dai processi alle idee quando viene messa in discussione la vita di un uomo. La comunità internazionale ha il dovere di intervenire per evitare questa esecuzione. Renato Brunetta vicecoordinatore FI Non posso che sottoscrivere l’appello. Alberto Cesare Ambesi Mi associo all’appello volto ad ottenere piena libertà per il giornalista Sayed Parwiz Kaambakhsh. Alberto Moioli Aderisco alla petizione.


pagina 4 • 2 febbraio 2008

6 8

Pubblichiamo un ampio stralcio della relazione di André Glucksmann al meeting internazionle sul ’68 organizzato dalla Fondazione liberal.

l ’68 deve essere visto, nel lungo termine, come un’esperienza filosofica europea. Un cambiamento di paradigma, insomma, un modo di cambiare l’ottica per l’interpretazione di eventi anche precedenti e successivi a quella stagione. Il ’68 si oppone ad un doppio conservatorismo: al conservatorismo del passato, proprio della destra (ma non solo) e a quello progressista, dell’idea dell’avvenire, che riguardava soprattutto la sinistra. Conservatorismo quindi del passato. La vera novità de ’68, che ancora oggi è una novità, è stato il generale De Gaulle. E lui era senz’altro uno degli obiettivi della contestazione in Francia. Il maggio del ’68 in Francia e fu anche l’apparire dell’angoscia degli “sradicati”, che contraddiceva definitivamente il presunto radicamento dei valori tradizionali francesi, la tesi secondo cui c’erano un terzo di contadini, un terzo di operai e un terzo di cittadini borghesi che si univano nel comporre una sorta di armonia sociale. Nel ’68 è diventato chiaro che tutto questo era finito e che il conservatorismo prima esistente era sul punto di morire. Ma c’è stato un altro “sradicamento” provocato dal ’68 in Francia, quello rispetto alla cultura del XIX secolo, la cultura rivoluzionaria, la cultura del proletariato vincitore, la cultura della continuità tra la rivoluzione del 1913 e quella stalinista.

I

Ache la cultura progressista degli intellettuali di sinistra è stata minata dal maggio del ’68 in Francia. E si è trattato di un’eccezione. Ricordo semplicemente che sin dall’inizio, quando il nostro grande poeta nazionale comunista e surrealista, Aragon, ha voluto dare il proprio sostegno (a differenza del suo partito) agli studenti, Daniel Cohn-Bendit, che era il leader degli studenti, gli chiese: «Compagno, amico, spiega la tua apologia di Stalin, dacci qualche spiegazione sulle tue poesie degli anni Trenta che si intitolavano “Urali Urali”, mentre negli Urali c’erano già milioni di prigionieri». Aragon non disse nulla, andò via rincorso da uno slogan dell’epoca che suonava come «c’è del sangue sui tuoi capelli bianchi». Se riflettete su

polemiche

Il filosofo francese rivendica i meriti del maggio parigino. Ma non dimentica gli errori

Il nostro Sessantotto? Globalizzazione e metodo liberale di André Glucksmann questa frase vi ricorderete che l’altro ieri John McCain, che non è un sessantottino, ha detto: «Quando guardo gli occhi di Putin vedo tre lettere: KGB». Sangue sui tuoi capelli, tre lettere nei tuoi occhi, è lo stesso problema, quello dell’antitotalitarismo. È qui che sta l’originalità del maggio del ’68 in Francia, che è anche stato anticomunista e antisovietico. E tutti coloro che cercano di riflettere su questa epoca devono tenere conto di questo aspetto del maggio francese, molto più sfumato, invece, in Italia, in Giappone, in Germania e anche naturalmente negli Stati Uniti. Questo spiega un’altra serie di cose, per esempio una certa capacità di comprendere ciò che accade oggi. E’ questo il vero cambiamento di paradigma, che si manifesta a livello internazionale oggi, una sorta di apertura della Francia alla globalizzazione. All’epoca i giornalisti americani che assistevano al maggio del ’68 dice-

solo nelle nostre teste, per sfociare nel rifiuto del marxismo.

Quando oggi guardo il mondo, mi dico: «ebbene, sì questo ’68 ha aperto le menti». Abbiamo iniziato a cambiare. Pensiamo ai due eventi essenziali della

«Siamo tutti ebrei tedeschi»: era questo uno degli slogan della contestazione. Siamo tutti capaci, volevano dire, di fare Auschwitz, di fare Hiroshima, o di trovarci sotto le bombe atomiche o in un campo di concentramento vano che in qulalche modo ci stavamo “americanizzando”. In un certo senso era vero, si stava producendo una rottura, un’apertura delle frontiere e in questa prospettiva il ’68 continua tutt’oggi. All’inizio della contestazione, credevamo che la rivoluzione costituisse l’unico vero modo per cambiare di potere e che, appunto, si trattasse di una falsa rivoluzione se non si spargeva abbastanza sangue. Invece il ’68 non ha affatto preso d’assalto i ministeri o l’assemblea nazionale francese. Sarebbe stato possibile, forse, ma nessuno ne aveva voglia. Invece il ’68 ha segnato proprio l’inizio di una critica serrata al marxismo. Alla Sorbona c’era l’immagine di Mao, i ritratti di Castro e Lenin, ma dopo un po’ questo ”dialogo tra morti e massacratori” è continuato

fine del XX secolo. Prima di tutto la riunificazione dell’Europa su basi democratiche, che è iniziata con la rivoluzione in Portogallo ed è proseguita con la caduta del franchismo in Spagna, poi con grande dolore è continuata e si è estesa lentamente con tutte le rivoluzioni di velluto dell’Europa orientale. Si tratta di rivoluzioni perché implicano un cambiamento di regime, ma non sono rivoluzioni che pesano in base al sangue si sparge, non sono rivoluzioni sullo stile di Robespierre. E questo concetto di rivoluzione cambia il paradigma della rivoluzione. Oggi, quando si pensa alla rivoluzione, si pensa al Portogallo e alla Cecoslovacchia, alla Birmania e alle manifestazioni in Libano. Questo è iniziato nel maggio del ’68. La seconda cosa che è scaturita dal

68 è la critica del marxismo. Quasi tutti erano un po’ marxisti tra gli intellettuali parigini nel ’68, però il dibattito è stato molto aperto e nessuno più si diceva marxista appena cinque anni dopo. Questa critica del marxismo è veramente determinante per lo stato del pianeta. Il secondo evento essenziale del XX secolo è il cambiamento che ha avuto luogo in Cina. Certo, la Cina è ufficialmente comunista, ha un passato dittatoriale, ma in materia economica sta fornendo la prova del fatto che l’economia di mercato è senz’altro superiore all’economia che si ispira al marxismo, al collettivismo. E questa trasformazione, che ha avuto effetti su un miliardo e cinquecento mila persone (e che quindi ha un significato planetario) è qualcosa che possiamo comprendere anche sulla base della critica al marxismo partita nel maggio del ’68. Certo, nulla si può dare per scontato quando si parla di Cina, ma è vero che l’idea di rivoluzione e la critica del marxismo che hanno avuto luogo sulla base di quanto è avvenuto nel ’68 costituisce il modo di cambiare paradigma, cambiare i nostri occhiali intellettuali per comprendere anche il mondo di oggi.

Ma non è tutto. Il maggio del ’68 non è stata soltanto un’esperienza politica, ma anche un’esperienza filosofica, perché il metodo del ’68 è quello che i greci chiamavano la paresia, la libera discussione, la necessità di discutere, l’idea secondo cui ciascuno debba affermare ciò che crede essere vero e deve farlo liberamente in un libero dibattito. Se pensiamo a quanto è avvenuto nel ’68 ritroviamo Socrate e bisogna ricordare che Socrate è stato condannato perché ”danneggiava moralmente la gioventù dell’epoca” e, come riassunse Platone, disse che «viviamo in una città che è la più aperta dell’universo, cioè Atene». Atene era già la globalizzzione, Atene era la rivoluzione scientifica, Atene aveva il più grande teatro del mondo, Atene era arte, era chiarezza e anche dubbio. Socrate disse: «Io faccio delle domande e credo che i giovani pensino che le mie domande rispecchino le loro angosce, i loro dolori». Le risposte antiche non erano più adeguate alla realtà di un’Atene che esplodeva nella sua prima globalizzazione. Questo è esattamente il metodo del ’68 francese. Questo è il sale della


polemiche civiltà occidentale. Ricordiamoci che Socrate non diceva «ecco la verità», Socrate aveva un’ispirazione che chiamava il suo demone e questo demone non gli diceva mai cosa fare, bensì gli diceva «attenzione, non fare quest’altro». Ci sono due direzioni possibili nel metodo del ’68: dire che non esiste una verità assoluta e quindi non esiste nulla di vero (e questa è la cosiddetta post-modernità); oppure si può dire che abbiamo una idea del falso prima di avere idea della verità, abbiamo una vera idea di ciò che è male o di ciò che è malato prima di avere un’idea della salute, che la malattia è precisa anche se la salute è imprecisa. I campi di concentramento, insomma, sono estremamente precisi, anche se la “vita perfetta” è indefinita ed imprecisa e relativa. L’Europa, nella sua cultura più profonda, si unisce intorno alle barriere che impone sull’inferno e non sull’autostrada che invece dovrebbe aprire verso il paradiso. La capacità di intendersi sul male, sugli errori, sugli orrori, è fiorita dopo il maggio del ’68. Pensiamo a medecins sans frontières e ai loro interventi in tutto il mondo, quando ci sono malattie e massacri: questo è il ’68 in termini metodologici. Guardiamo gli errori, guardiamo le cose negative, perché è così che progrediremo.

Non bisogna poi dimenticare un altro aspetto dell’esperienza filosofica: non solo il cambiamento di paradigma, non solo il cambiamento di metodo, ma anche la trasformazione di sé nel proprio rapporto con il mondo. Possiamo ringraziare liberal per avere organizzato questo dibattito sul ’68 perché direi che il maggio del ’68 ha costituito un evento liberale che liberalizza l’Europa, a condizione però che non lo si giudichi con pregiudizi sul liberalismo, ma che lo si utilizzi per meglio comprendere ciò che è il liberalismo. In fondo, l’opposizione tra liberalismo e il socialismo è la capacità di osare, la differenza di assumere dei rischi. Il liberale, in linea di principio, deve essere abbastanza coraggioso da pensare a ciò che non gli fa piacere, a ciò che rischia di aggredirlo, a ciò che rischia di scuoterlo. Osare, vivere e agire nel rischio. Il rischio, certo, di sbagliarsi. L’essenza del liberalismo è questa: i re sono morti, raccontiamo la storia della morte dei re. Non c’è più nessuno che si assume il rischio al nostro posto e che possa darci una garanzia, ora tocca a noi rischiare in prima persona. Naturalmente ci sono dogmatismi ovunque. Ci sono magari persone che rimpiangono la loro gioventù o per adorarla o per dire «ah, l’ho perduta a causa di questo, a causa di quest’altro». Questo culto del ricordo, che sia adorazione o esorcismo, non è il mio forte. Quello che voglio dimostrare è che tutto questo continua, che questo slancio del ’68 è ancora vivo, che questo slancio viene da lontano. C’è una parola d’ordine, molto caratteristica, del maggio del ’68 francese, gli studenti gridavano: «siamo tutti ebrei tedeschi». A parte due o tre, non erano né ebrei né tedeschi, però la loro

parola d’ordine aveva un senso estremamente profondo: l’ebreo rappresentava chi era morto nella seconda guerra mondiale e il tedesco era il nemico di sempre. Dire «sono tedesco e sono ebreo» quando non si era né l’uno né l’altro significava dire: «siamo tutti degli sradicati ma siamo tutti consci del fatto che è su questo sradicamento che dobbiamo costruire l’Europa, l’Europa del dopoguerra».

Bisogna ricordare come alla fine della prima guerra mondiale alcune persone lucide abbiano avvertito che stavamo andando contro il disastro e che l’umanità rischiava di sparire. C’è una citazione di Valery molto nota: «dobbiamo sapere che siamo mortali». Questo significava uscire da due secoli in cui le civiltà progressiste si credevano immortali. Nel 1914, improvvisamente, abbiamo capito di mortali, ma poi abbiamo fatto tutto quanto era in nostro potere per dimenticarlo. Nel 1940 abbiamo dovuto capire che non solo eravamo mortali, come gli ebrei, ma eravamo anche particolarmente sanguinari. Eravamo in grado di sterminare fino all’ultimo individuo popolazioni civili che non erano nostri nemici, né dal punto di vista politico né da quello militare. Questa capacità di sterminio sanguinario e anche questa capacità di cadere sotto i colpi dello sterminio - tutto questo è riassunto nella parola d’ordine «siamo tutti ebrei tedeschi». Siamo tutti capaci di fare Auschwitz, di fare Hiroshima, o di trovarci sotto le bombe atomiche e dentro un campo di concentramento. Proprio di fronte alla capacità dell’umanità di suicidarsi, di fronte al rischio imminente della fine del mondo, abbiamo criticato le illusioni che ci nascondevano questo pericolo: le illusioni marxiste; quelle dei rivoluzionari duri e puri che non avevano alcun problema a perpetrare stermini; le illusioni di chi ci diceva «La Francia è eterna, viviamo in Francia, non preoccupiamoci degli altri». Tutto questo “pacchetto di conservatorismo”, che risale al XIX secolo, è stata la cosa messa maggiormente in discussione nel ’68. Poiché ci troviamo in un’università religiosa, desidero citare qualcuno che non è stato mai un sessantottino, che aveva capelli più corti dei miei anche oggi e che era un professore alla Sorbona, Jean Guitton, cattolico, amico di Paolo VI. Secondo Guitton, l’università della Sorbona era un simbolo. Se il maggio del ’68 era iniziato proprio alla Sorbona è perché aveva avuto un senso che è sfuggito anche a coloro i quali hanno realizzato il ’68. Un significato troppo sottile - e quindi passato inosservato. «Vi prego di scusarmi diceva Guitton - per non aver aderito al clichè di essere pro o contro il ’68. Perché il 68 siete voi, siamo noi, è oggi»- La verità spesso si nasconde nel silenzio. E i quarant’anni che ci separano dal ’68 rappresentano uno sforzo lento, difficile e spesso ricco di errori per far parlare questo silenzio. Credo che oggi, almeno in parte, questo silenzio abbia parlato.

2 febbraio 2008 • pagina 5

Seconda giornata del meeting internazionale

Dopo quell’anno ci fu il deserto di Riccardo Paradisi

ROMA. Dopo quell’anno, epicentro del grande disordine, niente è stato più come prima. L’anno è il 1968 ovviamente. Limen e spartiacque tra due mondi. Start line di una stagione in cui un’intera generazione vive un salto mentale che in altre epoche avrebbe richiesto secoli. Un terremoto che investe tutto: il costume, il sesso, la politica, le relazioni famigliari. Le istituzioni tradizionali perdono autorevolezza e potere. Cadono le foglie mature, scriveva Nietzsche. Solo che poi le foglie a primavera ricrescono. Le società sono organismi più delicati degli alberi. Quello che è caduto non s’è più rialzato.

Dopo quarant’anni di apologetica sul Sessantotto ci si è cominciati a chiedere se l’esito di questa rivoluzione non abbia plasmato un mondo addirittura peggiore di quello che ha distrutto. La seconda giornata del meeting internazionale della Fondazione Liberal sul Sessantotto, tenutasi ieri al Tempio di Adriano in Piazza di Pietra a Roma, ha concentrato le sue riflessioni proprio su questo dubbio, che via via è sembrato acquistare la sostanza di una convinzione profonda. E del resto di là del suo mito, il Sessantotto, nei fatti, è stato un anno terribile. Il giudizio di Renzo Foa, che con la sua relazione ha aperto gli interventi di ieri, non si riferisce solo alla catena di eventi drammatici che punteggiano quell’anno – l’assassinio di Robert Kennedy, l’omicidio di Martin Luther King, l’invasione di Praga, la strage di città del Messico, il milione di morti per fame del Biafra, la guerra in Vietnam – ma soprattutto al fatto che si cominciò in quell’anno a scambiare le ideologie totalitarie che combattevano le democrazie occidentali per strumenti di liberazione. L’ideologia del resto serve a disattivare il pensiero critico. «Perciò si arrivò a chiamare liberazione, diceva nella sua relazione Monsignor Luigi Negri, l’instaurazione di regimi totalitari. E mentre la cultura progressista occidentale, persino in seno alla Chiesa, celebrava il sacerdote guerrigliero, taceva su quaranta milioni di cristiani ingoiati dal gulag, colpevoli di pensare e affermare che la liberazione non

stava nel comunismo ma nella resurrezione di Gesù Cristo». Ma il comunismo è morto si dirà, l’Unione sovietica non esiste più e anche Fidel Castro non si sente troppo bene. È vero, però le macerie sono ancora tra noi. E basta guardare che fine abbiano fatto le idee di selezione, di meritocrazia, di autorità. «Fatte a pezzi», nota Gennaro Malgieri, consigliere d’amministrazione Rai e studioso di Carl Schmitt. «Eppure la richiesta che sale oggi dalla società è proprio la restaurazione di un ordine civile perduto. Una nuova armonia tra autorità e libertà che rimetta all’onore del mondo l’idea di Stato». Del Sessantotto il direttore del Messaggero Roberto Napoletano ha ricordato l’idea tragica che dovesse essere l’utopia ad andare al potere mentre l’economista Renato Brunetta sottolineava come l’occupazione delle case matte della cultura e dei media da parte di una giovane borghesia aggressiva abbia messo in circolo idee sbagliate. «Errori e infamie, come il linciaggio mediatico del commissario Calabresi», ha aggiunto il direttore del Tg2 Mauro Mazza, «per cui quasi nessuno di quella generazione ha sentito il dovere di chiedere scusa». Ma se il Sessantotto ha prodotto nella società un conflitto sociale acuto occorre riconoscergli, secondo il direttore del Sole 24 ore Ferruccio De Bortoli, anche «un alto tasso di partecipazione che oggi sembra cancellato malgrado un clima di insoddisfazione e di frustrazione diffuso».

La contestazione ha plasmato un mondo addirittura peggiore di quello che ha distrutto. Ha tagliato le radici, rotto i nessi generazionali, ubriacato i giovani con la retorica del ”tutto e subito”

La contestazione peraltro avrebbe potuto prendere un’altra piega rispetto a quella violenta e radicale se avesse seguito il suo primo impulso estetico futurista, secondo lo storico Sergio Belardinelli. Il fatto è, come ha ricordato Francesco Alberoni, che il marxismo ha divorato la voglia di libertà di quei ragazzi, ideologizzandone le pulsioni e rivolgendole alla distruzione delle strutture sociali. Già nel 1969, lo ha raccontato Eugenia Roccella, quando le donne propongono il pensiero della differenza, marxisti, trotzkisti e maoisti restano indifferenti. Erano già tutti ubriachi della nerboruta retorica della violenza.


pagina 6 • 2 febbraio 2008

politica

Il «corpo elettorale» davanti al tentativo del presidente del Senato

Da Prodi a Marini stesso effetto depressivo

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Governo: non ci saranno scorciatoie Il presidente del Senato, Franco Marini, iniziando le consultazioni ieri pomeriggio è stato categorico:«Andiamo avanti nel nostro lavoro che non sarà lungo: lo concluderemo all’inizio della prossima settimana. Non ci sono né scorciatoie, né sotterfugi, né furbizie». Il presidente del Senato, Franco Marini, all’inizio del pomeriggio di consultazioni.

Sondaggio: centrodestra al 55% Se si tornasse al voto subito il centrodestra vincerebbe con il 55 per cento delle preferenze, con un margine di circa dieci punti sul centrosinistra, attestato intorno al 45 per cento. Il sondaggio è stato condotto dall’Istituto Demopolis sulle intenzioni di voto degli italiani dal 25 al 31 gennaio su un campione di 1.286 cittadini, rappresentativo della popolazione maggiorenne residente in Italia. Si registra un testa a testa (29 per cento), tra Fi e Pd nella competizione per divenire primo partito in Parlamento.

Casini: «A differenza di Prodi, oggi non c’era un pallottoliere» Secondo il leader dell’Udc, durante le consultazioni con i partiti di ieri Franco Marini «non aveva il pallottoliere», segno che non avrebbe intenzione di «fare caccia all’uomo» come era abitudine di Romano Prod, che «si è illuso di poter governare ben sapendo che con quella coalizione sarebbe stato impossibile». Il peccato mortale di questa legislatura, secondo Casino, è stato lo stesso «peccato originale», quello chi «ha governato a prezzo di non decidere».

di Claudio Risè orpo elettorale»: davvero una bella espressione. Peccato che chi la usa, essenzialmente il personale politico e i politologi, non la prendano mai davvero sul serio. Insomma non pensino mai che è veramente un corpo. Metaforico, ma non poi così tanto, perché costituto, appunto, da tanti corpi. Il cui benessere dipende da regole precise. Una è quella dell’inspirazione ed espirazione. I corpi, con la loro psiche, vivono così: inspirando, ed espirando. Se fanno uno solo dei due movimenti, muoiono.

«C

Si tratteneva il respiro da un anno e mezzo, si è sperato di poter finalmente respirare e invece continua a mancare l’ossigeno Il governo Prodi, ancora prima di incominciare, è stato tutta un’inspirazione, un trattenere il fiato. Un po’ perché sembrava sempre cadere, da un momento all’altro. Un po’ perché l’inspirazione è il movimento del no: si incamera l’aria, invece di mandarla generosamente fuori. È avida e prudente, l’inspirazione. E Prodi è stato tutto un no: no Tav, no al ponte sullo stretto, no alla spesa, no agli spagnoli nelle autostrade, agli

americani nella Telecom: no, no, e ancora no. Per paura, naturalmente: la vera signora dell’inspirazione coatta. Di qui, la catastrofe respiratoria che ha colpito il famoso “corpo elettorale”. Perché rimanere all’inspirazione, senza cacciarla fuori e cambiarla, quell’aria ormai stantia, riempie il corpo di anidride carbonica, e gli impedisce di ossigenarsi. Finché, ormai cianotico e sfinito, Prodi è caduto.

Allora però il nostro povero “corpo elettorale”, che tratteneva il respiro da un anno e mezzo, che quindi da ottimista era diventato pauroso e triste, intossicato più dell’aria di Pianura, ha sperato di poter finalmente respirare. Proprio come gli Spiriti Selvaggi (noti a Napolitano e a Sraffa), che sono forti, ed anche un po’ selvaggi, proprio perché inspirano ed espirano quando gli pare, e non al comando dei dignitari del palazzo, che finalmente lo consentono. Espirare, in questo caso voleva dire buttar fuori l’aria viziata di Prodi, e finalmente votare. Fare finalmente il movimento dell’audacia (l’espirazione, appunto) e del cambiamento. Buttar fuori anidride carbonica, e sperare di mandar dentro nuovo ossigeno. Che arrivi alle cellule cerebrali e consenta la produzione di nuove idee. Anche di speranze. Invece no. Marini esplora. Forse farà un governo «di scopo».Vale a dire contratto anche lui, pieno di paure.

Per esempio: paura di fallire lo scopo, di andare al di là dello scopo, o di perderselo per strada, perché a furia di rimanere contratti nell’inspirazione, anche la memoria va a farsi benedire.

È un momento critico, per il nostro «corpo elettorale», di cui i sottili pensatori dei nostri giochi politici continuano a sottovalutare la fisicità, la realtà, i forti bisogni. Si sostituiscono a lui, al corpo degli elettori, pensando di fare meglio. Ma non è vero: se siamo in queste condizioni, universalmente riconosciute come pessime, è perché i sottili maghi della politica qui ci hanno portato. La situazione si fa dunque pericolosa. Perché se non puoi respirare liberamente, come accade appunto nelle dittature, dove non ti fanno votare mai, ti deprimi. Vieni negato come soggetto, la tua sovranità va a quel paese, assieme con la tua autostima, e le tue speranze. Non hai più voglia di fare. Può però anche accadere che alcuni «spiriti selvaggi», tanto da ostinarsi a respirare ancora, cerchino proprie, autonome strade per farlo. Di solito sono vicoli ciechi: bossoli nelle lettere, spazzature incendiate, massi sulle rotaie. Non è però mai bello a vedersi, e produce un’aria pessima da respirare. Tra inspirazione prolungata e coatta, ed aria fetida, potrebbe anche essere che il corpo ( e la psiche), elettorale o no, non ce la faccia più. Ossigeno please.

Ripa di Meana: «Consultare tutti» Il presidente di Italia Nostra-Roma protesta contro l’esclusione della sua associazione dal giro di consultazioni di Franco Marini. «Saranno ascoltati, sino a martedì, rappresentanti del mondo economico, sociale e della società civile - ha dichiarato Ripa di Meana - In questo caso, Italia Nostra, la più antica e autorevole associazione ecologista deve essere invitata da Marini. Il problema della legge elettorale non è il solo problema della nostra Patria».

Voto per le comunali sempre nel 2008 Il Consiglio dei ministri ha deciso che l’eventuale svolgimento di elezioni politiche nel 2008 non comporterà il rinvio delle elezioni comunali previste quest’anno. I sindaci che vorranno candidarsi alle politiche, spiega il ministro dell’Interno, avranno 7 giorni di tempo per dimettersi dai loro incarichi a partire dalla pubblicazione del decreto di scioglimento delle Camere. Alle loro dimissioni segue lo scioglimento dei Consigli comunali e la nomina di un Commissario sino al rinnovo degli organi.

Non riaprirà la discarica di Montesarchio Gianni De Gennaro, commissario straordinario per l’emergenza rifuti in Campania, ha reso noto che la discarica di Montesarchio, in provincia di Benvento, non sarà riaperta. «Gli accertamenti tecnici - ha dichiarato - hanno evidenziato reali rischi relativi alla staticità della discarica stessa».

Rai in attesa su Annozero La Rai precisa di «non aver al momento ricevuto atti di richiamo» dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni in merito al programma “AnnoZero». L’azienda pubblica dichiara di «rimanere in attesa di ricevere comunicazioni da parte dell’Agcom per esaminarle con la massima attenzione al fine delle conseguenti valutazioni e determinazioni».


politica

2 febbraio 2008 • pagina 7

Adornato: perché il patto federativo tra liberal e Udc

«Rafforziamo il centro per fare un grande partito dei moderati» di Susanna Turco

ROMA. Una lettera a Silvio Berlusconi e Sandro Bondi per spiegare le ragioni dell’addio, una conferenza stampa alla Camera con gli stati maggiori del nuovo partito per l’annuncio ufficiale: così Ferdinando Adornato e Angelo Sanza hanno lasciato ieri Forza Italia per entrare nell’Udc. Una scelta improvvisa? Tutt’altro. È la «maturazione di un percorso» le cui tappe e obiettivi Adornato oggi vuol raccontare anzitutto a Liberal, «perché sarebbe paradossale spiegare le mie ragioni altrove e non qui». Qual è dunque il punto di partenza di questo percorso? È già da tempo che segnalo un disagio per come è pensata la politica in Forza Italia. Un partito carismatico con un grande leader, con tante persone di gran livello, ma con una organizzazione sospesa nel vuoto. Una formazione che finisce così per somigliare a un partito feudale, con l’imperatore, i vassalli, i valvassori e i boiardi, tutti in lotta fra loro. Con le gelosie, le invidie, le lotte per la salvaguardia degli spazi personali. È sempre stato così? Sì, ma aveva un senso nell’Italia devastata del 1992-93. Non è che allora Berlusconi poteva immediatamente costruire il Labour Party o la Cdu. Ha fatto quello che poteva. E ha fatto bene. Quindi per un periodo anche lungo è stato accettabile, bello persino, partecipare a un movimento carismatico. Ma a un certo punto bisogna trasformare il carisma in istituzione, o non si va avanti. E il rilancio di San Babila non è stato di conforto? Al contrario. La risposta è stata il rilancio del partito carismatico. Ma un progetto diverso non può nascere dal predellino di una automobile dicendo agli alleati ”o entrate o faccio da solo”. Se la Margherita avesse detto ai Ds ”chi ci sta ci sta”, il Pd non sarebbe mai nato. È

questo il motivo per cui dopo San Babila, ho parlato con Berlusconi e ho detto: così no. Non le piaceva ’o presepe. Chiariamo: non si trattava di un disagio personale. Anzi, da questo punto di vista non ho mai avuto problemi. Parlo invece di concezione della politica. In Forza Italia manca una dialettica politica vera. Ma allora a che serve un partito? Non sarà stato lei l’unico a disagio, quindi. Dentro Forza Italia è un sentimento molto forte.Tutti vorrebbero un partito vero. E Bondi e Cicchitto hanno anche cominciato un percorso virtuoso, ma è di una lentezza esasperante, non adatto all’agilità di Berlusconi. Anche perché il Cavaliere non ha mai fatto mistero delle sue convinzioni sul punto. Certo, Berlusconi ai partiti non ci crede. Pensa che tutto si giochi nel rapporto tra leader e popolo. E siccome su quel fronte tutto gli funziona benissimo, considera il resto una perdita di tempo. Invece io penso che questo sia soltanto la metà del lavoro. Può bastare a vincere, ma governare implica aver costruito una classe dirigente affiatata, un programma preciso. Ecco, quando Berlusconi dice a Fini e Casini ”a me gli elettori, a voi il progetto”, a mio parere sbaglio. La difficoltà di tradurre la vittoria in azione di governo si è vista anche nella scorsa legislatura? Il problema c’è stato, e il velo di silenzio con il quale s’è coperto è stato sbagliato, perché non abbiamo mai discusso di quali errori ci avessero fatto perdere le elezioni. Ci sono domande alle quali non sono mai state date risposte. Faccio quattro esempi. Primo: si vuol governare sulla linea del Patto per l’Italia oppure su quella dello scontro con i sindacati? Secondo: nei programmi in origine c’era il superamento del monopolio

statale dell’istruzione. Torneremo a ragionarci? Terzo: quando si tratta di indicare dei nomi per incarichi di rilievo, possiamo valerci di persone che abbiamo avuto il coraggio di formare, oppure ci teniamo chi c’è? Quarto: avremo la forza di tornare al nucleare o no? Ora, io non dubito che faremo un programma, anche bello, per andare al voto. Ma non sto parlando di questo. Sto parlando della preparazione di una classe dirigente affiatata. Ma perché, alla fine di questo percorso di allontanamento da Forza Italia ha scelto l’Udc? Va detto anzitutto che io mi

di passando con l’Udc non cambio idee, muto solo il punto di osservazione. Per certi versi, cambia poco. Il candidato presidente è lo stesso, Forza Italia e Udc sono entrambe nel Ppe. E infine liberal resta liberal: la sua attività culturale, politica e ora anche giornalistica resta al servizio dell’intero centrodestra. Ma allora perché l’Udc? Perché sento il bisogno di muovermi in una sede nella quale l’ispirazione cristiana è più evidente. Su questioni eticamente sensibili che investono la vita e la morte, la libertà di coscienza che si dà in Forza Italia non basta. E non vedo in questo un contrasto con l’ispirazione liberale. Anzi la contiguità tra cultura cristiana e cultura liberale è uno dei fondamenti del dna di liberal e ringrazio il presidente Casini per le parole che su questo punto ha voluto spendere nei miei confronti. D’altra parte, mi lega all’Udc l’idea di una con-

Angelo Sanza

ed io avevamo segnalato

da tempo il disagio di stare in un partito carismatico,

tutto giocato sul rapporto tra il leader e il popolo.

Per governare, ma anche per affrontare la crisi che vive oggi l’Italia,

sento cittadino del centrodestra, di quell’ectoplasma che oggi torna in campo. Cittadino della Casa delle libertà, bellissmo nome. E ho sempre detto che potrei avere la tessera di tutti e tre i partiti maggiori del centrodestra. Lega esclusa, perché non sono padano. Quin-

è necessario creare

una classe dirigente affiatata su un programma preciso. E deve vincere la politica temperata

cezione temperata della politica, nel senso sturziano del termine. L’espressione va di moda. La mia analisi è simile a quella di Casini e Montezemolo. Oggi in Italia non c’è solo la necessità di un cambio di governo. C’è una situazione nella quale sembra che sia in crisi l’unità della Nazione. Quindi la sottolineatura della necessità di pacificazione, di una politica temperata, anche di un patto nazionale contro il declino, sono temi che mi appartengono. Anzi faccio appello ai settori moderati di Forza Italia perché si mobilitino in questa direzione. Oggi il centrodestra guadagna se si fa portavoce di questa necessità: bisogna far capire che non ci interessa soltanto vincere. Ma vogliamo governare bene. Continuerà a lavorare per l’unità del centrodestra? Certo, continuerò a battermi per la nascita di un partito moderato, un Ppe italiano. Ma stavolta da una posizione diversa da quella di Forza Italia, che con il discorso di Berlusconi a San Babila aveva annunciato di voler procedere per annessione. Su questo punto, nelle ultime settimane Angelo Sanza ed io ci siamo trovati molto vicini sia a Fini che a Casini. A proposito Fini mi ha detto se la meta è comune non importa da dove si parte. E lo ringrazio E stavolta lei parte dal centro… Ritengo che rafforzare il centro sia il punto più importante per arrivare a un centrodestra senza trattino. È anche un passaggio essenziale per la governabilità in questo Paese. Ma significa, anzitutto, accorpare l’area popolare e riformista delusa dal Pd: le fughe terziste in avanti non aiutano. Una critica alla Rosa bianca di Tabacci e Baccini? Il problema non è fare una Rosa, ma regalare agli italiani un mazzo di rose, ragionare non per la divisione, ma per l’unità.


pagina 8 • 2 febbraio 2008

pensieri

L’INTERVENTO

Post-comunisti e tecnocrati affossano la SCUOLA Che ormai ha smesso di trasmettere conoscenza di Giorgio Israel

i fronte a una ragione astorica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee». Così Benedetto XVI nel mancato discorso all’università La Sapienza. È un’osservazione che, in particolare, spiega il nodo scorsoio che attanaglia in Occidente il sistema educativo e dell’istruzione. Qui si tratta della contrapposizione tra una visione dell’organizzazione di questo sistema in termini razionali a-storici – e quindi fondato sulle metodologie didattiche, sulle tecniche di valutazione, in breve su un assetto che si pretende “scientifico” – e una visione che pone al centro i contenuti dell’insegnamento e le tradizioni culturali. Nel primo approccio i contenuti (le “discipline”) sono qualcosa di accessorio, che si “costruisce” entro il processo di apprendimento come risultato di metodologie corrette. Per Hannah Arendt invece l’istruzione deve fondarsi sulla tradizione ed anzi

«D

In disaccordo con Giuseppe Bertagna: non si risalirà mai la china senza ripristinare il rigore, il premio al merito e la disciplina deve essere conservatrice. Deve trasmettere le culture che costituiscono la solida piattaforma da cui un giovane può proiettarsi nel futuro, anche per modificare radicalmente l’assetto presente. La «situazione conservatrice è assolutamente indispensabile per “educare” i giovani». Difatti, «nell’educazione si decide se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi». Arendt denunciava la responsabilità delle correnti pedagogiche scientiste, «incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità», che mettono da parte «ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che siano» e che, sotto l’influsso dei

dogmi del pragmatismo hanno trasformato la pedagogia «in una scienza dell’insegnamento in genere, del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna». Queste discipline predicano la sostituzione della conoscenza con la pratica e la metodologia, secondo il mediocre principio secondo cui «si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé». La loro «intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza ma di inculcare una tecnica».

Parole profetiche. Il processo è andato avanti e, come ha scritto JeanFrançois Revel, «la decadenza dell’insegnamento da trent’anni è conseguenza di una scelta deliberata secondo cui la scuola non deve avere come funzione la trasmissione della conoscenza». Le forze che hanno veicolato tale processo sono state principalmente due: visioni managerialiste e tecnocratiche che considerano la scuola come un’impresa fornitrice di soggetti funzionali alle esigenze del comparto produttivo e la cultura postcomunista che ha identificato nello scientismo la “teologia sostitutiva”

del marxismo e si è appassionata al pedagogismo scientifico come strumento per demolire definitivamente la scuola “di classe”.

Questa sinergia spiega le vicende degli ultimi decenni di gestione della scuola in Italia, in cui si è manifestata una sostanziale continuità attraverso tutti i governi. In particolare, la gestione del centrodestra è stata contrassegnata da una desolante subordinazione culturale ai paradigmi del precedente quinquennio berlingueriano. Ne è testimonianza la sintesi tra parole d’ordine tecnocratiche come la “scuola delle tre i”– inglese, internet e impresa sono strumenti privi di qualsiasi valore contenutistico per non dire culturale – e un ostinato pedagogismo metodologico persino capace di veicolare la zapaterista “educación para la ciudadania”. Ci vorrebbe spazio per spiegarlo bene, ma basti pensare all’affermazione delle indicazioni nazionali del 2004 secondo cui un obbiettivo di apprendimento della matematica è «lievitare comportamenti personali adeguati alla Convivenza civile». È soltanto mediocre scientismo pensare che la matematica possa far lievitare comportamenti etici accettabili. Un grande matematico di rango come Oswald Teichmüller era tanto hitleriano da pubblicare soltanto sulle riviste di propaganda razzista del partito… La scienza non lievita nulla. Crederlo significa conformarsi a una visione positivisticamente decapitata della ragione – direbbe Ratzinger – che non riconosce autonomia alla sfera etica e morale. Ma pur lasciando da parte questo aspetto, il dramma del recente passato sta nella riproposizione ostinata di un approccio metodologico ostile all’approccio disciplinare. Cascano le braccia a leggere Giuseppe Bertagna che lamenta (su liberal del 31 gennaio) come causa della crisi della scuola «la didattica centrata dappertutto sulle discipline»… Magari fosse! E se qualcosa va rimproverato al ministro Fioroni è di aver proceduto a revisioni troppo timide e contraddittorie e, in definitiva, inefficaci, mentre si sarebbe dovuto procedere con decisione e durezza sulla via del ripristino del rigore, del premio al merito e della disciplina, tutte cose che sono state svilite in modo inaccettabile nel decennio precedente. Il rapporto OCSE-PISA parla di un disastro creato nel lungo periodo e a cui il quinquennio di gestione del centrodestra non ha posto rimedio. Si potrebbe ben dire “de te fabula narratur”, anche se certamente non soltanto “de te”. Lascia pertanto esterrefatti la leggerezza con cui si parla di riprendere il cammino “interrotto”, quando si dovrebbe piuttosto parlare di interrompere un cammino. Se il centrodestra si accingesse a riprendere in mano il sistema scolastico senza riflettere con serietà e modestia, senza rompere i ponti con il pedagogismo metodologico, senza proporre una visione rigorosa, disciplinare, attenta alle tradizioni culturali, al ruolo centrale dell’insegnante e al suo rapporto interpersonale con l’allievo, allora l’Italia può dare definitivamente addio alla sua scuola, il che è quanto dire a se stessa.


&

parole

2 febbraio 2008 • pagina 9

Parla il governatore messo sotto attacco: «C’è desiderio di vendetta verso il mio partito»

«Così Prodi e la tv hanno tentato di cambiare il voto dei siciliani» di Errico Novi

ROMA. Ci sono due campagne elettorali in corso. Una procede in modo surreale, diciamo ancora sottinteso, ed è quella per il governo nazionale. L’altra riguarda le elezioni regionali in Sicilia, è entrata già nel vivo e in ogni caso è segnata da toni assai più espliciti. Come quelli di ”Anno zero”, che giovedì ha messo al centro del mirino il governatore Salvatore Cuffaro, appena sospeso da Palazzo Chigi. La trasmissione non ha nemmeno accennato però al fatto che era stato il centrosinistra a difendere gli interessi del boss della sanità locale, Michele Aiello, e a entrare per questo in conflitto con Cuffaro. Non è bastata evidentemente la fretta con cui Romano Prodi, da premier dimissionario, ha firmato in fretta e furia un decreto per sospendere il presidente della Regione, che aveva già annunciato le dimissioni. In attesa che si pronunci la Corte costituzionale, viene un dubbio: possibile che Palazzo Chigi punti al commissariamento della Regione in modo da ottenere il rinvio delle elezioni e far gestire ai prefetti la lunga traversata verso il voto? Cuffaro non vede questo spettro: «Il governo ancora in carica sarebbe capace di tutto, ma dubito che si possa arrivare all’invio di un commissario. Questo ulteriore vulnus non passerebbe, senza una ferma opposizione in ogni sede legale». E allora, presidente, si tratta solo del tentativo di condizionare la campagna elettorale. «A questa ipotesi credo molto di più: e siamo pronti a opporci al disegno con tutte le nostre forze. Lo farà l’Udc e l’intero centrodestra. E poi confido nel buonsenso degli italiani che hanno ben chiari i disastri provocati dal malgoverno di questi due anni e attendono solo di potersi esprimere con il voto». E poi è arrivato l’affondo di ”Anno zero”. Durante la trasmissione però non ci si è soffermati su una questione: nella scorsa legislatura, in commissione Antimafia, venne fuori che erano i parlamentari regionali del centrosinistra a protestare con lei per i ritardi dell’amministrazione nei pagamenti alla clinica di Aiello, il cosiddetto boss della sanità locale. «Tutto l’attacco di Santoro è stato costruito grazie a equivoci, a cose dette e ad altre non dette. È tutto vero, comunque: un rappresentate dei Ds e uno della Margherita sollevarono un putiferio a colpi di interpellanze nell’Assemblea regionale contro il sottoscritto, protestarono perché il direttore generale dell’Asl da me nominato ana-

«Il premier dimissionario mi ha sospeso per far pagare caro il no alle sue pressioni sulla fiducia», dice il presidente della Regione, «mentre Santoro si è dimenticato di dire che sono stati i rappresentati dell’Ulivo a fare interpellanze contro di me per sollecitare i pagamenti ad Aiello, il boss della sanità» lizzò i pagamenti alla clinica di Aiello e decise di congelarli in quanto troppo alti. Certo è sconcertante che nel corso della puntata non si sia parlato di questo». Avrà modo di ricordarlo spesso, questo aspetto, visto che ci saranno quasi certamente altre appendici al processo. «Avrò modo di ricordare anche come della deposizione di Angelo Siino non è stata mostrata la parte in cui spiegava che alla famosa cena di cui parla il documentario di Santoro era andato per incontrare un esponente della ex Dc poi passato alla Margherita». E comunque forse l’accerchiamento mediatico era prevedibile, la mossa di Prodi molto meno. «Soprattutto per la velocità con cui sono precipitati gli eventi e

per le mie dimissioni che erano già note a tutti da una settimana. Per giunta lo stesso Prodi è ormai su una strada senza ritorno, dopo la sfida persa al Senato». Un colpo di coda. «Assolutamente sì». Apparentemente inspiegabile, visto che nelle motivazioni del decreto si dice che la sospensione è determinata «dalla sentenza di condanna e non dal decreto presidenziale». E allora che motivo c’era di firmarlo? «Non è peccato pensare che si sia trattato di una vendetta postuma di Prodi dopo il tentato pressing sull’Udc nella frenetica ricerca di volti al Senato, la sera della fiducia. L’esito della votazione e gli avvenimenti dei giorni successivi non fanno che convincermi di questa cosa». E allora insistiamo con la dietrolo-

gia. Possibile che il presidente del Consiglio appena sfiduciato abbia voluto in questo modo compromettere qualsiasi possibile dialogo tra il centrodestra e il centrosinistra sulla legge elettorale? «All’inizio questa mi era parsa solo un’ipotesi peregrina. Adesso più ci penso e più mi sembra sempre plausibile. Da qui a poco saranno i fatti a renderne ragione. Mettiamola così: si può direi che l’atto di Romano Prodi sia stato da un lato contro la mia persona per il lavoro fatto in questi anni per far crescere la Sicilia, nonostante tutti i no del suo governo Prodi. Dall’altro contro il mio partito ma anche contro qualche autorevole esponente del suo partito. La scelta di Prodi assomiglia alle decisioni che in guerra si prendono prima di una ritirata: avvelenare i pozzi del nemico e poi fuggir via». Tutto questo è avvenuto proprio mentre nell’Udc si consumava la microscissione di Baccini e Tabacci. Pensa che la fuoriuscita del vicepresidente del Senato possa costare qualche quota di consenso rilevante nel Lazio? «Siamo già in campagna elettorale, e io che ne ho fatte parecchie so quanto sia importante aumentare il consenso, piuttosto che preoccuparsi di qualche inevitabile dissenso. Quanto alla possibile emorragia laziale, lavoreremo alacremente per compensare le perdite con l’aumento dei consensi che avremo in Sicilia. Invece in Lombardia non vedo come possano esserci problemi. E, comunque, sono certo che il consenso all’Udc aumenterà sia in Sicilia che nel resto del Paese». D’altra parte la divaricazione tra l’Udc e quella sua minoranza che non voleva più saperne del centrodestra potrebbe forse aiutare addirittura a ricompattare ulteriormente i partiti dell’ex Cdl. «Ci siamo già avviati in una campagna elettorale in cui la coesione nella coalizione sarà, come già in passato, il vero valore aggiunto, rispetto al centrosinistra. Sia stando al governo che facendo opposizione abbiamo dimostrato secondo me di avere una coalizione unita dal reale desiderio di affermare il bene comune del Paese. So bene anche che per realizzarlo davvero serve talvolta una rinuncia di ciascuna delle componenti. Noi possiamo aggiungere l’esperienza di sette anni di buongoverno siciliano, in cui la nostra coalizione è stata in grado di rimanere unita e di saper amministrare nell’interesse della gente».


pagina 10 • 2 febbraio 2008

mondo

In uscita due film virulenti contro Il Corano e uno è del deputato di estrema destra Geert Wilders. L’Europa li teme

Olanda, attacco frontale all’Islam di Maria Maggiore

BRUXELLES.

La bomba a orologeria è innescata. Tra poche settimane, in un giorno imprecisato di marzo esploderà e i danni saranno tanti. In Olanda da dove l’esplosivo partirà e in altri Paesi, se si pensa a quanti morti ci sono stati nel mondo dopo la pubblicazione in Danimarca delle vignette satiriche su Maometto. L’ordigno annunciato, pubblicizzato a più non posso, temuto dai partiti politici e comunque atteso ormai con estrema curiosità, è il cortometraggio sul Corano del leader di estrema destra Geert Wilders. Non un film qualunque. Ma una precisa accusa al fondamento dell’Islam, un libro «disgustoso e fascista», come l’ha definito Wilders lo scorso agosto in una lettera aperta in cui ha paragonato il Corano al «Mein Kampf», libro-ideologia di Adolf Hitler. Geert Wilders è, a detta di molti olandesi, l’erede naturale di Pym Fortuyn, il dandy populista ucciso nel 2001 da un balordo, che attirava le folle con i suoi propositi razzisti e invitava i connazionali a cambiare modo di vivere, dimenticando il culto del Paese della Tolleranza per chiudere le porte a un’immigrazione selvaggia. Capello biondo tinto e sguardo furbo, Wilders ha abbandonato il partito Liberale conservatore (Vvd) nel 2004 per formare il suo Partito della Libertà (Pvv) che alle ultime elezioni, nel 2007, ha conquistato 9 seggi su 150. Il suo cavallo di battaglia è la lotta senza quartiere all’Islamizzazione dell’Europa. E prima di tutto, della sua Olanda. «Il Corano chiama i musulmani a sottomettere, perseguitare, uccidere (ebrei, cristiani, non-credenti), a violentare le donne e a imporre uno Stato musulmano», ha scritto l’8 agosto scorso nel giornale Volkskrant, in una lettera aperta agli olandesi dal titolo «Il troppo è troppo». «Basta Islam in Olanda; basta immigrati musulmani; basta costruire moschee: proibite il Corano nelle scuole e anche nelle Moschee!». Già questa, in un piccolo Regno risvegliato bruscamente da secoli di tradizione all’accoglienza, è stata una bomba. Da quando nel 2004 il regista Theo Van Gogh è stato barbaramente ucciso in un parco di Amsterdam per aver girato un film sulla sottomissione delle donne musulmane (Submission), i partiti politici cercano il dialogo con l’Islam moderato. «Sono tutte

sciocchezze, bisogna parlar chiaro e imporre i vostri valori di Stato di diritto», dice Wilders al telefono. Ma il suo film, che alla fine andrà probabilmente solo sul sito You tube, perchè nessuna televisione osa mandarlo in onda, rischia di creare nuovi morti, di aizzare la violenza e lo scontro tra civiltà. Nei dieci minuti di immagini, si vedrebbero una decapitazione in Iraq, una lapidazione in Iran e

un’esecuzione in Arabia Saudita. Non è troppo? «Chi è scioccato dovrebbe prendersela con chi fa queste cose, non con me». Wilders non si ferma, annuncia la proiezione di un trailer già in febbraio e poi la diffusione i primi di marzo. Tv o internet il pianeta ne parlerà comunque. In Olanda il dibattito è incandescente. Bisogna lasciar fare in nome della nostra sacrosanta libertà d’espressione o mettere

un veto su quest’eccesso di provocazione? Gli olandesi sono angosciati. E il mondo politico trema. Il governo Balkenende ha allertato le ambasciate olandesi di tenersi pronte a chiudere, il presidente delle associazioni islamiche invita a rispondere con mezzi legali e persino l’Iran ha minacciato ripercussioni in tutto il mondo musulmano e una chiusura dei suoi rapporti con l’Olanda. Il capo dei Liberali al

Parlamento europeo, Jules Maaten, ci spiega che «c’è una differenza tra libertà d’espressione e volontà di ferire le persone. Questo film produce solo mali, non li risolve, quindi dovrebbe essere vietato. Taric Ramadan, un islamico non tanto moderato, suggerisce la soluzione. «Il silenzio. Ignoratelo, calate il sipario su questo film, sarebbe la sua peggiore sconfitta».

Geert Wilders, (in basso) leader dell’estrema destra olandese, ha paragonato il Corano al Mein Kampf, il ”testo sacro” di Adolf Hitler. Ha scritto una lettera aperta alla nazione chiedendo di fermare l’immigrazione musulmana nel Paese. Nel piccolo Regno, risvegliato bruscamente da secoli di tradizione all’accoglienza, è stata una bomba.

Ehsan Jami, olandese nato in Iran, ha smesso di credere in Allah. E fa un cartone animato

La mia vita da condannato a morte BRUXELLES. È un provocatore come Wilders, non c’è dubbio. Ha deciso di cavalcare la paura della gente riguardo all’Islam per costruirsi una carriera politica. Ma le cose che dice sono vere e lui, Ehsan Jami, le prova sulla sua pelle di ragazzo di 22 anni costretto alla clandestinità. Lo scorso aprile ha dichiarato di non voler più credere in Allah. È uscito allo scoperto è ha creato un “Comitato di ex-musulmani”, per combattere il radicalismo salafista crescente in Olanda (30 mila persone secondo il ministero degli Interni). Il suo motto è «non tollereremo più l’intolleranza». In un Paese fondato sulla libertà di coscienza, «non è ammissibile che non esista più la libertà di non credere in nessun Dio». Ora una fatwa pende sulla sua testa, è stato aggredito più volte e il Partito social-democrati-

co, per il quale era consigliere comunale in un paesino vicino l’Aia, l’ha cacciato, impedendogli di prendere la parola all’ultimo congresso. Ma lui, questo ragazzone emigrato con i suoi dall’Iran quando aveva nove anni, uno studente che adesso nessuna Università è disposta più a ospitare, non si da per vinto. Alle prossime elezioni presenterà la sua lista e sta ultimando un film, questa volta su Maometto. Ma come Ehsan, non volevi raggiungere le fila del partito della Libertà di Wilders? Adesso preferisco andar da solo. Lui ha ragione sul Corano, che è un libro di violenza, con un Maometto guerriero, un criminale come Bin Laden. Ma è sbagliato vietarne la lettura. Al contrario, tutti dovrebbero leggere il Corano per capire di cosa parliamo.

Sei contro la religione musulmana? No, combatto solo l’interpretazione radicale che ne fanno i salafisti. Non s’integreranno mai nella nostra società, perchè nel Corano sta scritto che «non puoi diventare amico di chi non crede» e ancora che «i cristiani sono maiali e gli ebrei papere». Come mai i musulmani radicali sono aumentati in Olanda? «Perchè i nostri partiti politici hanno paura di criticarli, sono ostaggio degli elettori-immigrati di origine araba. Dovrebbe vedere a che punto è arrivata l’Olanda, il Paese della tolleranza. Solo nel mio quartiere 600 donne musulmane vivono segregate in casa, 8 aggressioni su 10 a omosessuali sono state fatte da olandesi di origine musulmana». Qual è il rimedio?

«Chiudere le porte a nuovi immigrati almeno per cinque anni e intanto fare pulizia. Espellere tutti i salafisti radicali e lavorare molto sull’educazione e l’integrazione degli olandesi musulmani. E adesso ti sei messo a fare film «Il mio è un cartone animato perchè nessun attore voleva rischiare la pelle. Sarà trasmesso dalla tv pubblica Net Werk, durerà 12 minuti e racconterà la vita di Maometto e le atrocità da lui commesse. Da quando ha violentato la bimba di 9 anni poi diventata la sua prima moglie.


mondo

2 febbraio 2008 • pagina 11

Il mai attuato trattato di Sèvres sostiene le aspirazioni all’indipendenza

La lunga marcia curda di Mauro Canali nche se il Kurdistan non ha mai costituito una unità politica, le popolazioni che abitano il vasto territorio montagnoso che dall’Anatolia sud-orientale va fino ai contrafforti che si affacciano sulla pianura irachena, sono sempre riuscite a respingere i tentativi di colonizzazione delle potenze egemoni in quell’area. Per cogliere i segni di un risveglio nazionalistico dei curdi si dovrà attendere la rivoluzione costituzionalista dei «Giovani Turchi» del 1908. Solo allora i nazionalisti curdi decisero di dare vita ad associazioni politiche che non nascondevano il fine ultimo dell’indipendenza. La guerra del 1914 dette nuovo slancio alle loro ambizioni. L’avanzata delle truppe anglo-indiane dal Golfo Persico verso nord venne infatti favorita dalla guerriglia condotta dalle tribù curde. A saldare l’alleanza tra curdi e inglesi anche la dichiarazione favorevole del governo inglese alla costituzione, a guerra conclusa, di un Southern Kurdish State che comprendesse il vilayet (provincia) di Mossul. Nel dicembre 1918 gli inglesi nominavano lo sceicco Mahmud Barzinji governatore di Mossul. Con l’obiettivo di vedere riconosciuto il loro diritto all’indipendenza, i curdi inviarono alla con-

A

È dalla fine della Grande guerra che il sogno del Southern Kurdish State anima gli scontri in Turchia, Iraq, Iran e Siria. Storia di una spartizione annunciata, della politica voltagabbana di Londra e del pugno di ferro di Ataturk

ferenza di pace di Parigi una delegazione con richieste precise: la costituzione di uno stato curdo comprendente alcuni territori dell’Anatolia sud-orientale e il vilayet di Mossul. Richieste territoriali modeste rispetto ai territori abitati, ma il timore era di entrare in conflitto con uno dei punti del trattato di Woodrow Wilson, che prevedeva l’inalienabilità, sotto la sovranità turca, dei territori anatolici dell’ex impero ottomano. Il vero ostacolo, però, fu la doppiezza inglese che, mentre a Bagdad favoriva uno Stato curdo, a Parigi sosteneva l’annessione di Mossul al futuro regno dell’Iraq.

Le ambiguità furono la scintilla della prima rivolta anti-inglese dei curdi, scoppiata a Sualimaniya nel maggio 1919 e capeggiata da Barzinji. A costringere le potenze vittoriose a un temporaneo accantonamento di qualsiasi progetto, fu la mancata firma a Parigi del trattato di pace con la Turchia. Anche Istanbul si opponeva all’annessione della provincia di Mossul al futuro Stato curdo; anzi la diplomazia turca aveva reso noto che Mossul era pregiudiziale all’avvio dei colloqui. La contesa angloturca su Mossul trovava la sua spiegazione nei giacimenti petroliferi di Mossul e Kirkuk, a cui gli inglesi non intendevano rinunciare. Poiché alla conferenza successiva di Sanremo del 1920, Londra si fece attribuire il mandato di governare sul neonato regno dell’Iraq, l’annessione della provincia di Mossul a Bagdad avrebbe significato il loro sicuro sfruttamento dei giacimenti. Le potenze vittoriose tornarono a dibattere la pace con la Turchia a

Sèvres, vicino Parigi, concordando un testo che poneva le basi della costituzione, a distanza di un anno dall’entrata in vigore del trattato, di uno Stato curdo indipendente. Su Mossul si decise che, assieme alla costituzione dello Stato curdo, le potenze alleate avrebbero favorito, in forza del principio di autodeterminazione dei popoli, l’adesione «volontaria» al nuovo Stato da parte dei curdi. Una sorta di referendum. Ma il trattato non entrò mai in vigore a causa dell’azione di Kemal Pasha - alias Kemal Ataturk - che per opporsi allo smembramento della Turchia anatolica, aveva riunito le forze nazionalistiche per scacciare gli europei minacciando una nuova guerra proprio sulla questione di Mossul. Né fu sufficiente la conferenza di Losanna del 19221923, che sebbene terminasse con un accordo di pace tra la Turchia e le potenze vittoriose, non riuscì a venire a capo dell’imbrogliata questione, la cui soluzione venne affidata alla Società delle Nazioni. Essa trovò una definitiva sistemazione solo nel 1925, quando la Turchia si decise a rinunciare a Mossul a favore del regno dell’Iraq. Della costituzione di uno Stato curdo indipendente non si parlò più, né le rivolte, che videro protagoniste le popolazioni curde, attirarono di nuovo l’attenzione sul tema. La definitiva sistemazione dei territori arabi dell’ex impero ottomano significò la dislocazione del popolo curdo sul territorio di quattro Paesi: Turchia, Iraq, Iran e Siria. In definitiva rimanevano in eredità alle aspirazioni dei curdi i tre articoli del mai attuato trattato di Sèvres.

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Donna kamikaze mentalmente disabile L’attacco suicida di ieri a Baghdad sarebbe stato portato a termine da due donne, una delle quali mentalmente disabile e fatta esplodere a distanza. Se la notizia fosse confermata sarebbe un precedente “allarmante”. A dichiararlo il portavoce del piano di sicurezza di Baghdad, generale Qasim Ata. I due attentati hanno provocato la morte di 64 persone ed il ferimento di altre 107. L’attacco piu’ sanguinoso è stato messo a segno nel mercato al Ghazil, aperto solo il venerdì e frequentato dalle famiglie nel giorno del riposo islamico.

Ciad, scontri e aeroporto chiuso L’aeroporto della capitale ciadiana, N’Djamena, è stato chiuso in conseguenza di combattimenti in corso tra l’esercito e truppe ribelli provenienti dall’est. A causa dei combattimenti in corso - sui quali non si hanno indicazioni chiare rispetto a quale delle due forze in campo sia in vantaggio - è stato rinviato l’invio di truppe austriache e irlandesi della forza europea Eufor nell’est del Ciad e nel nordest della Repubblica Centrafricana, autorizzato lunedì dall’Unione Europea.

Germania, il pericolo è rosso Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha rotto gli indugi ed ha rivolto un appello ai vertici del Partito socialdemocratico (Spd, suo partner nel governo di grande coalizione) affinché «pongano un argine politico all’avanzata della Sinistra in Germania Occidentale». Stando al parere del Cancelliere, l’accresciuto peso elettorale dello schieramento guidato da Oskar Lafontaine al di qua dell’Elba rappresenta «una minaccia» per il Paese.

Vescovi in campagna elettorale I vescovi cattolici spagnoli sono entrati nel pieno della campagna elettorale per le consultazioni generali del prossimo 9 marzo. Il portavoce della Conferenza episcopale, Juan Antonio Martinez Camino, ha affermato che «in Spagna, in questo momento, esistono diverse leggi ingiuste che vanno cambiate perché colpiscono diritti fondamentali», aggiungendo che le parole pronunciate dall’arcivescovo di Valencia, Agustìn Garcia Gasco, alla manifestazione «per la famiglia cristiana» organizzata il 30 dicembre scorso a Madrid, «riflettono le opinioni di tutto il clero spagnolo».

Camion egiziani per chiudere il muro Operai e soldati egiziani stanno lavorando a Rafah per richiudere il muro di confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto abbattuto lo scorso 23 gennaio dai miliziani palestinesi. Almeno 26 camion carichi di vario materiale edile hanno raggiunto la zona,

Kenya, non si fermano gli scontri Almeno otto morti e decine di case date alle fiamme sono il bilancio di scontri fra tribù rivali keniane nel distretto di Nyamira. Ma i leader dei due partiti che, dalle elezioni dello scorso mese si fronteggiano in uno scontro politico che ha causato centinaia di morti, avrebbero trovato un accordo.

Diritto di asilo solo ai maggiorenni Il ministero dell’Interno britannico ha deciso di espellere tutti i minori richiedenti asilo ma non accompagnati che entrano nel Paese, malgrado il rischio che vengano rispediti in zone di guerra. Il sottosegretario all’Immigrazione, Liam Byrne, ha assicurato che tutti i minori espulsi verranno «accolti in ambienti sicuri», ma l’iniziativa ha già ricevuto dure critiche da parte del Consiglio per i rifugiati e da altre organizzazioni per la tutela dei richiedenti asilo.

Taiwan, sfida a colpi di referendum Due referendum, di segno sostanzialmente opposto ma avversati dalla Cina, per chiedere alla popolazione di esprimersi sulla richiesta di ritorno di Taiwan nelle Nazioni Unite. La doppia consultazione si terrà contemporaneamente alle presidenziali, ha annunciato la Commissione centrale elettorale, il prossimo 22 marzo. La sola intenzione manifestata dal Governo ha fatto infuriare Pechino, che considera l’ipotesi un primo passo verso la dichiarazione d’indipendenza del ’suo’ territorio. Di fatto, la Cina può impedire il reintegro di Taiwan nell’Onu (consesso dal quale è stata espulsa nel 1971) in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza e dotata del potere di veto.


pagina 12 • 2 febbraio 2008

BIOETICA E AMBIENTE

il C di Assuntina Morresi pparentemente tutti sono contrari e vorrebbero bandirla dall’intero pianeta. Ai non addetti ai lavori, poi, potrebbe sembrare solamente un argomento di vecchie storie di fantascienza. Eppure non solo ancora se ne parla, ma c’è qualcuno che la ritiene inevitabile, e pensa che quindi bisogna prepararsi. Stiamo parlando della clonazione umana. Sembrava a portata di mano quando nel 1997 nacque Dolly, il primo mammifero clonato utilizzando cellule adulte, il Dna delle quali venne inserito in ovociti – gameti femminili – a cui era stato precedentemente tolto il nucleo. L’ovocita così modificato, opportunamente stimolato, si comporta come se fosse fecondato e comincia a svilupparsi come un embrione, fino a dare origine a un essere vivente. La tecnica è la Scnt (Somatic Cell Nuclear Transfer, Trasferimento Nucleare di Cellule Somatiche). Dolly fu sicuramente la pecora più festeggiata del mondo, e l’entusiasmo aumentò ancora l’anno successivo, quando in un laboratorio americano furono prodotte le prime linee staminali embrionali umane.

A

Se si fosse riusciti a clonare embrioni umani per ricavarne cellule staminali, ogni persona avrebbe potuto disporre di una riserva di proprie cellule clonate, “di ricambio”, per sostituire quei tessuti danneggiati in caso di malattie degenerative (cancro, Alzhaimer, etc.), senza problemi di rigetto o compatibilità: le cellule clonate avrebbero infatti lo stesso patrimonio genetico del paziente. E’ stato così inventato il termine “clonazione terapeutica”: clonare un essere umano non per farne nascere un altro identico (questa sarebbe la clonazione riproduttiva), ma solamente per produrre cellule staminali embrionali, a fini terapeutici (clonazione terapeutica). Nel primo caso, l’embrione clonato dovrebbe essere trasferito in utero e fatto sviluppare fino alla nascita del bambino, mentre nel secondo viene distrutto nel momento in cui si prelevano le preziose cellule staminali. Ma la tecnica è sempre la stessa, la Scnt, e quindi qualsiasi progresso nel settore va ad aumentare l’efficacia (finora mai maggiore del 2% per la clonazione degli animali, zero per gli esseri umani) per entrambe i tipi di clonazione. Il dibattito internazionale che si è sviluppato ha sempre distinto la clonazione riproduttiva da quella terapeutica, generalmente condan-

BLADE RUNNER ALLE In un testo dell’Onu si parla della clonazione come di uno scenario prossimo venturo nando la prima e consentendo spesso la seconda. L’Assemblea generale dell’Onu nel marzo 2005 ha approvato una dichiarazione che invita tutti gli Stati a proibire ogni forma di clonazione: per superare tante polemiche però, dopo quattro anni di discussione, si è dovuta rendere per gli stati non vincolante la dichiarazione, che quindi ha solamente il valore di una raccomandazione. La votazione finale ha visto 84 favorevoli alla messa al bando della clonazione, 34 contrari, 37 astenuti. A favore gli Usa, insieme a Italia, Germania, Austria, Irlanda, Portogallo, Polonia, Svizzera, Australia; tra i contrari Gran Bretagna, Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia, Canada,

Corea del Sud, India, Cina, Cuba. Lo stesso anno, il 2005, è stato quello della più grande frode scientifica del secolo: Hwang Woo Suk, veterinario coreano, in un articolo sulla prestigiosa rivista scientifica Science, spiegava come il gruppo di ricerca da lui guidato fosse riuscito a clonare embrioni umani e a ricavarne cellule staminali. Pochi mesi dopo, la smentita: la notizia era falsa, la clonazione umana non era mai avvenuta, e gli oltre duemila ovociti utilizzati non erano stati donati ma comprati, addirittura anche da alcune ricercatrici del gruppo di Hwang. Lo scandalo fu enorme. A tutt’oggi non esiste ancora una sola cellula staminale embrionale umana estratta da embrioni clonati. E, d’altra parte, non solo non esi-

stono ancora protocolli terapeutici che utilizzino staminali embrionali, ma ancora non se ne riesce a controllare pienamente in laboratorio lo sviluppo e la differenziazione. Nel frattempo, pochi mesi fa, con un annuncio shock Ian Wilmut, il “padre” della pecora Dolly, ha dichiarato al mondo di abbandonare la ricerca sulla “clonazione terapeutica”perché cellule pluripotenti come quelle embrionali si possono ottenere più facilmente con tecniche che fanno“ringiovanire” cellule somatiche adulte, facendole regredire fino a uno stadio prossimo a quello embrionale. E’ la procedura inventata dal giapponese ShinyaYamanaka, che finora sembra molto più promettente, efficace, e senza alcun problema etico.

E intanto, mentre tutto il mondo festeggiava la scoperta dello scienziato nipponico, confermata da pubblicazioni scientifiche di altri gruppi di ricerca, l’Institute of Advanced Studies dell’Università delle Nazioni Unite, anch’esso con sede in Giappone, pubblicava un report dal titolo eloquente “Is human reproductive cloning inevi-

tabile: future options for UN governance”.

Nel testo (del quale si possono leggere alle pagine 14 e 15 i brani più significativi) si ragiona sugli scenari possibili di fronte ai quali si potrebbe trovare la comunità internazionale, qualora la clonazione umana si realizzasse. L’ipotesi da cui si parte è inquietante: gli studiosi danno per assodato che la nascita di un clone umano sia inevitabile, in un futuro più o meno prossimo. Allo stesso tempo, dopo alcune settimane di imbarazzato silenzio, riprendono a farsi sentire i sostenitori della ricerca sulla cosiddetta “clonazione terapeutica”, mostrando una gran fretta nel continuare sulla via resa obsoleta dagli studi di Yamanaka: in Gran Bretagna, senza aspettare il nuovo testo di legge che regolamenta la ricerca sugli embrioni, l’Hfea, - l’Authority inglese su fecondazione in vitro e ricerca embrionale - ha concesso due licenze per la creazione di embrioni ibridi uomo/animale, da ottenersi sempre con la Scnt. Il cammino verso la clonazione continua.


2 febbraio 2008 • pagina 13

il Creato

Creato

Risponde il condirettore di “Scienza e vita”, genetista

“I cloni umani vivrebbero poco e male” colloquio con Bruno Dallapiccola di Riccardo Paradisi era una volta la fantascienza, ora quasi non ce n’è più bisogno. A leggere il documento dell’Onu del settembre 2007 sulla clonazione umana – pratica contro cui l’organismo internazionale si è espresso a più riprese – si resta infatti allibiti di fronte all’affermazione testuale che “secondo molti la nascita di un clone umano è ormai inevitabile”. E questo perchè la comunità scientifica impegnata nelle attività di ricerca in questo ambito «può svolgerle in numerosi Paesi il cui ordinamento lo consenta o in quei Paesi che non hanno ancora regolamentato la clonazione terapeutica». Una prospettiva che inquieta. Ne abbiamo parlato col professor Bruno Dallapiccola condirettore del comitato Scienza e Vita e ordinario di genetica all’Università La Sapienza di Roma. Professore è plausibile questo scenario da Blade Runner che prefigura l’Onu? Temo di si. Del resto la clonazione è stata già fatta con grossi animali. La pecora Dolly è un prototipo tecnicamente riuscito di questi esperimenti. La clonazione umana dunque potrebbe già essere possibile.Anche se i risultati sarebbero discutibilissimi. La riuscita biologica di un’operazione come la clonazione infatti avrebbe un indice di successo bassissimo. Non è così facile riassestare l’orologio biologico di un clone Nella previsione orrorifica dell’Onu però si ragiona sul rischio che la clonazione umana potrebbe creare un mercato di pezzi di ricambio su cui reperire organi espiantandoli da corpi senza cervello per darli ai più facoltosi, desiderosi di vivere più a lungo. In questa prospettiva del clone servirebbero dei pezzi... Ma questa è una prospettiva infernale e chi coltivasse simili pensieri, ritenendo che possano essere realizzabili, sarebbe puramente e semplicemente un teorico dell’assassinio. Avrebbe la stessa moralità di chi oggi rapisce, uccide e fa a pezzi, per commerciarne gli organi, i ragazzini delle favelas sudamericane. Lei è uno scienziato che non elimina dal suo orizzonte di pensiero la riflessione filosofica. Dal punto di vista etico, ontologico, scientifico chi è un clone? La sua anima, la sua psiche sarebbero differenti rispetto a quelle del suo doppio?

C’

PORTE?

Il clone sarebbe un’individuo unico e irripetibile. Su questo non c’è dubbio. I gemelli identici, che sono il frutto di un unico concepimento, mostrano similitudini fortissime ma poi le impronte digitali sono diverse, è diverso il decorso delle loro malattie. Il clone sarebbe dunque molto simile al soggetto da cui è partito ma al tempo stesso sostanzialmente molto diverso. Leggo ancora dal documento dell’Onu: «È in corso un acceso dibattito sulle possibilità offerte dalle tecnologie di clonazione alle coppie sterili che desiderino avere figli che abbiano un legame genetico con i genitori». Si è detto che impedire alle coppie di utilizzare la clonazione per realizzare il loro desiderio di maternità e paternità significa violare un diritto dell’uomo e ledere la dignità individuale. Lei che ne pensa di questa argomentazione? È un affermazione molto forte. Guardi l’ infertilità maschile e femminile è in continua crescita, ed è un problema grave, drammatico. Ma un uomo che non produce spermatozoi o una donna che non è in grado di procreare non trovano la soluzione al loro dramma né attraverso l’accanimento riproduttivo né tantomeno attraverso la clonazione a fini riproduttivi. In che senso professore? Mi spiego meglio: una delle missioni di noi medici dovrebbe essere quella di rappresentare i pro e i contro delle strategie terapeutiche. Si dovrebbe dire per esempio che il tasso di malformati in seguito alla fecondazione in vitro costituisce una statistica molto alta. Ma nessuno lo dice. Si pone invece molta enfasi sulle speranze offerte dalla fecondazione eterologa. Allo tesso modo gli scienziati seri dovrebbero dire a chi ricorre loro con la speranza di risolvere il suo problema con la clonazione: ricordati che il clonato è come la pecora Dolly: avrà aspettative di crescita e di vita ridotte, sarà maggiormente esposto a malattie di ogni tipo. Dobbiamo far correre a delle coppie rischi di questo tipo? Io credo di no. Credo che la cultura e il buon senso dovrebbero indurre a pensare anche ad altre soluzioni.

Risponde il vicepresidente del comitato nazionale di bioetica, filosofo del diritto

«Ma il diritto lo vieta ovunque, pesantissime le pene» colloquio con Lorenzo D’Avack di Gabriella Mecucci L’Onu dunque guarda alla clonazione umana a scopo riproduttivo – quella che solo a pensarci fa venire i brividi alla schiena - come un evento possibile. Che fare? Lo chiediamo al professor Lorenzo D’Avack, giurista laico, vicepresidente del comitato nazionale di bioetica Quel genere di riproduzione non è solo oggetto di una valutazione etica fortemente negativa, è esplicitamente vietata senza possibilità di equivoci a partire da convenzioni internazionali ed europee: dalla carta dei diritti universali dell’Unesco, alla convenzione di Oviedo sino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In Italia, l’articolo 19 della legge 40 sulla procreazione assistita prevede addirittura per i colpevoli di questo reato una pena che oscilla dai 10 ai 20 anni. La misura è molto dura e non lascia adito ad equivoci sulla volontà del legislatore nel vietare la clo-

nazione umana a scopo riproduttivo. Questo intervento le sembra sufficiente e la tranquilizza professore? Ripeto, non c’è dubbio che la condanna etica ha una rispondenza forte anche nella sfera giuridica. Dopodichè, tutto al mondo può accadere. Uccidere o rubare sono reati pesantemente sanzionati, ciò non vuol dire che l’omicidio o il furto abbiano cessato di esistere. Epperò riuscire a fare la clonazione umana a scopo riproduttivo mi sembra impensabile. Perché professore? Per arrivare a costruire un bambino sano, occorrerebbe passare per molte sperimentazioni. Il primo esemplare – come è successo anche nel caso della clonazione animale (vedi pecora Dolly) – risulterebbe infatti difettoso. E solo attraverso numerosi aggiustamenti e prove si potrebbe arrivare al clone sano. Una simile trafila non apparirà mai a nessuno accettabile. Non avremo un mondo di replican-

ti dunque? Guardi che io non credo che la clonazione umana riproduttiva verrebbe usata – come racconta certa fantascienza – per costruire replicanti in mano ad un dittatore. Casomai una simile tecnica servirebbe per soddisfare le necessità procreative della coppia. E della clonazione terapeutica, quella che consentirebbe di creare i pezzi di ricambio per i trapianti, cosa ne dice? Non credo che sia un male. Certo penso che ci voglia una legge che la regolamenti e che ponga limiti. A mio parere occorre legiferare su tutte le questioni eticamente sensibili. Non credo che – come illustri giuristi sostengono – sia meglio lasciare la materia alla deontologia professionale o alla decisione dei giudici. Ma fare leggi che affrontino simili argomenti è molto difficile.. Lo so. Per legiferare in queste occasioni

occorre bilanciare argomentazioni contrapposte. Dar vita a provvedimenti equilibrati che tengano conto delle differenti sensibilità e che non ne privilegino una a svantaggio di un’altra. Ci vuole insomma quella che si definisce una mediazione alta.


pagina 14 • 2 febbraio 2008

il Creato

Ecco i brani del documento delle Nazioni Unite dove si parla delle prospettive future della scienza mettendone in evidenza i gravissimi rischi

“La clonazione riproduttiva è inevitabile” a clonazione umana è sempre stata uno dei temi più delicati dal punto di vista emotivo e tra i più controversi cui si siano trovati a discutere i negoziatori delle Nazioni Unite e la comunità internazionale. Nel presente studio si cercherà di comprendere perché, nonostante vi sia accordo tra le nazioni sull’opportunità di proibire la clonazione riproduttiva, le iniziative negoziali volte alla stesura di una convenzione internazionale in tal senso si siano arenate a causa delle divergenze sulla cosiddetta clonazione con finalità di ricerca o clonazione terapeutica. La fermezza delle posizioni assunte da ambo le parti che animano il dibattito ha dato luogo ad una posizione di compromesso, concretizzatasi nella Dichiarazione non vincolante delle Nazioni Unite sulla Clonazione (A/RES/59/280). La comunità scientifica impegnata nelle attività di ricerca in questo ambito può svolgerle in numerosi Paesi il cui ordinamento lo consenta, ovvero in quei Paesi che non hanno ancora regolamentato la clonazione terapeutica. Sebbene le segnalazioni secondo cui alcuni embrioni umani clonati abbiano raggiunto la fase fetale o addirittura fasi successive non siano state comprovate, secondo molti la nascita di un clone umano è ormai inevitabile. I tentativi di dare vita ad un clone umano e la messa a punto di tecniche che agevolino tali esperimenti sollevano diverse preoccupazioni di carattere etico, morale, legale, sociale e culturale. Lo University Institute of Advanced Studies delle Nazioni

L

Unite (UNU-IAS) ha condotto un’attività di analisi di tale processo e della situazione attuale, concludendo che il diritto internazionale consuetudinario potrebbe costituire un ostacolo alla clonazione riproduttiva dell’uomo. E’ improbabile che il tema della clonazione venga accantonato, poiché la comunità scientifica continua a fare ricerca nel settore delle terapie mediche e si tratta di un argomento sul quale è impossibile raggiungere una posizione unanime a livello internazionale. Con le sue attività di ricerca in materia di bioetica e capacity building, condotte nell’ambito del Programma di “Biodiplomazia”, l’Istituto ha svolto un’analisi delle opportunità, delle criticità e delle possibilità di governance internazionale della clonazione. Il documento conclusivo mira a promuovere una riflessione sulle diverse possibilità di regolare la clonazione riproduttiva di esseri umani, finché non riemerga il dibattito. (….) Naturalmente, si tratta di un tema che riguarda l’intera umanità ed il documento vuole costituire una base, sulla quale la comunità internazionale possa riesaminare la tematica della clonazione umana in tempi non troppo lontani. LA NUOVA GENETICA E LA CLONAZIONE La clonazione viene erroneamente considerata da molti parte integrante della rivoluzione della genomica, ma non è così. Generalmente, la clonazione è oggetto della normativa relativa alle tecnologie di riproduzione assistita e non alla genetica, poiché il nucleo sostanziale del dibattito

etico riguarda l’embrione umano ed il controllo della riproduzione. Tuttavia, i rappresentanti di numerosi Stati membri hanno fatto riferimento, dinanzi all’Assemblea Generale, alla rivoluzione genomica ed alla clonazione come se fossero l’una parte integrante dell’altra. In realtà, la clonazione è più strettamente legata alla fecondazione in vitro che alla genetica. (…)

a) Dignità personale, percepita e giuridica La relazione esistente tra identità e dignità è da secoli oggetto di dibattito. L’identità può essere considerata da numerosi e diversi punti di vista, tra cui quello personale, quello della percezione di terzi e quello giuridico. Dal punto di vista dell’identità personale, ci si chiede se un individuo clonato avrebbe piena coscienza della propria identità. (….) Le considerazioni sulla possibile crisi identitaria di un essere umano clonato sono strettamente legate alle considerazioni sulla possibile percezione del clone quale essere umano a tutti gli effetti. Naturalmente, potrebbero verificarsi casi in cui la clonazione sia correlata al desiderio di un individuo di continuare a vivere, in qualche modo, attraverso un proprio clone. Tuttavia, l’identità ontologica di ciascun individuo deriva dalla sua istruzione, dalle sue relazioni ed esperienze di vita ed un individuo clonato non può essere condannato a vivere la propria vita nei panni o nella mente del proprio genitore biologico più di quanto possa esserlo un figlio nato tramite processi naturali.

Come sancito dalla Dichiarazione Universale sul Genoma Umano e i diritti dell’Uomo, un individuo non può essere ridotto alle sue caratteristiche genetiche. Sebbene alcuni genitori possano desiderare di “sostituire”i figli deceduti, gli esseri umani clonati non sarebbero comunque identici a questi. Comunque, i cloni potrebbero essere causa di cambiamenti nella nostra struttura sociale, se si considera che saranno sempre diversi dai loro “genitori”. Nel portare avanti il dibattito sulla governance, dobbiamo operare una distinzione tra le immagini di fantascienza che ci propongono degli individui “di ricambio” e la realtà dei fatti, che emerge dagli scritti di numerose accademie scientifiche. In molte società umane si è registrata la tendenza ad individuare ed emarginare alcuni tipi di persone in base alle loro differenze, reali o percepite, rispetto ad uno standard comunemente accettato, sia esso di tipo razziale, fisico, culturale o d’altra natura. La paura della diversità ha dato luogo al pregiudizio, alla vittimizzazione e all’oppressione. Non è difficile immaginare che i cloni umani, almeno nella fase iniziale del loro ingresso nella società, possano essere oggetto di abusi che ne

pregiudichino il benessere. Tuttavia, i pregiudizi e la ristrettezza mentale della maggior parte della popolazione non sembrano costituire argomentazioni sufficienti contro la clonazione, ma possono essere utilizzati per portare avanti programmi di sensibilizzazione volti ad educare la popolazione e tutelare la dignità di tutti gli esseri umani. E’ molto probabile che la definizione dello status giuridico e dell’identità di un individuo clonato possa porre dei problemi –sebbene non insormontabili – alla comunità giuridica. Tuttavia, dal punto di vista etico, in quanto essere umano,il clone avrebbe gli stessi diritti sanciti dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. La dignità intrinseca ed estrinseca di un individuo clonato dipende dal modo in cui viene trattato dai familiari, dalla società e dal diritto. Il rispetto della dignità della persona ed il modo in cui tale rispetto si estrinseca è una questione che riguarda la società più che il singolo. Si pone quindi il problema di sapere su quale dignità inciderà la clonazione umana e perché la comunità internazionale abbia cercato di proibire la clonazione riproduttiva in quanto lesiva della dignità dell’uomo.


2 febbraio 2008 • pagina 15

il Creato

I diritti di queste creature, le patologie e i rischi di discriminazione

b) La dignità dell’individuo o della società Se non si può asserire che il nodo centrale del dibattito sia rappresentato dalla dignità dell’individuo clonato, allora deve esserlo l’idea collettiva di dignità umana, propria della società, che verrebbe lesa dalla clonazione. Si può considerare questo punto da diverse angolazioni. Si asserisce spesso, ad esempio, che la riproduzione deve avvenire casualmente, in base al principio di selezione naturale. Tale tesi può avere un fondamento religioso, che fa riferimento ad un potere di scelta soprannaturale o superiore, oppure alla selezione naturale ed all’importanza di garantire continuità alla diversità umana. Per alcuni sono più convincenti le argomentazioni contro la mercificazione della vita. Si teme che consentire la clonazione umana possa significare creare un mercato dei pezzi di ricambio, su cui reperire organi espiantandoli da “corpi senza cervello” per darli ai più facoltosi, desiderosi di vivere più a lungo. Risultato che può essere considerato lesivo della dignità dell’uomo collettiva ed individuale. Non vi sono aspetti della questione liquidabili frettolosamente; tutta-

via, appare chiaro come in qualsiasi discussione sulla dignità umana si debbano separare i diversi elementi di dibattito, al fine di comprendere se l’opposizione alla clonazione sia dovuta a timori legati al rispetto della dignità dell’uomo o al rispetto della dignità divina. Bisogna inoltre capire se essa sia volta a tutelare l’individuo eventualmente clonato o la società, la cui percezione d’identità personale o collettiva potrebbe essere minata dall’idea di condividere il mondo con individui clonati. È in corso in acceso dibattito sulle possibilità offerte delle tecnologie di clonazione alle coppie sterili che desiderino avere figli che abbiano un legame genetico con i genitori. Si è detto che impedire alle coppie di utilizzare la clonazione per realizzare il loro desiderio di maternità e paternità significa violare un diritto dell’uomo e ledere la dignità individuale, che si ritiene correlata alla capacità riproduttiva. Si tratta di una questione che suscita forti reazioni emotive e infuoca ulteriormente il dibattito. Tuttavia, a questo punto, costituisce soltanto una deviazione rispetto al tema centrale delle questioni etiche legate alla clonazione di esseri

umani, che deve essere correlato ai diritti di ciascun figlio o embrione creato utilizzando le tecnologie di clonazione. Se esiste un diritto alla riproduzione utilizzando tecnologie di clonazione sicure, è il diritto generico di avere un figlio, senza voler ottenere una copia di se stessi. Comunque, tale dibattito è assolutamente sterile se si considera che le più recenti tecniche di clonazione non consentono di garantire la nascita di esseri umani sani e potrebbero dar luogo ad un elevato tasso di interruzioni di gravidanza, a deformità e cloni umani affetti da patologie invalidanti e logoranti. Per dirla con le parole utilizzate dagli esperti dell’ InterAcademy Panel nella dichiarazione del 22 settembre 2004, “la ricerca scientifica sulla clonazione riproduttiva” sui mammiferi ad eccezione degli esseri umani “ha evidenziato un’incidenza notevolmente superiore delle patologie del feto e delle interruzioni di gravidanza, delle malformazioni e dei decessi neonatali, e non v’è ragione di ritenere che il risultato sarebbe diverso sull’uomo. Quindi, secondo la suddetta dichiarazione, “anche dal punto di vista squisita-

mente scientifico, sarebbe irresponsabile tentare di clonare un essere umano stanti le attuali conoscenze scientifiche”. Le considerazioni relative alle attuali capacità della tecnologia agevolano il raggiungimento di una convergenza di opinioni in ordine alla necessità di tutelare la dignità dell’uomo vietando gli esperimenti di clonazione. Per il momento, la comunità scientifica e quella religiosa concordano sulla necessità di vietare la clonazione, però tale accordo potrebbe venir meno negli anni a venire, perché i progressi delle tecniche di clonazione, realizzati nel campo della clonazione animale e della clonazione terapeutica per l’ottenimento di cellule staminali, offriranno maggiori possibilità di effettuare con successo la clonazione di esseri umani. Se si spreca l’occasione che si presenta oggi di sfruttare l’accordo esistente sulla proibizione della clonazione umana, in futuro questo momento potrebbe essere considerato quello di non ritorno verso l’inevitabile clonazione riproduttiva umana. I cloni potrebbero causare cambiamenti nella struttura sociale; tuttavia, prendiamo atto del fatto che questi sarebbero sempre diversi dai loro “genitori”. Nel dibattito sulla governance bisogna operare una distinzione tra le immagini di fantascienza che ci presentano individui “di ricambio” e la realtà dei fatti, che emerge dagli scritti di numerose accademie scientifiche. (…) LA CLONAZIONE E LA NATURA Il problema del controllo della riproduzione da parte dell’uomo non è del tutto nuovo, ma sostanziale. Alcuni asseriscono che la clonazione riproduttiva umana si spinga troppo in là, perché non è più riproduzione sessuale. Il punto chiave è: fino a che punto l’uomo può controllare la natura? E quali sono le eventuali conseguenze di tale controllo sulla diversità genetica e la psicologia umana? Alcuni obiettano che il fatto di progettare gli individui faccia venire meno l’autonomia dei figli, le cui caratteristiche genetiche non sarebbero più decise dal caso e dalla riproduzione sessuale, bensì dalla persona che effettua la clonazione. D’altro canto, si asserisce che l’esistenza stessa del figlio non può essere contraria ai suoi interessi. La diversità biologica umana è considerata un elemento essenziale del patrimonio naturale umano e la diversità è riconosciuta dalla Dichiarazione Universale sul Genoma Umano e i Diritti dell’Uomo quale componente del concetto di dignità umana. Ciò ha indotto

alcuni ad opporsi a qualsiasi tentativo di clonare individui che sarebbero identici ai donatori di nuclei cellulari. Tuttavia, i biologi obietterebbero che un clone non è“identico” all’originale. Non soltanto i geni influenzano lo sviluppo di un organismo, ma la plasticità dei geni, i fattori ambientali e la topografia delle reti neurali differenziano i cloni dai loro genitori. Quindi, se da un lato si nutrono timori per la dignità umana, che verrebbe minata dalla riduzione della diversità, dall’altro tale riduzione diverrà significativa soltanto se la clonazione acquisirà ampia diffusione. Il continuo mescolamento di informazioni genetiche tramite la riproduzione sessuale costituisce il meccanismo chiave dell’evoluzione naturale. La possibilità di ricombinare all’infinito le informazioni genetiche consente processi adattativi. (…) GIUSTIZIA SOCIALE Esiste il pericolo che i cloni umani possano essere esposti al rischio di discriminazione e ciò va evitato. I cloni, orfani di padre e madre, verrebbero considerati sia figli che gemelli di una persona adulta. Le complesse implicazioni legali devono essere studiate con attenzione e costituiscono spunti di riflessione futuri per il controllo delle tecnologie riproduttive. Le limitazioni imposte non devono tuttavia impedire l’aumento del numero di coppie in grado di riprodursi, considerato che nei Paesi in via di sviluppo una coppia su tre è colpita dal problema dell’infertilità. LIBERTÀ DI RICERCA E SCELTA Qualcuno asserisce che la clonazione rientri nella sfera della libertà riproduttiva. Come già sottolineato, è opinione diffusa che applicare una tecnologia oggi tanto rischiosa non sarebbe eticamente corretto. Tuttavia, se il progresso tecnologico la renderà sicura, aumenteranno i suoi sostenitori, i quali asseriranno di voler difendere la libertà riproduttiva dell’uomo. I sostenitori della pratica della clonazione hanno cercato di utilizzare a loro favore le raccomandazioni delle Nazioni Unite in materia di diritti umani del 1984, secondo cui “tutte le coppie e gli individui godono del diritto fondamentale di decidere liberamente e responsabilmente quanti figli desiderino avere, a quale distanza l’uno dall’altro e di ricevere informazioni, l’istruzione ed i mezzi per farlo”. Ciò ha sollevato quesiti in ordine al diritto dell’uomo alla libertà genetica, quale la libertà di concepire un figlio con qualsiasi tipo di caratteri, positivi o negativi, desiderato o meno.


pagina 16 • 2 febbraio 2008

il Creato La letteratura e il cinema hanno raccontato i drammi di questa follia

Gli amori e gli incubi del gemello artificiale

libri e riviste

di Gianfranco De Turris na volta per valorizzare la fantascienza ed assolverla dall’accusa di essere una “fantascemenza” (secondo una immortale definizione di Mike Buongiorno), quindi una lettura per ragazzini deficienti, si replicava dicendo che aveva anticipato molte scoperte scientifiche. In realtà, il valore della fantascienza sta in ben altro: il discorso sarebbe troppo lungo, e qui ci accontentiamo di rilevare come, giunti nel XXI secolo, ci accorgiamo che molte cose questa narrativa non le aveva previste (basti pensare al telefono portatile), altre non si sono mai realizzate (basti pensare alle suggestive previsioni di 2001 odissea nello spazio) e altre ancora le aveva appena sfiorate e non approfondite, come è appunto il caso della clonazione animale ma soprattutto umana, nel senso preciso in cui oggi la si intende. Prima che la

U

divulgazione scientifica ne parlasse con una certa ampiezza con il famoso La bomba biologica di G.Rattray Taylor (1968), erano già apparsi romanzi e racconti imperniati, più che sulla clonazione, su una replica degli esseri umani attraverso un “duplicatore di materia”(Il triangolo quadrilatero di William Temple 1949), o grazie a “paradossi temporali”come in Per qualche millennio in più di Robert Heinlein (1941), mentre A.E.van Vogt aveva descritto, senza entrare in particolari, la creazione di vari duplicati di Gilberg Gosseyn, protagonista del suo famosissimo Il mondo di Non-A (1945-1948).

La duplicazione per partenogenesi, senza intervento del maschio, è alla base di Le amazzoni (1959) di Poul Anderson, che descrive un pianeta di sole donne, romanzo di pura avventura, e del più problematico Mondo senza uomini (1958) di Charles Eric Maine. Probabilmente, la prima storia ad affrontare il tema così come noi oggi lo conoscia-

sidente moltiplicato di Ben Bova (1976), mentre nel romazo in originale intitolato proprio The Clone di Thomas e Wilhelm (1965), e tradotto in Italia con l’orrido titolo Dalle fogne di Chicago, si descrive un essere cellulare mostruoso che, più che un clone, è in realtà un blob.

Dalla donna che vuole riprodotto l’amante morto al complotto nazista mo con profonde implicazioni psicologiche e sentimentali è un lungo e straordinario racconto di Theodore Sturgeon, Se speri, se ami (1962), in cui una donna ricchissima cerca di ricreare l’amato morto di cancro da una sua cellula. L’idea viene ripresa da Nancy Freedman in Joshua, Son of None (1973), non tradotto in Italia, in cui si rea

lizza un duplicato del presidente Kennedy partendo da una sua cellula presa al tempo dell’assassinio, mentre Ira Levin in I ragazzi venuti dal Brasile (1976), poi anche un film di Franklyn Schaffner (1978), descrive un complotto neonazista basato sulla creazione di cloni di Adolf Hitler sparsi per il mondo. Un bambino clonato è al centro de La quinta testa di Cerbero di Gene Wolfe (1972), ci si fa clonare per perpetuare una dinastia su Titano in Terra imperiale di Arthur Clarke (1975), ci sono presidenti statunitensi clonati in Il pre-

La diffusione del concetto scientifico impone il relativo termine oltre la narrativa specialistica, anche con varianti lessicali e ambizioni concettuali, pur se non sempre alla base vi è solida inventiva: personaggicloni sono ad esempio al centro delle saghe di Frank Herbert (Dune) e Lois McMaster Bujold (Vorksigen), e ne fa uso anche un autore italiano che li chiama “secondari” (Alessandro Vietti, Il codice dell’invasore, 1999). L’argomento si diffonde nel

cosiddetto mainstream con Il terzo gemello di Ken Follett (1997) e il pessimista Le possibilità di un’isola di Michel Houellebecq (2005). Il top viene raggiunto con la duplice clonazione nientepopodimenoche di una divinità incarnata, Gesù Cristo, descritta da Linda Foster in Il patto e da Dan Cauwelart in Il Vangelo di Jimmy, entrambi del 2005. Ovviamente, anche il cinema si è appropriato del tema con risultati diseguali: sono da ricordare la “resurrezione” di Ellen Ripley, l’eroina della saga, in Alien 4 la clonazione (1997) di J.P.Jeunet, Code 46 (2003) di Michael Wintherbottom e lo sfortunato Island (2005) di Michael Bay.

In questo inserto, le immagini e la titolazione fanno riferimento ad un grande film di fantascienza: Blade Runner di Ridley Scott. La letteratura e la cinematogrofia infatti hanno anticipato, naturalmente a loro modo, alcuni dei problemi etici che lo sviluppo della scienza pone. Naturalmente non si tratta di situazioni identiche, ma soltanto si racconti che evocativi. Il romanzo che ha ispirato Blade Runner è Ma gli androidi sognano percore elettriche? Di Philip K. Dick. Il racconto prende le mosse dal fatto che la guerra mondiale ha ucciso milioni di persone. Chi è rimasto sogna di possedere un animale vivente, e le compagnie ne producono copie incredibilmente realistiche. Anche l’uomo è stato duplicato. I replicanti sono simulacri perfetti e indistinguibili, e per questo motivo sono banditi dalla Terra. A San Francisco vive un umo incaricato di “ritirare” gli androide che violano la legge, ma nel suo lavoro è più volte costretto a chiedersi cosa sia davvero un essere umano... Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, di Phlip K. Dick, Fanucci editore, pp 238

“Le lancette di tutti i quattromila orologi elettrici in tutte le quattromila stanze del Centro di Bloomsbury segnavano le due e ventisette minuti.“Questo alveare industrioso” come il Direttore si compiaceva di chiamarlo, era pieno in fervore di lavoro. Sotto miscroscopi, con le loro code che battevano furiosamente, gli spermatozoi penetravano con la testa avanti nelle uova; e, fecondate, le uova si dilatavano, si dividevano,o, se erano bokanovskizzate, germogliavano ed esplodevano in intere generazioni di embrioni distinti. Dalla Sala di Predestinaziona Sociale, gli ascensori discendevano rombando nel sottosuolo, dove, nella rossa oscurità, maturando al caldo sul loro materasso di peritoneo e rimpinzati di pseudo-sangue e d’ormoni, i feti crescevano, crescevano, oppure avvelenati, intisichivano, mal cresciuti allo stato d’Epsilon”. E’la terribile visione dell’umanità nata in laboratorio di un altro classico della letteratura. Il mondo nuovo di Aldous Huxley, Mondadori, pp. 340


Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata Alessandro Manzoni

C A M P A G N A

A B B O N A M E N T I

2 0 0 8 Modalità di sottoscrizione dell’abbonamento

❏ semestrale 65,00 euro invece di 127,00 euro

❏ annuale 130,00 euro invece di 254,00 euro

❏ annuale sostenitore 200,00 euro invece di 254,00 euro

LA FORZA

- CONTO CORRENTE POSTALE: occorre versare l’importo sul c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl”. - BONIFICO BANCARIO: è necessario versare la somma al seguente riferimento bancario: “Banca Carim - Filiale di Roma - Via Po n.160 - c/c n° 7473344, intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” IBAN: IT 31 I 06285 03200 009007473344 In entrambi i casi la quietanza del pagamento deve essere inviata al seguente numero di fax: 06-69200650 Per ulteriori informazioni contattare il nostro ufficio abbonamenti al numero di telefono 06.69925679 Sito internet: www.liberal.it. Email: info@liberalfondazione.it

DELLE IDEE


pagina 18 • 2 febbraio 2008

economia

L’effetto subprime acuisce la crisi degli istituti dei Länder. Si prospettano tagli e svalutazioni

Germania, il sistema renano perde le banche popolari di Alessandro Alviani

BERLINO. La crisi immobiliare statunitense si è abbattuta come un ciclone sul sistema finanziario tedesco, lasciando in macerie una delle sue colonne portanti: le banche pubbliche regionali. Da WestLb a SachsenLb, da Lbbw a BayernLb, quasi nessuno degli istituti di credito controllati dai Länder è stato risparmiato dalla furia degli sconvolgimenti partiti da Oltreoceano. Una situazione che rischia di segnare un punto di non ritorno nel panorama bancario tedesco.

Smarrita in parte la missione originaria di finanziatori di riferimento dei Länder, le banche regionali, per sopravvivere, si sono trovate costrette a cercare nuove strade, anche all’estero. Con conseguenze disastrose per l’intero sistema, proprio mentre sempre più realtà private, Commerz in testa, annunciano nuove svalutazioni dovute ai subprime. A risentire per prima delle conseguenze del ciclone statunitense è stata SachsenLb. La banca pubblica regionale della Sassonia è finita in ginocchio l’estate scorsa, finendo con l’essere prima salvata da un intervento miliardario delle Casse di risparmio e poi venduta in tutta fretta a Lbbw, il

primo istituto pubblico in Germania che ha sede a Stoccarda, in Baden-Württemberg. Un intervento di salvataggio costato caro al Land della Sassonia, costretto a offrire garanzie per ben 2,75 miliardi di euro. Il ciclone si è poi propagato

ad altre banche regionali, compresa la stessa Lbbw, che si prepara a pesanti svalutazioni. Sintomatica è, in questo senso, la situazione di WestLb, l’istituto regionale del Nordreno-Vestfalia (il terzo più grande dietro Lbbw e BayernLb). Pochi giorni fa i proprietari della banca (le Casse di risparmio regionali, con poco più del 50 per cento, e il Land del Nordreno-Vestfalia con il 37) hanno dovuto promettere una maxi iniezione di capitale, circa due miliardi di euro, per tenere in vita la banca, sfiancata dalle turbolenze internazionali. Alla somma, che potrebbe non bastare, si aggiungono duri agli. Stando a indiscrezioni di stampa, sarebbero in vista 1700 licenziamenti. Anche BayernLb

ha dovuto annunciare ammortamenti superiori ai 100 milioni di euro finora previsti. Di fronte al rischio di implosione né la Bundesbank né il Bafin (l’autorità di vigilanza finanziaria) né tanto meno il governo del cancelliere Angela Merkel restano a guardare. I presidenti della Bundesbank, Axel Weber, e del Bafin, Jochen

A sinistra Angela Merkel. Sopra Axel Weber, presidente della Banca centrale tedesca

Il ministro delle Finanze Steinbrük:

«Troppe realtà, meglio puntare sulle fusione»

Sanio, partecipano ormai attivamente alle sedute di crisi delle banche regionali e spingono per soluzioni rapide. L’esecutivo tedesco, dal canto suo, preme sugli istituti per accelerare il processo di consolidamento. «Abbiamo rapidamente bisogno di un consolidamento delle banche regionali in direzione di una nuova grande banca d’affari tedesca», ha chiarito al settimanale Focus il ministro delle Finanze, Peer Steinbruck. Una linea, questa, sostenuta in pieno anche dal presidente delle Casse di Risparmio, Heinrich Haasis. A molti, del resto, il numero delle banche pubbliche regionali (dieci in tutto, dopo l’acquisizione di SachsenLb da parte di Lbbw) sembra eccessivo. Senza contare poi il peso giocato dalla politica sugli istituti. «Ogni Land deve riflettere sui motivi per cui ha bisogno di una banca regionale» e «se ne ha proprio bisogno, deve chiedersi se tale banca è grande abbastanza», ha detto provocatoriamente a Deutschlandradio Kultur il ministro delle Finanze della città-Stato di Berlino, Thilo Sarrazin.

I primi segnali di un cambiamento, comunque, sono ormai riconoscibili. Da diverse settimane WestLb è in trattative con Helaba, l’istituto pubblico di Assia e Turingia, per una eventuale fusione. Le possibilità di successo sembrano però peggiorate, dopo che WestLb ha annunciato per il 2007 perdite intorno a un miliardo di euro. Le stesse BayernLb e Lbbw seguono con attenzione il processo in atto, dopo il congelamento di una loro fusione. Non è infatti escluso l’avvio, nei prossimi mesi, di nuovi colloqui tra vari istituti regionali. Il governo tedesco è convinto che alla fine si arriverà a un consolidamento nel panorama delle banche pubbliche regionali. Aiuti statali straordinari agli istituti colpiti dalla crisi, però, «non ci saranno», ha assicurato Steinbrück a Der Spiegel. «Lo Stato non si assume garanzie per omissioni di cui non è responsabile», ha chiarito il ministro della Spd.


economia

2 febbraio 2008 • pagina 19

La compagnia non vuole regalare slot ai concorrenti

Alitalia blinda Malpensa con Easy Jet e Volare? di Irene Trentin

MILANO. Mentre la Sea chiede un maxi risarcimento da un miliardo e 250 milioni di euro all’Alitalia, la decisione della compagnia di abbandonare 150 slot a Malpensa suona come un colpo di grazia per il presidente Roberto Formigoni. Non a un caso la Magliana ha deciso di tenerli fino all’ultimo giorno convenuto con la Iata. Una mossa forse per non dare tempo alla concorrenza di approfittarne. Così si allontana il sogno del governatore e di tutto il sistema lombardo d’individuare una compagnia straniera che potesse rilevarli. Ma Formigoni non ha rinunciato alla mediazione e ha richiamato i dirigenti di Assoclearance al rispetto dell’articolo cinque della legge regionale sul traffico aereo. Legge contestata da Roma, che prevede che chi abbandoni lo scalo, rinunci anche alle rotte più appetibili. Il regolamento è ancora in vigore. La normativa europea, che in caso di rinuncia di slot li assegna per il 50 per cento ai nuovi vettori entranti e il rimanente 50 a

quelli già presenti, avvantaggia soprattutto le low cost. E a Malpensa potrebbero avvantaggiarsene Volare, controllata di Alitalia, e Easy Jet, già presente al Terminal B di Malpensa. «Altri colpi di scena non sono auspicabili», spiega Oliviero Baccelli, vicedirettore del Certet Bocconi, «perché significherebbe spingere l’Alitalia al fallimento. Non resta che spingere sulle liberalizzazioni, in modo che altre compagnie come Easy Jet possano investire sul largo raggio e immettere sul mercato nuovi aerei capaci di voli intercontinentali con un numero minore di passeggeri». Non si aspettano grandi novità, e possibilità di business, i concorrenti di Air France: Lufthansa e British. Difficilmente Alitalia abbandonerà slot nelle fasce orarie più vantaggiose. E potrebbe controbilanciare le perdite aumentando il numero delle rotte nelle altre fasce, mantenendo le stesse condizioni di sicurezza. «La soluzione è rivedere gli accordi bilaterali», interviene Osvaldo Gammino, rap-

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Sfratti, verso una nuova proroga Si profila una nuova proroga per gli sfratti. Ad annunciarlo il ministro del Welfare, Paolo Ferrero: «Il governo aiuterà le famiglie meno abbienti». Da decidere se farlo con un emendamento nel Milleproroghe o con un decreto ad hoc. Critica l’Unione dei piccoli proprietari immobiliari. «Ancora una volta», dice il presidente Giacomo Carini, «i sacrosanti diritti dei piccoli risparmiatori vengono calpestati per sopperire all’atavica incapacità delle istituzioni di risolvere in tempo i problemi della gente».

Auto, stop al boom di immatricolazioni Dopo anni di crescita ininterrotta, si apre nel peggiore dei modi il 2008 per il mercato dell’auto. A gennaio le immatricolazioni sono calate del 7,26 per cento rispetto a 12 mesi prima. Ne risente anche il gruppo Fiat, con i suoi marchi in rallentamento del 6,6 per cento. Scivolone per l’Alfa: -55,4 per cento.

Subprime, Unicredit riduce le perdite Dopo gli imbarazzi delle scorse settimane, il gruppo Unicredit ha ridotto l’esposizione iniziale ai mutui subprime Usa: pari a 246 milioni di euro nel terzo trimestre, nel quarto scende a 170 milioni. Intanto Alessandro Profumo ha smentito di nuovo l’interesse per la francese SocGen e ha rivisto al rialzo di 125 milioni le plusvalenze da generare entro il 2010 dopo la fusione con Capitalia.

Rallentano le assicurazioni Rallenta l’industria delle assicurazioni. L’Isvap ha comunicato che nei primi nove mesi del 2007 la raccolta premi in Italia è calata del 5,5 per cento rispetto a dodici mesi prima, raggiungendo la cifra di 72,14 miliardi di euro. A risentirne soprattutto la raccolta dei premi vita, in calo del 9 per cento. Sul versante Rc auto il calo è più contenuto: -0,7 per cento.

Microsoft alla conquista di Yahoo! presentante delle compagnia straniere a Linate, «dando la possibilità alle Regioni d’intervenire sulle decisioni». Anche Air One, nonostante la sua autocandidatura, non può ambire a quegli slot, indispensabili per creare quella grande compagnia del Nord, che sogna Roberto Formigoni.

Derubricata come fantafinanza fino a qualche giorno fa, della fusione tra Microsoft e Yahoo si ritorna a parlare! Da Richmond è arrivata una formale proposta d’acquisizione, che al momento il motore di ricerca – sempre più indebolito – ha definito «non richiesta». Microsoft offre 44,6 miliardi di dollari, una cifra che rappresenta un premio del 62 per cento sul valore di Yahoo sul mercato azionario. E mai prima l’azienda fondata da Bill Gates aveva investito una cifra simile. Ma questi soldi potrebbero risultare benedetti se usati per fronteggiare il crescente peso di Google nella battaglia della pubblicità on line.

Chiunque andrà a Palazzo Chigi, dovrà inserire le infrastrutture tra le priorità per evitare il declino. Imparando dalla Spagna che ci ha sorpassato

Tav,Terzo valico e porti per diventare l’hub delle tigri asiatiche di Mino Giachino a recente e lucida analisi di Domenico Siniscalco su La Stampa ci dice che l’equilibrio mondiale è cambiato prima del previsto e che il nostro futuro non sarà più quello di una volta. La valutazione di Siniscalco rende ancora più complesso e urgente il discorso sullo stato del nostro Paese dopo il sorpasso della Spagna se non vogliamo essere superati a breve anche dalla Grecia. Negli ultimi dieci anni siamo cresciuti del 20 per cento in meno rispetto alla media Ue. Abbiamo cioè un quinto in meno della ricchezza che avevamo nel 1995. Sino al 1969 con bassi salari eravamo primi per crescita in Europa. Ora con bassi salari siamo ultimi per crescita. Da questo punto di vista la discussione in atto sulla redistribuzione del tesoretto, se non affronta i nodi strutturali, rischia di essere una grande occasione persa per il recupero di competitività, senza la quale il declino sarà ancora più forte.

L

Riduzione drastica della spesa pubblica, recupero di produttività fortissimo nei nostri servizi energetici e di trasporto, aumento dei fondi privati alla ricerca scientifica sono un imperativo per l’oggi. Ma se l’estremo Oriente è diventato, come dice Siniscalco, il più forte motore economico del mondo, per l’Italia si pone con forza l’obiettivo di diventare l’hub principale di attracco e smistamento delle merci che attraverso il canale di Suez arrivano dalla nuova fabbrica del mondo. Per l’Italia l’enorme flusso delle merci in arrivo dall’estremo Oriente con tassi di crescita del 15 per cento annuo è una ricchezza importante e duratura. Lo smistamento e la lavorazione delle merci in arrivo ci daranno un valore aggiunto e tasse portuali con le quali potremo finanziare gli investimenti infrastrutturali oltre a creare migliaia di nuove stabili occasioni di lavoro. Dopo aver visto dove ci hanno portato i veti sulla immondizia campana bisogna ri-

petere che lo stesso accada con la Tav, i rigassificatori o Malpensa. Qui si potrebbe misurare la bontà o gli effetti positivi del confronto bipartisan Veltroni-Berlusconi. A prescindere dalla soluzione che verrà trovata alla crisi politica in atto sarà decisivo approvare in Parlamento una mozione a favore della Tav e del Terzo Valico. Misura indispensabile se si vuole trasferire il traffico da gomma al ferro e rilanciare l’economia e la difesa dell’ambiente. Non meno indispensabile riunificare gli attuali ministeri di Infrastrutture e Trasporti in un’unica realtà deputata alle politiche per le Infrastrutture e la logistica. Il recente blocco dei Tir ha dimostrato che senza trasporto merci il Paese si blocca ma il sorpasso della Spagna ci dimostra che senza infrastrutture di trasporto il Paese è condannato a crescere molto di meno degli altri Paesi europei. Senza crescita non vi saranno le risorse per un aumento strutturale

dei salari e del welfare. Dopo il blocco dei Tir occorre riportare la concertazione del settore trasporti e autotrasporto alla Presidenza del Consiglio, come si era fatto, e bene, sotto la guida di Gianni Letta. Siamo in una posizione unica e centrale nel Mediterraneo e in Europa per la rete, tutta su rotaia e quindi non inquinante della Grande Rete Europea dei trasporti. Decidere subito la Tav e il Terzo Valico oltre a potenziare il Porto di Genova è una questione nazionale. Non c’è più tempo da perdere, perché scialacquare le risorse del tesoretto senza destinarle a spese di investimento valide per l’oggi come per il futuro, rischia di essere, alla luce dell’analisi di Siniscalco, una scelta mortale. La Grecia senza i veti nostrani ha saputo cogliere l’occasione delle Olimpiadi del 2004 per rilanciarsi, e noi invece rischiamo di perdere il treno del futuro. Segretario generale dell’associazione TrasportoAmico


pagina 20 • 2 febbraio 2008

cultura

Il film catastrofico, diretto da Matt Reeves, segna una svolta nel linguaggio cinematografico

Cloverfield, il cinema verso la mutazione genetica di Roberto Genovesi obbiamo rassegnarci. L’11 settembre del 2001 rappresenta per gli Stati Uniti un punto di non ritorno non solo per l’economia, per la politica e per i rapporti internazionali ma anche per le produzioni cinematografiche. Come in gran parte dei film giapponesi postbellici aleggia lo spettro della bomba atomica, così in molte pellicole catastrofiche americane ritroveremo sempre almeno un accenno al disastro delle due torri. Cloverfield non sfugge a questa legge non scritta ma non sarà questo l’elemento che lo farà ricordare nella storia del cinema. La trama del film è quanto di più banale e stravisto si possa immaginare: un mostro gigantesco invade New York e praticamente la rade al suolo sotto gli occhi di cittadini inermi e di soldati votati al suicidio. La novità della pellicola sta nel linguaggio scelto per rappresentare gli eventi e così, quasi magicamente, si passa dal b movie al capolavoro.

D

L’inizio

è

ché tutto il film è ripreso solo ed esclusivamente attraverso la telecamera amatoriale del protagonista. «Quando ho iniziato a pensare a questo film - racconta J.J. Abrams, già produttore di Alias e Lost - mi è venuto in mente il fenomeno You Tube dove si trova sempre qualche video, girato nei

posti più disparati del mondo, in cui qualche sconosciuto ha ripreso le reazioni delle persone, da un punto di vista inosservato, a un disastro o a un episodio cruento». E, in effetti, Cloverfield è la cronaca di un evento incredibile visto attraverso l’occhio di una piccola telecamera amatoriale. Le scene

spiazzante.

Schermo nero, disturbi di posizionamento del quadro, immagini fuori fuoco. Alla gremita prima per la stampa un collega ci casca, si alza in piedi e chiede l’intervento dell’operatore. Un altro collega, più giovane di almeno vent’anni, che invece ha capito tutto, lo invita a tornare a sedere e così si continua. Siamo a una festa d’addio di un giovane professionista che sta per partire per il Giappone (arriva così il primo omaggio al cinema nipponico di Gozilla e i suoi fratelli) dove continuerà la sua brillante carriera. A salutarlo ci sono proprio tutti, compreso un amico che ha deciso di riprendere in presa diretta la serata con la sua telecamera digitale tascabile. Nel bel mezzo del party un boato. La telecamera dell’ospite indugia prima sui suoi interlocutori ammutoliti, poi si tuffa in terrazzo per vedere meglio e quello che riprende è una panoramica notturna di palazzi in fiamme mentre la statua della libertà crolla su se stessa. Da questo momento in poi il film viaggia sulle montagne russe. Le riprese, sempre in soggettiva e con lunghi, eccezionali piano sequenza, si spostano prima per strada, poi dentro la metropolitana, poi ancora per strada e negli anfratti più bui della città. La qualità del video è «sporca», sincopata, senza regole per-

L’evento è sempre visto in soggettiva dall’occhio di una piccola telecamera amatoriale. Tutto è mediato dalle nuove generazioni crossmediali, in bilico tra realtà e Second life

I protagonisti di Cloverfield impegnati a riprendersi con la piccola videocamera amatoriale anche situazioni molto drammatiche

non si vedono mai dal punto di vista di una regia terza ma sempre in soggettiva attraverso una visione mediata. Nella scena all’interno del negozio di elettronica, in cui la gente si riunisce per vedere il notiziario, si vede l’immagine del mostro dal punto di vista di un elicottero mentre, con la coda, distrugge un pezzo del ponte di Brooklyn ma solo attraverso il televisore acceso sugli scaffali ripreso dalla telecamerina. Così come, quando la testa della Statua della libertà precipita in strada come una bomba inesplosa, sono decine le persone grondanti sangue e fuliggine che si affrettano ad andare a fotografarla con i loro telefonini invece di preoccuparsi di scappare di fronte al mostro che incalza alle loro spalle.

C l o v e r f i e l d r a c c o n t a il mondo mediato delle nuove generazioni crossmediali dove tutto non esiste se non è raccontato attraverso un supporto di ripresa. E dove tutto ciò che è raccontato attraverso questi strumenti, perde la sua essenza di evento capace di minacciare la propria fisicità. La propria testimonianza non basta più. Per renderla credibile, a costo della propria pelle, occorre un video o una foto. Le persone che muoiono, i palazzi che crollano, il sangue che scorre a ritmo adrenalinico, solo filtrati in esclusiva dall’occhio artificiale dei nuovi media portabili acquisiscono lo spessore di soggetti convincenti. E il naturale istinto alla conservazione si esorcizza senza remore a vantaggio della ormai diffusa regola secondo la quale tutto ciò che non viene ripreso o non va in rete non esiste. Anche la morte. In questo senso Cloverfield rappresenta una efficacissima visione del mondo in bilico tra la realtà e second life e diventa un titolo paradigma per un nuovo tipo di cinema che porta il linguaggio degli user generated contents al rango di script cinematografico. Le nuove generazioni grideranno al capolavoro, gli altri, probabilmente, se ne andranno prima della fine. Ma è giusto che sia così. Stiamo parlando di una mutazione genetica che non può essere imposta ma ormai implacabilmente irreversibile. E il regista Matt Reeves e tutto il suo staff hanno il merito di aver intuito il momento in cui era il caso di provare a voltar pagina.


sport

2 febbraio 2008 • pagina 21

Ha sostituito la Juventus nell’antipatia dei tifosi

La beneamata Inter, oggi è la più odiata di Italo Cucci iamo rimasti in pochi – e naturalmente reduci della scuola di Gianni Brera – a scriverne chiamandola Beneamata. All’origine c’era nella parola rotonda la malcelata passione di Giovanni, che si diceva genoano e invece tifava Inter, si sentiva più bauscia che casciavit, come aveva definito i dirimpettai del Milan, anche se l’arrivo di Silvio (Berlusconi) e di Fidel (Confalonieri) l’aveva sommamente galvanizzato. Già, Brera “berlusconizzato”al punto di rivolgerglisi con un accorato “capitano, mio capitano”. Sta di fatto che Beneamata è rimasta all’anagrafe del tifo anche quando – e per tanti motivi – fu Pocoamata. O Beneodiata, fate voi.

S

In alto l’Inter di Helenio Herrera. Sopra, a sinistra Angelo Moratti, a destra Michel Platini con Giampiero Boniperti. In basso Alex Del Piero supera il centrocampista portoghese Pelé

È più facile, infatti, definire il periodo in cui è stata amata davvero: la stagione delle sconfitte di Massimo Moratti. Inizialmente con ingenerosa ironia, poi con sfottò elementari, infine con vera sportivissima comprensione, fino all’acquisizione del primo e unico Scudetto di cartone della storia del calcio (quello sottratto alla Juve dai giudici di Calciopoli) l’Inter ha avuto molti alleati anche nelle file degli avversari (non quelli diretti, juventini e milanisti, naturalmente). Resta una importante testimonianza di questo periodo di sofferenze e di carità pelosa: una mezza dozzina di libri scritti da innamorati delusi, di tipo severgniniano, molto più numerosi di quelli dedicati allo ”scudettocheperònonc’eralajuve”. L’amico mio Peppino Prisco – che dell’Inter è stato cuore e cervello dal dopoguerra fino alla fine dei suoi giorni – se n’è andato all’improvviso quasi per non sentirsi consolare, cosa che non avrebbe sopportato, lui che nelle stagioni, di-

ciamo così, dell’odio, amava citare il ducesco “molti nemici molto onore”: perché così sentiva quella marea insultante e perché per lui Mussolini aveva – come dicevano Longanesi e Maccari - quasi sempre ragione. Adesso ch’è tornata a vincere, l’Inter è di nuovo odiata. È banale sociologia affermare che gli italiani odiano i vincitori, e perché. I nostri amabili connazionali corrono con tanto impegno in soccorso dei vincitori che nel momento d’essere accettati sul carro subito l’amore si volta in odio per l’approccio necessariamente servile. Gli altri, quelli che non corrono, hanno in genere il core gonfio d’amor per i deboli, quindi prediligono gli sconfitti, come involontariamente dimostrano le vie e le piazze d’Italia, dedicate a italici sconfitti, trucidati, impiccati, da Muzio Scevola a Enrico Toti.

Fino a qualche anno fa si ironizzava sui nerazzurri, poi arrivò lo Scudetto di cartone dell’era Calciopoli È oggi odiata, l’Inter, perché spendendo e spandendo ha chiamato alla sua corte legioni di mercenari; e per farne incetta non è andata per il sottile, come quando ha ottenuto dalla nemica Juventus – affondata dalle telefonate intercettate dalla Telecom di Tronchetti Provera, dirigente nerazzurro – la cessione di Ibrahimovic e Vieira; o dalla Roma, bisognosa di danè, il prezioso Chivu. È odiata perché i tifosi possono attribuirle un altro nome ch’era caduto in disuso – l’Invincibile Armata – avendo non solo acquisito un gioco strapotente, ma anche qualche particolare attenzione dagli arbitri che nell’ambiente è definita ”sudditanza psicologica”. E val la pena rammentare – io c’ero, e lo vidi, e lo udii – quel designatore degli arbitri, il veneziano Giorgio Bertotto, che nel 1967 s’inventò la sudditanza proprio al termine di una partita che l’Inter aveva vinto sul Venezia con il palese aiuto

dell’arbitro. È stata, quell’Inter, la più odiata di sempre, anche perché spesso vinceva con merito, ma con spirito talvolta maramaldo: era l’Inter di Angelo Moratti il Grande, l’Inter di Accaccone, Picchi, Suarez e Allodi. Già, Italo Allodi. Lo ricordo con l’amicizia che ci legò fino alla sua amara scomparsa. Nulla gli era negato, nulla proibito: l’abilità estrema e la signorilità innata avevano fatto del ragazzo di Suzzara il vero mago del calcio, il primo artefice dei successi nerazzurri dopo che per sette anni Angelo Moratti aveva conosciuto – come poi il figlio – solo sconfitte. Italo veniva dal triplice storico successo del Mantova, passato dalla Serie D alla Serie A. Lo sponsor di quella squadretta era la casa petrolifera Ozo, ne ricordo ancora lo slogan: “Ozo è potenza”. Allodi è potenza – dicevo io - soprattutto dopo che l’Italo era andato a scuola dal più potente manager calcistico dell’epoca, Raimundo Saporta, braccio destro al Real Madrid del grande Santiago Bernabeu. A quel tempo, l’Avvocato Gianni Agnelli s’invaghì del fascinoso Allodi e lo volle alla Juve.

L’Inter, priva del suo vero mago, trascorse lunghi anni senza vittorie, la Juve ne trasse pochi vantaggi: essendo modellata secondo canoni sabaudi (Gianni il Re, Boniperti il suo Cavour) che ispiravano sudditanza d’altro stampo, dovette ben presto liberarsi di Italo Allodi. Il che avvenne una sera, a Torino, durante la festa di un ennesimo scudetto. Allora l’Avvocato prese la parola per dire «mi spiace dover rinunciare alla nostra Santa Rita: Allodi ci lascia». Era successo qualcosa che non s’addiceva all’allora “stile Juventus”. Ma questa è un’altra storia che magari varrebbe la pena approfondire. Resta il confronto fra due club odiamatissimi per troppe vittorie. Per queste Brera definì la Juventus “Signora Omicidi”. Il nuovo nome della Beneamata Inter verrà quando avrà vinto qualcos’altro, ad esempio una Coppa dei Campioni. E sarà non solo italiana, ma europea, mondiale, intercontinentale. Fate voi. Odiatissima.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

Sessantotto: più lati negativi o positivi? All’epoca potevamo mettere sotto esame una classe dirigente già inadeguata Non è vero che il Sessantotto è da buttare integralmente. A ben guardare, se la meglio gioventù italiana non si fosse fatta eterodirigere dalla confusione contestataria dei francesi, se la destra non si fosse divisa fra anarcoidi e poliziotti di complemento, in quella stagione avremmo potuto mettere sotto esame, e con venticinque anni di anticipo, una classe dirigente che già mostrava gravi segni d’inadeguatezza. Se quell’istanza di rinnovamento non avesse preso la china del conformismo gauchista, oggi non avremmo bisogno di Marco Travaglio e di Santoro.

Mario Verdini - Siena

Se non fosse stato per i sessantottini i ragazzi avrebbero studiato per benino Avevano mitizzato il Sessantotto? Vero. Ne avevano esagerato i pregi e minimizzato i difetti. Il guaio è che adesso si sta facendo il medesimo errore a parti invertite, dandone una lettura negativa a senso unico. Invece di limitarsi ad aggiustare il tiro, si reagisce con un atteggiamento uguale e contrario. Leggi certe requisitorie e sembra che - se non fosse stato per i sessantottini (e per quelli che in un modo o nell’altro ne hanno raccolto l’eredità) – gli ultimi quarant’anni sarebbero trascorsi nell’armonia generale. I ragazzi avrebbero studiato per benino, senza lamentarsi se i loro professori erano dei tromboni ottusi e supponenti. I lavoratori dipendenti avrebbero sgobbato di buon grado, senza pretendere di ricevere almeno una piccolissima parte dei profitti delle imprese. E quanto alla politica, i cittadini tutti si sarebbero adeguati alle “sagge”decisioni dei governi a base democristiana, che ovviamente sarebbero tuttora al potere. Meraviglioso, nevvero?

Sergio Sala - Como

L’aver sconsacrato la Res Publica ci ha fatto perdere fiducia nella comunità statuale Solo un paio di domande. Perché aspettare che sia Ratzinger a richiamarci sull’espulsione del sacro dalla società? Perché non dire forte e chiaro che, dal ’68 in poi, aver sconsacrato la Res Publica, la quale per definizione è Res Sacra, è stato il primo atto di tracotanza che ci ha fatto perdere fiducia nella comunità statuale?

Ernesto Maiuri Opera (Mi)

Le speranze di vita e libertà del ’68 furono represse da una borghesia stragista La verità è che avete dovuto aspettare il reazionario di Francia, Nicolas Sarkozy, e un pastore tedesco violentemente preconcliare, Benedetto XVI, per allestire il vostro macabro processo alle speranze di vita e di libertà germogliate nel Sessantotto e represse da una borghesia stragista. Da soli non avreste mai trovato la forza e il coraggio. Saluti.

Nicola de Angelis Pozzuoli (Na)

Errore. Nell’estate del 2002 dedicammo un fascicolo di Liberal al Sessantotto, sotto il titolo ”Il grande inganno”. Lo facemmo da soli. Aspettiamo da liberal uno sguardo moderno e fattivo sulla crisi del presente Da liberale calogeriano, devo ammettere che nel Sessantotto ci fu una grande speranza di rinnovamento tradita. Oggi è quella speranza che va recuperata, dunque basta dir male di una stagione conchiusa, aspettiamo piuttosto da Liberal uno sguardo moderno e fattivo sulla crisi del presente.

Luigi Baccelli - Torino

LA DOMANDA DI DOMANI

Emergenza rifiuti, basteranno trenta giorni? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

NON CAMBIA LA MISSIONE DEI CIRCOLI LIBERAL Il grande partito unico dei moderati italiani, oggi più di ieri, necessae est (si deve, è necessario). La notizia che il presidente della Fondazione Liberal, onorevole Ferdinando Adornato, unitamente al coordinatore nazionale dei Circoli, onorevole Angelo Sanza, aderiscono all’Udc non cambia la missione, né l’obiettivo dei Circoli Liberal. Fini, Casini e Berlusconi tornano insieme, la cosa dà piacere e gioia al popolo e agli elettori del centrodestra italiani, ma non può essere tutto qui. Non può essere solo un’alleanza elettorale, né tanto meno un cartello per vincere le prossime elezioni Amministrative. Non può essere la ”resurrezione dell’ectoplasma CdL”. Né tanto meno il cavaliere può nutrire speranze di arrivare a formare il nuovo partito attraverso l’annessione di An e Udc. Il nuovo partito unico dei moderati e dei riformisti italiani non può che nascere dalla Costituente coordinata

Che ne è della battaglia contro gli ascensori del Vittoriano? Ma cosa ne è della mirabile battaglia del fu Indipendente contro l’orrido ascensore arrampicato da Rutelli e Veltroni sopra il Vittoriano? Urge risposta, nonché qualche riga sullo sviluppo di una battaglia civile così rara ed esemplare.

Giancarlo Rubei – Roma

Scrivete di Trieste e difendete le nostre ragioni Da una voce Liberal come quella del direttore, mi aspetto senz’altro una riflessione profonda e non banale sull’unica regione dove il Novecento non si è concluso: la Giulia. Immagino saprà che la Croazia e la Slovenia non mancano di ricordarci le loro ambizioni sul mare Adriatico e sulla memoria storica degli infoibati che Napolitano non fu in grado di difendere con forza sufficiente. Immagino saprà anche che la nostra Trieste è la sola città italiana nella quale, alla domenica, si sta sull’attenti ad ascoltare l’inno d’Italia. Per l’alzabandiera e per l’ammainabandiera. Venga a trovarci, direttore, scriva di noi e difenda le nostre ragioni. Sono le ragioni della Patria, dunque anche le sue.

Riccardo Salmini - Trieste

Per carità, l’Italia non vuole né larghe intese né inciuci Circa la domanda sulla crisi politica italiana, né larghe intese né inciucio, per carità. Gli italiani ne hanno le tasche piene di una classe politica che da anni promette di cambiare tutto a patto di non cambiare niente. Gli italiani sono stanchi di false promesse e di un immobilismo preoccupante. Tutto ciò a parer mio è il risultato di un voler far politica cercando di mantenere il più a lungo possibile il potere. Per poter restare in sella il più a lungo possibile è necessario cercare di mediare e accontentare quante più

dai circoli liberal

da Liberal e già sottoscritta dai rispettivi leader della Casa della Libertà. La Costituente rimane la sola ed unica via percorribile alla pari, l’unica carta che nella forma e nei contenuti garantisce pari dignità ai costituenti. In essa sono esplicitati e chiaramente contenuti i valori e le prerogative ideali e culturali dell’intera Casa della Libertà e del suo popolo. La Costituente già sottoscritta è di per sé l’embrione del Partito unico dei moderati e dei riformisti italiani, costola del Partito popolare europeo. Essa fa compiere un passo in avanti verso il futuro, verso regole condivise e democraticamente ”percorribili”. La nostra missione rimane quella di essere collante e ancor di più spingere affinché An, Forza Italia ed Udc definitivamente e senza indugio assecondino quello che già di fatto vive nel proprio corpo elettorale. Noi Liberal, liberali e popolari, continueremo a rappresentare e a batterci per il valore più grande che l’elettorato del centro-

persone possibile cercando di non scontentare nessuno. Per poter governare bene un paese è necessario invece prendere le decisioni giuste e coraggiose anche se spesso impopolari. Certo, non strangolando la classe produttiva del paese come ha fatto Prodi, quello è semplicemente suicidio politico. Provo a fare un esempio banale: il Cile e Luis Pinera. Luis faceva parte del celebre gruppo dei “Chicago Boys”, una scuola economica che con la sola riforma pensionistica ha saputo dare quella spinta necessaria per portare il Cile ad una situazione economico-sociale in grande crescita costante. Ovvio che le prime azioni non furono popolari, ma i risultati furono presto accolti con grande soddisfazione da tutto il popolo sudamericano. Idee, coraggio e serietà, quello di cui anche noi avremmo bisogno molto presto.

Alberto Moioli

Ho moglie, figli e reddito basso. Come faccio ad andare avanti? Svolgo principalmente un lavoro da edicolante che m’impegna per dodici ore al giorno, sei giorni a settimana, più una domenica su due. L’attività mi rende circa trentamila euro lordi l’anno, da cui devo scalare affitto, tasse, contributi, eccetera. Ho moglie e quattro figli da mantenere. Le associazioni non ci difendono. I clienti, operai e non, credono che noi guadagniamo da nababbi vista la mole di lavoro che abbiamo. I politici pensano altro, o a riempirsi la pancia, e nel loro mondo non ti fanno entrare né a dire la tua né a spartire la torta. Le banche invece, mentre tutto si liberalizza, si vanno accorpando e se ne infischiano dei piccoli come me, e anche se ho qualche capitale, dicono che ho il reddito troppo basso. Non ce la faccio più. Cosa devo fare per poter andare avanti?

Ciamberlini Oriano Jesi (An)

destra richiede, l’unità. L’unità sotto un’unica grande bandiera politica che è quella del Partito unico dei moderati e dei riformisti italiani in riferimento al Partito popolare europeo. D’altronde i Circoli Liberal sparsi in tutt’Italia sono da sempre partecipati e condivisi da uomini e donne dell’Udc, di An e di Forza Italia. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

APPUNTAMENTI ROMA - 2 FEBBRAIO 2008 Palazzo dei Congressi Conclusione dei lavori del meeting internazionale ”Cambio di stagione: 1968-2008, quarant’anni dopo”


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog bombs, le bombe a grappolo usate in Vietnam, Kosovo, Iraq e Libano. Un dramma umanitario che dilania e uccide la popolazione civile. Si tratta di piccole bombe colorate che mietono vittime soprattutto tra i bambini, attirati dai colori e dalla forma. L’aspetto più vergognoso è che chi commercia in ”cluster bombs”pensa ai progetti migliori per renderle più pericolose e più simili ai giocattoli. Da una voce liberale come la vostra si dovrebbe alzare lo sdegno per questa situazione. Avreste sicuramente il nostro sostegno.

LETTERA DALLA STORIA

”L’indifferenza, orribile spassione dell’uomo che ha la sua principal sede nelle grandi città” L’uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o facoltà di rapporto è limitata. In una piccola città i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose esistono, perché la sfera de’ medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana. In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città; giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi, si limita al solo vedere. L’unica maniera di poter vivere in una città grande, è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena differenza verso tutto il resto della società. Giacomo Leopardi Epistolario. Al Conte Carlo Leopardi

Se l’Ue non diventerà forte, per noi saranno soltanto guai Parlando in termini geopolitici, in questo preciso frangente l’Italia e l’Europa hanno bisogno di un’identità forte e soprattutto di libertà di movimento. Bene ha fatto il nostro ex premier Silvio Berlusconi a stringere i rapporti con la Russia e con il Vicino Oriente. La realtà è che davanti ai grandi ”mostri”di India e Cina e lo strapotere americano, se l’Ue non diventerà veramente forte e solida per noi saranno guai.

Amelia Giuliani - Potenza

L’Europa non è vecchia e gli Usa non ci servono Giovedì scorso ho letto la lettera della signora Simonetti di Vicenza che rispondeva ad una mia precedente sulle elezioni statunitensi. Confermo le mie parole di orgoglio europeo, italiano e la mia poca sopportazione per l’esterofilia del nostro Paese. Soprattutto non penso che l’Europa non sia ”vecchia”, ma al massimo che abbia una storia e una tradizione da salvaguardare. Millenni di civiltà hanno sicuramente qualcosa da insegnare agli amici d’oltreoceano. Anzi,

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

Lorenzo Mangione Firenze

PUNTURE

penso che le ingerenze a stelle e strisce abbiano fatto diventare buona parte di questo Continente una sorta di territorio a sovranità limitata. E’ imbarazzante nel 2008 pensare che ci sono ancora basi militari straniere sulla nostra terra e che esiste ancora un patto di sudditanza che si chiama Nato. Se veramente fossero ”amici”, l’Italia avrebbe avuto giustizia per il Cermis o per l’omicidio di Calipari.

Augusto Curino Torre Suda (Le)

Perché non parlare del dramma delle cluster bombs? Nel mondo esiste un problema che non viene toccato da nessuno: il dramma delle cluster

Dalla Gran Bretagna la scienza annuncia che non ci saranno più “figli di papà”.

Giancristiano Desiderio

L’Italia vuole chiarezza, il popolo vuole le elezioni Baccini e Tabacci escono dall’Udc per fare una nuova formazione politica con Montezemolo e Pezzotta. Tutti i media ci bombardano con l’idea del bipolarismo e del partito unico e invece l’Italia si riempie di mini partitini vari e assortiti. Adesso anche gli estremisti di centro. La risposta è solo una: basta con questi giochi di potere. Vogliamo chiarezza, vogliamo elezioni. Cosa stiamo aspettando? Cordiali saluti.

Antonella Viola - Milano

Niente è più pericoloso d’un grande pensiero in un piccolo cervello

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

TAINE

Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di I CONTI SENZA L’OSTE La scelta di cercare una maggioranza per approvare una nuova legge elettorale, assegnata a Marini, è ampiamente giustificata da due palesi scuse accampate solo per dare tempo alla sinistra di ricompattare i ranghi e da una pressante richiesta proveniente da una non ben specificata società civile organizzata. L’Ansa presuppone che questa entità influente sia composta dai promotori del referendum (800 mila firmatari), 9 sigle di imprese e associazioni (tra cui Confindustria, Confcommercio, associazioni delle coop e dell’artigianato) che hanno sottoscritto il manifesto per la governabilità. E non c’è dubbio che la riforma elettorale vada fatta (…). Il punto di discordia non è tanto la legge elettorale che inorridisce trasversalmente tutto il Paese, quanto piuttoso il metodo più opportuno per giungere alla sua riforma. (…) Tempo perso per tempo perso è senza dubbio preferibile procedere ad elezioni anticipate ora che l’Italia saprebbe chi votare e, quindi, con un governo solido iniziare a studiare un legge ben fatta. La fretta è sempre cattiva consigliera e, in questo momento, i nostri beneamati politici si troverebbero a dover preparare una riforma frutto di ansia da prestazione. (…) Forza Italia, Alleanza Nazionale, Udc, Lega e Rifondazione Comunista hanno già posto il loro niet, non si capisce quindi come si possano trovare i voti necessari alla approvazione di una riforma che non richiede per giunta la sola maggioranza semplice.

Taglio Basso tagliobasso. blogspot.it

Società Editrice Edizione de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Poligrafico Europa s.r.l. Paderno Dugnano (Milano) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

MARINI-MORENO Fra tutte le maschere che si affacciano dal pulpito della vecchia e peggiore politica politicante quella di Franco Marini ne rappresenta l’espressione più classica. La sua brillante carriera nel sindacato basterebbe per considerarlo uomo da apparato e di regime fin dal più profondo del suo essere. Notoriamente dotato dell’astuzia tipica del dirigente sindacale, custode della conservazione dei privilegi di casta, dello status quo contrattuale, della concertazione, dei bilanci miliardari protetti dal segreto e indisponibili al fisco, delle partecipazioni azionarie nell’Unipol insieme a Cgil e Uil e via via elencando, egli si è sempre speso anche nel sostegno politico di quei ex Dc di sinistra, confluiti nel PPI, come Gerardo Bianco e Rosi Bindi. Da presidente del Senato aveva esordito subito come partigiano dell’Unione, votando, nonostante la prassi contraria, la fiducia al governo Prodi. (…) Eppure, malgrado questo passato e questo presente, egli oggi ha ricevuto l’incarico di esplorare il vuoto creato dalla sua stessa parte politica, nell’esclusivo tentativo di piegare l’opposizione verso la rinuncia al voto in aprile. C’è da augurarsi che l’ennesima ostentazione di arroganza e di sordità del Palazzo si concluda nell’arco di poche ore e la si smetta di insultare l’intelligenza dei cittadini, disgustati da mesi di balletti e di giochi estenuanti intorno alle poltrone del potere.

Perla Scandinava perlascandinava.wordpre ss.com

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via Vitorchiano, 81 • 00188 Roma Tel. 06.334551 Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69924747 • fax 06.69925374 Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6. 69 9 2 4 08 8 06.6990083 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.