2008_02_09

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Oggi il supplemento

MOBY DICK

9 771827 881004

ISSN

1827-8817 80209

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA

he di c a n o r c

Creato I piccolissimi e il loro diritto ad esserci

di Ferdinando Adornato

Carlo Bellieni Riccardo Di Segni Laura Guerrini Assuntina Morresi

pagina 12

polemiche LE SCONFITTE DEL SESSANTOTTO Alain De Benoist Eugenia Roccella

pagina 6 e 7

kosovo ERRORE RICONOSCERE L’INDIPENDENZA John R. Bolton Lawrence Eagleburger pagina 10 Peter Rodman

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

LA FINE DI FI E DI AN

esclusivo

Viaggio nello choc causato da una decisione improvvisa. Ma un partito può nascere con gli aut aut?

Tutto in un giorno alle pagine 2, 3, 4

SABATO 9

FEBBRAIO

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

22 •

WWW.LIBERAL.IT

e

• CHIUSO

5

L’ultimo, più importante, discorso del candidato repubblicano

La mia America

pagina 8

John McCain

ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 12

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 9 febbraio 2008

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un giorno

Si conclude l’operazione partita a San Babila con gli stessi metodi con cui era iniziata

Un coniglio dal cilindro non fa un partito unque, il 13 e il 14 aprile l’elettore di centrodestra non troverà più sulla scheda i simboli di Forza Italia e di Alleanza Nazionale e forse neanche del centrodestra dopo l’aut aut di Berlusconi a Casini, ma un’altra proposta, quella del Popolo delle libertà. Esattamente come l’elettore di centrosinistra non troverà più la Quercia e la Margherita, ma il marchio del Pd. Quanto all’elettore di sinistra, anche lui dovrà cercare qualcosa di nuovo. Probabilmente spariranno tante altre liste, quelle dei cespugli, i cosidetti piccoli su cui si sono concentrate, negli ultimi anni, le insofferenze. Nel giro di pochi mesi, il sistema politico si è semplificato, senza aver bisogno della scure di una legge. Ma soprattutto si è modificato. Dal bipolarismo muscolare si è ormai passati ad un embrione di tripolarismo e, sullo sfondo, prendono corpo altri scenari: Veltroni e Berlusconi guardano ormai da mesi ad un possibile bipartitismo, mentre occorre porsi la domanda se alla fine della storia non ci sia l’approdo di un assetto fondato su quattro poli.

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Più che un partito è ancora un listone ciò che il Cavaliere e Fini hanno deciso di mettere insieme, con un’accelerazione consumatasi in poche ore. Ricorda, quanto a meccanica, il blitz di Piazza San Babila. Una mossa improvvisa, a effetto, spettacolare. Probabilmente con il tempo diventerà un partito. Ma al momento non lo è. È solo un colpo di scena per ridisegnare con una sforbiciata gli assetti del centrodestra, per risolvere grandi e piccoli problemi, soprattutto per sottolineare che l’innovazione e la fantasia non sono un’esclusiva del veltronismo. Se c’è un primo limite di questo secondo tempo del «discorso dal predellino», il limite consiste nel fatto che la decisione appare presa per rispondere ai tempi dell’agenda fissati dal leader del Pd: il «correre da solo» e la separazione consensuale da Bertinotti costituivano mosse distintive di una nuova fase del confronto, sembravano già immerse in un’epoca diversa da quella del vecchio bipolarismo. La Casa delle libertà appariva in ritardo e alle prese con il rebus delle liste, dei cespugli, delle tante identità che la componevano. Ecco allora la scorciatoia, con un salto in avanti, destinato a colmare il

di Renzo Foa gap. Così in poche ore è diventata una lista elettorale il vecchio progetto, proposto fin dal 2005, di unire le forze del centrodestra in un unico soggetto politico. E qui sta il secondo limite. Quel vecchio progetto teneva conto della diversità tra gli alleati. Si poneva il problema di definire in primo luogo i valori comuni. Aveva presente la questione di integrare forze organizzate, sul piano nazionale e su quello locale. C’era l’esigenza di una tessitura complicata, anche per allargare il progetto oltre i confini del centrodestra. Tutti nodi difficili da sciogliere. Quando, sul versante opposto, Ds e Margherita li hanno sciolti, hanno discusso a lungo, hanno affrontato una tormentata fase congressuale, hanno pagato consapevolmente dei prezzi, hanno anche perso uomini e

zionalizzato la destra, ma che mostrava molti limiti, tra cui un tetto invalicabile di consenso elettorale e un pregiudizio per quanto riguardava l’ammissione nel consesso del Partito popolare europeo. Dunque un duplice azzeramento, destinato a conferire, quanto meno in partenza, un potere assoluto ai due leader almeno per quello che riguarda la scelta degli uomini e delle decisioni da prendere. Due leader che possono presentarsi rivendicando di essere riusciti a fare alla fine quel che Veltroni ha fatto con il Pd.

In realtà non è proprio così. O, almeno, lo è nell’immagine, ma non nella sostanza. Soprattutto su un punto: Ds e Margherita, fondendosi, hanno innescato un processo che ha portato all’epilogo la storia del centrosinistra iniziata nel 1994. Hanno concluso l’alleanza con le culture antagoniste e le forze che le esprimono. Si sono spostate al centro, segnando una novità nella storia italiana. Il listone del Pdl – chiamiamolo così perché non è ancora un partito – nasce dalla confluenza tra An, che rappresenta la destra democratica, e FI che per bacino elettorale e forza del suo leader ha svolto un ruolo centrale, ma che certamente non può vantare una collocazione centrista (che del

Dopo l’irruzione del veltronismo, il simbolo del Pdl al posto di quelli di Forza Italia e An provoca la sensazione di un azzeramento del passato. Possono cambiare le motivazioni con cui si andrà in aprile alle urne? forse voti. Invece giovedì in poche ore, senza alcuna riflessione sulle ragioni per cui quel vecchio progetto nel frattempo non era andato in porto, il coniglio è stato tirato fuori dal cilindro, è stato deciso tutto e da parte di due soli protagonisti – Berlusconi e Fini – perdipiù con il messaggio del «prendere o lasciare» rivolto agli altri. E magari anche con la certezza di essersi lasciati alle spalle questioni di difficile soluzione. Berlusconi, nell’immediato, ha sciolto il rebus del rapporto con i piccoli alleati, che per tanto tempo ha coltivato considerandolo fondamentale per una vittoria elettorale, e ha cancellato Forza Italia, di cui aveva già annunciato lo scioglimento a Piazza San Babila senza riuscire finora ad attuarlo, chiudendo nello stesso tempo «l’era brambilliana» che gli aveva procurato solo problemi. A sua volta Fini ha colto l’occasione di far scorrere i titoli di coda sulla storia di An, la creatura con cui aveva costitu-

resto non le è mai stata riconosciuta). Non è un’operazione destinata ad occupare saldamente l’area da cui dipende la governabilità. È piegata su un altro asse. Lo è tanto più, nel momento in cui all’Udc, cioè i «centristi», è stato posto il problema del prendere o lasciare. Mettendo magari nel conto anche la possibilità che Casini scegliesse, già dalle elezioni di aprile, l’opzione di presentarsi come quarto polo, anche alla luce delle discussioni degli ultimi anni. Questa eventualità sembra attuale per gli aut aut di Berlu-

sconi e c’è quindi da chiedersi se in futuro il listone del Pdl non finirà per lasciare sempre più scoperto lo spazio centrista. La spettacolarità dell’operazione, che fa il paio con il «discorso dal predellino» dello scorso novembre, non lascia in ombra le grosse incognite. Non mi riferisco tanto ai passaggi immediati, cioè alla composizione e al dosaggio degli elenchi dei candidati e quindi degli eletti. Ai mal di pancia che ci saranno. Alla possibile area degli scontenti. Mi riferisco piuttosto alla difficoltà dei passi successivi, di come il listone riuscirà a trasformarsi in un partito, anche leggero, anche solo dei leader, ma organizzato e ramificato. E qui le domande sono davvero tante, anche alla luce dei problemi che esistono all’interno del Pd, che invece si è costituito in modo diverso, con una faticosa marcia di avvicinamento.

N o r m a l m e n t e s u c c e d e che nasca un partito sulla base di valori e di interessi sociali e che poi questo partito cerchi il consenso elettorale sulla base del suo programma e della credibilità dei suoi uomini. In questo caso si è deciso un listone, che misurerà il suo peso fra due mesi, e da questo listone dovrà poi nascere una formazione politica. Ci si appende ad un risultato elettorale. Si confida in un’esperienza di governo. Ci si affida a due leader riconosciuti. Ma, soprattutto se si ha una vocazione maggioritaria, si devono mettere in conto i rischi dell’improvvisazione. Sono pesanti. Ad esempio, non si può contare solo su una nuova legge elettorale – d’accordo con il Pd – destinata a sancire il bipartitismo. Non si può poi non mettere nel conto, che dopo l’irruzione del veltronismo anche la presentazione del Pdl potrà mutare la natura del voto del 13 e 14 aprile. C’è una sensazione di azzeramento del passato. Possono cambiare rapidamente le motivazioni delle scelte, che fino a ieri consistevano essenzialmente in un referendum sul prodismo. Ci sono domande a cui non possono rispondere nuove e improvvisate architetture politiche. La prima di queste domande riguarda la credibilità delle innovazioni. Il listone è appunto sottoposto alla prova credibilità.


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un giorno

9 febbraio 2008 • pagina 3

Buttiglione dice: vorremmo restare amici ma siamo pronti ad andare da soli

«Una vera alleanza non nasce con i ricatti» di Susanna Turco

ROMA. Siamo sull’orlo di una rottura? Vedremo». Silvio Berlusconi ha appena finito di pronunciare il suo aut aut ai centristi (o dentro il Pdl o fuori dalla coalizione) e il senatore uddiccino Rocco Buttiglione ha l’aria ferma e asciutta di chi ritiene che in ogni caso non sia tutto perduto. Fino a un minuto prima, pareva che l’Udc potesse restare fuori dall’ultima del creatura Cavaliere, pur correndo nella stessa alleanza elettorale. D’improvviso sembra avverarsi quello showdown che è stato dietro la porta per anni: Berlusconi di qua, i centristi che vanno da soli... Sembra anche a lei, Buttiglione? A me sembra che Berlusconi e Fini hanno tutto il diritto di mettersi insieme e fare un partito. Ma nessun diritto di dire che noi dobbiam entrare nel loro. L’idea di dire: se non entrate non facciamo la coalizione ha l’aria di un ricatto. E i ricatti non vanno accettati. Dovremo aspettarci un campagna elettorale in cui Udc e Pdl stanno in due coalizioni diverse?

Naturalmente le ragioni per essere alleati rimangono, ma se qualcuno per imporre la sua opinione fa saltare la coalizione se ne prende la responsabilità. E badi, è una grossa responsabilità. Oggi possiamo dire che la sinistra è stata battuta perché ha dimostrato di non essere in grado di fare una coalizione, perché è composta di partiti troppo eterogenei. Da noi al contrario la possibilità di una coalizione c’è: ma adesso c’è qualcuno che vuole rinunciarci. Berlusconi dice che se l’Udc resta fuori dal Pdl «nessuno può negare che siano alleati, ma non sono nella stessa coalizione». Ecco, ma cosa vuol dire? La coalizione è l’insieme degli alleati. Io credo che sia stato male interpretato, e che alla fine questa vicenda si chiuderà bene. Eppure, il Cavaliere respinge anche l’ipotesi di una federazione tra Udc e Pdl. Le ragioni della differenza di trattamento tra noi e la Lega non si capiscono bene. I paragoni con Cdu e Csu sono impropri, perché la Csu in Baviera la Cdu non c’è proprio: Berlusconi sarebbe disposto a sciogliere An e Forza Italia in Lombardia per replicare il modello tedesco? Non credo. E poi non mi sembra nemmeno che la Lega possa accettare l’idea della federazione. Staremo a vedere. Inverando un fantasma che aleggia da sempre sull’Udc il Cavaliere sostiene adesso che «diversi parlamentari» centristi gli hanno fatto sapere di voler stare insieme a lui. Allude a Cuffaro secondo lei? Non credo che Cuffaro voglia andare in Forza Italia né che in generale succederà qualcosa del genere. Ma, soprattutto, non è molto bella l’idea

Una vittoria quasi sicura rischia di essere messa in discussione, Veltroni rientrerebbe in gioco per una specie di masochismo della destra

di andare a sfilare parlamentari, occorre rispetto reciproco. Lei vuol essere ottimista. Ma se Berlusconi restasse sulla linea dell’ultimatum, l’Udc che farà? Valuteremo, bisogna riunire la Direzione e valutare. Ma se continuasse a dire che una alleanza non la vuol fare, noi andremmo da soli. E non sarebbe una buona cosa per il centrodestra, né numericamente né strategicamente. Noi abbiamo una funzione di riequilibrio che rassicura gli elettori. E senza di voi una vittoria quasi sicura... Una vittoria quasi sicura rischia di essere messa in discussione. Veltroni rientrerebbe prepotententemente nel gioco da protagonista, per una specie di masochismo del centrodestra. Ma non credo che succederà, non per nostra colpa almeno. Secondo lei quale è la ragione di questo suo pressing? Berlusconi ha sempre desiderato fare il partito unico e ha anche ragione. Ma non è questo il modo di procedere. Ultimatum a parte, noi nel progetto di un Ppe italiano crediamo anche, ma per arrivarci c’è bisogno di passaggi che finora non si sono visti. Sta qui la ragione profonda della nostra idea di andare alle elezioni fuori dal Pdl. Cos’è che il Pdl dovrebbe avere e non ha per diventare costola italiana del Ppe? Quali sono questi passaggi che secondo lei mancano? Per avviare un progetto del genere serve anzitutto una robusta preparazione culturale. Anche per questo ho seguito con grande simpatia l’operazione della Fondazione liberal. Perché solo da un retroterra culturale può nascere una innovazione politica di grande respiro. Poi c’è bisogno di passare per la cosiddetta legittimazione democratica, quelle cose che si chiamano congressi, assemblee organizzative, elaborazione di programmi, elezioni, tutto ciò che è necessario per costruire un partito. Sennò come fai?

Berlusconi e Fini hanno tutto il diritto di fare un partito insieme, ma non possono costringerci ad aderire. Se qualcuno fa saltare la coalizione se ne assume la responsabilità


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un giorno

Viaggio in An. Gasparri: «Svolta storica». Alemanno: «Ma dopo il voto serve un congresso»

Una storia che finisce tra malinconia e speranza di Nicola Procaccini

ROMA. “Bisogna aspettarsi di tutto in politica, fuorché lasciarsi cogliere di sorpresa “. Il vecchio aforisma di Charles Maurras racconta bene la sorpresa del popolo di Alleanza Nazionale mentre sfogliava i giornali di ieri. Qualcuno ne era stato informato già nella serata di giovedì, ma i più l’hanno scoperto soltanto da poche ore: il lungo viaggio della destra italiana si è concluso. O quanto meno ha cambiato radicalmente percorso. L’unica certezza è che il partito erede del Movimento Sociale Italiano non presenterà il proprio simbolo alle elezioni del 13 aprile. Una sola lista, un solo nome, quello deriso da molti militanti di An: il Partito, pardon, il Popolo delle Libertà. In queste ore tra i “colonnelli” ed i quadri intermedi del partito prevale il senso di responsabilità, dunque le dichiarazioni sono per lo più entusiastiche o caute, ma serpeggia un certo nervosismo, uno strano sentimento di malinconia e speranza. La paura più grande è che Storace resti fuori dal Pdl, mantenendosi all’interno della coalizione. Ciò vorrebbe dire consegnare l’elettorato storico di An all’ex presidente della regione Lazio, insieme ad un numero significativo di deputati e senatori. “Il 13 aprile nascerà nelle urne - ha detto Fini un nuovo grande soggetto politico ispirato ai valori del Ppe e quindi alternativo alla sinistra”. Sulla prospettiva di aderire al Ppe ormai erano davvero pochi a dissentire dentro An, ma la condivisione di una casa comune con Capezzone, Craxi, Rotondi e Della Vedova è un’alta cosa. Prima di passare in rassegna le voci raccolte nel ventre del partito, vale la pena ricordare che il rapporto politico-affetti-

L’unica certezza è che il partito erede del Msi non presenterà il proprio simbolo alle elezioni del 13 aprile vo della base di An con Silvio Berlusconi è stato piuttosto controverso in questi 14 anni. Fino alla scorsa campagna elettorale veniva ostentata dal popolo della destra una certa distanza culturale dal leader di Forza Italia. Ma da allora nell’immaginario collettivo aennino si è fatta strada un’idea di Silvio Berlusconi, come dell’uomo forte, una sorta di incosciente confusione del Cavaliere con un altro “uomo forte” del secolo scorso. Poi vennero i “fatti di Assisi”, i fischi a Cicchitto e di nuovo la presa di distanza sofferta, ma convinta nei confronti di Berlusconi.

Il contrordine di queste ore non può non lasciare “la base”di An interdetta, confusa, a volte irritata. Roma, circolo di Colle Oppio, baluardo della destra romana dal 1946, il suo presidente Federico Mollicone dichiara: “In politica le sfide vanno accettate anche se rischiose, e questo mi affascina, ma dobbiamo stare attenti a non disorientare il nostro elettorato storico, lasciandolo senza punti di riferimento. In questa situazione di confusione il ruolo dei circoli sul territorio sarà fondamentale”. Paolo di Caro, dirigente catanese e vicepresidente nazionale di Azione Gio-

Il cordoglio di liberal per la scomparsa della madre di Gianfranco Fini Si è spenta nella notte fra giovedì e venerdì, all'età di 81 anni, Erminia Marani, la mamma di Fini. A pochi giorni dalla scomparsa di Rosa Bossi, mamma di Silvio Berlusconi, e proprio nel giorno in cui i due leader del centrodestra danno vita alla lista unica, ecco un altro segnale del destino che li accomuna profondamente. Nel ricordo di chi l’ha conosciuta, e non sono molti nel partito data la sua riservatezza, la signora Erminia era una donna distinta, affettuosa e gentile, ma dotata anche di un certo cipiglio. Nel 1971, insieme ai due ragazzi Gianfranco e Massimo seguì il marito Argenio da Bologna a Roma. Gli anni che vennero non furono certamente semplici per lei, la militanza politica del giovane futuro leader della destra italiana metteva quotidianamente a rischio la sua esistenza. Come altre madri dei cosiddetti

“ragazzi degli anni ’70”, Erminia dovette imparare a convivere con la paura per la sorte dei propri cari. Quando poi la violenza di quegli anni scemò e la carriera politica di Gianfranco si impennò vertiginosamente la signora Erminia non fece mai mancare al figlio il proprio sostegno amorevole ed intelligente. Scelse di non presenziare costantemente gli appuntamenti del partito, ma più di qualcuno la ricorda mischiata fra la folla nei grandi comizi di Piazza del Popolo e Piazza San Giovanni. Una presenza discreta la sua, ma una presenza sicura, affidabile, di grande valore per tutti. Tutta la redazione di liberal esprime a Gianfranco Fini i propri sentimenti di sincero cordoglio. I funerali si svolgeranno sabato in forma strettamente privata alle 10 presso la chiesa San Lorenzo fuori le Mura a Roma.

vani, è preoccupato per le ripercussioni di questa scelta sulle elezioni regionali siciliane: “Catania è già piena di manifesti con i simboli di Alleanza Nazionale, questo potrebbe disorientare i nostri elettori”. Fatta questa premessa, Di Caro non è per nulla preoccupato dalla mossa di Fini e Berlusconi, ma pone un problema di sostanza: “mi auguro che si vada fino in fondo nella costruzione di un partito unico e non ci si limiti alla propaganda. In Spagna, all’interno del Partito Popolare convivono anime diverse, potrebbe essere lo stesso per il Pdl”.

Veniamo ai capi. Da Maurizio Gasparri e dalla sua componente Destra Protagonista, forse perché gravati dal senso di colpa per l’episodio di Assisi, sono giunti i commenti più entusiastici alla convergenza nel Pdl: “E’ una svolta storica quella che si registra oggi nel centrodestra”. Cauto Gianni Alemanno: “Lista unica? Va bene, ma serve un programma comune, ed un congresso dopo le elezioni”. Più dubbioso Fabio Rampelli: “Personalmente, resto un nostalgico della partecipazione popolare. Penso che ai leader spetti il compito di tracciare i grandi obiettivi, ma anche quello di renderli comprensibili ai cittadini, e di farli metabolizzare dalla propria base elettorale. Difficile farcela in soli 60 giorni”. Chiude Mirko Tremaglia, vecchio saggio del partito: “Staremo a vedere come si esprimeranno gli organi direttivi del partito. Certo rimango stupito del fatto che all’estero abbiamo scelto di presentarci con quattro liste. O perlomeno questo è il lavoro che stavamo svolgendo. Comunque, io sono perché il simbolo della fiamma rimanga sempre…”.


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un giorno

9 febbraio 2008 • pagina 5

Viaggio in Forza Italia. Baget Bozzo: «L’importante è indovinare il simbolo»

Inquieti, ma già in cammino d i a r i o

di Errico Novi

ROMA. Antonio Tajani è appena reduce dall’ufficio politico del Ppe celebrato a Madrid. Riferisce dell’assenso preventivo di Wilfried Martens - che dei popolari europei è il presidente - alla svolta unitaria del centrodestra italiano. «Si è compiaciuto del fatto che anche l’Udeur sia tornato dalla parte giusta», racconta Tajani, «lo ha detto al telefono a Berlusconi. E gli ha ripetuto ancora una volta che un grande partito di tutti i moderati italiani è proprio quello che ci vuole». Detto fatto. In un giorno nasce il Popolo della libertà destinato a portare anche An nel Ppe e a rimettere ogni cosa a posto. Ma questo è il punto di vista che si può avere dall’alto della grande casa europea. Più in basso, tra gli azzurri che sudano in sala macchine, il clima è un altro. C’è preoccupazione, persino inquietudine e però anche il senso del dovere e dell’obbedienza al leader. Una disciplina che fa di Forza Italia un sistema unico nel suo genere. E così ieri le agenzie di stampa sono rimaste per ore quasi prive di dichiarazioni forziste. La giornata storica della fusione con An è passata nel silenzio. E nelle riflessioni che sicuramente assomigliano alle parole di don Gianni Baget Bozzo, prontissimo invece nel fare la sua solita lucida analisi: «È chiaro che questa svolta presenta più di un problema, il nodo più intricato non è nemmeno quello del personale politico. La cosa più delicata è indovinare il simbolo sulla scheda, fare in modo che sia davvero riconoscibile per gli elettori. Sono loro che rischiano di non essere preparati alla novità, mentre i dirigenti respiravano quest’aria già da tempo. E poi Forza Italia è un partito fondato su Berlusconi: i suoi quadri sui adegueranno». Don Gianni sa che «le candidature adesso rappresentano una questione più difficile, perché ci sono diverse forze da far convivere nello stesso partito».

ma il processo va avanti da quattro anni. Adesso forse molti non se rendono conto, ma quello che è successo oggi è nato nel 2005 con l’assemblea costituente di Todi, da cui uscì una carta dei valori per il partito unico del centrodestra approvata anche con l’Udc». Sorprendersi ora non ha senso, spiega Valducci, «visto che ci sono stati altri passaggi importanti, come la manifestazione del 2 dicembre 2006: quella volta i nostri elettori hanno dimostrato di formare un corpo omogeneo. Il discorso fatto da Berlusconi a piazza San Babila si spiega così, le persone in fila davanti ai gazebo per le preiscrizioni al Popolo della libertà sono ancora una prova di quella sintonia».

colto la notizia di stamattina con salti di gioia e sparo di petardi la prenderei in giro. So quello che ci aspetta, ce lo siamo già detti con il coordinatore di An, Delogu: ci mangeremo i nostri sacchetti di cacca e andremo avanti». Perché uno che ha potere in Forza Italia, in ore del genere, si asciuga la fronte: «Dovremo convincere quelli che sentivano già in bocca l’osso e ora si trovano costretti a scendere dal podio. In Sardegna poi abbiamo partiti minori ben radicati, bisogna fare spazio anche a loro. Con An e gli altri non possiamo metterci a litigare: la gente non capirebbe, ci chiede di mandare a casa anche Soru. E il governatore è lì proprio

«Ingoieremo rospi, fare le liste sarà un’impresa. Ma siamo già al lavoro», dicono i coordinatori locali». Valducci: «La svolta di oggi è iniziata quattro anni fa»

Attorno al sudoku delle liste si sono immediatamente dovuti applicare tutti i responsabili nazionali e locali della rete azzurra. Pochi hanno voglia di parlarne, con qualche eccezione che però conferma la regola: il coordinatore forzista dell’Emilia Gianpaolo Bettamio interviene sì ma per prendersela con Veltroni, che ha appena liquidato la nascita del Pdl come un’operazione di maquillage. Uno che parla senza sottintesi è Piergiorgio Massidda, responsabile degli azzurri in Sardegna: «Se le dicessi che ho ac-

perché all’interno della Cdl ci eravamo tirati qualche schioppettata. Non ci resta che lavorare sodo, già oggi abbiamo cominciato». Raffaele Fitto e Enrico La Loggia non assecondano la sindrome mutista, raccontano «di svolta necessaria per costruire il campo dei moderati». E chi è vicino a Berlusconi da una vita, chi c’era addirittura nella ristretta cerchia dei fondatori di Forza Italia, come Mario Valducci, dice che «questa campagna elettorale ha preteso una accelerazione,

Fino a giovedì sera i responsabili azzurri sul territorio sapevano di che si trattava: prevedere qualche posto in più per i leader dei partiti minori, far quadrare i conti di un’equazione però leggibile. Adesso c’è un coefficiente di difficoltà pazzesco. Eppure il riflesso immediato è di non imprecare, di non mostrare sconforto. Reagisce bene Paolo Russo, deputato e coordinatore cittadino a Napoli: «Questa svolta l’avevamo messa in conto, già da quella sera di piazza San Babila sapevamo che sarebbe finita così». E anzi dice Russo, da sempre vicinissimo all’ex ministro Claudio Scajola, «che in qualche modo l’improvvisa apertura di questa campagna elettorale ha finito per frenare lo slancio. Gli elettori hanno continuato a chiederci unità, noi ci siamo trovati a un certo punto obbligati a ripresentare i quattro partiti in coalizione e a rinviare tutto a dopo il voto. Con questa giornata compensiamo la frustrazione». Si sente benissimo Michela Brambilla, tra i pochi a sapere già da giorni cosa stesse per annunciare il leader. Sapeva già del nome che la lista unica avrebbe preso, ”Popolo della libertà per Berlusconi presidente”. Adesso definisce i suoi Circoli «l’esercito del Pdl». Nelle sue previsioni le candidature per lei e il suo gruppo dovrebbero sfiorare quota trenta. Più realisticamente dal suo entourage prevedono che «ci sarà un eletto dei nostri club per ogni regione, o almeno per quelle più grandi». Ai collaboratori di Michela arrivano richieste incredibili: «Ci chiamano sindaci di piccole città per chiedere una collocazione sicura, è un delirio». Ma desso che bisogna dividere tutto anche con An forse tornerà un po’ di calma.

d e l

g i o r n o

Berlusconi: «Lista unica per il Pdl» «Non ci saranno più né il simbolo di Forza Italia né quello di An, ci sarà subito l’unione dei gruppi parlamentari e andremo al voto con la lista unica del Popolo delle liberta, nome scelto dai cittadini». Lo ha annunciato il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, intervenendo telefonicamente alla trasmissione “Panorama del giorno” di Maurizio Belpietro. Berlusconi ha fatto capire che la Lega si federerà al Pdl, a cui spera possano aderire l’Udc ma anche tutti i partiti più piccoli».

Fini: «Sì al listone» «Condivido la proposta di Berlusconi di dare al popolo del 2 dicembre, al Popolo delle libertà, un’unica voce in Parlamento». Così il leader di An, Gianfranco Fini, al termine dell’incontro a Palazzo Grazioli con Silvio Berlusconi, benedice la lista unica con cui Forza Italia e Alleanza Nazionale si presenteranno alle prossime elezioni.

Cesa: «Sì all’alleanza, no al listone» «La nostra posizione è quella di lavorare ad un’alleanza nel centrodestra senza però confluire nel Pdl. Sarà necessario confrontarsi sul programma». E’ questa la reazione del segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, dopo l’annuncio della lista unica tra Fi e An (e partiti minori del centrodestra) per le prossime elezioni politiche.

Berlusconi: «L’Udc nel Pdl o fuori dalla coalizione» Nel caso in cui l’Udc decidesse di non aderire al Popolo delle Libertà, «nessuno può negare che siano alleati, ma non nella stessa coalizione». E’ questo l’aut aut del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, lasciando la residenza romana di Palazzo Grazioli per partire alla volta di Milano, e quindi di Arcore, per incontrare il segretario federale della Lega Umberto Bossi. «Possono presentarsi da soli - spiega ancora il cavaliere, riferendosi all’Udc - e poi in Parlamento potremo naturalmente trovare un accordo per farli entrare nell’alleanza».

Casini: «Allora andiamo da soli» «Se la scelta di Berlusconi e Fini impedirà una nuova alleanza per il governo del Paese, ci presenteremo autonomamente, parlando agli italiani un linguaggio di verità e responsabilità». E’ questa la reazione del leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, che a Bologna ha dichiarato che il suo partito correrà da solo alle prossime elezioni qualora non siano possibili alleanze il “listone» del Pdl.

Election Day, il Colle aspetta l’opposizione Sull’ipotesi di accorpare le elezioni politiche e quelle amministrative in un unico “election day”, il capo dello Stato attende di “conoscere con precisione” anche le opinioni dell’opposizione. Lo precisa lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, replicando alla lettera indirizzatagli dal presidente emerito Francesco Cossiga.

D52: «Parità uomo-donna nelle liste» «E’ solo garantendo l’alternanza di un uomo e di una donna nelle liste e tra i capilista che si può trasformare una pessima legge in uno strumento per realizzare il rinnovamento della politica. Se si andrà a votare con l’attuale legge elettorale questa possibilità sta nelle mani dei partiti». Lo afferma la presidente di D52, Cynthia Orlandi.


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cambio

di stagione

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L’identificazione con i diritti riproduttivi appiattisce l’identità di genere

Il femminismo sconfitto di Eugenia Roccella el maggio del 1968 le donne nelle assemblee e nei cortei c’erano, ma ancora, per così dire, in incognito. Non rivendicavano la propria soggettività, non si interrogavano sul proprio ruolo all’interno del Movimento. Erano gli angeli del ciclostile, le ragazze che svolgevano compiti esecutivi, mentre ai compagni maschi era delegata la leadership. Fu soltanto l’anno successivo che apparve all’Università di Roma il primo volantino firmato dai Collettivi femminili del Movimento studentesco. Analisi di sapore femminista circolavano già dal 1966, per esempio quelle del gruppo Demau (Demistificazione autoritarismo patriarcale), ma il movimento di liberazione delle donne, in Italia, comincia in sordina e matura lentamente. Quando parliamo di femminismo, ci riferiamo naturalmente alla “second wave”, la seconda ondata. La prima ondata è quella legata al suffragismo, alla richiesta del diritto di voto; in seguito il movimento delle donne sembrava ormai assorbito dai partiti di massa. Nel ‘68, però, sull’onda del Movimento studentesco, le donne rientrano in politica direttamente dalla piazza (...).

N

Il femminismo storico è sostanzialmente estraneo alle politiche di rivendicazione dei diritti. La novità più importante introdotta dalle femministe è nella critica radicale al patriarcato, e nell’invenzione di una prassi politica. Con lo slogan“il personale è politico”, per esempio, si volevano inserire nel dibattito politico questioni da sempre relegate

nell’ombra del privato, ritenute prive di interesse pubblico. La pratica del “piccolo gruppo” di autocoscienza, dava dignità e valore all’esperienza e a tutto quello che, dal discorso maschile, era stato espulso e considerato estraneo. Il corpo, la maternità, la sessualità, il desiderio, il lavoro di cura, la relazione, sono i temi su cui ruota l’autocoscienza; il separatismo, così spesso recepito come rifiuto del maschio, è invece il cuore di un rapporto tra donne (definito di sorellanza) teso a conquistare quell’autorevolezza da sempre negata al discorso femminile. Il metodo del “partire da sé” oltrepassa le grandi astrazioni di cui si nutre il pensiero politico: il corpo sessuato è la propria collocazione primaria nella realtà, ed è il luogo privilegiato per conoscere e riconoscere la differenza. La prima distinzione che viene operata sul piano politico è quella tra liberazione ed emancipazione. L’emancipazione porta con sé il mito di un traguardo di eguaglianza con il maschio che bisogna raggiungere, abbandonando la propria differenza o svalutandola, vivendola come una zavorra che impedisce la libertà. Il concetto di liberazione, invece, implica esattamente il contrario, cioè l’individuazione di una subordinazione storica non imputabile a una debolezza intrinseca della donna, ma a modelli che altri hanno stabilito e imposto. E quindi la necessità di ripartire proprio dalla differenza, di interpretarla e darle valore.

È difficile trovare un pensiero così ostinatamente equivocato e diffusamente mal compreso, come quello delle donne. Al fem-

minismo è stata imputata la volontà di aprire un conflitto perpetuo tra i sessi, di perseguire un’idea di libertà sganciata dalla maternità, di rivendicare il diritto a un’assoluta eguaglianza sessuale; e buona parte dei cambiamenti nei comportamenti e gli stili di vita che la modernità ha portato con sé, sono stati imputati all’irruzione sulla scena del femminismo.

I motivi dell’incomprensione sono molti. Uno è sicuramente legato a un vizio d’origine del

nion tra i due segmenti dell’attività politica sono stati, anche se le femministe hanno difficoltà a riconoscerlo, i radicali. E’soprattutto alla loro azione che si devono la legge sul divorzio e sull’aborto; Marco Pannella, come ha scritto Angelo Panebianco, si è comportato come la testa senza corpo di quel corpo senza testa che era il movimento degli anni ’70. Ma per i radicali un tema come l’aborto, oggetto di un dibattito sfaccettato e complesso nel movimento delle donne, era semplicemente un diritto civile.

Uno dei vizi d’origine del movimento delle donne nel nostro Paese è quello di essersi sviluppato all’interno dei gruppi extraparlamentari marxisti movimento delle donne nel nostro paese: l’essersi sviluppato nel particolare clima culturale del ’68 italiano, e quindi in gran parte all’interno dei gruppi extraparlamentari più o meno marxisti, leninisti, maoisti ecc., che ne sono stati protagonisti. Questo ha condotto tante militanti ha cercare disperatamente un’impossibile conciliazione tra le teorie della lotta di classe, fallimentari e obsolete, e la novità rappresentata dal pensiero delle donne. Il femminismo italiano degli anni 70 si trovava stretto in una tenaglia: se da una parte c’erano i gruppi marxisti, dall’altra parte c’era un compagno di strada piccolo ma politicamente ingombrante, il Partito Radicale. Negli anni della “presa delle piazze”, in cui le donne sperimentavano l’euforica possibilità di sfilare per la strade urlando slogan liberatori, la separazione tra il “palazzo” e il “movimento” era assoluta. L’effettivo trait d’u-

Per le femministe, invece, l’aborto era una battaglia fondamentale, ma della cui ambiguità erano perfettamente consapevoli, tanto da non averlo mai definito come un diritto, ma anzi come “qualcosa che esula dal territorio del diritto”. (...) Eppure, come risultato di tutto questo si sono ottenute leggi che hanno fondato il nuovo linguaggio dei diritti delle donne, in particolare i cosiddetti “diritti riproduttivi”, che ha invaso soprattutto le sedi internazionali. E nell’opinione pubblica, ma anche tra i politici, circola l’idea che la manipolazione della fecondazione e della nascita, la cosiddetta tecnomaternità, sia qualcosa “dalla parte delle donne”, anche qui una questione di diritti: diritto al figlio, e adesso diritto al figlio sano, selezionato tramite diagnosi pre-impianto. Com’è successo? La verità è che il movimento delle donne non è mai riuscito a far passare nella

cultura politica quasi nulla del proprio pensiero. Sono passati alcuni temi, ma solo attraverso una mediazione politica che li ha trasformati fatalmente in altro. Quando, negli anni ’80 e ’90, il movimento delle donne si è spento, i partiti di sinistra hanno in parte inglobato la spinta femminista, trasformandola in un atteggiamento femminile dinamico e rivendicativo, ma in genere appiattito sull’idea di emancipazione. Nel frattempo il femminismo teorico si è chiuso in piccoli gruppi isolati o nelle università, perdendo ogni contatto con le nuove generazioni. Le domande che ci poniamo oggi, cercando di fare un bilancio di quella stagione, sono: cosa ha lasciato, il movimento delle donne, in eredità? Ha vinto o ha perso? Si è esaurito perché è diventato mainstream o perché non ha trovato sbocco politico?

Personalmente, credo che il femminismo sia stato sostanzialmente sconfitto. Le conquiste e i diritti civili che vengono attribuiti alle lotte delle donne di quegli anni sono molto ambigui. La maternità è sempre di più trasferita in laboratorio, svuotata dei significati relazionali, modellata su un biologico manipolato. Da queste manipolazioni l’identità femminile esce a pezzi, letteralmente: il corpo delle donne viene smontato e rimontato a piacere, ne vengono utilizzati alcuni elementi (quelli necessari) e buttati via altri; e comunque l’imitazione artificiale (o la creazione, nel caso degli spermatozoi derivati da cellule somatiche femminili) degli organi della riproduzione, sarà considerata sempre migliore, più asettica e controllabile dell’originale. L’identificazione del mondo femminile con i cosiddetti diritti riproduttivi appiattisce l’identità di genere su utero e ovaie, riduce il tutto alla parte. L’affidamento a medici e scienziati, che veniva rifiutato negli anni Settanta, oggi è accettato acriticamente, anzi, spacciato come momento di emancipazione. Le donne hanno ottenuto qualcosa in termini di parità, ma quasi nulla in termini di differenza. Anzi: più che mai oggi la differenza di genere rischia di disperdersi nel mare delle “differenze”, al plurale, e di perdere significato. (...) Questo tipo di politica non ci può portare lontano, o meglio, sappiamo ormai benissimo a che traguardi conduce, perchè li abbiamo più o meno raggiunti, ed è questo che ha prodotto l’idea, abbastanza diffusa, che il femminismo abbia già ottenuto tutto. Tutto: cioè l’appropriazione del modello individualista occidentale maschile. Sul piano della valorizzazione e del riconoscimento della differenza, invece, ha ottenuto poco o niente.


cambio

di stagione

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De Benoist racconta il maggio francese visto dalla Nuova Destra

Il Sessantotto peggiore? Quello dei pentiti ROMA. «Il 68 l’ho guardato dalla finestra» ha raccontato una volta Alain De Benoist, incuriosito e distaccato dal magma del maggio francese che voleva l’immaginazione al potere e il rovesciamento dei vecchi valori. Nel febbraio del ’68 De Benoist aveva fondato con un gruppetto di amici la rivista della nuova destra Nouvelle Ecole: il segnale che anche nella rive droite, mentre tutto nel mondo cambiava, qualcosa aveva cominciato a muoversi. La vecchia destra non capiva e condannava, la nuova voleva esserci, in posizione critica. «Amavamo ascoltare tanto Bob Dylan o Leonard Cohen quanto le canzoni dei parà...» racconterà De Benoist, a dimostrazione che nei gusti e nel costume gli steccati erano saltati in aria. «Una promessa tradita», ricorderà il filosofo della Nuova Destra, «ma perlomeno il Sessantotto fu uno slancio, un desiderio, delle immagini: qualcosa che dava l’apparenza del cambiamento in quell’universo così disperatamente pesante del dopoguerra». De Benoist lei verso il Sessantotto sembra meno severo rispetto al presidente Nicholas Sarkozy. Meno schematico direi. Perchè non si è capisce ciò che è accaduto in Francia nel maggio 68, se non si riconosce che in quel movimento convivevano due pulsioni. Un aspetto del ’68 è la protesta contro la politica spettacolo e il regno delle merci, un ritorno allo spirito della Comune, alle origini del socialismo francese. Per quest’anima del movimento, anche se mescolata a molte ingenuità giovanili, io non posso che avere simpatia. Ma c’è stato anche un altro maggio, ispirato a uno stile di vita puramente edonistico e individualistico, che si limita a contestare la morale del momento già crinata dai trent’anni gloriosi. Con questa anima del ’68 lei è molto duro: «Hanno abbandonato tutto dei loro ideali, ad eccezione del loro settarismo». E anche: «Non li rimprovero per avere subito un’evoluzione. Quello che rimprovero loro è di avere abbando-

di Riccardo Paradisi nato qualunque prospettiva critica». Si perchè chi ha animato questo Sessantotto edonista non ci ha messo molto a realizzare che non sarebbe stata la rivoluzione o il mettersi a servizio del ”popolo”a soddisfare i suoi desideri: meglio avrebbe servito allo scopo una società individualistica e permissiva. Per questo, mantenendo il loro settarsimo, hanno naturalmente aderito al capitalismo liberista. Il caso di Nicolas Sarkozy a questo riguardo è paradigmatico. Perchè? Sarkozy ha condannato senza appello l’eredità del ’68 attribuendo a quel fenomeno per esempio il degrado del sistema di istruzione. Ma per la volgarità del suo comportamento in pubblico, per il suo stile di di vita da nuovo ricco, per il il suo perpetuo agitarsi, per l’enorme fascino che in lui esercitano l’America, il denaro e spettacolo, lo si potrebbe tranquillamente considerare come un perfetto sessantottardo. Alcuni intellettuali francesi vicini al “maggio”, come Edgard Morin e Revel, Jean-François guardavano però agli Usa sin da allora, in particolare alla California, come al modello di società libera e moderna a cui avrebbe dovuto aspirare l’Europa vecchia e retriva. Già, ma l’America che sedusse Revel e Morin negli anni Settanta è sparita. L’America di oggi è quella delle enormi diseguaglianze economiche, dell’onnipotenza dei mercati finanziari, l’America di un unilateralismo militarmente aggressivo che è la causa principale dell’affondamento del diritto internazionale e della brutalizzazione dei rapporti internazionali. Come spiega questo collasso ideologico di massa? In parte con quello che dicevo prima riguardo l’anima edonistica e individualista della contestazione ma anche dal desiderio di fare carriera, di guadagnare posizioni di potere. Si sono allineati all’ideologia del

mercato per trarre da essa tutti i vantaggi. Hanno abbandonato la causa dei popoli per difendere l’ideologia dei diritti dell’uomo che è oggi il principale discorso di legittimazione della trasformazione del mondo in uno sterminato supermercato. Alcuni di loro sono stati semplicemente acquistati dal sistema. In Francia il Sessantotto è durato una stagione. Resterà il mito, ma storicamente il fenomeno finisce quando De Gaulle dichiara finita la ricreazione. In Italia il Sessantotto sembra non essere mai finito. Secondo lei quali sono i motivi di questa differenza? Onestamente io non ho questa impressione, che il Sessantotto cioè in Italia non sia mai finito: è comunque vero che la recente storia politica di Francia e Italia sono state molto diverse. Gli italiani non hanno conosciuto nessun fenomeno simile al quello del gollismo né i francesi hanno conosciuto una stagione simile a quella di “Mani pulite”. La Francia è poi un Paese di guerre civili e di esplosioni rivoluzionarie che per fortuna o purtroppo restano spesso incompiute. Infine noi abbiamo avuto il maggio ’68, ma non abbiamo conosciuto le Brigate Rosse. Adriano Romualdi, ha scritto una volta che i giovani, durante la contestazione, andarono in massa a sinistra perchè a destra non c’era più niente. Che cosa mancava nella destra francese e italiana di allora per attirare i giovani? Le destre europee si sono ritrovate indebolite all’indomani della seconda guerra mondiale. Uno dei risultati è che i loro difetti tradizionali sono diventati più visibili delle loro qualità. Mentalità ossessiva, pigrizia intellettuale, incapacità di analizzare il momento storico che viviamo, incomprensione di che cosa è la politica. La destra in fondo è stata sempre più reattiva che riflessiva, funziona per entusiasmo o per indignazione. Il mondo in cui esplose la contestazione non esiste più. In quello di oggi, il

«Hanno abbandonato tutti i loro ideali, tranne il settarismo. Non li rimprovero per avere subito un’evoluzione, ma per avere abbandonato ogni prospettiva critica. Si sono piegati alla stessa società a cui avevano dichiarato guerra» mondo della globalizzazione, le nuove generazioni europee si trovano in una condizione di scacco: alta disoccupazione e zero protagonismo politico e sociale. Al potere ci sono i contestatori di ieri. Eppure i giovani non sembrano tentati dalla politica né da forme di contestazione al potere. Perchè? Come dicevo la dimensione economica è ormai incontrastata: la sfera privata domina su quella pubblica, i valori mercantili su quelli politici. Il risultato è un declino della cittadinanza e un tramonto della funzione politica schiacciata tra economia e morale dei diritti umani. In queste circostanza la messa in forma di un grande progetto collettivo che possa mobilitare i giovani diventa sempre più difficile. Detto questo non credo che la sfida sia finita. Vede all’orizzonte nascere un nuova contestazione giovanile? La vedo prendere altre forme: nella post-modernità le comu-

nità e le reti continuano a crescere a scapito di uno Statonazione sempre più impotente e obsoleto, incapace ormai di produrre socialità. I localismi, l’ecologismo, le economie alternative e solidali offrono invece prospettive nuove. La globalizzazione unifica, omologa ma al tempo stesso crea nuove frammentazioni. Quale potrebbe essere la bandiera della nuova contestazione che le nuove generazioni potrebbero agitare? Dopo la libertà e l’eguaglianza a venire oggi alla ribalta è il tema dell’identità. La grande domanda è sapere se noi ci stiamo dirigendo verso un mondo unipolare, americanocentrico o verso un mondo multipolare. Io penso che assisteremo a una rinascita del pensiero ribelle. Che si espanderà in modo tanto più veloce e forte quanto più il sistema dominante dovrà fare fronte alle contraddizioni interne che non cesseranno di intensificarsi. Perchè il sistema basato sul denaro cadrà per colpa del denaro.


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Usa

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La mia America di John McCain

Arlington, discorso pronunciato al Conservative Political Action Conference il 7 febbraio. razie. Grazie per avermi invitato. È passato un po’ di tempo dall’ultma volta che ci siamo visti e apprezzo moltissimo che mi abbiate dato questa opportunità. Sono conscio della mia responsabilità se sono, come spero sarò, il candidato repubblicato per la corsa alla Casa Bianca, e farò ogni sforzo per unire il partito e portarlo alle elezioni di novembre. Sono perfettamente consapevole che questo sforzo non servirà, che il nostro partito non ce la farà a controbbattere alle istanze di cambiamento proposte dai senatori Clinton e Obama, senza il supporto di tutti i conservatori le cui convinzioni, creatività ed energia hanno garantito il successo del nostro partito per

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oltre un quarto di secolo. Molti di voi hanno duramente dissentito con alcune delle mie posizioni di questi ultimi anni. Lo capisco. Posso non condividerlo ma lo rispetto. Ed è mia speranza che seppur voi riteniate io abbia occasionalmente mancato al mio nerbo conservatore, questo non vi impedisca di riconoscere tutte le volte in cui questo nerbo è stato da me mantenuto. Di più: spero vogliate riconoscermi che la passione che metto nel difendere posizioni comuni è la stessa che ho messo per sostenere cause che provocavano il vostro disappunto. Così non fosse, vi ringrazio per l’opportunità che mi date di chiarirlo. Sono orgoglioso di essere un conservatore, e lo ribadisco perché condivido con voi i principi cardine del conservatorismo: che la libertà è un diritto che ci arriva da Dio e non dai governi, e che il corretto

utilizzo della giustizia e della rule of law nel nostro paese non è accrescere il potere dello Stato ma il proteggere la libertà individuale e le proprietà dei suoi cittadini. E come voi, so - come diceva Edmund Burke - che «la separazione fra libertà e giustzia è un male per entrambe». Ho partecipato alla mia prima assemblea Cpac invitato da Ronald Reagan: era il giorno in cui pronunciava il suo shining city upon a hill. Ero ancora un ufficiale della marina, ma le sue parole mi ispirarono e rafforzarono la mia identità politica (...). Sono fiero, e molto, di aver servito il mio paese sotto la Rivoluzione reganiana. E se alcune delle mie azioni vi hanno fatto supporre che io avessi dimenticato la mia eredità politica, voglio rassicurarvi che non è così, e che sono orgoglioso di questo partito così come lo ero ieri. Credo oggi,

esattamente come 25 anni fa, in un governo snello, nella disciplina fiscale, in una tassazione leggera, in un sistema dove i giudici interpretino e non usino le nostre leggi, e nei valori sociali che sono alla base della nostra forza: i diritti alla vita e alla ricerca della felicità, valori che ho sempre difeso. Questi sono i miei valori e non avete bisogno di rileggervi tutti i miei discorsi per averne conferma. Lo potete vedere anche oggi, in questa campagna elettorale. Dall’Iowa al New Hampshire, al Michigan, alla Florida. (...) Tutto ciò che chiedo ad ogni americano, conservatore, moderato, indipendente o democratico insoddisfatto, è di giudicare le mie azioni nella loro interezza e vedere che non ho mai fatto promesse che non abbia potuto mantenere, a costo di critiche. E poi votate per o contro di me basandovi su queste azioni, sulla mia esperienza

per questo compito e sugli obiettivi che mi prefiggo di raggiungere nel guidare questo paese. Se io sono così fortunato da essere il candidato repubblicano alla presidenza, garantirò agli americani un chiaro approccio conservatore al governo. (...). Spesso in America le elezioni vengono vinte con margini molto ristretti. Non sarà il caso di queste elezioni. Chiunque sia il candidato scelto dai democratici, gli Stati Uniti sarebbero governati in un modo che, a mio avviso, porterebbe indietro il Paese ai giorni in cui il governo si sentiva in potere di toglierci la libertà e di decidere per noi il corso e la qualità delle nostre vite; sostituirebbe al buonsenso e ai valori comuni della popolazione americana l’opinione confusa di ampie e crescenti burocrazie federali; porterebbe questo paese indietro alla timidezza e all’illusione


Usa di un periodo in cui evitavamo di guardare le minacce alla sicurezza che stavano acquistando così tanta forza all’estero. È vergognoso e pericoloso che i senatori democratici stiano bloccando un’estensione dei poteri di sorveglianza che permettono alla nostra intelligence e alle nostre forze di sicurezza di difendere il nostro Paese contro gli estremisti islamici radicali. Queste elezioni riguarderanno grandi cose, non piccole cose. Ed io intendo combattere duramente per assicurare che i nostri principi prevalgano sui loro. La senatrice Clinton e il senatore Obama vogliono aumentare la misura del governo federale.

Io intendo invece ridurla. Non firmerò alcuna legge senza copertura di spesa e non permetterò l’espansione di programmi federali che ci stanno mandando in bancarotta. Al contrario, intendo riformare quei programmi così che al governo passi la voglia di fare promesse che non può mantenere. La senatrice Clinton e il senatore Obama aumenteranno le tasse. Io intendo tagliarle. Comincerò rendendo permanenti i tagli alle tasse dell’amministrazione Bush, taglierò le aliquote fiscali dal 35 al 25 per cento. Abolirò l’Alternate Minimum Tax. E non permetterò ad un governo democratico di aumentare le vostre tasse e arrestare la crescita della nostra economia. Loro offriranno una grande soluzione statalista per il sistema sanitario nazionale. Io intendo affrontare il problema con soluzioni di libero mercato e con rispetto per la libertà degli individui di fare scelte importanti per loro stessi. Loro si rivolgeranno a quei giudici federali che vogliono realizzare nei tribunali i cambiamenti politici che la popolazione americana ha rifutato con il voto. Io intendo nominare giudici che hanno dimostrato di meritarsi la nostra fiducia; che considerano come loro responsabilità primaria il rispetto delle leggi fatte dai rappresentanti elet-

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ti; giudici del calibro di Roberts e Alito; giudici che siano affidabili per rispettare i valori delle persone e che si impegnano a difendere i loro diritti e le loro proprietà. La senatrice Clinton e il senatore Obama ritireranno le truppe dall’Iraq sulla base di un calendario arbitrario, scritto soltanto in base all’opportunità politica, che metterà a grave rischio la nostra sicurezza. Io intendo vincere la guerra. Dare fiducia al giudizio sensato dei nostri generali e al coraggio e all’altruismo degli americani che hanno l’onore di comandare. Condivido il dolore per le terribili perdite che abbiamo sofferto in questo processo. Non ci sono altri candidati per questo posto che apprezzino più di me quanto è terribile la guerra. Ma so anche che i costi in vite e ricchezza cui andremmo incontro, nel caso di un fallimento in Iraq, sarebbero molto più grandi rispetto alle terribili perdite che abbiamo sofferto fino ad ora. Ed io non che permetterò questo accada.

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Sono orgoglioso di essere un conservatore, e lo ribadisco perché condivido con voi i principi cardine del conservatorismo: che la libertà è un diritto che ci arriva da Dio e non dai governi, e che il corretto utilizzo della giustizia e della rule of law nel nostro Paese non è accrescere il potere dello Stato, ma proteggere la libertà individuale e le proprietà dei suoi cittadini. E come voi, so - come diceva Edmund Burke che «la separazione fra libertà e giustzia è un male per entrambe».

Credo in un governo snello, nella disciplina fiscale, in una tassazione leggera, in un sistema dove i giudici interpretino e non usino le nostre leggi, nel diritto alla vita e alla ricerca della felicità

siva e mobilitando ogni agenzia del nostro governo, e i nostri alleati, nell’urgenza di difendere i valori, le virtù e la sicurezza delle persone libere contro coloro che disprezzano tutto quanto c’è di buono di noi.

Loro non riconoscono e non affrontano seriamente la minaccia posta da un Iran con ambizioni nucleari verso il nostro alleato, Israele, e tutta la regione. Io intendo rendere inequivocabilmente chiaro all’Iran che non permetteremo - ad un governo che sposa la distruzione dello stato di Israele come suo obiettivo primario e si dichiara nemico eterno degli Stati Uniti - di possedere le armi necessarie per soddisfare le loro ambizioni. La senatrice Clinton e il senatore Obama concederanno ai nostri critici che le nostre azioni di difesa fomentano il terribile male del fondamentalismo islamico. La loro tenacia nel

Queste sono solo alcune delle differenze che potranno definire le prossime elezioni. Si tratta di differenze molto significative e - ve lo prometto - io intendo discutere questi problemi da un punto di vista conservatore e combattere strenuamente per difendere i principi e le posizioni che condividiamo. Abbiamo avuto alcuni disaccordi, e nessuno di noi può fingere che non continueremo ad averne. Ma anche nel disaccordo cercherò il consiglio dei miei amici conservatori. Se ho la convinzione che il mio giudizio sia sbagliato, lo correggerò. E se rimango della mia posizione, anche dopo aver ascoltato i vostri consigli, spero che non dimenticherete i punti di accordo. Inizio questa battaglia assicurandovi che condividiamo un concetto di libertà che è il caposaldo delle nostre idee conservatrici. Come sapete, io sono stato privato della libertà per un periodo della mia vita, e mentre il mio amore per la libertà non è più grande del vostro, potete essere certi che il mio è pari a quello di qualsiasi americano. È profondo e costante. Le

combattere questo fondamentalismo sarà difettosa, proprio come il loro ragionamento. Io intendo sconfiggere questa minaccia rimanendo sull’offen-

esperienze della mia vita al servizio del nostro Paese hanno dato forma alle mie idee politiche. Sono alla base delle mie convinzioni. Io sono a favore della vita e sono un fautore per il Diritti dell’Uomo in ogni parte del mondo, perché so che negare la libertà è un’offesa alla natura e a Dio.Vi prometto che non esiterò mai in questa convinzione. So che in questo Paese la nostra libertà non sarà oggetto di una rivoluzione politica o sottomessa da un governo totalitario. Ma, piuttosto, come aveva avvisato Burke, «può essere rosicchiata, per convenienza, da diverse parti». Io sono pronto a questo rischio e a difendermi da esso, e a trarre conforto dalla consapevolezza che sarò sostenuto dai miei amici conservatori. Mi avete ascoltato dire in precedenza che per la mia reputazione di maverick, ho trovato la vera felicità nel servire una causa più grande dei miei propri interessi. Per me, questa causa è sempre stato il nostro Paese e gli ideali che ci hanno reso una grande nazione. Sono stato un suo servitore imperfetto per molti anni, ed ho commesso molti errori. Potete provarlo, ma non ce n’è bisogno. Conosco bene me stesso. Ma amo profondamente il mio Paese e non mi stancherò mai di servirlo. Non ce la posso fare senza i vostri consigli e il vostro supporto. E vi sono grato, molto grato, per avermi dato la possibilità di chiedervelo. Grazie, che dio vi benedica.


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mondo

Tre firme eccellenti contro la scelta di accettare la secessione di Pristina, annunciata per il 17 febbraio

Riconoscere l’indipendenza del Kosovo è un errore di John R. Bolton, Lawrence Eagleburger e Peter Rodman amministrazione Bush ha detto di essere pronta a riconoscere un’eventuale dichiarazione d’indipendenza unilaterale da parte degli albanesi del Kosovo, provincia della Repubblica di Serbia che, dal 1999, è sotto l’amministrazione Onu ed il controllo militare Nato. Il riconoscimento avverrebbe nonostante l’opposizione della Serbia e senza alcuna modifica alla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza Onu, che ribadisce la sovranità serba sul Kosovo, pur disponendo “l’autonomia sostanziale” della provincia. Il riconoscimento Usa potrebbe essere seguito da quello di altri Paesi dell’Unione Europea, sottoposta alle forti pressioni di Washington.

L’

Il tentativo di imporre una soluzione alla Serbia costituirebbe una sfida aperta alla Federazione Russa, che osteggia qualsiasi accordo che non venga accettato da Belgrado. Noi pensiamo che non sia nell’interesse degli Stati Uniti imporre una soluzione alla questione kosovara e dividere il territorio sovrano serbo senza il consenso di Belgrado. L’irresponsabile ipotesi su cui si è basata la politica americana - che il semplice trascorrere di nove anni di calma relativa sarebbero stati

sufficienti ad indurre Serbia e Russia a modificare le loro posizioni su un conflitto annoso si è rivelata ingenua. Riteniamo che la politica statunitense in Kosovo debba essere ripensata al più presto e sollecitiamo l’Amministrazione Bush a negare il riconoscimento ed a scoraggiare i kosovari dal compiere tale passo. La scelta di Washington si fonda sulla poco convincente idea della “unicità” del Kosovo, che non costituirebbe un precedente per altre zone del mondo. Fermo restando che ogni conflitto presenta delle caratteristiche peculiari, le minoranze etniche e linguistiche di altri Paesi stanno già

preoccupante di questa scelta politica è l’atteggiamento sprezzante mostrato verso Mosca. Qualsiasi siano i motivi di disaccordo con il Cremlino su altre questioni (e sono numerose), gli Stati Uniti non devono far precipitare le relazioni bilaterali in un’inutile crisi. Sono altri i dossier urgenti su cui lavorare in accordo; tra questi: il nucleare iraniano e della Corea del Nord. Cooperazione che verrebbe minata da un’eventuale iniziativa statunitense volta a neutralizzare le legittime preoccupazioni di Mosca sul Kosovo. La situazione, oggi, è inoltre molto diversa da quella che nel 1999 consentì agli Usa e alla

Europa non trarrebbe più benefici di quanti ne traggano gli Stati Uniti dall’inevitabile scontro con la Russia.

Anche ove il Kosovo si dichiarasse una nazione indipendente, finirebbe sotto la tutela della comunità internazionale per un tempo indefinito. Corruzione e criminalità organizzata la fanno da padroni. L’economia, a parte la generosità internazionale e le attività criminose, è debolissima. Il rispetto della legalità, l’integrità della magistratura, la tutela di persone e cose, nonché altre componenti essenziali di uno Stato sono praticamente inesistenti. Se

Per Kostunica i serbi non accetterannno mai lo “scippo” del 15 per cento del loro territorio. Il presidente Tadic pronto a convocare il consiglio di sicurezza nazionale la prossima settimana. L’Onu appronta un piano di evacuazione dando segno di voler seguire l’esempio del Kosovo. Il Montenegro, la Macedonia e la zona serba della Bosnia-Herzegovina. E avvisaglie di interesse sono già state mostrate dal movimento separatista basco e da Cipro. Né il Consiglio di Sicurezza, né altri organismi internazionali hanno il potere o l’autorità d’imporre modifiche alle frontiere di un Paese. L’aspetto

Nato di intervenire in Jugoslavia ignorando le obiezioni di una Russia ancora debole. Lo scenario è mutato e non daremmo per scontata la passività del Cremlino. La nostra politica, inoltre, può rappresentare un problema anche per alleati e amici europei. I Paesi membri potrebbero sentirsi obbligati a seguirci sulla strada del riconoscimento e alcuni con riluttanza. Senza contare che la stessa

la colpa di tali fallimenti viene spesso attribuita all’incertezza dello status del Kosovo, una dichiarazione d’indipendenza unilaterale riconosciuta da alcuni Paesi e respinta da altri non migliorerebbe la situazione. Ne conseguirebbe il “congelamento del conflitto”, senza risolvere la questione dello status. Il rischio di nuove violenze ne ostacolerebbe ulteriormente lo sviluppo.

La Serbia ha compiuto grandi passi in avanti in termini di sviluppo democratico ed economico dalla caduta del regime di Milosevic. Questa politica verso il Kosovo rischia di vanificare totalmente i risultati. Non vi sono molti dubbi su ciò per cui opterà la Serbia se sarà obbligata a scegliere tra l’alleanza con l’Occidente e la difesa del proprio territorio sovrano e della Costituzione. Senza contare l’inevitabile ulteriore avvicinamento di Belgrado a Mosca, suo unico protettore. Una soluzione percorribile e duratura può scaturire soltanto dal negoziato. La promessa statunitense ai kosovari non va in quella direzione. Nè è accettabile l’affermazione dei favorevoli all’indipendenza, secondo cui gli albanesi starebbero perdendo la pazienza, perché ciò significherebbe sottostare ad una minaccia. È dunque importante non intraprendere iniziative arbitrarie che potrebbero trasformare un problema relativamente piccolo in uno decisamente più grande. John R. Bolton è l’ex ambasciatore Usa presso l’Onu; Lawrence Eagleburger è l’ex Segretario di Stato di George Bush; Peter Rodman è senior fellow presso la Brookings Institution.


mondo

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Un rapporto della Freedom House di Washington: in Arabia Saudita si insegna l’intolleranza

Gli studenti arabi imparano l’odio sui libri di scuola di Enrico Singer Occidente? «Non ha mai smesso di fare crociate contro l’Islam, ma come i musulmani si unirono per sconfiggere i crociati in Palestina, così i musulmani di oggi hanno il dovere di combattere la loro jihad contro i nuovi crociati». Gli ebrei? «La lotta tra i musulmani e gli ebrei continuerà fino all’ora del giudizio e i musulmani la vinceranno perché la ragione è dalla loro parte e chi ha ragione trionfa sempre». I cristiani? «Tutte le religioni diverse dall’Islam sono false e gli infedeli devono essere combattuti perché sono nemici dei veri credenti». E ancora: «Non è permesso a un bravo musulmano di essere amico sincero di un cristiano, di un ebreo o di chiunque altro non riconosca Allah e il suo profeta». Sembrano proclami di bin Laden o di Ahmadinejad: in realtà sono brani di testi scolastici dell’Arabia Saudita, che gli Stati Uniti considerano il loro migliore alleato contro il fondamentalismo. Ma che, secondo uno studio del Centro per la libertà religiosa della Freedom House di Washington, «continua a instillare l’odio» in modo sistematico: attraverso l’insegnamento, dalla prima elementare fino al termine degli studi. «Quando anche questo anno scolastico finirà – conclude il rapporto – altre migliaia di giovani sauditi usciranno dalle scuole convinti che chi crede in religioni diverse dall’Islam è un essere inferiore, che non è possibile alcuna convivenza con gli infedeli e che la violenza per imporre l’Islam non è soltanto ammessa, ma è necessaria». La Freedom House, un think-tank fondato più di sessant’anni fa da Eleanor Roosevelt, ha esaminato i libri di testo pubblicati dal ministero dell’Educazione di Riyadh per elementari, medie e superiori: dodici anni di corsi tenuti nelle 25mila scuole e seguiti ogni anno da cinque milioni di studenti. Ottenere quei libri non è stato facile, perché non sono in vendita: i ricercatori li hanno avuti da studenti o insegnanti. Ora sono negli archivi della Freedom House, a disposizione di chi avesse dei dubbi. Non solo: l’e-

L’

same dei testi è stato realizzato da esperti tra i quali anche il direttore dell’American Islamic Congress, Zainab al-Suwaij. Nello studio – che s’intitola Saudi Arabia’s curriculum of intolerance – ci sono centinaia di citazioni. Ma il filo conduttore è unico: nonostante le promesse fatte dalle autorità di Riyadh, dopo l’11 settembre del 2001, di eliminare dai testi scolastici ogni incitamento alla violenza e all’intolleranza, tutto è rimasto come prima.

“Non è permesso a un bravo musulmano di essere amico sincero di un cristiano, di un ebreo o di chiunque altro non riconosca Allah” Il governo Usa aveva cominciato ad accusare il sistema scolastico saudita, quandò si scoprì che quindici dei diciannove terroristi-suicidi del11/9 erano nati e avevano studiato in Arabia Saudita. Il rapporto ricorda che, nel maggio del 2006, durante una visita a Washington, il ministro degli Esteri, Saud al Faisal, aveva dichiarato che ormai «il sistema d’insegnamento era stato trasformato da cima a fondo». Ma

a leggere le 38 pagine del rapporto si capisce che non è così. La supremazia assoluta dell’Islam è il fondamento di tutto l’insegnamento e dell’Islam wahhabita praticato nel Paese. Tanto che gli stessi sunniti e sciiti sono considerati, in pratica, degli eretici. Ma i veri infedeli sono i cristiani e gli ebrei, contro i quali «ogni bravo musulmano deve dare battaglia». La parola usata per battaglia è qital che deriva dal verbo qatala che significa uccidere. E che – sottolinea il rapporto – «non è mai usata in modo metaforico». Le frasi più pesanti sono riservate agli ebrei che avrebbero «giocato un ruolo decisivo nello scoppio della prima guerra mondiale» e che avrebbero «il controllo della letteratura degenerata e pornografica». I testi scolastici, poi, sostengono «l’autenticità dei Protocolli di Sion scoperti nel diciannovesimo secolo, che gli ebrei hanno cercato di negare, ma che ne rivelano i veri obiettivi» rinnovando, così, la teoria nazista della ”cospirazione mondiale” degli ebrei. Sui cristiani c’è un capitolo sui missionari che «sfruttano la sofferenza perché dove c’è sofferenza c’è bisogno di un dottore e dove c’è bisogno di un dottore c’è l’opportunità di azioni di cristianizzazione». Anche la costruzione di ospedali è proselitismo ed è vietato dall’Islam. I testi esaminati dalla Freedom House sono utilizzati anche fuori dall’Arabia Saudita, nella rete di scuole (una c’è anche a Roma) controllate dalle ambasciate saudite. Proprio da quella che si trova vicino a Washington è “filtrata”buona parte dei libri che hanno permesso il rapporto. Da parte di Condoleezza Rice la reazione è stata prudente: all’amministrazione americana risulta che la riforma dei testi scolastici è «underway», cioè in corso. Le relazioni con Riyadh sono strategiche e la cautela è d’obbligo. Ma non è certo un caso – e il rapporto lo sottolinea – che in uno dei suoi messaggi registrati Osama bin Laden, tra le tante minacce, si è scagliato anche contro chi vorrebbe «interferire nei programmi scolastici dei Paesi islamici».

d i a r i o

d e l

g i o r n o

No ad una Nato a doppia velocità La delicata situazione dell’Afghanistan e la necessità di conciliare gli interessi dei 26 paesi alleati hanno trascinato la Nato sull’orlo della crisi. Al vertice di Vilnius, in Lituania, i ministri della Difesa dell’Alleanza atlantica hanno fatto un grande sforzo per mostrare un’unità inesistente, ma il segretario generale dell’organizzazione, Jaap de Hoop Scheffer, ha ribadito che non si può pensare ad una «Nato a due velocità», come aveva affermato nei giorni scorsi il capo del Pentagono, Robert Gates.

Russia, ripresa la corsa agli armamenti Il presidente russo Vladimir Putin ha accusato l’Occidente di voler trascinare il suo Paese in una nuova corsa agli armamenti. «È chiaro che una nuova corsa agli armamenti viene lanciata nel mondo... non dobbiamo permettere di venirvi trascinati», ha dichiarato in diretta televisiva delineando la sua strategia fino al 2020. «Non è colpa nostra - ha affermato - La Nato si avvicina ai nostri confini. Abbiamo ritirato le nostre basi a Cuba e in Vietnam, e cosa abbiamo ricevuto? Nuove basi americane in Romania e Bulgaria. E una terza regione di difesa missilistica che viene costruita in Polonia». Il discorso programmatico arriva a quattro settimane dalle elezioni del 2 marzo per la scelta del suo successore.

Usa, studentessa spara in un college Una sparatoria è avvenuta ieri mattina in un campus universitario a Baton Rouge, in Louisiana. I morti sarebbero tre. A sparare nell’istituto sarebbe stata una studentessa. Due persone sarebbero state colpite. La ragazza poi avrebbe rivolto l’arma contro se stessa.

Kenya, Annan ”frena” gli entusiasmi La notizia di un’intesa per un governo di unità nazionale in Kenya tra la formazione politica al potere - il Partito di Unità Nazionale del presidente Mwai Kibaki - e l’opposizione è prematura. Lo ha affermato Kofi Annan, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite mediatore nella crisi per l’Unione Africana.

Trattato Ue, ok ratifica Francia Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha salutato ieri a Bruxelles la ratifica francese del nuovo Trattato di Lisbona, ricordando che proprio dal ’no’ dei francesi era partita la crisi politica dell’Ue, conclusasi ora con il nuovo ’Trattato semplificato’ proposto dal presidente Sarkozy.

Ue, pacchetto contro immigrazione illegale La Commissione Europea la prossima settimana presenterà un nuovo pacchetto di misure per rafforzare i controlli alle frontiere, combattere l’immigrazione illegale e prevenire il terrorismo. Secondo alcune indiscrezioni, Bruxelles intende creare un archivio informatico con i dati personali, incluse le impronte, di tutti i passeggeri che attraversano i confini europei.

Strategia per le banlieue Il capo di Stato francese, Nicolas Sarkozy, ha presentato il piano a favore delle banlieue, che verte su alcuni assi principali volti a rompere l’isolamento dei quartieri difficili delle città: occupazione, educazione, sicurezza, alloggi, salute. Il programma è stato concordato con Fadela Amara, la segretaria di Stato alle Politiche urbane.

Khatami contro Ahmadinejad? L’ex presidente iraniano nonché capo della corrente riformista, Mohammed Khatami, ha dichiarato che il divieto della commissione elettorale a migliaia di candidati riformisti di prendere parte alle elezioni parlamentari del 14 marzo costituisce una minaccia per l’Iran. Secondo Khatami, questa bocciatura rappresenta una minaccia alla rivoluzione iraniana, al regime islamico e alla società.

Iraq, raid dell’esercito Usa L’esercito statunitense ha ucciso otto sospetti ribelli e ne ha arrestati 26 - tra cui un presunto leader dei ”gruppi speciali” - dopo due giorni di raid in tutto il paese tesi a indebolire la rete terroristica di al Qaeda in Iraq. I sospetti sono stati uccisi tra ieri e oggi in raid americani separati compiuti nelle regioni centro-settentrionali dell’Iraq, secondo quanto riferito dall’esercito.


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BIOETICA E AMBIENTE

il Creato di Carlo Bellieni l tema “prematuri” è oggi di moda, ma non se ne parlerebbe se non fosse entrato nel dibattito la proposta di assistere attivamente i più piccoli solo a certe condizioni. È inquietante: ci avrebbe fatto piacere che se ne parlasse (mai successo sulle prime pagine) per mostrare e favorire le cure e gli itinerari di tanti piccoli pazienti, con famiglie sovraccaricate dalla fatica di una malattia, di un futuro incerto, di fronte alle insidie di un mondo fatto per “normodotati”. Per questo il nostro viaggio inizia qui: nei reparti di terapia intensiva, dove medici e infermieri, con grandi sacrifici, talora in pochi, non solo si industriano giorno e notte per farli vivere, ma creano un ambiente centrato sul bambino stesso e sulla sua famiglia. Sono reparti in cui si tengono le luci basse e si parla piano, per non disturbare il sonno di questi piccolissimi, che intanto crescono, guariscono e vanno a casa… talora muoiono. E sono reparti in cui accogliere i genitori, in cui discutere con loro, vivendo insieme a loro le prime carezze, la prima volta che chiamano il piccolo per nome.

I

Ci dispiace pensare – e con noi dispiace a AA Fanaroff, che ha dedicato a questo tema l’editoriale della prestigiosa rivista Acta Paediatrica- che di questi piccoli si parli solo per discutere chi far vivere e chi no. Negli anni ’60 solo il 10% dei neonati di peso sotto il chilo ce la faceva: se qualcuno avesse detto che si trattava di accanimento terapeutico e avessimo arrestato studi e cure per questi piccoli, oggi non saremmo arrivati ad una sopravvivenza del 90%. Oggi si vorrebbero mettere dei paletti, decidendo che un neonato che non abbia raggiunto una certa età dal concepimento venga assistito in modo attivo solo in casi eccezionali. In realtà dobbiamo tener presenti quattro concetti: alla nascita non abbiamo nessuno strumento che ci dia certezza né se quel bambino morirà né se avrà disabilità e a che livello. Non serve misurare il battito cardiaco, i movimenti o altro. Spesso non abbiamo neanche certezza sull’età dal concepimento. Nascendo 22 settimane dal concepimento le possibilità di sopravvivere sono 1 su 10 e a 23 settimane sono 1 su quattro. I nati di 22-23 settimane hanno un discreto rischio di disabilità, ma studi scientifici mostrano che

Dalla parte dei piccolissimi un’assistenza attiva solo per quelli che presentano in apparenza segni migliori non ha portato a un minor tasso di bambini disabili. Dunque, non possiamo fissare dei limiti rigidi per stabili-

i nati sotto 25 settimane avranno solo per il 22% disabilità grave. Non è certo un totale successo, ma significa che il restante 78 per cento non sarà così gravemente malato.

ne delle cure (che nessuno di noi intende intraprendere quando sono chiaramente inutili), dobbiamo considerare tre fattori: i genitori, il neonato e la disabilità. I genitori assolutamente devono

A ventitré settimane un prematuro su quattro, se curato, vive. E non è più molto diffusa nemmeno la disabilità re chi rianimare e chi no, come lo stesso Fanaroff sostiene; anche perché le percentuali di sopravvivenza riportate, tratte da studi che sono a disposizione di tutti su internet, non sono bassissime, e uno studio del 2005 mostra che

Il discorso potrebbe finire qui: dare una chance a tutti, perché non abbiamo strumenti per scegliere e perché così daremo una possibilità a chi ce la può fare. Ma siccome si insite nella pressione culturale verso la limitazio-

essere al centro delle cure, anche talvolta a livello decisionale quando ci siano delle alternative che si devono discutere collegialmente. Ma questo non riguarda gli interventi per salvare la vita, perché non si può decidere (nep-

pure il medico) sulla vita se non su basi oggettive… che alla nascita non abbiamo.

Ma c’è di più: alla nascita prematura, che spesso avviene in modo precipitoso, la madre è in preda alle doglie e il padre si trova dinanzi un piccolissimo di 5-6 etti, immobile, e dovrebbero essere persone in questo stato a decidere in pochissimi secondi se è meglio che il figlio viva o muoia? E chi può informare in quelle condizioni i genitori in modo pieno e doverosamente corretto su tutte le possibili patologie, difficoltà, speranze e intoppi? Investire i genitori in quel drammatico momento di una capacità decisionale è metter loro sulle spalle una croce che li potrà annientare: le decisioni vanno prese su basi oggettive. Le


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il Creato Parla una madre che ha vissuto la drammatica esperienza

«Mio figlio ce l’ha fatta» di Riccardo Paradisi ino a pochi anni fa i bambini nati prematuri, venuti cioè alla luce poco oltre la metà della gravidanza, erano condannati a una morte certa. Oggi, grazie agli sviluppi della tecnologia e alle scoperte scientifiche, le cose sono molto cambiate. La probabilità di sopravvivenza a 22 settimane di gestazione di queste creature è quasi del 10 per cento e sembra aumentare con il procedere delle settimane di gestazione. Di questo delicatissimo argomento, che da settimane sta impegnando il dibattito politico e culturale italiano, ne abbiamo parlato con Stefania Bonucci, mamma di un bambino prematuro. Ogni esperienza in questo campo è assolutamente soggettiva: incidono mille sfumature, condizionamenti culturali, sensibilità individuali, lei signora ci potrebbe raccontare come ha vissuto la sua di esperienza? Con molta ansia ma anche con molta gioia. Ogni madre vorrebbe vivere una gravidanza tranquilla, il corredino, i nove mesi regolari di attesa, il parto. La nascita di un bambino prematuro invece stravolge tutto questo sistema di aspettative. Ti sciocca, letteralmente. E ti fa anche paura per le conseguenze. Ma oggi che mio figlio è nato ringrazio Dio, ringrazio che Lorenzo è qui con me. Che è vivo e sta recuperando. Lei è stata assistita anche psicologicamente in questa esperienza? Moltissimo. Ecco devo dire che non sono mai stata sola. Ho avuto molta paura naturalmente, Lorenzo è nato di 24 settimane e con lui anch’io ho rischiato la vita. Poi è nato, prematuro, con tutti i rischi che questo comporta. Lorenzo ha avuto tutti i problemi dei bambini prematuri compresa un’emorragia di terzo-quarto grado. Ma la paura l’ho affrontata e superata grazie ai medici dell’ospedale di Siena, ai loro consigli, al loro incoraggiamento costante. Anche allo stare insieme alle altre mamme che vivevano la stessa esperienza. Non mi sono mai sentita abbandonata, mai sola.

F

cure si possono anche interrompere se non portano a una ripresa della vitalità, anzi è doveroso farlo; ma mai in base alla fretta o al sentimento. Anche perché si può anche presentare un conflitto di interessi tra il bambino e i genitori stessi che in un momento di panico sentissero come insopportabile l’idea di affrontare anni di vita con un potenziale disabile. Il neonato poi, spiace dirlo, è considerato in modo diverso da come considereremmo un adulto di 40 anni. Se vedessimo un incidente di auto e capissimo che le speranze di una persona coinvolta sono pochissime, cosa faremmo? Lasceremmo la natura fare il suo corso o chiameremmo di corsa l’ambulanza? Con il prematuro, questo imperativo non è scontato: c’è molto pregiudizio

verso l’infanzia, che considera il bambino (non solo il neonato) non ancora una persona piena, e dunque da trattare in modo “un po’ diverso”. Il neonato, che non ha parola e charme, spesso non è considerato “dei nostri” e, forse perché i neonati un tempo morivano in massa e si reputava bene “non attaccarsi”, è tenuto in una specie di limbo dei diritti.

Infine, in una società che non integra abbastanza, che non insegna nelle scuole cos’è la disabilità, che non fornisce servizi sociali del tutto soddisfacenti, che censura dalle TV e dai giornali la disabilità se non per relegarla nel pietismo o nella cronaca nera, i futuri genitori sono davvero aiutati ad accogliere il figlio malato, o piuttosto sono portati a pensare che la nascita

di un piccolissimo a rischio di malattia significhi per loro la “fine della vita”? Certo che la malattia è dolore, ma la risposta civile è la solidarietà, le politiche sociali e una cultura non handifobica. Basta dunque col dibattito su come “non curare”: sosteniamo la ricerca scientifica, il personale che strenuamente si fa carico di situazioni difficilissime, e le famiglie che eroicamente cercano solidarietà e lottano tutti i giorni per la vita e l’amore dei loro bambini. Ci piacerebbe che chi parla di questi piccoli conoscesse davvero i loro genitori, venisse a vedere i reparti costruiti con sacrificio da una costola della pediatria, in cui la vita va avanti. Per combattere la malattia, accogliere i più piccoli, lenire il dolore.

C’è chi ritiene sia inutile intervenire su un prematuro se ci sono elevate probabilità che rimanga disabile. Si parla di un’esistenza condannata a gravi limiti e dunque – non si dice ma è sottinteso – troppo problematica per valere la pena di essere vissuta. Che ne pensa di queste valutazioni? Io penso che un bambino prematuro è un bambino. Un essere umano. Non è un vestito che si può cambiare se ha dei difetti o delle smagliature. So che oggi viviamo in un mondo dove spesso si ragiona con questi criteri, ma non è il mio punto di vista. Anche perchè come la mettiamo con quei bambini che recuperano via via che passano le settimane e i giorni? E come la mettiamo con quei bambini che pur nati a termine hanno grandi problemi? Non sono gli uomini a poter decidere su queste cose. C’è in corso un dibattito molto acceso sul tema dei grandi prematuri, sulla legge 194 che regola l’aborto nel nostro Paese. Lei come vive questo rumore politico intorno a temi così profondi e così controversi? Credo che queste cose possa capirle chi le ha vissute in prima persona. Per questo bisognerebbe ascoltare di più l’esperienza delle madri, dare loro più voce nei media. Si avrebbe una versione più autentica della maternità e della famiglia rispetto ai modelli pubblicitari e televisivi, così asettici, così privi di inconvenienti. E comunque io oggi so che se mi avessero fatto abortire Lorenzo lui non sarebbe qui con me, con la sua famiglia, nella sua casa. Dico di più… Prego. Sono stata contenta che sia stato preso in carico dai medici e rianimato. Penso che la questione se rianimare o non rianimare il bambino non sia nemmeno da porre. Una creatura di sei mesi è come una persona malata: si tenta di salvarla, si cura, mica si sopprime.


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il Creato

La drammatica situazione che si verifica se l’aborto non procura la morte del piccolissimo

Soccorrere i sopravvissuti di Assuntina Morresi arto precoce e aborto tardivo: queste le due situazioni nelle quali si pone il problema dei grandi prematuri, cioè di quei bambini che nascono poco dopo la metà della gravidanza, e per i quali la sopravvivenza è spesso considerata un miracolo. Le due situazioni sono sempre più intrecciate perché grazie ai progressi della medicina riescono a sopravvivere sempre in numero maggiore anche bambini nati ad appena 22 settimane di gravidanza; ma è proprio in questo periodo della gestazione che possono venire diagnosticate malformazioni o disabilità per le quali si può ricorrere all’aborto (è bene ricordare che secondo la legge

P

194 non è la malformazione del feto di per sé a giustificare la richiesta di aborto, ma il fatto che questa malformazione provochi problemi di salute della madre), di conseguenza è sempre più concreto il rischio che una donna ricorra all’aborto a uno stadio della gravidanza in cui il figlio potrebbe sopravvivere al di fuori dell’utero. Dal punto di vista tecnico, un aborto tardivo è analogo ad un parto indotto: si somministrano dei farmaci che provocano contrazioni uterine; nel caso dell’aborto solitamente il feto viene espulso già morto, perché non riesce a sopravvivere alla fase espulsiva, vista la sua immaturità. È chiaro che più è avanzato lo stato di gravidanza al momento in cui si abortisce, e maggiore è la probabilità che il

feto sopravviva all’aborto, e nasca vivo, o comunque vitale. A dire la verità, questa evenienza nel nostro paese non dovrebbe accadere: se si applicasse correttamente la 194 non si potrebbe abortire quando c’è una “possibilità di vita autonoma del feto”, ovvero quando c’è una possibilità di sopravvivenza al di fuori del ventre materno. La legge parla di possibilità, e non di probabilità: significa che è sufficiente che, ad esempio, sia sopravvissuto un bambino nato a 22 settimane di gravidanza per impedire che si possa ricorrere all’aborto nello stesso periodo.

Se la madre corre pericolo di vita – non di salute – allora la legge permette di indurre un parto precoce, per cercare di

salvare la vita di madre e figlio. La 194, saggiamente, non indica esplicitamente il limite oltre il quale non si può abortire, ma descrive un criterio – quello della vita autonoma del feto, appunto – che si tradurrà in limiti diversi, sempre più precoci man mano che la medicina neonatale compie progressi. Alcuni ospedali, come la clinica Mangiagalli di Milano, si sono dati da tempo un codice di autoregolamentazione – non si effettuano aborti in gravidanze oltre le 22 settimane e tre giorni –; l’amministrazione regionale sta lavorando per dare un’indicazione unica in tal senso a tutta la Lombardia. Allo stesso scopo stava lavorando – quando è arrivata la crisi di governo – una commissione insediata dal Ministro Turco, perché la 194

fosse applicata in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. In altre parole, se la 194 venisse applicata correttamente, con il progresso della medicina neonatale gli aborti tardivi dovrebbero vietati sempre più precocemente, e il problema di soccorrere feti sopravvissuti all’aborto non si porrebbe più.

Ufficialmente, secondo il Ministro della Salute, non ci sono sopravvissuti ad aborti tardivi – è stata questa la risposta ad una recente interrogazione parlamentare – ma numerose testimonianze – non ultima una lettera al quotidiano Repubblica – nel corso degli anni hanno riferito di feti sopravvissuti agli aborti e lasciati morire. Per quale motivo un neonato prematuro non dovrebbe essere


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il Creato Parla il rabbino capo di Roma: «Il mio punto di riferimento è la tradizione e la riflessione bioetica ebraica»

libri e riviste

«Se può vivere, si aiuti» A colloquio con Riccardo Di Segni di Gabriella Mecucci a discussione sul che fare con i prematuri, in particolare con quelli che in passato erano certamente condannati a morire e che oggi invece possono sopravvivere, si è riaccesa nei giorni scorsi ed ha riguardato i nati di 22-25 settimane. Un argomento delicato sul quale abbiamo chiesto l’opinione del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che desidera premettere che parla come rabbino e non esprime il pensiero del comitato nazionale di bioetica di cui fa parte. Qual è la posizione dell’ebraismo rispetto al problema dei prematuri? Vi sentite vicini o lontani dalla recente sollecitazione venuta dai ginecologi di Roma? Per la verità il mio punto di riferimento non sono le prese di posizione dei ginecologi romani, ma la tradizione e la riflessione bioetica ebraica. Su questi argomenti il nostro bagaglio religioso e culturale ci porta a fare una distinzione di fondo. Esistono due possibili situazioni. La prima è quella in cui non c’è possibilità di sopravvivenza per il prematuro: in questi casi escludiamo che si debba intervenire. E’ giusto astenersi. Se invece esiste una possibilità di vita, occorre che il medico rianimi. La totale assenza di speranza di vita, allo stato attuale delle conoscenze, si verifica quando il prematuro non va oltre la ventiduesima settimana. Oltre questo limite invece, tutto ciò che si può fare per salvare il bambino è giusto che si faccia. Un’apposita commissione istituita dal ministro Livia Turco ha elaborato un documento su questo argomento, cosa ne pensa? La soddisfa?

L

soccorso e curato, se sopravvissuto ad un aborto? La legge italiana non permette certo di estendere la decisione di abortire anche dopo la nascita, consentendo, dopo un aborto mancato, un infanticidio. E d’altra parte un neonato – indipendentemente da come sia venuto al mondo – è un cittadino italiano a tutti gli effetti, e i genitori non hanno certamente potere di vita e di morte su di lui. La maggior parte dei grandi prematuri, comunque, nasce con parti molto anticipati rispetto alla scadenza naturale. Il buon senso vorrebbe che anche in questo caso si applicasse lo stesso criterio, e cioè che i neonati fossero trattati come persone normali, indipendentemente dal peso, dall’età e dalle condizioni fisiche: se nasce un bambino

Non sono in condizione di risponderle perché non conosco i contenuti di questo documento. In questi giorni si è molto discusso anche di vita dell’embrione. Mentre per quanto riguarda i prematuri, la vostra posizione è molto vicina a quella dei cattolici, sul tema embrione invece c’è una importante divergenza. Eviterei di fare questo genere di raffronti e preferirei parlare soltanto della nostra posizione. Noi pensiamo che se il figlio è ancora nel corpo della madre, si configura una situazione diversa rispetto a quella del nato. L’embrione va tutelato, ma i suoi diritti non sono completi come quelli dell’essere vivente. In caso di conflitto passano dunque in second’ordine rispetto a quelli della donna, con un accurato bilancio della gravità della situazione. In che rapporto devono stare secondo lei scienza, religione e politica? Un conto è lo sviluppo delle conoscenze, un conto è l’etica. Non tutto quello che è possibile è giusto. La dimensione religiosa, almeno nelle religioni abramitiche, si occupa anche di ciò che è giusto e dà degli orientamenti comportamentali. Scienza e religione hanno compiti diversi. Di recente si è più volte acceso il dibattito sul rapporto fra religione e politica. Si è parlato da parte di qualcuno di una eccessiva presenza, o addirittura, di un’invadenza delle fedi religiose nella dimensione politica, cosa ne pensa? Una società democratica deve ascoltare e tenere conto di tutti i punti di vista. Non vedo perché una mia opinione, che deri-

con problemi respiratori o cardiaci, come sono tutti i grandi prematuri, per quale motivo non dovrebbe essere soccorso? Per

va da una convinzione religiosa, debba valere di meno di un’opinione che nasca aldifuori di un’ ispirazione religiosa. Non voglio prevaricare nessuno ma non voglio rinunciare al diritto, che è di tutti i cittadini, a partecipare al discorso pubblico. Credo che la cosa migliore sia quella di confrontarsi liberamente con reciproca capacità di ascolto. Eppure in questo momento c’è un clima surriscaldato, perché questi toni sopra le righe? Credo che ci sia una durezza dogmatica da parte di entrambe le parti e una scarsa disponibilità ad un confronto sereno. E invece sarebbe molto più proficuo riuscire a ragionare pacatamente, senza emettere scomuniche. Solo così si possono trovare risposte, quanto più possibile condivise, ai grandi interrogativi che abbiamo davanti.

clinico sarà chiaro, allora si potrà continuare a seguire gli stessi criteri utilizzati per i nati a termine (o per gli adulti): le cure

Secondo la Carta di Roma occorre rianimare: la scelta non deve essere della madre quale motivo non aiutarlo a respirare? E soprattutto: per quale motivo bisognerebbe chiederne il permesso ai genitori? Al momento della nascita, nella totale incertezza delle condizioni fisiche, un primo soccorso non si dovrebbe negare a nessuno. Quando poi il quadro

devono essere adeguate e proporzionate, e se non ci sono speranze di sopravvivenza, ogni intervento medico sarà futile.

È questo il senso della cosiddetta “Carta di Roma”, il documento firmato dai direttori delle cliniche di Ostetricia e Gineco-

i siete mai chiesti cosa prova un feto? La moderna ricerca scientifica ha oramai assodato che il feto ha una vita carica di sensazioni. Nell’utero impara, ricorda, sogna. E non si può certo considerarlo un’appendice della madre. Esiste una “bacchetta magica” che lo fa diventare a un certo punto persona… oppure già lo è dal momento in cui spermatozoo e ovocita hanno fuso i loro patrimoni genetici? Un’avvincente caccia al tesoro alla scoperta di segreti sconosciuti ai più, ma che sono patrimonio della scienza. I segreti dell’alba del nostro io. Un mondo delicato di sapori e odori, di voci e brutti incontri, si svela a chi legge.

V

Carlo Valerio Bellieni L’alba dell’«io». Dolore, desideri, sogno, memoria del feto Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004

i chiama Laura, adesso è una splendida bambina sana, intelligente, assolutamente normale, cresciuta insieme ai suoi fratelli che l’hanno stimolata con la loro vivacità. Ma quando è nata dicevano fosse un aborto: cinque mesi e mezzo, cioè 24 settimane di gravidanza, 560 grammi di peso. Fortunatamente alla nascita ha pianto, e anche grazie a questo è stata soccorsa e si è salvata. I ricordi di quei duri momenti sono ancora vivi nella mamma, Giovanna, che racconta sinceramente i suoi sentimenti, di come si sia sentita inadeguata e pure responsabile della situazione in cui si era venuta a trovare la sua piccolissima figlia.

S logia di tutte e quattro le facoltà di Medicina delle università romane - La Sapienza, Tor Vergata, la Cattolica e il Campus Biomedico - e presentata al termine di un convegno organizzato presso il Fatebenefratelli di Roma, nella Giornata della Vita. L’alternativa a questo approccio è quella prescrittiva, cioè quella secondo la quale anche il primo soccorso – la cosiddetta rianimazione – si pratica solamente da una certa settimana di gravidanza in poi, in base alle probabilità di sopravvivenza del neonato. Un approccio più rigido, che lascia meno spazio di azione al medico ed alle infinite varianti di ogni singolo caso, e che di fatto rischia di finire per indicare delle soglie al di sotto delle quali non si fanno interventi di primo soccorso.

Laura Giovanna Cavalletti Storia di una bambina piccolissima e della sua voglia di vivere 80 pagine, Euro 6,00


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il Creato Le tre linee guida contenute nel Protocollo di Groningen

Ma l’Olanda ha scelto l’eutanasia del neonato di Laura Guerrini ono passati quasi tre anni da quando nel New England Journal of Medicine è stato pubblicato l’articolo 1 in cui venivano presentate le linee giuda da seguire per praticare l’eutanasia in un neonato. Il Protocollo sembra nascere dalla domanda se sia giusto «mantenere in vita bambini con malattie associate a sofferenza acuta e continuata quando questa non può essere alleviata» ritenendo di essere in una di quelle “condizioni estreme” per le quali, secondo la legislazione olandese, uccidere qualcuno, non è considerato un omicidio. I neonati che potrebbero rientrare nel protocollo vengono divisi in tre categorie per ciascuna delle quali viene indicato come comportarsi: per i «Bambini che non hanno speranza di sopravvivenza (Es. Ipoplasia renale o alcune cromosomopatie), non iniziare o sospendere trattamenti di sostegno vitale»; per i «Bambini che possono sopravvivere dopo un periodo di cure intensive, ma che hanno una pessima prognosi, o qualità di vita attesa (Es.gravi anomalie cerebrali o danno di organo esteso per ipossiemia grave) la sospensione dei trattamenti vitali è accettabile se i medici e i genitori sono convinti che sia nel miglior interesse del bambino stesso», sottolineando che «l’obiettivo della Terapia Intensiva Neonatale non è solo la sopravvivenza del bambino, ma anche la qualità della sua vita». Infine i «Bambini che sperimentano, a giudizio di medici e genitori, sofferenze insopportabili. Pur non dipendendo da cure intensive, la loro qualità di vita è molto ridotta e le loro sofferenze intense» (Es: Spina bifida), pertanto «Devono essere presi tutti i provvedimenti per alleviare il dolore, ma quando i genitori e i medici sono convinti che la prognosi sia estremamente negativa, questi possono concordare sul fatto che la morte sia più umana della continuazione della vita».

S

L’articolo descrive con accuratezza la «Procedura» da seguire elencando le «Strette condizioni» da rispettare, le «Considerazioni» che devono essere fatte per supportare la decisione (specificando che «Il peso di altre considerazioni è maggiore quando si prevede per il paziente una lunga vita»: come a dire che la possibilità di vivere a lungo aumenta la probabilità che si opti per una scelta eutanasica) e infine le «Informazioni» che devono essere fornite per «supportare e chiarire la decisione». Solo a questo punto comprendiamo che il vero fine è «Prevenire le interrogazioni della polizia» tanto che viene scritto che «una volta che la decisione è stata presa e il bambino è morto, un apparato legale deve determinare se la decisione presa era giustificata e le procedure sono state eseguite correttamente». Ma il rispetto di una procedura

se può scongiurare il rischio di conseguenze legali non “giustifica” ogni nostra azione il cui valore morale sarà definito solo dal fine ultimo che vogliamo raggiungere che in questo caso è l’uccisione deliberata di un essere umano!

Ma questi bambini soffrono! Come neonatologo, sento il dovere di sottolineare che gli strumenti analgesici che abbiamo oggi a disposizione rendono assolutamente falso sostenere che dobbiamo interrompere le cure perché i neonati provano dolore. Riguardo al termine “sofferenza”, invece, sarebbe più onesto dire che siccome essa implica la consapevolezza del proprio stato e della prognosi, non è una categoria che si più applicare al neonato e dovremo allora domandarci a chi appartiene questa sofferenza. Non sarà forse dei medici che non riescono ad accettare che la medicina non è “onnipotente”? o non potrebbe essere il sentimento che nasce nei genitori che si devono con-

frontare con la realtà, sicuramente non facile, di un figlio diverso da quello sognato ed atteso? Tra l’altro all’inizio dell’articolo si sottolinea che nonostante la difficoltà nella interpretazione delle scale per il dolore dei neonati (basate su alcuni dati come pianto, movimento, modificazione dei parametri vitali), sia i genitori che il personale

sanitario esperto possono capire con la dovuta precisione il grado di sofferenza del neonato; come mai allora, alla fine dello stesso, ci si esprime in termini di“sofferenza presumibile” lasciando quindi spazio ad un dubbio significativo? Il sospetto è che il tema della sofferenza venga enfatizzato nel tentativo di nascondere le vere motivazioni: se l’obiettivo di una Terapia Intensiva Neonatale non è solo la sopravvivenza dei neonati ma la “qualità”della loro vita, scorgiamo alla base di questo documento una motivazione utilitaristica che porta a pericolosi fenomeni di discriminazione nei confronti dei soggetti più deboli.

Decidono genitori e medici. Il criterio è la qualità della vita del piccolo

Preoccupano anche le affermazione di alcuni colleghi italiani (M.S. Pignotti, G. Donzelli, G. Scarselli Cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse. Verso linee guida nazionali?, Toscana Medica 3, 2007.) che sostengono che come neonatologi abbiamo il “dovere morale di dire la verità alla società” e “svantaggi di tali cure e danni che possono portare sia al bambino che alla madre, che, non ultimo, alla società nella sua interezza”. L’articolo olandese dice che“in Olanda chi abbia compiuto il sedicesimo anno di età può richiedere l’eutanasia. I neonati questo non possono farlo, e una simile richiesta dei genitori, che sono i tutori legali del bambino, e’ considerata illegale dalla legge olandese”, si deduce quindi che la richiesta dovrà partire dai medici e il fatto che i genitori debbano essere d’accordo non sposta molto i termini della questione perché sappiamo benissimo che il modo con cui noi medici comunichiamo influisce in maniera significativa sul“consenso” che daranno i genitori. Ma può forse un medico arrogarsi il diritto di formulare un giudizio “da esperto” sulla qualità della vita di un’altra persona? e che dire dei due casi di eutanasia neonatale (riportati nello steso articolo) in cui le corti hanno approvato le procedure seguite, giudicandole in linea con una “good medical practice”? siamo proprio certi di voler arrivare ad una medicina così? Con quale sguardo ci rivolgeremo ai nostri pazienti e come loro potranno fidarsi di noi? Come medico e come cittadino mi auguro che sia invece possibile riscoprire il valore di affermazioni come quella fatta da Lejeune nel 1970: “Forse che dobbiamo capitolare di fronte alla nostra ignoranza e proporre di eliminare quelli che non possiamo aiutare? Il nostro dovere è sempre stato non quello di infliggere la sentenza, ma piuttosto di cercare di diminuire la sofferenza”. Verhagen E., Sauer P.J.J. The Groningen Protocol Euthanasia in severely Ill Newborns New England Journal of Medicine 2005


edizioni

NOVITÀ IN LIBRERIA

ROBERT CONQUEST I DRAGONI DELLA SPERANZA REALTÀ

E ILLUSIONI NEL CORSO DELLA STORIA

P

erfettamente consapevole delle “illusioni primitive” che, durante il secolo scorso, hanno spinto numerose persone ad abbracciare ideologie scellerate, lo storico Robert Conquest ha consacrato la propria vita allo smascheramento delle distorsioni politiche e mentali che hanno provocato o accolto l’ascesa di regimi feroci, portatori soltanto di morte e distruzione. Questo nuovo saggio è una straordinaria difesa della civiltà e una denuncia del degrado politico e del feticismo intellettuale che caratterizzano il mondo odierno. Passando con grande agilità dalla discussione del pensiero politico dell’antica Grecia all’effetto corrosivo dell’ideologia socialista o agli attuali controsensi dell’Unione Europea, Conquest indaga le distruzioni del nostro passato, le assurdità del nostro presente e le trappole che insidiano il nostro futuro. Con una magistrale descrizione della via attraverso la quale nel mondo accademico, in quello politico e nell’opinione pubblica si sono diffuse false panacee, lo storico americano dimostra come la fiducia negli “ismi” e nei letali concetti di “popolo, nazione e masse” abbia provocato un ciclo distruttivo di totalitarismi e guerre. Il libro restituisce il quadro della situazione del mondo all’inizio del Ventunesimo secolo e ci esorta a sbarazzarci di quella “benda intellettuale” che ha sempre soffocato il dibattito e impedito un sincero e talvolta doloroso esame introspettivo.

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pagina 18 • 9 febbraio 2008

economia

Polemiche in Francia per l’eccessivo interventismo dell’inquilino dell’Eliseo

Il colbertista Sarko imbarazza i suoi ministri liberali di Luca Sebastiani

PARIGI. Il patriottismo economico è di ritorno. Anche nell’era sarkozista, che si voleva in rupture con il colbertismo d’antan, l’interventismo statale dilaga e crea le prime fibrillazioni ai vertici dello Stato tra i liberisti della maggioranza e i dirigisti guidati in questo frangente proprio dal presidente francese. I segni della contraddizione si moltiplicano. Ieri, per esempio, i mezzi d’informazione hanno ripreso una voce che era circolata con forza nei giorni precedenti secondo cui, mercoledì scorso, il ministro dell’Economia, Christine Lagarde (nella foto a destra) avrebbe rassegnato le dimissioni a Sarkozy. Il quale le avrebbe invece rifiutate.Tra un mese ci sono le elezioni amministrative e per il presidente, in netto calo nei sondaggi, si tratta del primo vero test elettorale. Ecco perché avrebbe rifiutato il gesto del suo ministro rimandando la questione a dopo il voto, quando è previsto un rimpasto della squadra di governo. Lagarde, in Giappone per il G7, ha seccamente smentito la notizia, ma non sfugge a nessuno la contrarietà del ministro che in questi giorni ha dovuto ingoiare il protagonismo mediatico del presidente su numerosi dossier economici, in particolare sulla faccenda Mittal-Arcelor e su Société Générale. Protagonismo che sa molto di patriottismo economico, formula usata dall’ex premier Dominique de Villepin nel 2005, quando le mire sulla Danone lo spinsero a definire così la dottrina della protezione delle imprese nazionali «contro le azioni ostili». Con i sondaggi che continuano a confermargli la caduta della fiducia dei francesi

dopo l’esposizione della sua vita privata con Carla Bruni, Sarkozy ha deciso di cambiare strada. Così lunedì scorso si è recato a Gandrange, nel Nord della Francia, dove i dirigenti dell’acciaieria Arcelor Mittal avevano annunciato la soppressione di 595 posti di lavoro su un totale di un migliaio. Davanti a stupiti operai il presidente ha promesso di «essere pronto a mettere i soldi necessari per fare gli investimenti utili a non perdere i posti di lavo-

ro». Al ministro Lagarde saranno fischiate le orecchie, soprattutto se si considera che era stato lo stesso Sarkozy a confessare, poche settimane prima, che «le casse dello Stato sono vuote». Ma può lo Stato finanziare la modernizzazione di un’azienda privata? I liberisti al governo hanno espresso qualche critica, ma Sarkozy non è nuovo alle manovre di salvataggio pubblico di società private. Nel 2004, quando era al ministero dell’Economia, era stato lui stesso a salvare la Alstom facendo entrare lo Stato nel capitale dell’azienda.

Anche nel caso della crisi della Société Générale l’Eliseo, per bocca del consigliere speciale di Sarkozy Henri Guaino, ha fatto sapere di essere disposto a intervenire per salvare la banca da un’eventuale Opa ostile. Dichiarazioni, queste ultime, rivolte a possibili predatori stranieri, perché è noto che invece Sarkozy vedrebbe di buon occhio una soluzione tutta

stema per cui quando si ha una forte remunerazione e c’è un grosso problema, non ci si può esonerare dalle responsabilità». Bouton, confermato al suo posto dal consiglio d’amministrazione, è infatti il garante dell’indipendenza della banca e quindi l’ostacolo sulla via della fu-

Il presidente promette di aiutare Arcelor, vuole blindare SocGen e non esclude le nozze tra Areva e Alstom. E spinge la Lagarde a dare le dimissioni dal governo franco francese con l’intervento di Bnp Paribas. Non per niente alla rivelazione della perdita di 7 milioni di euro a causa della crisi dei subprimes e delle speculazioni spericolate del trader Jérome Kerviel, Sarkozy ha chiesto le dimissioni di Daniel Bouton, amministratore delegato di SocGen. «Non amo giudicare le persone», ha detto, «ma siamo in un si-

sione con Bnp. Per ora il banchiere vuole difendere l’istituto con una ricapitalizzazione di 5,5 miliardi e l’annuncio che nonostante la crisi la banca toccherà un utile di 700 o 800 milioni, ma ciò non toglie che il presidente di Bnp, Michel Pébereau, si stia preparando all’Opa. Pébereau è infatti intenzionato a non lasciarsi sfuggire un occasione storica di rivincita, dopo che nove anni aveva fallito un tentativo di scalata sulla

SocGen, difesa anche allora da Bouton. Ma questa volta l’Eliseo è dalla sua parte.

Ma oltre alle sortite di Sarko in campo economico, è il dossier Areva che ha acuito le tensioni tra l’Eliseo e Bercy. Nei prossimi giorni infatti, il ministro Lagarde deve presentare al governo e alla presidenza le sue conclusioni sul futuro del colosso statale del nucleare. Secondo le indiscrezioni, Lagarde vorrebbe aprire il capitale della società a diversi grandi azionisti, magari passando per un Ipo in Borsa. Per il ministro si tratterebbe di una direzione più accettabile dai mercati che non la fusione tra Areva e Alstom, politicamente più complicata e preconizzata già a settembre dal presidente. Il problema, infatti, è che il maggior azionista di Alstom altro non è che Martin Bouygues, migliore amico del presidente, suo testimone di nozze e padrino del figlio. I due, per loro stessa ammissione, si sentono tutti i giorni al telefono e sarebbe difficile smarcarsi dal sospetto di favoritismo.


economia

9 febbraio 2008 • pagina 19

Con la resa di Coppola si chiude un’epoca di speculazioni e denaro facile

C’erano una volta i furbetti del mattone di Giuseppe Failla

MILANO. La capitolazione senza condizioni di Danilo Coppola, che ha messo a disposizione il suo patrimonio per la vendita in modo da riuscire a pagare i debiti con il fisco, mette fine alla stagione dei ”furbetti del quartierino”. Di tutti i new comers che si sono affacciati alla ribalta finanziaria nazionale tra il 2004 e il 2005, Coppola, in un primo momento, sembrava l’unico che avesse chance di rimanere a galla. L’avere acquistato la Ipi da Luigi Zunino, società che è stato per anni un asset della famiglia Agnelli, l’essere divenuto il proprietario del Lingotto e i suoi stretti legami con la Banca Intermobiliare, che di Torino è la piccola Mediobanca, avevano rilanciato l’immagine di un imprenditore che era riuscito a crearsi un tessuto di relazione, anche da uomo nuovo. Relazioni che però non lo hanno salvato dal tracollo e dalla sconfitta, in attesa che qualcuno metta le mani sul suo patrimonio e, soprattutto, sblocchi il progetto immobiliare di Porta Vittoria a Milano. Coppola ha avuto cospicue relazioni commerciali con Luigi Zunino, patron di Risanamento. Entrambi hanno coltivato il sogno, fra l’altro, di potere entrare nel salotto buono della finanza italiana, acquistando quote di Mediobanca. Coppola

Se il patron dell’Ipi o Zunino cedono il passo si rafforzano le storiche dinastie di immobiliaristi come i Caltagirone o i Toti quelle azioni non le ha più da tempo, Zunino le ha vendute a termine. Quest’ultimo, rispetto ai furbetti, appartiene a una categoria intermedia di immobiliaristi. Ha condiviso una certa spregiudicatezza negli investimenti e la tentazione di scalare i templi della finanza, ma lo ha fatto da una posizione mediaticamente defilata, nel migliore stile

degli immobiliaristi old style. Il tramonto dei furbetti, accelerato dalla crisi di liquidità sui mercati, infatti non coincide con il tramonto degli immobiliaristi, che il mercato ha imparato a conoscere al momento della creazione del contropatto di Bnl. Francesco Gaetano Caltagirone guidava quell’accordo, ma da quella vicenda non solo non è rimasto indebolito, ma si è rafforzato tra la vicepresidenza di Mps o l’ingresso in Generali e capace di una liquidità che i più cauti stimano essere fra i due e i tre miliardi. Ma che per qualcuno sfiora i cinque. Caltagirone, frequentatore esperto dei mercati finanziari, ha capito che i new comers rappresentavano un’occasione, in quanto portatori di liquidità slegata dai soliti giri di potere, ma anche un rischio per la spregiudicatezza con la quale si muovevano sul mercato. Per comprenderne la lungimiranza basta pensare alla tempistica della sua uscita da Rcs, avvenuta prima che Stefano Ricucci iniziasse la sua parabola discendente. Per non parlare della famiglia Toti, in prima linea nei grandi appalti romani come in Rcs o in Gemina, o dei Ligresti, che nella riorganizzazione delle loro partecipazioni blindano l’Immobiliare lombarda.

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Malpensa, il piano B del governo S’allontana la moratoria per Malpensa chiesta dalle istituzioni e dalle imprese del Nord, ma il governo starebbe studiando un piano d’emergenza in seguito alla vendita di Alitalia: ammortizzatori sociali e aumento delle rotte business da mantenere nello scalo. Di questo avrebbe parlato ieri il presidente della Sea, Giuseppe Bonomi, in un incontro a Palazzo Chigi. Vertice che ha indispettito Roberto Formigoni, che da tempo attende la convocazione del tavolo per Milano e che potrebbe riunirsi la prossima settima. Intanto la My Chef è pronta a seguire Carlo Toto nella scalata ad Alitalia.

Salari, anche Confindustria chiede sgravi Mentre la politica si divide su come utilizzare l’extragettito nel prossimo Milleproroghe, Confindustria appoggia la scelta di interventi a favore dei salari. «Sono d’accordissimo con interventi fiscali su questo versante», ha spiegato Luca Cordero di Montezemolo, «ma bisogna stare molto attenti a non fare operazioni elettorali che facciano male all’economia». Montezemolo, però, ha voluto ricordare che «soltanto con l’aumento della produttività possono aumentare i salari». A favore degli autonomi si scaglia, invece, il leader dei giovani di Forza Italia, Francesco Pasquali: «Tra il 2007 e il 2011 le buste paga degli atipici scenderanno di circa il 3 per cento».

Demanio, un miliardo incassato nel 2007 Elisabetta Spitz, direttore dell’Agenzia del Demanio, ha annunciato che l’ente «nel 2007 ha incassato un miliardo di euro dalla gestione del patrimonio immobiliare». La maggior parte delle entrate, circa 900 milioni, sono strutturali e sono legati ai canoni di affitto. Invece 80 milioni derivano dalla cessione di immobili.A breve potrebbe esserci una nuova cessione di ex caserme della Difesa.

Una federazione unica per l’agricoltura? Dopo il matrimonio tra Abi e Ania e il tentativo di una casa comune per gli autonomi, anche la rappresentanza nel mondo dell’agricoltura studia una sua riorganizzazione. Ieri a Verona, a margine della presentazione di Fieragricola, il presidente di Confagricoltura, Federico Vecchioni, ha ipotizzato la «costituzione di una federazione nazionale per le imprese, per dare indicazioni al mondo politico, nell’interesse generale del Paese».

Decalogo per la logistica L’associazione Trasportoamico guidata da Giuseppe Smeriglio lancia un decalogo alle forze politiche. Tra gli interventi, riunire i ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti, interventi per la Tav e il Terzo Valico, investimenti per i porti e incentivi al trasporto su ferro.

Mercato in fermento per Tiscali Piazza Affari stabile, con il Mibtel in calo dello 0,28 per cento. Fibrillazione su Tiscali (+20,17) al centro di voci di un interessamento di Vodafone. Nessun commento dalle aziende.

La prima, lunedì, entra in amministrazione controllata, l’altra recupera commesse e spera con Bollorè di annullare i tanti debiti

Bertone e Pininfarina, le due facce della crisi dei carrozzieri di Vincenzo Bacarani

TORINO. È guerra tra gli storici carrozzieri italiani. Una sorta di ”mors tua, vita mea”si consuma in questi giorni nella capitale dell’auto tra due aziende in crisi. Una, la Bertone, va verso l’amministrazione straordinaria – lunedì la decisione – dopo aver bruciato in un anno oltre 11 milioni di euro, mangiandosi tutto il capitale sociale. L’altra, la Pininfarina, ha alcune centinaia di lavoratori in cassa integrazione, ha commesse di lavoro ma ha anche tanti debiti. E che cosa succede? Succede che la Pininfarina, per far fronte alla produzione di cinque modelli, assume duecento dipendenti della Bertone con la formula del ”comando distacco”consentita dalla legge. Non solo: nei prossimi mesi altre centinaia di dipendenti della Bertone potrebbero trasferirsi dal concorrente Pinin-

farina, e comunque, nel 2009, cento di essi verranno assunti definitivamente. Sono le incongruenze di un mercato, quello dell’auto, che è cambiato in maniera radicale negli ultimi anni. Tutte le carrozzerie, non solo italiane, attraversano un periodo difficile perché le case automobilistiche hanno deciso di farsi quasi tutto in casa, investendo in centri studi e design. «Non è una guerra tra poveri», precisa tuttavia Antonio Sansone, segretario Fim-Cisl di Torino, «anche in passato c’è stato uno scambio tra le due storiche carrozzerie». Ma non è tutto qui perché Pininfarina ha ora ben altre ambizioni: quella di diventare casa produttrice.Va in questo senso la joint-venture stipulata con il gruppo Bollorè per la produzione di un’auto elettrica a

rendimento elevato nel 2010. «Può sembrare un controsenso», spiega Maurizio Peverati, segretario Uilm Piemonte, «che un’azienda con in cassa alcune centinaia di lavoratori ne assuma altri. Il fatto è che quelli che questi non hanno la professionalità per assicurare il tipo di lavoro che chiede l’azienda». Intanto lunedì si deciderà se affidare il futuro della Bertone all’amministrazione straordinaria in maniera da evitare l’entrata in scena di imprenditori o finanzieri come Domenico Reviglio, che diceva di aver pronti 5 milioni di euro ma che, stando allo stralcio delle intercettazioni telefoniche nella convalida del sequestro dei beni della holding, avrebbe avuto serie difficoltà a rientrare da uno sforamento di un fido per soli 3 mila euro.


pagina 20 • 9 febbraio 2008

scandali

Il rifiuto della memoria degli italiani uccisi dai partigiani di Tito

Foibe. I negazionisti boicottano il 10 febbraio di Renato Cristin omani si inaugurerà sul Carso triestino il Centro di documentazione della Foiba di Basovizza – Museo storico delle Foibe. È una buona notizia, ma fa riflettere il fatto che solo oggi la memoria della pulizia etnico-politica perpetrata negli anni 1943-45 dai comunisti jugoslavi, con la collaborazione di molti loro compagni italiani, nei confronti degli italiani di Trieste, Istria, Fiume e Dalmazia abbia potuto trovare una dimensione museale istituzionale. Quello scompenso storico la dice lunga sulle avversità che la memoria di quella tragedia ha dovuto subire per affermarsi nella prassi istituzionale, nella coscienza civile e nell’opinione pubblica italiana. Le oltre 5000 vittime delle foibe sono state la punta insanguinata di un iceberg di quasi mezzo milione di italiani che per sfuggire alle persecuzioni dovettero abbandonare le loro case e andare in esilio. Grazie alla tenacia degli esuli sopravvissuti e dei loro, pochi, sostenitori politici, si è potuto acquisire un ampio apparato documentale e un’autorevole e univoca interpretazione storiografica. Ma trascorsero decenni di silenzio, di oblio politico, di mistificazioni storiografiche, di violenze psicologiche, prima che, nel 2004, il Governo italiano istituzionalizzasse il 10 di febbraio come Giorno del Ricordo. In quell’occasione, l’Italia trovò un momento di coesione restituendo alle vittime di quella persecuzione l’ufficialità e la dignità nazionale che le erano dovute. Lo sforzo pluridecennale di un esiguo gruppo di parlamentari di destra e di centro trovò giustizia con quella legge, approvata da una larga maggioranza bipartisan. Il cantautore Gino Paoli raccontò: «Parte della famiglia di mia madre morì infoibata. I miei parenti non erano militanti fascisti, ma i partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe».

D

Il negazionismo sembrava debellato, ma non è così. Episodi di riemersione sfregiano la

Mentre si nega la tragedia istriana compare in rete una lista di proscrizione di professori universitari ebrei accusati di fare lobby memoria di quella tragedia: il convegno negazionista odierno sui “cosiddetti infoibati” promosso dal PdCI a Sesto S. Giovanni; la cancellazione del convegno studentesco previsto al teatro Brancaccio di Roma a causa delle minacce dei gruppi giovanili della sinistra, che ieri hanno sfilato in un corteo neostalinista. Ma accanto a questi, ci sono fatti ancor più gravi perché istituzionali e legati a un Governo dimissionario, come l’episodio del francobollo su “Fiume italiana”, la cui emissione fu bloccata nell’ottobre 2007 secondo istruzioni ricevute dal Governo Prodi, e come l’episodio di poche ore fa del rinvio all’estate prossima dell’emissione filatelica dedicata al Liceo italiano “Combi”di Capodistria, prevista per il 9 febbraio e bloccata da Poste italiane per un presunto errore di “ti-

tolazione”. Su questi fatti Roberto Menia, relatore della legge per il Giorno del Ricordo, ha un’idea precisa: «Se a destra oggi la coscienza della ricomposizione della memoria storica è un fatto acquisito, la sinistra ha aggiunto al negazionismo il giustificazionismo rispetto alle motivazioni di quei massacri. Il francobollo sul Liceo Combi di Capodistria è stato bloccato su ordine di D’Alema, più preoccupato di non dispiacere il nazionalismo della Slovenia che di salvaguardare la coscienza storica dell’identità italiana». Queste forme di negazionismo istituzionale non sono però isolate, se, per esempio, un ambasciatore in carica si ostina a considerare questa tragedia una questione di mera opinione politica. L’ambasciatore a Berlino Puri Purini, nel 2006 si adoperò per impedire,

nel ruolo di funzionario dello Stato ma da incredibile antitaliano, una manifestazione che organizzai quando dirigevo l’Istituto di Cultura di Berlino per commemorare il Giorno del Ricordo. In contraddizione con l’allora Presidente Ciampi, di cui egli era stato consigliere diplomatico e che fu invece un grande sostenitore della verità sulle foibe, Puri Purini boicottò con indegne intimidazioni il convegno, al quale invitai anche l’ex-Presidente della Camera Luciano Violante.

I casi di intolleranza e di negazionismo sono in aumento. Se le demenzialità di uno pseudostorico come Irving non hanno incidenza sulla ricerca storiografica che conta né sull’opinione pubblica, molto più pericoloso è un atteggiamento culturale che trasferisce il negazionismo antisemita classico su un piano concettualmente ambiguo, come nel caso del nuovo antisemitismo che si è recentemente mostrato nella contestazione che alcuni intellettuali hanno mosso

alla scelta della Fiera del Libro di Torino di avere come ospite d’onore lo Stato di Israele. Con un’abile e subdola mossa retorica viene negata la verità storica di Israele senza cadere nel negazionismo della Shoah. Ma sempre di falsificazione si tratta, e di una gravità maggiore perché si insinua negli interstizi fra ideologia e cronaca. All’elenco di atti che si situano nella zona oscura fra intolleranza e negazionismo si può sommare il boicottaggio che ha portato alla cancellazione della lezione di Papa Benedetto XVI alla Sapienza (e segnalo che ai 67 firmatari della lettera che diede inizio alla vicenda si sono aggiunti oggi 1500 docenti universitari che hanno sottoscritto un documento di sostegno ai loro colleghi), e si deve aggiungere la lista di proscrizione, che circola da qualche giorno in rete, che contiene un elenco dei professori universitari ebrei accusati di fare lobby. Roba che fa rabbrividire, da prendere molto sul serio e alla quale reagire con il massimo rigore.


musica

9 febbraio 2008 • pagina 21

Pubblicato un cofanetto con due dvd del film, girato da Andrew Stone nel 1943

Indimenticabile Stormy Weather, e il jazz conquistò il cinema di Adriano Mazzoletti ingolari, ma non sorprendenti analogie hanno sempre legato le storie del cinema e del jazz, due linguaggi, due arti che hanno attraversato il secolo scorso, nati quasi contemporaneamente e che spesso si sono incontrati, creando momenti di grande creatività. Il primo film sonoro aveva per titolo Il cantante di Jazz (The Jazz Singer), il primo in technicolor Il re del Jazz (The King of Jazz), ma il jazz autentico in questi lavori era spesso assente. I protagonisti erano piuttosto le grandi orchestre ritmo-sinfoniche, quella di Paul Whiteman o cantanti di vaudeville, come Al Jolson. Solo alla fine degli anni Venti il cinema iniziò ad interessarsi al jazz.

S

Hallelujah primo film sonoro di King Vidor, era un affresco che narrava le vicende di un nucleo domestico di colore nel sud degli Stati Uniti che viveva raccogliendo e vendendo cotone. Storia di famiglia che si sviluppa con un modus narrativo simile a Furore (The Grapes of Wrath) di John Ford del 1940 o Due cuori in cielo (Cabin in The Sky) del 1943 di Vincente Minelli.Le brevi sequenze di Nina McKinney, che canta e danza in un night e diVictoria Spivey, allora celebre cantante di blues, sembrano essere state inserite, all’interno del capolavoro di Vidor, più che altro per dare vivacità alla storia. Stormy Weather girato nel 1943 da Andrew Stone è invece un film dedicato al jazz e ai suoi protagonisti degli anni Trenta, talmente raro da essere assente in molte pubblicazioni dedicate ai rapporti fra jazz e settima arte. Film “all black cast”, come Hallelujah, realizzato interamente da interpreti di colore per il pubblico afro-americano, rimane una tappa fondamentale dei rapporti fra jazz e cinema. Questo film che sembrava ormai perduto e che non appariva da oltre sessanta anni sugli schermi, grandi e piccoli, è stato finalmente pubblicato in un cofanetto di due Dvd (Stormy Weather - Wild State Video), uno dedicato al film, l’altro ai protagonisti di questo straordinario lavoro, il primo fra i tanti consacrati al jazz e alla musica nero-americana in cui gli artisti appaiono nella loro autenticità, senza quei travestimenti in cui spesso Hollywood relegava i grandi artisti di colore. Stormy Weather è stato il primo film in cui viene raccontata la storia del jazz, storia breve ma intensa che inizia alla fine della Prima Guerra Mondiale quando anche a New York giunsero i primi musicisti di colore.

Bill Robinson, conosciuto come Bojangles, nel ruolo di se stesso fa da guida tra musicisti, cantanti e ballerini che in una lunga sequenza interpretano brani di gran pregio

In alto la locandina di Stormy Weather; sopra a sinistra un’esibizione di Bill Robinson ”Bojangles”, a destra il manifesto di uno spettacolo dell’indimenticabile Cab Calloway al Cotton Club; a destra Katherine Dunham

A raccontare è Bill Robinson, conosciuto come Bojangles, il primo ed insuperato ballerino di tip tap, ammirato da tutto il mondo del jazz e dello showbusiness. Già negli anni Trenta Hollywood lo aveva affiancato a Shirley Temple, ma nel film di Andrew Stone, il “vecchio” Bojangles, interpreta se stesso e in 77 minuti, racconta ai bambini del quartiere la storia della musica nera, dei grandi personaggi, ballerini, solisti, cantanti, musicisti che appaiono in una lunga sequenza di brani musicali di grande pregio. Si vede Doodley Wilson che l’anno precedente in Casablanca interpretava il ruolo di Sam, pianista che al Rick’s Bar suonava in continuazione As Time Goes By canzone preferita dallo stesso Rick che nella finzione cinematografica era interpretato da Humphrey Bogart. Se Wilson non è stato una stella del jazz, lo sono stati invece Fats Waller, Cab Calloway, Zutty Singleton, Benny Carter, Slam Stewart impegnati a dare il meglio di se stessi. Accanto a loro i Nicholas Brothers, due straordinari ballerini, veri e propri acrobati, che sull’onda del successo di quel film giunsero in Italia ingaggiati dalle grandi compagnie di rivista e da produttori cinematografici. Ma le sorprese sono ancora molte. Ada Brown canta That Ain’t Right una delle prime composizioni di Nat King Cole e Ethel Waters e Lena Horne si esibiscono a lungo durante il corso dell’intero film. Forse i nomi di questi musicisti dicono poco alle nuove generazioni. Quando “Stormy Weather” giunse in Europa, i critici dell’epoca ebbero occhi ed orecchie solo per Lena Horne e per il folgorante balletto di Katherine Dunham. Oggi non solo questo film ci aiuta a riscoprire il fascino della Horne e le acrobazie dei Nicholas Bothers, ma soprattutto le esecuzioni della grande orchestra di Cab Calloway che trentasette anni dopo, avrebbe ottenuto un nuovo grande successo con un altro film culto, The Blues Bothers di John Landis. Per gli appassionati di jazz però sono le scintillanti esecuzioni di Honeysuckle Rose e Ain’t Misbehavin’ del complesso di Fats Waller a rendere questo film indimenticabile.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

Quali sono le priorità di un programma di governo? La chiave per risollevare l’Italia è sciogliere il nodo welfare-giovani Lavoro. Istruzione. Famiglia. Sanità. Minori e anziani. Poi si può passare alla giustizia, alle pari opportunità, alle infrastrutture, all’ambiente, alle politiche comunitarie. Prima di tutto welfare e giovani. Solo così il Paese può riconquistare la fiducia dei cittadini e rimettere in moto la macchina-Italia.

Ernesto Molino - Napoli

Prima di ogni altra cosa, risolvere il problema dell’istruzione Il nuovo governo, qualunque sia la sua formazione, dovrà affrontare per l’ennesima volta il problema scuola. Siamo la Nazione più ”asina” d’Europa, e purtroppo non è una sorpresa. Ognuno di noi lo può accertare interrogando i propri figli, anche se laureati. Si veda in proposito il recente concorso per magistrati. D’altra parte ogni governo perde tempo prezioso a distruggere quanto realizzato da quello precedente. Forse sarebbe il caso di mettere in piedi una Commssione bipartisan composta da esperti, ma anche da parlamentari dei diversi schieramenti, che lavori almeno un anno e che alla fine dia vita ad una riforma che imponga uno studio serio delle diverse discipline, a cominciare dall’analisi grammaticale, dall’analisi logica, dal latino. E non importa se il numero dei laureati non sarà a livello delle altre Nazioni europee. Meglio avere pochi laureati, ma preparati.

Felice Loi - Roma

In Italia ci sono troppi politici corrotti, la priorità assoluta è la questione morale Inutile girarci intorno, la priorità assoluta di ogni governo è la questione morale. Troppi politici corrotti. E se andiamo a ben considerare la questione,

dobbiamo ammettere che il problema riguarda innanzitutto i partiti. Questi dovrebbero candidare persone di certificata onestà. La questione è stata sollevata correttamente anche da Beppe Grillo, che però l’ha risolta nella maniera più stupida. Non si può mettere sullo stesso piano condannati per reati assolutamente diversi per gravità. Io penso invece che sarebbe giusto rendere civilmente responsabili anche i partiti che hanno candidato persone poi risultate disoneste. Per responsabilità oggettiva.

Marco Presutti - L’Aquila

I temi principali? Costo della vita, lavoro, sicurezza, sanità e Pubblica amministrazione Riduzione dei prezzi dei beni primari insieme ad una riduzione delle accise sulla benzina e gasolio. Rivisitazione degli stipendi per permettere un maggior potere d’aquisto agli italiani. Maggiore sicurezza per il paese, con conseguente recupero dei valori etici e morali, che il governo precedente ha fatto perdere. Revisione della legge Biagi, per ridurre il precariato e riqualificare in senso generale le politiche giovanili. Maggiore controllo sulla Pa e la sanità, in modo da ridurre quel senso di corruzione denunciato dalla Corte dei Conti.

Giuseppe Romito - Bari

La formula davvero vincente è parlare di più della sacralità della vita Vinte le elezioni, ci si aspetta che il nuovo esecutivo tenga fede agli impegni del programma che i cittadini hanno scelto. Eeconomia, precariato, politiche per la famiglia o istruzione, sono tutti temi che vanno a toccare ognuno di noi. Ma se si parlasse un po’ di più della tutela e della sacralità della vita, questo Paese farebbe un enorme passo in avanti.

Cecilia Mantovano - Roma

LA DOMANDA DI DOMANI

L’Italia dovrebbe boicottare le Olimpiadi di Pechino?

FRATTINI FIRMA L’APPELLO PER SAYED Franco Frattini, vicepresidente Commissione europea Le nostre società si fondano sul rispetto per la vita e la libertà, l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne, la libertà di parola ed una chiara distinzione tra politica e religione. Il nostro punto di partenza è che in quanto esseri umani noi siamo tutti liberi, indipendenti, uguali e responsabili. Infine la libertà di espressione è parte dei valori e delle tradizioni europee e non è negoziabile”

le altre adesioni Ulpia Rizzo, edicolante di Andriano (Le) Sono titolare di un’edicola e cartolibreria, ho letto il vostro articolo ”Salviamo Sayed”. Aderisco da subito a questo appello. Di mia iniziativa, ho appeso all’interno dell’edicola il ritaglio del giornale, nella speranza che qualche mio compaesano, di destra o di sinistra che sia, possa aderire e aiutare un loro figlio, fratello, amico. Paolo Santi Tabirri, un lettore di liberal Sottoscrivo l’appello di liberal per salvare Sayed, questo giovane ragazzo che ha avuto il solo torto di dire quello che pensava. tutto ciò dovrebbe far riflettere quei finti laici e anticlericali che affollano il nostro Paese, i quali affermano che il cristianesimo è una religione oppressiva. Viva la democrazia e viva sempre la libertà.

dai circoli liberal

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FACCIAMOLO SUBITO, MA DALLA COSTITUENTE La notizia che Silvio Berlusconi, dopo i numerosi stop and go, decida finalmente di concretizzare politicamente ed elettoralmente, anche se a modo suo, il Partito delle Libertà, conferma ancora una volta quanto profetizzato dall’onorevole Ferdinando Adornato e dalla fondazione Liberal. A dire il vero, il merito di Ferdinando non è stato solo quello di indicare,”la nuova via” al centro destra ma anche al centro sinistra italiano. Un distinguo però va fatto e sottolineato: in quanto se nel centrosinistra una parvenza di partecipazione dal basso con le Primarie comunque vi è stata, nel centrodestra non può la pubblica piazza di San Babila sostituire la Costituente sottoscritta con pari dignità , valori e autonomia da An, Forza Italia ed Udc. Non può Silvio Berlu-

sconi concretizzare una iniziativa di questo tipo passando attaverso l’accoglienza e/o peggio ancora l’annessione dei partiti dell’attuale Casa delle Libertà, in qualcosa di “preconfezionato gia confezionato”sarebbe oltremodo ingiusto e sbagliato proprio per quelle regole di libertà e di democrazia partecipativa di cui il centrodestra in Italia e il portatore e garante agli occhi del paese e non solo. Convochi ad horas la Costituente allargata a quanti vicini alla cdl , non vedo dov’è la difficoltà oltre al fatto di recuperare in stile e credibilità proprio nei confronti del popolo del centrodestra e degli alleati della casa delle libertà. Chiamiamolo Partito della Liberta e andiamo a votare! Se non lo fa, ci dica allora perché? Caro Cavaliere non sempre le cose si possono fare nel “modo giusto dal verso sbagliato” ne tan-

Perché i quotidiani non rispettano la par condicio? Vedendo il telegiornale di Emilio Fede mi sono reso conto di un’ennesima incongruenza italiana: la par condicio. Siamo ormai in campagna elettorale e quindi le televisioni sono soggette alla legge per cui devono dedicare uguale spazio a tutte le forze politiche. Ma i quotidiani no! Forse perché sono privati? E allora applichiamo la legge solo alla televisione di Stato, la Rai, che per imposizione è pagata da tutti, e non alle reti private. Sbaglio? Grazie per l’ospitalità e in bocca al lupo alla nuova redazione.

Alessandro Cescutti - Prato

Il Parlamento deve cambiare, la politica sembra uno sport Rieccoli. Angelo Rovati, uomo di fiducia di Prodi, candida il suo amico al Quirinale. Non sono stati sufficienti due fallimenti (1996 e 2008), ci riprovano. La politica in Italia sembra diventata uno sport. Cosa dovranno mai fare i cittadini per liberarsi di personaggi del genere? Poi ci si domanda perché nascano movimenti extraparlamentari: se il Parlamento si muove su simili direttive, quale altro percorso è consigliabile? Cosa serve per essere ascoltati ed attirare l’attenzione verso interessi del popolo e non solo delle caste?

Paolino Di Licheppo Teramo

Le foibe, una piaga che faticherà a rimarginarsi Il 10 febbraio è il giorno del ricordo. Una giornata in cui ci si dovrebbe soffermare e riflettere su quanto accaduto all’Italia per mano del maresciallo Tito. Le foibe. Una ferita tremenda. Una piaga che faticherà ancora molti anni prima di rimarginarsi. Almeno quanto quelli che ci sono voluti per portare a galla la verità, di fatto per decenni ricoperta di menzogna.

Amelia Giuliani - Potenza

tomeno con la sola forza dei soldi, soprattutto quando c’è di mezzo la condivisione di valori , idee e progetti che coinvolgono il futuro di uomini e donne liberi nonché dei loro figli. Vincenzo Inverso

SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog sembra indispensabile, con buona pace di Dini, Mastella, Storace, pensionati e co. Ultimo consiglio: cassare l’idea del Popolo della Libertà non mi sembra una buona scelta, visti gli entusiasmi che aveva suscitato. Forza Italia, sulla scheda, potrebbe sapere di vecchio, se attorniata da altri innumerevoli partiti cespuglio.

Se sapessi cosa vedo nei tuoi capelli Lasciami respirare a lungo, a lungo, l’odore dei tuoi capelli. Affondarvi tutta la faccia, come un assetato nell’acqua di una sorgente, e agitarli con la mano per scuotere dei ricordi nell’aria. Se tu sapessi tutto quello che vedo! Tutto quello che sento! Tutto quello che intendo nei tuoi capelli! La mia anima viaggia sul profumo come l’anima degli altri viaggia sulla musica. I tuoi capelli contengono tutto un sogno, pieno di vele e di alberature: contengono grandi mari, i cui monsoni mi portano verso climi incantevoli, dove lo spazio è più bello e più profondo, dove l’atmosfera è profumata dai frutti, dalle foglie e dalla pelle umana. Nell’oceano della tua capigliatura, intravedo un porto brulicante di canti malinconici, di uomini vigorosi di ogni nazione e di navi di ogni forma, che intagliano le loro architetture fini e complicate su un cielo immenso dove si abbandona il calore eterno. Lasciami mordere le tue trecce nere. Quando mordicchio i tuoi capelli elastici e ribelli, mi sembra di mangiare dei ricordi. Charles Baudelaire a Jeanne Duval

Gabriele Sandri avrà mai giustizia e attenzione? E’ notizia di ieri la nascita della ”Fondazione Gabriele Sandri”, costituita grazie alle forze della famiglia del giovane dj romano, ucciso a novembre scorso da un agente della Polstrada, e alla sinergia voluta dal Comune di Roma. Mi chiedo: come mai le Istituzioni sono così solerti nel dar vita a iniziative, sia pur lodevoli come queste, ma forse più di facciata che altro, mentre il corso giudiziario continua nella sua lentezza e sotto agli occhi di tutti? Il giovane Gabriele Sandri, avrà mai giustizia e attenzione da parte delle autorità competenti e degli organi d’informazione?

Gaia Miani - Roma

Dopo le scelte del Pd, la CdL riduca all’osso le sue fila Dopo l’obamizzazione di Veltroni e la sua scelta di correre da solo, tanto alla Camera quanto al Senato, mi sembra il minimo che anche la Casa delle Libertà riduca all’osso le sue fila. Berlu-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

Luca Meneghel - Como

sconi è in grande vantaggio, e vuole vincere. Ma la politica non è solo tornaconto: vincerebbe domani, ma la pagherebbe al senato qualche mese dopo. Perché gli italiani sono stanchi delle ammucchiate: la scelta di Veltroni sarebbe infatti sensibilmente premiata dal consenso. Molti indecisi, dovendo scegliere, sceglierebbero lui: non è mai stato candidato premier, ha vent’anni di meno e il coraggio di cambiare le cose. Chiedere a Berlusconi di andare al voto da solo è utopistico: ma limitare la coalizione agli storici quattro mi

La giustizia non è mai davvero uguale per tutti Si parla sempre più spesso di malasanità, ma quasi mai di ”malagiustizia”. Chi scrive invece è convinto che il male più grave di cui soffra la nostra Italia sia proprio la malamagistratura. Combatterla, riformarla, deve essere una assoluta priorità del prossimo governo. Essa è troppo politicizzata, e quindi quale giustizia si può pretendere davvero? Finché le nomine dei magistrati sono in mano ai politici (ad esempio gran parte dei magistrati della Corte Costituzionale, del Csm) come possiamo credere che la ”Giustizia è uguale per tutti”?

Gennaro Racconigi Caserta

PUNTURE Ecco il titolo riveduto e corretto a mo’ di refuso provvidenziale dell’editoriale del Corriere della Sera di ieri: “La contrizione provvidenziale”.

Giancristiano Desiderio

Nulla è più pericoloso di un’idea, quando questa è l’unica che abbiamo ALAIN

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

il meglio di BIG, BIG MAC Ci piace di Mac la sua genuinità, la sua retorica da nonno saggio e sincero che si rivolge alla propria famiglia per tranquillizzarla, ma mai per illuderla. Ci piace il suo pragmatismo e la sua risolutezza in politica estera. Sottovalutato da tutti, che individuano nella issue del ”change”, del cambiamento, la più sentita del 2008, molti forse dimenticano che in periodi di incertezza più che salti nel vuoto e inseguimenti di sogni, conta la rassicurazione e la franchezza. Per quanto riguarda la novità, nonostante l’anagrafe, Mac è sufficientemente un volto nuovo e la sua indipendenza intellettuale dimostrata durante i suoi mandati da senatore non può che avvantaggiarlo in una competizione in casa repubblicana i cui competitors fanno a gare per non essere bollati come eredi di George w. Bush. Bush con cui tuttavia si trova vicino nelle scelte più felici: come quella di nominare quel Generale Petraeus che in Iraq ha dimostrato sul campo la propria competenza e, sotto la cui guida, il paese si sta normalizzando. ”I was tied up at the time” disse in un dibattito ribattendo alla proposta di Hillary di costruire un museo su Woodstock. Lui era legato al tempo in cui quei giovani ballavano e fumavano: 5 anni in mano ai Vietcong ti cambiano la vita. E così, a 71 anni, inizia l’ultima grande sfida di un vero ”american hero”, autentico e modesto: stringe mani a tutti e ogni volta dice ”thank youthank-you” (…).

Ultima Thule www.ultimathule.it

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

LA SBERLA Invece di aggiungere altre parole a questa politica rigonfia di

Società Editrice Edizione de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Poligrafico Europa s.r.l. Paderno Dugnano (Milano) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

paranoie e congetture, occorre un semplice gesto: una sberla, un’affettuosa ma decisa sberla per questa classe politica che continua a ficcare la testa nella sabbia dei giochi di potere. Sono bastate le elezioni anticipate per scatenare le papille gustative di questi cani di Pavlov. Tutti a sbavare per i primi posti delle liste. Tutti, nessuno escluso. Tutti fulminati sulla via di Roma, sia provenendo da destra che da sinistra. Berlusconi già pregusta il ritorno a Palazzo Chigi annunciando che la prima legge del nuovo governo sarà sulle intercettazioni telefoniche. La sinistra non ha più niente da dire e spera solo di cadere in piedi. (…) Silenzio sul lavoro, sull’immigrazione, sulla sicurezza, sullo sviluppo, sulla sanità, sulla scuola, sulla politica estera, sulla questione energetica. Silenzio sulla realtà – e quindi sulle persone che sono oppresse da questa realtà. In un paese che precipita nel baratro della crisi il problema numero uno del centrodestra che si prepara a governare è fare la lista unica e trovare una sistemazione per Mastella. Dalla sinistra nessuna autocritica sulle nefandezze commesse dal suo governo. Come se niente fosse. Come se a Napoli fiorisse un giardino profumato e le tasche degli italiani fossero strapiene di soldi. Come se gli operai nella fabbrica Thyssen fossero morti per caso o quella ragazza minorenne stuprata dal branco si fosse inventata tutto. Forse siamo pazzi noi a credere a queste notizie. Forse siamo pazzi a credere ancora a questa classe politica. Di sberle ne abbiamo già prese tante, e siamo ancora qui. Ora tocca ai politici.

Joyce joyce.ilcannocchiale.it

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e di cronach

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Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein

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