9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80206
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
Un’economia che non cresce, un Paese che non cambia. Siamo ormai al 29° posto in Europa nell’Index 2008 presentato oggi in Italia. Qui ci vuole un altro miracolo economico, come negli anni Sessanta…
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
Vi ricordate? Occidente
INSERTO
Gli intellettuali servono ancora? Bernardo Cervellera André Glucksmann Marek Halter
pagine 12 MERCOLEDÌ • 6
FEBBRAIO
politica
cambio di stagione
pezzotta
MA VELTRONI CORRERÀ DAVVERO DA SOLO?
L’EREDITÀ MALATA DEL SESSANTOTTO
«MORTI BIANCHE SERVE UNA SVOLTA»
di José María Aznar di Giuliano Cazzola alle pagine 6 e7
di Cristiano Bucchi
di Renzo Foa
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
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19 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Presentato oggi a Roma l’autorevole rapporto della Heritage Foundation e del Wall Street Journal
L’Italia sta tramontando ª ª (29 in Europa, 64 nel mondo) Pubblichiamo la scheda relativa all’Italia contenuta nell’edizione 2008 dell’Index of Economic Freedom, la classifica sulle libertà economiche elaborata ogni anno dalla Heritage Foundation in collaborazione con il Wall Street Journal. In Italia, l’Index sarà presentato oggi a Roma dall’Istituto Bruno Leoni. Secondo la valutazione che ne abbiamo dato nel 2008, l’economia italiana è libera al 62,5 per cento, il che significa che il Paese è al 64º posto nella classifica mondiale della libertà economica. Il punteggio generale dell’Italia è più basso dello 0,2 per cento rispetto al dato dell’anno scorso. Per quanto riguarda l’Europa, l’Italia si pone al 29º posto su 41: la sua posizione non è migliorata di quanto avrebbe potuto a causa delle riforme più profonde attuate dai Paesi vicini. Se confrontata con la media mondiale, l’Italia ha un punteggio elevato per quanto riguarda libertà d’impresa, la libertà di scambio, la libertà d’investimento e la libertà del lavoro. Avviare un’attività commerciale richiede circa 13 giorni, ossia un lasso di tempo decisamente inferiore alla media mondiale. Il livello delle tariffe doganali è ridotto, anche se una burocrazia inefficiente impone svariate barriere non tariffarie che contribuiscono a scoraggiare gli investimenti. L’Italia ha una politica monetaria comune agli altri Paesi dell’Unione Europea, che permette di avere un’inflazione relativamente modesta, a dispetto delle distorsioni introdotte dallo Stato nel settore agricolo. I punteggi relativi a diritti di proprietà e corruzione sono piuttosto deboli se confrontati ad altri Pesi europei. L’Italia ha un punteggio inferiore alla media mondiale e particolarmente basso in termini assoluti per quanto riguarda la libertà fiscale e la vastità dell’apparato statale, a causa dell’esigenza di alimentare un imponente welfare state. Il gettito fiscale ammonta al 40 per cento del Pil, mentre la spesa pubblica equivale a quasi metà dello stesso Pil.
Informazioni generali Fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia ha rappresentato un elemento cardine dell’integrazione europea e fa inoltre parte della Nato e del G8. Pur essendo una delle maggiori economie mondiali, tuttavia, l’Italia deve affrontare gravi problemi economici, tra i quali forti oneri fiscali, considerevoli impegni futuri di spesa in campo pensionistico e numerose rigidità nel mercato del lavoro. Nonostante l’intensa concorrenza internazionale da parte dei Paesi emergenti dell’Asia, le piccole e medie imprese continuano a prosperare in campo manifatturiero e di design di alto livello, specialmente nelle regioni set-
scambi sono stati detratti 15 punti percentuali.
procedure burocratiche. Avviare un’attività economica richiede in media 13 giorni, rispetto ad una media mondiale di 43 giorni. Ottenere una licenza commerciale richiede un numero di procedure pari a 19, inferiore alla media mondiale, e un periodo di tempo superiore alla media di 234 giorni. Cessare un’attività è abbastanza semplice.
Libertà fiscale: 54,3% Le aliquote fiscali italiane sono molto alte. L’aliquota massima dell’imposta sul reddito è pari al 43 per cento, mentre l’imposta sulle società ha un’aliquota massima del 33 per cento. Tra le altre imposizioni fiscali, si annoverano l’Iva, un’imposta sugli interessi e una sulla pubblicità. Nell’ultimo anno, il gettito fiscale complessivo ha raggiunto il livello del 40,4 per cento del Pil.
Libertà dallo Stato: 29,4%
Libertà di scambio: 81% La politica italiana relativa agli scambi è identica a quella degli
Carico fiscale, spesa pubblica e diritti di proprietà fanno perdere al nostro Paese, dal 2005, 36 posizioni nella graduatoria internazionale. E per fortuna c’è l’euro che tutela la politica monetaria e frena l’inflazione tentrionali. Il turismo e i servizi sono tra i comparti economici più importanti.
Libertà d’impresa: 76,8% Nel complesso, la libertà di avviare, gestire e cessare un’attività economica è adeguatamente tutelata dall’ambiente normativo del Paese. Le autorità hanno snellito le relative
altri Stati Membri dell’Unione Europea. Nel 2005, la media ponderata delle tariffe doganali comuni dell’Ue equivaleva al 2 per cento. Nelle politiche delle autorità europee si ravvisano tuttavia svariate barriere non tariffarie. Le autorità applicano normative alquanto restrittive in campo farmaceutico e bio-tecnologi-
co, gli acquisti da parte degli enti pubblici non sono trasparenti e favoriscono la corruzione, le barriere all’ingresso al mercato dei servizi possono superare la media europea e la tutela della libertà intellettuale è debole. A causa delle barriere non tariffarie, dal punteggio complessivo dell’Italia in relazione alla libertà degli
Dal ’95, l’Index misura (anche) lo sviluppo L’Index of Economic Freedom, elaborato ogni anno - dal 1995 - dalla Heritage Foundation e presentato oggi a Roma (ore 18.00 a Palazzo Rospigliosi) dall’Istituto Bruno Leoni, misura in modo sintetico il grado di libertà economica esistente in un numero crescente di nazioni (157 nell’ultima edizione). L’analisi affronta una cinquantina di variabili indipendenti che vengono poi raggruppate in 10 fattori-chiave. Ogni paese riceve, in ognuno di questi fattori, un punteggio espresso in percentuale. E la media ponderata di questi risultati fornisce la percentuale finale, che è anche indicatore del grado di libertà economica. I paesi che superano il 80% sono definiti “liberi”; tra l’80% e il 70% “prevalentemente liberi”; tra il 70% e il 60% “moderatamente liberi”; tra il 60% e il 50% “prevalentemente non liberi”; al di sotto del 50% “repressi”. Questa “classifica”
non è fine a se stessa. Come è stato ampiamente dimostrato dagli estensori dell’Index, infatti, il grado di libertà economica di un paese è strettamente e indissolubilmente correlato con il suo tasso di sviluppo e prosperità. Dividendo in cinque gruppi gli stati, in base alla crescita (positiva o negativa) del loro indice di libertà economica, la Heritage ha scoperto come i paesi che hanno migliorato maggiormente le proprie performance abbiano conosciuto, dal 1995 ad oggi, una crescita media del prodotto interno lordo vicina al 5%. Mentre i “peggiori”non sono andati oltre il 2.5%. Un tasso di crescita doppio, per oltre un decennio, ha dunque caratterizzato le economie che si stanno liberando in fretta dal peso oppressivo dello Stato, rispetto a quelle in cui questo processo è più lento o che hanno innestato la retromarcia, come l’Italia.
La spesa pubblica complessiva, comprendendo i consumi e le attività di redistribuzione del reddito (pensioni, sovvenzioni, ecc.) è estremamente elevata. Nell’ultimo anno la spesa pubblica ha raggiunto il livello del 48,5 per cento del Pil. Ridurre il deficit di bilancio e il debito pubblico (ancora superiore al 100 per cento del Pil) è una priorità, ma il progresso in questo campo è andato a rilento.
Libertà monetaria: 80,6% L’Italia fa parte della zona dell’euro. L’inflazione italiana è relativamente bassa, con una media del 2,2 per cento tra il 2004 e il 2006. La relativa stabilità dei prezzi è il principale fattore dell’elevato punteggio per quanto concerne la libertà monetaria. Partecipando alla Politica Agricola Comune della Ue, l’Italia offre sussidi alla produzione agricola, distorcendo in tal modo i prezzi dei prodotti agricoli. Le autorità, inoltre, dispongono ancora del potere di imporre controlli sui prezzi. Tra i beni e servizi soggetti a tariffe imposte dallo Stato vi sono la fornitura di acqua potabile, l’elettricità, il gas, i pedaggi autostradali, i farmaci prescrivibili rimborsabili, le telecomunicazioni e i trasporti interni. In conseguenza di tali politiche, che distorcono i prezzi interni, dal punteggio complessivo del Paese è stato detratto un ulteriore 10 per cento.
L ibertà d’i nvesti mento : 70% L’Italia è aperta agli investimenti dall’estero, ma il governo
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La mappa della libertà economica del pianeta Libero Prevalentemente libero Moderatamente libero Prevalentemente non libero Represso Il grado di libertà nel mondo
può porre il veto all’acquisizione di imprese italiane che coinvolgano investitori stranieri. A partire dal 2006 il governo Prodi ha bloccato alcuni investimenti in aziende italiane. razione e l’estrazione di idrocarburi, la compagnia aerea di bandiera e le compagnie di navigazione. L’ente Sviluppo Italia sta cercando di attirare investimenti per il tramite di pacchetti di incentivi. Tra i principali incentivi negativi: il peso eccessivo della burocrazia, l’inadeguatezza delle infrastrutture, la complessità della legislazione e la rigidità del mercato del lavoro. Gli stranieri non possono acquistare terreni adiacenti ai confini nazionali. Non ci sono ostacoli al rimpatrio di profitti, trasferimenti di fondi, versamenti o trasferimenti correnti.
Libertà finanziaria: 60% Il credito viene assegnato ai termini stabiliti dal mercato e la partecipazione straniera è ben accetta. Il numero di banche di proprietà statale si è fortemente ridotto e oggi non restano che tre importanti istituti finanziari (la Cassa Depositi e Prestiti, Bancoposta e l’Istituto per il Credito Sportivo). Le sei banche più grandi contano per oltre il 54,6 per cento degli asset complessivi, sebbene la concentrazione in tale settore risulti inferiore che nel resto d’Europa. Le normative e i divieti possono risultare onerose e ottenere il controllo di un istituto finanziario richiede l’approvazione delle autorità pubbliche. Verso la fine del 2005 è stata promulgata
una legislazione per migliorare il sistema normativo. Il mercato assicurativo italiano è il quarto in Europa.
Diritti di proprietà: 50% I diritti di proprietà e i contratti sono tutelati, ma le vertenze giudiziarie sono lente e numerose aziende preferiscono giungere ad un accomodamento extra-giudiziario. Numerosi giudici sono politicamente orientati. La tutela dei diritti di proprietà è più debole di quanto non sia il caso in altri Paesi dell’Europa occidentale.
Libertà dalla corruzione: 49% L’esistenza della corruzione viene nettamente avvertita. Sui 163 Paesi classificati nell’edizione del 2006 del Corruption Perceptions Index di Transparency International, l’Italia occupa il 45º posto. La corruzione è più comune rispetto agli altri Paesi europei e gli italiani ritengono che i settori relativi agli investimenti siano particolarmente colpiti.
Libertà del lavoro: 73,5% Le normative sull’occurelativamente pazione, flessibili, potrebbero essere ulteriormente migliorate al fine di aumentare le opportunità d’impiego e la crescita della produttività. i costi non salariali di un lavoratore dipendente sono decisamente elevati, ma licenziare un dipendente in eccesso può essere agevole. Le normative sull’orario di lavoro sono relativamente rigide.
Dobbiamo “inventarci” un nuovo miracolo economico
Ricominciare a correre di Carlo Stagnaro ella classifica mondiale della libertà economica, l’Italia continua a perdere posizioni. Il messaggio è, nonostante tutto, di cauto ottimismo. Il punteggio italiano, infatti, è all’incirca stabile attorno al 60 per cento di libertà economica dal 1995. La caduta libera è dovuta al fatto che, mentre noi stiamo fermi, migliorando qua e peggiorando là, il resto del mondo si muove. Quindi, lo Stivale fatica a riformarsi, ma nel frattempo gli altri aprono i loro mercati, adottano istituzioni più liberali, e questo determina per noi uno svantaggio competitivo. Naturalmente, i dati dell’Indice vanno letti con attenzione, senza banalizzare. Come tutte le misurazioni di questo genere, esso sottende una serie di assunti arbitrari, per esempio in relazione ai pesi relativi delle diverse componenti della libertà economica - che vanno dall’invadenza del governo alla pressione fiscale, dalla certezza del diritto alla tutela della proprietà privata. Inoltre, avere una bassa posizione in classifica non significa “stare male”: sarebbe sciocco sostenere che si viva peggio in Italia che in Albania (al 56° nell’Indice 2008). Piuttosto, occorre capire il nesso che lega la libertà alla crescita economica: un paese economicamente libero è più dinamico, e offre un ambiente più confortevole alle imprese. E’ dunque probabile che, a parità di altre condizioni, esso si svilupperà più rapidamente, perché gli imprenditori sanno che i loro profitti non saranno cannibalizzati dall’erario, o si aspettano che le regole del gioco non cambieranno in maniera imprevedibile vanificando i loro sforzi. La libertà economica è anche uno strumento per capire come si pongono le diverse nazioni di fron-
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te alla globalizzazione: hanno intenzione di scommettere sulle opportunità offerte dall’integrazione tra le diverse economie, oppure adottano un atteggiamento difensivo? Si tratta di una scelta essenziale, che dà indicazioni precise agli attori economici in merito a quale sarà il comportamento del sistema-paese nei loro confronti. Aprirsi alla globalizzazione non è sempre semplice, soprattutto nei paesi che hanno alle spalle un retaggio protezionistico e quindi si reggono ancora su sistemi economici antiquati, rugginosi o rigidi. E’ il caso dell’Italia: una fotografia delle nostre attività oggi è drammaticamente simile a quella scattata nei decenni scorsi. Rifiutarsi di adattarsi al cambiamento non è, però, una strategia saggia. Si possono ritardare gli effetti dei mutamenti globali; si può perfino restare accoccolati dentro qualche nicchia schermata dalla competizione globale, per un po’. Ma, nel lungo termine, non si può impedire alla marea di montare, e i costi e le difficoltà di aggiustamento saranno tanto maggiori quanto più si è rimandata l’evoluzione necessaria. Il capitalismo è, in questo senso, un sistema davvero selvaggio: non perdona le inefficienze. E poiché le inefficienze dipendono quasi sempre da incrostazioni normative o regolatorie, gli effetti delle politiche pubbliche aggressive gravano non solo e non tanto su chi le ha compiute, ma sull’intera società fino a quando non si riesce o non si vuole accettare il nuovo paradigma. La rivoluzione liberale di cui l’Italia ha bisogno non si è, finora, materializzata. Insistere nello scaricabarile generazionale non risolverà il problema, ma continuerà a renderlo più ingombrante e letale.
Non serve a nessuno insistere nello scaricabarile generazionale. Abbiamo bisogno di riforme radicali
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politica
Il tentativo di aggirare l’impegno del Pd a ”correre da solo”
Veltroni, il bluff dell’accordo tecnico al Senato di Renzo Foa orrei che fosse vero quel che ho sentito dire l’altra sera a Stefano Menichini, il direttore di Europa, durante una discussione allo spazio Punto di vista del Tg2, cioè che il Partito democratico non farà nessun accordo elettorale con l’estrema sinistra. Neanche al Senato, dove la scelta annunciata da Walter Veltroni di «andare da solo» potrebbe consentire al centro-destra di ottenere il premio di maggioranza quasi ovunque (secondo alcuni studi, pare con la sola eccezione della Toscana e, forse, dell’Emilia-Romagna). Vorrei che fosse vero perché appartengo anche io alla scuola di pensiero secondo la quale l’autonomia del Pd dalla galassia rossa o arcobaleno, che dir si voglia, può dare un importante contributo al superamento della vera anomalia italiana, quella sulla quale si è infranto il bipolarismo politico e che ha provocato una situazione di frammentazione e di paralisi sociale, cioè l’alleanza fra le due sinistre.
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Ma sarà vero? A leggere le indiscrezioni che escono quotidianamente dal Loft e a sentire le dichiarazioni di questo o quell’esponente di Rifondazione, o dei Verdi, o del Pdci o della Sd di Fabio Mussi resta in realtà aperto lo scenario della ricucitura di un rapporto. Le formule usate sono ovviamente quelle della tecnica elettorale, di possibili desistenze. Si cerca di non dare un significato politico a quella che con il passar dei giorni appare più che un’eventualità. Il tutto, naturalmente, per non smentire la parola data da Veltroni, per non incrinare l’immagine di purezza che si cerca di dare al nuovo partito. Ma sulla parola data dal leader è già in atto una discussione sulla presentazione delle liste alla Camera. Si chiedono delle eccezioni. Ad esempio di
Tornano alla Sapienza i contestatori di Benedetto XVI
I dissidenti immaginari nvocando il «diritto al dissenso», ci sarà oggi a Roma un secondo tempo dell’iniziativa con cui 67 docenti della Sapienza contestarono il mese scorso la partecipazione di Benedetto XVI all’inaugurazione dell’anno accademico. Contestazione che ebbe per epilogo la rinuncia del Papa, presente solo con il suo discorso in cui si affermava l’esigenza prioritaria del confronto fra idee diverse. Questo secondo tempo consisterà in un’assemblea, convocata sull’onda della raccolta di mille e cinquecento firme di altri docenti e ricercatori universitari in segno di solidarietà con i 67 romani, che sarebbero stati sottoposti «a un linciaggio morale, intellettuale e persino politico senza precedenti». Davanti a questa iniziativa e a queste parole ci sono due domande da porsi. La prima: di cosa si sentono vittima coloro che hanno innescato una polemica grazie alla quale è stato il loro
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affiancare al simbolo del Pd quello dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro o quello dei socialisti di Enrico Boselli (anche se non si capisce perché questa seconda dovrebbe essere accolta, mentre dovrebbe
bersaglio a dover rinunciare ad essere presente ed a parlare nell’aula magna del maggior ateneo romano? La seconda: perché queste stesse persone (e quelle che solidarizzano con loro) si definiscono dissidenti? Hanno parlato e parlano, hanno scritto e scrivono, nessun questurino ha suonato all’alba alla porta delle loro case, nessuno si è opposto all’occupazione del rettorato o ad altre manifestazioni attuate contro la presenza del Papa, nessun loro diritto è stato violato. Di che si lamentano? Delle reazioni che hanno incontrato? Del fatto che siano state espresse opinioni diverse dalle loro? Non si capisce proprio. Quel che è insostenibile è questo autodefinirsi dissidenti, come se fossero le vittime di un potere autoritario. La loro sembra l’immaginazione al potere, secondo il vecchio slogan del Sessantotto.
der viene già smentita. Ma dove le porte sono davvero aperte è nella competizione per Palazzo Madama. Davanti ad una legge elettorale che prevede il premio di maggioranza regionale e davanti ad un’elevata
direttamente al corpo elettorale per cercare i consensi necessari a trasformare una sconfitta annunciata in una sconfitta onorevole o – detto in modo un po’ propagandistico – magari in un successo. E comunque l’af-
Le indiscrezioni su accordi con l’estrema sinistra per contendere al centro-destra il premio di maggioranza (su base regionale) hanno un peso politico, smentiscono la parola del leader, ridimensionano la ”vocazione maggioritaria” e pregiudicano la strategia a lungo termine del Pd essere rifiutata quella dei radicali, visto che nel 2006 erano unite nella Rosa nel pugno). Chi difende l’unicità del Pd contrappone a queste richieste la possibilità di assorbire invece solo singole candidature, un po’ come una volta venivano ospitati gli indipendenti nei partiti maggiori, come il Pci o la Dc. Però l’eventualità di una mini-coalizione è già nell’ordine delle cose, per quel che riguarda la presentazione delle liste a Montecitorio. In altri termini, la parola data dal lea-
soglia di sbarramento (ben l’8 per cento), vacilla la vocazione autonoma veltroniana. Ma non vacilla solo nel caso di un’alleanza presentabile come quella con Di Pietro, vacilla soprattutto perché in discussione è il cuore della strategia del Pd. Quando il leader disse di voler «correre da solo», affrettando tra l’altro i tempi della crisi del governo di Romano Prodi, furono in molti a vedere in questa opzione non un semplice atto di coraggio, ma la testimonianza di un’innovazione: rivolgersi
fermazione di un’autonomia sul piano strategico, cioè valida per il futuro, un modo di alzare la testa dai problemi più immediati e alzare lo sguardo verso un orizzonte più lontano, pensando al futuro, ad un Pd candidato a governare l’Italia senza il peso dell’antagonismo e del massimalismo. Un atto di liberazione da una lunga storia. Si sapeva in partenza che questo atto avrebbe comportato il pagamento di qualche prezzo. Intanto, in vista del voto di aprile, escludeva la possibilità
di concorrere alla Camera per il premio di maggioranza, considerando la ricomposizione dell’alleanza di centro-destra nella sua interezza, che non è una novità, ma una costante dal 1994 in poi. Poi il prezzo da pagare per il meccanismo elettorale in vigore al Senato. Infine, ma questo è ancora da verificare, ci sono ancora tutti i possibili contraccolpi per l’elezione di sindaci, presidente di provincia o di regione.
Comunque sia Veltroni non ha tentennato, anche di fronte a critiche e contestazioni provenienti dall’interno del suo stesso partito. È andato avanti, con la sua parola. Ora è sottoposto ad un vero e proprio pressing per il Senato, per evitare di consegnare una maggioranza solida al centro-destra a Palazzo Madama e anche per sottrarsi all’accusa, non ancora espressa ma pronta a dilagare, di far un regalo a Berlusconi. Come uscirne? Il modo più semplice è quello di parlare di accordi tecnici. Di desistenze. Di scambi. Le possibilità sono molteplici. Basti ricordare l’accordo con Rifondazione nel 2001. Ma sono davvero soluzioni tecniche? In realtà si tratterebbe di intese politiche non dichiarate. Della conferma del vecchio patto tra le due sinistre che, nella storia del bipolarismo, ha pregiudicato la stabilità italiana, con l’implosione avvenuta nell’ultima stagione prodiana. Sarebbe la conferma di un rapporto, sarebbe la smentita dell’autonomia veltroniana. Sarebbe lo scenario di una «vocazione maggioritaria» che invece mantiene la riserva di un’alleanza con la «cosa rossa». Secondo il metodo della vecchia politica di un passo avanti annunciato al mondo e di un passo indietro, spiegato con ragioni tecniche, ma dovuto in realtà all’indistruttibilità degli schemi e delle gabbie in cui si sono mossi i Ds e la Margherita, cioè i genitori del Pd.
politica
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Rifondazione fa la mossa per uscire dall’angolo sulla «Cosina» rossa
La sinistra cerca Walter per rifare un’Unione mascherata d i a r i o
di Susanna Turco
ROMA. «Il Pd può andare da solo, o in coalizione.Tertium non datur». È il primo pomeriggio quando Benedetto Della Vedova, radicale destrorso ora in Forza Italia, distilla quella che è l’essenza dell’ultima sarabanda nel centrosinistra. Già, perché è proprio in questo «tertium» che ci si vuol ficcare, parlando di «accordi tecnici» o «programmatici», «regione per regione» o «per difendersi dal Porcellum». Prova ne sia quel che sta accadendo in commissione Difesa alla Camera. Una riunione di maggioranza convocata ieri dalla presidente diessina Roberta Pinotti, per capire quale sia l’orientamento della sinistra sul rifinanziamento delle missioni all’estero, ottiene infatti il seguente risultato: il Pdci si presenta e fa sapere che potrebbe essere orientato a dare uno stiracchiato sì; Verdi e Prc non si presentano proprio. È il segno che non si è ancora presa una decisione tra i tramontanti obblighi di coalizione e i risorgenti distinguo da campagna elettorale. «Potremmo dare voto contrario», fa sapere poi il segretario di Rifondazione Franco Giordano. Potremmo. Ma è fin troppo chiaro che, oggi, persino la posizione sulle missioni finisce per riecheggiare l’incertezza sul come presentarsi al voto. E che, per quanto si voglia chiamarlo «tecnico» - così la proposta del Prc - un eventuale accordo elettorale col Pd finirà per avere un carattere politico.
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Seconda legislatura più breve di sempre Con il decreto presidenziale di scioglimento, Giorgio Napolitano sancisce la fine di una delle legislature più brevi della storia repubblicana: solo l’undicesima è durata meno: 633 giorni, da aprile ’92 a gennaio ’94. Stavolta si è arrivati a 650 giorni, calcolati dalla prima riunione delle Camere allo scioglimento.
L’inutile data del referendum Ieri mattina il Consiglio dei ministri ha provveduto a fissare la data del referendum elettorale per il 18 maggio nonostante fosse ormai scontato lo scioglimento anticipato delle Camere e il conseguente slittamento della consultazione. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Vannino Chiti ha spiegato che si trattava di «un atto dovuto: in altri casi del genere la procedura è stata sempre quella di fissare comunque il giorno per il voto referendario e di prendere atto successivamente dello scioglimento». La decisione del dimissionario governo Prodi si spiegherebbe anche con la necessità di evitare un ”buco interpretativo” lasciato dalla legge: Il nuovo governo avrebbe rischiato di dover indire comunque il referendum entro il 15 giugno di quest’anno. Peraltro alcuni studiosi fanno notare come l’osservanza scrupolosa dei termini di legge condanni la consultazione sulla legge elettorale a un rinvio di addirittura due anni: non se ne dovrebbe parlare prima del 2010. E se fosse così è ragionevole credere che la nuova legislatura avrebbe tutto il tempo per approvare la riforma del sistema di voto ed evitare il referendum.
L’ipotesi dell’election day appena enunciati. Ma appena fuori dalla sua porta ricomincia la sarabanda. Vannino Chiti già mette in mezzo il programma e sottolinea che il Pd andrà «con chi lo condivide fino alla virgola». Renzo Lusetti spiega poi «a titolo personale» che l’orientamento è valutare «un accordo tecnico al Senato, regione per regione», con Sdi e Italia dei valori «che sono le forze politiche con le quali c’è una maggiore vicinanza programmatica».
Fioriscono a sinistra le mezze proposte per presentarsi alle elezioni non troppo soli, ma nemmeno accompagnati
La varietà delle posizioni in campo suggerisce che il dibattito sarà lungo. A sentire Veltroni, tuttavia, non ci sono subordinate all’idea che il Pd si presenti da solo. «Ce la possiamo fare benissimo», ha assicurato ancora ieri. Quella dell’autonomia, spiega chi ci ha ragionato, sarebbe l’unica carta in più che il sindaco di Roma potrebbe giocarsi per superare il prodismo. Se la vittoria è improbabile, «tanto vale cogliere l’occasione per mandare in Parlamento i nostri, gente fidata, un gruppo davvero compatto», ragionano gli inquilini del Loft. Del resto la posizione di Veltroni è cristallina, come lo sono i principi
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E questo è niente se si mette il naso fuori dal Partito democratico. Perché guardando alla sua ”destra” già c’è Antonio Di Pietro che chiede per allearsi di «capire con chi, nome e cognome e certificato penale allegato, e per fare cosa»; oppure ci sono i socialisti, che non sanno se accettare qualche candidatura di bandiera nel Pd oppure battersi per ottenere anche il diritto a un listino (collegato a chi e come non si sa). Ma è guardando alla sinistra del Pd che si apre il baratro.
La Cosa rossa, o «Cosina» come la chiamano pure a sinistra, è infatti ancora ben lungi dall’essere formata. Ancora si discute del simbolo, per dire. Figurarsi quindi a decidere come presentarsi al voto. Sd e Verdi, più vicini al Pd, premono per l’alleanza con Veltroni; il Pdci lavora per costruire la sinistra; il Prc anche, ma in modo diverso. Ieri, certo, Franco Giordano ha aperto al Pd, indicando il programma come banco di prova per ogni decisione; e in via subordinata, ma più realizzabile, avanzando la proposta minima di un «patto di autodifesa contro il Porcellum»: un «accordo limpido» per il Senato, che permetta al centrosinistra di conquistare il premio di maggioranza almeno in qualche regione. Non è chiaro però come debba organizzarsi questa sorta di desistenza con l’attuale sistema elettorale: con Rifondazione che, in alcune regioni, si fa ospitare nelle liste del Pd? Oppure con una sorta di coalizione Pd-Sinistra che va divisa alla Camera ma unita al Senato? E in quest’ultimo caso, in che cosa il centrosinistra sarebbe davvero diverso da quell’Unione prodiana che Veltroni tanto aborre?
«Il mio parere, che ho confrontato anche con il ministro Giuliano Amato, è che in caso di scioglimento delle Camere sarebbe opportuna una coincidenza delle elezioni politiche con quelle amministrative». Vannino Chiti lo ha detto al termine del Consiglio dei ministri di ieri mattina. Il voto locale, ha ricordato l’esponente del dimissionario governo Prodi, ha precisato che le amministrative dovrebbero tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno, mentre le politiche potrebbero svolgersi il 13 e 14 aprile e dunque sarebbe necessario un provvedimento per anticipare le prime. Le prime reazioni dal centrodestra non sono favorevoli: c’è il rischio, si fa notare, che la confusione produca un forte aumento delle schede nulle.
Rifondazione: intesa con il Pd al Senato Secondo il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano sarebbe possibile «una limpida intesa con il Partito democratico al Senato». Senza un simile accordo il centrosinistra consegnerebbe agli avversari una vittoria schiacciante. Ma nella Cosa rossa ci sono divisioni su tutto, anche sull’uso di falce e Martello, che Oliviero Diliberto vorrebbe mantenere e che persino Armando Cossutta considera anacronistico.
Moratti: non calerò su Roma Ha stupito la reazione con cui ieri il sindaco di Milano Letizia Moratti ha reagito all’ipotesi di una sua candidatura alle politiche: quando i cronisti le hanno chiesto dell’eventualità di un suo incarico nel nuovo governo, l’ex ministro all’Istruzione ha risposto con un significativo «ma per carità!…».
Ultimo saluto a Rosa Berlusconi Si sono svolti ieri nella cappella di Villa San Martino ad Arcore i funerali di Rosa Bossi Berlusconi. Cerimonia riservata a pochi intimi.
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cambio
di stagione
‘68: non bisogna cadere nella “trappola della memoria” inseguendo complessi di legittimazione
Lasciamo ai morti il compito di seppellire i morti di Giuliano Cazzola olto interessante il convegno della Fondazione Liberal sul ’68. La pubblicazione degli atti completerà l’operazione-verità su di uno dei tanti idola tribus che l’Italia si è portata appresso negli anni, senza sottoporli a quelle verifiche critiche che sono il primo compito della storiografia. I miti sono duri a morire. «Le chimere - ha scritto Sebastiano Vassalli - sono animali feroci. Gli uomini si nutrono di chimere, ma le chimere si nutrono di uomini». Tanto più in Italia, dove gli ex sessantottini, pur essendosi laureati grazie al voto politico, sono stati vilmente vezzeggiati ed immediatamente cooptati nel sistema di potere al cui interno recitano da decenni l’“hic manebimus optime”. Eppure, nonostante il contesto e le testimonianze decisamente critiche, nel convegno si sono avvertite suggestioni nostalgiche per la «freschezza» e l’«entusiasmo» della protesta giovanile di quegli anni.
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E’ singolare che nella “trappola della memoria” - nel convegno e altrove siano caduti esponenti, anche autorevoli, di An, come se il loro complesso di legittimazione imponesse una rivisitazione della linea di condotta del passato ed un’assunzione postuma delle posizioni un tempo rifiutate; come se per essere accettati dagli avversari del passato dovessero condividerne persino gli errori. Come se, per entrare a far parte del nuovo “arco costituzionale”, fosse necessario truccare il proprio al-
bero genealogico inventandosi un antenato “oriundo” che, a suo tempo, partecipò all’occupazione della Sapienza e si scontrò con la Polizia a Valle Giulia.
L’analisi, in soldoni, è la seguente: un grande movimento di liberazione, di rottura con un passato autoritario, di protagonismo giovanile sfociò, poi, nella violenza e si riconobbe nella galassia dei peggiori “comunismi”; fino a covare, insieme ai nuclei dell’estremismo operaio, le uova di un terrorismo rosso che il Paese, unico al mondo, non è ancora
biare dovremmo apprezzare, oggi, il terrorismo fondamentalista che si spinge fino al martirio (magari di persone handicappate come è successo nei giorni scorsi) pur di colpire gli avversari. E che dire della Gioventù hitleriana che combattè fino all’ultimo nella Berlino rasa al suolo ? O dei «puri» (così li chiamò Giampaolo Pansa) che, in obbedienza ad un nichilismo morale scambiato per senso dell’onore, cercarono la “bella morte”sotto le bandiere della Repubblica di Salò? O dell’epopea della
Le buone intenzioni non bastano, perché si può diventare propagandisti in buona fede di idee assassine. Altrimenti dovremmo ammirare anche i terroristi o la Gioventù hitleriana riuscito a sconfiggere del tutto. Nessuno, però, si assume il compito di spiegare perché l’angelo vendicatore si trasformò in un demone assassino. Se non fossero state presenti nel dna dei movimenti le derive che oggi critichiamo non sarebbero mai emerse con la forza e l’assolutezza che ben presto divennero dominanti. Non basta l’entusiasmo dei propositi. Si può diventare propagandisti in buona fede di idee assassine, quando ci si allontana dal primo ed unico Comandamento della convivenza civile: «Non condivido quello che dici, ma lotterò fino alla morte in difesa del tuo diritto di dirlo». Se bastasse una voglia purchessia di cam-
Rivoluzione russa, quando il socialismo era costituito dai Soviet e dall’elettrificazione? A pensarci bene l’esito di quei processi era scritto fin dall’inizio. Non ci si propone di portare le cuoche al potere – come enunciava Lenin nel 1917 – servendosi della polizia politica. E non si
avvia un rinnovamento profondo inneggiando - come nel ’68 - alle Guardie rosse della Rivoluzione culturale cinese (un evento promosso per mere ragioni di lotta politica da Mao, uno dei più grandi assassini del secolo scorso, che lasciò sul campo milioni di morti).
Ricordo di aver partecipato, durante quegli anni sciagurati, ad un dibattito sulla condizione dei giovani. Quando si diede al parola al pubblico, si alzò un giovane dall’aria da visionario, il quale dichiarò di essere da poco tornato dall’Albania (l’avamposto del comunismo filo-cinese in Europa) e si mise a denunciare la triste condizione dei suoi coetanei in Italia e più in generale nei regimi capitalistici. Io lo interruppi chiedendogli come se la passassero i giovani in Albania. «Ma loro hanno il socialismo - mi rispose - spostano montagne col solo lavoro volontario, ma lo fanno con l’entusiasmo di chi sa di agire per un futuro migliore». Quando, dopo il 1989, il regime albanese cadde e svelò al mondo di quali lacrime e sangue grondasse, di quali miserie fisiche e morali fosse intessuto, mi tornarono alla mente le parole di quel giovane, che non aveva saputo né voluto vedere quello che già allora si svolgeva sotto i suoi occhi. Insomma, per processare il ’68 ci vorrebbe un nuovo tribunale di Norimberga a cui sottoporre i “cattivi maestri” e i protagonisti di quegli anni bui. Non si può fare? Almeno, però, lasciamo che i morti seppelliscano i morti.
cambio
di stagione
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L’opinione dell’ex premier spagnolo sulle conseguenze della contestazione giovanile
L’eredità malata del Sessantotto di José María Aznar uest’anno, nel 40° anniversario del maggio del ’68, possiamo costatare che sono pochi gli avvenimenti della nostra storia recente che hanno avuto una cosi buona immagine, ma che hanno fatto cosi tanti danni. Qual è il primo insegnamento che possiamo trarre da ciò che è accaduto quarant’anni anni fa? In primo luogo non bisogna dimenticare che il ’68 nasce da una generazione dell’irresponsabilità, da una società occidentale che ha raggiunto un benessere economico importante sia in Europa che negli Stati Uniti. Contemporaneamente, il periodo di formazione della persona si allunga nel tempo, dando luogo ad una prolungazione della vita da studenti. La generazione che esce dall’adolescenza nel periodo del ’68 non ha conosciuto le difficoltà delle generazioni precedenti. C’è una ribellione generalizzata contro tutto ciò che è precedente, contro tutto ciò che appare vecchio e tradizionale. Chi di noi ricorda la prima gioventù, o ha figli adolescenti, conosce il significato di tutto questo. Il ’68 rappresenta una grande esplosione di gioventù, con tutto il fascino di ciò che è giovanile, ma anche con l’irresponsabilità e la mancanza di maturità che ne conseguono. Per questo motivo, l’eredità del ’68 è in un certo senso il lascito dell’irresponsabilità. A dimostrazione di ciò, dobbiamo essere realisti, i contraddittori e gli slogan hanno in comune la mancanza di responsabilità.
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Il problema è che non si può inventare il mondo in ogni generazione. E che la cultura e la civiltà avanzano quando migliora l’eredità delle generazioni precedenti. Non conviene nemmeno dimenticare che la responsabilità è precisamente l’altra faccia della libertà umana: caratteristica irrinunciabile, che caratterizza la nostra condizione di uomini. Il ’68 ha avuto anche nefaste conseguenze nell’insegnamento e nell’educazione. Se la libertà e l’individualità della persona non possono essere dissociate, il rispetto per la tradizione è un requisito indispensabile par aumentare la conoscenza. L’improvvisazione, la frivolezza e la spontaneità non possono mai sostituire lo sforzo e il lavoro. Molte persone hanno visto i loro sforzi pregiudicati dalla creazione di questo mito. Dietro questa immagine idilliaca dei giovani, che secondo la propaganda dell’epoca erano cosi realisti, perché chiedevano l’impossibile, in realtà c’era un’operazione - molto intelligente - per catturare simpatizzanti alla causa del comunismo. Si verificò una grande mutazione che permise di vendere come moralmente superiore qualsiasi ideologia contraria alla libertà e al liberalismo. E si verificò una incomprensibile perdita dei valori che permise, per esempio, di interpretare come romantici e rivoluzionari gli omicidi dei gruppi terroristici che nacquero in quegli anni. Come scrisse Revel, l’obiettivo di questa macchina propagandistica era quello di
proiettare verso l’esterno un’immagine abbellita dei paesi socialisti, di ingannare i paesi non comunisti sull’intenzione reale della politica estera comunista. E mascherare come lotta per la pace i suoi veri propositi. Bisogna ammettere che i propagandisti del ’68 non fallirono del tutto. Il regime comunista che li stimolava sparì, almeno in Europa, con il crollo del “muro della vergogna”, ma la sua scommessa nichilita proseguì senza sosta. Dal ’68, per esempio, ci trasciniamo l’eredità di un anti-americanismo tanto irrazionale quanto sviscerato. Inoltre, non abbiamo recuperato la perdita di autorità dei professori nelle scuole, né il prestigio dello studio come via di progresso personale e sociale. Il ’68 ha minato la qualità del nostro sistema educativo e, ancora oggi, non siamo siamo riusciti a correggere l’errore che facciamo quando neghiamo il binomio
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La violenza non fu solo causata dai giovani. Basta pensare alle terribili dichiarazioni di Sartre o al fatto che un terrorista sanguinario come Che Guevara è ancora considerato un mito
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libertà-responsabilità. E’proprio questo binomio che ci rende persone, che ci permette di evitare la perversione di trasformare in banale la violenza. Proprio come accadde nel ’68, quando una nuova sinistra radicale e infantile, composta soprattutto da piccoli gruppi marginali, si vantava di voler esportare la rivoluzione comunista in ogni angolo del mondo.
Sia l’Italia che la Spagna, come anche altri paesi europei, hanno sofferto la crudeltà di questa ondata di violenza brutale e gratuita. Purtroppo in Spagna continuiamo a soffrire la minaccia organizzata di questo fenomeno. L’elogio alla violenza, però, non si appoggiò soltanto sull’irresponsabilità giovanile, ma ebbe anche l’appoggio imprescindibile di una casta di intellettuali che avevano a capo personaggi come Jean Paul Sartre. È terribile ricordare dichiarazioni di Sartre come questa: «Un regime rivoluzionario deve liberarsi di un certo numero di individui che lo minacciano e non vedo nessun altro mezzo se non la morte. Dal carcere si puo sempre uscire, i rivoluzionari del ’73 sicuramente non uccisero abbastanza». Vi propongo l’esempio di un altro mito del ’68, Ernesto Che Guevara, che continua ancora ad essere un icona di progressismo, mentre invece è stato un sanguinario terrorista. Che Guevara scriveva alla sua fidanzata dalla Bolivia e le confessava che aveva letteralmente «sete di sangue». Ebbene,
questo pericoloso paranoico continua ad essere visto come un romantico rivoluzionario. Si potrebbe continuare con altri personaggi, come Mao. Abbiamo visto nelle capitali europee gente con capelli alla Mao e magliette che lo raffiguravano. Riuscite ad immaginare magliette con il volto di Hitler? Non credo! Questo dimostra fino a che punto i sessantottini trionfarono nella divulgazione del loro pensiero.
Il ’68 segnò anche il culmine del relativismo. Il «tutto vale» conduce anche al «tutto è uguale». Fare di questa dittatura del relativismo, come la denominò il cardinale Ratzinger, l’equivalente e il paradigma della tolleranza, è un’altra delle eredità del ’68. E’ proprio qui che vedo l’origine della “fallacia”del multiculturalismo, quella perversione che porta a coniugare i diritti fondamentali della persona con luogo di nascita, la sua origine, la sua religione. E’ il relativismo che porta a considerare i diritti delle donne come degni di rispetto, ad eccezione che per le donne che vivono in un regime teocratico. La cosa peggiore tra le eredità lasciate dal ’68 è il disprezzo dei valori occidentali e della loro universalità. E la cosa migliore che si può dire del ’68 è che sia finalmente passato, perché la sua è stata un’eredità pesante, piena di conseguenze negative. Una delle migliori notizie degli ultimi tempi è stata proprio quella di ascoltare il presidente francese, il mio amico Nicolas Sarkozy, dare per superata l’eredità del ’68. Ritengo che questo sia un dato estremamente importante, perché ci fa capire che una società come quella francese ha deciso di recuperare l’idea che lo sforzo e il merito sono gli strumenti per recuperare il futuro, che esistono valori che meritano di essere difesi. Il sistema politico migliore è quello che rispetta i diritti e le libertà fondamentali, perché le libertà non sono negoziabili. Io credo che dobbiamo essere fieri dei nostri valori e dei nostri principi e dobbiamo difenderli con orgoglio. Sono sopravvissuti ai totalitarismi del XX secolo e al virus del relativismo che si propagò in Europa quarant’anni fa. L’unico vero antidoto per questo virus è la libertà.
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pensieri
L’INTERVENTO
Le ragioni profonde del fallimento di un’alleanza politica
L’ambientalismo dopo la sinistra di Giannozzo Pucci arlo Ripa di Meana (su liberal del 24 gennaio) fa bene a riconoscere il fallimento dell’alleanza fra i verdi italiani e la sinistra. Che fosse un’alleanza obbligata fu chiaro fin dall’inizio. Nel 1985, quando i verdi fiorentini, forti di un 3,1% alla prima esperienza elettorale in comune, diventarono essenziali per il pentapartito e presero in esame l’ipotesi di andare al governo, furono aspramente condannati non solo dalla sinistra ma da quasi tutte le associazioni ambientaliste, Wwf e Italia Nostra comprese, che tirarono un sospiro di sollievo quando l’ipotesi sfumò. Nonostante questa libertà vigilata, per cinque anni la Federazione delle liste verdi sperimentò una varietà di soluzioni. Emersero parole d’ordine come “al di là della destra e della sinistra” in cui facevano capolino novità epocali. La nascita nel 1990 dei Verdi attuali con la cancellazione delle autonomie comunali, rappresentò la fine dell’epoca creativa e il ritorno al partito. Ancora una volta, come è avve-
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nuto regolarmente per tutti i movimenti dal ‘68 in poi, le organizzazioni e ideologie della sinistra erano riuscite a forzare le nuove istanze nell’imbuto del vecchio galateo politico. In questo caso però addomesticare i verdi non poteva corrispondere
Ormai nessuna delle emergenze, a cominciare dai rifiuti, potrà più essere governata solo con gli strumenti della delega ad eliminare i problemi ambientali che li avevano generati. Il tema ineludibile è che, come ha dimostrato ripetutamente nei suoi libri Massimo Fini, le ideologie ottocentesche sia di destra che di sinistra, fondate tutte sull’industrializzazione, sulla sostituzione della natura con la tecnologia, sulla crescita, sono vecchie e inservibili per affrontare le emergenze da loro stesse prodotte.
Dal 1990 il pensiero degli ecologisti ha continuato a maturare, come testimoniano i libri di Aldo Sacchetti, la pubbli-
ualche tempo fa Geminello Alvi, commentando i sondaggi favorevoli al centro-destra, esortava a qualche prudenza notando che “la Repubblica è proprietà della sinistra” che ne penetra le fibre morali e culturali ciò che, in certi momenti, le asssicura vantaggi non in grado di rovesciare un risultato elettorale, ma da renderlo meno scontato. Le vicende politiche delle ultime settimane, e di questi giorni, costituiscono una conferma della tesi di Alvi. Intanto la sinistra, in ciò unita, è riuscita a imporre al mondo politico, ai media, a una parte della pubblica opinione, una sorta di verità assoluta, di dogma così concepito: la pessima prova del governo Prodi, e la sua fine ingloriosa, non sono dovuti alla eterogeneità della coalizione, concepita allo scopo di far spazio in essa alle posizioni più radicali, e alle frange più minoritarie, alle quali si è finito per affidare un potere di ricatto. No, il fallimento prodiano è la conseguenza di una legge elettorale pessima, aggiungendo il corollario che qualsiasi governo, eletto con quella legge sarà destinato alla stessa fine. Questo assioma, ripetuto all’infinito, ha finito per dominare il dibattito seguito alla caduta di Prodi. Dimenticando, fra l’altro, che il suo governo, di quella pessima legge si è giovato larga-
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cazione in Italia di numerosi volumi dell’Ecologist e l’ampliamento della riflessione anche nel mondo religioso, si veda la recente uscita degli interventi del patriarca ortodosso di Costantinopoli: “Grazia cosmica umile preghiera”.
Le religioni, i popoli indigeni, il cristianesimo e il buddismo hanno una concezione partecipativa e complessa della natura, contenuta in un’etica che, al contrario del consumismo, spinge a governare i desideri, non a moltiplicarli. È in consonanza con queste ispirazioni che sta crescendo in Italia una più matura versione dell’ambientalismo, il “movimento per la decrescita felice”, che ispirato da Maurizio Pallante sta apprestando le sue caravelle per lasciare l’America del consumismo, della massima libertà per gli immensi capitali e degli
infiniti vincoli per i piccoli produttori e tornare a un’altra felicità quella della casa europea, della stabilità, dell’alimentazione locale, dell’autoproduzione energetica rinnovabile e di un’economia fondata sulla libertà per i piccoli contadini e artigiani e la protezione dei beni comuni.
Invece il modo di pensare dei verdi italiani è stato dominato da una concezione materialista della natura, cioè collaterale alle ideologie della crescita economica. I professori dell’ambientalismo scientifico si sono presentati sventolando l’illusione di una ricetta tecnologica per mantenere l’attuale tipo di benessere senza inquinare, non capendo la qualità del cambiamento epocale e quanto sia essenziale liberalizzare le economie contadine e artigiane di piccola scala. Ricordo i viaggi fatti a Roma per convincere Pecoraro Scanio, quando era presidente della Commissione agricoltura della Camera, a reintrodurre il regime di esenzione per i piccoli coltivatori e invece proprio lui ha fatto la legge che ha imposto a tutti i contadini di iscriversi alla Camera di commercio e diventare imprenditori agricoli o sparire, realizzando un programma iniziato durante il fascismo. I tradimenti da parte della sinistra del nostro patrimonio nazionale elencati da Ripa di Meana sono troppo sistematici per non essere frutto di un complesso di inferiorità nei
L’incrollabile dogma della sinistra
Passano i tempi, ma la colpa è sempre di Berlusconi di Arturo Gismondi mente conquistando con 24 mila voti di vantaggio una solida maggioranza alla Camera; e assicurandosi al Senato, con 250 mila voti a favore del centro-destra, quel microscopico vantaggio di due seggi che, assieme all’apporto dei senatori a vita, presenze a loro volta di quel possesso della Repubblica citato da Alvi, che gli ha consentito di tirare avanti per i venti mesi di sua vita. La coda penosa della esplorazione affidata a Marini, ripetizione dei riti della Prima Repubblica, è il prodotto di una storia della quale la sinistra ha finito con l’essere l’erede diretta e incontrastata. Il discorso, il dogma, possono avere una influenza politica essendo tradotti, da molti osservatori,
confronti del capitale finanziario. La destra e la sinistra nell’economia industriale hanno fatto ciascuna la sua parte nella distruzione dell’ambiente. I partiti di sinistra sono macchine perfette all’opposizione, con tecniche collaudate per suscitare, indirizzare e controllare la protesta, ma quando passano a governare si convertono al mondo degli affari, non a quello più attento ai valori delle cose, come ad esempio le iniziative del Principe di Galles, bensì al più cinico, becero, dozzinale, coi dollari al posto degli occhi. È come se avessero vinto alla lotteria e si atteggiassero da miliardari col sigaro in bocca. L’ideologia consente il tradimento dei capi perchè produce un’immensa capacità di sopportazione nelle masse. Nelle regioni rosse si ha l’impressione che se i partiti di sinistra mettessero al primo punto del loro programma “bruciare la casa a ciascuno dei loro elettori”continuerebbero a prendere gli stessi voti. Invece ormai nessuna delle emergenze ambientali, a cominciare dai rifiuti, potrà più essere governata solo con gli strumenti della delega anche se si tornasse al proporzionale puro, il più alto sistema della democrazia rappresentativa all’italiana: occorre organizzarsi come persone, famiglie, comunità, attività economiche per contribuire a quegli straordinari cambiamenti in grado di provocare e sostenere sul lungo periodo le politiche inedite necessarie.
al modo seguente: chi cerca di posticipare lo scioglimento delle Camere alla riforma della legge elettorale non lo fa per il timore di una sconfitta data per certa ma perché preoccupato degli interessi nazionali; chi chiede il voto in tempi ravvicinati esprime invece un gretto interesse dimentico dei guai che possono venire al Paese da una ingovernabilità data per certa, e permanente come sappiamo. Un commentatore apprezzato, una volta, per la sua arguzia, Giovanni Sartori, afferma che Veltroni e Berlusconi, esprimono ambedue un interesse politico. Ma il primo lo riscatta ispirandosi al bene della Patria, il secondo lo immiserisce perché guidato solo da sete di potere. Tutto ciò può avere un suo peso politico. Poiché se il Cavaliere ha imposto una campagna elettorale guidato solo da interessi personali, dimentico di quelli del Paese, dei tempi che viviamo, sua sarà la responsabilità per quel che può succedere: se cade la Borsa, se in qualche parte del mondo capita qualcosa che può riguardarci alla lontana, quasiché il governo defunto, o quello che Marini non è riuscito a costituire, avessero potuto farci qualcosa. Di questo si parla a Montecitorio, e alla sera nei ristoranti vicini fra parlamentari e giornalisti amici, che hanno l’aria di affinare le unghie.
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parole
ROMA. Un milione di incidenti sul lavoro all’anno e più di mille morti. Una drammatica emergenza che vede l’Italia precipitare all’ultimo posto nella classifica europea. La denuncia contenuta nel secondo rapporto dell’Anmil, l’Associazione dei mutilati ed invalidi del lavoro, racconta di un Paese che stenta più di altri a porre un limite a questo stillicidio: in dieci anni gli incidenti mortali sono diminuiti del 25,49 per cento, contro il 48, 3 per cento della Germania e il 33,64 della Spagna. Il problema, avverte Savino Pezzotta, sono le troppe leggi inapplicate e le tutele negate. Tra le omissioni più gravi, il portavoce del Family day ed ex segretario della Cisl vede, nelle aziende, una carenza di formazione dedicata specificamente al tema della sicurezza. Ieri è arrivata una nuova terribile conferma dell’emergenza: un operaio di 54 anni è morto in una carpenteria di Ferrara, schiacciato dal muletto che stava riparando. E a Collegno, non lontano da quella Torino che ha vissuto la tragedia della Thyssenkrupp, due addetti sono rimasti feriti dall’esplosione di un forno in una fabbrica di metalli. Intanto bisognerebbe cominciare a fare controlli più capillari, forse. «Credo di sì, ma non penso che si possa risolvere tutto con i controlli. Probabilmente occorre anche che vi sia una diversa attenzione all’organizzazione del lavoro, a come i ritmi sono aumentati visto che purtroppo non sempre all’aumento di produzione corrisponde un adeguata preparazione degli operatori. Da questo punto di vista credo che una strategia antinfortunistica non può essere limitata alla fase repressiva, serve anche una fase preventiva con tanto di formazione, di preparazione, e di messa in sicurezza della persona». Ma un sindacato che sciopera per i redditi non dovrebbe fare lo stesso sulla sicurezza? «Certo fare uno sciopero di protesta sulla sicurezza sarebbe estremamente utile. Quello che servirebbe è un processo di concertazione tra sindacato e imprese per tutta la parte preventiva e partecipativa dei lavoratori in modo da evitare che avvengano determinati incidenti. A questo proposito credo che Cgil, Cisl e Uil dovrebbero fare qualcosa di più su questo terreno per mantenere viva la tensione in mezzo ai lavoratori. A Torino ad esempio dopo l’incidente alla Thyssenkrupp scioperi e manifestazioni ci sono stati ma forse una iniziativa un po’ più eclatante sarebbe stata utile». Nonostante il Parlamento abbia da poco approvato una nuova normativa continuiamo ad avere statistiche più preoccupanti rispetto agli altri Paesi europei. Perché? «L’Italia fatica più degli altri perché i nostri settori probabilmente sono più deboli. Alla Thyssenkrupp ad esempio c’era un’intera area in via di smantellamento, dunque con un’attenzione sicuramente minore a quella che è la capacità di introdurre elementi di garanzia e di protezione per i lavoratori. Dentro il problema degli infortuni c’è anche il segno di alcuni elementi di arretratezza. Bisogna far caso a un aspetto: questi in-
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Pezzotta chiede una svolta: «Servono lezioni di sicurezza nelle aziende o L’INCUBO delle morti bianche continuerà» di Cristiano Bucchi
Il portavoce del Family day nota una «perdita del senso della vita umana anche nelle imprese: ripartiamo dalla formazione» cidenti non avvengono nei settori ad alta innovazione. Questo significa che c’è una relazione tra alta innovazione e sicurezza sul lavoro. Un altro punto riguarda poi i ritmi competitivi tra le imprese che alla fine mettono a rischio la sicurezza dei lavoratori». Sarebbe opportuno promuovere iniziative informative e formative che sviluppino una maggiore attenzione alla prevenzione? «Credo che questo sia indispensabile. Maggiori iniziative formative e informative e maggiore attenzione a questo tipo di dimensione. Quello che ripeto da diverso tempo è che non serve solo repressione ma anche e soprattutto prevenzione». Molto spesso ci troviamo davanti aziende che ogni tre o quattro anni ristrutturano e riducono costi e investimenti. Si può dire che c’è stato un calo di tensione da parte del sindacato sul tema della sicurezza?
«Non so se stiano effettivamente così le cose. Ci sono zone della nostra penisola dove il sindacato è accusato di essere estremamente rigido nell’applicazione della legge 626, altre dove si lamenta poca attenzione. Per quella che è stata la mia esperienza alla guida della Cisl ricordo che il tema della sicurezza e della salute sul lavoro è sempre stato uno dei temi all’ordine del giorno. Penso che forse chi deve lavorare di più su questo è l’impresa visto che il lavoratore vive dentro l’impresa. Credo che questo sia un elemento decisivo da chiamare in causa, senza manicheismi o classismi che non servono a niente. A questo proposito sono convinto che se nella dimensione di impresa si introducessero elementi partecipativi un po’ più cogenti probabilmente anche il terreno della sicurezza diventerebbe un elemento più condiviso». Secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) circa l’80 per cento degli infortuni e delle morti bianche potrebbe essere prevenuto se tutti gli Stati membri ricorressero alle migliori e più comuni strategie di prevenzione e sicurezza. È d’accordo? «Credo che l’Oil sia uno degli organismi internazionali che lavora con grande at-
tenzione sulla sicurezza, sulla tutela del lavoro ma anche sui temi dei diritti, dando indicazioni molto precise e molto puntuali». Insomma, in Italia servirebbero più ispettori o più denunce? «Direi che da noi servirebbero un po’ di ispettori, qualche denuncia in più e soprattutto una strumentazione di prevenzione. Quello che bisognerebbe riuscire a far passare nel nostro modello produttivo è che si lavora per vivere e non per morire. Questo però fa parte di un ragionamento più complesso che oggi attraversa la nostra società in cui il rispetto della vita in tutte le sue forme sembra attenuarsi. C’è sotto una visione antropologica che andrebbe recuperata, e che dovrebbe riproporre la centralità della persona come elemento orientativo e interpretativo delle situazioni». Un tema quello della sicurezza sul lavoro che magari dovrebbe essere recuperato con forza in occasione della prossima campagna elettorale. «Penso che questo sia un tema decisivo, e credo che tutti quelli che parteciperanno alle prossime elezioni dovranno pronunciarsi su questo molto chiaramente. È necessario che il tema sia inserito in un contesto più ampio. Il problema vero è la valorizzazione del lavoro in tutti i suoi aspetti dentro i quali c’è anche la salvaguardia della vita dentro la dimensione lavorativa».
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mondo
L’irriverente penna del politologo Usa per una lettura che non fa sconti a nessuno
America 2008. Istruzioni per l’uso con una lettera aperta all’Europa di P.J. O’Rourke ’America è nel bel mezzo della sua più importante campagna elettorale. Ma parlando con gli europei ho capito che il Vecchio Continente non ha ancora ben capito come funzionano le cose da noi. Una confusione comprensibile, alla luce di un sistema politico con due Camere e una Casa Bianca. Ai vostri occhi, poi, i partiti politici nostrani devono risultare indistinguibili. Un giornalista inglese una volta sentenziò «l’America è un Paese monopoartitico, ma siccome gli piace avere due di tutto, ne hanno fatti due». Francamente non ricordo chi lo scrisse, i giornalisti inglesi sono talmente tanti che è facile dimenticarli. Ma direi che era Alexander Cockburn. Farò chiarezza: la differenza fra i partiti americani è semplice. I democratici sono a favore di una forte tassazione che finanzi la spesa pubblica, mentre i repubblicani promuovono una forte spesa pubblica a carico dei contribuenti. In politica estera, i repubblicani vogliono proseguire la guerra in Iraq, ma con il minimo sforzo in termini di truppe. I democratici in-
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vece desiderano porre fine alla guerra, ma non sanno quando. E si limitano a una promessa da liceale alla prima esperienza sessuale: «Giuro che al momento giusto andrà tutto ok». Ma sono due i punti della nostra politica che possono sembrarvi paradossali: la razza e la religione. Voi, naturalmente, non avete alcuna religione. Fatta eccezione per quei musulma-
sibile in due categorie: quelli che pensano che sia tu a dover credere in Gesù e quelli che credono che sia Gesù a dover credere in te. Mike Huckabee appartiene alla seconda categoria. Poi ci sono i mormoni come Mitt Romney che si affidano a concetti stravaganti, idee a cui europei poco sensibili, come Jean-Paul Sartre, Martin Heidegger, Benito Mussolini,
Il Super Tuesday è ormai alle spalle, ma gli americani continueranno a non trovare il Vecchio Continente sulla cartina geografica ni che saltuariamente arrivano in Europa e si fanno saltare in aria. Ma capisco che sia nelle vostre corde dedicarvi maggiormente a temi sociali, aiutando gli islamici a costruire bombe meno inquinanti e a basso tasso di monossido di carbonio, riducendo così il rischio del riscaldamento globale. Dopo gli orrori del XX secolo è molto probabile che Dio abbia lasciato l’Europa, ma certamente è ancora di casa negli Stati Uniti. La maggioranza degli americani è cristiana e divi-
Karl Marx, Emanuel Swedenborg o Cherie Blair, non potrebbero mai credere. Il problema razziale, in America, si suppone sia qualcosa che riguardi l’aspetto di una persona. Ma è difficile comprendere come una lobby ”etnica” che va da Al Sharpton ad Halle Berry possa basarsi sull’aspetto. Barack Obama sembra cresciuto alle Hawaii. Ha il giusto tocco d’abbronzatura. Ora, il numero dei candidati alle presidenziali varia con il passare dei giorni e delle notti. Essendo un repubblicano, sosten-
go Hillary Clinton. Perché potrebbe perdere. Non perché è donna, ma perché appartiene a quella particolare categoria di donne che ogni americano non solo ha incontrato come insegnante al liceo, ma avrebbe ucciso volentieri. Hillary è Lucy che toglie il pallone da sotto i piedi di Charlie Brown. Hillary Clinton è la «ex moglie» d’America. Uno può essere democratico fino al midollo, andare alle urne convinto di votare l’asinello e poi, alla vista del nome di Hillary, crollare. Vedendo scorrere tutta la propria vita davanti agli occhi, come in un film. Il primo matrimonio, quella volta che era rientrato tardi a casa, prima di mezzanotte, dopo aver trangugiato solo quattro o cinque birre, e lei che ti butta il pallone da bowling nella spazzatura. Diciamolo, i repubblicani non dovrebbero faticare a trovare un candidato capace di battere la Clinton. Non si può mai dire, però. Come biasimarli dopo la sconfitta di Bob Dole contro Clinton nel 1996? Al momento, il favorito repubblicano sembra essere McCain. Tutti amano John.Tutti rispetta-
no John. È un duro. È tutto d’un pezzo. Ma è sbagliato. I nostri elettori lo sanno. Ma voi europei non lo avete ancora capito. John pensa che la guerra in Iraq sia una buona idea. L’elettorato no. Lo slogan della sua campagna elettorale dovrebbe essere “Strong and Wrong”. Mitt Romney è un vero conservatore e avrebbe le carte in regola per essere il mio candidato ideale. Però è stato governatore del Massachusetts e mutatis mutandi equivale a candidarsi al Soglio pontificio avendo un background da rabbino capo di Gerusalemme. Ma Romney è anche il “candidato delle aziende”, che promette di portare l’efficienza e il rigore fiscale dell’America imprenditoriale fin dentro Washington. Ma siamo nel mezzo di un collasso creditizio globale e le bolle delle equity stanno scoppiando. Vi sembra il momento di eleggere un saggio del mercato? Mike Huckabee ha perso buona parte del suo sostegno cristiano-fondamentalista quando la congrega della Bible Belt ha capito che solo McCain era l’unico in grado di trattare con quei cialtroni dei predicatori
mondo evangelici. Non dimentichiamoci di Ron Paul - praticamente una star - che tiene in piedi frotte di persone convincendole che la commissione trilaterale sia la causa del crollo dei subprime. C’è poi il problema dell’aborto. Diciamo che se un candidato vuol prender voti è meglio che non si schieri in campagne a favore o contro. Basta che promuova l’aborto retroattivo. Se un bambino raggiunge i 25 anni ed è ancora senza arte né parte, all’europea per intenderci (senza offesa), allora: zac! sia eliminato. E veniamo al campo democratico, Barack Obama potrebbe cambiare la nostra equazione politica nazionale. È il segno tangibile non solo del traguardo raggiunto in termini di parità razziale ma anche del suo superamento. Perché da oggi negli Usa essere belli è più importante che essere bianchi. Barack Obama è bello e affabile. Un connubio che non si vedeva da tempo. Rudy Giuliani non era affabile. Bill Clinton non era bello. Certo, Obama non ha ancora una grande caratura politica, ma non bisogna tralasciare il fattore Disney. Pensate ai politici americani come ai sette nani. Sono tutti “corti”: a corto di etica, di esperienza, di senso comune, insomma a corto di qualcosa. Ciononostante continuiamo a pensare che uno dei nani verrà a salvare la nostra Biancaneve. Abbiamo appena avuto Gongolo. Ci siamo beccati Eolo e prima di lui Brontolo che perse nel 2004. Pisolo è stato grande negli anni Ottanta, ma è morto. Che dire di Obama? Chi altro hanno i democratici? Ah bè, il Nobel per la pace Al Gore. Posso chiedere a voi europei se i vostri norvegesi sono dei pazzi? Ma che cosa c’entra il Nobel per la pace col riscaldamento globale? Io cerco di condurre uno stile di vita a emissioni zero, ho abbandonato anche i sigari. E penso che Al Gore dovrebbe smettere di gettare tutto questo fumo sull’arrosto. Altri democratici in giro non ci sono o si sono ritirati dalla corsa. Resta dunque solo Hillary Clinton, quella che riformerà il sistema sanitario americano. Memo: la Clinton lo ha già riformato 15 anni fa rischiando di far saltare il primo mandato del marito. E poi Bill si è dato da fare con un’altra per mandare a gambe all’aria il secondo. Comunque vada, è importante che gli europei stiano tranquilli: l’americano medio non cambierà la maniera in cui sente l’Europa. Continueranno a non sapere dove si trova sulla carta geografica.
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Ciad e Sudan, si allarga il baratro tra ex alleati
Quel nuovo limes tra Washington e Pechino di Raffaele Cazzola Hofmann a risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a sostegno del presidente del Ciad, Idriss Deby, che si trova sotto attacco da quasi una settimana, ha internazionalizzato la crisi in corso nel Paese africano dove le truppe ribelli assediano la capitale N’Djamena in una continua e snervante altalena di offensive e ritirate strategiche. Nella sola giornata di ieri sono intervenuti sia la Francia che gli Stati Uniti. Nicolas Sarkozy, che sostiene il governo di Deby, legato da solidissimi interessi politici ed economici all’ex potenza coloniale, riferendosi alle accuse in tal senso da parte dei portavoce ribelli ha detto che «i militari francesi non sono lì per combattere contro nessuno». Ma ha aggiunto che «se la Francia deve fare il suo dovere, lo farà». La Casa Bianca ha annunciato di aver «fornito risorse ed equipaggiamenti nel Paese» chiedendo «alle altre nazioni di fare lo stesso». L’intervento dei governi extra-africani dovrebbe avere l’effetto di far affluire in Ciad aiuti umanitari ai circa ventimila civili in fuga verso il Camerun. Ma difficilmente potrà risolvere la vera causa della crisi: il conflitto ormai insanabile tra lo stesso Ciad e il Sudan. Per Deby, infatti, «è una certezza assoluta che i raid nel nostro territorio siano guidati dai Janjaweed». Ovvero dai guerriglieri che il governo sudanese utilizza per mettere a ferro e fuoco il vicino Darfur. Dal 2005 il governo del Ciad attacca il presidente sudanese Omar al-Bashir con accuse di ogni genere: da quella di cospirazione per farlo cadere e piazzare un regime-fantoccio a N’Djamena a quella di volersi impossessare del Ciad per poter mandare via i campi profughi dell’Onu che accolgono decine di migliaia di rifugiati dal Darfur. I legami tra i ribelli che hanno assaltato N’Djamena e il Sudan è abbastanza chiaro perchè il grosso di queste forze è entrato in Ciad proprio dal Paese confinante. Eppure Idriss Deby si impossessò del Ciad nel 1990 con un golpe proprio grazie al dichiarato sostegno
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del presidente sudanese Omar el-Bashir che, insieme a Muahmmar Gheddafi, è stato poi per lungo tempo un suo grande alleato. Il Sudan voleva essere sicuro di mettere sul ponte di comando del Paese vicino, dove già allora fiorivano i primi giacimenti petroliferi, un alleato fedele. Ma le cose sono andate diversamente. Nella corsa al petrolio del Ciad, infatti, il Sudan è stato battuto sul tempo dall’Occidente: gli Stati Uniti hanno avviato le trivellazioni e la Banca Mondiale, accusata dai nemici degli Usa di essere una succursale della Casa Bianca, ha finanziato l’oleodotto verso il Camerun la cui messa in funzione ha dato al Ciad nuove risorse finanziarie. Sul piano politico, dalla metà degli anni Novanta in poi la diverse strade scelte da Ciad e Sudan sulla scena internazionale hanno allargato il baratro tra ex alleati. Il Sudan ha ospitato Osama Bin Laden, è stato bombardato dai caccia americani dopo i sanguinosi attentati alle ambasciate Usa in Africa nel 1998, ha aderito alla linea dura contro Israele, è stato accusato di voler «coltivare» l’atomica. In poche parole, è diventato un «Paese canaglia» per eccellenza. E come se non bastasse ha stretto un patto petrolifero di ferro con la Cina spingendo fuori dai suoi confini le compagnie occidentali. Invece il Ciad, nonostante l’autoritarismo di Deby, si è allineato all’Occidente. Sul piano politico, pur non avendo relazioni diplomatiche, ha avviato contatti con Israele. A differenza di molti altri Paesi africani francofoni che si sono smarcati dalla vecchia potenza coloniale preferendole l’abbraccio con la Cina, il Ciad è rimasto nella sfera d’influenza della Francia di cui ospita un robusto contingente militare. Sul piano economico, mentre ai suoi confini orientali la Cina ha quasi il monopolio del petrolio sudanese, il Ciad ha accolto i capitali delle grandi compagnie americane con cui gli emissari di Pechino inviati alla corte di Deby devono combattere per non farsi sopraffare.
Deby: è una certezza assoluta che i raid nel nostro territorio siano guidati dai Janjaweed
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Raid areo su Gaza Un missile lanciato da un aereo israeliano nel sud della Striscia di Gaza ha ucciso sei militanti di Hamas, come riferito da fonti palestinesi. Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato il raid compiuto contro una stazione di polizia di Hamas a Khan Yunis in risposta al lancio di missili Qassam sulla città di Sderot.
No a Chavez dal Perù «Chavez ha tutto il diritto di fare come crede in Venezuela, in una democrazia a bassa intensità, ma non ha alcun diritto di esportare la sua rivoluzione». Lo ha affermato il ministro della Difesa peruviano, Antero Flores Araoz, dopo alcune manifestazioni pro Chavez nel Paese andino.
Bilancio sanità Usa Nonostante il budget record di oltre 3mila miliardi di dollari, gli esperti Usa della sanità non risparmiano critiche all’aministrazione Bush. I tagli attuati dal governo federale avranno un impatto «disastroso» sul sistema sanitario nazionale. Numerose le associazioni di categorie che hanno espresso timori e preoccupazioni per la salute degli americani.
Clero anglicano e unioni gay Uno dei maggiori esponenti del clero anglicano, il vescovo di Liverpool, James Jones, in un libro pubblicato ieri ha riconosciuto per la prima volta le unioni omosessuali. Nel testo, infatti, il reverendo Jones sottolinea come la Bibbia ammetta le relazioni omosessuali, citando l’esempio di Gesù e del suo discepolo Giovanni e di Davide e Gionata.
Tre genitori per un embrione Un embrione umano, sarebbe nato da tre genitori. La notizia della sperimentazione in laboratorio è stato dato da un’équipe inglese dell’Università di Newcastle. Si spera in questa maniera di ottenere cure efficaci per una serie di malattie ereditarie gravi.
Uribe contro le Farc La Colombia è stata paralizzato ieri da decine di manifestazioni, a cui hanno partecipato milioni di dimostranti, per protestare contro i sequestri dei guerriglieri delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) e per chiedere la liberazione degli oltre 700 ostaggi nelle loro mani. La gente sostiene la linea dura contro le Farc del presidente Uribe. Altre decine di migliaia di persone in tutto il mondo hanno aderito alla manifestazione colombiana su internet.
Mea culpa francese per Libano Il ministro francese degli Esteri, Bernard Kouchner, ha lasciato intendere che il segretario generale dell’Eliseo (sede della presidenza della Repubblica, ndr), Claude Guéant, ed il suo entourage siano responsabili del fiasco di Parigi nelle trattative con Siria e Libano per risolvere la crisi istituzionale nel Paese dei Cedri e riconciliare le diverse fazioni.
Turchia: oggi primo voto su velo La reintroduzione della libertà di velo ha scatenato le proteste della Turchia laica. I rettori di molte università hanno firmato un documento dove dichiarano come la legge sul velo sia un atto contro la democrazia e la laicità dello Stato. Centomila donne sono scese in piazza ad Ankara, sabato scorso. Il secondo passaggio parlamentare avverrà sabato prossimo.
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AFFARI ESTERI
Occidente
INTELLETTUALI, SIAMO SOLO DEI POST-IT Colloquio con André Glucksmann di Luisa Arezzo a Cecenia, il Darfur, la guerra al terrore, ma anche il Kenya, il Ruanda e le sue ferite, i Balcani. Non ha frontiere la filosofia “militante”di André Glucksmann contro le voragini che continuano ad aprirsi nel mondo. Non conosce sosta la sua denuncia «alle coscienze di tutti» sui pericoli che corre l’uomo nel suo impegno a ignorare - consapevolmente - l’orrore che lo circonda. Si rifiuta di ragionare secondo la logica delle battaglie perse, perché vuole conservare quella «fiducia» che alimenta «non solo» il suo ragionare, ma anche quella particolare pervicacia a contrastare l’indifferenza umana. Per lui gli intellettuali sono un semplice strumento e in questi ultimi anni stanno moltiplicando
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le loro voci contro le cosiddette cause perse su cui rischia di capitolare il mondo del Ventunesimo secolo. Gli intellettuali, per l’ex nouveau philosophe francese, possono ancora assolvere ad uno dei loro mandati più importanti, risvegliare le coscienze, ma con un distinguo epocale rispetto al passato. Da fustigatori delle coscienze sono diventati dei semplici post-it. Ecco come: «Il panorama si è allargato e agli intellettuali si sono aggiunte altre voci, altre denunce: penso agli scrittori, alle top model, agli attori di Hollywood. In tanti prendono ormai posizione su il buco dell’ozono piuttosto che sul protocollo di Kyoto o l’inquinamento di ossido di carbonio delle città. Certo, alcuni lo fanno con impegno sincero rispetto ad altri,
ma è innegabile che il canto solista sia ormai diventato un coro». Ma questi sono temi “altri” rispetto alle sue battaglie. Qui non si parla di Cecenia o Kenya. Sta forse suggerendo che gli intellettuali siano in parte rimpiazzati da voci mediaticamente più pesanti ma intellettualmente più leggere? Non credo ci sia una differenza radicale fra gli intelletuali che scrivono libri o la gente di spettacolo che sceglie di salire su un palco davanti ad una telecamera. Simone Signoret era un’attrice e aveva amici come Focoult e me. Per lei eravamo solo dei post-it. Aveva ragione. Il nostro compito è ricordare alla gente ciò che non vuole ricordare. Siamo i “memo” contro la rimozione.
Un giovanissimo André Glucksmann in mezzo a Jean-Paul Sartre e Raymond Aron. Per il filosofo l’alleanza tra i due in favore dei boat-people vietnamiti aprì gli occhi al movimento studentesco. In apertura il presidente russo Vladimir Putin. In alto a destra un’immagine dello tsunami del 2006 e lo sguardo desolato dei bambini in Ruanda
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Occidente
Il duro j’accuse di Glucksmann contro l’impotenza del pensiero alla deriva nichilista del pianeta Fino a ieri parlava di cecità. Ma il fatto di essere ciechi è un’attività mentale, noi ci rendiamo ciechi. Faccio un esempio: solo dopo che Sartre e Aron unificarono i loro sforzi per salvare i boat people vietnamiti il movimento politico studentesco comprese l’entità della tragedia in atto. La loro azione solidale mise fine a 25 anni di ostinazione unilaterale. Un comunista e un anticomunista sullo stesso fronte fece crollare il velo della cecità. Si è più ripetuta questa vittoria? Si. Raramente ma si. La pulizia etnica nella ex Jugoslavia ha coinvolto le energie di Giscard e Rocard. Il terrorismo islamico, che in Francia e nell’intera Europa nessuno voleva vedere a causa della nostra cattiva coscienza coloniale, ha unito destra e sinistra, risvegliando le coscienze. La morale di questo “successo” è una sola: esistono problematiche più gravi ed urgenti che le semplici divisioni fra destra e sinistra. Una coscienza civile si sta dunque formando?
No. Purtroppo no. Un altro distinguo è necessario: alcune voci si impegnano seriamente, altre perpetrano un impegno che non è altro che un modo di accecare. Una confusione non da poco. Esatto. Direi che non vi è un silenzio degli intellettuali ma una confusione fra quest’ultimi, giornalisti e star. Un gran rumore in cui tutto si annulla e che fa perdere di vista le reali emergenze. Un altro esempio: ho avuto dibattiti accesi con verdi e pacifisti tedeschi schierati contro gli esperimenti nucleari francesi. Loro gridavano per salvare un ecosistema marino ma non spendevano una parola contro la pulizia etnica di Milosevic. Eppure non è difficile capire la differenza fra dei pesci e degli uomini, fra dei coralli e della donne stuprate… La verità è che artisti, società civile e intellettuali si mobilitano facilmente davanti a uno tsunami, ma faticano a mettersi in moto davanti ai massacri di civili. Cecità o cattiva coscienza? La seconda. Lo dimostra la nostra capacità di ritornare sugli
orrori a distanza. Dopo cinquant’anni gli avvenimenti politici non mettono più sotto scacco le nostre coscienze. Pensiamo alla Shoah: dopo mezzo secolo l’umanità si affligge e rimpiange il mancato intervento delle istituzioni. Ma si tratta di un rimpianto che non altera quanto è accaduto. Per questo è più facile parlare dello sterminio degli ebrei che dell’ultimo genocidio del Diciannovesimo secolo, il massacro del Ruanda. Oppure della Cecenia. Non si osa pensare a eventi che ci mettono in discussione. Mitterand, avendo fornito aiuto agli Hutu ha delle responsabilità oggettive nel genocidio dei Tutsi, ma sollevare questo velo significa mettere in discussione un’immagine-culto per la Francia e il mondo socialista. Di più. Sia i Tutsi che gli Hutu erano cattolici. E non di recente conversione, da quasi un secolo. Il Ruanda è stato consacrato come terra di Cristo. Non sbaglio se dico che quello del 1994 è stato il primo genocidio della storia fra cattolici. Un aspetto che, in termini di crudeltà, va oltre le guer-
re di religione che ben conosciamo. I fedeli entravano nelle chiese per trovare riparo e invece i preti appiccavano il fuoco per sterminarli. Ecco perché non ci si vuole pensare. Glucksmann, lei non teme di essere definito una Cassandra ma si definisce un filosofo della speranza. Questa cecità finirà? La cecità è sempre destinata a finire. Ma con una catastrofe. L’unico modo di aprire gli occhi e quello di essere coinvolti in prima persona. Dopo il crollo del muro di Berlino, gli Stati Uniti pensavano che fosse finita l’epoca dei grandi scontri e che i conflitti si sarebbero concentrati nelle zone più periferiche del mondo. Peccato che queste periferie - ai loro occhi - fossero i Balcani, nel cuore dell’Europa. O il Ruanda, in Africa. Solo dopo l’attacco alle Torri gemelle hanno dovuto riconoscere che il crollo del Muro non significava la fine dei conflitti. Se avessero dato ascolto alle voci che si levavano dall’Europa? Se avessero dato ascolto alle Cassandre avrebbero potuto prevenire l’11 settembre. L’attacco aereo era immaginabile. Il giorno di Natale del 1997 venne fermato a Marsiglia un aereo decollato da Algeri con l’obiettivo di schiantarsi sulla Torre Eiffel. Il gesto non era una novità. Le Twin Towers erano un obiettivo sensi-
bile, di più: avevano già subito un attentato. L’Fbi sapeva che dei terroristi erano negli Usa ignorandone il perché; la Cia sapeva di mediorientali che prendevano lezioni di volo, ma non sapeva che fossero terroristi. Non sono stati capaci di fare l’addizione più semplice: uno più uno. Quale addizione non viene fatta oggi? Quella in merito alla Russia di Putin. E la colpa è soprattutto europea. Da 12 anni assistiamo al massacro dei ceceni e lo continuiamo a ritenere un problema etico morale. Sbagliato: è un problema politico. Il massacro ceceno è una tradizione russa, da Pietro il grande in poi. La colpa europea? Non aver capito di allevare la nascita di un regime autocratico e pericoloso a livello internazionale. Perché possiede il secondo armamento nucleare del mondo, la potenza energetica dominante in Europa e perché vende armi a tutti, dall’Iran al Venezuela. Senza la benché minima opposizione interna. Il pericolo russo è più forte di quello islamico? L’uno non esclude l’altro. Non sono in contrasto. I rapporti di Putin con l’Iran sono ambugui e se il Consiglio di Sicurezza Onu non riesce ad imporre sanzioni a Teheran è per il ruolo di Mosca. In realtà non credo che l’umanità sia davanti a una guerra mondiale contro l’islamismo perché il primo obiettivo del terrorismo islamico sono gli stessi musulmani. Il rischio universale è il nichilismo, l’assenza di rispetto per l’essere umano. C’è una sorta di diffusione planetaria della cultura della morte e non c’è modo di invertire la tendenza nichilista del nostro pianeta. Questa cultura chiede sangue, orrore e tragedie. Nella cecità delle coscienze stiamo percorrendo una china ma dopo, e solo dopo, la catarsi rimarginerà le ferite.
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Occidente
Può la fede in Dio portare a una società libera, democratica, aperta?
Quando la religione è dissenso
di Bernardo Cervellera a religione può essere il motore del dissenso? Può la fede in Dio portare a una società libera, democratica, aperta? È probabile che davanti a queste domande gli intellettuali di grido si tappino il naso. Tutti vediamo che dall’11 settembre la religione (islamica) è divenuta fonte di guerre e che il “conflitto delle civiltà”pesca sul sottofondo religioso delle aree culturali. Ma a ben vedere le cose, le religioni stanno dando un grande contributo per la libertà del mondo, proprio mentre gli slanci democratici e ideali vanno svanendo da ideologie e organizzazioni mondiali. Per fermarci all’Asia, negli ultimi mesi abbiamo assistito a fatti che danno da pensare. Pochi giorni fa si è concluso un braccio di ferro fra i cattolici di Hanoi e il governo della città. Era cominciato il 18 dicembre scorso con raduni di preghiera e protesta davanti al palazzo della ex nunziatura vaticana della capitale vietnamita. Il governo l’aveva requisita nel ’59 e l’aveva usata come sede per il Comitato del popolo. Da poco era stata abbandonata e “regalata”a membri del Partito che programmavano di farne un night club. Per la prima volta da vari decenni, migliaia di cattolici hanno osato organizzare manifestazioni pubbliche bivaccando notte e giorno e chiedendo il ritorno dell’edificio ai legittimi proprietari. Centinaia di poliziotti controllavano a vista la folla, riprendendo con foto e video tutti i partecipanti. Il 25 gennaio vi sono stati tafferugli e
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pestaggi contro alcuni fedeli rei di aver depositato dei fiori a una statua della Madonna nel recinto della nunziatura. Secondo informazioni giunte ad AsiaNews vi è stato anche l’ordine di inviare l’esercito a eliminare i manifestanti. Il timore di ritorsioni economiche da parte degli Stati Uniti e le preoccupazioni espresse dal papa hanno allontanato la conclusione violenta e il governo ha restituito l’edificio ad uso dei cattolici. Di questa lotta con le veglie e i rosari contro il regime vietnamita ne hanno parlato solo i media cattolici.A tutto il resto del mondo sembrava non interessare per nulla.
La scorsa estate migliaia di monaci buddisti hanno sfilato per le strade di Yangon e Mandalay nel silenzio più totale. La loro marcia era in solidarietà alla popolazione birmana, costretta ad andare a piedi al lavoro o a scuola a causa del carovita e degli aumenti dei prezzi di carburante e biglietti dell’autobus. Ma essa era anche una profonda critica al regime militare birmano, incurante della povertà del suo popolo, capace solo di sfruttare le risorse della terra e la manodopera per il proprio benessere. Le tazze per le offerte capovolte e vuote sono state una specie di scomunica per i militari, un bollare la loro cattiveria: non potendo procurarsi meriti con le elemosine ai monaci, essi sono condannati all’inferno buddista. Le manifestazioni dei monaci hanno dato
coraggio a studenti e dissidenti politici che hanno invaso le strade con slogan e cartelli. È vero che il tutto è finito ancora una volta nel sangue e nella repressione, ma la comunità internazionale ha subito un sussulto ed è tornata a interessarsi alla crisi birmana; la giunta è stata costretta a riaprire il dialogo con Aung San Suu Kyi.
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sibile le forze religiose nello sviluppo del Paese.
Il timore del Partito è proprio che le religioni incanalino il dissenso e divengano la forza propulsiva di una rivoluzione culturale e sociale. L’abisso fra ricchi e poveri, i problemi dell’inquinamento, i disagi climatici stanno sfaldando il miracolo economico
La Cina teme la saldatura tra poveri, intellettuali, dissidenti e credenti
Buona parte dell’intellighenzia europea (“di sinistra”) ha quasi ridicolizzato le manifestazioni dei monaci: “non è quella la vera rivoluzione”, hanno detto. Ma a quanto pare, il loro giudizio non è condiviso dal governo cinese che è terrorizzato che qualcosa di simile possa accadere nella Repubblica popolare, dove il buddismo è diffuso in quasi metà della popolazione. Il 18 dicembre scorso il primo incontro del nuovo Politburo di Pechino (varato dopo il Congresso del Partito nell’ottobre 2007) è stato dedicato alle religioni e al loro contributo alla società cinese. Hu Jintao ha perfino eliminato le accuse tradizionali alle religioni – oppio-del-popolo domandando ai colleghi di integrare il più pos-
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cinese. Curiosamente, aumentano nello stesso tempo i poveri, le rivolte sociali e le adesioni alle religioni, anche fra i membri del partito. La Cina teme la saldatura fra poveri, intellettuali dissidenti e religioni. È un fatto che molti dissidenti di Tiananmen sono approdati alla fede cristiana. Personalità come Gao Zhisheng, l’avvocato dei poveri; l’intellettuale Liu Xiaobo; il sindacalista Han Dongfang hanno scoperto la fede cristiana come la base del valore assoluto della persona, come la forza della loro dissidenza e della difesa dei diritti umani. In questo modo essi superano l’esperienza della dissidenza come pura rivendicazione economica e politica attesa nel futuro, basandola su una visione
ideale della vita e della società, sperimentabile da subito. D’altra parte, fino ad ora, in Cina la “dissidenza” religiosa – soprattutto fra le personalità religiose – non aveva mai raggiunto un’esplicitazione culturale e politica, richiedendo solo la libertà di culto, cioè il non intervento dello Stato negli affari spirituali delle comunità dei fedeli. I quali hanno dovuto lottare per la pura sopravvivenza e non hanno avuto possibilità di approfondimenti culturali. Questo innesto fra dissidenza civile e libertà religiosa, che fa così paura al Partito è un punto significativo per l’Asia, ma anche per l’occidente. Nel mondo occidentale, soprattutto europeo, il dissenso viene visto solo come una battaglia ideologica, di rapporti di forze, di cambiamenti di potere e per questo è destinato prima o poi a consumarsi, tradirsi, o a parcellizzarsi in tanti rivoli di contestazione. La soluzione è che alla base di ogni protesta vi sia la difesa e la garanzia per la libertà religiosa. Essa non è solo la base per tutti gli altri diritti, come diceva Giovanni Paolo II e riafferma Benedetto XVI: è la vera partenza per una rivoluzione culturale totalmente umana, la garanzia di una dignità assoluta e universale per l’uomo che nessun potere può cancellare. Perché questo avvenga è necessario all’occidente seguire il consiglio di Benedetto XVI: aprire la ragione anche alla fede. L’illuminismo del pensiero chiaro e distinto porta solo disperazione e aridità.
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Occidente
C’è un solo modo per combattere il nichilismo: l’ascesa del potere femminile
Il progresso in rosa cambierà le sorti del pianeta Colloquio con Marek Halter di Valerio Venturi arek Halter, intellettuale ebreo di origine polacca, scommette che il futuro sarà nelle mani delle donne. Le sue parole scorrono come un fiume, offrendo una buona sintesi delle sue idee. E sostiene con forza: il progresso è rosa. «Solo le donne possono cambiare il mondo. Ora sono ai margini della società, prendono il 40 per cento del reddito degli uomini per fare gli stessi lavori. Ma immaginate il giorno in cui le donne con il velo, per esempio, decideranno di toglierselo: quella sarà la vera rivoluzione. Marx nel XIX secolo credeva nel proletariato. Ora il ruolo centrale è tutto loro. Servono stimoli nuovi, nuove buone domande: questa è la condizione per avere valide risposte». Halter considera le figure femminili centrali per lo sviluppo della società: aveva tessuto le lodi della madre di Cristo; ora fa il “focus” sulla tradizione islamica: «So che i musulmani hanno bisogno di riferimenti propri per cambiare usanze errate e la donna nella loro cultura gioca un ruolo importantissimo. Non ci sarebbe stato l’Islam, gli hadid e il Corano senza Fatima, Haisha, Khadija. Bisogna offrire loro risposte interne e mostrare le contraddizioni. È entrando nella cultura dell’altro che si trovano i giusti argomenti. Altrimenti è scontro di civiltà. Anche per questo Sarkozy ha introdotto nelle scuole l’ora di storia delle religioni». Scongiurare le lotte significa anche riconsiderare il ruolo della fede, che può essere vero stru-
Oggi sono ai margini della società. Ma il giorno in cui le donne con il velo decideranno di toglierselo sarà una rivoluzione
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Ariel Sharon, l’ex premier israeliano, assieme a Marek Halter, fondatore di Sos razzismo
mento di pace e conoscenza. Halter: «Sono parte del patrimonio culturale. Ma l’unica garanzia per la loro espressione è la laicità. Se una fede è dominante, le altre si perdono. È normale, ognuno crede di avere la verità assoluta: per questo ci sono state le guerre: dei Trent’anni, Belfast… Ad ogni modo: abbiamo nutrito il sogno laico per un secolo: socialismo, fascismo, comunismo. Niente ha funzionato. Resta la democrazia, ma è una forma di governo. È normale ora che ci si riavvicini a Dio». Fondamentale il rispetto delle particolarità: «Ogni uomo ha le sue peculiarità: è la ricchezza del mondo. Se non lo si accetta si diventa antisemiti, arabofobi,
la scheda
Sos razzismo Scrittore, artista e intellettuale ebreo, Marek Halter è nato in Polonia nel 1936. Sua madre era una poetessa yiddish, il padre uno stampatore discendente da una stirpe di tipografi ebrei la cui origine risale al XV secolo. A cinque anni evase con i genitori dal ghetto di Varsavia e raggiunse la Russia sovietica per sfuggire alle persecuzioni naziste. Nel 1950 giunse in Francia, sua patria d’adozione. Nel 1967 ha creato il comitato internazionale per la pace negoziata in Medioriente, con il quale ha incontrato importanti dirigenti arabi e israeliani. Nel 1984 ha fondato con Bernard-Henri Lévy il movimento “Sos razzismo”. Per suggerimento di Elie Wiesel, nobel per la Pace, ha iniziato a scrivere romanzi. In Italia ha pubblicato tra gli altri Il Messia, Abraham e l’ultimo La mia ira (Spirali), di prossima uscita.
razzisti. Accadde pure a Voltaire. Occorre riflettere». Parlare del conflitto israelo-palestinese non è quindi fuori luogo: la legittimazione reciproca e il dialogo sono le condizioni per ogni progresso storico-politico: «Lì si potrebbe fare una confederazione con Israele, Palestina e Giordania. Ma Arafat mi disse: prima bisogna che esistiamo. Una reazione giusta politicamente, strategicamente non so. Ma tale conflitto, pure drammatico, non lo è più di altri: il problema è che ci vorranno anni per risolverlo. Quando accadrà, saranno solo due righe sui libri di storia».
La questione israeliana è al centro del dibattito: «Perché ci sono gli ebrei. È anche una fortuna: il conflitto è sempre in prima pagina e la comunità internazionale deve intervenire. Lo faccia con rispetto, però… Ho incontrato Sarkozy in Russia. Mi ha chiesto come comportarmi con Putin. Gli ho detto: «Si può dire tutto se con amore. Digli che ami la Russia, che ritieni sbagliato quello che fa in Cecenia: lo accetterà. Così, anche gli israeliani capirebbero meglio le critiche. Ma non si possono prendere lezioni da chi vuole che il Paese scompaia» L’antisemitismo è duro a morire: «Gli ebrei rappresentano la sola civiltà antica sopravvissuta. Gli altri popoli erano radicati nella terra; noi nei libri. Freud ha detto che ogni libro è come un uomo:
chi li brucia è criminale. Così come chi attacca la civiltà per criticare le politiche». Meglio favorire la comunicazione continua: «Sono stato il primo ebreo da Arafat. Sono stato insultato, ma ho aperto la porta e i siriani mi hanno accettato perché ho detto la verità. Un errore però lo feci: domandai per anni ad Arafat di fare un discorso pro-Isreale. Gli dissi: “non ami Sharon, parla al popolo; ti preparo qualcosa, sarà una rivoluzione”. Non volle. Ma due anni prima della sua morte mi chiese: “dov’è il tuo discorso? Dammelo!” Alla fine non feci nulla». Halter è così: un vero intellettuale engagé. La partecipazione al dissenso, l’impegno per la libertà che lo contraddistinguono, però, non è di tutti gli intellettuali: «Mi chiedo allora se si può essere sensibili nei confronti dei propri personaggi, se non lo si è della miseria del mondo. Leggendo le lettere di Tolstoj si comprende meglio Guerra e pace: il russo era preoccupato per tutto. Certo, si può anche filosofeggiare sulla filosofia: ma non so se questi sono intellettuali; ad ogni modo non li condanno. Io sono così perché sono stato investito dalla storia, e non posso astrarmi». Lo dimostra anche con l’attività della sua associazione “Sos Razzismo”: «Lavoriamo contro razzismo e antisemitismo, malattie mortali che non si curano con la stessa medicina. Degli ebrei Tacito ha detto che sono sfuggenti, qualcuno che si nascondono; i neri e gli arabi non lo fanno e sono evidentemente diversi. Quindi facciamo distinguo. Abbiamo risvegliato chi crede che i problemi di inserimento non esistano. Promuoviamo l’integrazione culturale.
L’Islam, ad esempio, ha valori che sono anche nostri. Nella scuola francese il 40 per cento degli alunni è arabo: perché non gli si dice che l’algebra l’hanno inventata loro? Perché, nelle nostre banlieue, dove vivono i maghrebini – il 10 per cento della popolazione – invece che inviare la polizia non si dà autonomia, responsabilità di autogoverno?» Halter propone soluzioni. Opera e prende posizione, in una compagnia sempre più variegata di attori sociali, che comprende monaci e preti quasi più che pensatori e scrittori. La riflessione è originale e a 360 gradi. Colpisce, ad esempio, quando parla di ecologia: «Ci abbiamo messo 3000 anni per opporre la cultura alla natura! Ora dico: proteggiamo la natura, ma non costruiamo nuove divinità. Distruggere in Francia mais transgenico che potrebbe salvare milioni di bambini in Africa è criminale! L’ecologia è la filosofia che hanno i ricchi per proteggere il loro stomaco. Andate a Gaza o Calcutta a parlarne!» Parole dure anche per l’altermondialismo: «È un bel sogno; il pianeta non è perfetto, chi non lo sogna differente? Ma ho visto che certe organizzazioni hanno in loro tutto il peggio che c’è in quello che criticano. Ghandi propose un altro mondo e un altro modo». Halter è malgrè soi narratore e polemista: «Truffaut mi disse: “Tutti gli ebrei si svegliano in collera”. Per me è così. Non è facile però gridare in pubblico; nella antica Israele c’erano addirittura delle scuole per imparare a farlo. La parola navi, “profeta”, trae la sua etimologia da nabu, che significa “gridare”: questa è la mia tradizione, per questo urlo».
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Occidente
L’appello di Ayan Hirsi Ali, la scrittrice rifugiata negli Usa, alla responsabilità dei media
Giornalisti, prendete posizione di Pierre Chiartano ella battaglia delle idee che vede il confronto fra Islam e Occidente, i difensori del secondo sono stati accusati di essere tiepidi se non pavidi. È Ayan Hirsi Ali che si dichiara stupefatta per la «timidezza» con cui i suoi colleghi occidentali contrastano – o non contrastano affatto – gli argomenti della cultura islamica fondamentalista. È il «sense of uneasiness» che Hirsi Ali sentì già nel 2004, durante la crisi delle vignette danesi e poi nella vicenda delle dichiarazioni di Benedetto XVI a Ratisbona. Lo ha provato ancora nel 2005 durante una conferenza per la presentazione del cortometraggio di Theo Van Gogh, Submission. «Ho trovato strano che i giornalisti occidentali, la cui conferenza era stata fin troppo tranquilla e che avevano borbottato qualcosa sulla libertà d’espressione, si avvicinassero, dopo il mio intervento, sussurrandomi all’orecchio quanto avessi fatto un buon lavoro».
N
Nei casi dei cartoon danesi e del Santo Padre la stampa internazionale consigliò di chieder scusa, anche se recentemente il regista Najdat Aznour ha riletto l’episodio danese in una fiction (musal salat) trasmessa dal canale tv siriano, ammettendo la possibilità che ci sia stata una manipolazione da parte del radicalismo islamico. «Ma perché gli occidentali sono così insicuri riguardo tutto ciò che è così meraviglioso in Occidente: le libertà politiche, di stampa, d’espressione, la parità di diritti fra uomini e donne, gay ed eterosessuali?», si chiede stupita Hirsi Ali. Cita Tony Blair e il suo «A battle for global values» apparso sulle pagine di Foreign Affairs
di febbraio 2007, per lodarne il tratto analitico che privilegia il soft power come arma del confronto, ma ne critica le valutazioni sul Corano che, in pratica, viene considerato un testo «riformista». Lo storico intervento del premier inglese, già ripreso dalla stampa internazionale, è infatti un’interessante lettura per sottolineare i passaggi critici dell’attuale scontro fra Occidente e terrorismo islamico.Valori e non sicurezza, soft power e non imposizione della nostra cultura a un mondo sostanzialmente pre-westfalico. Sono questi - molto sintetizzati - i punti più qualificanti della lunga analisi; un appello rivolto all’islam, ma da cui traspare - forse - un suggerimento per la politica «evangelica» di Washington.
L’intellettuale olandese d’origine somala, oggi rifugiata negli Usa, è però critica: «Blair comincia delineando in modo incisivo il più importante conflitto del nostro tempo, ma poi perde incoerentemente il filo delle sue argomentazioni». Considerare il Corano come un libro «riformista» può essere un passaggio, una chiave culturalmente utile, per legare il percorso della nascita della modernità occidentale con la storia dell’universo musulmano. Potrebbe essere un tentativo per rendere compatibili, quindi comprensibili alle parti in causa, due percorsi di civiltà. È un’impostazione ribadita più volte dall’ex premier britannico, descrivendo un islam, nel Medioevo, tollerante e crogiuolo di culture. E la Hirsi Ali contesta proprio la
libri e riviste
asso leggero e preghiera fra le labbra», come una corrente d’aria fra le gole di Khaldan. Per Omar Nasiri è questo il codice per riconoscere «loro». Quelli dei campi, quelli che hanno combattuto, i mujahidin addestrati in Afghanistan nella rete di bin Laden. C’erano gli arabi col portafoglio pieno e i ceceni che avevano visto l’orrore. Erano giovanissimi e spaventati, come i tagiki e gli uzbeki, e qualcuno non resisteva al botto infernale della Dushka, la 12mm dei carri russi. Il nome di Omar è falso, come la sua identità. Prima coinvolto nella rete del Gruppo islamico armato in Belgio. Ma a lui, ex spacciatore, piacevano le ragazze, quella gente non la capiva. Poi agente dello Dsge francese. In mezzo c’è l’Afghanistan e al Qaeda. Una trama che assomiglia ad un romanzo, ma è vera. Parla della fratellanza musulmana e di come,
«P
nelle gelide notti di montagna, si sia formata l’identità dei credenti di Allah. Per Omar la violenza cieca è anche stupida, per i suoi compagni è il falso riscatto dall’infelicità. Tutti si ritrovano, nel buio della notte, quando il passo successivo potrebbe essere l’ultimo. Il mujahid non ha sete, non ha freddo, mangia poco e dorme ancora meno. Omar è un marocchino di Bruxelles, che legge Buck Danny, ma ha imparato la salat e il rispetto per i compagni che combattono. Ci accompagna lungo i sentieri nascosti della jihad degli anni Novanta, dall’Europa a Istanbul, fino in Pakistan e oltre il confine afghano, verso la guerra santa «masha’allah». Omar Nasiri - Infiltrato Piemme - 416 pagine - 18,90 euro
definizione «riformista» del testo sacro, «Blair definisce il Libro sacro per i musulmani come un grande libro, più avanti della sua epoca e favorevole alle donne, rimangiandosi le sue stesse argomentazioni». Il testo sacro dei musulmani non può essere paragonato alla stregua della Bibbia, mentre sarebbe più giusto avvicinarlo al simbolo della Croce. Un fatto che rende meno agile un utilizzo razionale dei contenuti del Corano. Non possiamo leggere il testo sacro dell’Islam attraverso i meccanismi cartesiani della «ragione». Ma il laicismo della Hirsi Ali invita alla controffensiva culturale. «Il Ventunesimo secolo è cominciato con una battaglia delle idee, e questo scontro è sui valori quelli dell’Occidente contro quelli dell’Islam. Tony Blair e il Papa non devono provare imbarazzo nell’affermarlo e voi dovete smettere di autocensurarvi. L’Islam e la democrazia liberale sono incompatibili; cultura e religione non sono alla pari. E forse la più importante di tutte le motivazione è che gli islamici non sono dei poveri di spirito che non sono in grado di rispondere se non con la violenza». E da ragione all’analisi fatta dall’imperatore bizantino Manuele II paleologo, sull’«espansione della fede sul filo della spada». Resta comunque valido il tentativo, da parte di uno dei più importanti rappresentati delle democrazie occidentali, di aprire un dialogo con coloro che Samir Kassir sfortunato padre della primavera libanese - definiva «gli infelici della storia»,
circa trenta chilometri dalla cittadina di Pa-an, nello Stato di Karen, c’è una collina che nell’antichità era nota al popolo Mon come “collina del Chicco di Riso”, perché somigliava a un mucchietto di chicchi di riso». Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione in Birmania, è come quel mucchietto di riso. Cibo necessario per il popolo di quel martoriato Paese e fragile e leggero, pronto ad essere travolto dalla piena di un fiume, dalla pioggia tropicale o dal calcio ottuso di un militare. L’incipit del libro è la foto della sua autrice, da 12 anni senza libertà e narra la storia di un Paese che sa coniugare diversità e rispetto, la Festa dell’acqua e quella delle luci mischiate con quelle indù e musulmane, ma che oggi vive «la corruzione della paura». Aung San Suu Kyi Lettere dalla mia Birmania Sperling & Kupfer - 207 pagine - 16,50 euro
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trasformando la guerra al terrore in un confronto universale fra speranza e paura. Ma qui Hirsi Ali richiama alle proprie responsabilità tutti i giornalisti occidentali «o prendiamo posizione o ci perderemo nella terra di nessuno dell’incoerenza. Il compito dei giornalisti occidentali, che sono coscienti di quale sia la posta in gioco, è quello d’informare coerentemente i propri lettori»
Poi naturalmente Ayaan Hirsi Ali apre al dialogo, si mostra attenta alle trappole della generalizzazione, ma non perde il nocciolo concettuale della critica: «La cultura islamica è fondamentalmente antioccidentale». Nelle scuole musulmane, che avrebbero gli stessi diritti d’esistere di quelle cattoliche, protestanti o ebraiche, s’insegna però l’odio per gli ebrei, la separazione dagli infedeli e la virtù del jihad. Non esiste reciprocità nel rapporto con le altre fedi. «Se i musulmani possono fare proselitismo nella Città del Vaticano, perché i cattolici non possono fare lo stesso alla Mecca?». Nella Organization of Islamic Conference solo due Paesi sono democrazie. «Entrambe fragili e corrotte, corrono il rischio di essere rovesciate dagli agenti del fondamentalismo islamico». Se la Turchia ha la valvola di sicurezza di un esercito custode del laicismo kemalista, l’Indonesia ne è priva. In entrambi le donne giocano ancora un ruolo attivo nella politica, ma «sono viste come il nemico da abbattere», come se la presenza delle donne nella vita pubblica fosse «l’ultimo ostacolo a frapporsi all’avvento del vero islam». Per Hirsi Ali, oggi resident fellow presso l’American Enterprise Institute, serve capire bene le differenze fra Islam e Occidente e «why one is so great and the other so low».
l Partito della Russia Unita che sosterrà il delfino di Putin, Dimitri Medvedev, sta facendo banco sulla scena politica russa e, secondo l’autore, assomiglia sempre di più al vecchio partito comunista sovietico. «Il potere totale corrompe totalmente» e porta verso un modello politico che dalla regola della legge arriva a quello della «dittatura della legge». Il primo passo è stato il controllo quasi assoluto dei media. Un’inchiesta della Nezavisimaya Gazeta avrebbe sottolineato la sproporzione di presenze televisive a favore di Medvedev e a danno di Mikhail Kasyanov, considerato l’unico candidato d’opposizione. Una conferma della classifica della Freedom House che vede la Russia, nel 2007, andare di male in peggio per libertà, diritti civili e livello di democrazia. Reuben Johnson - A lot like the old Russia The Weekly Standard - 23/01/08
I
a cura di Pierre Chiartano
economia
6 febbraio 2008 • pagina 17
Replica a Ettore Artioli sulle capacità dell’area di autofinanziarsi
Un Sud senza banche e zero investimenti di Calogero Mannino
aro direttore, leggo sul suo bel giornale liberal di stamane un colloquio ”Il Nord del Sud” con Ettore Artioli, di Francesco Pacifico. Premetto di ritenere Ettore Artioli un imprenditore intelligente e moderno, che come tale si distingue nel paesaggio dell’imprenditoria siciliana. Ma vi sono due affermazioni – nel corso del colloquio – che ritengo debbano essere riprese e quindi non lasciate incontestate.
C
La prima è, la riporto testualmente: «Gli imprenditori non devono aspettare i soldi di Mamma Regione o Papà Stato per acquistare un capannone... la Confindustria non si è turbata per la fine della 488, ma ha sollecitato dei differenziali, come il credito d’imposta, per evitare che un imprenditore di medie dimensioni che opera a Napoli come a Cagliari, scappi via per investire altrove». Bene! Ma perché la Fiat per ristrutturare Termini Imerese ha chiesto alla Regione, che vi sta provvedendo nonostante l’interruzione della legislatura con un apposita legge che dovrebbe essere
approvata nei prossimi giorni, un finanziamento – sia pure indiretto, attraverso il Consorzio Asi – per la realizzazione di nuovi capannoni? Non pongo questo tema per sollevare esclamazioni scandalistiche. Sono stato e rimango uno dei sostenitori della possibile iniziativa legislativa della Regione, in verità, fortemente voluta dal presidente, l’onorevole Cuffaro. Ma voglio far notare ad Artioli che proprio perché la richiesta viene avanzata dalla Fiat il tema dei finanziamenti agevolati alle iniziative industriali è ancora aperto al Sud. Da ministro per il Mezzogiorno, nel 1992, attraverso un contratto di pro– gramma poderoso nel volume dei finanziamenti concessi – ho sostenuto con le risorse della legge 64 (poi abrogata) il più consistente programma di investimenti che la Fiat abbia realizzato al Sud partendo da Melfi con il potenziamento e la ristrutturazione di Termoli, di Montecassino e della stessa Termini Imerese. E allora come oggi la Fiat non
avrebbe potuto e non potrebbe realizzare un investimento così rilevante, ma da ricondurre a razionalità economica, fuori da un sostegno di tipo creditizio e agevolativo. Mi sembra di poter dire che il credito d’imposta non sia stato ritenuto strumento valido o sufficiente. Allora Artioli dovrebbe convenire che il problema della copertura finanziaria degli investimenti al Sud è ancora aperto.
È peraltro fortemente condizionato da due dati: dalla difficoltà di autofinanziamento con mezzi propri, e dalla difficoltà e particolare onerosità del sistema creditizio bancario.
nata collocazione nel quadro degli sportelli dell’intero gruppo (Grand Player) operanti sul territorio della Sicilia. E vorrei poi ricordare che il Banco di Sicilia è stato ridotto da un possibile Grand Player come lo immaginava la Politica nella seconda metà degli anni Ottanta, a strumento di ricapitalizzazione di altre banche, anche con la svendita del patrimonio immobiliare (come ad esempio i grandi alberghi siciliani). Oggi in Sicilia – basterebbe un’indagine tra gli imprenditori – la difficoltà di credito, di qualunque forma per investimenti o per esercizio, è un dato serio e grave. Che non andrà affrontato con la Befana Pubblica, ma se ne deve cercare una soluzione. La seconda affermazione è relativa alla querelle sul Ponte sullo Stretto. Dice Artioli: «Prima di riparlarne completiamo la rete autostradale e creiamo un sistema ferroviario». Prima l’uovo o prima la gallina? Artioli sa che l’Anas non prende in considerazione il problema del completamento della rete autostradale (come le Ferrovie quello della rete ferro-
Positivo non aspettarsi aiuti dallo Stato, ma come insegna la vicenda di Termini Imerese nessun progetto è realizzabile senza agevolazioni e sostegni dal credito. Serve una soluzione, che per prima deve reclamare Confindustria Può essere vero che il Banco di Sicilia investa in Sicilia più di quello che raccoglie, come egli afferma. Ma il Banco di Sicilia è stato ridimensionato a una presenza esclusivamente ritagliata sull’area regionale. Anche con una riduzione degli sportelli che deve trovare una proporzio-
viaria) in Sicilia se non per la ragione che allo stato attuale dei collegamenti con la penisola lo sviluppo del traffico è valutato come insufficiente per fare nuovi investimenti? E poi ancora è di questi giorni la polemica di Di Pietro che cerca i soldi del Ponte che avevano trovato un’ipotesi di allocazione, finiti poi, a quanto pare, nel tesoretto.
Allora direi che forse proprio uomini come Artioli dovrebbero prendere il coraggio a due mani e riaprire dal versante proprio della Confindustria una riflessione seria e concreta sul Mezzogiorno d’Italia e la Sicilia sulle prospettive inquietanti di peggioramento che gravano. Il senatore Angius sul Sole 24Ore rilancia la proposta avanzata dal senatore Pisanu di una Commissione d’inchiesta. Sì, forse ripartire da una fase alla ”Sonnino e Franchetti” può essere, oggi, l’unico modo di riaprire la discussione in termini alieni da ogni demagogia e luogo comune per affrontare uno dei nodi fondamentali della convivenza nazionale. Spero proprio che imprenditori come Artioli abbiano il coraggio di introdurre i termini veri del problema senza rifugio negli errori con i quali si è ritenuto di rimediare ad altri errori.
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economia
Scarse prospettive industriali per i piani di Air One, che ora spera nel Tar e negli imprenditori del Nord
Anche l’Alta velocità gioca contro Toto di Gianfranco Polillo a vicenda Alitalia assomiglia sempre più alla privatizzazione dell’Eti, la vecchia azienda produttrice di tabacco, acquistata nel 2003 dalla Bat, la grande multinazionale anglosassone. Un’operazione non da poco, visto che fruttò all’Erario, con i suoi 2.325,2 milioni di euro, quasi quanto la cessione delle Poste. Anche allora il conflitto, sul filo di lana, fu tra le grandi multinazionali e una cordata – l’alleanza tricolore – di imprenditori italiani. Ma finì come finì. Sebbene l’Eti fosse, allora, appetibile, mentre oggi, Alitalia è sull’orlo del fallimento.
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Si può ancora intervenire scongiurando quest’eventualità? Il ministro dell’Economia, Padoa-Schioppa, Tommaso sembra escluderlo. Almeno fin quando non vedrà sul tavolo proposte alternative. Per il momento solo annunciate: buone intenzioni o poco più. Di cui, tuttavia, è lastricata la strada che porta all’inferno. Carlo Toto, il patron di Air One, giura che non è così. Corrado Passera, consigliere delegato di IntesaSanpaolo e alleato di Toto, preconizza un «forte interesse da parte dell’imprenditoria lombarda». Luca di Montezemolo, che partecipò alla cordata italiana per Eti, invece mo-
stra attenzione. Un discorso non diverso lo fa Marco Tronchetti Provera, disposto a partecipare «con un chip, un piccolo contributo di capitale» all’intera operazione. Nel frattempo i francesi guardano attoniti, sempre più sconcertati, di fronte alle complicazioni che ogni giorno nascono intorno alla vendita della compagnia di bandiera italiana. E di sorprese ne potrebbero ancora arrivare nei prossimi giorni: ci vorranno altri 15 giorni –
problema. Vale a dire l’esigenza di un piano industriale capace di garantire alla compagnia di bandiera una reale possibilità di sopravvivenza e di sviluppo. Può farlo Carlo Toto? E allora avanzi le sue proposte, come si fa nella business community. Dimostri di avere le risorse necessarie e imprenditori disposti a correre il rischio. Un rischio estremamente elevato. Un conto è infatti partecipare a una joint venture, seppure in
posizione subordinata, con una compagnia, come Air FranceKlm, che è leader nel settore, con una potenza economica dieci volte tanto. Un altro è ripetere l’esperienza di David e Golia, dando spazio a un piccolo gruppo di ”capitani coraggiosi”, che sfida il mondo intero, approfittando dell’arretratezza del Paese.
Perché questo è il punto centrale dell’intera vicenda. A quel che è dato da sapere, interesse
Il costruttore abruzzese, comprando Alitalia, spera di consolidare il monopolio sulla ricca tratta Linate-Fiumicino. Ma con l’entrata in funzione dei nuovi treni andrà ridisegnata tutta la geografia dei trasporti italiani la sentenza è attesa per il 20 febbraio – prima che il Tar del Lazio si pronunci sul ricorso che Air One ha presentato per impugnare il via libera del governo alla trattativa in esclusiva con Air France-Klm. Per non parlare della querelle su Malpensa, con Alitalia, che alla richiesta di una moratoria, ieri ha replicato «l’unico hub è quello di Fiumicino». Non sappiamo come si concluderà la vicenda. Al di là delle alchimie finanziarie, sarebbe tuttavia una buona cosa non perdere di vista il cuore del
Carlo Toto, il patron di Air One
preminente di Air One sono le rotte Fiumicino-Linate: la gallina, seppur malandata, dalle uova d’oro di Alitalia. La tratta, cioè, che ancora dà utili. Sarà sufficiente a garantire la sopravvivenza della newco Alitalia-Air One che dovrebbe sorgere? I dubbi sono legittimi e non solo perché il fatturato eventuale dovrà fare i conti con scarse prospettive. Finora quella tratta è stata competitiva per mancanza di alternative. Ma quando entrerà in funzione l’alta velocità, le cose potrebbero cambiare. Allora
il viaggiatore potrà scegliere tra il viaggio in ferrovia o in aereo, con tempi di percorrenza – includendovi quelli morti – più o meno simili.Va da sé che l’attuale rendita di posizione è pressochè destinata a scomparire. È successo già in altri Paesi. In Francia, l’alta velocità sulla Parigi-Lione ha ucciso il trasporto aereo su quella tratta. Perché l’Italia dovrebbe fare eccezione? Il problema, come si vede, non soltanto è reale, ma ha una portata di carattere più generale. Le difficoltà di Malpensa, altra spina nel carnet Alitalia, non derivano soltanto dal doppio hub e dalla concorrenza di Fiumicino, ma dalla carenza di collegamenti infrastrutturali. Gli stessi che hanno spinto a una proliferazione di piccoli scali che costano un occhio della testa e affossato qualsiasi disegno di carattere industriale, basato sull’integrazione tra diversi mezzi di trasporto. Morale della favola: l’arretratezza delle infrastrutture italiane non è figlia del caso, ma la conseguenza dell’azione condotta dall’oscurantismo ambientalista. Affossando ogni modernizzazione hanno impedito ogni razionalità distruggendo l’ambiente stesso. Come testimoniano, a Napoli, le montagne di rifiuti.
economia
6 febbraio 2008 • pagina 19
Le 179 offerte per le nuove licenze di internet veloce non fugano i dubbi
d i a r i o
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g i o r n o
I servizi Usa mettono in crisi le Borse
WiMax, un mercato a bassa frequenza
Ancora una giornata nera per le Borse mondiali, dove sono stati bruciati 240 miliardi di euro. E Piazza Affari, con il suo -3,06 per cento, è stata tra le più fortunate. Francoforte infatti ha perso il 3,5 per cento, Parigi il 3,98 e Madrid il 4,72. A deprimere i listini i dati negativi dell’indice Ism non manifatturiero, che sintetizza l’andamento del comparto dei servizi, a quota 41,9 punti. Un livello che vuol dire recessione. A piazza Affari si segnala soprattutto il crollo di Fiat (-6,5 per cento) che paga la la revisione al ribasso del giudizio da parte di Jp Morgan. Sergio Marchionne, al netto delle sue polemiche con le società di rating, deve ancora convincere che il ciclo vincente del Lingotto non è finito.
di Alessandro D’Amato
ROMA. In tutto 179 offerte, per un to-
Inflazione boom: svetta al 2,9 per cento
tale di valore pari a quasi 50 milioni di euro. Ma anche tante perplessità tra gli operatori. L’apertura delle buste per l’asta del WiMax ha portato qualche buona notizia tra chi sperava che la tecnologia di accesso wireless alla banda larga servisse a ovviare al problema del digital divide in Italia: le offerte coprono tutti e 35 i diritti d’uso, sia quelli macroregionali sia quelli regionali. E oltre ai grandi operatori (Telecom, Wind, Mediaset) anche molti ”piccoli” si sono fatti avanti. In più, non sono mancate anche alcune sorprese come quella della partecipazione di Toto Costruzioni, dello stesso imprenditore che controlla anche l’Air One e che ha effettuato le offerte più alte per coprire Veneto, Friuli, Marche ed Emilia Romagna (per un totale di 7 milioni di euro). Mentre Fastweb ha deciso di gareggiare solo per Lombardia e Veneto, considerandoli mercati più remunerativi e coltivando alcune perplessità sulla divisione regionale delle aree. Ma tra operatori, esperti e consumatori molti dubbi rimangono. Intanto, per una questione tecnologica: per utilizzarlo in mobilità con costi ragionevoli occorrerebbero frequenze più basse (2,5 gigahertz anziché 3,5 gigahertz) di quelle che attualmente sono state messe a disposizione. Ma queste restano ancora a oggi occupate dal ministero della Difesa. Proprio una parte dei fondi ricavati dall’asta dovrebbe consentir-
Neppure i più catastrofisti avevano pronosticato un livello simile: a gennaio l’inflazione ha raggiunto quota 2,9 per cento contro il 2,6 di dicembre. Non si registravano numeri simili dal luglio del 2001. L’aumento più significativo su base mensile ha riguardato acqua, elettricità e combustibili (+1,5 per cento). Pesano le nuove tariffe energetiche. Rispetto a un anno fa benzina e gasolio segnano, rispettivamente, un +12,5 e +15,8 per cento. Ripercussioni, di conseguenza, per trasporti (+5,4 per cento) e alimentari (+4,5). Intanto l’Istat aggiorna il suo paniere con navigatori e insalate pronte.
Salvato in extremis il tavolo sulla Tav
Per gli operatori le infrastrutture messe all’asta non sono potenti. Polemiche per i bandi del Lazio: si temono aiuti ne la dismissione. Non a caso, ragionano alcuni dei partecipanti, la gara odierna serve proprio a consentire l’accesso alle assegnazioni future. Stefano Quintarelli, esperto di sistemi di identificazione e localizzazione in radiofrequenza nelle telecomunicazioni, è ugualmente scettico: «Quelle frequenze sono inadatte. Non sono in grado di superare ostacoli spessi ma soltanto barriere sottili. E sono curioso di sapere quali sono state le offerte dei big della telefonia nelle zone più disagiate, e chi se le aggiudicherà. Saranno decisivi i rilanci». Altroconsumo, invece con-
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Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata
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Alessandro Manzoni
testa le «limitazioni anacronistiche all’utilizzo della nuova tecnologia», visto che non si consente alle antenne Wimax di collegarsi tra loro come ponti radio (costringendo gli operatori a connetterne ciascuna alle già intasate dorsali internet via cavo), e non prevede licenze libere open spectrum, che potrebbero essere destinate ai servizi erogati on line dalle pubblica amministrazione, di cui il cittadino potrebbe usufruire per via telematica, senza essere gravato dai costi di connessione. E c’è anche chi punta il dito su una stranezza”: l’accordo tra ministero delle Comunicazioni e regione Lazio per incentivare l’utilizzo della banda larga nella zona, nel quale è espressamente citato che si privilegerà l’investimento in fibra ottica e Wimax. «Visto che nessuna delle due istituzioni può fornire servizi - ragiona un imprenditore del settore - se poi dall’accordo dovessero arrivare finanziamenti, le licenze del Lazio varranno di più?
Dopo le polemiche e i timori dei giorni scorsi, si apre uno spiraglio per non bloccare i lavori dell’Alta velocità tra Italia e Francia Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta, ieri ha comunicato, che si terrà il prossimo 13 febbraio, a Palazzo Chigi, la riunione del Tavolo politico sulla Torino-Lione inizialmente prevista per lo scorso 30 gennaio.
«Italia, Repubblica del malessere diffuso» Bilancio con luci e ombre per l’Italia nella relazione annuale del presidente della Corte dei Conti, Tullio Lazzaro. Promossi i conti pubblici, mentre si lamenta lo scarso livello di investimenti, «che frena lo sviluppo», gli sperperi, la mancanza di una politica per i redditi e i troppi casi di corruzione. Per concludere:«Il non agire protratto per anni può provocare danni di grande entità, che nessun giudice potrà risarcire. La Repubblica vive un momento di diffuso malessere e incertezza».
Allarme per Ferrovie: «A rosso nel 2009» Se l’amministratore delegato Mauro Moretti vede già lo sbarco in Borsa, il presidente di Ferrovie, Innocenzo Cipolletta, è meno ottimista. E denuncia: Senza le risorse per i contratti di servizio tra le Ferrovie e le Regioni, «è a rischio l’obiettivo di un pareggio di bilancio per il 2009», previsto dal piano industriale. Per aggiungere: «Nel piano, contiamo tariffe e contratti di servizio con le Regioni, ma stando alle cifre della Finanziaria, oggi non lo raggiungeremo». Serve quindi l’ennesimo intervento statale
LA FORZA
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A B B O N A M E N T I
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cultura
Nel romanzo di Dario Fertilio l’immagine del disfacimento del castrismo
Che Guevara, il mito di Cuba dove il passato non passa mai di Enrico Singer rimo Gesù. Secondo Gandhi.Terzo Che Guevara. È il risultato di un sondaggio pubblicato appena tre giorni fa. La domanda, rivolta a ventimila italiani, era: quale capo vorreste sul lavoro. Al di là degli accostamenti, che possono apparire anche blasfemi, questa indagine è la prova che un mito – naturalmente parliamo di quello del Che – è duro a morire. Nonostante tutto. Nonostante gli storici abbiano ormai ampiamente riletto l’illusione di esportare la rivoluzione con le armi, prima in Africa, poi in Sud America, fino alle circostanze della sua fine tragica, in Bolivia, il 9 ottobre del 1967. Poco più di quarant’anni fa. E i suoi dissidi con Fidel Castro: da quando era ministro dell’Industria fino a quando il líder maximo, proprio per allontanarlo da Cuba e dal potere, lo spedì verso l’avventura internazionali-
P
mitici diari segreti del Che, proibiti dal regime e spariti perché in odore di eresia. Sembra inevitabile il parallelo con la vicenda, vera quella, di Giangiacomo Feltrinelli che, subito dopo la morte di Guevara, raccolse e pubblicò il Dario del Che in Bolivia. Ma il romanzo di Fertilio parla di un altro Che, di altri diari, di un’altra Cuba soprattutto. Quella del disfacimento del sistema che Feltrinelli nei suoi tanti viaggi nell’isola a cavallo degli Anni Sessanta aveva conosciuto trionfante e celebrato. La Cuba di oggi. Con Fidel che sta morendo e il comunismo che è già morto. Ma dove, comunque, il Che rimane. Non soltanto sui cartelloni sbiaditi o sul tatuaggio che una giovanissima jinetera si è fatto incidere su una spalla «perché lui è un santo». Ma perché, come dice la moglie di Riccardo Modena, in fondo, il Che «è un
I diari segreti che il protagonista del libro cerca nell’isola sono l’occasione per scoprire la distanza siderale tra propaganda e realtà sta e verso la morte. Ma, sondaggi a parte, che cosa resta davvero del “comandante Ernesto” il cui volto è stampato sulle magliette di chi protesta ed è rivendicato tanto a destra che a sinistra? C’è un libro – La via del Che. Il mito di Ernesto Guevara e la sua ombra – di Dario Fertilio, scrittore e giornalista, che affronta questo tema nella forma del romanzo meglio di qualsiasi saggio e che, oggi, sarà il punto di partenza per un dibattito (alla libreria Arion, a Roma) che si annuncia molto stimolante. Con Dario Fertilio, Marcello Veneziani, Filippo La Porta, Pierluigi Diaco, Olena Ponomareva, Luca Volontè e Marco Cecchini. La storia del libro è presto detta. Un editore sessantenne ed ex sessantottino, Riccardo Modena, va a Cuba sulle tracce dei
eroe della giustizia, uno che ha ripulito Cuba da tutte quelle porcherie, i casini, le bische e le puttane». A giudicare dalla Cuba di oggi, molte di quelle porcherie sono tornate. Nell’attesa di un vero cambio di stagione che è ovunque nell’aria. Perché Cuba «è il
Paese dove il passato non passa mai», come dice uno dei personaggi che Riccardo Modena incontra. La Baia dei Porci, i seicentotrentotto attentati contro Fidel, persino i generi di prima necessità compresi nella libreta, la tessera alimentare dei cubani. «Ed anche il Che: i suoi ritratti sono dappertutto, eppure è chiaro che non c’è più». E fuori da Cuba? Anche Riccardo Modena, nel pieno del Sessantotto italiano, aveva visto nel Che il simbolo del coraggio e della purezza delle idee. Adesso, deluso dai miti come tanti della sua generazione, misura la distanza siderale tra propaganda e realtà. Anche i diari segreti, alla fine, si rivelano un miraggio e ribaltano la nostra immagine del Che.
dibattito L’appuntamento è per oggi alle 17,30 nella Libreria Arion, in piazza Montecitorio 59, a Roma. Dario Fertilio, autore di ”La via del Che. Il mito di Ernesto Guevara e la sua ombra” (edizioni Marsilio), si ritroverà con Marcello Veneziani, Filippo La Porta, Pierluigi Diaco, Olena Ponomareva, Luca Volontè e Marco Cecchini a dibattere sul mito del Che, tra ieri e oggi. A poco più di quarant’anni della morte del ”comandante” ucciso in Bolivia il 9 ottobre del 1967. Dario Fertilio, giornalista al ”Corriere della Sera”, ha scritto saggi e romanzi. Con un tema conduttore: la ribellione contro il potere ingiusto e l’autoritarismo, in nome della libertà di comunicare e il coraggio di amare. Tra i suoi libri, ”Il Grande Cervello, le notizie del diavolo”, dedicato al mondo degli intellettuali e alla comunicazione, ”Il fantasma della liberta” e ”Arrembaggi e pensieri, conversazione con Enzo Bettiza”. Nel romanzo surreale ”Teste a pera e teste a mela” Dario Fertilio ha affrontato gli aspetti assurdi e inumani insiti in ogni pretesa di dominio ideologico. Con Marsilio ha pubblicato nel 2004 anche ”La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo”.
spettacolo
pagina 21 • 6 febbraio 2008
Esce domani un’edizione speciale del disco di Jackson
Thriller, un evento da 104 milioni di copie vendute di Alfredo Marziano n anniversario a scoppio ritardato, forse per sfuggire al sovraffollamento del mercato natalizio: quando usciva Thriller di Michael Jackson era l’ultimo mese del 1982, l’Unione Sovietica non mollava la presa sull’Afghanistan, Lech Walesa era di nuovo un uomo libero, Time Magazine eleggeva il computer “uomo dell’anno”, l’Italia smaltiva la sbornia della vittoria ai mondiali di calcio e lo sgomento per l’omicidio Dalla Chiesa. La musica viveva ancora in un’altra era geologica: i primi compact disc sarebbero arrivati nei negozi qualche mese dopo e i videoclip, la musica da vedere in televisione, erano una frontiera ancora tutta da scoprire. Uscì l’album e fu un boom, un blockbuster senza precedenti e senza successori: 104 milioni di copie nel mondo, il disco più venduto nella storia della musica registrata.
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A riascoltarlo oggi, nella versione speciale con inediti, duetti, remix e video che esce l’8 febbraio a celebrazione del venticinquennale, i perché di quel successo plebiscitario e planetario risultano chiari fino a un certo punto. Il resto è alea, imponderabilità, coincidenza astrale, come sempre succede per gli eventi che fanno epoca. In copertina il giovane Michael, allora ventiquattrenne, sfoggiava uno stile da dandy, un bel colorito naturale, un aspetto non ancora devastato dalla chirurgia plastica. Dentro, nei solchi del disco (oggi tramutati in bit digitali), si nascondeva una bomba ad orologeria, frutto del brainstorming di una vera macchina da guerra. Al banco di regia un Re Mida della produzione musicale, Quincy Jones, che con Jackson aveva già fatto il botto con Off The Wall, l’album precedente. E poi ospiti stellari, la voce angelica di Paul McCartney in The Girl Is Mine, la chitarra fiammeggiante di quel demonio di Eddie Van Halen, i Toto a ranghi completi. Musica per tutti i gusti, melodie pop, urletti r&b e ritmo irresistibile da ballare, con quel trittico centrale, Thriller, Beat It, Billie Jean, che fece sconquassi nelle classifiche e ai premi Grammy. Quei suoni sintetici, oggi, possono sembrare un po’ datati, ma restano tra le poche eredità degli anni Ottanta a non puzzare di stantio: certo i bomber dei paninari o i ciuffi dei New Romantics non sono invecchiati altrettanto bene. Jackson stava completando allora la sua mutazione inquietante in personaggio disneyano, fantasy, irreale. Prese a prestito dal grande Marcel Marceau un etereo e virtuosistico passo di danza, il moonwalk, che i suoi innumerevoli sosia ancora oggi ci propinano senza pietà. E con Mtv, nata soltanto un anno prima, stipulò un pat-
to di sangue che sembrava essere stato scritto in cielo. Con la televisione Michael entrava nelle case di tutto il mondo, con i suoi rivoluzionari short films, veri e propri cortometraggi che evocavano I guerrieri della notte, le spy story e il cinema horror, il videoclip spiccava il volo verso terre ignote: Thriller, girato dal John Landis di Blues Brothers e Animal House, durava quattordici minuti e ti inchiodava allo schermo, un mini kolossal da ottocentomila dollari ricco di humour, zombie spaventosi, fantastiche coreografie e la voce spaventevole di Vincent Price (lo potete rivedere nel dvd incluso nella nuova edizione, preceduto da un messaggio del Divo in persona che oggi si premura di avvertire: “date le mie convinzioni personali, ci tengo a sottolineare che questo video non intende assolutamente sostenere le credenze nell’occulto”). La sua, per la prima volta, non era solo musica da ascoltare e da ballare, ma un’esperienza multisensoriale e surround. Come al cinema, come al luna park. A differenza di Akon e di Kanye West, le nuove pop star afroamericane che oggi gli rendono omaggio duettando con lui o rimaneggiando i suoi classici (solo Will.i.am dei Black Eyed Peas ha un appeal più trasversale), Michael Jackson parlava allora una lingua universale e non ghettizzata, interrazziale, apolitica e asessuata, a dispetto dei colpi d’anca e delle mani insistentemente appoggiate sui genitali. Era un’icona fragile e votata alla dannazione dal troppo che gli stava intorno, ma infinitamente più talentosa delle pop star che oggi lo imitano solo in eccessi ed eccentricità. Il suo Thriller era un prodotto industriale, magari asettico, figlio dell’età del riflusso e dell’“edonismo reaganiano”, come diceva allora Roberto D’Agostino. Ma immacolato, scintillante, geniale, frutto di qualità professionali e organizzative (formidabile esempio di lavoro di squadra) di cui gli Stati Uniti declinante di oggi sembra avere smarrito la formula magica.
L’album, uscito 25 anni fa, fu un vero boom: grazie alla regia di Quincy Jones e all’energia del giovane Michael
Quando svettò in cime alle classifiche, nell’83 e l’84, il mondo era certo meno propenso di oggi a celebrare anniversari. Nonostante la guerra fredda, gli strascichi degli anni di piombo e tutto il resto, sembrava che l’Occidente avesse ancora lo sguardo proiettato in avanti. Oggi che tutti abbiamo ripiegato, certe ricorrenze – più o meno in contemporanea cade anche il cinquantenario di Nel blu dipinto di blu – confortano, ma mettono anche malinconia. Però conviene approfittarne lo stesso: chissà poi se nel 2033 o nel 2058 qualcuno si preoccuperà di ricordare le canzoni che oggi scarichiamo da internet.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO
Asse Fi-Pd: accordo possibile o fantapolitica? La storia recente ce lo insegna, non vince mai chi porta a elezioni anticipate Dunque elezioni. Io sono uno di quelli che avrebbe preferito che si votasse con una legge più giusta, che consentisse cioè a noi elettori di scegliere i nostri rappresentanti. Non mi è facile pertanto comprendere le ragioni che hanno indotto il centrodestra a seguire la linea di rigorosa intransigenza. La sinistra naturalmente sfrutterà questa occasione per scaricare completamente la responsabilità alla coalizione avversaria. Loro, si sa, sono buoni e collaborativi. E la nostra storia recente insegna che non ha mai vinto chi porta ad elezioni anticipate. A mio avviso però il vero responsabile dello scioglimento delle Camere è proprio il Pd. Se Veltroni avesse avuto il coraggio di sfiduciare Prodi - e secondo me lo avrebbe desiderato ardentemente - e di chiedere l’intesa a Berlusconi, le cose sarebbero andate ben diversamente. E’ dunque la lotta tutta interna al Pd ad aver fatto precipitare la situazione. Con queste premesse, come sperare in un’intesa?
Arturo Giacomelli - Matera
Un accordo del genere mostrerebbe quanto gli elettori davvero non contino nulla Io mi auguro che sia proprio fantapolitica l’asse PdFi. Un conto è auspicare un civile dibattito tra le due fazioni, un altro è una eventuale intesa più simile a un inciucio, sia che la cosa venga considerata da destra che da sinistra. Ma come, uno vuole i Dico e l’altro no, per Veltroni il Cav è un corrotto e un corruttore, per l’altro Veltroni è sempre un comunista travestito da filoamericano. E potremmo andare avanti all’infinito con gli esempi. E poi non dimentichiamo che nel Pd ci sono i Prodi, le Rosy Bindi, i Parisi che vedono Berlusconi come il fumo negli occhi. Con quale faccia si potrebbe rompere le allean-
ze con Fini, Casini e Bossi? E poi, ma noi elettori non contiamo proprio niente?
Salvatore Laganà - Siracusa
I due non sono conciliabili anche per gli alleati che si ritrovano Intesa Pd-Fi ? Mai. Ritorniamo alla giunta Milazzo? Ma insomma si parla sempre di trasparenza e poi andiamo a finire a un governo Berlusconi-Veltroni? L’unica intesa possibile è sulle riforme, ma per quel che riguarda il governo dell’Italia: o l’uno o l’altro. I due non sono conciliabili anche per quelli che hanno a fianco. Insomma, mai.
Ugo Genovese - Livorno
Pd e Fi non si intenderanno mai, sono l’uno l’alternativa dell’altro Secondo me credere in un asse Pd-Fi è pura fantapolitica.Veltroni ha già i suoi mal di pancia con Prodi e Parisi, Berlusconi non ha mai avuto vita facile con i suoi alleati, e come potrebbero accordarsi tra loro che in definitiva sono uno alternativo all’altro? No, non è proprio possibile.
Mario Bosi - Brescia
L’intesa forse funzionerebbe, ma trasparenza prima di tutto Forse un asse Pd-Fi non sarebbe un male per quest’Italia sempre dilaniata da furiosi litigi. Tuttavia una cosa deve essere chiara: prima di andare al voto Pd e Fi devono rendere pubblica la loro intesa e su quali problemi l’intesa si realizzerebbe; perché io sono un elettore di Alleanza nazionale e non vedo di buon occhio questa operazione. Però sapendolo e conoscendo su quali basi si realizza, potrei anche accettarla. Insomma Trasparenza anzitutto.
Filippo Romei - L’Aquila
LA DOMANDA DI DOMANI
La Rosa bianca può davvero costituire il terzo polo?
Caro liberal, fai più attenzione Ho 33 anni, sono stato un vostro affezionato lettore dall’avventura del settimanale, che conservo gelosamente, e poi del bimestrale, vera ”palestra mentale”che mi ha formato e mi permetteva di leggere e ragionare su tutti i temi nei ritagli di tempo. Ora invece non riesco a sfogliarlo tutto, a causa del poco tempo a disposizione. Certo la vostra scelta di trasformarvi in quotidiano è importante perché l’uscita giornaliera porta riflessione immediata, ma la mia visione di ”quotidiano” è ridotta ad un numero minimo di pagine. Vorrei comunque segnalarvi alcuni problemi tecnici: innanzitutto il problema Poste, che consegnano ”una volta ogni tanto”, per esempio ogni tre giorni, così la forza delle idee perde slancio. La sera mi collego al sito e trovo il quotidiano dove leggo solo le notizie più importanti, l’impaginazione a colori molte volte è stampata male e copre articoli. Se per il resto non potete fare molto, almeno in quest’ultimo punto ponete più attenzione.
Luca Rossetto
Rispettare le tradizioni è giusto, ma prima tutelare le persone In questi giorni si è svolta ad Ivrea la battaglia delle arance. La manifestazione, nata nel Medioevo con connotati diversi, dal secondo dopoguerra si svolge nella settimana di carnevale con il lancio di enormi quantità di arance. Rispettare le tradizioni è giusto, ma mi chiedo: quanta gente che va a rovistare nelle cassette alla chiusura dei mercati potrebbe mangiare quella frutta? Anche italiani che non si possono più permettere l’acquisto della stessa nella quarta settimana del mese.
Stefania Lalli - Roma
Il prossimo governo riuscirà a guidare il Paese con stabilità? Finalmente è finita la legislatura. Prodi e la sua corte non ci mancheranno certamente, come cer-
dai circoli liberal
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
BISOGNA SAPERE PER NON DIMENTICARE La gente ha bisogno di non dimenticare ciò che la storia tende a dissolvere. Ha bisogno di sapere che avere memoria potrebbe portare a una svolta della nostra umanità. E’ stato istituito un giorno per non dimenticare, un giorno per non dimenticare il genocidio degli ebrei da parte del nazismo, ma il giorno della Shoah nasconde tanti altri genocidi della storia. Ricordare dovrebbe servire a far sapere a tutti, che non soltanto il nazifascismo ha causato orrore e morte, che la scritta “Il lacoro rende liberi” non accoglie soltanto all’entrata del campo di concentramento di Auschwitz, ma anche all’entrata di ogni fabbrica, di ogni cantiere dove ogni anno muoiono centinaia di persone lavorando, che il gas letale non è soltanto lo Ziklon b delle docce di Dachau, ma anche quello della centrale nucleare di Cernobyl, che per vedere persone ridotte a scheletri dalla fame non per forza bisogna cercare le terribili foto dei prigionieri nei lager, ma sapere che in questo momento nel terzo mondo migliaia di es-
seri umani muoiono per fame e malattie. E’ importante avere coscienza che il nazismo ha causato circa 25 milioni di vittime, e ignorare che i regimi comunisti hanno causato circa 100 milioni di morti è grave per il significato stesso che assume la parola memoria, è importante ricordare deportazioni in campi di morte nel ghiaccio della Siberia, e poi le eliminazioni di massa sono state effettuate su ucraini, tedeschi, cosacchi, tartari e oppositori politici del regime sovietico, causando 20 milioni di morti, in Cina se ne contano 65 milioni, in Vietnam ed Europa dell’est 1milione, in Corea del nord ed in Cambogia 2 milioni, in America Latina 150.000 morti, In Africa 1 milione 700.000, in Afghanistan 1milione 500.000 e circa 10.000 morti causati dai partiti comunisti non al potere. C’è da provare orrore dopo aver guardato queste cifre e aver saputo chi sia il carnefice, c’è da rabbrividire andando ad aprire la scheda elettorale e trovare partiti che espongono ancora oggi la falce ed il martello, un simbolo che gronda di sangue anche più della svastica, oppure vedere le bandiere della pace accostate ancora alle
tamente non verranno rieletti alle prossime, imminenti, elezioni. Ma ce la farà il centrodestra a governare con stabilità un Paese ammaccato come l’Italia? Cosa farà in più rispetto all’ultimo di centrosonistra? E rispetto al precedente governo Berlusconi?
Vittorio Romano - Roma
Elezioni? Al di là di tutto, proseguire con massimo impegno Credo che ognuno, al di là della fine della legislatura, debba mettere il massimo impegno e fare il
proprio dovere fino in fondo per il bene del nostro Paese. Ha ragione Romano Prodi quando dice che, considerando ormai certe le elezioni e la permanenza a palazzo Chigi per l’ordinaria amministrazione, bisogna proseguire con impegno perché l’ultimo secondo deve essere come il primo”.
Livia Negri - Bologna
Perché gli scimpanzè non sono scomparsi come razza debole? Nel 1895 Charles Darwin, dopo cinque anni in giro per il mondo, pubblicò l’origine della vita, dove, secondo la selezione naturale e tra le altre cose, noi discenderemmo dalle scimmie. E’di questi tempi lo studio che dimostra che l’uomo ha il 94% del codice genetico in comune con lo scimpanzè, mentre solo il 6% dei geni è esclusivo di ciascuna specie. Ora, se Darwin avesse ragione, come mai gli scimpanzè non sono scomparsi come razza più debole? Forse un primum movens ha determinato la differenza?
Carlo Pagnini - Perugia
bandiere rosse dove ovviamente non manca il simbolo insanguinato. La gente ha bisogno di sapere perché tutti abbiamo l’obbligo di non dimenticare nessuna di queste vittime, dall’ebreo al ceceno, dall’africano al serbo, dal messicano all’armeno, dall’operaio ad Aldo Moro. Perché solo immaginando il volto di ogni singola vittima, far sì che forse un giorno l’umanità conosca la pace. Nello Mormile LIBERAL CLUB POZZUOLI
APPUNTAMENTI TORINO - 7 FEBBRAIO 2008 Ore 21, Sala conferenze Gam, corso Galileo Ferraris, 90 Presentazione del libro ”La rivoluzione svelata”, di Vittorio Strada. Ne discutono con l’autore Dino Cofrancesco e Giuseppe Riconda. Introduce Pier Franco Quaglieni, conclude Michele Rosboch
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog serie e del modo serio di aiutare questo nostro Paese. Se così fosse, mi spiace, ma il mio piccolo contributo, il mio voto, verrà meno. I migliori auguri per la nuova sfida giornalistica.
LETTERA DALLA STORIA
”Un uomo, per quanto i suoi confini siano limitati, conserva sempre in cuore il sentimento della libertà”
Dario Maestri
Volentieri ti ammetto che i più felici sono coloro i quali, come i bambini vivono alla giornata, portando a spasso le bambole che vestono e spogliano, e girando con gran rispetto intorno al cassetto dove la mamma ha chiuso il biscotto e, quando finalmente sono risuciti a portare via ciò che desiderano e con la bocca piena gridano: ancora! Queste sono creature felici. E si trovano bene anche quelli che danno titoli pomposi alle loro misere faccende, magari anche alle loro passioni, e poi le presentano al genere umano come opere gigantesche. Felice chi può essere così. Ma chi umilimente riconosce dove ogni cosa va a finire, come anche lo sventurato prosegua il suo cammino sotto il fardello, e tutti ugualmente abbiano interesse a vedere la luce del sole per un minuto di più, colui pure è tranquillo, e costruisce il suo mondo in sé, ed è felice, perché è un uomo e per quanto i suoi confini siano limitati, egli conserva per sempre in cuore il sentimento della libertà e sente di poter abbandonare questo carcere quando vuole. J.W.Goethe, ”I dolori del giovane Werther”. A Wilhelm
La Basilicata spende molto e non produce vero sviluppo “Basilicata che bello” è stato lo slogan che ha allietato l’ultima campagna elettorale regionale del centro sinistra per l’ennesima conquista, con maggioranza bulgara, del governo regionale e di gran parte di tutto il governo locale. Lo slogan era sembrato una nuova forma di preghiera collettiva suggerita al popolo bue per ringraziare il Signore per la generosità con cui ha creato la nostra regione. Ma solo più tardi abbiamo capito che era la bontà dell’azione politica del centrosinistra che avrebbe dovuto farci gioire. Altre gioie provenienti dal centrodestra, d’altra parte, sarebbe stato difficile immaginarle. La Basilicata spende molto e non produce vero sviluppo. A Matera, poi, la politica è indefinibile. Dopo tanti lustri il centrodestra nel 2007 ha conquistato la maggioranza al Comune. Ma dopo il voto non dà segni di voler “vincere” le elezioni. I consiglieri eletti nelle liste civiche hanno aderito in molti, in mancanza d’altro, ai circoli brambilliani, che hanno annunciato l’appoggio esterno. La speranza che
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
il meglio di
si era accesa di partire da Matera per altre conquiste del centrodestra in Basilicata, si sta dissolvendo velocemente. Nel nostro piccolo noi di Liberal ci proponiamo di non assistere inerti a questo degrado.
’68: la disintossicazione di liberal è la vera cura Ho letto con molta attenzione l’editoriale sul ’68 a titolo ”Vincere la guerra tra ribellismo e responsabilità”. Mi trovo francamente d’accordo su tutte le posizioni, soprattutto circa il passaggio che spiega come a distanza di quarant’anni ”la società italiana sia ancora intossicata dalle droghe ideologiche diffuse allora”. E’ vero, queste droghe sono storicamente morte ma culturalmente sono sempre qui. Proprio per questo aderisco alla ”disintossicazione” avviata dal vostro giornale. Appena nato ma già in grado di far riflettere parecchio su scottanti temi come quelli del nostro Sessantotto. Complimenti ed auguri per questa nuova avventura editoriale. Da oggi avete un attento lettore in più.
Andrea La Manna Catanzaro
Giuseppe Panio CLUB LIBERAL MATERA
Il mio voto verrà meno se Mastella torna a destra Avendo sentito ahimé da più parti che l’Udeur, e quindi il suo indiscusso capo Clemente Mastella, confluirà prima o poi nel centrodestra, schieramento a cui questo nuovo quotidiano si ispira, mi chiedo e vi chiedo se questo rientra nel novero delle facce
PUNTURE I professori contrari alla visita del Papa all’università romana sono diventati 1500. Pare che si riuniranno in conclave alla Sapienza per scegliere un Anti-Papa. Favorito è Gianni Vattimo. Giancristiano Desiderio
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Dio mi guardi dalla perfezione, il peggior genere letterario che esista PAUL LEAUTAUD
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
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Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
POTERE IMMOBILE La coltre di nebbia si è diradata. Ora che Marini ha gettato la spugna, le elezioni sono diventate la sbocco naturale. Il centrodestra corre allegramente incontro ad una vittoria che crede di avere già a portata di mano. Il centrosinistra si lascia trasportare nella sfida elettorale con la speranza, quanto meno, di fare piazza pulita dei suoi elementi più fastidiosi. Ognuno si è già fatto i conti in tasca. Però basta un’ombra a sconvolgere gli equilibri. I confini delle coalizioni sono ancora incerte, specialmente a sinistra, dove le elezioni sono il banco di prova per la leadership di Veltroni e l’occasione per staccare il cordone ombelicale con la sinistra estrema. Ma gli altri partiti dell’Unione? Situazione più definita per il centrodestra, il cui unico cruccio è trovare la giusta sistemazione per Mastella. Tutto il resto è fantapolitica, con i grandi capi che già pensano a dividersi i ministeri. Facile farlo quando la campagna elettorale deve ancora iniziare. Più in là, quando la sinistra avrà recuperato terreno e il centrodestra si sarà impantanato, l’ottimismo di questi giorni sarà solo un pallido ricordo. Come al solito ci saranno editoriali infuocati, attacchi personali, irruzioni mediatiche. Gli ultimi fuochi prima delle ceneri. Ma la forza della casta è restare immobile. Nel 2006 si è persa una grande opportunità per risolvere la profonda crisi del sistema politico formando un governo di unità nazionale per attuare le riforme. Due anni dopo i politici hanno già dimenticato i fallimenti del governo Prodi e della sua smania di potere – oggi, come ieri,
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restano immobili, pensando ad assicurarsi il potere e, mal che vada, una poltrona. E dopo?
Joyce joyce.ilcannocchiale.it
CAMPAGNA ELETTORALE Comincia la campagna elettorale. Mi vien da sorridere, perché ho il sospetto che negli ultimi due anni non si è mai conclusa. Ne rivivo i vari momenti. La lotta, inizialmente disperata, contro l’Unione. Quando scrivevi che forse la CdL non aveva governato così pessimamente, c’era sempre qualcuno che voleva chiamar la Croce Verde. L’idea d’esser come nell’Enrico V, alla vigilia di Azincourt. Se noi siamo segnati per la morte, qui siamo già abbastanza perché si possa dir che siamo stati una perdita grave per la patria; se poi siamo segnati per la vita, quanti meno saremo, tanta maggiore gloria per ciascuno. La lunga notte elettorale. La sensazione della sconfitta, l’euforia della speranza, la delusione del pareggio. La lunga lotta, giorno dopo giorno, contro le porcate del governo Prodi e della sua politica fallimentare. Il grido di gioia alla sua caduta... Ed ora, un’ennesima battaglia. Senza esser convinti d’aver la vittoria in tasca, poiché l’avversario è abile, temprato nell’inganno e nell’astuzia. Evitare la cupio distruendi, salvando quel poco di buono del precedente governo. Spiegare che i miracoli non son possibili, visto la pessima amministrazione prodiana, che ha avvelenato i pozzi e che ci vorran tempo e sacrifici per rimettere tutto ordine. Dire chiaramente cosa si vuol fare e perseguire l’obiettivo con decisione e coraggio.
The Brugnols brugnols.splinder.com
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edizioni
NOVITÀ IN LIBRERIA
ROBERT CONQUEST I DRAGONI DELLA SPERANZA REALTÀ
E ILLUSIONI NEL CORSO DELLA STORIA
P
erfettamente consapevole delle “illusioni primitive” che, durante il secolo scorso, hanno spinto numerose persone ad abbracciare ideologie scellerate, lo storico Robert Conquest ha consacrato la propria vita allo smascheramento delle distorsioni politiche e mentali che hanno provocato o accolto l’ascesa di regimi feroci, portatori soltanto di morte e distruzione. Questo nuovo saggio è una straordinaria difesa della civiltà e una denuncia del degrado politico e del feticismo intellettuale che caratterizzano il mondo odierno. Passando con grande agilità dalla discussione del pensiero politico dell’antica Grecia all’effetto corrosivo dell’ideologia socialista o agli attuali controsensi dell’Unione Europea, Conquest indaga le distruzioni del nostro passato, le assurdità del nostro presente e le trappole che insidiano il nostro futuro. Con una magistrale descrizione della via attraverso la quale nel mondo accademico, in quello politico e nell’opinione pubblica si sono diffuse false panacee, lo storico americano dimostra come la fiducia negli “ismi” e nei letali concetti di “popolo, nazione e masse” abbia provocato un ciclo distruttivo di totalitarismi e guerre. Il libro restituisce il quadro della situazione del mondo all’inizio del Ventunesimo secolo e ci esorta a sbarazzarci di quella “benda intellettuale” che ha sempre soffocato il dibattito e impedito un sincero e talvolta doloroso esame introspettivo.
Robert Conquest, specialista di storia sovietica, è stato direttore delle pagine letterarie del giornale The Spectator ed è attualmente Senior Research Fellow presso la Hoover Institution della Stanford University. Vive a Stanford, in California. Tra le sue opere più importanti, Il grande terrore (Rizzoli, 1999), Stalin, la rivoluzione, il terrore, la guerra (Mondadori 2003), Raccolto di dolore (liberal Edizioni, 2004).
347
pagine
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