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NordSud
Alzare i salari si può: ecco come
he di c a n o r c di Ferdinando Adornato
L’ALLEANZA TRA UDC E PDL
Non c’è alcun motivo per dire no a Casini. Viceversa il danno sarà per tutto il centrodestra. Sono giorni decisivi per non sbagliare
Enrico Cisnetto Natale Forlani Maurizio Sacconi
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poteri I BANCHIERI LASCIANO PRODI pagina 7
Giancarlo Galli
america 2008
Il nuovo fenomeno politico
Obama? Come Sinatra pagina 10
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
Michael Novak
foibe IL GOVERNO ITALIANO SAPEVA
Non facciamoci del male! alle pagine 2, 3, 4
MARTEDÌ 12
FEBBRAIO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
23 •
WWW.LIBERAL.IT
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Aldo G. Ricci
polemiche PERA FA SCANDALO ATTACCANDO MARIO PANNUNZIO Pier Mario Fasanotti
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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l’alleanza
tra Udc e Pdl
Non c’è alcun motivo per dire no a Casini. Solo uno: la diffidenza (che però è ingiustificata). Ma allora...
C’è una soluzione: un chiaro patto di legislatura di Renzo Foa lmeno i toni, dopo le asprezze della scorsa settimana, si sono ingentiliti. Attestati di stima e di fiducia verso Casini hanno preso il posto degli aut aut. Le richieste di adesione al Pdl sono diventate cortesi. Le dichiarazioni pubbliche sfumate e aperte. Ma la partita a scacchi continua e va cercata la spiegazione di una rottura degli assetti originari del centrodestra, che è stata decisa a tavolino, che non si è consumata, ma che è stata comunque messa in conto. L’unica spiegazione, probabilmente, sta nella parola diffidenza. Naturalmente diffidenza verso l’Udc, posta nel giro di poche ore di fronte alla secca alternativa – stando almeno alle dichiarazioni pubbliche di Silvio Berlusconi – tra l’entrare nel listone costituito da Forza Italia e da Alleanza nazionale e il restare completamente fuori dalla coalizione, correndo da sola. Stando alla logica dei comportamenti politici, non si capirebbe quale possa essere l’interesse dei costruttori del Pdl a provocare, con i veti e gli aut aut, un epilogo confuso e incerto. Ad esempio, un epilogo destinato a rimettere in discussione il successo elettorale del centrodestra, fino all’altro giorno considerato praticamente sicuro. In discussione, perché se la rincorsa di Veltroni per quello che riguarda la Camera appare una missione impossibile, ci potrebbe essere alla fine un risultato precario al Senato. O, altro esempio, un epilogo capace di favorire la creazione del nucleo di un polo centrista, dall’appeal non ancora misurabile attraverso i sondaggi, con l’apertura di un prospettiva diversa da quella della marcia verso il bipartitismo tanto sponsorizzato dal sistema mediatico. Diffidenza, dicevo, e molto intensa se la posta in gioco è questa, aldilà dei rilevamenti di opinione esibiti da Berlusconi. L’altra spiegazione – quella di tenere fuori Francesco Storace e la sua Destra – può anche essere nell’interesse di Fini, ma non può essere così pesante da determinare la rottura con una componente così rilevante nella storia del centrodestra. Cioè la componente cattolica, verso la quale la stessa Chiesa italiana non ha mancato in questi giorni di sottolineare la sua sponsorizzazione, sia attraverso le dichiarazioni dirette del direttore di Avvenire Dino Boffo, sia attraverso tutte le indiscrezioni che trapelano sui giornali. La questione Storace riguarda soprattutto la tecnica elettorale, dopo la scissione subita An, il cui simbolo peraltro sparirà. È una fuga verso destra. La questione dell’Udc investe invece la sostanza della qualità dell’alleanza con cui Berlusconi si presenta
A
davanti all’elettorato. Un’alleanza ampia e pluralista, per quanto unita da valori comuni, e aperta al centro più di quanto non possa aspirare ad essere il patto Fi-An o un’alleanza monca? Ecco perché sono due voci ben distinte.
Di cosa si ha paura, quando si giunge ad intimare a Casini a rinunciare al proprio simbolo e a confluire forzosamente nel listone del Pdl oppure a rompere una storica alleanza? Qui c’è molto «non detto» e un eccesso di «non detto» in politica fanno male. Nonostante i silenzi e le assicurazioni contrarie, la paura vera è l’autonomia dell’Udc. Nasce da lontano, dalla legislatura 2001-2006 quando, a lungo, si parlò di «sub-gover-
tempi, eppure se c’è stato un partito alleato a compiere atti di rottura, questo fu la Lega con il «ribaltone» del 1994 e con il suo andar da sola nelle elezioni del ’96 che consegnarono la vittoria a Prodi. Ciò che è successo dopo ha sanato le vecchie ferite. Ma non c’è mai stato da parte di Casini un comportamento analogo a quello di Bossi. Per non parlare poi della forma che sta prendendo il Pdl, in attesa di diventare un partito. Cosa garantisce che, dopo le elezioni, tutti coloro che vi vengono accolti e che torneranno in Parlamento assicureranno la stabilità della nuova maggioranza? Non c’è da mettere in
Il Pdl sta assumendo la forma di un’ammucchiata, come era prima la coalizione. Perché non dovrebbe essere affidabile l’Udc, mentre lo sono considerati altri soggetti che hanno vagabondato per anni tra le due sponde del bipolarismo? no» Fini-Casini. Ma c’era appunto anche Fini, che oggi è il principale alleato del Cavaliere. Si è consolidata, questa stessa paura, nel corso della legislatura appena conclusa, quando i centristi hanno seguito una loro tattica parlamentare, si sono differenziati – è vero – dal resto dell’alleanza fino a parlare di «due opposizioni». Ma non c’è mai stata un’ipotesi di sostegno al governo di Romano Prodi. Non c’è stato neanche un solo atto in questa direzione. C’è stata piuttosto insofferenza verso la politica della «spallata», un’insofferenza peraltro ampiamente condivisa visto che di per sè non ha portato ad alcun risultato e visto che la crisi si è aperta come epilogo di un’inziativa giudiziaria (l’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere contro Clemente Mastella e il suo sistema di potere). Oltretutto questa insofferenza è stata spesso condivisa dallo stesso leader di An. E poi perché non dovrebbe essere affidabile l’Udc mentre sono sicuri altri soggetti? Parlo ormai della notte dei
dubbio la sincerità dell’adesione di Lamberto Dini, che era peraltro scontata dopo il contributo che egli ha dato a rovesciare il governo. Ma fu Dini, non certo Casini, a presiedere tra il 1995 e il ’96 il gabinetto che assicurò la continuità della legislatura, mentre Berlusconi chiedeva l’immediato ritorno al voto anticipato, e poi a schierarsi per un decennio con il centrosinistra. Clemente Mastella, a sua volta, sta decidendo cosa fare. Ma – ricordiamolo – fu Mastella e non certo Casini a lasciare il Polo nel 1998 per sorreggere il governo D’Alema e per restare, anche lui per un decennio, con l’Ulivo e con l’Unione. Il Pdl, in altri termini, sta assumendo la forma di un’ammucchiata, esattamente come era precedentemente la coalizio-
ne. L’unica differenza consiste nella sigla che unisce tutti. Allora c’è una domanda a cui è difficile sfuggire: chi può garantire la sua tenuta all’indomani del voto, prima che nuovi regolamenti parlamentari siano capaci di arginare il fenomeno della disgregazione e della frammentazione? Non lo garantirà certo un gruppo unico, perché i gruppi si possono anche rompere, visto che il parlamentare per Costituzione non ha vincolo di mandato. Il listone del Pdl, oltretutto, non nasce attorno ad un programma, che può essere intuitivo, ma che non c’è ancora. Sembra la vecchia coalizione, un po’ allargata, un po’ snellita, un po’ sfoltita, ma non per questo più omogenea e più stabile nella prospettiva di governare.
Non esistono – non sono mai esistite nella dialettica politica – soluzione tecniche a problemi di fiducia reciproca. La sfiducia non si supera illudendosi di poter costringere un partito con la propria identità a rinunciare al proprio simbolo, a non parlare più se non indirettamente al proprio elettorato e scommettendo su un vincolo di interesse personale degli eletti. Non è neppure una semplificazione del quadro politico scommettere sull’accoppiata di due soli simboli (quello del Pdl e quello della Lega) se poi si può consentire all’elettorato di disperdersi in altri rivoli. Ci sono altre soluzioni. Consistono in atti politici chiari e trasparenti. Il Polo nel ’94 e la Casa delle libertà nel 2001 si formarono in questo modo, anche se poi vulgate di comodo hanno sempre presentato le coalizioni dell’era bipolare come «coalizioni-contro» e non «per». Oggi è possibile pensare a passi analoghi. Non per cercare una banale quadratura del cerchio e per mettere al sicuro il risultato. Un atto chiaro e trasparente potrebbe essere un «patto di legislatura», da stringersi su un programma preciso e realizzabile destinato ad essere un fattore di stabilità fra forze che hanno deciso di mantenere la propria identità, come è il caso dell’Udc, e forze che invece, come FI e An, scommettono su un percorso unitario da iniziare non con procedure congressuali ma attraverso la prova delle urne. Esistono vie di uscita, se il problema nasce dalla diffidenza, se la soluzione del problema non è la separazione, che anzi potrebbe avere un prezzo salato per tutti e se l’interesse di tutti è davvero quello di trovare il modo di continuare un cammino comune.
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tra Udc e Pdl
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cambiare idea ora e rinunciare alla nostra identità?». A Dionisi toccherà in ogni caso limitare la fuoriuscita di consensi dell’Udc laziale verso la Rosa Bianca di Baccini: «Ho sentito un po’di nostri responsabili locali, in queste ore, e tutti ci chiedono di stare nel centrodestra ma senza dissolverci. Mi pare che anche l’invito della Chiesa vada interpretato in questo senso», dice il capodelegazione dei centristi a Strasburgo. Francesco Pionati non sa farsi una ragione del muro contro muro, culminato ieri nella nuova scudisciata di Berlusconi: «Basta giochetti, l’Udc scelga». Dice il responsabile comunicazione di via dei Due Macelli:«Noi siamo messi alle strette, ma a provocare i ribalto-
di questo genere richiedono passaggi graduali, un metodo e una tempistica adeguati». Ma a questo punto l’Udc non potrebbe tentare l’avventura di costruire il centro. Zinzi fa il realista: «Con una legge elettorale diversa sarebbe stato anche possibile riorganizzare il centro, ma non è questo il punto: ci interessa stare nel centrodestra senza perdere la nostra identità. D’altra parte non si capisce perché dovremmo inseguire acriticamente Veltroni: lui è in stato di necessità, sa bene che ripresentare la vecchia coalizione lo condanna comunque alla sconfitta e si gioca una carta in fondo disperata. Noi invece dobbiamo pensare solo a vincere e a governare bene». È facile immaginare come la delicatezza del passaggio sia av-
«Svolgiamo un ruolo insostituibile», dice Ronconi, «diciamo sì a Berlusconi premier: perché rompere?». Dionisi: «La nostra base ci vuole nell’alleanza ma con la nostra identità». E Pionati ricorda: «I ribaltoni sono nel curriculum di altri»
Viaggio nell’Udc. Parlamentari e dirigenti di fronte all’aut-aut del Pdl
Identità cristiana, il popolo moderato non ci rinuncia di Errico Novi
ROMA. Si può resistere al pressing anche senza agitarsi. L’Udc mostra di saperlo fare. Nessuno tra i dirigenti di via dei Due Macelli lascia intravedere cedimenti. Così come nessuno risponde all’intransigenza di Berlusconi e Fini con toni ultimativi. Fermezza e moderazione, in attesa che Pier Ferdinando Casini, alla direzione nazionale di giovedì prossimo, tiri le somme. Maurizio Ronconi spiega perché non avrebbe senso rompere l’alleanza: «Noi rappresentiamo una parte dei moderati, quella componente liberal cattolica a cui il centrodestra non può
rinunciare. Abbiamo un ruolo ben definito, una rottura non avrebbe senso». Ma non ha senso nemmeno sciogliersi nel Popolo della libertà e cancellare il simbolo, dice il deputato nato a Spello: «La base dell’Udc non è mai stata così determinata nel chiederci di difendere la nostra identità come in questo momento». E non è questione di capriccio: «Il simbolo non è un totem, ci aiuta semplicemente a rendere chiara la funzione che ci spetta tra i moderati. Noi abbiamo le migliori intenzioni: siamo interessati alla federazione, e disponibili a indicare in Berlusconi il
candidato premier. Il centrodestra può essere alternativo alla sinistra solo se resta unito». Rocco Buttiglione a sua volta gira una domanda a uno dei pontieri più attivi in queste ore, il portavoce di An Andrea Ronchi: «Se siamo affidabili per entrare nel Pdl perché non siamo idonei ad allerarci?».
Se lo chiedono tutti, nel partito di Casini. Armando Dionisi ha un ulteriore interrogativo: «Abbiamo mostrato subito le nostre perplessità, quando la nuova aggregazione è stata annunciata a dicembre: perché dovremmo
ni sono stati altri. La Lega, innanzitutto. E poi Mastella e Dini, che se ne portano addirittura due a testa sulla coscienza». Oltretutto, insiste Pionati, «la nostra presenza nell’alleanza sarebbe utilissima a Berlusconi, solo noi possiamo raccogliere i consensi dei moderati che sono nella zona di frontiera». Considerazione identica a quella fatta ieri dal coordinatore lombardo del partito, Luigi Baruffi, che ribatte anche alla tesi del governatore Roberto Formigoni.
Secondo il presidente della Regione «la dottrina cattolica è ben rappresentata nel Pdl, non c’è bisogno di un partito che assolva da solo questo compito ed ecco perché spero che l’Udc entri in questa nuova casa». Per Baruffi «è Formigoni che dovrebbe entrare nell’Udc: invece di essere corrente minoritaria nel Popolo della libertà potremmo riunirci tutti sotto lo stesso simbolo». Una battuta, certo. Dal tono più distensivo rispetto alle supposizioni che fanno altri, nell’Udc: la componente cattolica di Forza Italia, dicono sottovoce i più, sarebbe ben contenta di mantenere una sorta di esclusiva interna e di vederci per questo esclusi dal progetto. Eppure la tendenza più diffusa tra i centristi è quella di crederci ancora, di aspettarsi che «prevalga il buonsenso, il ragionamento», dice il deputato campano Domenico Zinzi: «Ognuno dei quattro partiti fondatori della Cdl ha una propria specificità, accumulare tutto è una forzatura, un errore. Anche perché», sostiene Zinzi, «svolte
vertita dalla componente siciliana del partito. Il segretario regionale Francesco Romano però non ha difficoltà a promettere che «il simbolo dell’Udc sarà sulla scheda. Ci auguriamo di farlo in alleanza con il centrodestra. Altrimenti potremmo fare anche un patto con il Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo». Romano sa bene che «quello che vale per Roma vale anche per la Sicilia». Discorso chiarissimo anche a Totò Cuffaro. Lui più di tutti si chiede che senso abbia arrivare a una rottura. Anche perché le tensioni romane hanno un riflesso pesante sulla scelta stessa del candidato alla sua successione: allo stato il nome indicato da Berlusconi per la corsa a gpresidente della Regione è l’unico che Cuffaro non può mandare giù, Gianfranco Micciché. Il governatore uscente è convinto che tutto potrebbe ricomporsi, in Sicilia, se l’intesa sull’alleanza tra Udc e Pdl fosse siglata.
Nell’entourage di Cuffaro fanno notare che il prezzo elettorale al Senato sarebbe alto anche per Forza Italia e An: con l’Udc che va per conto suo, c’è il rischio di regalare il premio di maggioranza al centrosinistra. Sarebbero 9 senatori in più per l’Unione, tanti da mettere in pericolo la soglia di tranquillità a Palazzo Madama. Un danno per tutti, confermato, fanno notare i centristi, dal sondaggio dell’Ipr marketing che prevede una perdita di consensi per l’Udc se davvero si sciogliesse nel Pdl.
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l’alleanza
tra Udc e Pdl
Il raggruppamento serve a chiedere preventivamente all’elettorato se ne vale la pena
Il Pdl per ora è una lista. Bisogna farne un partito (con l’Udc) di Gennaro Malgieri e fosse il popolo a decidere la nascita di un partito, fino a che punto ci si potrebbe opporre? E se al popolo, le oligarchie dei vecchi partiti, dessero il mandato di farlo chiedendogli di riconoscerlo attraverso un responso elettorale, come si potrebbe contrastare questo metodo di democrazia diretta, pur ammettendo che si tratta di un rituale inedito? E quando il popolo avesse decretato, in piena libertà e nella più assoluta segretezza, che l’operazione non ha soltanto un significato di orientamento, ma è una forma imperativa di rappresentanza politica, lo si potrebbe sconfessare? Questi interrogativi me li sono posti dopo l’annuncio clamoroso ed inaspettato della presentazione di una lista comune alle elezioni politiche da parte di Forza Italia e di Alleanza nazionale. E, tralasciando considerazioni complesse, forse inutili, ho concluso che i partiti hanno un senso soltanto quando la necessità (ma anche il caso, come insegnava un vecchio filosofo) li impone. Che si sia in presenza, nella fattispecie, di una lista e non di un partito, è ovvio. Ma che la strada intrapresa debba portare ad un esito più ambizioso, quello della formazione di una nuova compagine politica, è altrettanto scontato.
presentata peraltro non soltanto dagli eredi della Dc, è talmente incistata nel centrodestra da fornirne il terreno più fecondo sul quale far crescere rigogliose piante nell’organizzazione sociale e nella cultura diffusa. Perché, allora, rinunciare ad un progetto o, quantomeno, ad una prospettiva di questo genere, di tale ampiezza?
S
Del resto, in quale altra maniera ci si sarebbe potuti opporre all’abile mossa di Veltroni se non operando in maniera analoga? Si dirà: il Partito democratico ha una sua struttura, un suo fondamento, una sua essenza. Ed il Popolo della libertà nasce per caso sotto un cavolo? Certo, per ora è una lista, come s’è detto, ma in prospettiva può e deve diventare qualcosa d’altro. Anche perché se è stato possibile mettere insieme due soggetti, più altri elementi minori, è perché nel corso degli anni un’elaborazione concettuale, valoriale, filosofica e storica c’è stata. Qualcuno l’ha
sottovalutata, probabilmente. Ma non si può dire che il lavoro svolto da tanti intellettuali e politici, raccolti in vari organismi, a cominciare dalla Fondazione liberal, sia stato vano al fine di rendere maggiormente omogenee e compatibili tra di esse le forze dell’ex-Casa delle libertà. Pervenire oggi ad un risultato come quello della lista unitaria,
ma quando mai s’è visto un parto senza travaglio? Si dirà che il Pd, volendo fare delle sia pur improprie similitudini, è il frutto di anni di lavoro e di lacerazioni. Il Popolo della libertà, si trova a nascere in una condizione determinata dall’implosione della coalizione avversaria, e chiede all’elettorato, preventivamente, e non ex
Manca di un elemento essenziale che in tutti i modi dovrà farne parte: il più coerente erede del partito dei cattolici, vale a dire l’Udc le cui ragioni possono essere comprese, da chi scrive, soltanto se riferite alla gelosa custodia della propria identità. Ma fino ad un certo punto. Le identità sono oggi elementi di feconde contamina-
La cultura cattolica, rappresentata non soltanto dagli eredi della Dc, è talmente organica al centrodestra da fornirne il terreno più fecondo sul quale far crescere rigogliose piante nell’organizzazione sociale a mio modo di vedere, non ha niente a che fare con l’annuncio unilaterale di Berlusconi a San Babila nel novembre scorso che scosse le classi dirigenti di tutti i partiti del centrodestra, innescando polemiche anche aspre. Ma coglie, con l’adesione e l’accordo di tanti, un’esigenza che potrebbe essere l’occasione del futuro partito dei moderati quando i tempi post-elettorali lo permetteranno: la riforma del sistema dei partiti e, dunque, della politica.
Certo, si possono nutrire dubbi, incertezze, inquietudini,
post, se l’impresa vale la pena. Da qui la differenza sostanziale tra le due esperienze. Unite, tuttavia, dalla necessità di ridurre la frammentazione partitica e di offrire un comprensibile quadro politico ai cittadini. Non è roba da poco di questi tempi. E forse è la sola speranza che si possa nutrire in vista di una integrale riforma costituzionale, fondamento di una nuova Italia le cui esigenze non possono essere compresse dentro schemi antiquati, sclerotici, cadenti. La lista unitaria è incompleta, almeno in questo momento.
zioni. Per farle vivere è necessario accostarle alle altre, amalgamarle con le altre, dare luogo insieme ad una nuova e più grande identità nella quale i valori possano vivere e fruttificare anche laddove nessuno osa immaginare. Il resto, con tutto il rispetto, è politicismo destinato a isterilirsi con il passare del tempo. Ma davvero qualcuno nell’Udc pensa che se i suoi semi venissero gettati oggi nella lista unitaria e domani nel partito unico, marcirebbero, o, nella migliore delle ipotesi, sarebbero irrilevanti? Non ci credo. La cultura cattolica, rap-
Oggi c’è bisogno di unire, non di dividere. Percorrere una strada che fino a qualche giorno fa sembrava ostruita, non è un’avventura senza ritorno, ma un atto di temerarietà consapevole che si addice proprio ai moderati, riflessivi per definizione, ma pur sempre sognanti come tutti gli esseri umani. Ed allora, se il sogno di una Italia nuova lo lasciamo nelle mani di chi proviene dalle culture più stantie del Novecento, quale destino riserveremo al nostro Paese? L’altro giorno,Veltroni, maestro di suggestioni, dal monastero di Spello, ha lanciato quasi un’orazione perché la politica si rialzi. Si è dimenticato di dire come: capita quando si esce da una sconfitta politica bruciante. Eppure non gli si può negare il coraggio di credere ad un sogno. E può crederci perché, bene o male, ha saputo mettere insieme ciò che sembrava inconciliabile. Da quest’altra parte tutto è nel senso e nel segno della conciliabilità: i valori, la gente, gli stili di vita, l’idea di un’Italia vitale e produttiva, l’immagine perfino sacrale della persona. Cosa c’è che manca perché si dia luogo ad un progetto che non si esaurisca nel volgere di una campagna elettorale? Spero che l’inquietudine nel centrodestra operi fattivamente. E lasci tracce per le generazioni che verranno. Noi siamo soltanto testimoni di richieste che vorrebbero essere esaudite. O piantatori del futuro. Cominciamo a dissodarlo questo campo diventato fin troppo arido.
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Una risposta a Formigoni (e a Lerner) per le critiche all’intervento del direttore di Avvenire
Caro Roberto, ora anche tu accusi la Chiesa d’ingerenza? di Luca Volonté ad Lerner accusa il Vaticano (sic!) di entrare a ‘gamba tesa’, Formigoni accusa Dino Boffo di aver espresso una opinione sulla situazione politica del centrodestra. A veder bene ci sarebbe da rimanere stupefatti per entrambe le posizioni laiciste, sempre che articoli e interviste riportino il pensiero originale degli autori. Tutti e due sembrano piccati, seppur con leggeri distinguo, che il Direttore di Avvenire abbia risposto ad una domanda sul Pdl, entrambi si scagliano verso di lui per indurre Ruini o i Vescovi a un dietrofront, alla faccia della libertà della Chiesa e della legittimità di tutte le opinioni. Cosa ha detto sabato al Tg1 Boffo? ”La Chiesa non fa scelte di schieramento. Diverso è il discorso per i singoli cattolici, che alla pari di ogni altro cittadino, si muovono sulla base della loro sensibilità e a seconda dei valori che vedono rispecchiati da una parte o dall’altra”. Mentre sulle ”nuove aggregazioni” dice: ”Per gli umori che raccolgo in giro, è interesse dei cattolici, come credo sia interesse dello stesso polo di centrodestra, che sia salvaguardata la persistenza di un partito che fa direttamente riferimento alla dottrina sociale cristiana”. Cosa ci sarà mai da scandalizzarsi? L’unico partito che fa riferimento da 14 anni alla dottrina sociale della Chiesa è stato prima il Cdu e da quattro anni l’Udc, è la realtà dei fatti. Non è vero che la Chiesa non sia intervenuta nel processo di aggregazione del Pd, lo ha fatto in un col-
G
loquio il cardinale Bertone, affermando poi su Famiglia Cristiana che era preoccupato per l’attenzione (scarsa) verso i cattolici in quel partito. Non è nemmeno vero, come afferma Formigoni, che durante il processo della Margherita non si sia intervenuti asimmetricamente, non lo si è fatto solo perché nello statuto di quel partito era sparito il riferimento esplicito al Magistero Sociale della Chiesa. Accusare poi, con il medesimo livore, che la Chiesa faccia per bocca di Boffo una scelta politica (di partito) senza giustificazioni è francamente puerile. Nessuna offesa, ma almeno la verità. Qualche giorno fa, sulle pagine de Il Giornale, l’ideologo di An, ex An dovremmo dire, un tale Campi, bellamente affermava che “finalmente con il Pd e il Pdl si toglievano di mezzo tutte le ideologie del XX secolo, fascista, comunista e democristiana”. Nessuno nel Pdl, nemmeno Formigoni si è sentito di preoccuparsi della demente affermazione. Mettere in una sol fascio Mussolini, Marx e De Gasperi è un bel sogno folle, un relativismo che dimostra la
dell’impegno sociale e politico il Magistero della Chiesa. Sarebbe strano il contrario, incredibile chiedere e scaldarsi pretendendo il contrario. Forse la superbia, la presunzione, la smania di protagonismo possono aver annebbiato le parole e le reazioni.
Fermiamoci qui, posiamo la penna, chiudiamo i cassetti con le tante interviste fatte e i tanti articoli non scritti degli ultimi anni. Ne avremmo di affermazioni ”doppiopesiste” da citare, tante ”omissioni” da rammentare. Siamo in Quaresima, camuffare il laicismo ”bipartisan” sotto la pretesa di autosantificarsi è una tentazione nel deserto, per favore però, non è colpa della Chiesa, né di Boffo se in Italia tutti i partiti si vergognano della Dottrina Sociale Cristiana, taluni addirittura combattono i ”principi non negoziabili”, altri hanno tra i propri leader chi si batteva per l’abrogazione della legge 40 e vuole ricalcare Pacs e Cus.Tutti così i partiti in Ita-
L’unico partito che fa riferimento alla dottrina sociale della Chiesa è l’Udc. Si può dire che è il suo “core business” tentazione di taluni ”nuovi arrivi” nel Pdl. Lerner su Repubblica e Formigoni su Il Giornale, ieri hanno dato prova di una schizofrenia particolare e purtroppo nota nella cultura politica italiana: accusare la Chiesa di voler fare politica. La lunga tradizione, sempre viva, del Magistero Sociale della Chiesa è ben rintracciabile nelle Encicliche sociali, dalla Centesimus Annus sappiamo pure che ciascuno di noi può contribuire alla sua crescita. Ma se il Direttore di Avvenire non può nemmeno dire che debba essere ”salvaguardata la persistenza di un partito che fa direttamente riferimento alla Dottrina Sociale Cristiana”, chi lo dovrebbe dire? E’ dalla fine della D.C. che i cristiani stanno in diversi partiti e schieramenti, tuttavia c’è chi ha deciso di associarsi liberamente e democraticamente votando uno Statuto che mette a fondamento dell’impegno dei propri associati, il Magistero Sociale della Chiesa. Naturale che il Direttore di Avvenire o chiunque altro, veda con interesse chiunque ponga a fondamento
lia, tranne uno, tranne una pattuglia che per ogni azione parlamentare e politica parte da ciò che insegna il Magistero: persona, famiglia, libertà di educazione e valore della società. E cosa si pretende che dica il direttore del giornale dei cattolici? Ha detto semplicemente la verità dei fatti. L’Udc ha il suo ”core businnes”, diciamo così, nella Dottrina sociale, perché non ce la mettono pure il Pdl e il Pd? Sarebbe una interessante discussione a cui assistere, tra Gad e Odifreddi o tra Formigoni e Prestigiacomo. In un mondo in cerca d’identità, noi pensiamo che i ”valori non negoziabili”siano la strada d’uscita laica per il Paese, se poi Lerner e Formigoni la pensano allo stesso modo sulle parole di Boffo, ciò dimostra solo un retropensiero comune ad entrambi della serie: ”ai voti dei cattolici ci pensiamo noi, la Chiesa ne stia fuori...” Bella libertà di opinione e bell’esempio di laicità!
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politica d i a r i o
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g i o r n o
Malore di Napolitano a Trento Ipotensione: è questa la diagnosi dei medici dopo il malore che ha colpito il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ieri mattina a Trento. Un calo di pressione momentaneo dovuto al caldo, alla pesante toga accademica allacciata fino al collo, allo stare in piedi già da venti minuti e, certamente, anche all’emozione per la nomina a professore onorario dell’Università di Trento. Verso mezzogiorno, Napolitano ha cominciato a sentirsi accaldato. Poi si è fermato, pallidissimo in volto e si è aggrappato al podio. Il presidente si è seduto per qualche minuto. E poi - accompagnato dal lungo applauso d’incoraggiamento della platea - ha ripreso il discorso dal punto in cui l’aveva lasciato.
Sondaggio: Udc meglio da sola
Psicodramma a sinistra, tra simboli, guerrette e poltrone
La Cosa depressa di Susanna Turco
ROMA. È stata scaricata da Veltroni. Al posto del simbolo ha un punto interrogativo a forma di falce e martello. Il suo probabile (e tutto sommato unico) candidato premier è bersaglio dei tiri incrociati delle componenti interne. Comincia a essere preda degli psicodrammi da candidature, che già si preannunciano come un bagno di sangue. Non si può dire certo che sia un momento allegro per la Sinistra-l’Arcobaleno. Più che Cosa rossa, Cosa depressa. Lo si intuisce da piccoli e grandi segnali. I militanti hanno cominciato a chiamarla «Cosina»; i parlamentari vagolano per i corridoi semivuoti dei Palazzi con il pensiero fisso alle liste bloccate e l’aria di chi pensa «non dimenticatemi, eh». Si capisce perciò che non appena ha potuto, Fausto Bertinotti ha cominciato a battere su quello che sarà il tasto più incisivo di tutta la campagna elettorale, che si prevede dominata dal leitmotiv «noi, caro Veltroni, siamo più di sinistra di te». E quindi via, con il sì ai Pacs-Dico e il no alla legge Biagi. «Nel programma del centrosinistra avevamo il riconoscimento delle unioni di fatto che non è stato realizzato per la pressione delle forze centriste e moderate. Se andassimo al governo riprenderei da lì, proponendo certamente il nostro sì alle unioni gay», ha fatto sapere ieri il presidente della Camera. I temi iper-identitari, del resto, sono una delle poche carte sulle quali tutta la Cosa rossa si
trova saldamente d’accordo. Su tutto il resto, invece, si è ancora alla tormentata ricerca di un’anima. Il sondaggio pubblicato su Aprileonline, quotidiano telematico vicino a Sinistra democratica, del resto, è un piccolo saggio degli umori prevalenti. «Il ”partito” della Sinistra l’Arcobaleno non esiste ancora, ma un nome per la sua leadership c’è già: è quello di Fausto Bertinotti. Voi che ne pensate?». Ecco, gli internauti di sinistra - quelli che hanno risposto al quesito, almeno - non devono essere propriamente entusiasti: lo «storico segretario di Rifondazione comunista» è considerato la
Già partita la resa dei conti delle liste. Se tutto va bene, Bertinotti e i suoi si ritroveranno una pattuglia parlamentare dimezzata «figura giusta per la leadership» soltanto dal 34 per cento dei (fino a ieri) 1.345 votanti. Tolti i «non so», a bocciare la candidatura di Fausto il rosso è il 63 per cento degli internauti, percentuale persino maggiore del consenso che Bertinotti ebbe nell’ultima elezione a segretario. E non è solo questo il punto. Perché, per dire l’aria che tira, più di uno nell’ambiente vede nel sondaggio l’ennesima freccet-
ta avvelenata contro il compagno Fausto: «Lui non va bene? E chi ci vogliamo mettere, Fabio Mussi?».
Proprio l’area di Sinistra Democratica, del resto, appare quella più in difficoltà. Se Pdci e Verdi sono da tempo abituati a fare di necessità virtù e il Prc bertinottiano non sta poi così scomodo nell’isolamento coatto, è proprio l’area di Sd che è in preda allo psicodramma. Dall’uscita dai Ds e fino a venerdì, infatti, l’ex compagno di scuola di Veltroni e D’Alema aveva immaginato ldi fare da lievito della sinistra unita, ponte di collegamento tra bertinottiani ed ex diessini. La scelta del Pd di correre da solo ha scombinato tutti i piani e messo in agitazione capigruppo e deputati. Proprio il veltroniano «ognun per sé» ha confermato le peggiori paure del folto gruppo parlamentare. Dal punto di vista dei seggi, infatti, nulla sarà come nel 2006: niente coalizione, niente premio di maggioranza, ergo parecchi esuberi. Se oggi la Cosa rossa può contare su una pattuglia di 93 deputati e 46 senatori, dopo il 13 aprile, se tutto va bene si ritroverà dimezzata: 40-50 deputati, 20-25 senatori. Una mattanza. I pochi posti sicuri nelle liste bloccate, peraltro, andranno divisi tra i quattro partiti. Che per il momento non hanno ancora ben chiaro se e come unificarsi: Bertinotti parla di «fase costituente» ma Diliberto ha provveduto ad acquistare una nuova sede per il Pdci, per dire.
Udc che corre all’interno della coalizione di centrodestra, ma con il proprio simbolo: è questo - secondo l’ultimo sondaggio elettorale di Ipr marketing per Repubblica.it - lo scenario complessivo più favorevole al centrodestra.Secondo la rilevazione (effettuata tra il 9 e il 10 febbraio), una coalizione del Pd con l’Italia dei Valori consentirebbe ad entrambi i partiti di salire al proprio massimo consenso (34% in totale). Con il Pd da solo e l’Udc alleato di PdL e Lega Nord, invece, il centrodestra nel suo insieme arriverebbe al 51,5% (con l’Udc al 4,5%). Lasciando il Pd al 29%. Nello scenario in cui corre in solitudine, l’Udc arriverebbe al 6%.
Partito il toto-liste Roberto Saviano, l’operaio della Thyssen, mogli di banchieri e imprenditori autorevoli. Sportivi e artisti della televisione. La rincorsa dei partiti al candidato eccellente è cominciata. Il nome caldo che si fa in queste ore è quello del leader del Comitato referendario Giovanni Guzzetta. Sembra infatti che sia il Partito democratico che Alleanza nazionale lo abbiano chiamato proprio negli ultimi giorni per offrirgli un candidatura alle prossime elezioni.
Berlusconi/1: «La scelta spetta all’Udc» Le trattative con l’Udc e la Destra sono in corso, ma Silvio Berlusconi lascia intendere che o il partito di Pier Ferdinando Casini entra nel PdL o non accetterà apparentamenti: «La scelta spetta a loro spiega l’ex premier - Conoscono quanto noi il sistema elettorale in vigore. Come noi fanno parte della famiglia europea del Ppe, così come anche l’Udeur, che potrebbe rientrare nello schieramento moderato. La gente è stanca delle divisioni e le indicazioni unitarie che ci ha dato il nostro popolo negli ultimi due anni sono chiare, pressanti. Noi le rispetteremo e andremo avanti su questa strada, senza tentennamenti». «Sarebbe grave - aggiunge Fini - se l’Udc non comprendesse l’importanza di ciò che accade e non contribuisse a rendere il Pdl più forte nella sua capacità di governo».
Cesa: «La nostra scelta è chiara, basta giochi» «Concordo pienamente con Berlusconi: è ora di finirla con i giochetti" dice il segretario Lorenzo Cesa. «L'Udc - aggiunge - è disponibile ad una alleanza vincolante e programmatica con il centrodestra, nel rispetto della propria autonomia e identità. Ci dispiacerebbe se questa convergenza non si realizzasse, ma non sarà certo per colpa nostra». Giovedì, comunque, si riunirà la direzione dell'Udc e in quella occasione dovrebbe essere presa una decisione definitiva. Nella tela delle alleanze che Berlusconi sta continuando a tessere la posizione dell'Udc non è l'unico nodo da sciogliere. A dire “no grazie» al Pdl è anche la Destra di Francesco Storace. L'ex governatore del Lazio ha infatti dichiarato che il suo partito non confluirà nel PdL e che, al momento, ha tutte le intenzioni di correre da solo.
Berlusconi/2: «Il Pd è il partito di Prodi» «Il Partito democratico è e resta il partito di Prodi». Lo dice Silvio Berlusconi in un’intervista a “Tempi” in edicola giovedì prossimo, spiegando che la scelta della formazione di Walter Veltroni di presentarsi da sola è «un tentativo di prendere le distanze dal governo Prodi, governo che ha lavorato male secondo otto italiani su dieci e formato per l’80% da ministri e sottosegretari del Partito democratico. Lo stesso partito che oggi promette di governare diversamente da come ha fatto fino a ieri. Ma come possono pensare che gli italiani ci credano?».
poteri
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Il primo è stato Corrado Passera, ma tanti altri non tardano ad arrivare
I banchieri del Nord hanno capito: prodismo non fa rima con liberismo di Giancarlo Galli elosamente custodisco la magistrale lezione impartitami, all’inizio degli anni Sessanta, dal gran banchiere Raffaele Mattioli, allora dominus della Banca Commerciale, mentre l’allievo prediletto, Enrico Cuccia, in assoluta discrezione, andava costruendo Mediobanca: «devi renderti conto che i sistemi istituzionali mutano, i politici passano, e noi continuiamo…». Impossibile interpretare i giri di valzer dell’Alta finanza, dimenticando il passato. A farla breve, affinché il lettore abbia una chiave di comprensione: giovane cronista del Giorno di Enrico Mattei, fui spedito da Mattioli. Questi, già liberale ed in cuore ancora monarchico dopo avere collaborato per un ventennio col fascismo, s’era pubblicamente espresso a favore del centrosinistra: l’alleanza tra democristiani e socialisti, portata avanti da Amintore Fanfani, Pietro Nenni, e dal presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. Il mio direttore voleva una dichiarazione “a sostegno”; e dopo la citata premessa Mattioli la dettò parola per parola: «gli interessi obbligano banchieri ed industriali ad essere governativi per definizione».
G
Fac cio riem erge re dal magazzino dei ricordi questa dichiarazione (che non venne pubblicata in quanto poco opportuna!) per la stringente attualità. In una Milano dove, fra le boiseries della finanza, è in pieno svolgimento un’operazione di sofisticata acrobazia. Con un triplo salto mortale carpiato, l’abbandono del treno di Romano Prodi per
agganciare in corsa quello del Popolo delle Libertà.Taluni cercando posto sul vagone Udc di Pier Ferdinando Casini, altri comperando biglietti per l’Eurostar Arcore-Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Almeno prenotandosi. Il più lesto a lasciare il convoglio prodiano avviato su un binario morto, è stato (onore alla tempistica!), Corrado Passera. Il brillante amministratore delegato di Intesa San Paolo, cresciuto alla scuola di Carlo De Benedetti, fu il primo ad intuire che il premier emilia-
ti; il ragionier Padoa Schioppa pure. E poi, e poi, IntesaSanpaolo è banca radicata al Nord, terra presidiata dai “berluscones”, dai leghisti. Fa una scommessa: col prodismo al capolinea, non sarà lui a difendere l’ultima trincea. Il Walter Veltroni? E’ un romano; per Passera, comasco di nascita, anche le radici contano. Non bastasse, valuta: meglio tenersi i lombardi, stringendo con Roberto Formigoni, eccellente governatore destinato ad un radioso futuro… salvando la Malpensa, avrà una
Al Nord, i delusi dall’esperienza di governo dell’Unione sono alla ricerca di nuovi orizzonti e di politici che riscattino i valori dell’efficienza e dell’impegno. Qualcuno cerca di agganciare in corsa il treno del PdL, qualcuno preferisce l’Udc no aveva il fiato grosso. E si riposiziona. In maniera stilisticamente e pragmaticamente ineccepibile. Non fosse per lui, Alitalia finirebbe senza colpo ferire, per un piatto di lenticchie, fra le braccia di Air France. Invece sponsorizza Carlo Toto di Air One. IntesaSanpaolo si espone, con Corrado Passera che faticosamente supera le resistenze del suo presidente Giovanni Bazzoli. Prodi ha i giorni conta-
grossa cambiale da portare all’incasso.
Nell’e stabli sh men t, la sterzata di Passera trova presto imitatori, considerata la caratura dell’uomo che più di ogni altro è stato l’artefice del rilancio del gruppo Intesa. Resta l’interrogativo del come si comporterà Bazoli, per taluni troppo espostosi a favore del “carissimo Romano”. D’altra parte, l’astro Passera, nel diffuso sentire della
Da sinistra: Giovanni Bazoli, Corrado Passera, Cesare Geronzi e Alessandro Profumo
comunità finanziaria, brilla ormai di luce propria, con enorme capacità di attrazione. Mentre è andata storta a quanti, calcolando che Prodi avrebbe resistito sino al 2011, tentavano di mobilitare a vantaggio del professore emiliano il fior fiore della classe dirigente nordista. Traducendo dal politichese, affinché anche i non addetti possano districarsi. In Padania, il prodismo ha perso gran parte della sua credibilità. Qualcuno, certo, riserva attenzioni al Pd veltroniano, però incrociando le dita. Essendo il cavallo, sì di razza, ma non certo dall’ineccepibile pedegree… quindi, sepolta la lunga stagione dell’anti berlusconismo (per altro più di facciata che reale), l’establishment ha insomma compiuto una svolta a 180 gradi, nell’acquisita convinzione che prodismo non rima con liberismo.
Cor rado Passera è stato il primo a cavalcare il vento del Nord. Piaccia o meno, l’impegno senza se e senza ma a favore della Malpensa (con una grande banca finalmente calatasi nella logica del “fare rischiando”), e la difesa dell’italianità di Alitalia nei confronti dell’arroganza francese, hanno costituito il fattore trascinante. Salto della quaglia? Impossibile escluderlo. Tuttavia cogliamo il senso profondo: al Nord, i delusi del prodismo sono alla ricerca di nuovi orizzonti e di politici che riscattino i valori dell’efficienza e dell’impegno. Dopo Corrado Passera, altri illustri banchieri (da Alessandro Profumo di Unicredit a Cesare Geronzi di Mediobanca), sembrano sul punto di mettersi in scia. Ne riparleremo.
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pensieri
L’INTERVENTO
Sinistra a caccia di una strategia elettorale, anzi, di una strategia
Il “piano B” di Fausto Bertinotti di Arturo Gismondi arà un paradosso, ma il più soddisfatto o almeno pacificato in questa fase inquieta della campagna elettorale, che è quella dello schieramento delle forze in campo, sembra essere Fausto Bertinotti. La separazione da Veltroni - sancita in un incontro ufficiale dal quale le due parti sono uscite dandosi reciprocamente atto delle rispettive ragioni - è di quelle che nella ritualità delle crisi umane si definisce consensuale. E infatti. La crisi del governo Prodi non è stata per tutti la prova che una sinistra antagonista, massimalista e comunista non ha né può avere un ruolo nel governo di un Paese come l’Italia, che nonostante i suoi guai vive in uno spazio europeo e occidentale. No, Bertinotti e i partiti della “cosa rossa”che nel panorama elettorale appaiono come la “terza forza in campo”riconoscono gli errori di Prodi, limitati però alla incapacità di tenere a bada le in-
S
quietudini di una parte dello schieramento centrista, oltre a tutto marginale, i Mastella, i Dini. Con lo slogan “la crisi è venuta da destra” Bertinotti salva sé stesso e la sinistra radicale da ogni responsabilità. Veltroni sull’argomento sorvola perché
Nel caso di una vittoria di Walter Veltroni, l’opposizione sarà “creativa e influente”. Nel caso vinca Berlusconi potrebbe tornare in auge l’Ulivo Prodi è pur sempre presidente del partito, oltreché capo del governo in carica per l’ordinaria amministrazione. E il peso di Prodi o dei suoi che riuniscono dentro di sé il vecchio e inesausto rancore nei confronti di Berlusconi, non è da sottovalutare nel caso tutt’altro che vago, di una sconfitta elettorale.
D a l si le n zio s u l g iu d i zio circa il governo e le ragioni della sua rovina, la sinistra estre-
opportuno fare una ulteriore considerazione sul convegno organizzato sabato scorso dalla Fondazione Liberal sul “Cambio di stagione” che ha avuto il grande merito di riaprire un dibattito sugli anni della contestazione che a distanza di quaranta anni, è ancora utile fare, per riscoprire le ragioni e valutarne le implicazioni. Ferdinando Adornato ha ragione nel ricercare la ragione principale di quella pseudo – rivoluzione del ’68 nel“manicheismo ideologico che si diffuse in quegli anni in Italia e in Europa e che ancora pesa nella vita della nostra democrazia”. Alla vigilia degli anni ’70 lo scontro tra capitalismo e marxismo, la guerra fredda che teneva paralizzato il mondo, la incipiente giovane democrazia che si era affacciata all’orizzonte dopo la seconda guerra mondiale e che aveva emancipato i giovani, il pericolo sempre incombente di una terza guerra mondiale, tutto questo portava ad una radicalizzazione ideologica e quindi ad uno scontro di generazioni.Vi era insomma uno scontro tra due concezioni diverse della vita e della democrazia, perché dopo la tragedia della guerra e i sacrifici del dopoguerra, l’iniziale benessere economico e civile cambiava le ragioni della convivenza civile. Questa esigenza nuova, queste domande diverse non sono state comprese dalla classe dirigente dei partiti, non fu capita dal governo e forse ancora oggi, non sembri paradossale, siamo in debito di alcune risposte che gli studenti chiedevano in termini di rinnovamento istituzionale e sociale. L’On Fini ha detto che la destra non capì lo spirito della contestazione: è vero anche questo; ma io sostengo che nessun partito capì che dietro la contestazione e le manifestazioni violente c’era una domanda positiva: l’esigen-
E’
ma può trarre un utile argomento per la campagna elettorale, e una fantasiosa legittimazione per il ruolo futuro, Ciò basta, per ora, a Bertinotti per non infierire nei confronti di Veltroni. “La situazione attuale - così sintetizza in una intervi-
sta al “Corriere” - è ovviamente la conseguenza di una scelta del Pd che noi riteniamo discutibile, ma la decisione di Veltroni ci consente di fare di necessità virtù“. C’è dunque una presa d’atto che lascia alla sinistra - che si immagina la sola sinistra sopravvissuta al disastro prodiano - di “progettare il futuro”. Per Franco Giordano, ancora segretario del Prc, la crisi ha contribuito a creare una geo-
grafia politica nella quale esistono la destra, il centro e la sinistra che si appresta, elettoralmente parlando a raccogliersi attorno al “Bertinotti for President”. Le strategie di questa sinistra appaiono di una disarmante semplicità. Nel caso di una vittoria di Veltroni, la sua opposizione sarà “creativa e influente”, così l’annuncia oggi Bertinotti. Insomma, siamo a un virtuale ritorno al centro-sinistra. Nel caso di una vittoria di Berlusconi, questa non potrà che riavvicinare le forze del centro e della sinistra. C’è chi rimugina le suggestioni del vecchio frontismo, chi pensa alla parabola della Link tedesca, ove tuttavia la sinistra estrema ha dinanzi a sé la grosse koalition di Angela Merkel.
Continua il dibattito sul ’68 e le sue conseguenze
La rivoluzione fallì La sua domanda resta senza risposta di Giuseppe Gargani
za di un nuovo assetto sociale, di un adeguamento delle strutture alla nuova realtà. L’organismo sociale era cresciuto e c’era bisogno di un “vestito” istituzionale diverso. Mi sento di dare un giudizio molto ponderato: la DC come partito e nelle sue funzioni di Governo gestì la situazione con una accorta tattica, ma senza una strategia di lungo respiro, senza un progetto consapevole che individuasse le riforme che era necessario mettere in cantiere. La Costituzione Repubblicana aveva pochi anni di vita: doveva essere attuata nei punti fondamentali e più difficili ma anche modificata per adeguarla ai cambiamenti profondi delle organizzazioni sociali e civili. Nuovi diritti di libertà si imponevano e chiedevano attenzione e rispetto. Ma non possiamo negare che la contestazione era alimentata dal PCI il quale soffiava sul movimento studentesco perché coltivava la speran-
N a tu r a l m e n t e l a “ c o s a rossa” ancor più di altri costruisce i suoi castelli in aria. Nella sua arretratezza culturale e ideologica questa sinistra, che resta di formazione alternativa e massimalista, non è nelle condizioni migliori per capire il tanto di nuovo che dallo scioglimento delle Camere e ancora negli ultimi giorni si è andato producendo in tutto lo schieramento politico. E non avverte la voglia di novità che la visibile semplificazione del quadro elettorale propone agli elettori i quali avvertono ormai come indispensabile un cambiamento radicale dinanzi alle condizioni nelle quali è ridotto il Paese da decenni di immobilismo rissoso.
za di poter portare a termine una rivoluzione che non era riuscita nell’immediato dopoguerra e infondeva nell’animo dei contestatori il sentimento della necessità, della lotta continua, per delegittimare moralmente e politicamente l’avversario, per demonizzare il nemico. Non si aveva diritto di parola all’Università se non si era accreditati a sinistra, e gli studenti ritenevano di avere diritto a superare gli esami con il minimo, il cosiddetto 18 politico: il concetto di meritocrazia e di autorità veniva compromesso e la società italiana conobbe la sua prima crisi e la sua perdita di valori. La conseguenza di questa contestazione targata sinistra fu la sua degenerazione nella lotta armata: dalla contestazione al terrorismo, e dovremo ancora approfondire le analisi per capire fino in fondo il significato. C’è da dire però che il PCI il quale aveva soffiato sul fuoco della contestazione si rese conto prontamente che la violenza non determinava un ribaltamento nelle forze politiche e la sinistra non vinceva e dunque condannò il terrorismo e passò in qualche modo dalla parte dello Stato, superando anche lo slogan diffuso in quel periodo da intellettuali della sinistra estrema: “né con lo Stato né con i terroristi”. Si determinò quindi negli anni successi al ’68, quelli del terrorismo, una unità istituzionale, una unità sociale che rifiutava la violenza e la condannò e mise ai margini la contestazione: questo fu il merito, a mio giudizio, di Enrico Berlinguer. La rivoluzione fallì perché l’organismo sociale trovò la forza al suo interno di rigenerarsi e di andare avanti. Ma la domanda di riforma dello Stato rimase inevasa e ne discutiamo ancora oggi a distanza di quaranta anni!
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parole
a parola foibe si è ormai affiancata alle altre, più famose, che scandiscono gli orrori del secolo scorso: gulag, olocausto, shoah e così via. Non è stato facile restituire questa parola e quello che essa significa alla memoria degli italiani e una inchiesta recente ci spiega che la strada perché diventi di dominio comune è ancora molto lunga. Le voci dei trecentomila istriani cacciati dalla loro terra tra il 1945 e il 1948, che raccontavano gli orrori subiti e il sacrificio di quanti avevano trovato la morte nelle fucilazioni di massa o nelle fosse carsiche (le foibe, appunto) non erano abbastanza forti da imporsi al silenzio che in quegli stessi anni circondava quel dramma nell’opinione pubblica di sinistra, ma non solo. Né potevano trovare udienza le denuncie provenienti dalle sparute forze di destra, escluse di fatto dalla politica nazionale sulla scia della sconfitta. Quelle migliaia di morti senza difensori, massacrati da iugoslavi ma non solo nel corso di un duplice pogrom, etnico-politico, pianificato in due riprese (settembre 1943 e maggio 1945) rappresentano una ferita che solo in parte trova rimedio nella giornata della memoria istituita di recente e nei monumenti appena inaugurati. Il perché è semplice. Si tratta di una delle più radicali operazioni di rimozione collettiva che la nostra storia nazionale abbia conosciuto: una rimozione che affonda le sue radici sia nelle divisioni all’interno del governo del Cln che gestisce i mesi del dopoguerra, sia nei tormentati e timorosi rapporti che lo stesso governo intrattiene con gli Alleati che occupano il Paese.
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Sp esso si è p arlat o di mancanza d’informazioni su quanto avveniva nelle terre del confine orientale. Ma un’ampia documentazione, per lo più inedita, conservata nel Gabinetto della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’interno, esclude questa circostanza. Le relazioni partono dall’autunno del 1944 e provengono per lo più dall’Ufficio informazioni dello Stato Maggiore. A gennaio del 1945 il ministro dell’Aeronautica, Luigi Gasparotto, ex combattente e compagno di partito del presidente Ivanoe Bonomi, gli trasmette preoccupato un rapporto fiduciario in cui si riportano notizie di eliminazioni di ufficiali italiani che operavano nelle brigate partigiane delle zone di confine, di liste di proscrizione per Trieste, di centri di reclutamento slavi in Italia. La risposta viene dal vicepresidente e ministro della Giustizia, nonché segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che diffida Bonomi da qualsiasi iniziativa del governo volta a contrastare le formazioni comuniste slave nella loro avanzata. «È assurdo pensare, scrive il leader comunista, che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso del resto la nostra organizzazione di Trieste ha avuto da me personalmente istruzioni precise… La sola direttiva da darsi è che le nostre unità di partigiani e gli italiani di
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A sessant’anni di distanza dal fondo delle foibe riemerge una scomoda verità: il governo italiano sapeva di Aldo G. Ricci Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito». In queste parole è già largamente scritto il copione successivo. Le notizie continuano ad arrivare e il 14 marzo è il ministro della Marina, De Courten, a inviare un rapporto che richiama senza citarlo il caso Porzùs. Per la prima volta emerge infatti che la brigata partigiana non comunista della zona, la famosa Osoppo, viene attaccata non solo dal IX corpo iugoslavo, ma dalle stesse formazioni comuniste italiane, «intente piuttosto a eliminare partigiani di altro colore politico che a combattere i tedeschi, allo scopo di impadronirsi del potere al momento opportuno».
Palmiro Togliatti, diffidava il governo dal contrastare le brigate comuniste di Tito. Mentre veniva stroncato il tentativo di Parri di ottenere un osservatore italiano nella Venezia Giulia Con la fi ne della gue rr a la situazione precipita verso la sua inevitabile conclusione, mentre il governo chiede invano che Trieste e i territori italiani vengano occupati dagli Alleati, secondo quanto era stato promesso in sede di armistizio. In realtà la città è sottoposta a una doppia occupazione e le formazioni slave possono compiere indisturbate la pulizia etnico-politica alla quale si erano da tempo preparate, utilizzando liste di proscrizione compilate con l’aiuto di elementi locali, slavi ma non solo. Sono i giorni del martirio di Trieste e dell’Istria, che si svolgono sotto gli occhi distratti delle truppe alleate e nel silenzio del governo italiano, guidato prima da Bonomi e poi da Parri, un martirio destinato a prolungarsi ben oltre il ritiro delle truppe di Tito da Trieste, a metà di giugno. Le notizie in proposito non mancano. I rap-
porti dei Carabinieri e degli informatori sono molto precisi. Elencano episodi e cifre; forniscono i nomi delle foibe e la loro dislocazione; illustrano l’ostilità alleata verso ogni tentativo d’ingerenza italiana nell’area orientale. Anche il timido tentativo di Parri per ottenere un osservatore italiano nella Venezia Giulia viene stroncato sul nascere e l’ottimismo ostentato dal governo nelle dichiarazioni ufficiali si rivela privo di qualsiasi fondamento, dettato solo da motivazioni di propaganda interna. E’ il dramma dell’impotenza e della divisione all’interno del Cln, quando l’Italia scopre nei fatti quanto sia dura la propria condizione di Paese vinto e quanto poco giovi quella famosa “cobelligeranza”sulla quale aveva puntato le sue speranze.
Si am o alla vigilia degli appuntamenti referendari e elettorali e la posta in gioco è alta. Tutti sanno quello che sta succedendo nella Venezia Giulia, perché i rapporti informativi sono noti a tutte le forze del governo del Cln, ma tutti tacciono. Le sinistre perché sostengono apertamente la causa della Iugoslavia socialista, le altre forze politiche (con alcune lodevoli eccezioni individuali) perché sono costrette a ostentare ottimismo e fiducia negli Alleati, i quali non vogliono interferenze nell’area orientale e dovranno gestire gli imminenti passaggi elettorali. Quindi plauso da una parte e silenzio dall’altra. Mentre Trieste brucia a Roma si discute, ma neppure troppo. Nulla di nuovo, in realtà. Questa è la realpolitik, baby, avrebbe detto il vecchio Humphrey Bogart.
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mondo
Virtù e difetti del fenomeno politico del momento
Obama? Sembra Frank Sinatra di Michael Novak eri, non in modo inaspettato ma certamente drammatico - o quasi - il giovane senatore democratico Barack Hussein Obama (dell’Illinois), ha sconfitto la senatrice Hillary Clinton (di New York) in tre importanti elezioni primarie ai quattro angoli del Paese. Dallo Stato di Washington nel lontano nord-ovest degli Stati Uniti, alla Luisiana - praticamente la foce del Mississipi a sud , fino a spingersi nello sperduto Nebraska, Obama ha travolto la Clinton per oltre il doppio dei voti (tranne in Luisiana dove comunque il suo margine è ancora un pesante 56 a 37 per cento). A livello nazionale, Obama è in testa alla Clinton nella conta dei delegati con un 1134 a 1131. Il margine, dunque, è ancora scarso. Anche se le prossime tre primarie - Virgina Maryland e il distretto di Columbia - si giocheranno su un terreno favorevole ad Obama. La domanda sorge spontanea: da dove viene fuori questo fenomenale candidato? Obama siede solo da due anni nel senato degli Stati Uniti e prima di allora era un semplice delegato dell’assemblea dell’Illinois. All’universtià di legge di Harvard si era imposto vincendo una delle cariche più ambite: quella di direttore della Harvard Law Review. Sua madre è del Kansas - un’americana purosangue - e suo padre è keniota. Da piccolo ha vissuto tra le Haway e l’Indonesia. Ma quel che colpisce di Obama è
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la sua fantastica capacità oratoria, in grado di trascinare i suoi ascoltatori come riuscì soltanto al giovane William Jennings Bryan nella campagna del 1896. Talmente bravo da guadagnarsi il soprannome di Boy Orator from Platte, Nebraska. Tra i politici del nostro tempo, Obama è il più appassionato. È “energetico” come un tiramisù. Le sue parole sono un pugno allo stomaco e arrivano diritte al cuore della gente, trascinandola. Obama è il Frank Sinatra dei comizi elettorali. E come intorno al giovane Frank capitolava ogni donna, oggi alle parole di Obama capitolano
pacato, ritmico, soprendente, a volte classico, sebbene io non riesca a ricordare un suo esatto predecessore. La sua parlantina è una magica inflessione di sillabe. Il tema di Obama è l’Unità, non le discussioni e gli scontri, ma soltanto relazioni pacifiche e garbate. Lontano dalle asprezze e polemiche degli ultimi anni, vedi l’affaire Clinton o Bush, visceralmente odiato da molti. Con lui la cortina di fumo di un duello a pistole fra democratici e repubblicani non sale. No! Un altro mondo è possibile, ora. Unità. Dolcezza. Un nuovo Eden.
«Tra i politici del nostro tempo, Obama è il più appassionato. È “energetico” come un tiramisù. Convince anche i suoi critici, benché lo accusino di essere vuoto e svenevole» anche i giornalisti maschi.Visto che nonostante le critiche da loro mosse sulle sue vacue prese di posizione e sul sentimentalismo spicciolo dei suoi discorsi, continuano a sostenerelo. Perché? Prima di tutto Obama è giovane, serio, riflessivo, dal volto estatico, come se stesse avendo una visione. È nero e, considerata la storia americana, la sua immagine tocca il cuore di quasi tutti. Il suo modo di parlare è volutamente
Ascoltare Obama è desiderare che gli uomini siano come lui li immagina. Dopo due decenni di amarissimi scontri, e ogni anno sempre peggio, Obama è come un sedativo per la tosse. Uno sciroppo. Capace di andar giù anche a quella parte di sinistra che aveva deciso di seguire la Clinton e addirittura di perdonarla per la sua decisione di sostenere la prima fase della guerra (d’altronde non poteva essere altrimenti, doveva pur difen-
dere l’eredità del marito) fino al punto di convincersi che solo lei era il candidato giusto per guidare i democratici fuori dal deserto.Tutto sembrava deciso: ma poi improvvisamente la meteora Obama ha spinto molti democratici a riconoscere che loro non possono amare, credere, ammirare i Clinton. Di più: non possono più assecondarla, è arrivato il momento di agire contro di lei. I Clinton - alcuni hanno confessato - sono stati veramente affamati di potere e sono apparsi troppo desiderosi di pagare qualsiasi prezzo per distruggere quelli che gli si opponevano. Per come la vedo io, i democratici si avviano a diventare il partito dell’irrealtà. Non possono arrivare ad ammettere che il loro sistema economico non funziona. Non possono ammettere che la politica di riduzione delle tasse di Reagan e Bush, soprattuutto per le imprese, mette in circolo un sistema virtuoso di revenues e che soprattutto produce un maggior tasso di occupazione, salute del sistema e salari migliori (anche per le classi più deboli). Non possono costringersi a guardare la crisi economica come una locomotiva lanciata contro le democrazie dell’Europa occidentale. La crisi è demografica (troppe poche nascite per donna). Ma è anche intergenerazionale (visto che ogni finanziaria si trova a tagliare le promesse fatte dai predecessori). Ed è, infine, religiosa-cultu-
mondo rale (visto che parte della nuova immigrazione scarseggia a condannare la cultura e le modalità di vita in cui erano costretti nei loro paesi d’origine, e rifiuta di accettare la morale, gli standard di vita e il modo di agire e pensare degli europei). Il dato di fatto, è che la sinistra americana preferisce andare avanti come se nulla fosse cambiato. La sinistra americana rifiuta di vedere che il socialismo, la democrazia sociale e l’economia sociale sono stati un orrido fallimento. La sinistra americana spera che l’America assomigli sempre un po’ di più al Vecchio Continente, esattamente come gli “illuminati” europei proclamano un “nuovo risveglio”, una “nuova stagione”, un “nuovo inizio”, una “nuova era” in stile americano. L’Europa, sostengono, ha bisogno di nuove energie, nuovi stimoli, un diverso amore per la vita, una nuova ragione per vivere, e quanti altri slogan di questo tipo si possono aggiungere. Esattamente come hanno fatto gli europei per oltre un centinaio di anni. La sinistra americana vuole dimenticare l’11 settembre e la lezione amara che quella tragedia ha impartito (ma non, evidentemente, alla sinistra stessa). Vuole parlare a quei terroristi
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che vogliono bombardarla fino al suo oblio e ridere di lei allo stesso tempo. La sinistra non vuole accettare le responsabilità di avere dichiarato guerra alla nazione. La
sinistra non vuole né vedere né accettare che il suo nuovo nemico religioso-militare vuole distruggerla a causa dei costumi dissoluti (liberi!) di cui va così orgoglio-
OLTRE IL NUCLEARE
Banche d’investimento nuova arma di Teheran Non solo la sfida del programma nucleare e il ricatto delle forniture energetiche. L’Iran prepara un altro colpo per aumentare il suo peso internazionale. Un colpo, questa volta, che rispetta tutte (o quasi) le regole del tanto odiato Occidente capitalista: il lancio delle sue prime banche d’investimento destinate a operare sul mercato internazionale. Soprattutto per attirare capitali esteri nella Repubblica islamica che, per diretto ordine della sua ”guida suprema”, l’ayatollah Ali Khamenei, vuole privatizzare una quota delle sue imprese non strategiche. Le banche d’affari sono tre - Amin, Novin e Pasargad - e cominceranno ad operare dal prossimo mese. L’ayatollah Khamenei ha lanciato la sua direttiva privatizzatrice a metà del 2006 per aggirare le sanzioni americane contro l’attività delle società iraniane - che sono quasi
sa. Preferisce l’irrealtà. Obama è il perfetto candidato per dimenticare. Porta un immenso sollievo a coloro che non vogliono vedere. Rappresenta la benedizione - per di più gratuita - sul partito dell’irrealtà. Ed ora, questo fine settimana, per la prima volta, si prospetta la possibilità che superi la senatrice Clinton e diventi il candidato ufficiale, reale, unico, del partito democratico. Obama è un uomo molto più lontano alla sinistra di Hillary ed anche meno esperto, praticamente a qualsiasi livello. Sembra completamente cieco ai fallimenti della sinistra nel corso del Ventesimo secolo. Obama è un uomo di così grande talento e vitalità che si potrebbe temere di vederlo marciare, lancia in resta, esultando nelle foul jaws dell’irrealtà con il suo partito, e forse la sua nazione - alle spalle. L’abilità oratoria, per quanto oggi rara e rinfrescante, è un’affascinante fonte di sogni. Ma non dimentichiamo, tuttavia, che l’ultimo secolo è stato il secolo degli oratori. Lasciateci la speranza che il profondo sconcerto che provo sgorghi da false premesse e sia destinato a rivelarsi infondato.
d i a r i o
g i o r n o
Catturato Dadullah I militari pachistani hanno ferito e catturato in un’operazione al confine con l’Afghanistan un importante leader della ribellione afghana, Mansour Dadullah. Scarcerato da Kabul un anno fa in cambio della vita dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, Dadullah cercava di entrare in Pakistan via Beluchistan. Il giovane aveva preso il comando delle forze ribelli della regione meridionale di Helmand a maggio, dopo la morte del fratello maggiore Mullah Dadullah, ucciso in un’operazione congiunta della Nato e dei militari afghani. A dicembre erano corse voci che il Mullah Omar lo avesse destituito dal comando perché indisciplinato. Da ieri sera, inoltre, si teme il rapimento del diplomatico pakistano Tariq Azizuddin, ambasciatore a Kabul.
Timor Est, tentato putch È tornata improvvisamente a salire la tensione a Timor est, dove la notte scorsa il presidente Jose Ramos-Horta è stato vittima di un attentato in quello che sembra essere stato un tentativo di colpo di stato. Operato d’urgenza e poi trasportato a Darwin, in Australia, Ramos-Horta è fuori pericolo. Le autorità hanno proclamato sull’isola lo stato di emergenza per 48 ore e hanno imposto il coprifuoco. Nel frattempo Ban Ki-Moon ha convocato d’urgenza il Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Usa, a morte 6 detenuti di Guantanamo? La magistratura militare Usa chiederà la condanna a morte dei sei detenuti di Guantanamo Bay che, con tutta probabilità, saranno accusati di aver giocato un ruolo centrale negli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington.
Le minacce di Chavez Il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, ha minacciato di sospendere la fornitura di petrolio agli Usa nel caso in cui la giustizia britannica, olandese e statunitense congeli effettivamente i fondi della società petrolifera di Stato del Venezuela. I tribunali dei tre Paesi occidentali, infatti, nei giorni scorsi hanno approvato il blocco dei fondi della ”Petroleos de Venezuela” nell’ambito della causa intentata contro la compagnia venezuelana dalla statunitense Exxon Mobil.
Condoleezza presto in Medio Oriente L’Autorità nazionale palestinese ha annunciato l’arrivo nella regione del segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, per riattivare i negoziati politici con Israele ormai paralizzati, mentre il governo di Tel Aviv ha minacciato di intensificare la campagna di assassini mirati, che potrebbe coinvolgere anche leader di Hamas, nel tentativo di mettere fine al lancio di missili verso i villaggi israeliani.
vi si dirà di Enrico Singer
tutte di Stato - creando un settore di private companies. Il processo, finora, è andato a rilento per l’incertezza del quadro economico generale. «Le sanzioni sono state la corona di fiori sulla bara delle privatizzazioni», ha detto Heydar Pourian che dirige il settimanale Iran Economics. Ma adesso il regime di Teheran prepara il suo contrattacco e le nuove banche d’investimento dovrebbero essere l’arma per realizzarlo. La prima operazione in calendario è la vendita del 25 per cento del capitale della Società nazionale iraniana del rame che le tre banche d’affari intendono piazzare in particolare attraverso la Borsa della Malaysia. Ma non tutto si annuncia facile. Prima di tutto perché c’è un limite (il dieci per cento) al controllo delle singole società da
d e l
parte degli azionisti stranieri e questo spaventa gli investitori internazionale. E poi perché lo stesso presidente Ahmadinejad è in disaccordo con l’ayatollah Khamenei: preferisce combattere l’Occidente con altre armi più che con la finanza. EUROPA E GAS
La Turchia si vendica contro Nabucco Jozias van Aartsen, il coordinatore europeo del progetto Nabucco, è atteso giovedì ad Ankara. Il suo compito: fare pressione su Recep Tayyip Erdogan perché la Turchia metta da parte le riserve che ancora bloccano il progetto del gasdotto di 3.300 chilometri che do-
vrebbe portare il gas dell’Azerbaijan e di altri Paesi della regione del Mar Caspio fino in Europa passando proprio per la Turchia. Nabucco potrebbe offrire un’alternativa ai rifornimenti che arrivano dalla Russia e che sono condizionati dalle dispute tra Gazprom e Ucraina sul gas ”rubato”. Questa volta la disputa è tra Ankara e la Ue ed è tutta politica. Le difficoltà sul cammino dell’integrazione europea stanno creando difficoltà anche al nuovo gasdotto. Come la Francia di Sarkozy frena sull’ingresso della Turchia nella Ue, così Erdogan si oppone all’ingresso di Gaz de France nel progetto Nabucco. Si ripete così, a parti invertite, lo scontro che è in atto su South Stream, il gasdotto di Gazprom (al quale partecipa anche Eni) che dovrebbe passare per la Serbia e che Mosca condiziona, in qualche modo, al ritiro dell’appoggio europeo all’indipendenza del Kosovo. Quando si mescolano questioni nazionali e politica energetica, la miscela è sempre esplosiva.
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ECONOMIA E SOCIETÀ
NordSud
ALZARE I SALARI SI PUÒ, EC di Natale Forlani stituti di ricerca nazionali e internazionali, Istat e Banca d’Italia convergono unanimemente nel rilevare che negli anni 2000 i salari sono rimasti sostanzialmente invariati e le relative famiglie, soprattutto quelle monoreddito, abbiano crescenti difficoltà nell’affrontare gli incrementi del costo della vita. Il tutto in un quadro di significativo peggioramento della posizione di reddito dei lavoratori dipendenti rispetto agli altri ceti. La convergenza delle analisi sui dati reali dovrebbe favorire un’analoga capacità di intervento.
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Dovrebbe… ma in realtà il confronto e le opinioni delle parti sociali sulla riforma del sistema contrattuale sono an-
cora del tutto simili all’anno 1998, quando nell’ambito della sottoscrizione dell’intesa sullo sviluppo con l’allora governo D’Alema, abortì il tentativo di riformare l’impianto contrattuale sottoscritto il 23 luglio 1993. Accordo finalizzato soprattutto a tutelare i salari rea-
degli interessi sul debito pubblico. Operazione a cui si deve principalmente il risultato della partecipazione italiana alla nascita dell’euro. Nel 1998 gli osservatori più avveduti avevano già compreso come, in presenza di un cambio stabile, fosse necessario
Il deficit di innovazione non fa sviluppare i settori trainanti all’estero li con la contrattazione nazionale, nell’ambito di una politica salariale moderata e rivolta a contrastare l’inflazione, e per questa via contenere il peso
affrontare la competizione internazionale stimolando una crescita della produttività e avviando una stagione di riforme strutturali in grado di aumen-
tare l’efficienza dell’apparato produttivo. Occasione persa e rimediata solo parzialmente da riforme parziali del mercato del lavoro e delle prestazioni sociali, peraltro assai contrastate e in parte rinnegate nei tempi recenti. Alla convergenza delle analisi sui dati di fatto corrisponde , di conseguenza, una scarsa capacità di incidere sulle cause e, inevitabilmente, di adottare le terapie adeguate.
Le ipotesi circolanti di utilizzare le entrate fiscali aggiuntive per sgravare gli aumenti salariali dei contratti nazionali, ancorché in parte giustificate, possono invece paradossalmente disincentivare gli attori nel ricercare soluzioni di medio-lungo periodo ai problemi di oggi. Pertanto è necessario
precedere il “che fare” da una corretta analisi delle cause che hanno generato la situazione in essere.
La bassa crescita dell’economia, e della produttività, è all’origine della compressione dei salari soltanto in parte compensata, soprattutto sui redditi familiari, dall’aumento dell’occupazione. Una crescita economica contenuta, mediamente inferiore all’1 per cento annuo rispetto agli altri Paesi europei, condizionata da più fattori: da comparti industriali impegnati in una faticosa azione di riposizionamento per effetto di un cambio stabile e dell’aggressività della competizione internazionale, e un’espansione dei servizi che è avvenuta soprattutto nei comparti a bassa produttività.
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NordSud
ECCO COME I limiti di un contratto nazionale che non libera energie sul territorio I tre settori dominanti della occupazione nel settore dei servizi italiani sono la pubblica amministrazione (40 per cento dell’occupazione nei servizi e 25 del totale), il settore commerciale, i servizi alla persona.
Debole e quasi insignificante il peso di altri settori, come la logistica, i servizi finanziariassicurativi, e quelli delle attività verso le imprese che costituiscono il traino delle trasformazioni in altri Paesi. Più in generale sono insignificanti gli
effetti delle applicazioni informatiche sull’organizzazione del lavoro che trascinano la produttività nei servizi soprattutto dei Paesi sviluppati. Se solo ci fosse stata una produttività media aggiuntiva nella Pubblica Amministrazione del 5 per cento annuo si sarebbero prodotti risparmi annui analoghi pari all’1 del prodotto interno lordo. Un secondo fattore di compressione dei redditi da lavoro è rappresentato dalla obsolescenza del sistema di contrat-
tazione, imperniato sul contratto nazionale che svolge il compito di tutelare il salario rispetto all’inflazione. Per non parlare di una contrattazione decentrata che, in teoria, dovrebbe favorire la distribuzione della produttività generata nelle specificità aziendali.
Il sistema presenta lacune di diversa natura. La pretesa di regolare i salari attraverso un ruolo dominante dei contratti nazionali finisce per ancorare i risultati contrattuali e i loro costi alla concreta possibilità di essere sostenuti da parte delle realtà aziendali meno produttive. Nel contempo il sistema delle imprese nel manifatturiero e nei servizi si è ulteriormente destrutturato rendendo problematica la tenuta del sistema di relazioni sinda-
cali nei luoghi di lavoro (secondo una recente indagine del Cnel la contrattazione aziendale negli ultimi dieci anni è scesa dal 30 al 10 per cento rispetto al grado di copertura degli occupati). Basterebbe questa constatazione, unita alla difficoltà crescente nel rinnovare i contratti, a consigliare riforme sostanziose. Tuttavia è la concezione stessa della regolazione salariale sulla base dei principi della incrementabilità (salario reale + produttività) ad andare in crisi con le trasformazioni produttive che stanno avvenendo in particolare nei settori dei servizi. È la produttività del settore dei servizi a condizionare quella più generale e i tassi di crescita, dell’economia e rappresentano oltre i due terzi delle atti-
vità produttive nei Paesi sviluppati. Laddove c’è concorrenza, come in gran parte delle industrie manifatturiere e commerciali, la produttività è utilizzata per diminuire i prezzi. Cosa peraltro fondamentale al fine della tenuta del valore reale dei salari nei settori deboli dell’economia.
In altri settori, pubblica amministrazione in primis, ma anche della produzione e distribuzione dell’energia e nei servizi finanziari, sono le posizioni di rendita e/o di mancata esposizione ai tipici rischi di mercato a favorire una contrattazione salariale più sostenuta, semmai i condizionamenti sono di altra natura: nel continua a pagina 14
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NordSud MERCATO GLOBALE
La geopolitica dell’inflazione di Gianfranco Polillo
pubblico impiego per i vincoli della spesa pubblica, nelle aziende per l’esigenza di contemperare i vincoli della rappresentanza sindacale associativa. All’opposto nei settori dei servizi alle persone, il livello dei salari è condizionato dalla sostenibilità dei loro costi da parte delle famiglie. Tutto questo significa che il sistema di contrattazione tende progressivamente a essere sovrastrutturale rispetto ai processi reali. In alcuni settori, pochi, il funzionamento del doppio livello di contrattazione è prevalente nelle attività meno esposte alla competizione mentre nei comparti dei servizi e delle piccolissime
non è tema all’ordine del giorno nelle relazioni sindacali e ci si continua a illudere che l’introduzione di nuovi vincoli e adempimenti e l’azione di repressione degli ispettori rappresentino armi sufficienti nel contrastare questi fenomeni. Infine va sottolineato il ruolo svolto dall’incremento della pressione fiscale e contributiva sulla crescita dei salari netti. Le tendenze sono condizionate da tre distorsioni del nostro sistema: la rilevanza dei prelievi Irpef sul complesso delle entrate, che penalizza il reddito fisso, l’aumento dei contributi previdenziali per reggere l’espansione della spesa pensionistica, l’obiettivo es-
Non basta soltanto dare sgravi alle famiglie più bisognose del Paese imprese la sostenibilità dei salari reali dipende per lo più dal contenimento dei prezzi.
Terzo fattore, molto trascurato nel dibattito sulla materia, è l’influenza esercitata dalle tendenze reali del mercato del lavoro e dell’occupazione. Le differenze sull’andamento dei costi della vita nei territori sono in gran parte speculari alle variabili che influenzano il costo dei fattori, in primis quello del lavoro, condizionati dalle quote del lavoro sommerso e della presenza di submercati del lavoro dove immigrazione clandestina e il doppio lavoro rappresentano gli estremi di una evasione contrattuale e fiscale che sta assumendo molte sfaccettature. Il salario ufficiale sostenibile
senzialmente “ridistribuivo” attribuito alla politica fiscale. L’Irpef è diventata il parametro non solo per pagare le tasse a livello nazionale ma anche per compensare gli eventuali tagli delle stesse con le addizionali locali. Ovvero per pagare i servizi in base al reddito nella convinzione che questo rappresenti la via migliore per correggere le storture distributive del mercato. In altri Paesi la politica fiscale e contributiva, ad esempio con sgravi mirati, assume il compito di stimolare l’inclusione nel mercato del lavoro delle persone, soprattutto donne e giovani, per offrire reti di protezione per i lavoratori anziani. Oppure fornisce sgravi alle famiglie per comprare servizi. Il che favorisce nuova occupazione e
la sostenibilità di salari più elevati per chi ci lavora. Tutte cose che favoriscono la crescita dell’occupazione, in gran parte di lavoro dipendente, e dei redditi familiari.
La proposta di rimediare la situazione in atto sgravando le quote dei salari derivanti dai rinnovi dei contratti nazionali, non solo non corregge queste distorsioni ma paradossalmente disincentiverebbe il decentramento della contrattazione e la sua capacità di recuperare la funzione regolativa dei processi reali che avvengono nel mercato del lavoro. Questo non significa che non si debba intervenire con sgravi fiscali, per esempio aumentando le detrazioni per le spese di produzione ovvero per gli acquisti di servizi alle persone da parte della famiglie oppure per defiscalizzare le quote salariali derivanti dalla contrattazione decentrata. Ma per incentivare una politica fiscale rivolta alla sostenibilità dei salari e a incentivare produttività e occupazione. Quello che si vuole sottolineare, in sintesi, sono le distorsioni prodotte da un sistema contrattuale, improntato sul totem del contratto nazionale, che non solo ha ridotto la sua efficacia nella distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, ma ha finito per fare perdere la capacità di stimolare innovazione e di interagire sulle variabili reali della formazione del salario regolare nel mercato del lavoro. La riforma della contrattazione deve pertanto far leva sul suo decentramento e sulla diversificazione dei “modelli di contrattazione”. Processo che può essere favorito da una politica fiscale che sgravi i bassi salari, aiuti le famiglie e stimoli l’innovazione.
Due notizie, una buona, l'altra cattiva. E chiaramente in evidente e forte contrasto tra loro. La buona notizia è legata al mutato atteggiamento di Jean-Claude Trichet, in tema di tassi di interesse. Per il momento non si cambia, ma domani si vedrà. Quell’asticella del 4 per cento è troppo alta per un economia che soffre per i venti della recessione. La cattiva notizia è legata all’andamento dell’inflazione. In rialzo in tutti i mercati e in tutte le latitudini. In America siamo al 4,1 per cento, in Europa al 2,5: il valore più alto dalla nascita dell’euro. In Cina si tocca il record negativo del 6,9 per cento. La media mondiale, secondo i calcoli più recenti, è del 4,8 per cento. E c’è già chi paventa un ritorno al clima degli anni Settanta, memore delle difficoltà, allora, incontrate e del rischio di un collasso finanziario. Ma se le preoccupazioni sono acuite, anche le differenze rispetto a quegli anni non sono da trascurare. Allora il motore dell’inflazione era la rincorsa tra prezzi e salari, in una spirale che si avvitava su se stessa. Oggi le cause sono diverse. All’epicentro del sisma è l’andamento dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime. Senza questa componente l’inflazione non supererebbe la soglia dell’1 per cento. Salvo che in Cina – e gli effetti si sentono – dove i salari sono cresciuti in media del 19 per cento. In un anno i prezzi delle materie prime e dei prodotti dell’agricoltura sono aumentati del 20 per cento: metà dell’aumento è imputabile alle derrate alimentari, il resto alle altre componenti, in cui spicca, per l’80 per cento, il petrolio. Fenomeno passeggero o duraturo? Sul tema si confrontano due opposte scuole di pensiero. La prima è minimalista. Non preoccupatevi – si sente ripetere – passerà. Nel settore primario dell’economia
esistono delle strozzature momentanee che saranno rapidamente superate da un miglioramento dell’offerta. Rimosse queste cause contingenti, tutto, o quasi tutto, tornerà come prime. Questo è almeno l’esperienza degli anni Ottanta, dopo le prime grandi crisi petrolifere. Più allarmata la seconda: la congiuntura non basta. Bisogna andare al fondo dei problemi. I fenomeni indicati sono la conseguenza delle trasformazioni intervenute nei grandi equilibri geopolitici del Pianeta. Dove tutto è mutato con l’ingresso dei nuovi grandi colossi industriali, quali la Cina e l’India. Queste nuove potenze economiche sono Paesi ad alta intensità di consumo sia per quanto riguarda le materie prime sia il petrolio. Il loro intenso tasso di sviluppo ha migliorato le condizioni alimentari di milioni e milioni di persone. Occorre quindi produrre più grano, riso e soprattutto carne. La produzione mondiale può aumentare, ma questo richiederà tempo e forti investimenti: soprattutto per unire i diversi mercati. L’inflazione indotta da questi grandi cambiamenti non sarà, pertanto, una nuvola passeggera. Difficile dire chi ha ragione. Si vedrà. Ma su un punto concordano entrambi. Attenti a non aumentare i salari, perché la spirale degli anni Settanta è in agguato e potrebbe riattivarsi. E allora? La soluzione è procedere con i piedi di piombo. Aumentare cioè il salario netto in busta paga, per consentire, specie, ai ceti meno abbienti di sbarcare il lunario. Il che può avvenire solo riducendo il peso del prelievo fiscale. Obiettivo possibile, ma a una sola condizione: che si tagli la spesa per evitare problemi di bilancio. Vuoi vedere che, alla fine, destra e sinistra, costrette dalla realtà dei fatti, dovranno converge verso un’unica posizione?
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NordSud libri e riviste
l sociologo Franco Fava e l’imprenditore Riccardo Garosci descrivono la maggiore rivoluzione portata dal boom economico: quella dei consumi. Nel loro viaggio sui gusti e consumi degli italiani degli ultimi 50 anni, raccontano nella prima parte lo sbarco dei prodotti di massa, come la Fiat 500, o i veicoli di commercializzazione innovativi come l’Esselunga a Milano o la Standa di Napoli, che nel 1956 iniziò a vendere alimentari. La seconda parte del libro è dedicata ai pioneri del settore come Giorgio Garosci, quindi si chiude con una luccicante rassegna fotografica di pubblicità e vetrina che hanno accompagnato l’evoluzione dell’adversiting. Un viaggio dai primi grandi magazzini ai moderni e anonimi outlet. Franco Fava/Riccardo Garosci C’era una volta il supermarket… e c’è ancora Sperling & Kupfer pagg. 148, Euro 19
I È necessario agganciare gli aumenti salariali a una maggiore produttività
Lavorare di più, lavorare tutti di Enrico Cisnetto onsiglio non richiesto: signor presidente del Consiglio, eviti di utilizzare come “arma elettorale” il famoso tesoretto – anche perchè in ballo c’è Veltroni, non lei – e più correttamente lo lasci in eredità al suo successore. Se voleva aiutare i salari, poteva pensarci prima, al momento della Finanziaria 2008: invece di disperdere in mille rivoli le risorse che ha speso, avrebbe potuto decidere che quella era la priorità – anche perchè la condizione dei lavoratori dipendenti è sempre quella e l’inflazione da settembre 2007 ha preso a salire – avendo il tempo e la possibilità di chiamare le parti sociali e chiedere loro di modificare il sistema contrattuale in modo da favorire l’aggancio degli aumenti salariali alla produttività.
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Intervenire ora sarebbe sbagliato, non solo perché un’operazione del genere esula dalla ordinaria amministrazione cui il premier dimissionario è confinato, ma anche e soprattutto perché sarebbe soltanto una mossa demagogi-
fare sul serio, il punto su cui bisogna intervenire è quello dell’aumento della produttività, che arranca rispetto ai competitor esteri: secondo l’ultimo rapporto Ocse, la produttività del lavoro in Italia, corretta dalle fluttuazioni congiunturali, è cresciuta a un tasso annuale dell’1,2 per cento tra il 1995 e il 2005, molto meno dei nostri “colleghi” europei. Inoltre il pil pro-capite per lavoratore continua a segnare un trend discendente, e oggi è inferiore a quello del 2000. Questo mentre in Francia Sarkozy ha liquidato come «catastrofica» l’esperienza delle 35 ore e ha già deciso un aumento retributivo del 25 per cento degli straordinari, che servirà a mettere in linea le piccole e medie imprese – dove le ore extra adesso vengono pagate il 10 per cento del normale – con quanto già avviene nelle aziende più grandi. In Austria regole più flessibili consentiranno da quest’anno di lavorare fino a 60 ore la settimana (e 12 al giorno) per otto settimane consecutive. In
Rispetto ai partner europei rallentiamo in termini di ricchezza e tecnologia ca che non servirebbe a rilanciare il Paese, cosa che invece richiede interventi strutturali sul binomio competitività-produttività. Insomma, parliamone dopo le elezioni. Sapendo che se si vorrà
Germania già da tempo si è aumentato il numero delle ore lavorate, facendo passare il working time dalle 35 alle 39-40 ore a seconda dei casi, per ora soltanto nelle grandi aziende. In
Italia, invece, la media di ore lavorate si attesta sulle 1.505, al di sotto delle 1.630 medie della Ue-25. È evidente quindi che non
Anche perché dobbiamo ricordarci – e lo dico anche alla Confindustria, dove albergano ancora molti scettici sugli au-
In Francia si superano le 35 ore, in Germania e Austria saltano i tetti si può pensare a un aumento generalizzato delle retribuzioni senza puntare anche a una forte accelerazione sul pedale delle ore lavorate.“Lavorare di più per lavorare tutti”: se ne serve uno, è questo il nuovo slogan a cui dobbiamo riferirci.
In secondo luogo, serve rilanciare la produttività per singolo lavoratore, grazie a una riforma trasparente delle strutture contrattuali. Occorre quindi superare l’immobilismo autodifensivo dei sindacati e intavolare invece un dibattito serio sul cambiamento della contrattazione: ripensare ai contratti nazionali di categoria e puntare su un’intesa che sia“nazionale”soltanto per la parte normativa, ma declinabile poi azienda per azienda, per arrivare a una vera e propria contrattazione individuale. Soltanto così si potrà rilanciare veramente la produttività, si riequilibreranno anche le differenze di potere d’acquisto da Nord a Sud del Paese, che emergono oggi con tanta chiarezza. Una manovra solo sulle retribuzioni, lo ripeto, sarebbe deleteria.
menti retributivi – che non siamo più, o se si vuole non possiamo più essere, un’economia ad alta intensità di lavoro. Siamo a pieno titolo in un Occidente tech e capital intensive, e nessuno si sogna di competere con Cina e India sul costo del lavoro. Non vorrei dire, come Luciano Lama quarant’anni fa, che le retribuzioni sono «una variabile indipendente», ma quello che è sotto gli occhi di tutti è che i salari sono ormai un fattore non decisivo nella avventura imprenditoriale italiana.
Quindi, caro presidente Prodi, lasci perdere una mossa che servirebbe solo a riconciliarla tardivamente con una parte del Paese che in questi anni ha tirato la corda. Lasci la“patata bollente”a chi verrà dopo di lei, e avrà la mente fresca per studiare un serio rilancio del sistema produttivo. Magari, come in molti auspichiamo, in un’ottica veramente costituente. E con la consapevolezza di voler spostare il Paese da quel pericoloso piano inclinato su cui si trova attualmente collocato. (www.enricocisnetto.it)
in edicola e in libreria il nuovo numero di East, la rivista di economia e geopolitca diretta da Vittorio Borelli. La copertina è dedicata alla chiesa cattolica in Cina, con un’intervista al primate di Santa Romana Chiesa, Joseph Zen Ze-Kiun, per fare il punto sui diritti umani in prospettiva delle prossime Olimpiadi. Fabrizio Saccomanni, il direttore generale della Banca d’Italia, racconta come cambierà la finanza dopo la crisi dei subprime. Interessante outlook sul Kazakhstan, territorio fondamentale per il risiko dell’energia quanto per il futuro dell’Eni.Viaggio in Nepal, infine, per descrivere la vita e le storie degli spaccapietra e ricordare che il mondo è pieno di schiavi. East Baldini e Castoldi Dalai
È
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NordSud La sinistra eviti misure demagogiche capaci solo di aumentare la spesa pubblica
Lasciateci il tesoretto per una vera riforma fiscale
i convegni ROMA giovedì 14 febbraio 2008 Palazzo Rospigliosi Con l’entrata a regime dei nuovi vertici di Telecom, risulta decisivo un tema come “La separazione della rete degli operatori di telecomunicazione fra concorrenza e sviluppo”. Se ne discute in un incontro organizzato dall’Isimm di Enrico Manca con il garante delle comunicazioni, Corrado Calabrò, il commissario dell’Antitrust, Antonio Pilati, il presidente della Fondazione Ugo Bordoni, Maurizio Decina, e l’amministratore delegato di F2i, Vito Gamberale. ROMA giovedì 14 febbraio 2008 Sala giunta di Confindustria A Roma si discute di “Efficienza energetica: benefici per le imprese, un impegno per l’ambiente”. Intervengono, tra gli altri, il vicepresidente Emma Marcegaglia, il commissario dell’Autorità per l’energia e il gas,Tullio Fanelli, i ministri Pier Luigi Bersani, Alfonso Pecoraro Scanio ed Emma Bonino.
di Maurizio Sacconi l nodo dei bassi salari è davvero un vincolo per la crescita economica e per la coesione sociale del Paese. Esso riguarda infatti l’andamento dei consumi, il livello della produttività del lavoro, il grado di condivisione dei valori e delle istituzioni. I bassi salari in Italia sono infatti l’espressione di un inefficiente meccanismo di distribuzione della ricchezza attraverso la contrattazione collettiva, il prelievo fiscale, i servizi pubblici. Occorre quindi agire su tutti questi ambiti per ricreare il circolo virtuoso che genera insieme sviluppo economico e sviluppo sociale.
I
La contrattazione collettiva centralizzata è giustamente sotto accusa perché ancorata all’idea della funzione solidale del salario e così determina il livellamento egualitario dei redditi sulla base di andamenti moderati perché inesorabilmente tarati sui vagoni più lenti del convoglio delle imprese. Solo l’azienda può essere il luogo idoneo per definire salari variabilmente collegati alla modulazione dell’orario, alla produttività, ai risultati. Il che significa spostare il baricentro della contrattazione colletti-
Il baricentro degli accordi deve essere aziendale
Agevolazioni per le variabili dei salari
MILANO venerdì 15 febbraio 2008 Palazzo Mezzanotte Si aprono le celebrazioni per il Bicentenario di Borsa Italiana alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
va nell’azienda offrendo al sindacato, in cambio del ridimensionamento del contratto nazionale, la garanzia di accordi territoriali che agiscono là dove l’impresa non contratta. Ma questi accordi devono a loro volta offrire la cornice entro la quale possano svilupparsi intese individuali funzionali alla reciproca adattabilità tra l’esigenza dell’impresa e del lavoratore. Preliminare a questo diverso modello contrattuale è tuttavia quella significativa riforma del prelievo fiscale sul lavoro dipendente che sottrae ogni elemento variabile del reddito all’iniquo meccanismo della progressività. Straordinari, premi, incentivi, devono essere tassati con un’aliquota agevolata, secca e definitiva – ad esempio del 10 per cento – in modo che questi redditi non si cumulino con gli altri né ai fini dell’aliquota marginale né a quelli delle prestazioni sociali come gli assegni familiari. Soltanto questo tipo di tassazione può davvero liberare la crescita dei salari, motivare il lavoro, incrementare la produttività, cambiando un sistema di relazioni industriali ancora fondato sul conflitto di classe. In questi giorni, per iniziativa di Rifondazione, e condivisa da Walter Veltroni, si ipotizza di spendere un presunto tesoretto generato dalle maggiori entrate
MILANO Venerdì 15 febbraio 2008 Palazzo del Teatro Filodrammatici Mediobanca e Unioncamere fanno il punto sulle “medie imprese industriali italiane”. Al convegno, che sarà aperto dalla presentazione di un’accurata indagine sui bilanci di questa fetta di economia italiana, intervengono Renato Pagliaro, presidente del consiglio di gestione Mediobanca, Andrea Mondello, presidente di Unioncamere, e Fulvio Coltorti dell’ufficio Studi di Piazzetta Cuccia.
attraverso detrazioni generalizzate sulla tassazione dei redditi da lavoro subordinato. È un’iniziativa cinica, perché consapevole di violare le elementari regole dell’attività legislativa di un Parlamento sciolto e perché, nel merito, destinata al dissenso di chi, come noi, promette all’indomani del voto la ben diversa impostazione che ho sommariamente descritto. La sinistra conservatrice non vuole accettare il criterio secondo il quale “meglio lavoro, meglio guadagno”. Si oppone a qualunque attenuazione del criterio della progressività del prelievo fiscale, alla diversificazione meritocratica dei salari, allo sviluppo di relazioni cooperative tra lavoratori e imprenditori.
E va aggiunto l’obiettivo di servizi pubblici e di pubblica utilità meno costosi e più efficienti per accrescere il potere d’acquisto dei salari. Entrano in gioco i temi della modernizzazione delle pubbliche amministrazioni e della liberalizzazione di utilities nazionali e locali. Sono tutte sfide per la prossima legislatura nella quale nessuno dei due schieramenti potrà accampare l’alibi dell’inesperienza e dell’eredità ricevuta.
TORINO Venerdì 15 febbraio 2008 Centro congressi regione Piemonte Si apre nel capoluogo subalpino la conferenza internazionale “Flessibili non precari”, organizzata dal ministero del Lavoro. Sono attesi il ministro Cesare Damiano e l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne.
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Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein
C A M PA G N A
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2008 ❏ semestrale 65,00 euro invece di 127,00 euro
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DELLE IDEE
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economia
L’interno di una centrale nucleare; in basso Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel
A dispetto del referendum del 1987 esistono eccellenze con le quali riprendere la corsa all’atomo
Nucleare, quello che rimane in Italia di un passato glorioso. E da cui ripartire di Strategicus l revival dibattito sul nucleare deve rappresenta per il nostro Paese un’assoluta normalità; non un’anomalia. Fuori dagli ideologismi degli anti-nuclearisti e da un ambientalismo ”del no”ormai quasi del tutto italiano – simili sono solo gli ambientalismi del Sud del mondo – bisogna riconoscere come l’attuale scenario climatico ed energetico mondiale apra con naturalezza al nucleare. Per l’Italia si tratta di un’opzione possibile. Occorre precisare che in Italia, pur essendosi interrotta con il referendum del 1987 la produzione nucleare, il Paese non ha abbandonato questa tecnologia, dal momento che continuano a essere mantenuti in sicurezza quattro centrali e diversi impianti di ricerca e di gestione del combustibile.
I
Alla fine degli anni Sessanta l’Italia era il terzo produttore al mondo di energia elettronucleare, dietro soltanto a Stati Uniti e Gran Bretagna. L’uscita dal nucleare ha prodotto per il nostro Paese e per i contribuenti una perdita drammatica stimabile in circa 120mila miliardi di lire (60 miliardi di euro). A ciò si deve aggiungere l’enorme ricaduta negativa in termini geopolitici e geoeconomici, che
il nucleare destina positivamente a uno Stato in termini di rango e ruolo, di maggiore indipendenza energetica dall’estero, di capacità industriali, di rafforzamento delle ”dotazioni d’ambiente”, di crescita del sistema-Paese o di riduzione dei costi della bolletta elettrica. Non si è saputo capitalizzare la tecnologia nucleare a disposizione, abbandonata con una scelta poco razione e molto emotiva.
Intanto Roma colleziona lettere di richiamo (tre) da Bruxelles per manifeste inadempienze rispetto alla normativa comunitaria sulla gestione dei rifiuti in Campania. Altri richiami arriveranno sul rispetto dei limiti di emissione imposti dalla direttiva Ue sull’energia. Alla base di queste inosservanze l’inazione e la mancanza di volontà politica di adottare le misure necessarie per risolvere la crisi energetica in corso. Ciò ha comportato l’assenza di un piano in questo ambito organico, pragmatico e lungimirante, e una perdita di affidabilità nel panorama internazionale difficilmente colmabile. Non vi è più spazio per le titubanze ”all’italiana”. Serve adottare un processo di decisionmaking politico serio, consape-
L’Enel recupera know how grazie a Endesa e allo shopping in Europa dell’Est. Sogin e Ansaldo si muovono all’estero ed Enea può colmare il gap di ricerca. Ora tocca alla politica vole e conforme alle reali esigenze, in piena sintonia con le nostre capacità industriali e pubbliche e con una cultura di progresso e non di rifiuto. Proprio le capacità industriali rappresentano un primo punto da cui partire per ricostruire il patrimonio di competenze an-
cora presenti e quasi dilapidato con il referendum del 1987. A oggi nel mondo sono in funzione 439 impianti con una capacità installata netta pari a 371.642 GW(e), oltre a 33 impianti in costruzione, 94 in progetto e altri in smantellamento. Insomma, ci potrebbe essere spazio per tutti e fare business. Occorre però che l’Italia si muova in modo sistemico, evitando nefasti approcci individualistici. La filiera industriale italiana è composta da Enel, Sogin, Ansaldo, anche da Enea e da altre società di ottimo livello e cultura d’impresa operative a livello nazionale e internazionale.
L’Enel si sta proponendo come vero e proprio operatore nucleare, grazie all’acquisizione della spagnola Endesa, allo sviluppo di know-how e capacità di ricerca e ai recenti accordi con la Russia, con la francese Edf, e con programmi di costruzione di impianti nucleari in Slovacchia e in Bulgaria. L’attuale quota industriale dell’Enel sugli asset nucleari è circa del 10 per cento.Tale percentuale non era così alta nemmeno nei tempi d’oro degli anni Sessanta e Settanta. Anche Sogin (Società incaricata dal governo del decommis-
sioning degli impianti nucleari italiani) si sta dimostrando un operativo attivo, capace di attrarre partners internazionali francesi, tedeschi, americani e inglesi, oltre a essere attiva nell’Est Europeo e in Russia, tramite il progetto G8 Global Partnership.
Qualora non si avvierà un processo di ricostruzione e di risanamento delle competenze industriali tuttora esistenti in Italia, si produrranno ingenti perdite per tutto il sistema-Paese, non soltanto in termini economici ma soprattutto di posizionamento dell’Italia nel mondo. È un rischio che non può essere corso. Bisogna prenderne atto e trovare soluzioni idonee al più presto. Chiaramente, in caso di ritardi decisionali, quelle che già oggi sono criticità italiane – ovvero il depauperamento delle capacità tecnologiche, industriali e professionali nucleari, un’eccessiva burocratizzazione e carenza di personale – sarebbero allora ancora più ridotte. Partire dal ricongiungimento dello spezzettamento delle competenze industriali nucleari italiane è un primo passo necessario per tenere in piedi l’opzione di un ritorno del nucleare in Italia.
economia
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Il 2008 si è aperto con molte difficoltà per Ca’ de Sass
Generali, Mittel e Zaleski: tutte le sfide di SanIntesa di Giuseppe Failla
MILANO. I prossimi mesi saranno cruciali per Giovanni Bazoli, che sarà impegnato su numerosi fronti, primo fra tutti quello interno e relativo ai turbolenti rapporti con il suo amministratore delegato Corrado Passera. Rapporti resi ancora più complessi dall’intervista che il manager cresciuto alla corte di carlo De Benedetti ha recentemente rilasciato al mondadoriano Panorama, letta come un endorsement (leggero) a Silvio Berlusconi. Milano Finanza correttamente rileva che la quiete che si respira a Trieste è soltanto una calma apparente. L’assemblea di bilancio del prossimo aprile della compagnia triestina sembra lontana, ma le dinamiche per la definizione dei futuri vertici sono già iniziate. La composizione del puzzle è tutt’altro che semplice tanto che nelle ultime settimane è tornata a circolare l’indiscrezione sulla possibile fusione fra Mediobanca e Generali come unica scelta in grado di superare tutte le critiche sul tappeto. Il merger diluirebbe gli azionisti di Mediobanca e farebbe decadere anche l’accusa di controllo eccessivo da parte della merchant bank sulla compagnia assicurativa. Al di là delle ipotesi estreme per Bazoli sta diventando sempre più arduo rafforzare le sue posizioni, e soprattutto i suoi interessi, a Trieste. I conti resi noti la scorsa settimana delle Generali hanno mo-
Il campanello d’allarme è stato il crollo dei risultati della joint venture con il Leone sul Bancassurance strato come Intesa Vita, l’accordo di bancassurance fra le due società, abbia fatto registrare un crollo del 43,1 per cento della nuova produzione di premi vita. Siamo di fronte a una flessione che va ben oltre le limitazioni imposte dall’antitrust per dare il via libera alla fu-
sione fra Banca Intesa e Sanpaolo Imi. E che rende ancora più ardua la difesa a tutti i costi dell’accordo. Nella sua opera di contrasto alle alleanza che va tessendo Cesare Geronzi, Bazoli rischia di perdere un alleato importante come Romain Zaleski. Il finanziere franco polacco e suo socio in Mittel. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche vive un momento abbastanza critico dal punto di vista finanziario, alla luce del deprezzamento delle sue partecipazioni, che in molti casi rappresentano la garanzia dei finanziamenti ricevuti. Anche la famiglia Pesenti, secondo socio più importante della finanziaria bresciana e nel contempo azionista di peso di Mediobanca, vive un momento di appannamento a causa della vicenda Calcestruzzi, con tutte le implicazioni giudiziarie del caso, e della lettera del fondo Hermes. Di conseguenza, perché sotto un fuoco incrociato difficile da respingere, possono assicurare un appoggio limitato. Ma oltre che sulle armi diplomatiche, Giovanni Bazoli può contare anche sul rinnovato spirito battagliero di Mittel, grazie al piano industriale approvato recentemente. La finanziaria ha buone risorse liquide e, pur non essendo un peso massimo, ha un’ottima capacità d’investimento, che potrà risultare comoda, quando saranno da chiudere i dossier più delicati.
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Yahoo! respinge l’offerta di Microsoft L’offerta di acquisto da 44,6 miliardi di dollari presentata da Microsoft,è stata respinta dal consiglio di amministrazione di Yahoo! perché ”sottovaluta in modo consistente” il gruppo. L’azienda ha spiegato in un comunicato di aver esaminato attentamente l’offerta ostile di Microsoft con i propri advisor e di aver ”deciso all’unanimità che la proposta non è nel miglior interesse di Yahoo! e dei nostri azionisti”.
Abbassare costi degli sms all’estero La commissaria europea alla Società e all’informazione,Viviane Reding ha annunciato ieri che la Ue interverrà per abbassare entro luglio i costi degli sms e di internet all’estero. L’occasione è stata l’apertura del congresso mondiale della telefonia mobile (Mobile World Congress, Mwc) di Barcellona.
Gazprom, ultimatum a Kiev Gazprom ha concesso un rinvio di otto ore all’Ucraina per continuare le trattative sul ripianamento del debito accumulato da Kiev per i rifornimenti di metano. Le posizioni sono distanti, sia sull’entità della somma dovuta, 500mila dollari da gennaio, che vanno ad aggiungersi al vecchio debito di un miliardo di dollari, sia sui tempi per il pagamento. Se entro le 18 di oggi ora di Mosca (le 16 italiane) un accordo non verrà raggiunto, il colosso russo chiuderà i rubinetti del suo gas.
Sale il fatturato del gruppo Bollorè Il gruppo Bollorè ha chiuso il 2007 con un fatturato di 6,39 miliardi, in aumento del 7 per cento grazie alle attività di trasporti e logistica. A dati costanti il gruppo dell’industriale e finanziere Vincent Bollorè ha registrato una progressione del 6,3 per cento.
Billè, avvocati ottimisti sull’assoluzione Il proscioglimento di Sergio Billè da parte del del gup Marco Patarnello dall’accusa di appropriazione indebita per quanto riguarda l’uso dei fondi Egap è stata accolta positivamente dagli avvocati Titta Madia e Giuliano Pisapia che assistono l’ex presidente della Confcommercio. ”Il presidente Billè - hanno detto - è stato per mesi screditato dinanzi all’opinione pubblica, siamo all’inizio di un percorso che confidiamo porterà all’assoluzione completa dell’ex leader di Confcommercio”.
Montezemolo: crisi di governo non ferma missioni all’estero delle imprese Il presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo, conferma gli appuntamenti programmati in Messico (26-29 febbraio) e in Egitto (8-10 aprile), che si svolgeranno regolarmente. ”La crisi di governo non ferma le imprese. Confindustria - ha detto Montezemolo ha sostenuto in questi anni, con un impegno senza precedenti, lo sforzo straordinario compiuto dalle imprese italiane per internazionalizzarsi. Continueremo a farlo”.
Della riforma di Bersani, e dei tentativi di introdurre la concorrenza, è rimasto poco. I prezzi al consumatore salgano del 10 per cento
Medicinali,la liberalizzazione frana di fronte agli aumenti dei farmacisti di Giuseppe Latour
ROMA. Crescono le falle nelle lenzuolate volute da Bersani. Chiusa con una sconfitta la battaglia sui medicinali da banco, una delle poche aperture nel settore dei farmaci sta lentamente affondando. Sotto accusa l’articolo 1, comma 801 della Finanziaria 2007, che abolisce a partire del 31 dicembre 2007 il prezzo massimo di riferimento sulle confezioni di Sop e Otc. «Una norma», spiega Fabio Romiti, vicepresidente del Movimento nazionale liberi farmacisti, «nata con l’intento positivo di dare il via alla concorrenza e agli sconti dei farmacisti». Quello che, invece, sta succedendo è esattamente il contrario. Complici le ”convergenze”dei titolari di farmacie e la quasi assenza di concorrenza da parte di parafarmacie e corner dei supermercati, i prezzi stanno salen-
do anzichè scendere. Con aumenti pari a circa il 10 per cento, dovuti solo in parte al gonfiarsi dei costi al produttore. Sempre secondo il Mnlf, la norma della Finanziaria 2007 «viene utilizzata dalle farmacie per mimetizzare sconti irrisori o completamente assenti».Venuto meno il riferimento del prezzo sulla confezione, è più facile gonfiare i prezzi. Federfarma rimanda al mittente le critiche e ricorda che i prezzi sono rimasti bloccati per due anni prima di cominciare a salire. Per il futuro, poi, si cercherà di puntare sugli equivalenti per gravare meno sulle tasche dei consumatori. Al momento, comunque, lo scontro sulla liberalizzazione del mercato dei farmaci è congelato in attesa di un nuovo governo. I risultati della gestione Prodi-Bersani-Turco, pur con qual-
che risultato positivo, hanno lasciato l’amaro in bocca a chi sperava in un’apertura del settore. Del resto, ricorda Romiti, «anche Attali in Francia sta soffrendo soprattutto con taxi e farmacie: quindi si tratta di settori dove naturalmente si creano blocchi». Allora, per riaprire i capitoli rimasti in sospeso si attenderà l’arrivo di un nuovo inquilino a Palazzo Chigi. E, se i suoi programmi non andranno nella direzione di un’ulteriore liberalizzazione, la nuova strategia sarà superare l’Italia e puntare su un’iniziativa che cali da Bruxelles. «Qui il peso della lobby dei farmacisti è più sfumato e, soprattutto, contano molto i produttori». Che vedrebbero di buon occhio un aumento dei giri d’affari generato dalla crescita dei punti vendita.
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cultura
Marcello Pera ricorda a Lucca il fondatore de “Il Mondo” e scatena l’ironia dei corsivisti spiritosi
Il limite di Pannunzio, i limiti di (alcuni) liberali di Pier Mario Fasanotti icordate? Chi voleva in qualche maniera nobilitare le proprie origini si gonfiava d’orgoglio e vanità dicendo d’essere stato “allievo”o “sodale”o addirittura “amico” di Elio Vittorini, Italo Calvino e Mario Pannunzio, tanto per citare gli “idoli”con in tasca il timbro dell’autenticità culturale da usare su facce e coscienze. Un’appropriazione, a volte indebitamente superficiale o magari al confine del dolo, che per fortuna si va essiccando anche o soprattutto per ragioni anagrafiche. In questi giorni si assiste a un cascame di questa corsa all’“io sono stato erede di…” per la ragione che quarant’anni fa moriva Mario Pannunzio (aveva 58 anni), il liberale che detestava la “chiesa rossa” e il clericalismo servile, l’uomo che odiava l’“Italia alle vongole”, il giornalista che si batteva perché la gente pensasse con la propria testa e si inchinasse ai maestri solo a patto che questi fossero testimoni seri e non partigiani e cialtroni. Ieri a Torino si è tenuto un convegno su Mario Pannunzio. E’ intervenuto Marcello Pera, ex presidente del Senato, ex docente di filosofia, co-autore di libri con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, intimamente liberale come lo era Pannunzio con il quale il relatore ha in comune la città natale, Lucca.
ni le radici saldamente liberali di Mario Pannunzio», ha detto Pera, «semmai c’è da capire i limiti di quel pensare laico che rischiò a un certo punto di far sue le vecchie formule anticlericali di stampo risorgimentale, in base alle quali si doveva a ogni costo schierarsi contro la Chiesa, magari dimenticando che la vittoria contro il comunismo, in Italia nel 1948, è stata merito dello schieramento cattolico oltrechè liberale».
R
Se si riflette sulle radici comuni del celebrato e del celebrante, nulla da eccepire. Ma se si fa o se si vuole fare confusione sulla lezione di laicità di Pannunzio e sulle derive laicistiche proprie di rami ideologici apparsi sul medesimo albero politico, allora si può scivolare nella polemichetta da quattro soldi. Quel tipo di controversia che lo stesso Pannunzio avrebbe messo all’indice - magari chiedendo a Mino Maccari di disegnar qualcosa di caustico o a Ennio Flaiano di folgorare con una battuta i malinconici alfieri dello schieramento - refrattario com’era stato per lungo tempo a delimitare col gessetto i terreni della politica e della cultura. In vena di spirito-
L’ex presidente del Senato: «Rischiò di far sue le formule anticlericali di stampo risorgimentale, in base alle quali ci si doveva a ogni costo schierare contro la Chiesa. Dimenticando il suo ruolo nella vittoria contro il comunismo» saggine ideologica (forse la più pericolosa) il responsabile dell’inserto culturale de Il Sole 24 Ore si è chiesto se la presenza di Pera a Torino si debba leggere come «arruolamento di Pannunzio nei teo-con». E si è chiesto anche, tanto per essere pungente, se il solo essere lucchese consenta a Pera (che tra l’altro ebbe il Premio Pannunzio nel 2003) di riflettere sull’eredità liberale del conterraneo. Domande, queste, che sono le più anti-pannunziane. Pera è stato allievo di Karl Popper e proprio per questo non ha mai abdicato a esplorare filosoficamente (e laicamente) temi-cardine della società odierna come il sentimento religioso, il confine tra laici e clericali, la liberaldemocrazia come imperativo etico perché l’avversario sia rispettato e ascoltato. I corsivisti spiritosi certamente ignorano che l’ex presidente
del Senato è già intervenuto al Centro Pannunzio di Torino il 15 maggio 2002, affermando l’importanza di ricordare un uomo proveniente da una città la cui storia si coniuga con «lo spirito di tolleranza, il culto della libertà e dell’indipendenza, l’intransigenza etica». Disse anche che Il Mondo, fondato da Pannunzio nel 1949, «non ebbe mai una dottrina vera e propria, perché volle essere l’opposto delle ideologie e soprattutto delle escatologie… una visione della storia che derivò da Tocqueville, Costant, Croce: dentro c’era la filosofia (e non la religione) della libertà e della democrazia occidentale». Nella foto in alto, Elsa Morante con Mario Pannunzio. Sopra: l’ex presidente del Senato, Marcello Pera.
Marcello Pera a Torino, è partito da queste considerazioni. Per andare oltre. Gli abbiamo parlato prima della sua “lectio”. «Non sono assolutamente da mettere in discussio-
Pera ricorda che Pannunzio scrisse un saggio breve su Tocqueville, «ma a un certo punto si raffreddò, rimase per così dire muto, quando il pensatore francese nel suo viaggio in America si accorse che il liberalismo poteva seriamente traballare se non riconosceva appieno lo spirito religioso che permeava la società del Nuovo Mondo». Pannunzio, con quel suo rifiuto, rischiò d’essere schiacciato dai muri e muretti del laicismo, inteso come pregiudizio verso qualsiasi religione in quanto considerata l’arma più affilata contro la libertà. «A differenza di Tocqueville» ci spiega Pera «Pannunzio non afferrava il legame tra la religione e il liberalismo. E fu per questa ragione che quel gruppo di raffinati intellettuali fu messo un po’ all’angolo dalla storia e non diventò mai movimento di massa». A quei tempi, è vero, si respirava un clima diverso: la Chiesa era intrusiva nella vita politica italiana e manifestava aspetti retrivi dinanzi alle esigenze di dialogo. «Questo non lo si deve dimenticare» dice Pera «Ma è anche vero che la Chiesa di Ratzinger non è più quella, e che è lo stesso Pontefice a invitare i laici a discutere sul tema della laicità. Ecco, a me pare che questa sia un’occasione da non sprecare. Se si ha dinanzi a sé un interlocutore così dialogante e a questi si oppongono le arcaiche formule risorgimentali, allora non si va da nessuna parte. Anzi, con un anticlericalismo che veste gli stessi panni dell’anticristianesimo si torna solo indietro».
spettacolo
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Una scena di Il Falsario. Operazione Bernhard; in basso Adolf Burger con il regista Stefan Ruzowitzky
Stefan Ruzowitzky racconta l’esperienza di Alfred Burger e Solomon Sorowitsch internati in un lager
La Shoah nelle mani di un falsario di Priscilla Del Ninno nella cornice della storia, con le tinte cupe e angoscianti del dramma dell’Olocausto, e sulla tela del racconto anche metaforico intitolato a cinema e falsari, che si anima il ricordo di Adolf Burger, ebreo slovacco autore del libro L’officina del diavolo, da cui il film Il falsario di Ruzowitzky è tratto. E se non è la prima volta che la fabbrica del sogno affronta l’incubo della Shoah, di sicuro meno frequente, ma non inedito, è il recupero della microstoria della falsificazione di sterline e dollari durante la seconda guerra mondiale, mirata a finanziare lo sforzo bellico e, nel contempo, a destabilizzare le economie di Gran Bretagna e Usa. Questa l’ottica nella quale va inquadrata la pellicola di produzione tedesco-austriaca. D’altra parte, non è di oggi lo sforzo revisionista che la Germania sta affrontando, da angolazioni e con esiti diversi, da alcuni anni a questa parte, con titoli di carta e di celluloide: per i primi, basti ricordare il lavorio storiografico di Fest e di Nolte; per i secondi, si può partire dall’ormai lontano UBoot 96 (1981) di Wolfgang Petersen, per arrivare ai più recenti Rosenstrasse della Von Trotta (2003), La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschbiegel (2004), La Rosa bianca-Sophie Scholl di Marc Rothemund e Mein Fuhrer. La veramente vera verità su Adolf Hitler di Dani Levy (2007).
È
Già con il suo La banalità del male, Hannah
Arendt aveva messo a nudo i meccanismi di normalità di cui si era servito l’impero hitleriano per perseguire i suoi disegni; e il micidiale funzionamento di questa macchina totalizzante poteva essere compromesso, dall’interno, soltanto con il coraggio, la fantasia, la capacità di alterare il reale fino alla sfrontatezza. È la lezione che il cinema ha illustrato, ad esempio, con La Grande Fuga o con Schindler’s list. La particolarità del contesto riallestito da Ruzowitzky, però, sta nel riesumare un aneddoto estremamente problematico e ancora poco conosciuto della seconda guerra mondiale, malgrado sia già stato raccontato dallo storico Walter Hagen nel libro
Operazione Bernhard negli anni ’50, e sia stato fonte d’ispirazione cinematografica per Operazione Cicero di Joseph Mankiewicz (1952) e Cresus di Jean Giono (1960); un episodio in qualche modo all’origine anche della singolare rivisitazione del mondo di scassinatori e falsificatori messa in scena nel ’67 da Terence Young con Agli ordini del Fuhrer e al servizio di sua Maestà.
Dunque la vicenda, oggi tornata sotto i riflettori grazie a Ruzowitzky, reale quanto propedeutica alla mistificazione filmica, nel corso degli anni ha prestato forza affabulatoria a ricostruzioni dal taglio sfaccettato, attingendo al capitolo della falsificazione con il linguaggio se-
Con la falsificazione di dollari e sterline il regime tedesco mirava a finanziare l’industria bellica e a destabilizzare l’economia inglese e Usa midocumentario. Questo, ad esempio, è stato l’approccio del film di Mankiewicz, incentrato sulla figura della spia albanese Elyesa Bazna (James Mason), sotto le mentite spoglie di cameriere in servizio presso l’ambasciata britannica di Ankara, solerte nel passare informazioni ai tedeschi, ma ripagato con sterline false. Come in un conte philosophique, la falsificazione del reale – identità o banconote – assume di volta in volta il valore di attività moralmente riprovevole, di gioco morta-
le, di iniziativa ai limiti dell’eroismo, magari venato di ironia. Nel raccontare le vicende, non sono mancati i toni della commedia di costume acuta e intelligente, grazie alle sorprendenti capacità registiche di Giono, che fu soprattutto grande scrittore e che nel citato Cresus diresse Fernandel nelle vesti di un pastore provenzale alle prese con il ritrovamento di un gruzzolo di banconote, volate da un aereo tedesco. Così come non sono mancate chiavi di lettura imperniate sulle ricostruzioni oniriche e sulla grottesca declinazione di personaggi storici quasi in chiave di maschere di una rinnovata Commedia dell’arte: alludiamo in particolare a Train de vie di Radu Mihaileanu (1998), a La vita è bella del nostro Benigni (1997) e a La nina dei tuoi sogni (1998), dove Fernando Trueba falsifica ingegnosamente addirittura il personaggio di Goebbels, riproducendone in chiave minimalista una passione molto normale.
Di passata, si può ricordare che anche la nostra letteratura e il nostro cinema hanno affrontato di recente simili tematiche, ad esempio nel film di Carlo Lizzani Hotel Meina e nella biografia romanzata Hitler di Giuseppe Genna, opere dove lo sguardo gettato sulle tragedie epocali riesce a cogliere gli aspetti di una quotidianità fatta anche di compromessi, di frustrazioni, di piccole cose, che sta alla base anche del film di Rudowitzky. Attraverso questi ed altri precedenti sia letterari che cinematografici, si arriva dunque all’odierno Falsario, nelle nostre sale con corpo realistico e animo etico: come a dire che, tra illusioni e dramma, falsificazioni e verità storica, lo spazio per la riflessione non solo cinefila sul tema è più ampio e attuale che mai…
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Olimpiadi di Pechino, è giusto boicottarle? Sarebbe bene boicottarle, ma forse non servirebbe a nulla Ci risiamo. E’ giusto boicottare le Olimpiadi che si svolgono in un Paese in cui quotidianamente vengono calpestati i più elementari diritti civili? Certo l’occasione è invitante. Ma mi chiedo: serve? Negli anni della guerra fredda ci fu il boicottaggio da parte Usa delle Olimpiadi di Mosca e, se non ricordo male, l’omaggio fu poi restituito. Ebbene non successe nulla. Il muro di Berlino cadde molti anni dopo e certamente non per il boicottaggio Usa. Francamente, è pura ipocrisia, se poi Presidente del Consiglio e vertici di Confindustria in testa, si recano a firmare contratti commerciali senza alcun riferimento ai diritti civili di un popolo oppresso.
Chiara Angeletti - Bari
Basta indignazione, occorreva pensarci prima Oggi che le Olimpiadi cinesi sono alle porte tutto il mondo si indigna, ma forse non bisognava pensarci prima? La violazione dei diritti umani, lo sfruttamento del lavoro minorile, l’eliminazione fisica degli oppositori al regime. Queste sono tutte cose che si sanno da sempre. E quando il comitato olimpico ha dato il via libera a Pechino in Italia solo i ragazzi di Azione giovani Roma sono scesi in piazza con un’occupazione simbolica del Coni.Tutto il resto del mondo politico italiano è rimasto in silenzio. Forse perché in troppi vanno a delocalizzare in Cina. Forse perché a troppi fa comodo poter usare il regime cinese per spendere di meno. Forse perché anche i politici locali come Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio, sono andati ossequiosi a presentare il made in italy a Pechino. Semplicemente vergognoso.
Antonietta Quattrociocche - Pisa
Gli Usa colpevoli come la Cina, bisognava farlo anche per i giochi di Atlanta Le Olimpiadi, simbolo di fratellanza, lealtà e sportività, organizzate in Cina sono una vergogna? Sì. Ma di cosa ci meravigliamo? Esiste uno Stato dove c’è la pena di morte, dove la democrazia interna non eccelle, dove ci sono fortissimi problemi sociali, dove c’è ancora un razzismo latente e soprattutto dove ci sono carceri illegali dove i prigionieri vengono torturati. Quale Stato? Gli Usa. Allora perché nessuno ha mai contestato i giochi di Atlanta?
Giampaolo Conti - Siena
Giusto non parteciparvi, ma i movimenti giovanili dove sono? In agosto prossimo tutti i riflettori del mondo si accenderanno sulle Olimpiadi di Pechino. E sono sicuro sarà un grande successo di immagine per il colosso cinese. Ma è giusto far finta di niente e ripeterci che lo sport, essendo il più grande veicolo unificatore, non deve occuparsi di politica e quindi ignorare il grande problema del rispetto dei diritti civili? Io non lo penso, anzi, proprio perché le Olimpiadi costituiscono un grande palcoscenico, sarebbe opportuno boicottarle, non parteciparvi, farle fallire. Ma i grandi movimenti giovanili, come il popolo di Seattle, dove sono?
Sergio Leccisi - Napoli
La Gran Bretagna ha già vinto la medaglia d’oro per la faccia di bronzo Il Comitato olimpico britannico vieta agli atleti che parteciperanno ai Giochi di Pechino di esprimersi su questioni politiche sensibili come, per esempio, i diritti umani negati. La Gran Bretagna ha già vinto la medaglia d’oro per la faccia di bronzo.
Giancristiano Desiderio
LA DOMANDA DI DOMANI
Per i repubblicani sarà più facile battere Hillary o Obama?
Il centrosinistra ci lascia con un buco di 7 milioni Apertura della campagna elettorale. D’Alema: abbassare immediatamente le tasse, i soldi ci sono (tesoretto).Veltroni: abbassare le tasse, aumentare gli stpendi. Il Sole24Ore: (malgrado loro) hanno lasciato un buco di 7 milioni di euro già impegnati, che però non ci sono. Cordialmente ringrazio.
Alessia Zamorano - Milano
Non bisogna cadere di nuovo nell’odio razziale Sul web è comparsa una lista di proscrizione con i nomi di 162 docenti ebrei dell’ Università “La Sapienza” di Roma. A Torino, il tentativo di ostracismo contro l’invito rivolto a scrittori israeliani alla fiera del libro. Cosa sta succedendo? Parliamo tanto contro l’odio razziale e proprio ci ricadiamo?
Giustino Paoloni - Palermo
La giustizia non è mai davvero “uguale per tutti” Si parla sempre più spesso di malasanità, ma quasi mai di “malagiustizia”. Chi scrive invece è convinto che il male più grave di cui soffra la nostra Italia sia proprio la malamagistratura. Combatterla è una assoluta priorità. Essa è vergognosamente politicizzata, e quindi quale giustizia si può pretendere? Finché le nomine dei magistrati sono in mano ai politici (gran parte dei magistrati della Corte Costituzionale, del Csm ) come possiamo credere che la ”Giustizia è uguale per tutti”? Grazie per l’ospitalità e buon lavoro.
Gennaro Racconigi - Roma
Casini ha già dato prova di autonomia e indipendenza “O Casini ha il coraggio di scegliere la libertà (da Berlusconi) o c’è il rischio che una parte dei suoi elettori scelga la libertà”. Lo ha detto il ricomparso D’Alema in una videochat con l’Unità (da tempo era sparito, forse turbato dal buon Prodi o l’eterno Veltro-
dai circoli liberal
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POSSIAMO ANCORA ESSERE PROTAGONISTI? Siamo partiti come movimento Liberal scommettendo che era possibile tenere insieme laici e cattolici su una visione liberale della società, dell’economia e della politica. Abbiamo individuato i valori di riferimento e costruito una forte presenza culturale nel centrodestra. Per anni abbiamo sollecitato Forza Italia, Alleanza nazionale e Udc perché costruissero un unico contenitore che avesse riferimento il Ppe e che fosse la casa comune dei moderati. Ne abbiamo indicato i confini, i valori, una costituente, e ci apprestavamo a dettarne le regole. Nel frattempo i leader dei partiti, a turno, davano ora la disponibilità, ora si ritraevano quasi impauriti del salto nel buio. A sancire che eravamo nel giusto, la grande manifestazione del 2 Dicembre 2006. Ora dopo le ultime vicende, il momento politico delicato ci invita a profonde riflessioni, rapide analisi e repentine decisioni. Invitiamo al dibattito tutti i presidenti dei vari circoli e all’interno di Liberalazio abbiamo diverse volte affrontato le tematiche relative all’attuale evoluzione politica. E’ no-
stra convinzione che la mancanza di regole, di processi costituenti e scelte ponderate dei quadri, non può giovare al nascente partito “Il popolo delle libertà”; ma esserne estranei e rigettarlo stando a distanza, anzi allontanandoci di più da esso, non aiuta quel processo democratico e trasformatore sul quale crediamo per creare un partito preminente della destra italiana. Non è forse più giusto svolgere un ruolo lottando dall’interno per far sì che nasca con meno errori possibili, ponendoci con forza e spendendo le nostre energie affinché siano modificati i presupposti? Si sa, Silvio Berlusconi non ama troppo il dibattito interno, da animo imprenditoriale lo giudica una perdita di tempo, ma spesso gli atteggiamenti dei piccoli partiti o di dirigenti poco scaltri gli hanno rafforzato questa errata convinzione. Allora sta a tutti coloro che hanno a cuore il“progetto del partito unico della destra”, non così come è stato varato ora, di farsi carico di affermare un processo rinnovatore rispetto agli stessi Forza Italia e Alleanza nazionale. Chi da anni tenta inutilmente di cambiare atteggiamento e regole all’interno proprio dei partiti fondato-
ni). Dare a Casini lezioni di libertà, per chi proviene dal Pci e ha fatto politica seguendo il comunismo e l’ideologia dettata dall’Urss, è veramente singolare. In quest’ultimo periodo, è vero, le parole democrazia e libertà a sinistra ricorrono spesso, si stanno inflazionando: capisco il desiderio di riscatto dal passato, ma dare lezioni a chi è nato, cresciuto e vissuto all’ombra della Dc mi sembra un tantino oltre le righe. Se poi pensiamo che da Presidente della Camera, con il suo partito e con il governo Berlusconi, ha dato ampia prova di autonomia ed indipendenza, riconosciuta da tutti gli onorevoli, la sinistra ci dica anche se vuole dare lezioni, oltre a Casini e al Papa, anche a Dio, e la faremo finita! Mi vien da ridere o da piangere, restare serio mi è impossibile. Grazie per l’attenzione.
L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)
Nuovi volti nel Pdl? Forse solo con le primarie Auspico volti nuovi all’interno delle liste del Pdl. Nella mia città girano sulla stampa i nomi dei “soliti”, io mi auguro invece grandi cambiamenti; con questa legge elettorale non siamo noi a scegliere, pertanto toccherebbe alla vecchia nomenklatura operare i cambiamenti. Difficile però. Forse organizzando primarie.
Vittorio Baccelli - Lucca
ri del nuovo partito del “popolo della libertà”, obietta che ciò è impossibile e capisco anche in questa logica il Presidente Adornato; ma allora si doveva avere il coraggio di scendere in campo con una proposta diversa, e ricordo che noi Fondazione Liberal insieme a Fare Futuro e a Giovane Italia dovevamo dar vita proprio alle regole del nascituro partito. Occasione persa perché il tavolo dei “saggi” è sparito nel nulla in un momento determinante. In verità, dopo la famosa dichiarazione di Berlusconi dal pretellino dell’automobile che annunciava la nascita di un nuovo soggetto politico come contenitore unico del centrodestra, ad una riunione dei presidenti di club suggerii: “ Facciamo noi una proposta delle regole e vediamo come ci rispondono, e in alternativa costituiamo noi il Partito delle libertà”. Se l’avessimo fatto forse avremmo cambiato lo scenario politico. Facciamoci portavoce delle regole e potremo coinvolgere anche l’Udc, riconducendolo in una logica comune nel grande partito del “Popolo delle libertà”. Luciano Caciolo PRESIDENTE CLUB LIBERAL ROMA PROVINCIA
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog ”Io, belliniano come un felis catus” Immaginate un gatto, un comune ”felis catus” aggirantesi fra i gabbioni del giardino zoologico. Egli sa che quelle tigri, che quei leoni regali, che le pantere e i leopardi sono suoi vicini parenti; egli nota la medesima inflessione di coda nella tigre che egli ha tante volte esaminato nello specchio; vede come il leone addenta e maciulla il cosciotto di cavallo nello stesso modo nel quale egli stesso manovra la domestica ala di pollo. Eppure di fronte a simili super-gatti il suo pelo meschinello si rizza sulla debile schiena e questi fratelli e cugini si sono troppo possentemente sviluppati perché egli osi in loro riconoscere il proprio sangue. Così un belliniano (il Mostro) quando introdotto fra questi giganti del Bellinianesimo che siedono nei circoli qui. Postulato: un belliniamo sta ai belliniani inglesi come il vostro gatto sta alla tigre reale. Giuseppe Tomasi di Lampedusa ”Viaggio in Europa, Epistolario 1925-1930”
Ecco le mie cinque priorità di buon governo Rispondo così alla domanda di sabato scorso, ecco le mie cinque priorità del prossimo governo: 1 federalismo fiscale; 2 - riduzione della pressione fiscale attraverso l’applicazione della Flex tAx; 3 liberalizzazione del mercato del lavoro; 4 - tagli veri agli sprechi statali e forte limitazione dei poteri di stato nelle faccende economiche; 5 - introduzione della previdenza pensioni sul modello di Luis Pinera. E, se possibile, introdurrei anche la responsabilità patrimoniale dei pubblici amministratori.
Alberto Moioli
Prima o poi Veltroni dirà qualcosa di originale? L’Obama italiano invece del ”Yes we can”spinge lo slogan ”dai che j’ a famo”: è tutto dire di come sia ridotta a sinistra la politica italiana. Pensare che il personaggio era vecchio già nella prima Repubblica, ancor prima della gioiosa macchina da guerra elettorale di Occhetto. Nel 1976, a ventun’anni, fu eletto consigliere comunale di Roma nelle liste proprio del Pci, mantenendo questa carica fino al 1981. Nel 1987
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
divenne per la prima volta deputato nazionale. Un anno dopo entrò nel comitato centrale del Partito Comunista Italiano. Questo è il nuovo che avanza! Con un’anzianità in politica di ben 17 anni superiore a Berlusconi, entrato in campo nel 1993, dovremmo berla tutta d’un fiato questa panzana? In una passata campagna politica (congresso della Quercia) Veltroni aveva come slogan ”I care”, il motto di Don Milani, oggi ”we can”: qualcosa originale di suo un giorno lo dirà, ma meglio controllare che non sia stato detto già da un’altra sua icona, J F Kennedy! Per uno di sinistra che s’ispira alla chiesa e agli Usa, non c’è male!
Paolino Di Licheppo - (Te)
“
I signori della politica in un’Italia piccola piccola In Italia si respira un clima di impotenza che passa dalla necessità di poter mangiare e mantenere o farsi una famiglia, a quella di vivere insicuri in mezzo a una criminalità dilagante. In Italia sono entrati in molti senza controlli, e i pochi stranieri onesti hanno paura di pagare per quelli disonesti. Gli italiani che non hanno casa e che vorrebbero il diritto di abitare in una casa comunale sono baipassati dagli extracomunitari che ormai si fanno strada prepotentemente abusando di una democrazia e civiltà di sinistra, e di leggi che fanno ridere e rendono inefficienti i tutori dell’ordine. Pensionati che non hanno da vivere, vedove che, decurtata la pensione del coniuge del 40 per cento, non possono che ringraziare l’aggiunta di uno stato fiscale e di servizi onerosi diventati tali per posti di favore. Lavoratori che per trovare impiego vanno a lavorare all’estero. Laureati che fuggono e altri che restano solo perché raccomandati dai signori della politica. Giustizia insabbiata e cause in alto mare. In tutta questa indecenza, gli uomini della politica vanno in cerca di poltrone e lo hanno fatto vedere apertamente. Loro sono indignati della pessima civiltà che gli italiani dimostrano nei loro confronti. Ma perché i nostri ”cari governanti” non danno il buon esempio e abbassano i loro lauti stipendi a quello di un normale, piccolo dirigente di fabbrica, visto che hanno fatto dell’Italia una fabbrica piccola piccola?
Lettera anonima
La vera felicità costa poco; se è cara, non è di buona qualità. CHATEAUBRIAND
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
”
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il meglio di I LIBERALI E IL PDL Il Centrodestra sta cambiando faccia, con una certa velocità. Se prima la trasformazione di Forza Italia in Popolo delle Libertà poteva da qualcuno essere salutata come semplice operazione di marketing, ora l’annunciata fusione di Alleanza Nazionale con la nuova creatura politica di Berlusconi non può essere sottovalutata. Politicamente l’operazione non è banale. Mancano ancora i dettagli, ma e’ chiaro che da una parte e dall’altra ci saranno compromessi politici non indifferenti. Berlusconi entrò in politica nel 1994 con una piattaforma dichiaratamente liberale e fortemente anti-statalista. (…) La dote politica di An parla invece di un partito per molti versi ben ancorato ad uno statalismo protezionista, amico della mano che sfama il dipendente statale senza rendere conto di nulla. (…) Un’alleanza è una cosa, mentre una fusione richiede un’identità di valori e di strategie politiche. (…) Il rischio di vedere diluito il messaggio anti-statalista è forte. Ai liberali italiani restano essenzialmente due strade, a mio modo di vedere. Una sarebbe quella di uscire compatti dall’abbraccio An-PdL e di dare voce indipendente al puro messaggio liberale, inteso come libertario e liberista. Un’altra sarebbe quella di lottare dall’interno del nuovo PdL per aumentare il peso di queste idee. E’ gia’ chiaro che la via seguita da liberali d.o.c. quali Martino o Capezzone sarà la seconda da me indicata. Aderire al PdL e cercare di tenere alta la bandiera antistatalista in un ambiente dove le spinte in direzioni diver-
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se non mancheranno. Ci sarà da lottare, da tenere gli occhi aperti. Non vorremmo risvegliarci con un governo di centrodestra per il quale la rivoluzione liberale non sia più una priorità.
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SI PUO’ FARE... Certo che con l’inglese a centrosinistra sono proprio sfortunati. Prima ci si mette Rutelli con il suo “visit Italy, please”, ora Veltroni con la pedestre traduzione dello “yes, we can” obamiano, che – nell’inglese dei Parioli – diventa “si può fare”. E qui la maledizione si compie, perché “il nostro”, non solo copia una delle frasi più celebri di Frankestein junior, ma ne interpreta appieno la ratio. Legge infatti Gene Wilder (Victor Frankenstein), sul diario delle folli sperimentazioni del lontano avo: “…io sono divenuto capace di animare nuovamente la materia inanimata, si può fare!” Diciamoci la verità: non è un caso. Il mitico Uòlter è il pantocrate del centrosinistra, eletto leader per trasformare due corpi ideologicamente morti (…); egli come Cristo ha urlato “alzati e cammina” al cadavere, e questi ha preso forma di un nuovo partito. Uno scivolone cinematografico figlio dell’ansia sinistra di appropriarsi di tutto e di tutti (il “Pantheon”), di mettere insieme preti degli anni Cinquanta, i Kennedy, Jovanotti, l’avvocato nero e tutta la corte dei miracoli: che dire, assieme a don Milani, ora ci sono pure Gene Wilder e Marty Feldman, almeno si ride.
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PAGINAVENTIQUATTRO Dino Zoff giudica l’ultima malattia: non giudicare la partita ma solo l’arbitro
IL CALCIO non era Moggi l’unica anomalia di Cristiano Bucchi
ROMA. «Il problema è che siamo un popolo polemico e quindi andiamo sempre a vedere le ragioni che hanno spinto l’arbitro a concedere un calcio di rigore o un goal in fuorigioco, dimenticando così quello che è stato fatto in campo dai giocatori al di là del singolo episodio». Per tutti i tifosi di calcio Dino Zoff è stato sicuramente uno dei più forti portieri del mondo e a detta di molti il migliore in assoluto. Per sei volte campione d’Italia con la Juventus, campione del mondo in Spagna nel 1982 e poi allenatore e dirigente. Lo raggiungo in un bar vicino casa nella zona nord di Roma a due passi da Corso Francia. Racconta che segue sempre con grande attenzione il campionato, anche se nei momenti liberi preferisce dedicarsi al golf. Non ha particolare nostalgia ma ci confida che tornerebbe volentieri ad allenare magari un grande club. Lei è stato una delle bandiere del nostro campionato. Si riconosce ancora in questo gioco? Il calcio più o meno è sempre lo stesso. Non vedo particolari differenze rispetto a quando giocavo io. È fuori dal campo che le cose sono veramente cambiate. Il fatto che il calcio sia sviscerato nei minimi particolari non aiuta nessuno, tantomeno i giovani. In campo invece c’è un’esasperazione di furbizia che va combattuta anche perché non aiuta nessuno. A questo proposito invito allenatori e dirigenti a fare tutto il possibile. La nomina di Antonio Matarrese alla guida della Federcalcio l’ha sorpresa? Non credo che il problema sia Matarrese. La Lega è un associazione di club e mette al vertice chi vuole, non vedo lo scandalo. Lei ha giocato per tanti anni assieme a Roberto Bettega, conosce bene Luciano Moggi. Si aspettava qualcosa di più dal dopo calciopoli? No, conosco troppo bene il campionato italiano per aspettarmi dei cambiamenti. Per quello che riguarda calciopoli preferisco non commentare anche perché c’è un processo in corso ma non credo che sia Luciano Moggi l’anomalia del nostro calcio. Il problema riguarda tutti quelli che fanno parte del sistema: arbitri, dirigenti, calciatori. I tifosi poi non accettano quasi mai la sconfitta e con loro spesso anche i presidenti. Tutti accusano gli arbitri di malafede e inesperienza senza sapere che quello è un mestiere veramente difficile. È l’esasperazione dei mezzi mediatici a rendere tutto più difficile. Ogni domenica assistiamo allo spettacolo delle telecamere in campo che sicuramente non aiutano il lavoro dei direttori di gara. La moviola in campo potrebbe essere una risposta al problema? Noi siamo un popolo che cerca sempre la polemica e quindi troveremmo da ridire anche su questo. Certo si potrebbe pensare di introdurre la moviola per alcuni episodi come nel basket ma non credo che questo basterebbe. Il problema è che siamo eccessivamente polemici e quindi ci aggrappiano sempre al singolo episodio senza vedere la partita nel suo insieme.
L’introduzione del terzo tempo nel calcio non sembra aver avuto particolare successo? Sulla carta è sempre tutto molto bello. Se però uno si butta giù per terra e mi ruba un rigore perché a fine partita gli dovrei dare la mano? Cerchiamo di bonificare il comportamento prima e poi è di conseguenza che si arriva al fair play e quindi a darsi la mano come nel rugby. Negli anni in cui lei giocava l’appuntamento con i gol era la domenica con 90° minuto. Oggi assistiamo ad un vero e proprio show del calcio. Sicuramente oggi i tifosi hanno la possibilità di informarsi meglio rispetto a quello che accade dentro e fuori dal campo. Non so però se questo sia di aiuto aùl calcio. Se penso a quello che succede la domenica sui campi mi rendo conto che insistere troppo sui singoli episodi non fa che inasprire gli animi e alla fine quello che va in onda è un dibattito sterile sulle polemiche. È per questo che da noi gli stadi si sono svuotati? Io credo che i tifosi ci sono, sono le tv che hanno porta-
Il problema riguarda tutti quelli che fanno parte del sistema: direttori di gara, dirigenti, calciatori. I tifosi poi non accettano quasi mai la sconfitta e con loro spesso anche i presidenti to via tanta gente dagli stadi. Seguire la squadra in casa e in trasferta è sicuramente molto divertente ma se si può guardare la partita comodamente seduti su un divano evitando di trovarsi in mezzo agli incidenti è meglio. Poi c’è un problema legato ai prezzi che in Italia non sono più così convenienti. Fra coppe e campionato non è un sacrificio da poco. Torniamo agli anni della sua Juventus. I presidenti allora si chiamavano Gianni Agnelli, Paolo Mantovani, Dino Viola. È innegabile che un impoverimento ci sia stato. È d’accordo? Anche oggi ci sono personaggi di indiscutibile spessore. Certamente quando io giocavo c’era più goliardia ma i cambiamenti sono anche frutto dei tempi. Un tempo ad esempio quando vincevamo uno scudetto facevamo una festa la sera e poi andavamo tutti a dormire. Adesso si fa il giro della città su un pullman scoperto e si versa spumante sulla testa dei tifosi e la cosa va avanti per diversi giorni. Abbiamo detto che molto spesso il calcio italiano è protagonista di brutti episodi eppure di recente Fabio Capello è stato chiamato sulla panchina dell’Inghilterra per rieducare i giocatori d’oltre manica. Sorpreso? Non parlerei di rieducazione. Capello è stato chiamato
per riportare la nazionale ai livelli che le spettano. È sicuramente tra i più bravi a gestire i grandi campioni. Non parlerei d’altro anche perché il comportamento degli inglesi sul campo è sempre stato straordinario. Si fa fatica a trovare Dino Zoff in televisione. Ma se le dovesse arrivare una proposta interessante tornerebbe ad allenare? Dipende sempre dall’offerta che arriva. Certo la valuterei con attenzione anche se preferisco lasciare il posto ai giovani.